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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di Laurea in Scienze Filosofiche Una metafisica alla prova: la teoria dei tropi applicata alla teoria degli insiemi Tesi di Laurea di: Costanza BREVINI Matr. N. 773093 Relatore: Chiar.mo Prof. Paolo VALORE Anno Accademico 2010/2011

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di Laurea in Scienze Filosofiche

Una metafisica alla prova: la

teoria dei tropi applicata alla

teoria degli insiemi

Tesi di Laurea di:

Costanza BREVINI Matr. N. 773093

Relatore: Chiar.mo Prof. Paolo VALORE

Anno Accademico 2010/2011

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Tesi di Laurea di Costanza Brevini

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INDICE

OSSERVAZIONI PRELIMINARI………………………...5

Capitolo primo: LA TEORIA DEI TROPI

1. Cos’è la teoria dei tropi ……………………………………15

2. Principali caratteristiche di un'ontologia dei tropi…………18

3. Il divenire nella teoria dei tropi: cambiamento, eventi,

cause…………………………………………………………………29

4. Possibili obiezioni alla teoria dei tropi: eventuali soluzioni e

questioni ancora aperte......…………………………………….…….32

5. Tirando le somme: costi e vantaggi della teoria dei

tropi………………………………………………………………….39

Capitolo secondo: LA TEORIA DEI TROPI COME

ONTOLOGIA DEGLI ENTI MATEMATICI

1. Ontologie degli enti matematici……………………………42

2. Che cosa sono gli enti matematici………………………….47

3. Proprietà e relazioni degli enti matematici…………………51

Capitolo terzo: LA TEORIA DEGLI INSIEMI

1. La teoria ingenua di Cantor………………………………...57

2. I paradossi della teoria degli insiemi……………………….61

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3. Le teorie assiomatiche degli insiemi……………………….67

4. La teoria dei tipi……………………………………………83

5. La teoria predicativista di Weyl……………………………87

6. Per un bilancio della teoria degli insiemi…………………..90

Capitolo quarto: I FASCI DI TROPI COME INSIEMI DI

ELEMENTI

1. Le proprietà sono gli elementi costitutivi dell’essere: elementi

e tropi………………………………………………………………...92

2. Il problema dell’insieme vuoto…………………………….99

3. Quattro possibili soluzioni………………………………..101

4. Gli insiemi vuoti di tropi………………………………….108

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE…………...……………...114

RINGRAZIAMENTI…………..………………………………117

BIBLIOGRAFIA………………………………………………..118

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«La verità è una cosa troppo complicata perché permetta qualcosa di differente dalle approssimazioni»

JOHN VON NEUMANN

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OSSERVAZIONI PRELIMINARI

Questo lavoro si propone di mettere alla prova un tipo di

metafisica, che ha conosciuto una fortuna piuttosto recente: la teoria

dei tropi. A tal fine è opportuno fissare alcune fondamentali questioni

terminologiche. L’ontologia è quella parte della filosofia che mira a

isolare e a categorizzare gli elementi ultimi dell’essere. Ciò non

significa semplicemente risalire nella classificazione di tutto ciò che

c’è fino a raggiungere gli enti non ulteriormente divisibili. Vuol dire

anche assicurarsi che questi individui, oltre a essere ultimi, siano in

grado di descrivere esaustivamente l’intera pluralità dell’essere.

Definiamo invece metafisica la disciplina che classifica gli enti

ultimi, assegnando ciascuno a uno dei tipi ammessi da ogni diversa

teoria1. Ecco perché sono molteplici le metafisiche che si sono

avvicendate nel corso della storia della filosofia. Per un lungo periodo

i pensatori hanno costruito le loro teorie sulla solida base della

distinzione ontologica tra individui e proprietà. Questo tipo di

metafisica fonda l’essere su un sostrato materiale piuttosto misterioso,

al quale si appoggiano le proprietà. Esse hanno la funzione di

informare il sostrato, creando in tal modo l’illusione della molteplicità

dell’essere: un velo variegato che si adagia però su una materialità

omogenea.

1 Questa concezione del rapporto tra metafisica e ontologia è presente in letteratura, in particolare si veda VALORE, PAOLO, L’inventario del mondo. Guida allo studio

dell’ontologia, Utet, Torino 2008.

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Le singole proprietà che sono possedute dagli enti concreti si

radunano per somiglianza a formare gli universali. Gli universali

possono essere ante rem, godere quindi di una realtà precedente le

cose individuali; in re, quelli che cioè sono nelle cose stesse; o post

rem, in altre parole derivanti dagli oggetti materiali successivamente,

tramite un processo astrattivo di tipo conoscitivo. Da questa analisi

derivano principalmente tre teorie degli universali, quindi tre

metafisiche differenti. La prima è la metafisica realista, che assicura

l’esistenza degli universali indipendentemente dalla mente che li

pensa. Essa inoltre garantisce a questi un solido statuto ontologico. La

seconda metafisica è chiamata concettualismo. Gli universali secondo

questa prospettiva sono categorie della mente e sono generati

dall’attività conoscitiva e categorizzante della realtà. Per quanto più

debole del realismo, il concettualismo quindi garantisce un qualche

tipo di realtà agli universali. Infine, il nominalismo nega

assolutamente ogni esistenza agli universali: essi sono convenzioni,

flatus vocis, semplici nomi. Non vi è dunque per gli universali nessun

tipo di impegno ontologico. Quest’ultima prospettiva è stata

recuperata recentemente ed è stata difesa in modi nuovi, in particolare

dagli esponenti della filosofia analitica. Bertrand Russell, Donald Cary

Williams, David Lewis e Donald Davidson, ma anche David Malet

Armstrong, Peter Strawson e George Frederik Stout, sono gli iniziatori

di alcuni tra gli spunti più originali della filosofia del XX secolo.

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Gli stimoli che hanno portato alla rinnovata attenzione dei filosofi

nei confronti della metafisica sono numerosi. Si possono rintracciare

in particolare nel tentativo di trovare una risposta al problema dei

fondamenti posto dalla matematica, alle domande che provenivano

dagli studi di filosofia analitica circa i fondamenti dell’essere, nelle

questioni relative la validità del linguaggio e, conseguentemente, della

logica. Inoltre, l’indagine filosofica ha evidenziato i limiti della

metafisica che prevede individui e proprietà. È proprio attraverso i

tentativi di superamento di questi limiti che hanno visto la luce nuove

e originali teorie metafisiche.

Una delle prospettive moderne che ha goduto di maggior fortuna è

quella nota col nome di tridimensionalismo2. Questa filosofia nasce

come risposta alle difficoltà che si trova ad affrontare ogni metafisica

impegnata a spiegare il fenomeno del cambiamento. Gli ostacoli da

superare sono ancora maggiori per sistemi che prevedono individui, da

una parte, e attributi, dall’altra. Se infatti un oggetto concreto è

costituito dalle sue proprietà e da un sostrato che le regge, allora nel

momento in cui una di queste proprietà è persa o sostituita, sembra

che si assista alla creazione di un nuovo oggetto. Il tridimensionalismo

dunque colloca i suoi enti in uno spazio tridimensionale immerso nel

2 La bibliografia sul tridimensionalismo comprende STRAWSON, PETER FREDERIK,

Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Feltrinelli- Bocca, Milano 1978;

WIGGINS, DAVID, Sul trovarsi nello stesso luogo allo stesso tempo, in Metafisica.

Classici contemporanei, a cura di Achille Varzi, Laterza, Roma-Bari 2008;

ARMSTRONG, DAVID MALET, Universals. An Opinionated Introduction, Westview,

Boulder 1989.

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continuum temporale. Il tridimensionalismo tradizionalmente riesce a

garantire l’identità nel tempo di oggetti concreti in mutamento grazie

all’introduzione del concetto di tipo. Il tipo di un oggetto indica che

cos’è quell’oggetto, mentre le proprietà si limitano a indicare com’è

fatto o come viene percepito. Gli oggetti concreti sono quindi

esaustivamente costituiti dalle proprietà di cui godono e dal tipo cui

appartengono. Inoltre, sono estesi tridimensionalmente nello spazio e

sono in grado di mantenere identità nel tempo grazie al conservarsi del

tipo nonostante il mutamento delle proprietà.

Un particolare esempio di tridimensionalismo è costituito dalla

teoria dei tropi. Tale teoria assume sempre oggetti tridimensionali

calati nel flusso temporale, ma riesce a rinunciare sia al sostrato

materiale, sia alla nozione di tipo. Sono proprio questi due concetti a

costituire i punti deboli delle teorie tridimensionaliste, perché

entrambi, se sottoposti a un’attenta analisi, si rivelano piuttosto oscuri

e problematici. La caratteristica principale della teoria dei tropi, come

si vedrà nello specifico più avanti, è che le proprietà non vengono

considerate esemplificazioni di entità universali. Esse stesse sono

entità particolari ma sempre astratte, come gli universali. Si

presentano comunque alcune difficoltà relative sempre al mutamento,

che fanno del tridimensionalismo una teoria non del tutto

soddisfacente. In particolare, è di cocente importanza la questione

della persistenza nel tempo delle entità concrete, definite come

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«continuanti». I teorici del sequenzialismo3, un altro tipo di filosofia

tridimensionalista, hanno tentato una strada alternativa, definendo gli

oggetti concreti come «persistenti». Essi sono cioè enti momentanei

che si susseguono incessantemente, dando l’impressione della

continuità. A ben vedere invece, ogni cambiamento provoca la

distruzione di un oggetto materiale e la creazione di un altro oggetto.

Purtroppo, anche in questo caso non ci si può ritenere completamente

soddisfatti. Assegnare a enti concreti, soprattutto se persone o

comunque esseri viventi4, uno statuto ontologico così fragile è

decisamente controverso. Poi, il continuo processo di distruzione e

creazione al quale vengono sottoposte le entità genera molti sospetti.

In ultimo, sembra che il sequenzialismo non spieghi veramente il

cambiamento, in quanto non affronta davvero ciò che succede a un

oggetto quando questo subisce un cambiamento. Sembra infatti che

esso preveda invece la creazione di un numero altissimo di

controparti, che hanno sicuramente qualche tipo di relazione con

l’oggetto che soggiace al cambiamento, ma non sembra che intreccino

con esso una relazione di identità.

In risposta alle difficoltà del sequenzialismo e del

tridimensionalismo in genere, si è provato a identificare un oggetto

materiale con il contenuto di una porzione di spazio-tempo. La

3 SIDER, THEODORE Il mondo è uno stadio, in Metafisica. Classici contemporanei a

cura di Achille Varzi, Laterza, Roma-Bari 2008.

4 LOWE, JONATHAN The possibility of Metaphysics: Substance, Identity and Time,

Clarendon, Oxford 1998.

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prospettiva che ha tentato questa soluzione prende il nome di

quadridimensionalismo5. La caratteristica fondante di questa dottrina è

di assegnare all’estensione nel tempo le stesse caratteristica assegnate

all’estensione nello spazio: anche il tempo è quindi annoverato tra le

dimensioni, come suggerisce il nome della teoria. Gli oggetti materiali

sono dunque occorrenti, nel senso che avvengono nel tempo, ma non

vi si protraggono, come invece facevano gli enti continuanti del

tridimensionalismo. Il cambiamento nel senso quadridimensionalista

dunque si spiega facendo ricorso al concetto di parte temporale. Nella

prospettiva quadridimensionali sta infatti, un oggetto che subisce un

mutamento si divide nelle sue parti temporali, porzioni di materia

assegnate a uno specifico momento. In questo modo, un oggetto che si

modifica è in grado di conservare identità, perché rimane

sostanzialmente lo stesso, ma appare diversamente a seconda della

parte temporali che si decide di prendere in esame.

Si può ora arrivare alla questione principale che mi ha spinto a

intraprendere questo lavoro. La metafisica è una disciplina preliminare

non solo a ogni indagine filosofica, ma anche a ogni indagine

scientifica. Preliminare non va qui inteso come superiore per

importanza. Piuttosto, si consideri come propedeutico. Infatti,

qualunque indagine sul mondo che pretenda di essere coerente,

dall’etica alla sociologia, dalla matematica all’arte, si trova

necessariamente a dover assumere un iniziale impegno ontologico sui

5 SIDER, THEODORE, Four-dimensionalism. An Ontology of Persistence and Time,

Oxford University Press, Oxford 2001.

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tipi di enti che sceglie di includere all’interno della teoria. Ora, poiché

il sistema metafisico che contrappone la sostanza alle proprietà ha

permeato a lungo tutti i campi del sapere, con maggiore o minore

consapevolezza da parte degli scienziati, necessariamente molti degli

strumenti e dei paradigmi culturali e sociali di cui ci serviamo si

fondano su questo modello metafisico. L’analisi filosofica del secolo

scorso ha però, come anticipato, rivelato i limiti del sistema metafisico

tradizionale e proposto modelli più coerenti e completi. Soprattutto,

ciò che alcuni dei più recenti modelli metafisici offrono in più è

un’elegante traduzione del paradigma fisico contemporaneo. Non è

necessario sottolineare quanto sia importante per una teoria metafisica

offrire una buona resa della teoria fisica che le è contemporanea. Cosa

dire però della traduzione degli altri paradigmi e strumenti di cui la

nostra società si serve quotidianamente? È possibile abitare in un

mondo popolato da enti creati fondamentalmente basandosi sull’idea

di una sostanza materiale informata da proprietà che esemplificano

enti universali, rifiutando però questa metafisica e adottandone

un’altra? Infatti, per quanto una metafisica possa esporsi a limiti e

contraddizioni, è evidente che se essa si rivelasse l’unica metafisica

che permette di avvalersi dei nostri modelli matematici e scientifici,

allora difetti e incoerenza si mostrerebbero sotto un altro aspetto. Si

rivelerebbero cioè niente più che un male necessario allo scopo di

continuare a usufruire degli strumenti e dei paradigmi di cui fino ad

oggi si è servita l’impresa conoscitiva.

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Ritengo dunque che sia necessario superare la valutazione formale

e squisitamente filosofica delle nuove teorie metafisiche, per provare

la loro efficacia nel supporto ontologico e nell’applicazione di quei

metodi conoscitivi di cui tradizionalmente si servono il filosofo e lo

scienziato.

In questo lavoro ho scelto di mettere alla prova in particolare la

teoria dei tropi e verificare se sia possibile utilizzare uno strumento

matematico, ma soprattutto concettuale, che vanta grande applicabilità

e impatto: la teoria degli insiemi. Ho scelto nello specifico questa

teoria matematica perché ritengo che sia forse quella che più si presta

a questo compito. Le ragioni che rendono la teoria degli insiemi la più

adatta, tra tutte le teorie matematiche, sono diverse. Innanzitutto,

benché vi siano a oggi punti non cristallini, la teoria può godere di una

generale solidità. Inoltre, la teoria degli insiemi è un modello che ha

saputo rappresentare buona parte dei concetti della matematica e che

senza dubbio offre una base di partenza privilegiata per l’analisi della

matematica in generale. Se si riuscisse quindi a dimostrare che la

teoria degli insiemi è compatibile con un’ontologia dei tropi, si

potrebbe ampliare il risultato a tutta la matematica. Infine, la teoria

degli insiemi si costruisce tradizionalmente proprio sugli universali.

Di conseguenza, formulare una versione della teoria degli insiemi

basata sui tropi costituisce una vera sfida. Si tratta infatti di provare se

è possibile creare insiemi con una teoria metafisica che non prevede

universali come costituenti di base, ma solo enti universali costruiti

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per composizione. Gli universali nella teoria dei tropi possono quindi

essere costruiti, ma solo a partire dagli elementi di base che

l’ontologia dà a disposizione. Questi elementi sono proprio i tropi. È

importante ricordare che anche proprietà come «non appartenere a se

stessi» o «senza parti proprie» generano universali.

Mi accingo quindi, nel primo capitolo di questo lavoro, a

presentare la teoria dei tropi, ponendo l’accento su cosa comporti

adottare un’ontologia di questo tipo, che tipo di enti siano gli individui

ultimi previsti dalla teoria, quali proprietà possiedano e che tipo di

relazioni intreccino tra di loro. In seguito, intendo esporre le strategie

di cui i teorici dei tropi si sono serviti per fornire una spiegazione di

fenomeni come gli eventi, le cause e il divenire. Sarà utile infine

riportare le tradizionali obiezioni alla teoria dei tropi e le soluzioni che

la letteratura ha saputo fornire, tratteggiando brevemente il dibattito

scientifico a cui si è assistito negli ultimi anni.

Il secondo capitolo tratterà argomenti più squisitamente

matematici, allo scopo di tentare una filosofia della matematica,

ricorrendo però a una metafisica dei tropi. Prima di chiedersi cosa sia

un insieme infatti risulta necessario rispondere alla domanda riguardo

l’essenza di un numero, delle sue proprietà e del tipo di relazione che

può instaurarsi tra più numeri.

Il terzo capitolo sarà invece dedicato all’esposizione della teoria

degli insiemi e della sua genesi storica e ideologica. Si tratterà di

argomenti che appartengono decisamente al campo della logica

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matematica, la cui esposizione risulta necessaria per arrivare a

comprendere il lavoro svolto sui tropi. Ampio spazio verrà poi

dedicato all’esposizione delle ontologie finora proposte per la teoria

degli insiemi e alle loro implicazioni.

Una volta poste tali premesse, sarà possibile entrare finalmente nel

vivo della questione con il capitolo quarto. In questo capitolo infatti si

tenterà di creare insiemi di tropi coerenti e in possesso di tutte le

proprietà di cui godono gli insiemi tradizionali.

Infine, intendo analizzare quali conseguenze metafisiche per la

teoria dei tropi derivino dalle contraddizioni matematiche della teoria

degli insiemi e, viceversa, le conseguenze sulla teoria degli insiemi dei

difetti e dei limiti della teoria dei tropi.

In conclusione, voglio sottolineare che, se non si rivelasse possibile

servirsi della teoria degli insiemi adottando una metafisica dei tropi,

allora chiaramente la teoria dei tropi risulterebbe indebolita,

soprattutto per quanto riguarda l’indagine degli enti matematici. Un

tale risultato però non confuterebbe in toto la validità della teoria dei

tropi, per quanto indubbiamente ne limiterebbe il raggio d’azione.

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CAPITOLO PRIMO

LA TEORIA DEI TROPI

1. GENESI E FORMULAZIONE DELLA TEORIA

DEI TROPI

La teoria dei tropi ha assistito alla sua formulazione sistematica a

partire dalla seconda metà del secolo scorso. Tra i principali filosofi

che si occuparono di questo tipo di metafisica, il più famoso e

influente fu certamente Donald Cary Williams, professore e direttore

del dipartimento di Filosofia di Harvard. Si deve alla sua penna quello

che può essere considerato il manifesto del nominalismo dei tropi, il

saggio On the Elements of Being6, pubblicato nel 1953. È in questo

testo che compare per la prima volta il termine tropo con il significato

di «occorrenza di un’essenza». La scelta del termine da parte di

Donald Williams è ancora oggi controversa, poiché la parola «tropo»

possiede già un gran numero di significati, che spaziano dalla retorica,

alla botanica, alla musica. Per questa ragione, numerosi studiosi

preferiscono riferirsi ai tropi con il termine qualiton, per tropi a un

posto, come la rossezza di un fiore, e di relaton per tropi a due posti,

6 WILLIAMS, DONALD CARY, On the Elements of Being, Review of Metaphysics,

Philosophy Education Society, Inc. 7:3-18, 1953.

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come l’amore di Dante per Beatrice. Tuttavia, il nome alternativo a

«tropo» che ha avuto più successo è «particolare astratto».

Il più illustre fra gli studiosi che hanno adottato questa

terminologia è senz’altro Keith Campbell, professore emerito di

Filosofia all’Università di Sidney nonché autore di uno dei volumi

fondamentali per la teoria dei tropi, Abstract Particulars7, pubblicato

nel 1990. La scuola australiana, grande promotrice della teoria dei

tropi, comprende, oltre a Campbell, un altro illustre filosofo che si è

occupato di tropi, John Bacon, professore dell’Università di Sidney. Il

filosofo è autore del volume Universal and Property Istances: The

Alphabet of Being8. L’argomentazione del filosofo si articola al fine di

costituire una strenua difesa delle potenzialità della teoria dei tropi,

che passa attraverso una successiva sofisticazione. Tale sofisticazione

dunque è capace di accentuarne semplicità e economicità,

contribuendo così allo sviluppo della prospettiva.

Non va infine dimenticato l’apporto con cui hanno contribuito alla

formulazione contemporanea della teoria dei tropi molti filosofi tra cui

Pawel Rojek, della Jagiellonian University di Cracovia, con il suo

articolo Three Trope Theories9, e Frederik Moltmann, autore di

Properties and Kinds of Tropes: New Linguistic Facts and Old

7 CAMPBELL, KEITH, Abstract Particulars, Basil Blackwell, Oxford 1990.

8 BACON, JOHN, Universals and Property Instances. The Alphabet of Being,

Aristotelian Society Series, Vol. 15, Londra 1998.

9 ROJEK, PAWEL, Three Trope Theories, in «Axiomathes», 18. 2008.

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Philosophical Insight10. Inoltre, l’attuale formulazione della teoria dei

tropi ha subito forti influenze da parte delle tesi esposte nell’articolo

dal titolo Tropes11 di Christopher Daly, dell’Università di Cambridge.

Per quanto concerne invece la produzione italiana di saggi sulla

teoria dei tropi, il più importante lavoro monografico sull’argomento

si deve al filosofo trentino Achille Varzi, attualmente professore e

direttore del dipartimento di Filosofia dell’Università Columbia di

New York. È suo infatti il saggio La natura e l’identità degli oggetti

materiali, all’interno del volume Filosofia analitica. Temi e

Problemi12, curato da Annalisa Coliva.

Il lavoro dei filosofi che sono stati ricordati, per quanto

sostanzialmente omogeneo, presenta dei punti di originalità.

Nonostante la teoria dei tropi sia una teoria metafisica contemporanea,

essa può vantare una formulazione sia completa ed esaustiva, sia

ingegnosa e continuamente arricchita dalle molte prospettive di ricerca

che offre.

10

MOLTMANN, FRIEDERIKE, Properties and Kinds of Tropes: New Linguistic Facts

and Old Philosophical Insights, in «Mind», volume 113, Oxford 2004.

11 DALY, CHRISTOPHER, Tropes, «Proceedings of the Aristotelian Society», New

Series, volume 94, Londra 1994.

12 VARZI, ACHILLE, La natura e l’identità degli oggetti materiali, pubblicato in

Filosofia analitica. Temi e problemi, a cura di Annalisa Coliva, Carocci, Roma

2007.

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2. PRINCIPALI CARATTERISTICHE DI

UN’ONTOLOGIA DEI TROPI

In accordo con Pawel Rojek, mi sembra opportuno esplicitare che

si possono riconoscere due tipi di teoria dei tropi. Il primo tipo di

teoria ha come oggetto esclusivamente il campo delle proprietà. Esse

sono designate semplicemente come particolari astratti. Di

conseguenza, la trattazione delle proprietà come universali astratti o,

semplicemente universali, viene rigettata.

Il secondo tipo di teoria è decisamente più ambizioso e può essere

proposto come alternativa ai sistemi metafisici che richiedono una

sostanza che funga da sostrato per le proprietà. Questo tipo di teoria

può essere chiamato «teoria dei soli tropi», o «trope-only theory», in

quanto si pone l’obiettivo di dimostrare come l’intera struttura del

mondo consista esclusivamente ed esaustivamente di tropi. Si tratta di

una vera e propria ontologia a una categoria. Quest’ultimo tipo di

teoria dei tropi è chiaramente quello di interesse per l’obiettivo di

questo lavoro.

La formulazione della teoria dei tropi nasce come un tentativo di

trovare risposta al problema dell’unità di entità particolari differenti.

Nello specifico, la soluzione a cui mira la teoria dei tropi impone che

non vi sia la necessità di postulare l’esistenza di enti universali.

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Tradizionalmente, le proprietà sono considerate universali astratti,

mentre gli oggetti materiali sono concreti e particolari. La principale

caratteristica del concetto di tropo va ritrovata proprio nella

giustapposizione tra particolare e universale, tra astratto e concreto. La

riflessione filosofica si è soffermata a lungo sulla distinzione tra entità

astratte ed entità concrete, enti universali ed enti particolari.

L’opposizione tra particolare e universale è strettamente ontologica, in

quanto afferma l’esistenza di un universale e di un particolare, il quale

partecipa più o meno perfettamente alla natura dell’universale.

L’opposizione tra concreto e astratto invece si può considerare più

metafisica, in quanto definisce a che tipo appartengono gli enti che

esistono. Il modo in cui ogni filosofo decide di articolare il quadrato

2x2 formato dai rapporti tra questi quattro concetti è di fondamentale

importanza. Il motivo è che il problema degli universali si articola

proprio entro questa doppia contrapposizione.

Un filosofo dei tropi costruisce la propria teoria basandosi sui

concetti di astrattezza e di particolarità. Con «astrattezza» si intende la

caratteristica di un ente che si trova a essere ontologicamente

dipendente dal concreto in senso fisico, ma indipendente in senso

concettuale. In altre parole, un oggetto è astratto se inerisce in un altro

oggetto diverso da se stesso. Per fare un esempio, si può notare che un

oggetto è più concreto di una sua proprietà, perché questa proprietà

non potrebbe esistere senza che esistesse proprio quell’oggetto a

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possederla. Un tropo dunque è un oggetto assolutamente astratto, la

cui esistenza però dipende in qualche modo da un oggetto concreto.

Con «particolarità» invece ci si riferisce a entità di qualsiasi tipo,

con la caratteristica di essere ancorate a un solo oggetto concreto.

Questo tipo di ente è evidentemente contrapposto agli universali, i

quali sono ancorati a molti oggetti concreti. Un tropo è un ente

particolare perché è legato a un solo ente concreto attraverso una

relazione di inerenza. Questa relazione di inerenza sussiste anche tra il

tropo e tutti gli oggetti concreti che a loro volta contengono l’oggetto

con il quale il tropo è in relazione di inerenza.

In poche parole, dunque, si può dire che un tropo è semplicemente

l’istanza di una proprietà o di una relazione. Un oggetto concreto

nasce quindi quando un certo numero di tropi o particolari astratti

vanno a comporre un fascio e a condividere una porzione determinata

di spazio-tempo. In questo modo, si crea un oggetto concreto

individuale e irripetibile, formato semplicemente dalle proprietà

individuali e irripetibili che costituzionalmente gli appartengono. Il

processo è messo in atto grazie alla relazione di compresenza. Questa

relazione infatti permette l’individuazione di un oggetto concreto, in

quanto esso si costituisce di un fascio di tropi compresenti, che

determinano le qualità e le relazioni di cui è in possesso l’oggetto

concreto.

Come si è detto, il fondatore della teoria dei tropi è senza dubbio

Donald Williams, che ne delinea le basi nel famoso articolo

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summenzionato On the Elements of Being. Fin dall’introduzione,

scritta per altro da Keith Campbell, è evidente che la semplicità

caratterizza la teoria dei tropi, sia per quanto riguarda la sua

formulazione, sia per quanto riguarda i modi attraverso i quali

un’ontologia di questo tipo assolve il compito di spiegare quali tipi di

enti popolino il mondo. Inoltre, si legge chiaramente tra le righe del

testo di Williams un continuo invito a mantenersi fedeli alla realtà

dell’essere, evitando qualunque aspetto ultrasensibile. Le ragioni che

spingono il filosofo a questo ripetuto memento vanno ritrovate nello

spirito attualista e riduzionista, che lo portano a sostenere che ciò che

non è la realtà completa non è completamente reale.

L’argomentazione di On the Elements of Being prende le mosse da

alcune osservazioni di carattere quotidiano, come la riflessione sugli

oggetti diversi che si presentano ai sensi come se condividessero

alcuni particolari, ma non tutti. A questo proposito, Williams sceglie

come esempio il caso di tre lecca-lecca: il numero 1 è rosso, rotondo e

aromatizzato alla menta; il numero 2 è marrone, rotondo e al gusto di

cioccolato; il numero 3 infine è rosso, quadrato e alla menta. Il

bastoncino del lecca-lecca è un oggetto concreto, così come il lecca-

lecca stesso, mentre il colore o la forma sono componenti astratte.

Ogni lecca-lecca è simile a ognuno degli altri sotto alcuni aspetti e

diverso sotto altri aspetti. La proposta di Williams è di trattare ognuno

di questi aspetti attribuendogli lo stesso valore ontologico assegnato

agli oggetti concreti, benché siano astratti. Egli infatti ritiene che siano

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proprio le componenti astratte a svolgere il ruolo di elementi primari

nella costituzione della realtà. La ragione è che queste parti non si

compongono di null’altro, sono prime, mentre gli oggetti concreti

hanno parti proprie, ovvero le proprietà.

Detto ciò, Williams si accinge a spiegare i processi attraverso i

quali i tropi si combinano per formare oggetti particolari, universali,

astratti e concreti. Egli sostiene che i tropi intrecciano tra loro rapporti

in due modi. Il primo è la localizzazione, o meglio la compresenza. La

localizzazione di un tropo, ovvero la porzione di spazio-tempo che

occupa, non è rilevante di per sé né lo è in rapporto ad altri tropi. La

compresenza invece determina l’appartenenza di due o più tropi allo

stesso particolare concreto. I tropi infatti, in quanto particolari astratti,

possono occupare la stessa porzione di spazio-tempo e così arricchire,

con un numero di proprietà potenzialmente infinito, l’unico oggetto

concreto con il quale condividono una porzione di spazio-tempo. Gli

oggetti concreti ovviamente non possono condividere porzioni di

spazio-tempo, per cui a ogni porzione di spazio-tempo corrisponde

uno e un solo individuo concreto. Gli individui astratti invece possono

essere innumerevoli. Gli oggetti concreti dunque sono semplicemente

fasci di tropi compresenti, ognuno corrispondente a una delle proprietà

che caratterizzano l’oggetto stesso.

Il secondo tipo di rapporti tra tropi è la somiglianza. Una qualsiasi

coppia di tropi, logicamente, intreccia o non intreccia una relazione di

somiglianza. Le relazioni di somiglianza possono essere di diversi tipi,

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in quanto necessariamente con «somiglianza» si intende «gradi di

somiglianza», da più a meno perfetta. È bene precisare che per la teoria

dei tropi non è esatto parlare di somiglianza perfetta, poiché ogni tropo si

costituisce come essenzialmente diverso da ogni altro tropo. Essi possono

però essere percepiti come simili. Può essere utile fare un piccolo

esperimento mentale. Supponiamo di voler dipingere una parete con una

vernice di un particolare rosso, lo stesso ad esempio con il quale abbiamo

dipinto anni prima un’altra parete nella stessa stanza. Ci rechiamo dunque in

un colorificio, dove il venditore ci mette a disposizione un intero

campionario di vernici catalogate come vernici rosse. Ci troveremo davanti

una vastissima scelta di sfumature di rosso, le quali appariranno ai nostri

occhi più o meno simili tra loro e al nostro campione. Nonostante i nostri

sforzi, la ricerca dello stesso colore è destinata al fallimento,

metafisicamente parlando. Non solo non è possibile trovare in nessun

modo una vernice costituita da un fascio che comprenda lo stesso

tropo della vernice di riferimento, ma anche se riuscissimo a scovarne

una molto simile, il colore della vernice e quello del muro sarebbero

diversi sia dal punto di vista metafisico, sia dal punto di vista della

nostra percezione visiva. Il supporto su cui è stata applicata la vernice

ne ha infatti cambiato le caratteristiche cromatiche, così come il

tempo, l’inquinamento e molti altri fattori. Rassegnati dunque

all’impossibilità di trovare vernici esattamente identiche,

dipingeremmo la parete della vernice più simile in commercio. Il

risultato del nostro lavoro potrebbe allora soddisfarci, in quanto ci

sembrerebbe comunque di essere davanti a due pareti dello stesso

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colore. Non è finita. Anche se trovassimo esattamente la stessa vernice

e, soddisfatti, dipingessimo il nostro muro, ebbene i due muri

comunque non avrebbero lo stesso tropo. Il massimo che possiamo

ottenere è che entrambi i tropi corrispondenti al colore dei due muri

vadano a comporre lo stesso colore universale. Ciò non è affatto

soddisfacente, in quanto i due tropi non creerebbero un universale di

quel particolare rosso, ma contribuirebbero a formare il fascio di tropi

compresenti di tutti i particolari rossi, in compagnia del rosso corallo,

del magenta o del rosso di Persia.

In questo senso, riprendendo l’esempio dei lecca-lecca, si può dire

che tra il tropo del colore di N1 e quello del colore di N3 c’è

somiglianza, ma di un tipo differente da quella che può instaurarsi non

solo tra tropi diversi, ma tra sottoinsiemi di categorie universali,

costituite sempre ovviamente da tropi.

Si può quindi sostenere che ogni tropo intrattiene relazioni

privilegiate con l’insieme o la somma dei tropi con cui è concorrente,

cioè localizzato esattamente nello stesso punto, e con cui ha

somiglianza esatta. L’insieme di tropi concorrenti definisce il

particolare concreto a cui i tropi si riferiscono. L’insieme di tropi

simili delineano l’universale di quel tropo, seguendo il criterio che

predica che meno esatta è la somiglianza, meno definito sarà

l’universale.

Un mondo di tropi quindi risulta popolato da particolari concreti, i

cui elementi ultimi sono di tipo particolare astratto: la rosa del mio

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giardino è un particolare concreto, mentre il suo colore è un

particolare astratto. Questo particolare astratto concorre alla

costituzione dell’oggetto concreto «rosa del mio giardino», insieme

agli altri particolari astratti con cui è in relazione di compresenza.

Inoltre, insieme alla totalità dei tropi che sono in una relazione di

somiglianza col tropo del colore della rosa del mio giardino, il

particolare astratto forma l’universale astratto, mentre la totalità degli

oggetti concreti «rosa» va a formare l’universale concreto

corrispondente alla rosa. In una prospettiva di questo tipo, un oggetto

consiste semplicemente delle sue proprietà, non di entità universali o

delle impressioni che trasmettono i sensi.

L’esposizione di Williams è volta a porre le basi per uno sviluppo

completo della teoria dei tropi, sviluppo che verrà poi realizzato da

due autori in particolare: Keith Campbell e John Bacon.

La formulazione di Keith Campbell, esposta in Abstract

Particulars, prende le mosse dai concetti delineati da Williams e li

analizza al fine di delineare un’ontologia decisamente elegante ed

economica. Anche per Campbell gli oggetti concreti sono particolari

costituiti da tropi, astratti e particolari, con cui si trovano in relazione

di compresenza. La realtà si costituisce di tropi indipendentemente

dall’esistenza di esseri che pensino i tropi o che pensino la realtà in

termini di tropi.

I tropi dunque sono strutturalmente semplici e non richiedono

sostrati materiali. Inoltre, sono categorialmente semplici, poiché non

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sono costituiti dall’unione di enti appartenenti a categorie differente,

come un particolare, un universale e una sostanza. Infine, sono

qualitativamente semplici, in quanto una sola proprietà può costituire

l’intero ente in modo esaustivo. Per quanto riguarda le relazioni tra

tropi, Campbell, in accordo con Williams, indica la somiglianza e la

compresenza. Campbell sottolinea come sia l’aspetto graduale della

somiglianza a permettere a ogni tropo di appartenere a gruppi o

universali diversi, senza intaccare la semplicità essenziale del tropo.

Come si è visto infatti, le caratteristiche sfumano all’interno della

stessa dimensione, richiamandosi l’una con l’altra.

Lo sforzo più consistente che ha impegnato Keith Campbell però è

senza dubbio la ricerca di una risposta alle numerose obiezioni mosse

alla teoria dei tropi. Alcune di queste obiezioni sono state confutate

facilmente, soprattutto grazie al fatto che la teoria dei tropi è libera da

valenze semantiche e ambizioni epistemologiche. Altre obiezioni

costituiscono accuse più gravi e sono oggetto della quarta sezione di

questo capitolo.

Un apporto veramente originale è quello portato da John Bacon,

che nel suo Universals and Property Istances: The Alphabet of Being,

giunge a una sofisticazione della teoria dei tropi. Secondo l’autore

infatti, non solo gli oggetti concreti, ma anche le proprietà e le

relazioni sarebbero costituite da fasci di tropi compresenti.

L’intuizione prende spunto dalla riflessione sul modo attraverso cui

avviene il processo conoscitivo della realtà. Secondo John Bacon,

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oggetto della conoscenza non sono direttamente gli enti o le proprietà

di questi, bensì le relazioni particolarizzate che intercorrono tra gli

oggetti materiali. Una relazione particolarizzata si compone della

relazione tra due particolari e dei due particolari, chiamati relata. Ciò

che caratterizza essenzialmente una relazione particolarizzata è la sua

unicità, determinata dalle relazioni intrecciate con le altre relazioni e

dall’inseparabilità delle sue parti interne (la relazione tra i due

particolari e i particolari stessi). È evidente, a causa dei numerosi

punti d’incontro, che una relazione particolarizzata è un tipo di tropo.

Ecco allora che un tropo passa dall’essere la semplice occorrenza di

una proprietà, all’essere una proprietà localizzata nell’oggetto che la

possiede. Inoltre, esso è anche uno stato di cose, in quanto determina

una porzione di spazio-tempo, e un universale. Questo universale è

particolarizzato, così come sono particolari le proprietà e le relazioni

attraverso le quali si conosce il mondo.

Per quanto riguarda il procedimento di creazione dell’universale,

Bacon propone un procedimento di tipo sintetico che, unificando le

molteplici esperienze di singoli oggetti o stati di cose belli, ottiene

l’idea di Bellezza come insieme di singole bellezze.

Tra le innovazioni introdotte da Bacon, vi sono i concetti di tropo

monadico, politropo e ipertropo. Come si è detto, un tropo è costituito

da una proprietà o relazioni e dal particolare o dai particolari

corrispondenti. Un tropo monadico dunque è unicamente determinato

dall’individuo e dalla proprietà che occorrono in esso, un ente cioè che

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non intreccia alcuna relazione esterna. Un politropo invece è un tropo

che non può essere scomposto in tropi monadici, poiché richiede

l’esistenza di più di un ente. Si tratta cioè di una relazione a cui spesso

deve essere associato un ordine. Le relazioni sono di primo livello se

connettono un tropo con uno o più altri tropi. Le relazioni di secondo

livello o ipertropi sono concorrenza, somiglianza e precedenza

temporale. Pur essendo tropi, esse non sono indipendenti e necessitano

perciò di altri tropi.

Di grande interesse è anche l’apertura della teoria dei tropi nei

confronti dei mondi possibili operata da John Bacon. Se Donald

Williams ne aveva precedentemente escluso l’esistenza,

coerentemente con lo spirito attualista e riduzionista che lo

contraddistingue, l’autore di Universals and Property Istances: The

Alphabet of Being riesce a conciliare le due prospettive metafisiche.

Se il mondo attuale è l’insieme dei tropi che esistono, un mondo

possibile non è altro che un insieme di tropi possibili. Lo scopo

dell’introduzione dei mondi possibili è fondamentale per rispondere

ad alcune obiezioni, soprattutto di carattere logico. Le proprietà vuote,

cioè non esemplificate, costituivano una facile critica alla teoria dei

tropi. Far corrispondere queste proprietà a tropi esistenti in mondi

possibili risolve le obiezioni, ma rischia di rendere la teoria

vulnerabile a tutti quei problemi che affliggono qualsiasi metafisica

che accetti mondi possibili.

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A conclusione di questa panoramica sulle caratteristiche degli

elementi ultimi dell’essere, rimane da delineare brevemente in che

modo i teorici dei tropi si riferiscono al reticolato dello spazio-tempo.

La concezione del tempo e dello spazio trova d’accordo i maggiori

teorici dei tropi. Si ritiene unanimemente che i tropi siano calati

all’interno di un flusso temporale continuo. Per quanto riguarda lo

spazio invece, sembra che convivano due concezioni, una matematica

e una fisica. La prima è relativa al modo in cui occupano spazio gli

oggetti astratti. Essi sono come un punto, che può essere attraversato

da un numero infinito di linee e contenere al suo interno infiniti punti,

senza la minima problematicità. La seconda concezione invece si

riferisce agli oggetti concreti, costituiti dai tropi, la cui determinazione

spazio-temporale segue rigidamente le leggi della fisica e non

permette alcun tipo di compenetrazione dei solidi o compresenza di

oggetti concreti nella medesima porzione di spazio-tempo.

3. IL DIVENIRE NELLA TEORIA DEI TROPI:

CAMBIAMENTO, EVENTI, CAUSE

Una volta definiti i «mattoncini» dell’essere, è utile vedere come

questi si combinino e diano forma alla realtà estremamente variegata e

in continuo divenire su cui si affacciano i sensi umani.

Sono tre gli elementi da prendere in analisi al fine di spiegare il

fenomeno del divenire. Innanzitutto troviamo il cambiamento. La

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teoria dei tropi non comprende un’autentica spiegazione del

cambiamento, in quanto si tratta di un fenomeno non coerente con una

realtà esclusivamente composta da tropi. La ragione è molto semplice.

Un tropo non può modificare la sua natura, in quanto i tropi sono

immutabili. Ciò che un tropo può fare è semplicemente iniziare o

finire di essere attuale. Questo significa che i tropi per loro stessi non

possono cambiare e conservare identità ed esistenza. Ciò che può

cambiare invece è la composizione del fascio di tropi che costituisce

un oggetto concreto. Introduco un esempio, al fine di evidenziare

come avvenga il cambiamento per la teoria dei tropi. Immaginiamo di

comprare un filoncino di pane. Abbiamo comprato un oggetto

concreto costituito da tropi come «questo sapore qua», «questa

morbidezza qua», «questo colore qua» e così via. Immaginiamo ora di

tagliarne una fetta, sempre con i suoi tropi, e di metterla su un piatto al

centro del tavolo. Il giorno dopo, potremo trovare ancora tropi come

questo colore qua, ma il tropo del sapore e della morbidezza non ci

saranno più. Sono infatti stati sostituiti da altri tropi, momento dopo

momento, fino a raggiungere «quel grado di durezza lì» e «quel sapore

stantio lì» che i nostri sensi riconoscono. Che ne è stato dei tropi che

costituivano la nostra fetta di pane il giorno prima? Semplicemente,

hanno cessato di esistere, così come i tropi che la costituiscono oggi

hanno cominciato a esistere. La teoria dei tropi quindi offre una teoria

del cambiamento che riguarda stati di cose reali, costituiti da

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complessi di tropi che cambiano forma, garantendo tuttavia la

persistenza nel tempo dell’oggetto.

Inoltre, un tipo di cambiamento tradizionalmente piuttosto

problematico, ovvero il cambiamento «di Cambridge»13

, prende posto

agilmente all’interno della teoria dei tropi. Il cambiamento di

Cambridge è quel cambiamento che avviene in seguito ad alterazioni

consequenziali nell’applicazione dei predicati. In poche parole, se il

predicato A è vero di un oggetto al tempo 1 e falso dello stesso

oggetto al tempo 2, allora si assiste a un cambiamento di Cambridge.

L’introduzione di questo concetto è di grande utilità per distinguere le

proprietà essenziali da quelle non essenziali. Solo quest’ultime infatti

sono coinvolte in cambiamenti del tipo di Cambridge, in quanto sono

principalmente relazionali e non intaccano l’integrità dell’oggetto

concreto. Si può concludere notando come la teoria dei tropi sia stata

capace di spiegare coerentemente il divenire come la semplice

occorrenza di fatti particolari in un flusso spaziale e temporale

omogeneo, affidandosi a un solo tipo di enti.

Il secondo elemento sono gli eventi. In accordo con la teoria dei

tropi, ogni evento è un tropo. Eventi complessi, come funzioni umane,

pensieri, sensazioni, sono tropi, così come tutte le componenti della

coscienza e tutti i processi conoscitivi. Gli eventi dunque sono oggetti

particolari, composti da successioni indipendenti ma coerenti di tropi

organizzati in flussi costanti.

13

GEACH, PETER, God and the Soul, Routledge, Londra 1969.

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L’ultimo elemento che contribuisce al fenomeno del divenire è il

concetto di causa e, di conseguenza, il concetto di effetto. Come tutte

le relazioni, anche quelle di causa ed effetto sono tropi. Ciò che

provoca un’azione infatti è un ente semplice con caratteristiche

qualitative. Per quanto abbiano senso le regole e leggi, esse si

riferiscono all’universale creato dai particolari astratti. Sono i singoli

atti particolari a scatenare effetti e reazioni, non i giudizi universali.

Non è il sole in generale o la temperatura alta in generale che scottano

la mia pelle d’estate. Sono «questo sole qui», «questa pelle qui» a

provocarmi «questo dolore qui». È la compresenza di tropi a generare

una causa e quindi un effetto. Si noti che, poiché fasci di tropi

compresenti generano oggetti particolari, anche cause ed effetti sono

oggetti particolari, nella forma però di stati di cose.

4. POSSIBILI OBIEZIONI ALLA TEORIA DEI

TROPI: EVENTUALI SOLUZIONI E QUESTIONI

ANCORA APERTE

La teoria dei tropi è semplice ed economica. Può vantarsi di

riuscire elegantemente nel compito di includere la varietà dell’essere

entro l’unica categoria costituita dai particolari astratti. Tuttavia,

l’atteggiamento riduzionista che la contraddistingue, porta con sé una

generale rigidità, che la espone a numerose obiezioni. Sono

principalmente tre i filosofi che hanno criticato la teoria dei tropi:

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David Malet Armstrong e Keith Campbell hanno messo in luce

contraddizioni e problemi interni alla teoria, nel tentativo di pervenire

a una formulazione meno vulnerabile e più coerente. Herbert

Hochberg, dell’Università di Austin, Texas, si è concentrato

principalmente su una critica di nominalismo e teoria dei tropi, in

difesa del realismo.

Una delle obiezioni più significative si deve a David Malet

Armstrong. Il filosofo, nell’articolo A theory of Universals:

Universals and Scientific Realism14, sostiene che se i tropi che

costituiscono i fasci sono astratti, allora non è possibile che essi

occupino le regioni di spazio-tempo in cui vengono collocati. La

compresenza tuttavia è un carattere necessario affinché i tropi formino

gli oggetti concreti. La teoria dei tropi quindi sembra ammettere che

infiniti tropi spazio-temporalmente indistinguibili occupino la stessa

porzione di spazio-tempo. Ne deriva di conseguenza l’impossibilità di

spiegare i processi che permetterebbero ai tropi che compongono un

fascio di creare un oggetto concreto. Certamente la compresenza di

oggetti astratti non genera problemi. Se però questi oggetti astratti

fossero in grado di concretizzarsi misteriosamente in un oggetto

materiale, allora ci troveremmo davanti a una bella questione.

Purtroppo, è esattamente il caso della teoria dei tropi.

14

ARMSTRONG, DAVID MALET, A theory of Universals: Universals and Scientific

Realism, Cambridge University Press, Cambridge 1978.

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Ancora David Malet Armstrong scopre un’ulteriore obiezione,

contenuta nel volume Universals15. Il filosofo mostra che, se le

proprietà sono particolari, allora ogni istanza di proprietà è

essenzialmente diversa, per quanto simile. Inoltre, se la localizzazione

di un tropo è ciò che lo distingue, e se ci fossero due tropi identici,

allora questi potrebbero scambiarsi le coordinate spazio-temporali

senza che nessuno se ne rendesse conto. Una via di fuga percorribile è

quella di considerare la differenza tra due tropi perfettamente simili

come una differenziazione esclusivamente orientata alla

localizzazione. Non è una soluzione del tutto soddisfacente,

considerato che, anche se non avviene nessun cambiamento nel

mondo dal punto di vista della percezione del tropo, un cambiamento

nella disposizione geografica è certamente avvenuto e non è possibile

darne conto.

È sempre Armstrong, in What is a Law of Nature?16, ad affrontare

la questione della validità delle leggi di natura all’interno del sistema

dei tropi, rilevandone questa volta un aspetto di grande importanza dal

punto di vista scientifico e avvantaggiandone la posizione, in

confronto alle altre metafisiche. Le leggi di qualunque tipo, in

particolar modo le leggi fisiche, esprimono relazioni che avvengono

necessariamente tra universali. Tuttavia, le leggi ammettono eccezioni

15

ARMSTRONG, DAVID MALET, Universals. An Opinionated Introduction, Westview

Press, Boulder 1989.

16 ARMSTRONG, DAVID MALET, What is a Law of Nature, Cambridge University Press,

Cambridge 1983.

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e interpretazioni. Non solo. All’interno di una corrente nota con il

nome di Falsificazionismo, alcuni nomi illustri della filosofia17

hanno

sostenuto che una legge scientifica è proprio quella legge che può, in

via teorica, essere confutata. Affermare la veridicità di una legge fisica

può portare a definire come le cose devono accadere, piuttosto di

osservare come queste accadono, con spirito pronto a modificare e

perfezionare i propri paradigmi una volta entrati in possesso di nuovi

dati. Questo significa che imporre legami necessari tra enti universali

può non essere un buon modo del procedere scientifico. Detto ciò, la

teoria dei tropi non si mostra più economica delle metafisiche che si

impegnano nell’esistenza degli universali, ma formula assiomi sulla

natura con una percentuale di correttezza maggiore, in quanto non li

asserisce né in senso assoluto né in senso necessario.

Keith Campbell, da grande teorico dei tropi, ha impegnato molte

energie nell’evidenziare e superare i limiti della teoria, soprattutto nel

volume Abstract Particulars. L’autore inizia la sua analisi delle

obiezioni alla teoria dei tropi partendo dai problemi scatenati

dall’impossibilità di definire gli oggetti in termini di spazio-tempo. Il

filosofo riporta dunque un’osservazione di Donald Williams18

. Il

filosofo infatti aveva sostenuto che essere un particolare è un fatto che

non permette successive analisi e non dipende da alcuna

17

Si veda POPPER, KARL Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970.

Riguardo la confutazione della teorie scientifiche, POPPER, KARL, Congetture e

confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972.

18 WILLIAMS, DONALD CARY, On the Elements of Being, Review of Metaphysics,

Philosophy Education Society, Inc. 7:3-18, 1953.

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localizzazione. Di conseguenza, i problemi della realtà in termini di

determinazione spazio-temporale non sussistono.

Un altro dei grandi problemi interni alla teoria si ritrova nella

sensazione di circolarità che deriva dalla sua formulazione. Sembra

infatti che la teoria dei tropi pretenda di costruire gli oggetti concreti

attraverso i tropi e di localizzare e raggruppare i tropi sulla base degli

oggetti concreti. Una delle difese più largamente sostenute dai teorici

dei tropi è l’introduzione del criterio della «questità». Il metodo

attraverso il quale è possibile riferirsi a un tropo infatti è quello di

indicarlo come questo aspetto qui, questa proprietà qui. È evidente

come il criterio della questità sia costruito ad hoc19 e, nonostante ciò,

sia oscuro e poco potente. Una delle conseguenze del criterio della

questità infatti è che diventa possibile parlare di tropi solo con persone

fisicamente presenti, alle quali sia possibile indicare il tropo e che ne

abbiano percezione.

Di più difficile soluzione è il problema dei limiti, sollevato sempre

da Keith Campbell. Una teoria che pone alla base dell’essere enti

determinati per questità e inseriti in un ciclo di variazione continuo,

incontra grossi problemi nel determinare i confini tra un ente e l’altro.

La compresenza dei tropi non ne permette l’individuazione spazio-

temporale e anche conoscendo l’esatto numero di tropi compresenti in

una porzione di spazio-tempo, non sarebbe possibile isolarli. I confini

19

Si veda VARZI, ACHILLE, La natura e l’identità degli oggetti materiali, pubblicato in

Filosofia analitica. Temi e problemi, a cura di Annalisa Coliva, Carocci, Roma

2007.

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che separano i tropi sono infatti arbitrari e per gran parte dipendenti da

chi li osserva. Inoltre, essi sono sfumati. Così come la tavola

cromatica procede per sfumature e il passaggio dal caldo al freddo

avviene gradualmente, anche il tempo segue la continuità. Si è visto

però che la filosofia dei tropi tratta i cambiamenti ex-abrupto: essi

cioè determinano la cessazione dell’esistenza del tropo precedente in

favore della creazione del tropo successivo. Questo processo che vede

la sostituzione continua di un tropo con un altro è chiaramente oscuro

e insoddisfacente. Alla luce di queste considerazione, un’ontologia dei

tropi non problematica dovrebbe individuare tropi non soggetti al

mutamento e senza limiti spazio-temporali.

Sia Campbell sia Armstrong credono nella validità della teoria dei

tropi, criticandone alcuni aspetti e lavorando per migliorarli. Vi sono

alcuni filosofi invece che assolutamente sono contrari all’adozione di

una teoria di questo tipo. Uno dei casi più illustri è rappresentato

dall’articolo A Refutation of Moderate Nominalism20 di Herbert

Hochberg. Si tratta di un’argomentazione in quattro punti contro

l’ontologia dei particolari astratti. Nel primo punto Hochberg vuole

confutare l’idea che la teoria dei tropi sia più semplice del realismo. Il

realismo infatti necessita di entità particolari, di entità universali e di

un procedimento esemplificativo. Richiede cioè due componenti in

più della teoria dei tropi. Il filosofo però sostiene che il rapporto di

somiglianza e quello di compresenza nella teoria dei tropi agiscono da

20

HOCHBERG, HERBERT, A Refutation of Moderate Nominalism, Australasian Journal

of Philosophy, 66, Sidney 1988.

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universali «mascherati». Dunque, all’esemplificazione dell’universale

sul particolare voluta dal realista, corrispondono la compresenza e la

somiglianza richiesti del teorico dei tropi.

Il secondo punto si sofferma poi sulla difficoltà incontrata da ogni

tipo di nominalismo riguardo le relazioni. Riconoscere esclusivamente

enti particolari e localizzati può non essere problematico per le

qualità, ma nel caso delle relazioni lascia sorgere numerosi quesiti.

Non è infatti sensato localizzare un relaton in nessuno degli enti che

esso lega, né tantomeno in un ipotetico terzo ente intermedio, in

quanto ne scaturirebbe una versione del problema platonico detto del

terzo uomo.

Nel terzo attacco alla teoria dei tropi Hochberg mostra che

chiunque rifiuti statuto ontologico per gli universali, si trova in seguito

a dover includere nella sua metafisica entità che svolgono le stesse

funzioni degli universali del realista. Questo perché, sostiene

Hochberg, «x è un’istanza di rosso è vero» e «x è esattamente simile a

x» hanno lo stesso valore informativo. Se però il rosso si costruisce

come insieme delle istanze di rosso, allora rosso è di nuovo un

universale. La differenza in realtà c’è, ed è fondamentale. L’universale

realista si costruisce a priori ed è presente in ogni esemplificazione

dello stesso. L’universale nominalista invece è costituito a posteriori

per mezzo di un procedimento che raggruppa proprietà di oggetti

concreti, grazie a un aspetto categorizzabile come appartenente

all’insieme universale. È dunque evidente il diverso statuto ontologico

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e il tipo di processo mentale attraverso cui si conoscono i due

universali.

Infine, Hochberg sfrutta il problema dell’ordine relazionale per

sferrare un ultimo attacco alle teorie che rifiutano il realismo. In una

prospettiva priva di universali, non sembra possibile trattare l’ordine

della relazioni, per via del regresso all’infinito in caso di relazioni tra

istanze relazionali di livello diverso. Prendendo in analisi relazioni i

cui termini appartengano a livelli diversi, è possibile elaborare una

struttura gerarchica, che ponga le relazioni più semplici a livello zero.

Si possono dunque costruire fatti relazionali che la riguardano,

ottenendo relazioni di secondo livello. Il problema però è che, se le

relazioni di secondo livello possono avere dei termini al primo livello,

le relazioni di primo livello non possono avere termini di livello

inferiore.

5. I COSTI E I VANTAGGI DELLA TEORIA DEI

TROPI

In chiusura di questo primo capitolo, una volta chiarite le proprietà

degli enti che la teoria dei tropi pone come ultime componenti della

realtà, aver esaminato come la teoria spiega fenomeni, divenire, eventi

e cause, e dopo aver affrontato le obiezioni alle quali è stata data o

ancora si deve trovare una risposta, ritengo utile ribadire quello che è

l’aspetto di maggiore rilevanza alla luce di questo lavoro.

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Il concetto di universale per i teorici dei tropi è ridotto a fenomeno

puramente mentale, la cui esistenza va necessariamente ricondotta alla

manifestazione del particolare. Sono proprio le proprietà fenomeniche

degli oggetti concreti dunque a essere indicate come elementi ultimi

dell’essere. Le qualità e le relazioni che riguardano oggetti particolari

sono esse stesse particolari, ma non derivano questa particolarità dalla

contrapposizione con qualche misteriosa sostanza.

Nonostante l’apparente semplicità ed economicità, la teoria fatica a

spiegare alcuni aspetti, a causa della sua eccessiva rigidità. Inoltre, il

problema più cocente dal punto di vista della formazione

dell’universale, è l’impossibilità di rintracciare gli esatti particolari

che vanno a costituire l’ente universale. Sembra infatti che essi siano

in continuo divenire e che la combinazione di particolari componenti

l’universale cambi a seconda di chi percepisce il particolare. Restano

da chiarire i processi mentali che attendono alla creazione

dell’universale. Infine, le nozioni di somiglianza e di compresenza

sollevano problematiche che minano la semplicità della teoria dei

tropi e che, secondo l’opinione di alcuni filosofi, svelano la sua natura

tutt’altro che unitaria.

Rimangono dalla parte dei tropi alcune considerazioni. Ogni teoria

umana non può esimersi dal presentare imperfezioni e passaggi oscuri.

Soprattutto nel caso di una prospettiva di così recente sviluppo. La

chiarezza, economia, coerenza e linearità di tale teoria continuano a

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testimoniarne il valore e a garantirle un posto tra le opzioni

metafisiche che l’uomo è stato in grado di formulare.

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CAPITOLO SECONDO

LA TEORIA DEI TROPI COME

ONTOLOGIA DEGLI ENTI

MATEMATICI

1. ONTOLOGIE PER GLI ENTI MATEMATICI

Un’ontologia che abbia la pretesa di essere coerente e completa

deve impegnarsi a trattare soddisfacentemente anche gli enti

matematici. Tra questi vi sono i numeri, o più in generale le entità

numeriche, e gli oggetti geometrici. Inoltre, è necessario definire quale

tipo di entità debba essere assegnato ai rapporti tra questi due tipi di

enti, cioè sia ai rapporti interni alle due tipologie, sia a quelli che

intercorrono tra le tipologie. Se infatti gli enti numerici e quelli

geometrici sono per così dire i «mattoncini» della matematica,

teoremi, assiomi e dimostrazioni sono la vera e propria essenza del

sapere matematico.

Il dibattito21

sulla natura del sapere matematico si sviluppa nei

primi anni del Novecento e si articola nella contrapposizione tra due

21

Confronta in particolare CASARI, ETTORE, Questioni di filosofia della matematica,

Feltrinelli, Milano 1964.

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43

concezioni fondamentali. La prima è la concezione contenutistica.

Tale prospettiva assegna significato autonomo al discorso matematico

in quanto ritiene che questo verta intorno a entità particolari. La

seconda concezione è quella formalistica, secondo la quale il discorso

matematico non gode di significato specifico, ma si compone di uno

schema di discorso sensibile al contesto. Ognuna di queste prospettive

ha punti di forza e debolezze. La validità della concezione

contenutistica però vacilla fortemente, sotto il peso della mancanza di

una teorizzazione in grado di giustificare la corrispondenza tra enti

matematici ed enti particolari.

Oltre alle questioni sulla natura del sapere matematico, è necessario

affrontare il problema della natura degli enti matematici. Assegnare

agli enti matematici determinate qualità, significa possedere

concezioni della matematica estremamente divergenti. Si isolano

principalmente tre concezioni. La prima è quella che corrisponde alla

matematica predicativa. Se la matematica viene intesa come una

scienza descrittiva, allora saranno le definizioni a plasmare gli enti

matematici. Le definizioni cioè determinano un universo matematico,

materia di base per formulare assiomi. Poi, a partire da tali assiomi, è

possibile, secondo regole specifiche, costruire delle dimostrazioni. È

una matematica che procede sul terreno delle ipotesi, del

procedimento per assurdo, del teorema del terzo escluso. Questo tipo

di enti matematici non può esistere prima della formulazione di

giudizi matematici e ha una natura astratta, a posteriori.

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Una concezione della matematica come scienza costruttiva invece

prevede che le definizioni costruiscano le entità. Ogni ente cioè deve

godere di una valida dimostrazione costruttiva della sua esistenza,

prima di ottenere un posto tra le entità matematiche. Non è possibile

dedurre nessun tipo di ente o nessuna proprietà senza fornirne una

efficace dimostrazione, per cui i procedimenti di dimostrazione

indiretta vengono scartati. Questa matematica vuole essere svincolata

da ogni presupposto metafisico extra-matematico e basarsi su

un’interpretazione rigorosamente e coerentemente costruttivista.

Questa concezione corrisponde ad alcuni modelli matematici e in

particolare alla matematica intuizionista. Il principale esponente della

matematica intuizionista fu il matematico olandese Luitzen Brouwer.

Egli sostenne che il pensare matematico si sviluppi in un processo

costruttivo di un universo indipendente dalla nostra esperienza. Nella

prospettiva intuizionista infatti le idee matematiche si trovano

immerse nella mente umana prima del linguaggio, della logica o

dell’esperienza.

Ettore Casari22

ha saputo riassumere la differenza tra queste due

concezioni completando un’affermazione di Leopold Kronecker, uno

dei precursori dell’intuizionismo matematico, contenuta nel celebre

trattato Sulla natura del numero, pubblicato nel 1881. Il matematico

tedesco infatti, riferendosi alla matematica predicativista, afferma che

dio ha creato i numeri naturali, mentre il resto è opera dell’uomo.

22 In CASARI, ETTORE, Questioni di filosofia della matematica, Feltrinelli, Milano

1964.

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Casari porta avanti la metafora, sostenendo che invece per la

matematica intuizionista è tutto opera dell’uomo.

Infine, una delle prospettiva più moderne è quella che assegna alla

matematica lo statuto di scienza puramente formale. I formalisti

sostengono inoltre che la logica vada trattata contemporaneamente alla

matematica. La ragione va ritrovata nella concezione della logica

come un linguaggio dei segni che esprime ragionamenti attraverso

processi formali. Allo stesso modo infatti, gli assiomi della

matematica sono processi formali attraverso i quali si esprimono le

regole di derivazione delle formule. Questa prospettiva fu fondata da

Hilbert e prende il nome di matematica formalista. Secondo quello che

viene chiamato Programma di Hilbert23

, ogni disciplina matematica

deve disporre di una fondazione assiomatica, costituita da concetti e

23

È necessario precisare che i teoremi di non dimostrabilità della coerenza, con certi

strumenti, e incompletezza della matematica formulati da Kurt Gödel nel 1931

segnarono per sempre i limiti del programma di Hilbert. Il matematico austriaco

dimostrò infatti che la coerenza di un sistema che abbraccia la logica usuale e la

teoria dei numeri non può essere stabilita se ci si limita a quei concetti e a quei

metodi che possono essere rappresentati formalmente nel sistema della teoria dei

numeri. La coerenza della teoria dei numeri cioè non può essere dimostrata

all’interno di una metamatematica finitista. Inoltre, Kurt Gödel riuscì a dimostrare

che, se una qualsiasi teoria formale T adatta ad abbracciare la teoria dei numeri è

coerente e se gli assiomi del sistema formale dell’aritmetica sono assiomi o teoremi

T, allora T è incompleto. Cioè, c’è un enunciato S di teoria dei numeri tale che né S

né non-S è un teorema della teoria. Questa dimostrazione ha delle conseguenze

devastanti per la teoria dei numeri, in quanto afferma che, siccome uno tra S o non-S

deve essere vero, c’è un enunciato vero della teoria dei numeri che non è

dimostrabile. In conclusione quindi, la non contraddittorietà di un sistema formale

capace di esprimere la teoria elementare dei numeri non può mai essere dimostrata

attraverso mezzi formalizzabili nel sistema stesso.

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principi logici e matematici. Questi assiomi esprimono le regole di

derivazione delle formule, ovvero le regole di manipolazione dei

simboli delle formule ottenute in precedenza. L’oggetto del lavoro

matematico sono dunque i simboli. Una volta svuotati di ogni

significato, essi sono l’essenza, non la rappresentazione, degli oggetti

fisici sottoposti a un processo mentale di idealizzazione. Un giudizio

matematico è vero quindi se può essere ottenuto a conclusione di una

successione di proposizioni derivate dalle precedenti o assiomatiche.

Questi tre punti di vista sono connessi con i tre tradizionali punti di

vista sulla natura delle entità astratte: rispettivamente, realismo,

concettualismo, nominalismo. Il nominalismo si trova però legato sia

alla concezione contenutista, quando punta a costruire una tecnica di

traduzione che permetta di evitare il riferimento a entità astratte, sia al

formalismo di Hilbert, in quanto elimina il riferimento a entità astratte

considerando la matematica come un complesso di simboli. La teoria

dei tropi è sicuramente in accordo con una concezione formalista della

matematica, grazie alla condivisione dello sforzo riduzionista in

direzione delle entità astratte. Tuttavia, si noti che un’ontologia che

preveda un solo tipo di entità, come la teoria dei tropi, più che trovarsi

di fronte al compito di individuare un tipo di essenza per gli enti

matematici, deve cercare la strada attraverso la quale mostrare come

questi enti siano tropi.

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47

2. CHE COSA SONO GLI ENTI MATEMATICI

Nel corso dell’analisi ontologica degli enti matematici, emerge

chiaramente la distinzione tra oggetti astratti e oggetti concreti. Gli

enti numerici infatti sono prevalentemente astratti. Costituiscono

un’eccezione le concezioni della matematica come manipolazione dei

simboli, per cui un numero è un oggetto concreto, cioè proprio il

simbolo. Tale concezione quindi non assegna al simbolo il compito di

rimandare a entità astratte. Una concezione del numero di questo tipo

è presente ad esempio nella matematica formalista. Eccezion fatta

dunque per prospettive di questo genere, si può affermare che non ha

senso parlare di numero concreto, in quanto nominare un numero

significa riferirsi a una proprietà astratta. Questa proprietà viene

associata a un gruppo di oggetti determinato e numerabile24

con la

quale il numero intrattiene una relazione di corrispondenza biunivoca.

Gli enti geometrici invece possono essere sia astratti sia concreti. A

ben vedere, ogni oggetto concreto corrisponde, più o meno

perfettamente, a un ente geometrico. Questo perché, necessariamente,

ogni ente concreto ha un’estensione nello spazio. Il modo in cui ogni

oggetto ha un’estensione, determina una figura geometrica ed è quindi

oggetto di indagine della geometria. Oltre agli enti geometrici concreti

24

Un certo numero di oggetti forma un insieme numerabile se e solo se esiste una

corrispondenza biunivoca tra i suoi elementi e l’insieme dei numeri naturali. Dalla

definizione fornita dunque si deduce che quest’analisi si impegna a fornire una

descrizione esclusivamente dei numeri naturali e reali.

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vi sono però anche enti geometrici astratti. Definire le proprietà di un

triangolo, così come dimostrare il teorema di Pitagora, richiede il

riferimento a un ente astratto e perfetto, un ente tale da soddisfare

perfettamente i criteri che definiscono ogni figura geometrica. In

generale infatti si può dire che questo non avvenga per gli enti

geometrici concreti.

La letteratura sulla teoria dei tropi ad oggi non ha affrontato

l’argomento degli enti numerici. Per quanto riguarda gli enti

geometrici invece si può contare su una breve ma autorevole

argomentazione. È proprio Donald Williams infatti, nel suo On the

Elements of Being, a trattare l’argomento dell’ontologia da assegnare

agli enti con cui lavora la geometria. Lo scopo dell’autore è quello di

rafforzare ulteriormente la teoria dei tropi, mostrando come essa sia

capace di risolvere elegantemente e semplicemente la lunga questione

riguardo al tipo di ontologia più adatta per gli enti geometrici. Al

contrario delle ontologie di stampo platonico, la teoria dei tropi non

richiede di postulare un ente universale che esemplifichi perfettamente

le proprietà degli enti geometrici, come il triangolo perfetto, o il

cerchio perfetto. Non è necessario prevedere una relazione di

esemplificazione, decisamente misteriosa, tra figura perfetta e oggetto

che la esemplifica. Circolarità e triangolarità, per la teoria dei tropi,

sono semplicemente universali astratti, in quanto proprietà possedute

da più particolari concreti. Un oggetto triangolare o circolare dunque è

un particolare concreto, un semplice oggetto che annovera, tra i tropi

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49

che lo compongono, il tropo della triangolarità. Invece, un cerchio o

un triangolo sono particolari astratti, cioè tropi. La ragione è che essi

sono oggetti di cui si considera una sola proprietà, ovvero proprio la

triangolarità o la circolarità. Riassumendo: la triangolarità è un

universale astratto costituito, come ogni universale, da fasci di tropi

compresenti. Questi tropi provengono da due tipi di oggetti. Di primo

tipo sono i tropi che contribuiscono alla formazione di un oggetto

concreto. Ad esempio, il fascio di tropi compresenti che costituisce un

segnale stradale di precedenza, comprende un tropo che ne indica la

particolare forma, la particolare triangolarità. Questo tropo

contribuisce alla creazione dell’universale della triangolarità. Di

secondo tipo invece sono i tropi che provengono dall’oggetto astratto

con tre linee e tre angoli, quell’oggetto che, se ha uno dei tre angoli

retto, allora l'area del quadrato costruito sull' ipotenusa è pari alla

somma dell'area dei quadrati costruiti sui cateti, ovvero la figura

geometrica del triangolo. Per cui, se dalla combinazione tra astratto e

universale si costruisce la triangolarità, e da quella tra concreto e

particolare otteniamo oggetti triangolari, allora dalla combinazione tra

astratto e particolare si ricava l’ente puramente geometrico del

triangolo.

Come già anticipato, i teorici dei tropi non si sono occupati degli

enti numerici. Ciò nonostante, lo studio degli enti geometrici

effettuato da Williams lascia spazio di manovra per un’analoga

trattazione degli enti numerici. Anche nel caso dei numeri infatti

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possiamo isolare sostanzialmente tre modi nei quali individuare l’ente

numerico. Il primo modo corrisponde all’universale ed è analogo alla

proprietà della triangolarità, ma in questo caso si riferisce alla

proprietà comune a più enti di essere composti da diverse parti o avere

aspetti con caratteristiche numerabili. In questo senso, è evidente che

si tratti di un universale di una proprietà di secondo livello, in quanto

si riferisce a proprietà primarie. Intendendo con unicità la proprietà

condivisa dagli elementi che sono in numero di uno, si isola la

proprietà di avere un unico elemento o un unico aspetto di un certo

tipo. Si tratta quindi di una proprietà secondaria e vincolata a proprietà

indipendenti. È in questo senso quindi che questa pagina ha la

caratteristica di avere esattamente quattro lati e quattro angoli. Cioè, la

proprietà di avere lati e angoli si applica quattro volte.

Il secondo modo in cui si può trovare l’ente numerico corrisponde

all’oggetto concreto o a quantità numerabili di oggetti concreti. In

conseguenza all’esistenza di un universale astratto per la numerazione,

esistono oggetti concreti che possiedono quei tropi che vanno a

costituire l’universale corrispondente. Così come a ogni oggetto

concreto corrisponde una forma, a ogni tropo appartenente a un

oggetto concreto corrisponde anche un numero.

Rimane da affrontare il problema del tipo di enti numerici che sono

oggetto della matematica. Insistendo nella fedeltà alla trattazione degli

enti geometrici, possiamo dire che l’ente numerico astratto e

manipolato dalla matematica è un semplice tropo, cioè un ente

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particolare astratto. Vale la pena di soffermarsi su queste due

caratteristiche. In primo luogo, gli enti matematici sono particolari

perché utilizzare un numero in una dimostrazione o in un calcolo, non

significa servirsi dell’esemplificazione di un universale. Ogni numero

è un ente di un certo tipo. Dunque, il singolo numero scritto sul mio

foglio o pensato dalla mia mente si costituisce come l’occorrenza di

un’essenza, di un tipo di essere. L’ente matematico è un dunque un

simbolo il cui significato va rintracciato nelle relazioni che intrattiene

con gli altri simboli previsti dal sistema entro cui opera. In secondo

luogo, un ente numerico è astratto perché non occupa regioni di

spazio-tempo, non ha forma ed è frutto della creazione da parte

dell’uomo di un sistema formale. Ciò rende esplicito il parallelismo

tra enti algebrici ed enti numerici e fa della matematica un insieme di

sistemi formali e deduttivi, lo sviluppo dei quali è compito del

matematico.

3. PROPRIETÀ E RELAZIONI DEGLI ENTI

MATEMATICI

Il numero, insieme all’attività del contare, costituisce un importante

caso tra i processi di astrazione attraverso i quali opera la mente

umana. Nel numero infatti l’astrazione raggiunge uno dei massimi

gradi, in quanto contare oggetti significa prescindere da ogni loro

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proprietà e considerarli unicamente come termini di un processo

simbolico.

Ogni numero è seguito e preceduto da una serie finita o infinita di

altri numeri, la cui grandezza varia al variare della successione dei

numeri preso in considerazione. I rapporti con gli altri numeri e con le

operazioni algebriche definiscono le proprietà di un numero. La serie

dei numeri naturali, oltre a costituirsi come il più semplice, primitivo e

diffuso tra i sistemi dei numeri, ha anche un posto di rilievo nella

formulazione della teoria degli insiemi. Georg Cantor, fondatore della

teoria degli insiemi, si affidò all’assiomatizzazione dei numeri naturali

formulata da Richard Dedekind e da Giuseppe Peano per definire i

numeri ordinali. Gli assiomi di Dedekind e di Peano25

sono dunque

molto utili allo scopo di questo lavoro, in quanto evidenziano le

proprietà dei numeri naturali e aprono la strada alla teoria degli

insiemi. Si tratta di cinque assiomi il cui obiettivo è esplicitare le

proprietà fondamentali dei numeri naturali. Prima di formulare gli

assiomi, il matematico torinese dunque definisce con N la successione

numerica dei numeri naturali e con 0 il numero zero. A questo punto,

introduce la funzione S, che fa corrispondere a ciascun numero

naturale n il suo successore. Con queste premesse, Peano può

enunciare i cinque assiomi. Il primo assioma asserisce che il numero 0

25

La ragione per cui ci si riferisce a questi assiomi come assiomi di Dedekind-Peano è

che Peano gli espose compiutamente e li pubblicò nel 1889, nell’opera interamente

in latino Arithmetices Principia nova methodo exposita. Dedekind però riuscì a

isolarli l’anno prima, nel 1888. Il lavoro di Dedekind si può consultare nella lettera

che il matematico inviò a Keferstein nel 1890.

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appartiene alla successione dei numeri naturali. Il secondo assioma

invece è relativo al campo d’azione della funzione S. L’azione di

questa funzione infatti scaturisce dalla successione numerica N e

opera nei confronti della successione numerica N. In questo modo,

Peano può asserire non solo che ogni numero naturale appartiene a N,

ma anche che il successore di ogni numero naturale appartiene a N. Il

terzo assioma precisa che non esiste nessun numero naturale il cui

successore sia 0. In questo modo, il numero 0 si costituisce come

punto di partenza della serie dei numeri naturali. Il quarto assioma

determina che tipo di funzione è S. Si tratta infatti di una funzione

iniettiva, cioè una funzione che associa ad argomenti diversi valori

diversi. Questo significa che ogni numero naturale n avrà un

successore diverso da quello che S associa a ogni altro numero

naturale. Infine, il quinto assioma afferma che una serie numerica A

contiene tutti i numeri naturali se soddisfa due condizioni. La prima

condizione è che A contenga 0. La seconda condizione è che A sia

chiusa rispetto al successore, cioè che A contenga il successore di

qualsiasi numero naturale che gli appartiene. Ciò significa che la serie

numerica A, e di conseguenza la serie N, risultano seguire all’infinito

attraverso un procedimento induttivo.

Ecco dunque i cinque assiomi di Peano:

1) 0 N;

2) S è una funzione da N in N;

3) Non esiste alcun n N tale che S(n) = 0;

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4) S è una funzione iniettiva;

5) Sia a una qualunque serie numerica tale che 0 a e per ogni

n N, se n a, anche S(n) a, allora N a.

Il quinto assioma è di fondamentale importanza, in quanto contiene

la formulazione del principio di induzione e di conseguenza la

giustificazione della dimostrazione per induzione. La prima

condizione del quinto assioma infatti si chiama base dell’induzione,

mentre la seconda si chiama passo dell’induzione. Il principio di

induzione dunque afferma che se A è un successione di numeri tale

che, per ogni n N, se m A per ogni m < n, allora n A, allora N

A. Il principio autorizza a inferire che tutti i numeri naturali

possiedono una proprietà P dal fatto che, se P è posseduta dai numeri

naturali minori di n, allora P è posseduta anche da n.

Inoltre, Peano introdusse gli assiomi relativi alle operazioni

fondamentali tra numeri naturali. Le operazioni prese in

considerazione da Peano sono tre: somma, prodotto, esponenziazione.

Per ogni operazione il matematico torinese formulò due assiomi:

Assiomi di Peano sulla somma:

1) per ogni m N, m + 0 = m

2) per ogni m, n N, m + s(n) = s(m + n)

Assiomi di Peano sul prodotto:

1) per ogni m N, m 0 = m

2) per ogni m, n N, m s(n) = (m n) + m

Assiomi di Peano sull’esponenziazione:

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1) per ogni m N, m 0

= 1

2) per ogni m, n N, m s(n) = mn m

Peano introdusse anche le relazioni di minore () e di minore o

uguale ().

Relazione di e di : dati m, n N, m è minore di n se n = m + p

per qualche p N tale che p 0, m è minore uguale a n, se m n o m

= n. Si noti che m < n equivale a m n e a m n.

Una volta chiarite quali sono le proprietà dei numeri naturali, è

necessario specificare che queste proprietà non si riferiscono a un

numero preso singolarmente, ma hanno significato solo nel momento

in cui si considera l’intera serie dei numeri naturali. Per questa

ragione, se si considera un ente numerico isolato e indipendentemente

dalla serie di cui fa parte, allora questo numero è un tropo semplice,

privo di proprietà o relazioni. Quando però si inserisce questo ente nel

posto che occupa nella successioni di numeri, esso intreccia

immediatamente relazioni di minore e uguale. Ecco che allora,

volendo assegnare uno statuto ontologico agli enti della matematica, è

necessario scegliere che tipo di ente assegnare alla successione dei

numeri naturali considerata nella sua interezza e complessità.

Possiamo definire ontologicamente la successione numerica N

come il fascio costituito dai tropi corrispondenti ai particolari astratti

ai quali ci riferiamo quando compiamo operazioni di tipo matematico

o quando osserviamo le relazioni che intercorrono tra i numeri. Un

numero infatti rende possibile l’operazioni di contare solo se intreccia

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la relazione di successore con il numero che lo precede e la relazione

di predecessore con il numero che lo segue. Per questa ragione, gli

enti di cui si occupa la matematica non possono essere considerati

singolarmente dall’ontologia, ma devono essere calati nel sistema di

cui fanno parte.

Infine, vorrei notare che Ludwig Wittgenstein, nella parte finale del

suo Tractatus Logicus Philosophicus26, nell’asserzione 6.022 afferma

che: « il concetto di numero è solo ciò che è comune a tutti i numeri,

la forma generale del numero. Il concetto di numero è il numero

variabile. E il concetto d’eguaglianza numerica è la forma generale di

tutte le eguaglianze numeriche speciali». Assegnare uno statuto

ontologico al numero quindi, a maggior ragione, è una questione che

necessariamente riguarda il concetto di numero, cioè, nelle parole di

Wittgenstein, una questione che riguarda ciò che è comune a tutti i

numeri e che generalmente si può predicare di ognuno di essi. Se il

concetto è ciò che è comune a tutti gli enti di un tipo, cioè ciò che li

accomuna in quanto enti di un tipo, allora è evidente la coincidenza tra

concetto ed essenza.

26 WITTEGENSTEIN, LUDWIG, Tractatus Logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964.

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CAPITOLO TERZO

LA TEORIA DEGLI INSIEMI

1. LA TEORIA INGENUA DI CANTOR

La teoria degli insiemi nasce grazie al lavoro del matematico

tedesco Georg Cantor, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Dopo di lui, numerosissimi matematici si sono interessati alla teoria

degli insiemi e hanno lavorato per renderla sempre più coerente e

priva di antinomie. La ragione è che la teoria degli insiemi, grazie alla

sua capacità di rendere su base insiemistica l’intero apparato

matematico, costituisce un eccellente strumento di verifica delle teorie

matematiche27

.

Il primo scritto sulla teoria degli insiemi è Über eine Eigenschaft

des Inbegriffes aller reellen algebraischen Zahlen, pubblicato nel

1874 dal Journal für die reine und angewandte Mathematik. Il

matematico tedesco prese spunto da questioni filosofiche e

matematiche per approfondire i concetti alla base della teoria degli

insiemi di punti. Dagli insiemi di punti dunque, Cantor arrivò a

27

La letteratura a cui farò riferimento nelle prossime pagine è principalmente

costituita dal manuale CASALEGNO, PAOLO, MARIANI, MAURO, Teoria degli insiemi,

un’introduzione, Carocci, Roma 2004 e dal volume CASARI, ETTORE, Questioni di

filosofia della matematica, Feltrinelli, Milano 1964.

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formulare la teoria degli insiemi astratti e in seguito la teoria dei

numeri cardinali e ordinali.

Le posizioni metafisiche sostenute da Cantor riguardo la natura del

numero hanno influenzato profondamente la sua formulazione della

teoria degli insiemi. Cantor infatti distingue due tipi di esistenza dei

numeri. Il primo è di tipo intrasoggettiva o immanente, in quanto i

numeri prendono posto nell’intelletto. In questo tipo di realtà i numeri

sono differenziati e intrattengono relazioni con altri concetti e altri

numeri. Il secondo tipo di realtà è transoggettiva o transiente. In tal

senso, i numeri sono considerati come l’espressione di processi e

relazioni che avvengono nel mondo esterno, contrapposto

all’intelletto. Questi due tipi di realtà sono per Cantor necessariamente

compresenti. Proprio la loro compresenza infatti garantisce l’assoluta

libertà della matematica: solo ad essa fra le scienze infatti è concesso

operare tenendo unicamente conto della realtà immanente dei suoi enti

e trascurandone la realtà transiente.

Si può dunque delineare la concezione cantoriana della matematica

affermando che essa trae gran parte della sua materia e della sua

ispirazione dalla riflessione sui fenomeni naturali. A partire dunque da

modelli naturali, la matematica costruisce liberamente i suoi enti e non

soffre di alcuna preoccupazione relativa all’applicazione pratica delle

teorie che produce. In qualche modo però le teorie matematiche pure

trovano sempre o quasi un’applicazione nell’analisi e nella descrizione

del mondo esterno.

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Poste queste importanti premesse metafisiche, Cantor definì il

concetto di insieme all’interno dello scritto Contributi, del 1895.

L’insieme dunque è la riunione M di un tutto di oggetti m che

appartengono all’intuizione o al pensiero. A ogni insieme M spetta

una potenza o numero cardinale. Il numero cardinale è quel concetto

generale che si ottiene dall’insieme M astraendo dalla natura

particolare dei suoi elementi e dall’ordine nel quale essi sono dati. Fra

i cardinali si possono definire relazione di uguaglianza, maggiore e

minore o uguale (=, , ).

Dopo aver definito il concetto di insieme, Cantor gli attribuì alcune

caratteristiche. La prima asserisce che esiste un insieme in

corrispondenza a ogni molteplicità di enti distinti che possa essere

caratterizzata da una condizione. La seconda proprietà invece assicura

che l’insieme sia completamente determinato da tutti gli elementi

della molteplicità corrispondente all’insieme. Tale principio separa e

distingue la nozione estensionale di insieme dalla nozione intensionale

di proprietà.

Infine, Cantor afferma la sostanzialità dell’insieme nel duplice

aspetto dell’individualità, cioè della capacità di godere di attributi e di

essere quindi elemento di una molteplicità, e dell’assolutezza.

Quest’ultimo aspetto garantisce l’indipendenza dell’insieme dal

linguaggio e da ogni possibile caratterizzazione linguistico-teoretica

degli insiemi e delle proprietà.

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Volendo analizzare più approfonditamente queste quattro

condizioni, si può innanzitutto notare che alla base si ritrova

un’evidente concezione platonistica della matematica. In particolare,

Il platonismo logico si manifesta nell’assunzione che l’universale

possieda un’esistenza extralogica affine in qualche modo a quella

delle componenti del mondo reale. Inoltre, ciò che la prima condizione

afferma è che ogni qualvolta sia possibile determinare una

molteplicità tramite una legge o una proprietà, necessariamente per

ogni entità sarà univocamente determinato il suo appartenere,

sottostare, soddisfare o no la legge o la proprietà. Esiste cioè l’insieme

corrispondente a ogni molteplicità determinata.

La seconda condizione ha un significato apparentemente molto

elementare, in quanto ciò che afferma è che due insiemi con gli stessi

elementi coincidono. Ciò che influisce nella determinazione

dell’uguaglianza tra insiemi dunque è esclusivamente l’estensione. La

terza condizione vuole specificare più chiaramente il tipo di esistenza

assegnato all’insieme determinato da ogni molteplicità.

In accordo dunque con la prospettiva platonistica della matematica

di Cantor, egli attribuisce all’universale corrispondente all’insieme i

caratteri logici delle sostanze individuali. Infine, la quarta

caratteristica arricchisce ulteriormente l’universale, assegnandogli non

solo i caratteri primari delle sostanze, ma anche quelli secondari. Le

proprietà dell’insieme sono cioè necessariamente connesse con

l’insieme stesso.

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Furono numerose le critiche mosse alla concezione cantoriana della

teoria degli insiemi. Fondamentalmente però è possibile evidenziarne

di due tipi. Le obiezioni di carattere logico accusano la teoria di essere

intrinsecamente inconsistente, mentre le obiezioni di carattere

filosofico-epistemico ne evidenziano l’incapacità di costituire una

piattaforma armonica e adeguata per l’interpretazione dei molteplici

aspetti e della natura della ricerca matematica.

2. I PARADOSSI DELLA TEORIA DEGLI INSIEMI

Le difficoltà a cui va incontro la teoria degli insiemi possono essere

rappresentate da tre casi. La prima complicazione è dovuta alla

scoperta delle antinomie logiche generate dall’incompatibilità della

prima e della terza caratteristica attribuite alla teoria degli insiemi28

. È

infatti la sinergia delle due condizioni a generare il principio di

comprensione, il quale, se applicato senza alcuna restrizione, genera

contraddizioni. Tale principio di comprensione ha lo scopo di

garantire che tutte le proprietà siano in grado di generare molteplicità

tali da definire insiemi. Il principio di comprensione era infatti

ritenuto valido agli albori della teoria degli insiemi, ma il matematico

28 In FREGE, GOTTLOB, Grundegesetze der Artimetik, Verlag Hermann Pohle, Jena

1893, è presentato un sistema che assumeva il principio di comprensione. Nella

versione fregeana dunque il principio asserisce che data una proprietà, è sempre

possibile può assumere l'esistenza di un insieme ben determinato che corrisponde a

questa proprietà. Bertrand Russell rivelò l’inaffidabilità di tale principio, attraverso

il suo famoso paradosso dell’insieme delle classi che non appartengono a se stesse.

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torinese Cesare Burali-Forti nel 1897 e Bertrand Russell nel 1901,

hanno prodotto alcuni paradossi che ne hanno svelato l’incoerenza. Il

paradosso di Burali-Forti prende le mosse dall’assunzione che esiste

l’insieme di tutti gli ordinali. Tale insieme dovrebbe a sua volta essere

un ordinale, in quanto in possesso di tutte le proprietà dei numeri

ordinali: chiamiamo questo ordinale A questo punto però sarebbe

possibile costruire l’ordinale + 1, maggiore di . Per definizione

dello stesso però, + 1 dovrebbe appartenere a , quindi si giunge

al risultato paradossale per cui: < +1 .

Il problema deriva dalla possibilità di costruire insiemi con formule

di comprensione che non prevedono alcuna restrizione, in particolare

riguardo agli elementi che non sono insiemi. Ad esempio, la classe di

tutti gli uomini non è un uomo, ma la classe di tutte le idee è un’idea,

così come la classe di tutti gli insiemi con cardinalità maggiore di 1 è

un insieme con cardinalità maggiore di 1. Dunque, dato che alcune

classi sono elemento di se stesse e altre non lo sono, è necessario

imporre delle restrizioni che agiscano allo scopo di evitare le

antinomie.

Bertrand Russell invece scoprì nel 1901 l’antinomia dell’insieme

che contiene tutti gli insiemi che contengono se stesso tra gli elementi.

La contraddizione sta nel fatto che l’insieme che contiene tutti gli

insiemi che contengono se stessi contiene se stesso se e solo se non

contiene se stesso. Se infatti l’insieme contiene se stesso, deve

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appartenere all’insieme degli insiemi che non contengono se stessi tra

gli elementi.

Poiché il principio di comprensione è responsabile del tratto logico-

platonistico che caratterizza la concezione cantoriana della teoria degli

insiemi, è evidente come la dimostrazione della sua inconsistenza

logica sia un duro colpo per questa formulazione.

Questi paradossi hanno evidenziato la necessità di formulare

principi più affidabili che indichino di che tipo di insiemi si può

ammettere l’esistenza. Vi sono numerose teorie assiomatiche, a partire

da quella di Zermelo-Fraenkel, attraverso le quali sono state tentate

diverse soluzioni. Secondo Russell, Zermelo e Quine infatti l’errore si

trova nell’ammissione dell’esistenza dell’insieme in corrispondenza a

ogni condizione. La soluzione quindi è quella di eliminare

l’indiscriminata possibilità di costruire insiemi in corrispondenza a

ogni condizione. Per Russell la limitazione deve riguardare la natura

delle sostanze che intervengono come elementi nella molteplicità,

elaborando una gerarchia delle sostanze. Fu questa idea a portare

Russell alla formulazione della teoria dei tipi. Zermelo invece ritiene

che la limitazione debba operare sulla natura delle molteplicità capaci

di formare un insieme non contraddittorio. Vi è però un’altra

prospettiva, a cui corrispondono le teorie assiomatiche di Von

Neumann, che riscontra la radice delle antinomie nell’ammissione che

ogni insieme sia una sostanza, cioè nella terza caratteristica degli

insiemi secondo Cantor.

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Veniamo ora alla seconda obiezione mossa alla teoria di Cantor.

Essa si sviluppa successivamente alla prima obiezione, in quanto

afferma che il principio di comprensione, anche quando sia stato

riformulato in modo da sottrarsi alla prima obiezione, presenta un

circolo vizioso. La ragione è che il principio di comprensione assicura

l’esistenza di insiemi comunque definiti, ma questi insiemi sono

implicati direttamente dalla condizione che li definisce. Il principio di

comprensione cioè si avvale di una definizione impredicativa. Le

definizioni impredicative sono quelle definizioni che determinano un

ente facendo riferimento a una totalità che contiene come elemento

l’ente da definire. Finché infatti l’universale viene concepito

distributivamente, cioè come aggregato di tutti i suoi elementi, riferirsi

alla totalità significa riferirsi distributivamente a ogni suo elemento.

Definire un ente con riferimento a una totalità di cui esso è elemento

equivale perciò a definirlo riferendosi all’ente stesso e questo è

circolare. Tuttavia, questo ragionamento non è necessariamente

implicato dalle presupposizioni fondamentali del platonismo logico.

La ragione è da riscontrarsi nell’elemento distintivo della concezione

platonistica, la quale afferma che le definizioni matematiche sono

proprio costitutive degli enti. Per quanto riguarda la matematica

platonistica quindi questa critica non ha alcuna consistenza, ma

rappresenta un grosso ostacolo teorico per le altre concezioni della

matematica.

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Infine, la formulazione di Cantor presenta una terza difficoltà,

causata dall’insostenibilità della condizione che afferma che gli

insiemi e le loro proprietà sono assoluti nel senso che sono

indipendenti da ogni possibile caratterizzazione linguistico-teoretica.

Questo problema è evidenziato dal paradosso formulato dal

matematico norvegese Albert Thoralf Skolem. Ai fini della

comprensione del paradosso, è necessario introdurre alcuni concetti

matematici. Innanzitutto, un insieme è numerabile se e solo se esiste

una corrispondenza biunivoca tra i suoi elementi e l’insieme dei

numeri naturali. Invece, è più che numerabile se e solo se esiste una

corrispondenza biunivoca tra gli elementi di un suo sottoinsieme e

l’insieme dei numeri naturali ma non esiste nessuna corrispondenza

biunivoca tra i suoi elementi e l’insieme dei numeri naturali. Inoltre,

nel paradosso si fa riferimento al teorema di Cantor, che afferma che

non c’è una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei numeri

naturali e il suo insieme potenza.

Detto ciò, il paradosso di Skolem può essere formulato: sia M un

insieme qualunque di espressioni della logica dei predicati che

supponiamo in una particolare forma chiamata «forma normale

totalmente prenessa skolemiana». Skolem riesce a dimostrare che se

M possiede un modello, questo modello sarà al massimo numerabile.

Infatti, ogni modello della teoria degli insiemi, ad esempio il modello

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assiomatico proposto da Zermelo-Fraenkel29

, soddisfacendo tutti gli

assiomi dovrebbe soddisfare anche ogni teorema, compreso quello di

Cantor, che afferma che in ogni possibile modello della teoria degli

insiemi sono sempre mancanti quegli insiemi che potrebbero

rappresentare una corrispondenza biunivoca tra quello che nel modello

rappresenta l’insieme dei numeri naturali e quello che nel modello ne

rappresenta l’insieme potenza. In sostanza, la non-numerabilità

dell’insieme di tutti i sottoinsiemi dell’insieme dei numeri naturali,

cioè la non numerabilità dell’insieme potenza di N. Il modello quindi

contiene un’infinità più che numerabile di elementi. Ogni eventuale

modello della teoria dovrebbe essere in conclusione più che

numerabile. Invece, la dimostrazione di Skolem rivela che la teoria ha

un modello numerabile. A meno che quindi la teoria sia

contraddittoria e non possieda alcun modello, l’insieme potenza

dell’insieme dei numeri naturali è e non è allo stesso tempo

numerabile. Ecco dunque il paradosso.

Skolem propone una soluzione del paradosso di grande interesse. Il

matematico norvegese infatti introduce un nuovo linguaggio

attraverso il quale provare a riformulare il paradosso: il linguaggio

metamatematico. Ciò che fa scaturire il paradosso infatti è che nel

linguaggio della teoria degli insiemi è possibile dimostrare la non-

esistenza di un certo insieme, mentre nel metalinguaggio è possibile

dimostrarne l’esistenza. Così argomentando, l’esistenza o la non

29

La presentazione delle teorie assiomatiche, tra cui quella formulata da Zermelo e da

Fraenkel, è oggetto del prossimo paragrafo.

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esistenza di un insieme diventano una questione relativa al linguaggio

e al sistema entro il quale si sta operando, una questione priva cioè di

carattere assoluto. In quest’ottica ad esempio, il teorema di Cantor non

afferma in assoluto la non-esistenza dell’insieme istituente una

corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei numeri naturali e l’insieme

potenza di questo, ma semplicemente la non esistenza di un tale

insieme all’interno dei suoi possibili modelli. Più esattamente, il

teorema di Cantor dice che in ogni possibile modello della teoria

mancano sempre quegli insiemi che potrebbero rappresentare una

corrispondenza biunivoca tra quello che nel modello rappresenta

l’insieme dei numeri naturali e quello che nel modello ne rappresenta

l’insieme potenza.

3. LE TEORIE ASSIOMATICHE DEGLI INSIEMI

Il processo che portò alla formulazione della moderna teoria degli

insiemi fu molto lungo e aprì la strada a moltissime altre teorie

matematiche. La scoperta di alcune antinomie all’interno della

formulazione cantoriana della teoria degli insiemi inoltre stuzzicò

l’ingegno di molti matematici e filosofi che, nel tentativo di risolverle,

apportarono importanti modifiche alla teoria degli insiemi, rendendola

sempre più completa e coerente.

Nel 1908 il matematico e filosofo tedesco Ernst Zermelo pubblicò,

sul numero 65 dei Mathematische Annalen, un saggio dal titolo

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Untersuchungen über die Grundlagen der Mengenlehre, destinato a

suscitare grande interesse. In quest’opera infatti Zermelo offrì una

sistematizzazione della teoria degli insiemi, il cui fine è eliminare le

antinomie e i paradossi che erano stati scoperti fino a quel momento.

Il matematico era convinto che la radice delle antinomie risiedesse

nell’ammissione dell’esistenza di insiemi in corrispondenza a

condizioni arbitrarie. Non è infatti la natura delle sostanze che

formano la molteplicità a rivelarsi problematica per Zermelo, ma è la

natura della molteplicità stessa. È possibile infatti per Zermelo che

determinate molteplicità risultino troppo grandi per non essere

problematiche all’interno della teoria degli insiemi. Per questa

ragione, Zermelo decise di sostituire il principio di comprensione,

colpevole a suo avviso di permettere la creazione di insiemi troppo

grandi. Al suo posto, formulò alcuni principi che consentissero di

costruire insiemi abbastanza grandi da soddisfare i bisogni della teoria

cantoriana del transfinito, ma non tanto grandi da permettere che si

presentassero antinomie.

Zermelo dunque propose un sistema di assiomatizzazione della

teoria degli insiemi. Gli elementi su cui operano gli assiomi

appartengono a un dominio D di oggetti, i quali intrecciano tra di loro

relazioni fondamentali. Il dominio D non è un insieme, bensì è una

classe. Inoltre, è chiuso, nel senso che comprende tutti gli insiemi che

si ottengono da altri insiemi applicando a questi i processi previsti

della teoria. Questi processi possono essere di tipo matematico o

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logico. I processi matematici sono la potenza, per cui se esiste in D un

insieme x allora esiste anche l’insieme potenza di x, cioè l’insieme di

tutti i sottoinsiemi di x; la riunione, che prevede che se esiste in D un

insieme i cui elementi sono a loro volta insiemi, allora esiste in D

anche l’insieme riunione di x, cioè di tutte quelle cose che sono

elemento di almeno un elemento di x; e la selezione, per la quale se

esiste in D un insieme di insiemi non vuoti e disgiunti, allora esiste in

D anche un insieme-selezione di x che ha esattamente un elemento in

comune con ogni elemento di x.

Il processo logico invece è chiamato isolamento. Grazie

all’applicazione di questo processo, è possibile isolare, all’interno di

un dato insieme, un suo sottoinsieme attraverso l’imposizione agli

elementi dell’insieme di partenza di una condizione che sia per essi

definita. Una proprietà è definita se le relazioni fondamentali del

dominio, mediante assiomi e leggi logiche universalmente valide,

decidono completamente della sua applicazione o non applicazione.

Il matematico tedesco definisce quindi l’insieme come

quell’oggetto astratto che possiede almeno un elemento e gli assegna

il ruolo di elemento primitivo della teoria. In seguito, postula che la

condizione che fa sì che due insiemi siano uguali è che abbiano gli

stessi elementi. Vi sono poi altri assiomi, il cui obiettivo è quello di

porre condizioni sull’esistenza di particolari insiemi e di chiudere il

dominio. Zermelo dunque include nel dominio insiemi cosiddetti

elementari. Questi sono l’insieme vuoto, l’insieme unità (x) di x, cioè

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l’insieme il cui unico elemento è x, e l’insieme coppia per ogni coppia

di elementi. Inoltre, Zermelo introduce l’insieme infinito,

quell’insieme cioè che contiene l’insieme vuoto e tutti gli insiemi

ottenuti reiterando un numero finito di volte l’applicazione della

costituzione dell’insieme unità a partire dall’insieme vuoto.

I processi logici e matematici, l’assioma di estensionalità,

l’assioma dell’insieme infinito e gli assiomi sugli insiemi elementari

costituiscono i sette assiomi di Zermelo:

A1 o di determinatezza (estensionalità):

Se ogni elemento di un insieme x è contemporaneamente elemento

di un insieme y e viceversa, allora x=y.

A2 o degli insiemi elementari:

Esiste un insieme improprio () che non contiene alcun elemento.

Se x è qualsiasi cosa del dominio allora esiste l’insieme (x) che

contiene come elemento solo x (cioè l’insieme unità di x).

Se x e y sono due cose qualsiasi del dominio, allora esiste sempre un

insieme (x, y) (insieme coppia), che contiene come elementi sia x sia y

ma nessuna cosa z che sia diversa da entrambi.

A3 o dell’isolamento:

Se il predicato (x) è definito per tutti gli elementi di un insieme y,

allora y possiede sempre un sottoinsieme z che contiene come

elementi tutti e soli quegli elementi di y per i quali è vero (x). Se non

vi è nessun elemento di y per cui è vero (x), z è un sottoinsieme

vuoto.

A4 o dell’insieme potenza:

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A ogni insieme x corrisponde un secondo insieme P(x) che contiene

come elementi tutti e soli i sottoinsiemi di x.

A5 o della riunione:

A ogni insieme x corrisponde un secondo insieme S(x) che contiene

come elementi tutti e soli i sottoinsiemi di x.

A6 o della scelta:

Se x è un insieme i cui elementi sono tutti insiemi diversi da e tra

loro disgiunti, allora la sua riunione S(x) contiene almeno un

sottoinsieme y che ha in comune con ogni elemento di x uno e un solo

elemento.

A7 o dell’infinito:

Il dominio contiene almeno un insieme z che contiene come

elemento l’insieme nullo ed è fatto in modo che a ogni suo

elemento x corrisponde un altro elemento della forma (x) ovvero che

con ogni suo elemento x contiene anche come elemento il

corrispondente (x).

Zermelo dunque afferma che la sua assiomatizzazione è non-

contraddittoria, ma non riesce a dimostrarlo. Per questa ragione, si

limita a mostrare che tutte le antinomie conosciute fino ad allora in

prima istanza non si presentano. Inoltre osserva che tutti gli assiomi

sembrano essere indipendenti, tranne quello degli insiemi elementari.

Il matematico tedesco Adolf Abraham Fraenkel infatti dimostrò che

questo assioma è parzialmente dipendente dagli altri. Inoltre, Fraenkel

operò numerose altre migliorie al sistema assiomatico di Zermelo,

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tanto che ci si riferisce a questo sistema chiamandolo con il nome di

entrambi i matematici.

Nonostante gli sforzi dei due autori dunque, sono state sollevate

numerose questioni sull’adeguatezza dell’assiomatizzazione di

Zermelo-Fraenkel nel rendere la teoria degli insiemi.

Innanzitutto, il sistema fu accusato di essere metodologicamente

inadeguato a causa del concetto di predicato definito contenuto

nell’assioma di isolamento. Questo concetto non sarebbe utilizzabile

innocentemente in quanto sembra non sia sufficientemente preciso. In

particolare riguardo la dimostrazione che D non è un insieme.

Affermando infatti che ogni insieme ha almeno un sottoinsieme che

non è suo elemento, si conclude che non tutto ciò che appartiene al

dominio è elemento di uno stesso insieme. Quindi D non è un insieme.

È proprio grazie al fatto che D non è un insieme che è possibile evitare

l’antinomia di Russell, un risultato molto importante raggiunto però

attraverso strumenti che non convincono.

Per questa ragione dunque sia Skolem sia Fraenkel si impegnaroso

a trovare una soluzione al problema. Il matematico norvegese provò la

strada metamatematica, asserendo che un predicato definito è

un’espressione della logica dei predicati del primo ordine che contiene

una variabile libera e risulta costituito dai connettivi e dai

quantificatori a partire da espressioni atomiche della forma x y o x =

y. L’assioma di isolamento non risulta dunque più come un singolo

assioma, ma si costituisce come uno schema di assiomi.

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Il matematico tedesco invece tentò la strada della precisazione del

criterio della definitezza, attraverso l’introduzione del concetto

generale di funzione la riformulazione dell’assioma della scelta30

.

Un’altra critica che fu mossa al sistema di Zermelo fu quella di

risultare troppo debole, per due ragioni. La prima era che esso non

permetteva di assicurare l’esistenza di molti insiemi fondamentali per

la teoria del transfinito. Nello specifico, erano ammessi troppi pochi

cardinali e ordinali transfiniti. La soluzione trovata dai fondatori della

teoria fu dunque quella di annettere un altro assioma che permettesse

di creare infiniti insiemi partendo dagli insiemi la cui non

problematicità era già stata dimostrata. Infatti, se x è un insieme e ogni

suo elemento viene rimpiazzato con una cosa del dominio D, allora x

trapassa ancora in un insieme, e così all’infinito.

A8 o di rimpiazzamento: se M è un insieme e f una funzione,

allora esiste un insieme M’ di tutti e solo i valori di f su M, di tutti e

soli cioè gli f(x) per x M.

La seconda ragione per cui il sistema fu accusato di eccessiva

debolezza è diametralmente opposta alla prima. La ragione infatti è

30 Il ragionamento è il seguente: se x è un insieme variabile, sono funzioni di x ogni

insieme costante, ogni insieme coppia in cui x intervenga come elemento, l’insieme

potenza di x, l’insieme riunione di x e ogni funzione di x. Siano (x) e (x) due

funzioni di x, ° sia una delle operazioni =, , , . Siano poi M e N due insiemi tali

che N contenga tutti e soli quegli elementi y di M per cui vale (x) ° (x); allora N è

detto l’insieme isolato da ° in M e si scrive N=M ° . Si riformula dunque l’A3 o

di isolamento: per ogni insieme M e date due funzioni di x, e , esiste un insieme

di isolamento M ° .

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che esso non permette di assicurare la non esistenza di insiemi non

desiderabili, come quelli al cui interno esiste una catena infinita di

insiemi legati dalla relazione di appartenenza. Fraenkel tentò diverse

soluzioni, ma la categoricità dell’ampia e generale teoria degli insiemi

pare destinata a rimanere irrealizzabile. È tuttavia possibile attraverso

opportuni assiomi escludere gli insiemi indesiderabili finora

riconosciuti. A questo scopo, Zermelo formulò nel 1930 un nuovo

assioma:

A9 o di fondazione: ogni insieme non vuoto x contiene un

elemento y che non ha con x alcun elemento in comune.

Infine, la piattaforma ontologica del sistema zermeliano fu ritenuta

eccessivamente ampia ed eterogenea, in quanto essa consente di

dedurre dagli assiomi l’esistenza di oggetti che non sono né

matematici né concettuali. L’ammissione nel dominio di oggetti che

non sono insiemi è dovuta alla non categoricità della teoria. Una

soluzione possibile quindi è quella di trattare gli enti singolarmente,

seguendo una strategia affine a quella di cui i due matematici si sono

serviti per gli insiemi straordinari. La caratteristica fondamentale delle

sostanze individuali dalla quale è possibile generare insiemi è la loro

atomicità. Questi enti cioè non hanno elementi, così come non ne ha

l’insieme vuoto. Ampliando la validità dell’assioma di estensionalità,

dai soli insiemi a ogni altro ente, si esclude qualsiasi altra sostanza:

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A1* o di determinatezza (estensionalità): se due cose sono tali

che ogni cosa che è elemento della prima è anche elemento della

seconda, allora le due cose sono uguali.

È interessante notare che adottare questa soluzione equivale ad

ammettere che l’intera descrizione razionale dell’universo possa

effettuarsi senza materiale di partenza, purché si accetti l’idea che non

si dispone di alcun materiale di partenza.

Riepilogando, gli assiomi di Zermelo arricchiti dagli apporti di

Fraenkel e Skolem e scritti nel linguaggio della logica del primo

ordine quantificata si presentano nel seguente modo:

ZF1 o di estensionalità: z(zxzy) x = y

ZF2 o dell’insieme coppia: x = y zw(wzw = x w = y)

ZF3 o dell’insieme riunione: y(yx)zw(wz u(wu

ux)

ZF4 o dell’insieme potenza: yz(zy w(wz wx))

ZF5 o schema di assiomi di isolamento: ogni espressione della

forma yz(zy zx a(z)) è un assioma se a non contiene la

variabile y libera.

ZF6 o di scelta: yz((yx zx y = z) (w(wy)

w(wy wz) uy(yx wv(v = w vu uy))

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ZF7 o dell’infinito: z(x(y yx xz) xy ((xz w

(wy w = x)) yz))

ZF8 o schema di assiomi di rimpiazzamento: espressioni della

forma yzw (a(y,z) a(y,w) z = w) uz (zu y (yx

a(y,z)) sono assiomi se a non contiene la variabile y libera.

ZF9 o di fondazione: y(yx) z(zx w(wz wz)

L’assiomatizzazione di Zermelo-Fraenkel fu seguita da numerosi

altri modelli assiomatici sulla teoria degli insiemi. In particolare, vi si

cimento il matematico ungherese, naturalizzato statunitense, John Von

Neumann31

, nel tentativo di trovare una strategia che permettesse di

evitare le antinomie. Egli riteneva che le antinomie dovute alla

molteplicità fossero causate dall’assunzione che ogni insieme possa

entrare a far parte di altri insiemi. Tale assunzione è chiamata carattere

sostanziale primario. Von Neumann dunque opera una distinzione tra

due tipi di aggregati: quelli che godono del carattere sono insiemi,

mentre quelli che non ne godono sono classi. Detto ciò, il matematico

assegna all’insieme lo statuto di oggetto matematico, mentre a lla

classe lo statuto di estensione di un predicato. Questa operazione

permette di teorizzare i concetti di oggetto matematico e di estensione

di un predicato, al fine di distinguere tra molteplicità assolutamente

infinite o inconsistenti e molteplicità consistenti. Se le prime infatti

31

VON NEUMANN, JOHN, An Axiomatization of Set Theory, reperibile in inglese in

VAN HEIJENOORT, JEAN, From Frege to Gödel: A Source Book in Mathematical

Logic, 1879-1931, Harvard University Press, 1967.

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hanno elementi che portano a una contraddizione e non rientrano

quindi nell’assiomatizzazione della teoria degli insiemi, le seconde

sono innocenti e costituiscono il terreno adatto a costruire oggetti

matematici.

Oltre a ciò, Von Neumann definisce i concetti astratti di insieme e

di funzione: partendo dal concetto di insieme, introduce il concetto di

relazione e, come caso speciale di quest’ultimo, il concetto di

funzione; viceversa, dal concetto di funzione, introduce il concetto di

funzione caratteristica, il cui scopo è determinare un insieme.

Von Neumann impone dunque due domini distinti A e F:

argomenti, a cui assegna il tipo 1, e funzioni, a cui assegna il tipo 2. I

due domini condividono l’estensione delle funzioni-argomento,

funzioni che sono a loro volta argomento di altre funzioni. A esse

viene assegnato il tipo 1-2. Tra gli argomenti hanno particolare

importanza a e b, che corrispondono a vero e falso. Detto ciò, si può

concludere che le classi sono quelle funzioni i cui argomenti sono

soltanto a o b, cioè vero e falso, mentre gli insiemi sono le classi che

sono funzioni-argomento.

Poste tali premesse, Von Neumann può dettare la sua

assiomatizzazione. Essa si compone di assiomi ripartiti in 5 gruppi:

Primo gruppo o introduttivi: garantisce l’esistenza di a e b e

precisa le condizioni di significanza delle due operazioni primitive

fondamentali. Queste sono l’applicazione di una funzione f a un

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argomento x e l’accoppiamento ordinato degli argomenti x e y. Chiude

il gruppo l’assioma di estensionalità.

1. a e b sono cose di tipo 1;

2. [x, y] ha senso se e solo se x è una cosa di tipo 2 e y è una

cosa di tipo 1; essa stessa è una cosa di tipo 1;

3. <x, y> ha senso se e solo se sia x sia y sono di tipo 1; essa

stessa è una cosa di tipo 1;

4. f e g siano cose di tipo 2. Se per ogni cosa x di tipo 1 vale [f,

x] = [g, x], allora f = g.

Secondo gruppo o aritmetici di costruzione: assicurano la

chiusura dell’universo del discorso rispetto a certi elementari processi

combinatori sia matematici sia logici. Inoltre, affermano l’esistenza di

certe funzioni elementari come l’identità, le funzioni costanti

corrispondenti a ogni argomento, la decomposizione, l’applicazione,

l’accoppiamento e la moltiplicazione funzionale.

1. Esiste una cosa f di tipo 2 tale che [f, x] = x vale sempre;

2. u sia una cosa di tipo 1. Allora esiste una cosa f di tipo 2 tale

che [f, x] = u vale sempre;

3. Esiste una cosa f di tipo 2 per cui [f <x, y>] = x vale sempre;

4. Esiste una cosa f di tipo 2 per cui [f <x, y>] = y vale sempre;

5. Esiste una cosa f di tipo 2 per cui se x è una cosa di tipo 1-2,

[f <x, y>] = [x, y] vale sempre;

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6. f e g siano cose di tipo 2. Esiste allora una cosa h di tipo 2 per

cui <h, x> = < [f, x], [g, x]> vale sempre;

7. f e g siano cose di tipo 2. Esiste allora una cosa h di tipo 2 per

cui [h, x] = [f [g, x] ] vale sempre;

Terzo gruppo o logici di costruzione: assicurano l’esistenza della

funzione corrispondente al predicato logico dell’identità, la chiusura

del sistema rispetto alle definizioni di funzioni-predicati mediante

quantificazione e rispetto alle definizioni di funzione mediante

esplicitazione di predicati univoci in una certa sede.

1. Esiste una cosa f di tipo 2 tale che x = y è equivalente a [f <x,

y>] a;

2. f sia una cosa di tipo 2. Esiste allora una cosa g di tipo 2 tale

che [g, x] a vale se e solo se per ogni y vale [f <x, y>] = a;

3. f sia una cosa di tipo 2. Esiste allora una cosa g di tipo 2 tale

che per ogni x, quando un unico y vale [f <x, y>] a, [g, x] = y.

Quarto gruppo o delle cose di tipo 1-2: il primo precisa quali

argomenti siano anche funzioni, mentre il secondo dice quali funzioni

siano argomenti. Il secondo ha un’importanza fondamentale, in quanto

mira a evitare che funzioni troppo grandi siano anche argomenti,

proteggendo quindi il sistema dalle antinomie. Il secondo assioma di

questo gruppo dunque afferma che ragione necessaria e sufficiente

affinché una classe sia un insieme è che essa risulti rappresentabile

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sulla classe totale. Inoltre, sempre il secondo assioma è adatto a

svolgere il ruolo svolto, nel sistema di Zermelo-Fraenkel, dagli

assiomi di rimpiazzamento, dell’isolamento e della scelta.

1. esiste una cosa f di tipo 2 tale che una cosa x di tipo 1 è una

cosa di tipo 1-2 se e solo se [f, x] a;

2. una cosa f di tipo 2 non è una cosa di tipo 1-2 sse esiste una

cosa g di tipo 2 tale che per ogni cosa x di tipo 1 esiste una cosa y di

tipo 1 per cui valgono sia [f, y] a sia [g, y] = x.

Quinto gruppo o dell’infinito: è costituito da tre assiomi, ma solo

il primo è un vero assioma dell’infinito, mentre gli altri sono

adattamenti dell’insieme riunione e dell’insieme potenza. È necessario

introdurre questo gruppo esclusivamente ai fini della costruzione della

teoria del transfinito.

1. Esiste una cosa f di tipo 1-2 con le proprietà: esistono cose x

di tipo 1-2 per cui x f; se per una cosa x di tipo 1-2 vale x f, allora

esiste una cosa y di tipo 1-2 per cui y f e x < y valgono;

2. f sia una cosa di tipo 1-2. Esiste allora anche una cosa g di

tipo 1-2 per cui da x y e y f, dove anche y è una cosa di tipo 1-2,

segue che x g;

3. f sia una cosa di tipo 1-2. Esiste allora anche una cosa g di

tipo 1-2 tale che se per una cosa x di tipo 1-2 vale x f allora esiste

una cosa y di tipo 1-2 per cui valgono x y e y g.

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81

Al fine di contenere l’eccessiva liberalità del sistema, Von

Neumann aggiunge un sesto gruppo.

Sesto gruppo: esso opera escludendo l’esistenza di elementi

primitivi, fissando l’interpretazione di a e b, identificati con la classe

vuota (a) e la classe unità della classe vuota (b) e fissando

l’interpretazione di <x,y> con il sistema di insiemi x e y di

Kuratowski32

. Infine, fonda ogni classe.

1. Tutte le cose di tipo 1 sono anche cose di tipo 1-2;

2. Vale a = e b =();

3. Vale <u,v> = ((u,v), (u));

4. Non esiste alcuna cosa z di tipo 2 con z 0 tale che per ogni x

per cui valga x f, esiste un y f per cui y x e y b (dove y x sta

per y è un predecessore di x).

L’elemento distintivo del sistema di Von Neumann in conclusione

è la distinzione tra esistenza e sostanzialità degli universali. Gli

universali infatti esistono in corrispondenza a una molteplicità

determinata ma non sempre possono essere a loro volta elementi di

una molteplicità. Questo significa che non ogni insieme è una

sostanza. Inoltre, l’assiomatizzazione di Von Neumann si distingue

32

KURATOWSKI, KAZIMIERZ, A Half Century of Polish Mathematics: Remebrances

and Reflections, Oxford Pergamon Press, 1980.

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per l’assunzione del concetto di funzione quale concetto basilare di

tutta la matematica, in luogo di quello tradizionale di insieme.

Oltre ai sistemi assiomatici di Zermelo-Fraenkel e di Von

Neumann, vanno ricordati quelli formulati da Paul Bernays33

, da Kurt

Gödel34

e da Willard Van Orman Quine35

. Questi sistemi, pur

presentando elementi di originalità, sono sostanzialmente riconducibili

ai modelli di Zermelo-Fraenkel e di Von Neumann. La ragione è che il

sistema di Von Neumann riesce a superare molte delle difficoltà

dell’assiomatizzazione di Zermelo-Fraenkel, rendendo la sua teoria

sufficientemente completa e innocente. La distinzione neumanniana

tra insieme e classe, cioè ente definito da una condizione ma non

necessariamente costituente un insieme, è in grado di garantire che

non tutte le classi siano elementi di altre classi. Tale strategia porta a

evitare le antinomie riscontrate nel sistema di Zermelo-Fraenkel.

Si può concludere affermando che i sistemi assiomatici della teoria

degli insiemi che sono stati formulati consentono di ricostruire

praticamente tutta la matematica conosciuta, ma non sembra che

consentano di ricostruire le antinomie conosciute.

33

BERNAYS, PAUL, Axiomatic Set Theory, Dover Publications, 1991.

34 GÖDEL, KURT, The Consistency of the Axiom of Choice and of the Generalized

Continuum Hypothesis with the Axioms of Set Theory, Princeton University Press,

Princeton 1940.

35 QUINE, WILLARD VAN ORMAN, New Foundations for Mathematical Logic,

American Mathematics Monthly numero 44, 1937, incorporato in QUINE, WILLARD

VAN ORMAN, From a Logical Point of View, Harvard University Press, Cambridge

1953.

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83

4. LA TEORIA DEI TIPI

I sistemi assiomatici degli insiemi dunque operano sulla natura

delle molteplicità autorizzate a creare insiemi, per quanto riguarda la

teoria di Zermelo-Fraenkel, e sull’ammissione che ogni insieme sia

una sostanza, nel caso dell’assiomatizzazione di Von Neumann. Come

è stato anticipato nel capitolo relativo ai paradossi della teoria degli

insiemi però, il filosofo Bertrand Russell riteneva che la limitazione

dovesse intervenire sulla natura delle sostanze che sono elementi nella

molteplicità. La radice delle antinomie risiederebbe cioè

nell’ammissione dell’esistenza dell’universale corrispondente a

molteplicità disomogenee. Russell prese le mosse da queste basi

concettuali per edificare la sua teoria dei tipi36

.

Russell dunque realizzò il suo modello insiemistico su una data

quantità di individui e su tutte le successive potenze di questi. Egli

ipotizzò che gli individui di partenza fossero infiniti, tramite la

formulazione del principio dell’infinito. Tale principio afferma che

esistono infinite sostanze individuali e ognuna di esse ha il tipo 0. A

ogni tipo corrisponde una successione finita crescente di numeri

naturali che comincia con 0. La composizione dei singoli insiemi

avviene all’interno di ogni tipo, condizione garantita dal principio di

36

RUSSELL, BERTRAND, WHITEHEAD, ALFRED NORTH, Principia mathematica,

Cambridge University Press, Cambridge, 1913. Si veda anche RUSSELL, BERTRAND,

Mathematical Logic as based on the Theory of Types, American Journal of

Mathematics, numero 30, 1908.

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comprensione. In accordo a questo principio infatti, se x è una certa

molteplicità di sostanze di tipo i, allora esiste un universale

corrispondente, tale cioè che i suoi elementi siano tutte quelle sostanze

i che appartengono a x. A questo universale è assegnato il tipo i+1.

Infine, gli insiemi dovranno venir ancora considerati

estensionalmente, come espresso dal principio di estensionalità, per

cui un universale è univocamente determinato dai suoi elementi.

In poche parole dunque, una volta assunta l’esistenza di oggetti non

rappresentabili nella teoria degli insiemi, è possibile avvalersene nel

ruolo di individui elementi di un insieme. Tutti i sottoinsiemi di questo

insieme costituiscono dunque un insieme che varrà come il primo tipo

di insiemi. I sottoinsiemi del primo tipo di insiemi costituiscono il

secondo tipo di insiemi. Riferendosi a tutti gli insiemi s’intende quindi

riferirsi ai sottoinsiemi di un certo tipo, poiché elementi di un insieme

possono essere o individui o insiemi di un certo tipo.

È proprio questa gerarchizzazione a mettere il sistema di Russell al

riparo dall’antinomia scoperta da lui stesso e da quella dovuta a

Burali-Forti.

I principi formulati da Russell però sono evidentemente più deboli

di quelli di Cantor. Se infatti il principio di estensionalità rimane

intatto, il principio di comprensione subisce un notevole

ridimensionamento. L’elemento problematico è soprattutto che tale

ridimensionamento impedisce di dimostrare l’esistenza di un insieme

infinito. Immaginiamo di considerare un certo ente e. La successione

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Una metafisica alla prova: la teoria dei tropi applicata alla teoria degli insiemi

Tesi di Laurea di Costanza Brevini

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degli insiemi (e), ((e)), (((e))), eccetera è infinita, così come

l’universale corrispondente alla proprietà di appartenere a questo

insieme. Nella teoria dei tipi però tale successione è considerata

illegittima, in quanto non si presenta come omogenea dal punto di

vista della gerarchia dei tipi. Per questa ragione, è necessario postulare

l’esistenza di infiniti individui.

Un ulteriore complicazione deriva dal fatto che un sistema formale

per la teoria dei tipi è più complesso e necessità di un maggior numero

di simboli, in quanto deve saper esprimere le operazioni logiche, i

quantificatori e le sostanze dei diversi tipi.

In conclusione quindi la teoria dei tipi non è convincente. Inoltre, si

rivela decisamente poco economica, in quanto richiede l’introduzione

di un certo numero di simboli per ogni tipo ammesso dalla teoria.

Russell provò a sviluppare ulteriormente tale teoria, proponendone

una versione a tipi ramificati. Il presupposto di tale versione è quello

di avere a disposizione una certa totalità infinita di enti. La teoria

ramificata assegna dunque il tipo 0 a tali enti, a partire dai quali

definisce una serie di classi di enti, ai quali assegna il tipo 0,1. A

questo punto, a ogni classe di enti di tipo 0 viene assegnato il tipo 0,2,

mentre a ogni classe di enti di tipo 0,1 si assegna il tipo 0,1,2.

All’interno di questa gerarchizzazione ramificata ogni classe di tipo

0,1 costituisce il primo ordine, mentre ogni classe di tipo 0,2

costituisce il secondo ordine e via costruendo. Per fare un esempio,

prendiamo una classe del tipo 0,2,6,8. Si tratta di una classe

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dell’ottavo ordine, definita riferendosi a una totalità del settimo

ordine. I suoi elementi saranno quelle classi del sesto ordine definibili

mediante riferimento ad almeno una totalità di classe del quinto

ordine, i cui elementi sono classi di tipo 0,2, definibili mediante

riferimento a una totalità di primo ordine.

Assegnare il tipo in questo modo permette come si vede di

comprendere sia qual è il grado di complessità insiemistica della

classe attraverso l’ordinamento dei tipi, sia qual è il grado di

complessità concettuale involto dalla classe, dai suoi elementi, dagli

elementi dei suoi elementi. L’ordinamento degli ordini infatti rende

possibile risalire a queste informazioni.

La versione ramificata è inoltre arricchita dalla formulazione

dell’assioma di riducibilità, il cui compito è ridurre l’ordine di una

classe al minimo compatibile con l’ordine dei suoi argomenti. Sono

necessarie alcune precisazioni. Innanzitutto, per la teoria ramificata un

tipo il cui ultimo numero è il successore aritmetico del suo penultimo

numero si dice predicativo. Inoltre, ogni classe di enti di un

determinato tipo è equiestensiva a una classe predicativa degli stessi

elementi. Ecco che allora ciò che l’assioma afferma è l’esistenza, per

ogni classe, di una classe predicativa avente gli stessi elementi. Queste

due classi però non sono identiche, ma coestensive, poiché l’assioma

di estensionalità della teoria ramificata postula la coincidenza di classi

equiestensive solo se appartengono allo stesso tipo. Operando in tal

modo, l’assioma di riducibilità elimina ogni differenza pratica tra

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Tesi di Laurea di Costanza Brevini

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teoria semplice e teoria ramificata, che distinguono quindi solo

notazionalmente.

Il carattere costruttivista e concettualista della teoria dei tipi

ramificati però, insieme con le rinunce a cui richiedeva di far fronte,

furono avvertite con disagio da Russell, il cui atteggiamento era e

rimase sostanzialmente platonista. Inoltre, l’assioma di riducibilità, se

da un verso permette la soluzione di problematiche altrimenti letali per

la teoria, rilegittima certi processi definitori impredicativi, che

rendono la teoria vulnerabile a critiche insidiose.

5. LA TEORIA PREDICATIVISTA DI WEYL

In alternativa alla teoria dei tipi è possibile rivolgersi ad altri

sistemi di matematica predicativista. Il più famoso ed efficace di

questi sistemi è quello formulato dal matematico tedesco Hermann

Weyl. Egli pubblicò nel 1918 un’opera dal titolo Das Kontinuum37

,

nella quale sono esposti i risultati che raggiunse indipendentemente,

ma che costituiscono una valida opzione alle precedenti teorie degli

insiemi.

In particolare, ciò che suscita maggiore interesse nel lavoro

weyliano è il metodo di costruzione dell’ambito operativo e dei

37

Disponibile nella traduzione inglese: WEYL, HERMANN, The continuum: a critical

examination of the foundation of analysis, Dover books on advanced mathematics,

New York 1964.

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processi che intervengono nella costruzione di assiomi ed entità

matematiche. Per questa ragione, mi limiterò a esporre il processo

generativo ideato da Weyl, trascurando il sistema assiomatico, anche

perché non presenta rilevanti differenze rispetto ai sistemi già

analizzati.

Alla base della teoria presentata nel Kontinuum dunque vi è un

ambito operativo costituito da un dato numero di categorie

fondamentali di enti. Tali enti possiedono determinate proprietà o

relazioni primitive. L’edificio teorico si costruisce quindi applicando a

tali enti processi generativi di tipo logico e di tipo matematico. I

processi di tipo logico sono le definizioni combinatorie, le quali

generano relazioni derivate a partire da proprietà e relazioni primitive

riferite a enti appartenenti a categorie iniziali. La generazione delle

relazioni derivate avviene attraverso la reiterazione di processi quali la

negazione, la congiunzione, la disgiunzione, le due quantificazioni,

esistenziale e universale, l’identificazione di sedi libere e il

riempimento di tali sedi con l’inserimento di un individuo. I processi

di tipo matematico invece sono le definizioni creative, le quali

generano nuove entità ideali a partire da proprietà e relazioni iniziali e

derivate.

Questi processi agiscono sulla base operativa nel seguente modo.

Innanzitutto, si applicano i processi logici che generano le relazioni

derivate. Applicando alle relazioni derivate ottenute il processo

matematico, si generano gli insiemi corrispondenti a queste relazioni.

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Le nuove entità ideali vengono a questo punto classificate in nuove

categorie. Le relazioni e le proprietà primitive e derivate e le nuove

entità sono dette di 1° ordine o gradino. Applicando il processo logico

alle relazioni, alle proprietà e agli enti di 1° gradino, si ottengono

relazioni, proprietà ed enti di 2° gradino.

Il processo generativo dunque funziona nel seguente modo. A

partire da enti che appartengono a categorie iniziali, si ottengono

proprietà e relazioni riferite agli enti tramite il processo generativo. Da

queste proprietà e relazioni, si ottengono proprietà e relazioni derivate.

Successivamente, si generano gli insiemi corrispondenti alle relazioni

derivate. Tali insiemi corrispondono a nuove entità ideali che

appartengono a nuove categorie. Si generano dunque nuove proprietà

e relazioni riferite a nuove entità, dalle quali si generano proprietà e

relazioni derivate e via dicendo.

Questo processo prende il nome di processo allargato. Accanto a

tale processo interviene il processo limitato, che si ottiene dal

processo allargato applicando la quantificazione esistenziale e il

riempimento di una sede libera con un individuo solo a categorie

primitive. In termini pratici, questo significa che è possibile

quantificare solo le variabili dell’ordine zero, cioè gli individui.

Weyl introduce inoltre la distinzione tra simboli predicativi e

simboli insiemistici. Se i primi infatti costituiscono predicati a partire

da predicati, i secondi costituiscono enti a partire da predicati.

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Tutto il processo weyliano è volto al fine di assicurare una rapida

controllabilità intuitiva dell’ambito esaminato per il problema

dell’ammissione di certi strumenti logici e matematici. La creazione di

enti quindi si muove all’interno di un atteggiamento costruttivista

senza dubbio coerente. Ciò che invece lascia sorgere perplessità è

l’appello continuo e indiscriminato a molteplicità sempre più

complesse e il più delle volte sconosciute. Inoltre, la tendenza a

formulare a priori un quadro massimale dei possibili riferimenti della

teoria, può intaccarne la validità. Ciò che senza dubbio conserva

ragionevolezza e affidabilità è il metodo di costruzione della base

operativa. La sua continua controllabilità infatti sta a garanzia della

non problematicità quanto meno degli individui che sono manipolati

dalla teoria. Questo aspetto non è assolutamente da sottovalutare, in

quanto permette di avvalersi di solidi elementi e così di evitare le

antinomie conosciute. In aggiunta, si noti che l’analisi approfondita

dei processi logici e matematici che intervengono sugli individui è una

promessa di validità anche per ciò che può essere costruito mediante

la loro applicazione.

6. PER UN BILANCIO DELLA TEORIA DEGLI INSIEMI

Nelle pagine precedenti si ritrovano le formulazioni più originali e

complete della teoria degli insiemi. Sicuramente, l’idea che vi è alla

base dunque apre spunti di grande interesse e offre un paradigma

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Tesi di Laurea di Costanza Brevini

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adeguato per la discussione delle questioni matematiche. Ciò che

concerne lo scopo di questo lavoro però non è tanto lo sviluppo

dell’apparato concettuale logico e matematico. Preme piuttosto

individuare che tipo di essere sia possibile assegnare alle entità che

entrano in gioco nella teoria degli insiemi. Da questo punto di vista

dunque si distinguono due atteggiamenti interni alle teorie che sono

state presentate. Nei sistemi di Zermelo-Fraenkel e di Von Neumann

infatti le entità elementari da cui si formano insiemi sono date, nel

senso che non vi è alcuno sforzo di giustificazione della loro esistenza.

Nelle teorie predicativiste invece esse vengono costruite attraverso

processi successivi. È evidente dunque che in una prospettiva

filosofica, vi è maggior riguardo per una concezione matematica che

richiede di impegnarsi su un certo numero di enti costruiti attraverso

operazioni sempre controllabili, piuttosto che per una concezione che

ammette l’esistenza di infinite sostanza, ben prima di definire a che

tipo esse appartengano.

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CAPITOLO QUARTO

FASCI DI TROPI COME INSIEMI DI

ELEMENTI

1. LE PROPRIETÀ SONO GLI ELEMENTI

COSTITUTIVI DELL’ESSERE: ELEMENTI E TROPI

Come abbiamo visto, la teoria degli insiemi ha vissuto numerosi

sviluppi e subito notevoli modifiche. Si può addirittura parlare di

teorie degli insiemi, per quanto sono originali le prospettive formulate

a partire dal Über eine Eigenschaft des Inbegriffes aller reellen

algebraischen Zahlen di Cantor. È proprio la fedeltà ai principi

formulati da Cantor all’atto di nascita di tale sistema ciò che fa

confluire queste diverse teorie matematiche sotto il nome di teoria

degli insiemi. Per questa ragione, ritengo sia sufficiente provare la

conciliabilità di tali principi all’interno della teoria dei tropi, per

verificare se tale teoria possa essere utilizzata coerentemente con

l’adozione di una metafisica dei tropi.

Prima però di osservare il funzionamento dei principi, è necessario

analizzare il dominio su cui opera la teoria degli insiemi e quindi il

concetto di insieme e gli elementi ritenuti fondamentali e adottati dalle

diverse teorie. Per Cantor l’insieme è la riunione di un tutto di oggetti

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che appartengono all’intuizione o al pensiero. Zermelo poi definisce

l’insieme come quell’oggetto astratto che possiede almeno un

elemento e gli assegna il ruolo di elemento primitivo della teoria.

Russell presuppone un’infinita quantità di oggetti individuali, a partire

dai quali è possibile costruire gli insiemi, mentre Weyl postula un dato

numero di categorie fondamentali di enti in possesso di proprietà e

relazioni primitive.

Dato il dominio, si sviluppano i cardini sui quali sono fondate sia la

teoria ingenua degli insiemi sia tutte le successive raffinazioni. Il

primo è il cosiddetto principio di comprensione. Si ricordi che tale

principio afferma che, data una qualunque proprietà, esiste sempre

l’insieme di tutti e soli gli oggetti che godono di quella proprietà. È

proprio questo principio a causare l’antinomia scoperta da Russell.

Infatti, nonostante l’atteggiamento fondazionale di tale affermazione,

essa è incompleta e ambigua. La ragione è che un concetto siffatto non

fornisce un criterio che discrimini le proprietà e definisca quali siano

adatte a formare un insieme e quali non lo siano. Molti degli sforzi dei

successivi pensatori che si sono occupati di teoria degli insiemi infatti

sono stati volti proprio a fornire una limitazione per tale principio.

Il secondo cardine della teoria degli insiemi è il principio di

estensionalità, che impone che due insiemi che hanno gli stessi

elementi siano uguali. Non sono dunque rilevanti né l’ordine in cui si

presentano gli elementi, né il modo attraverso cui gli elementi

caratterizzano gli insiemi. Una delle conseguenze di tale principio è

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che non è possibile costituire due insiemi diversi a partire dagli stessi

elementi. È interessante notare che questo principio determina

l’unicità dell’insieme vuoto. Questo perché, naturalmente, se un

insieme è univocamente determinato dai suoi elementi, e se due

principi che contano gli stessi elementi sono identici, allora l’insieme

determinato da nessun elemento è solamente uno.

Infine, Cantor assegnò al concetto di insieme la capacità di godere

di proprietà e ne sancì l’indipendenza dal linguaggio e dalla

caratterizzazione e comprensione dell’uomo. Ciò significa che insiemi

e elementi esistono, godono di determinate proprietà e intrecciano

relazioni particolari indipendentemente dall’attività del matematico o

del filosofo.

Chiariti i principi alla base della teoria degli insiemi, resta da

vedere se questi siano conciliabili con la teoria dei tropi. Innanzitutto,

la teoria dei tropi ammette l’esistenza di infiniti enti astratti e

particolari. A tali enti viene assegnato un tipo ontologico

assolutamente conciliabile dunque con quello assegnato dalla teoria

degli insiemi agli elementi. Gli elementi infatti, oltre che infiniti e

particolari, devono essere anche semplici, ovvero non ulteriormente

scomponibili. Anche i tropi sono infiniti, particolari e non

ulteriormente scomponibili. A prima vista quindi sembra accettabile

assegnare agli elementi lo statuto ontologico dei tropi semplici.

Vediamo ora come è possibile che tali elementi-tropi costituiscano

insiemi. Per il principio di comprensione, un insieme esiste in

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corrispondenza a ogni agglomerato di elementi. Tale agglomerato si

forma grazie a una condizione. Poiché ogni agglomerato di tropi, o

meglio, ogni fascio di tropi, è un oggetto, si può ipotizzare che gli

elementi-tropi, aggregandosi, formino un insieme. C’è però qualcosa

di discordante. La teoria degli insiemi afferma che gli elementi

possono essere astratti o concreti, ma l’insieme che essi formano è

sempre un oggetto astratto. I tropi invece sono assolutamente ed

esclusivamente oggetti astratti, ma sono in grado di costituire sia

entità concrete, come gli oggetti materiali, sia entità astratte, come gli

universali. Una soluzione possibile è quella di definire gli elementi

astratti come tropi e gli elementi concreti come aggregati di tropi, cioè

enti astratti che, organizzatisi in fasci, compongono oggetti concreti.

Gli insiemi invece saranno solo oggetti astratti, i cui elementi

potranno essere o tropi oppure oggetti concreti, costituiti a loro volta

da tropi.

Vi è un secondo elemento discordante. Per il principio di

estensionalità infatti, gli elementi determinano l’insieme ma non lo

caratterizzano. Sembra invece che i tropi caratterizzino eccome

l’oggetto concreto che costituiscono. In realtà, credo che sia solo una

caratterizzazione apparente. I tropi infatti non compiono nessuna

azione di caratterizzazione dell’oggetto a cui appartengono. L’oggetto

è caratterizzato dalla proprietà che i tropi manifestano, ma solo

«inconsapevolmente». Non c’è infatti nessun oggetto che i tropi

possono caratterizzare, non c’è una dicotomia tra sostanza da

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informare e proprietà che la informa. Le proprietà dell’oggetto si

percepiscono grazie al fatto che i tropi corrispondenti alle proprietà

costituiscono il fascio che costituisce quell’oggetto.

A supporto di questa strategia si possono portare alcuni esempi.

Vediamone due. Consideriamo gli insiemi che si creano

dall’astrazione di una proprietà, come la proprietà di essere di colore

rosso o trovarsi nella porzione di spazio-tempo che corrisponde alla

mia stanza. È possibile creare dunque l’insieme di tutte le cose rosse

nella mia stanza, per il principio di comprensione. Tale insieme è

chiaramente un oggetto astratto ed è composto da elementi astratti: i

tropi di rosso che appartengono ai fasci degli oggetti concreti nella

mia stanza. Un insieme di questo tipo è definibile come un

sottoinsieme dell’entità astratta universale «rosso», cioè l’oggetto

astratto costituito da tutti i tropi del rosso.

Sono astratti anche gli insiemi che si formano definendo una

coordinata spazio-temporale. Ad esempio, è astratto l’insieme di tutti

gli oggetti che occupano la porzione di spazio-tempo coincidente con

la mia scrivania alle 16:32 del 29 aprile 2011. Tale insieme infatti non

occupa nessuna coordinata spazio-temporale, è un oggetto astratto

costruito dalla mente e si articola in un fascio che comprende i singoli

oggetti concreti sulla mia scrivania, oltre ai singoli oggetti astratti che

compongono i fasci a cui corrispondono tali oggetti concreti.

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Poste alcune condizioni dunque, sembra sia possibile conciliare il

dominio di individui richiesto dalla teoria degli insiemi e il principio

di comprensione con la metafisica dei tropi.

Anche il principio di estensionalità si rivela in accordo con la teoria

dei tropi. Come il lettore ricorderà, tale principio afferma che un

insieme è determinato univocamente dai suoi elementi,

indipendentemente dall’ordine. Per la teoria dei tropi, un oggetto è

determinato esclusivamente dai tropi che lo compongono,

invariabilmente dall’ordine. Approfondendo l’analisi, si trovano altri

punti in comune tra i due sistemi. Ad esempio, per la teoria dei tropi

due oggetti distinti non possono essere costituiti dagli stessi tropi, ma

un tropo può appartenere a due oggetti distinti. Per la teoria degli

insiemi, due insiemi distinti non possono essere costituiti dagli stessi

elementi, ma un elemento può appartenere a due insiemi distinti.

Infatti, un elemento che appartiene a due insiemi è, ad esempio, come

un tropo che appartiene all’insieme astratto del suo universale e

all’insieme concreto dell’oggetto che costituisce.

Infine, rimane da verificare se la teoria dei tropi consente di

rispettare la terza caratteristica assegnata al concetto di insieme da

Cantor e dai teorici degli insiemi in generale. Tale caratteristica è di

importanza fondamentale, poiché definisce proprio quali proprietà

ontologiche devono essere assegnate all’insieme. In accordo dunque

con la terza caratteristica, un insieme gode di sostanzialità nel duplice

aspetto di individualità e di assolutezza.

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Tale condizione necessita di alcuni chiarimenti. Per quanto

riguarda l’individualità, ciò che la suddetta caratteristica richiede è che

l’insieme abbia la capacità di godere di attributi. Come si è visto

precedentemente, l’oggetto astratto che è l’insieme gode

assolutamente di attributi. Non solo ne gode, ma ne è sostanzialmente

costituito. Un attributo infatti altro non è che una proprietà, cioè un

tropo. Anche in questo ambito, sembra che la teoria dei tropi possa

offrire un’ontologia che risponde alle caratteristiche richieste dai

teorici degli insiemi.

Per quanto riguarda invece l’assolutezza, si è visto che ciò che tale

caratteristica reclama per il concetto di insieme è la sua indipendenza

dal linguaggio e da ogni caratterizzazione dell’insieme, delle sue

proprietà e dei suoi elementi. Ebbene, i teorici dei tropi avanzano le

stesse richieste di indipendenza per la realtà. Essi infatti affermano

che la realtà si costituisce di tropi indipendentemente dall’esistenza di

esseri che pensino i tropi, che pensino la realtà in termini di tropi o

che attribuiscano alla realtà tale conformazione.

Dall’analisi portata avanti nelle pagine precedenti dunque, sembra

sia possibile assegnare alla teoria degli insiemi un’ontologia del tipo

proposto dai teorici dei tropi. La realtà che essi ipotizzano infatti è

costituita da individui ultimi, semplici e senza limitazioni quantitative.

Tali elementi dell’essere si aggregano e costituiscono entità diverse da

essi stessi non problematicamente. Anzi, proprio da tale aggregazione

si originano gli oggetti materiali e gli enti astratti che abitano il

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mondo. Una realtà così caratterizzata costituisce terreno fertile per

l’applicazione della teoria degli insiemi. Mi sembra che la ragione

principale sia da ritrovarsi nel fatto che la teoria dei tropi non prevede

gerarchie tra le sostanze. Si tratta infatti di un paradigma ontologico

riduzionista, in quanto richiede che l’essere sia di un solo tipo. La

sostanza si costituisce di elementi semplici in grado di costruire

oggetti proprio come i mattoni costituiscono le mura.

Ecco allora che l’atteggiamento riduzionista e semplificatore della

teoria dei tropi mostra la propria forza ed efficacia, nella forma della

stupefacente adattabilità di tale teoria a un paradigma essenziale per

l’analisi delle entità matematiche come quello della teoria degli

insiemi.

Detto ciò, sarebbe scorretto negare che un passo fondamentale è

rimasto finora escluso da questo studio. L’analisi di tale passo è

oggetto del prossimo paragrafo.

2. IL PROBLEMA DELL’INSIEME VUOTO

Tra gli assiomi formulati dalle teorie assiomatiche degli insiemi, è

sempre annoverato l’assioma dell’insieme vuoto. Tale assioma ha la

funzione di affermare l’esistenza dell’insieme vuoto e di assegnargli la

proprietà di essere unico. Tra le sue caratteristiche inoltre vi è quella

di non avere sottoinsiemi diversi da esso stesso. Un ulteriore elemento

distintivo dell’insieme vuoto è che esso è sempre presente come

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sottoinsieme in ogni qualunque altro insieme. L’insieme vuoto viene

dunque utilizzato nello sviluppo della teoria degli insiemi per definire

gli altri insiemi finiti.

Per quanto ormai tale insieme sia stato accettato dalla comunità

matematica, esso desta ancora alcuni sospetti. Già intuitivamente

risulta difficile capire come sia possibile costruire un insieme, cioè

una collezione, senza contare elementi. L’insieme vuoto infatti,

secondo i teorici degli insiemi, pur non avendo elementi, è

assolutamente un insieme e non va dunque considerato come «nulla»

o «non essere». Esso si costituisce secondo i dettami del principio di

comprensione, con l’applicazione di una condizione che non viene

soddisfatta da nessun elemento, in quanto generalmente definisce

caratteri impossibili per definizione.

Decisamente più disarmante però è un altro tipo di considerazione.

A un’attenta analisi appare come l’insieme vuoto non rispetti le

definizioni basilari del concetto di insieme. Infatti, nella formulazione

di Cantor, l’insieme è la riunione di un tutto di oggetti. Nel caso

dell’insieme vuoto, la pretesa sarebbe quella di ammettere un tutto

privo di oggetti. Ancora, per Zermelo l’insieme è definito come

quell’oggetto astratto che possiede almeno un elemento. L’insieme

vuoto però per definizione non ha elementi. Com’è possibile dunque

che l’insieme vuoto sia un insieme? Sarà pure un entità, ma non

possiede elementi e dunque non è un insieme.

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Una metafisica alla prova: la teoria dei tropi applicata alla teoria degli insiemi

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Nonostante queste osservazioni, l’insieme vuoto è necessario per

ottenere e spiegare molti risultati della teoria degli insiemi che sono

stati dimostrati essere validi. Dunque, è necessario trovare una

soluzione che permetta di servirsi della teoria degli insiemi e

assegnarle un’ontologia, senza incorrere in contraddizioni.

3. QUATTRO POSSIBILI SOLUZIONI

Vi sono alcune opzioni, l’adozione di ciascuna delle quali deve

essere ponderata alla luce della sua validità, della sua coerenza e

dell’uso che si intende fare della teoria degli insiemi.

La prima opzione è quella di considerare non valida l’assunzione

dell’insieme vuoto, in quanto in contraddizione con la definizione di

insieme, ed eliminare senza indugi tale entità dall’assiomatizzazione.

Ci sono ovviamente delle conseguenze negative. Innanzitutto, la teoria

degli insiemi perderebbe così una delle sue più potenti armi di calcolo

e molti risultati non potrebbero essere dimostrati. Inoltre, non sarebbe

più possibile costruire alcuni insiemi finiti e non varrebbero più le

rappresentazioni dei numeri naturali che prendono spunto proprio

dall’insieme vuoto per generare la serie infinita dei numeri naturali38

.

38

Si tratta delle rappresentazioni proposte da Gottlob Frege e Bertrand Russell, ma

anche da John Von Neumann. Frege e Russell sostenevano che ciascun numero

naturale n dovesse essere identificato con l’insieme degli insiemi contenenti n

elementi. Von Neumann suggeriva invece di identificare n con un particolare

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Una metafisica alla prova: la teoria dei tropi applicata alla teoria degli insiemi

Tesi di Laurea di Costanza Brevini

102

Tuttavia, vi sono anche conseguenze positive: la teoria degli insiemi

acquisterebbe in coerenza e assegnarle un’ontologia si rivelerebbe

forse un compito più semplice ed economico. Da un punto di vista

ontologico infatti l’insieme vuoto è assolutamente sospetto per

l’indefinitezza della sua natura, causata dalla peculiarità di essere un

insieme ma non avere elementi. Uno degli assiomi del sistema, da una

parte, definisce indubbiamente l’insieme vuoto come appunto un

insieme. Dall’altra parte, l’assioma afferma che tale insieme non

possiede elementi. Non è chiaro dunque che tipo di entità gli vada

assegnata, se quella dell’insieme, rispettando quindi l’assioma

dell’insieme vuoto, o quella dell’elemento, in accordo invece con la

definizione del concetto di insieme. Si potrebbe considerare l’insieme

vuoto invece come un elemento fisso di ogni insieme, una sorta di

«elemento zero», servendosene solo sotto questo aspetto e per quanto

possibile.

La seconda opzione è quella di accettare l’assioma dell’insieme

vuoto, senza però far veramente corrispondere all’entità «insieme

vuoto» un qualche oggetto della teoria. L’insieme vuoto dunque

potrebbe essere semplicemente un oggetto fittizio, introdotto

unicamente in quanto utile strumento per il calcolo. Questa soluzione

è apparentemente la più semplice ed efficace, ma sembra riflettere un

atteggiamento semplicista piuttosto che semplificatore. Inoltre,

affermare che l’insieme vuoto non esiste e non ha significato, ma è un

insieme contenente n elementi e precisamente con l’insieme dei numeri naturali

minori di n, cioè i numeri da 0 a n-1. Tale insieme perciò ha n elementi.

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Una metafisica alla prova: la teoria dei tropi applicata alla teoria degli insiemi

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concetto utile e perciò viene introdotto, è espressione di confusione.

Così argomentando infatti non si prende una vera posizione

sull’argomento. Sembra piuttosto che l’insieme vuoto sia assunto, ma

non sia assunto del tutto.

Dal punto di vista dell’analisi ontologica, cedere una simile

ammissione parziale è una grave complicanza, in quanto comporta

l’assunzione di diversi modi di esistenza per gli enti, i quali quindi

parteciperebbero all’essere in gradazioni diverse. A onore del vero va

detto però che questa seconda soluzione, pur complicando

orrendamente le cose dal punto di vista ontologico, le rende piuttosto

semplici dal punto di vista matematico. Può quindi essere adottata da

una ricerca sulla teoria degli insiemi che si disinteressi della sua

componente ontologica. Alla luce del fatto che questa tesi mira

proprio a fornire una spiegazione ontologica della teoria degli insiemi,

è evidente che una soluzione di questo tipo non è adatta allo scopo.

Le due soluzioni proposte fino a questo punto sono di carattere

principalmente matematico. In esse, l’analisi ontologica interviene a

posteriori, cercando di adeguarsi alle strategie adottate dalla

matematica. Poiché però stabilire se un certo ente è esistente o meno

è una questione squisitamente ontologica, proprio l’ontologia è in

grado di offrire delle soluzioni interessanti per il problema

dell’insieme vuoto.

La prima soluzione ontologica che mi sento di avanzare si basa sul

fatto logico secondo cui esistono proprietà autocontraddittorie, che si

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Una metafisica alla prova: la teoria dei tropi applicata alla teoria degli insiemi

Tesi di Laurea di Costanza Brevini

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possono pensare agevolmente ma che non si possono predicare di

alcun ente. Simili proprietà sono ad esempio la proprietà «essere

diverso da se stesso», oppure la proprietà «godere di un attributo e

contemporaneamente godere anche dell’attributo contrario», oppure

ancora «essere un numero primo pari diverso da 2», o ancora «essere

un numero dispari divisibile per 4». Tali proprietà possono, in accordo

con il principio di comprensione, generare insiemi. Tali insiemi però

non possono possedere elementi perché, per soddisfare la condizione

definente l’insieme, essi dovrebbero essere enti autocontraddittori. È

evidente come enti di questo tipo non possano esistere. Anche se

potessero esistere, la loro introduzione sarebbe un ulteriore

complicazione ontologica. Credo però che sia più semplicemente

possibile spiegare l’insieme vuoto come la porzione di spazio-tempo

resa vuota dai principi logici. Per chiarire tale idea, è utile un breve

esperimento mentale. Immagino di voler costruire l’insieme il cui

unico elemento è il numero naturale compreso tra 23 e 24. Percorro

allora la successione dei numeri naturali fino a incontrare il numero

23. Questo numero è separato dal numero 24 da un intervallo vuoto.

Posso immaginare dunque che l’insieme, ovviamente vuoto, che

contiene il numero naturale compreso tra 23 e 24 stia proprio in

quell’intervallo, «svuotato» dai criteri che determinano i numeri

naturali. L’inconciliabilità di tali criteri con la condizione definente

prerequisito dell’insieme dei numeri naturali tra 23 e 24, è la ragione

della non esistenza di elementi che soddisfino la condizione. Di

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conseguenza, dato che non ci sono elementi, l’insieme vuoto è,

tautologicamente, vuoto. Ciononostante, l’insieme esiste in quanto è

possibile definirlo. Credo comunque che esso appartenga a un tipo

ontologico diverso da quello a cui appartiene l’insieme dei numeri

naturali tra 22 e 24.

Una proposta simile richiederebbe perciò una riformulazione

dell’assioma dell’insieme vuoto. La versione riveduta asserirebbe che

esiste un tipo di insieme la cui condizione definente è

autocontraddittoria e perciò tale insieme non contiene elementi39

. Una

soluzione di questo tipo sembra riesca a conservare lo statuto

ontologico dell’insieme vuoto, complicando leggermente la teoria

degli insiemi con l’introduzione di un concetto debole di insieme,

accanto al concetto forte della tradizione. In realtà, mi sembra che tale

concetto debole di insieme sia già presente, seppur in forma latente,

nei sistemi assiomatici. È curioso infatti che Zermelo, nella

formulazione dell’assioma dell’insieme vuoto, scelga di definire tale

insieme con la parola improprio. L’inconciliabilità degli elementi

distintivi dell’insieme vuoto con i criteri che definiscono il concetto di

insieme non deve essergli sfuggita. Per quanto questa soluzione

sembri soddisfacente, ritengo siano necessari ulteriori studi volti a

39

Una soluzione di questo tipo è adottata in FREGE, GOTTLOB, Über Sinn un

Bedeutung, Zeitschrift für Philosophie und Philosophische Kritik, Lipsia 1892.

Gottlob Frege sostiene che le descrizioni definite denotino oggetti, le descrizioni

indefinite denotino insiemi e le descrizioni improprie, ovvero contraddittorie,

denotino l’insieme vuoto.

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verificare se l’ammissione di predicati autocontraddittori non generi

molteplicità che a loro volta possano produrre antinomie.

Mi sento di avanzare una seconda soluzione ontologica. Ammettere

proprietà autocontraddittorie e tentare di creare un insieme, per quanto

debole, utilizzando simili proprietà come criteri definenti, può non

essere del tutto soddisfacente. Infatti, si è discusso a lungo 40

riguardo

l’opportunità di servirsi delle proprietà autocontraddittorie, sia in

tempi antichi, con Gorgia, Platone e Aristotele, sia in tempi moderni,

come testimonia il dibattito capeggiato dai filosofi Bertrand Russell,

da una parte, e Alexius Von Meinong, dall’altra.

Volendo dunque escludere l’introduzione delle proprietà

autocontraddittorie, con tutte le penose conseguenze, si può provare a

percorrere la strada dei mondi possibili. Tale prospettiva risale almeno

a Leibniz41

, ma vede la sua formulazione moderna nel lavoro del

filosofo David Lewis42

. Con «mondo possibile» si intendono quindi

tradizionalmente tutte le collezioni di stati di cose che non sono

necessari, ma nemmeno impossibili. Della nozione di mondo possibile

40

Un’interessante raccolta di tali obiezioni, nonché uno stimolante testo critico

sull’argomento, è rappresentato da BERTO, FRANCESCO, L’esistenza non è logica.

Dal quadrato rotondo ai mondi possibili, Laterza, Roma-Bari 2010.

41 In particolare, LEIBNIZ, GOTTFRIED WILHELM, Saggi di teodicea, disponibili nella

traduzione italiana in MUGNAI, MASSIMO, PASINI, ENRICO, Scritti filosofici, a cura

di, UTET, Torino 2000.

42 Si vedano LEWIS, DAVID, Teoria delle controparti e logica modale quantificata, in

SILVESTRINI, DANIELA, Individui e mondi possibili, a cura di, Feltrinelli, Milano

1976, LEWIS, DAVID, Counterfactuals, Blackwell, Oxford 1973 e LEWIS, DAVID, On

the Plurality of Worlds, Blackwell, Oxford 1986.

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si danno due interpretazioni. L’interpretazione attualista attribuisce

alla nozione di mondo possibile l’unico compito di costituire un utile

strumento per immaginare come avrebbero potuto ipoteticamente

presentarsi gli stati di cose attuali del mondo.

L’interpretazione che invece corrisponde al realismo modale

prevede un serio impegno ontologico nei confronti dei mondi possibili

e introduce dunque, accanto agli enti che popolano il mondo attuale,

anche enti che potrebbero popolare mondi possibili, accanto al mondo

attuale, un numero infinito di mondi possibili. Il mondo attuale infatti,

secondo tale prospettiva, è il modo in cui le cose stanno, mentre i

mondi possibili sono i modi in cui le cose avrebbero potuto stare.

Invece, le leggi logiche della necessità e dell’impossibilità sono

condivise dal mondo attuale e da tutti i mondi possibili.

Arrivando all’insieme vuoto quindi, una soluzione possibile è

quella di far corrispondere le condizioni definenti insiemi vuoti con

proprietà possibili, ma non attuali. Per fare un esempio, l’insieme

degli esseri umani con sei occhi è vuoto in questo mondo. Siccome

però non è logicamente contraddittorio che un essere umano abbia sei

occhi, tale insieme potrebbe avere elementi in un mondo possibile,

esattamente uguale al mondo attuale tranne che per questa

caratteristica. E forse anche per il fatto che i produttori di lenti a

contatto sarebbero sicuramente più ricchi.

Attraverso l’utilizzo di siffatta strategia, gli insiemi vuoti avrebbero

caratteristiche ontologiche del tutto identiche a quelle degli insiemi

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con elementi. Sia i primi sia i secondi sarebbero definiti da una

proprietà, ma per un caso, ovvero l’attualità o meno della proprietà in

questione, alcuni insiemi rimarrebbero vuoti. L’adozione di questa

strategia dunque riesce elegantemente a ricondurre l’insieme vuoto al

concetto di insieme, per quanto complichi non poco l’impegno

ontologico preso dalla teoria degli insiemi. Una soluzione c’è ed è

quella di considerare i mondi possibili solo in funzione euristica,

senza veramente impegnarsi sulla loro esistenza. Anche in questo

caso, ritengo che siano necessari studi successivi per accertarsi che

l’introduzione di proprietà soddisfatte da enti dei mondi possibili non

generi antinomie.

4. GLI INSIEMI VUOTI DI TROPI

Alla luce del fatto che lo scopo di questo lavoro è proprio quello di

verificare la conciliabilità della teoria degli insiemi con un’ontologia

dei tropi, è utile vedere quali delle soluzioni offerte possa essere

adottata dalla teoria dei tropi. Come si è detto, le prime due soluzioni

non intervengono sull’ontologia dell’insieme vuoto, in quanto la

prima lo nega mentre la seconda lo assume esclusivamente in quanto

ente fittizio. Tali soluzioni mi sembrano conciliabili con l’ontologia

proposta dai tropi. Il motivo è che ritengo che tale ontologia non

venga in nessun modo intaccata o modificata dall’adozione di una

delle due soluzioni, indiscriminatamente.

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Ciò che resta da provare dunque è la conciliabilità della teoria degli

insiemi con l’adozione delle proprietà autocontraddittorie, richieste

dalla terza soluzione, e delle proprietà non attuali, previste dalla quarta

soluzione. Poiché si tratta di due prospettive molto diverse, è

necessario analizzarle separatamente.

La prima proposta ontologica dunque prevede l’ammissione

nell’ontologia di proprietà autocontraddittorie, al fine di determinare

enti che necessariamente non possano vantare alcun tipo di esistenza

reale. Per quanto privi di esistenza reale, tali proprietà possono però

costituirsi come strumenti del pensiero e definire una condizione. Tale

condizione può allora indicare l’insieme vuoto, in quanto non può

essere rispettata da alcun elemento.

Per la teoria dei tropi, come è ormai chiaro, le proprietà sono

particolari astratti, che aggregandosi si concretizzano negli oggetti

materiali, da un lato, e formano gli oggetti astratti, dall’altro lato. Ciò

che compone l’essere a livello elementare dunque sono solo le

proprietà. Mi sembra allora che non sia possibile riferirsi a proprietà

autocontraddittorie, perché siffatte proprietà necessariamente non

esistono e non esistendo non possono aggregarsi e costituire un

insieme. Può essere tentata allora un’altra strada, cioè quella di

assumere oggetti auto contraddittori. Siffatti oggetti potrebbero

annoverare tra i fasci che ipoteticamente li compongono proprietà in

contraddizione tra loro. Ad esempio, posso immaginare un oggetto

concreto costituito da due tropi: il primo è un tropo come «questo

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rosso qui», mentre il secondo è un tropo come «questo verde qui».

Ovviamente, per quanto esistano oggetti colorati con sfumature

diverse, una determinata porzione di spazio-tempo non può

contemporaneamente essere denotata da due differenti proprietà

percepite dallo stesso senso. Quindi, un fascio così costituito sarebbe

contraddittorio e non potrebbe portare a compimento il processo di

aggregazione e di costituzione dell’ente. L’insieme vuoto infatti, in

quanto insieme improprio, si costituisce attraverso un processo che si

sviluppa fino a un certo punto, per poi bloccarsi a causa

dell’inconciliabilità dei principi che fondano il sistema a cui tale ente

appartiene.

Esattamente nello stesso modo quindi, il procedimento di

costituzione di un oggetto concreto che si basi su un fascio di tropi in

contraddizione tra loro, subisce a un certo punto un arresto, che non

gli permette di concludersi.

Un insieme vuoto dunque può essere chiamato improprio perché,

pur iniziando a costituirsi da un fascio di oggetti, tale fascio non riesce

a creare l’oggetto-insieme a causa della contraddittorietà dei tropi che

lo compongono. L’insieme vuoto non si determinerebbe quindi a

partire da elementi autocontradditori, ma a partire da insiemi

autocontraddittori. Ritengo però che tale soluzione non possa

funzionare innanzitutto perché è in aperta contraddizione con

l’assioma di estensionalità. Tale assioma infatti precisa che l’insieme

non è caratterizzato dal modo in cui i suoi elementi lo compongono.

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Per queste ragioni, definire un insieme autocontraddittorio in virtù

della contraddittorietà dei suoi elementi non ha assolutamente senso

per la teoria degli insiemi.

La soluzione dunque non convince. Oltre alla confutazione del

tentativo di utilizzare insieme autocontraddittori, va ricordato che la

prima proposta ontologica in origine prevedeva l’assunzione di

proprietà autocontraddittorie. Simili proprietà non possono essere

ammesse all’interno di un’ontologia dei tropi, dunque questa

soluzione deve essere rigettata senza indugio.

La seconda proposta ontologica invece proponeva di far

corrispondere all’insieme vuoto l’oggetto costituito da tropi non

attuali, grazie all’introduzione del concetto di mondo possibile.

Nonostante la resistenza di Donald Williams, un altro grande teorico

dei tropi, John Bacon, nel suo Universals and Property Istances: the

Alphabet of Being, ha ammesso i mondo possibili all’interno della

metafisica dei tropi. Secondo il filosofo australiano infatti le

prospettive sono molto facilmente conciliabili: il mondo attuale è

costituito dai tropi che esistono e, allo stesso modo, i mondi possibili

sono costituiti da tropi la cui esistenza, se pur non realizzata, è però

possibile. È interessante a questo punto ricordare che una delle ragioni

che hanno spinto John Bacon ha includere tropi possibili è proprio

quella di fornire un’adeguata trattazione delle proprietà non

esemplificate. Il filosofo infatti assegna a tali proprietà un tipo di

esistenza non realizzata nel mondo attuale, ma realizzabile in mondi

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possibili. Poiché, come è ormai chiaro, i tropi si aggregano in oggetti,

allora gli oggetti possibili ma non realizzati esistono nei mondi

possibili.

«Oggetto possibile ma non realizzato» è un’espressione che può

essere di difficile comprensione, in quanto non è chiaro a cosa si

riferisca. Un chiarimento può venire da esempi come l’oggetto astratto

possibile ma non realizzato che è «la mia amicizia con Socrate». Il

personaggio storico non esiste in questo mondo in questo momento,

ma posso immaginare un mondo possibile dove io e Socrate siamo

contemporanei e intrecciamo una relazione di amicizia. Un esempio di

oggetto concreto non realizzato può essere invece qualcosa di molto

semplice come «il volume della mia tesi di laurea». Oggi, 6 maggio

2011, nel mondo attuale, il volume della mia tesi non esiste, ma presto

queste pagine, stampate e rilegate, si comporranno a formare il

volume della mia tesi di laurea.

Ciò detto quindi, sembra che la soluzione ontologica dei mondi

possibili sia non solo realizzabile ma bene accetta. Resta da vedere se

sia una scelta sensata. Infatti, così facendo la teoria dei tropi si

renderebbe vittima delle obiezioni avanzate nei confronti delle

metafisiche che scelgono di adottare mondi possibili. Ammettere

mondi possibili dunque potrebbe comportare quindi un indebolimento

della teoria, piuttosto che un rafforzamento in termini di ampiezza

dell’applicazione.

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Inoltre, non costituisce assolutamente una manovra economica per

la teoria dei tropi introdurre i mondi possibili al solo fine di fornire

una soluzione per il problema dell’insieme vuoto. Questa osservazioni

vale in particolar modo se sono adottabili le due soluzioni

matematiche. L’applicabilità delle due soluzioni matematiche però

non è assolutamente scontata, per quanto possa apparire meno

complessa.

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OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

In questo lavoro ho cercato di applicare il sistema metafisico

proposto dalla teoria dei tropi al sistema matematico della teoria degli

insiemi. La verifica si rende necessaria perché la teoria degli insiemi è

stata elaborata all’interno di un sistema metafisico differente. Ecco

perché non è scontato che essa sia utilizzabile coerentemente con

l’adozione della metafisica dei tropi.

Armonizzare un sistema metafisico che rifiuti gli universali, come

la teoria dei tropi, con un sistema matematico che se ne serve, poteva

inizialmente sembrare un’ardua impresa. L’analisi che ho condotto ha

invece rivelato che, per quanto di sicuro la teoria degli insiemi utilizzi

gli universali, ciò che conta dal punto di vista metafisico è che a tali

universali non sia riconosciuto alcun tipo di statuto ontologico. Il

dominio da cui parte la fondazione della teoria degli insiemi infatti

non assume nessun tipo di impegno ontologico nei confronti degli

universali. Nient’altro è ammesso all’interno del dominio se non enti

semplici e individuali, a partire dai quali si possono costruire insiemi.

Di conseguenza, appare chiaro che, se una teoria matematica

ammette solo entità semplici e individuali, gli universali di cui si serve

non sono universali in senso forte, come ad esempio quelli ammessi

dalla metafisica realista. Per la teoria degli insiemi, gli universali non

esistono nella realtà, ma hanno un’esistenza esclusivamente

concettuale o nominale. Sono cioè enti che l’ontologia ammette solo

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all’interno della mente come utili concetti, oppure sono

semplicemente nomi di cui la mente si serve per riferirsi a gruppi di

elementi individuali.

Mi pare che questa analisi abbia evidenziato chiaramente che una

metafisica che voglia candidarsi al suolo di supporto ontologico per la

teoria degli insiemi deve rispondere a due criteri fondamentali. Il

primo criterio è che la metafisica preveda una trattazione degli

universali in senso concettualista o nominalista. Il secondo criterio, a

mio avviso più importante, è che si tratti di una metafisica che riduca

l’essere a entità di un solo tipo.

Nella teoria dei tropi, così come nella teoria degli insiemi, gli

universali sono ammessi esclusivamente in quanto concetti mentali

originati dalle manifestazioni dei particolari. Inoltre, la teoria ammette

un solo tipo di essere, offrendosi dunque come candidata ideale al

ruolo di supporto ontologico per la teoria degli insiemi.

È indiscutibilmente vero che la teoria dei tropi non sia l’unica

metafisica che ammette un solo tipo di essere, né che tratti gli

universali in senso debole. Dunque potrebbe non rivelarsi la più

consona a sostenere metafisicamente la teoria degli insiemi.

Quantunque prive di atteggiamento riduzionista, altre metafisiche

potrebbero anche rivelarsi più idonee a svolgere questo ruolo.

L’obiettivo di questo lavoro d’altronde non era quello di evidenziare

la metafisica più adatta per la teoria degli insiemi, ma di verificare la

coerenza del suo utilizzo da parte di chi affidi il suo impegno

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ontologico alla teoria dei tropi. Tale obiettivo può dirsi raggiunto,

anche se alcune questioni che ho sollevato restano ancora

fecondamente aperte. Ulteriori studi potrebbero approfondire questo

tema, appurando ad esempio se la teoria dei tropi sia innocente in

relazione ai paradossi della teoria degli insiemi e, viceversa,

controllando se le obiezioni mosse alla teoria dei tropi non comportino

conseguenze, metafisiche o matematiche, per la teoria degli insiemi.

La teoria dei tropi ha mostrato la sua forza in termini di semplicità

ed economicità. La potenza espressiva che la contraddistingue le

consente di farsi carico delle complesse esigenze ontologiche della

teoria degli insiemi. Inoltre l’atteggiamento riduzionista, piuttosto che

essere colpevole di attribuire rigidità al sistema, si rivela un punto di

forza per l’analisi della teoria degli insiemi.

Ho provato a verificare la coerenza della teoria dei tropi con la

teoria degli insiemi. Concludendo questa ricerca, mi avvedo come

molti altri siano i paradigmi metafisici che, di là dalla coerenza

formale, andrebbero sottoposti a ulteriori verifiche, con l’intento di

accertarne la conciliabilità con i paradigmi utilizzati dall’impresa

conoscitiva. Mi riferisco fra gli altri alle teorie della fisica moderna,

alle dottrine economiche e sociali o ai modelli epistemologici. Mi

auguro che questa agenda possa costituire il mio programma di ricerca

per i prossimi anni.

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RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare il professor Paolo Valore, per l’impegno e la

disponibilità che ha mostrato negli ultimi cinque anni. La sua passione

e la sua professionalità mi sono stati di grande esempio.

Desidero ringraziare anche a tutte le menti geniali che hanno

formulato le meravigliose teorie e i sistemi straordinari che mi hanno

incantata in questi anni di Università e hanno modificato

invariabilmente ciò che sono.

Ringrazio i miei meravigliosi amici Carolina Marsico, Fabio Prolo,

Daria Pitacco, Diederik Pierani, Eleonora Pinna, Alessandro Mezzetti

Federica Biotti, Marco Berretta e Nelson Haxhija. Ognuno di loro mi

ha regalato grandi momenti di divertimento, spontaneità, calore,

solidarietà e affetto sincero. La spensieratezza e la serenità che

abbiamo condiviso restano nel mio cuore, imprescindibilmente da

dove ci porterà il futuro.

Infine, dedico questo lavoro a mio padre Franco, che mi è stato

vicino in ogni momento della mia vita, aiutandomi davanti alle

difficoltà con infinita pazienza e spronandomi a dare sempre il meglio

di me. Non ha mai lasciato vacillare la mia fiducia nel mondo e nella

possibilità di raggiungere i miei obiettivi, per quanto ambiziosi.

Voglio ringraziarlo soprattutto per avermi trasmesso buona parte di

ciò che sono e per tutto quello che mi trasmetterà ancora da oggi fino

alla fine della nostra vita insieme.

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Tesi di Laurea di Costanza Brevini

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