TTEATROEATRO -  · Se i primi teatri stabili si ebbero all’epoca di Cesare, è nell’età...

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Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore TEATRO TEATRO Il genere comico dal II al I secolo a.C. L’atellana «letteraria» Il mimo La commedia in età Augustea La questione del teatro sotto Augusto

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Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore

TEATRO TEATRO

Il genere comico dal II al I secolo a.C.

L’atellana «letteraria»

Il mimo

La commedia in età Augustea

La questione del teatro sotto Augusto

Nell’ambito della palliata, come si è visto, nel II secolo campeggia la figura di Te-renzio. Di altri autori abbiamo testimonianza (e pochi titoli e versi) dagli antichi, manessuno, a quel che sembra, portò innovazioni. Anche l’ultimo in ordine cronologi-co, Turpilio (più o meno coetaneo di Terenzio, ma a lui a lungo sopravvissuto, mor-to ottantenne nel 104 a.C.), sembra si sia limitato a riproporre per lo più, seppurecon vivacità, motivi plautini e terenziani, fornendo, come Cecilio, un compromessofra i due tipi di comicità. Di lui ci sono pervenuti pochi frammenti della sua comme-dia Leucadia, che traeva il titolo dalla rupe di Leucade: da qui, secondo il mito, Saf-fo si era buttata giù dopo essere stata respinta dal giovane Faone, di cui si era per-dutamente innamorata; riprendendo questo mito, ma allo stesso tempo borghesiz-zandolo e ridendone, i commediografi – già Menandro aveva scritto una commediadallo stesso titolo – portarono sulla scena una giovane innamorata che, disdegnatadall’uomo amato, attraverso quel salto… ritrovava la ragione!La mancanza di novità sia sul piano tematico che su quello scenico portò dunquealla conclusione di un genere che, rinnovando radicalmente la commedia nuovagreca con Plauto prima, con Cecilio e Terenzio poi, aveva conosciuto un successodurato un secolo e mezzo.Coevo di Terenzio, o forse più vecchio, fu anche Titinio, autore e, secondo alcunistudiosi, fondatore, della fabula togata, («commedia in toga», e quindi in abito na-zionale), di ambientazione romana. Questo mutamento fu, con tutta probabilità, untentativo – letterario – di rinnovare un genere che cominciava a declinare. Ciò tutta-via non bastò: la togata riscontrò maggior successo presso il pubblico colto chepresso il popolo, e nel giro di circa un secolo la commedia scomparve dalla scenaromana se non per rappresentazioni dei vecchi autori.Purtroppo della togata sono sopravvissuti solo alcuni titoli e pochi frammenti, il checi impedisce di formulare ipotesi sicure sulle sue caratteristiche. Sembra comun-que che l’intreccio fosse simile a quello della palliata – di cui conservava anchel’uso dei cantica –, ma l’azione si svolgesse in qualche cittadina della provincia ita-lica e i personaggi fossero tratti dagli strati più bassi della società. Inoltre il perso-naggio del servus callidus, il servo furbo, che aveva rivestito un ruolo di primo pia-no nella palliata, pur continuando ad essere presente, non ebbe la stessa premi-nenza, forse perché non si addiceva alla mentalità romana, e quindi al suo ambien-te, l’idea di un servo più furbo del padrone.Dopo Titinio scrissero togatae Quinzio Atta, morto, secondo la cronologia di sanGirolamo, nel 77 a.C. e Lucio Afranio, (seconda metà del I sec. a.C.), ritenuto ilmaggior rappresentante di questo genere.

Il genere «comico» dal II al I secolo a.C.

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AfranioDi Atta ci è rimasto veramente poco, undici titoli e una ventina di versi. Di più – unaquarantina di titoli e oltre quattrocento versi – abbiamo di Afranio, che sappiamoprivilegiò come modelli Menandro e Terenzio:

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… fateor, sumpsi non ab illo modo,sed ut quisque habuit, conveniretquod mihi,quod me non posse melius facerecredidi,etiam a Latino.

… lo confesso, ho preso spunto non [da lui (Menandro) soltanto

ma da chiunque avesse quel che più[si convenisse,

quel che credevo di non poter far[meglio

anche dal Latino (Terenzio).

Compitalia

Versi evidentemente in risposta (così come nei prologhi di Terenzio) ad accuseche gli erano state rivolte sull’uso che aveva fatto della contaminatio. A Terenzio rinvia anche il tono di altri frammenti (come questo da Consobrini, «I cu-gini») per l’attenzione ai problemi educativi, l’atteggiamento pensoso, l’humanitas:

em isto parentum est vita vilis [liberis

ubi malunt metui quam vereri se ab [suis.

I genitori che si adoperano più diessere temuti che non di essereamati dai figli ottengono soltantoche questi perdono la sollecitudinedi vederli in vita.

Consobrini

si non vereare, nemo vereatur tui se non avrai riguardo per nessuno,[nessuno avrà riguardo a te.

Altro tema drammatico prediletto, come gli rimprovererà poi Quintiliano, sembra es-sere stata l’omosessualità, da lui introdotta sulla scena. Nei frammenti che possediamo risulta la capacità del poeta di descrivere situazioni…

Occasionem nacta mulier involatin collum, plorat orat, occurrit

[nepospausillus, neptis porro de lecto

[frigit.

Colto il momento la donna gli getta [le braccia

al collo, lacrimando lo implora, [irrompe il nipote

piccolino, quello ancor più piccolo [frigna a sua volta dalla culla.

e personaggi. Nel frammento che segue, con espressiva allitterazione, suggerisceallo spettatore l’immagine del muro con il contrasto fra l’interno, marcio, e l’esterno,ridipinto ad indicare la falsità del personaggio il quale si vuole mostrare, e quindiappare, diverso da come è nel suo intimo:

voltus est fallaci aspectu, paries[pictus putidus

la sua faccia è di aspetto [ingannevole, è un muro

[marcio ridipinto.

fr. 1; trad. di L. Canali

fr. 1; trad. di E. Paratore

v. 31 Ribbeck; trad. di E. Paratore

vv. 245-247 Ribbeck;trad. di G. Chiarini

v. 14 Ribbeck;

L’ultimo tipo di spettacolo del teatro «comico» latino che conobbe un’elaborazioneletteraria fu l’atellana, la vecchia farsa osca, verso la fine del II-inizio I secolo a.C.Autori ne furono Lucio Pomponio, inventore di questo genere, di cui ci sono rimastiduecento versi circa e settanta titoli, e Novio di cui abbiamo cento frammenti equaranta titoli. Configuratasi a Roma già ai suoi inizi, nella fase preletteraria dunque, come exo-dium, comica finale o intermezzo, anche quando non fu più lasciata all’improvvi-sazione ne conservò alcune caratteristiche, il tipo di comicità, oscena e volgare,affidata a immagini e doppi sensi, e le maschere fisse (Macco, Bucco, Pappo,Dosseno). Questo ritorno alla comicità delle origini nacque probabilmente dall’esigenza di ri-trovare la verve comica perduta. Come nella palliata erano importanti equivoci, beffe, intrighi ed inganni; in comunecon la togata ebbe l’ambientazione, che era in provincia, e il tipo di personaggi, perlo più umili per ceto sociale; l’atellana dunque si configura come farsa cittadina chemette in caricatura l’ambiente rustico. Dai frammenti risulta l’uso di una lingua riccadi tratti popolari, con giochi linguistici e, a volte, parole inventate: ecco qualche ver-so di Pomponio:

L’atellana «letteraria»

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at ego rusticatim tangam; [urbanatim nescio

io invece raggirerò da contadino; da[cittadino non so farlo

perii! non puella est! num quid [abscondidisti inter nates?

Sono spacciato! Non è una ragazza!Non avrai mica nascosto qualcosa

[fra le natiche?

Miseret me eorum, qui sine frustisventrem frustrarunt suum.

Ho pietà di quelli che senza frusti1

frustrarono il proprio ventre.

Non mancano versi in cui è presente l’allusione politica: un esempio tratto dal Pap-pus praeteritus (= «Pappo silurato») di Pomponio:

Pappus praeteritus

Populis voluntas haec enim et [vulgo datast:

Regragant primo, suffragabunt pos, [scio.

La volontà del popolo questa è in[effetti, è prassi comune:

prima ti silurano ma poi ti [eleggeranno, lo so.

Da altri titoli come, ad esempio, Agamemno suppositus = «Il falso Agamennone»,Armorum iudicium = «Il giudizio delle armi», di Pomponio, Hercules coactor = «Er-cole esattore», di Novio, si ricava che fu presente in essa anche la parodia tragicae mitologica. Un esempio dal Maccus exul di Novio, dove Macco saluta con parole solenni unaporta, forse quella di casa prima di partire per l’esilio o quella di un’osteria, che ri-corda il Mercator di Plauto in cui Carino (v. 830) con tono e parole simili aveva reci-tato: limen superum inferumque salve, simul autem vale!

Novio

1. «Frusto (di pane)» è il pezzo di pane.

Lucio Pomporio

fr. 7 Ribbeck; trad. di P. Frassinetti

v. 62 Frassinetti; trad. di P. Frassinetti

fr. 79 Ribbeck; trad. di L. Canali

fr. 105-106 Ribbeck; trad. di L. Canali

limen superum, quod mei misero [saepe confregit caput,

inferum autem, ubi ego omnis [digitos diffregi meos.

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o architrave, che spesso ha rotto la[mia povera testa;

o soglia, dove mi sono spezzato [tutte quante le dita!

Alla scrittura di atellane, forse di argomento mitologico, si dedicò, pare, anche Silla.Di autori posteriori, probabilmente di età imperiale, conosciamo solo il nome –Mummio e Aprissio (?) – o poco più.Breve fu la fioritura della forma letteraria dell’atellana che però, come spettacolo diintrattenimento, continuò a conoscere un grande successo e «forse fece parte del-l’eredità teatrale trasmessa dal mondo antico al medioevo» (Beare).

Come l’atellana, doveva essere rappresentato come farsa finale, il mimo, vicino aigusti della plebe romana, il quale nell’età di Cesare, il I secolo a.C., raggiunsel’apice del successo anche in forme letterarie che furono curate da Decimo Laberioe Publilio Siro. Il testo tuttavia era scritto solo parzialmente, mentre gran parte del-lo spettacolo continuò ad essere affidato all’improvvisazione. A questo, il più licen-zioso fra quelli che si davano a Roma, si dedicavano compagnie di attori girovaghi(di solito due o tre, più raramente quattro), scarsamente considerati o, meglio, dis-prezzati, sul piano sociale. Affiancati a quello della stupidità, presente in tutti i tipi di spettacolo comico, temiprediletti, a quel che appare dai frammenti (ce ne sono pervenuti centoquaranta equarantadue titoli), dovettero essere l’adulterio e l’omosessualità che dovevano da-re facili occasioni a pesanti battute e scene licenziose, e la mordace allusione poli-tica, che, se escludiamo Nevio, nessun commediografo aveva usato negli altri tipidi spettacolo comico: così Laberio, per vendicarsi di Siro, suo rivale, appoggiato daCesare, con evidente allusione allo strapotere del proconsole:

Il mimo

necesse est multos timeat, quem[multi timent

bisogna che tema molti, chi è [temuto da molti

Numerosi sono divertenti giochi di parole:

ad amorem iniciendum delenimenta [esse

deliramenta, beneficia autem [veneficia

per infondere amore le lusinghe [sono

deliri e i benefici sono venefici

non mammosa, non annosa, non [bibosa, non procax

non fornita di ampio petto, non ric-ca di primavere, non amante del vi-no, non petulante

Di Publilio Siro abbiamo una raccolta (circa 700 versi) di brevi sentenze, massimemorali, che davano forse al genere, pur sempre osceno e licenzioso, un nuovo tonomoraleggiante che incontrava, come ci testimonia Seneca (Ad Luc. 108, 8), il favo-re del pubblico.

fr. 49 Ribbeck; trad. di F. Frassinetti

v. 139 Bon.; trad. di M. Bonaria

vv. 121-122 Bon.; trad. di M. Bonaria

v. 99 Bon.; trad. di M. Bonaria

Decimo Laberio

Publilio Siro

Se i primi teatri stabili si ebbero all’epoca di Cesare, è nell’età augustea che questiconobbero un particolare sviluppo. In questa continuarono ad essere rappresentati i testi teatrali comici delle età pre-cedenti, oltre ad alcuni, per noi perduti, che venivano scritti in quegli anni, ma nonvi furono novità di rilievo nella loro composizione. Un tentativo di rinnovamento, adopera di un liberto di Mecenate, possiamo intravvedere nella trabeata (dalla tra-bea, il mantello dei cavalieri), commedia che metteva in scena come protagonistinon più i personaggi della commedia plautina e terenziana, ma gli equites, i cittadi-ni appartenenti all’ordine equestre, forse per assecondare le tendenze aristocrati-che del suo circolo. Tali tentativi però non uscirono dall’ambito della letterarietà e ri-masero senza seguito: ormai la commedia era in declino, e non è escluso che taliopere fossero destinate più alla lettura dinanzi a un pubblico colto che alla rappre-sentazione. Incontravano maggior successo presso il vasto pubblico del teatrospettacoli – a quanto ci dicono gli scrittori di età imperiale come Plinio il Giovane,Quintiliano, Tacito – triviali o immorali, sia che si trattasse di recitazione, come av-veniva per l’atellana, sia di mimo. L’atellana, dopo aver conosciuto una «nobilitazio-ne» letteraria da parte di Pomponio e Novio, di cui si è parlato, tornò probabilmentealla sua forma originaria semiimprovvisata, avvicinandosi sempre più al mimo; que-sto, che sta ad indicare «ogni tipo di spettacolo “imitativo”, dalla semplice mimica acommediole con più personaggi articolate in diverse scena» (W. Beare) quandonon fu puramente letterario, ma destinato al palcoscenico, era in forma non metricae largamente improvvisato. Non ne possediamo nessuno, ma possiamo farceneun’idea leggendo alcune scene di un mimo greco conservato in un papiro del II se-colo d.C. Il mimo «segnò per sempre sulle scene romane il trionfo del gesto e dellamusica sulla parola, cioè dello spettacolo sull’arte» (A. Traina).Non avendo bisogno di un’atmosfera di libertà come il dramma e non comportandoparticolari esigenze sceniche si mantenne in vita lungamente, nonostante la cen-sura dei padri della Chiesa che ne condannavano la licenziosità; ma, in risposta, isuoi attori divertivano il proprio pubblico con parodie dei sacramenti.

La commedia in età augustea e nei primi secoli dell’impero

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Cavea e fronte scenico delteatro di Aspendo.

Particolarmente attento agli strumenti che potevano creargli il consenso popolare,Augusto nutriva grande interesse per gli spettacoli teatrali, sia nella forma tradizio-nale della tragedia e della commedia, sia in quella dei nuovi generi dell’atellana,del mimo, del pantomimo. Il teatro aveva una forte presa sul pubblico, era di per séun medium potente, il più adatto a veicolare i temi della propaganda imperiale. Eral’unico genere in grado di influenzare un numero rilevante di destinatari illetterati.Ma il teatro non era solo funzionale alla diffusione dell’ideologia del principe: inparticolare nel pantomimo – il genere teatrale più popolare in età imperiale e nelquale prevalevano la scenografia, la musica e la danza – i contenuti erano poco ri-levanti. Il teatro, al pari dei ludi circensi e degli altri divertimenti della folla, garantiva ancheun immediato ritorno d’immagine e visibilità all’uomo politico che vi si recava. Ora-zio descrive l’applauso scrosciante col quale una folla immensa accoglie l’entratain teatro di Mecenate, il potente «ministro della cultura» di Augusto (Carm. I 20, 2ss.). Anche Cicerone ricorda gli ingressi trionfali dei politici nei luoghi delle rappre-sentazioni sceniche. Inoltre, per l’impatto emozionale, lo spettacolo teatrale si pre-stava a divenire uno strumento di mozione degli affetti nelle mani di un principe co-me Augusto, deciso a rafforzare in senso autocratico il proprio potere. La funzionepolitico-psicagogica era apparsa già chiara a Roma quando, durante i funerali diCesare, sia furono fatti recitare da Antonio versi di Pacuvio atti ad accendere nelpopolo lo sdegno verso i cesaricidi, sia fu vietata la messa in scena del Brutus diAccio, nel timore che suscitasse simpatie per i capi della congiura. Per questi motivi Augusto incoraggiò il teatro, ottenendo che intellettuali come Asi-nio Pollione, Vario, Fundiano liberto di Mecenate e lo stesso Ovidio si cimentasse-ro in tale genere. Di Vario resta il ricordo di una tragedia di successo, il Thyestes;Ovidio scrisse una Medea, che non ci è pervenuta. È di particolare interesse, per comprendere l’atteggiamento degli intellettuali au-gustei riguardo al progetto augusteo di rilancio del teatro, l’Epistola II 1 di Orazio,indirizzata ad Augusto. In questo «rapporto sullo stato contemporaneo della poe-sia» (Kiessling-Heinze) Orazio polemizza contro la poesia arcaica, consideratarozza, dilettantesca, priva di elaborazione formale. In questo ambito letterario sicolloca anche la poesia drammatica, attualmente degenerata a causa del cattivogusto del pubblico e che tuttavia il principe sembra preferire alla moderna poesiadi lettura: la sola – nobilitata dagli ormai scomparsi Virgilio e Vario – adeguata aillustrare degnamente la figura dell’imperatore e a tramandarne la memoria ai po-steri. Ma le conquiste della poesia moderna difficilmente potrebbero conciliarsi colteatro, a causa del carattere popolare di questo genere costretto ad adeguarsi alcattivo gusto, che ormai non è più solo della plebicula, ma dell’intero popolo ro-mano, compresi gli eques che un tempo rappresentavano il pubblico degli intendi-tori. La poesia drammatica appare ad Orazio incompatibile con gli ideali di raffina-tezza e di elaborazione artistica che egli ritiene indissolubilmente congiunti conogni vera poesia. Se Virgilio aveva compiuto il miracolo di conciliare la «funziona-lità» (in rapporto al progetto augusteo) dell’epica enniana con l’alto livello artisticoereditato dall’esperienza neoterica, Orazio non pensava che una simile sintesi po-tesse attuarsi nel genere drammatico, da sempre destinato a piacere al grandepubblico.

La questione del teatro sotto Augusto

La questione del teatro sotto Augusto 413

Un medium della propaganda imperiale

Teatro e azione politica

Augusto e il teatro

L’epistola ad Augusto di Orazio (vv. 170 ss.). Nel passo seguente Orazio critica la poesia drammatica, che dai tempidi Plauto bada solo al successo di cassetta ottenuto presso un pubblico grossolano, capace di interrompere lo spettaco-lo teatrale per chiedere gli orsi e i pugili, sensibile solo agli effetti speciali di una scenografia improntata al gusto per ilKolossal. Proprio il cattivo gusto dominante distoglie gli ingegni migliori dal teatro e rende problematica la possibilità, au-spicata dal principe, di una rinascita della poesia drammatica.

Guarda Plauto […] ha una frenesia di ficcare quattrini nel borsellino, dopo di ciò non curandosi sela commedia cade o se bene si regge in piedi […] Vada a farsi benedire il teatro, se una palma ne-gatami deve farmi tornare a casa più magro, una concessa più grasso! Spesso un’altra cosa mette infuga e spaventa il poeta pur audace, il fatto cioè che coloro che sono per numero superiori, per me-rito e lustro inferiori, incompetenti, stupidi e pronti a fare a pugni se i cavalieri dissentono, nel belmezzo del dramma vogliono vedere un orso o dei pugilatori; ché di queste cose gode il popolaccio.Ma ormai anche nei cavalieri tutti il piacere s’è trasferito dalle orecchie agli occhi instabili e alleloro gioie vane. Per quattro o più ore sta calato il sipario, mentre sfilano velocemente squadroni dicavalieri e masse di fanti. Poi vengono trascinati, con le mani legate dietro la schiena, re sventura-ti, passano rapidi carri da guerra, carri di lusso, carri da trasporto, navi, viene portato l’avorio pri-gioniero, prigioniera l’intera Corinto. Se fosse sulla terra, ben riderebbe Democrito […] Egli osser-verebbe più attentamente il pubblico che lo spettacolo in sé, giudicando che gli offrisse uno spetta-colo senza confronti maggiore, e penserebbe che gli autori raccontassero una storiella a un asinellosordo. Infatti quali voci mai vi furono che potessero vincere il rumore che fanno sentire i nostriteatri? Che il bosco del Gargano muggisse crederesti o il mare Tosco: tanto è lo strepito con cui siguardano gli spettacoli teatrali e gli oggetti d’arte e le preziosità esotiche, che, appena l’attore truc-cato con esse si presenta sulla scena, fanno sì che la mano destra degli spettatori sbatta con la sini-stra. «Ha detto qualcosa finora?», «Proprio niente», «Allora cos’è che ti piace?».

(trad. di E. Pasoli)

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Il teatro

Le tragedie di Seneca

L’Octavia, una praetextaattribuita a Seneca

La fortuna del pantomimo

Di Seneca il filosofo (vedi il profilo a p. 456) restano nove tragedie di soggetto mi-tologico greco (cothurnatae), tramandate in quest’ordine nel manoscritto Etru-scus della Biblioteca Laurenziana: Hercules furens, Tròades, Phoenissae, Me-dèa, Phaedra, Oèdipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules Oetaeus. Un altrogruppo di manoscritti conserva una decima tragedia, l’Octavia, di argomento ro-mano, una praetexta probabilmente opera di un imitatore (vedi p. 528). Di questetragedie – le sole, di tutta la letteratura latina, giunteci in forma non frammentaria– non è possibile ricostruire la cronologia. Si ritiene che siano state composte nelperiodo in cui il filosofo affiancò Nerone prima come precettore, poi come consi-gliere. Il genere tragico, di cui nei tempi precedenti Augusto aveva invano auspicato larinascita in appoggio al suo progetto politico, in età giulio-claudia rifioriva come ilgenere più adatto a esprimere l’opposizione dell’élite intellettuale senatoria alprincipato. Anche nelle tragedie di Seneca è assai forte la carica antitirannica,ma questa non va intesa come una contestazione del regime. Seneca infatti nonfu mai un oppositore politico, neppure ai tempi dell’esilio in Corsica, quandos’inchinò ad adulare il principe. In realtà «le tirate antitiranniche delle tragediepotevano passare solo se rivolte, non contro ma al potere, come paradigmi nega-tivi di un discorso parenetico» (Traina). Le tragedie obbedivano insomma all’in-tento pedagogico di mostrare al principe soprattutto gli effetti devastanti di un po-tere irrazionale e dispotico, chiuso alla moderazione e alla clemenza. Così, adesempio, nel Thyestes Atreo, il tiranno crudele sordo ai consigli di temperanzadel buon consigliere – un personaggio, questo, sempre presente nelle tragedie ein cui Seneca più o meno consapevolmente proietta se stesso – si vendica delfratello Tieste, che rappresenta il regnante illuminato. Atreo uccide i figli di Tiestee a sua insaputa glieli offre in pasto, dopo una meticolosa preparazione, descrit-ta con profusione di particolari raccapriccianti, dei cadaveri per la cottura. Infinecon trionfante sadismo rivela l’atroce misfatto: Direttamente alla ferita dovevo abbeverarti di sangue, del caldo sangue deiviventi... affondai la spada nelle loro ferite, li feci a pezzi sugli altari...spezzai le membra in piccoli frammenti, li gettai in bollenti caldaie.

Le tragedie rappresentano un tragico contrasto: tra ragione e passione, tra libertà eschiavitù, e soprattutto tra tiranno assetato di sangue e re moderato e clemente,ispirato ai dettami della saggezza stoica. Il fatto che si tratti in buona misura deglistessi temi stoici svolti nei Dialoghi ha fatto pensare che il teatro di Seneca mirassea esemplificare, attraverso le vicende del mito, la dottrina stoica e che le tragediefossero un aspetto del suo insegnamento morale, un altro modo della sua predica-zione. In particolare l’Hercules furens e l’Hercules Oetaeus – ma l’attribuzione a

Le tragedie di Seneca

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Un teatro di esortazione

trad. di L. Perelli

I contenuti stoici

Il teatro tragico di età neroniana

Seneca di questa tragedia è sospetta – hanno per protagonista l’eroe che, nella fi-losofia ellenistica, era simbolo del saggio in lotta contro le perturbazioni dell’animo.Senonché nell’universo tragico senecano il principio razionale stoico che governa ilmondo non prevale mai sulle forze del male. Sono le passioni e l’elemento demo-niaco che determinano il corso degli eventi e la legge che domina il mondo sembraessere quella enunciata dal coro della Fedra: La Fortuna regna sulle vicende umane senza discernimento e dispensa isuoi doni alla cieca, favorendo i peggiori (978 ss.).Forse anche la cupezza della visione si può spiegare in termini di funzionalità edu-cativa, cioè volta ad esemplificare al principe (ma non solo a lui) gli effetti nefastidell’incapacità di dominare le passioni: «Il mito essendo ormai da lungo tempo de-stituito di qualsiasi preciso valore religioso e mistico, era passato a simoboleggiare,secondo una pratica già in uso nella setta degli Stoici, la vita morale dell’umanitànell’ormai usuale profilo del contrasto tra saggezza e passioni. E un poeta tragicoche di tali passioni voleva raffigurare tutto lo smisurato orrore... nella sua barroc-chissima età doveva essere più che mai tentato a forzare le tinte per ricavare, dalcupo fondo minoico dei miti ellenici, tutta la più tenebrosa raffigurazione della mise-ria umana» (Perelli).L’opinione più diffusa è che le tragedie di Seneca non fossero destinate alla rap-presentazione scenica, ma alla lettura nelle sale di recitazione (odèa) secondol’uso prevalente (ma non esclusivo) in età imperiale. Lo dimostrerebbe l’eccessivamacchinosità di un’eventuale messinscena, la spettacolarità truculenta che mal siconciliava coi modelli del teatro greco, lo stile fastoso e «barocco» adatto a drammiche contavano soprattutto sull’espressività della parola. Anche l’alto grado di perfe-zione metrica sembra caratterizzare una scrittura destinata alla voce del recitatorepiuttosto che al palcoscenico. E poi non è da sottovalutare la pericolosità socialeche avrebbe comportato il presentare al grosso pubblico, facilmente eccitabile, vi-cende di tiranni truci e sanguinari. La destinazione alle recitationes sarebbe inoltreconfermata dalla staticità dei personaggi privi di evoluzione psicologica, dallo scar-so interesse che l’autore mostra per il dipanarsi dell’azione secondo una tramaprecisa, dal risalto dato a parti prive di funzionalità scenica. Infatti abbondano lesezioni riflessive e argomentative, e le lunghe tirate con carattere di soliloquio,spesso sostitutive del dialogo vero e proprio. Anche le continue digressioni eruditecontribuiscono a ritardare l’azione.I modelli sono quelli del teatro greco (in particolare Euripide), che Seneca tradu-ce assai liberamente, contaminando varie versioni, adattando, modificando a suopiacimento i contenuti mitici, spesso filtrandoli attraverso il gusto dei poeti augu-stei, soprattutto di Ovidio. Tra i soggetti greci sono privilegiati quelli che compor-tano atroci delitti, passioni morbose, patologie dell’animo. Dalla tragedia latinaarcaica deriva l’esasperazione espressionistica dei toni, il gusto dei particolariraccapriccianti, l’atmosfera cupa, macabra, densa di orrore, l’accumulazioneespressiva: caratteri, questi, che del resto erano in sintonia col gusto «barocco»dei tempi di Seneca.

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La destinazione alla lettura

I modelli

Il dilemma di Medea (Actus V, vv. 923-1027). La vicenda è la stessa del dramma di Euripide (vedi il riassunto della tra-ma a p. 36) e si connette al mito degli Argonauti svolto da Apollonio Rodio e, nella letteratura latina, da Varrone Atacino,Ovidio, Lucano. Siamo all’atto finale. Medea, respinta da Giàsone intenzionato a sposare Creusa, è ormai decisa a ri-prendere i propri poteri di maga, ma perché ciò avvenga è costretta a uccidere i figli. Il passo esprime la dilacerazioneintima della donna, il cui animo oscilla tra l’irrefrenabile ardore di vendetta e l’orrore del matricidio.

ME. = MEDEA; GIA. = GIASONE

ME. Mi piace questo genere di pena, e a ragione, mi piace: all’estremo delitto, lo vedo, deve ap-prestarsi l’animo. Figli, un tempo miei, espiate ora le colpe paterne. (pausa, poi esitante)L’orrore m’agita il cuore, un gelo m’intorpidisce le membra e il petto trema. L’ira è scom-parsa e torna tutt’intero l’amore materno, scacciati i sentimenti di sposa. Io dovrei spargereil sangue dei miei figli, della mia stirpe? Ah, meglio ragiona, pazzo furore! anche l’idea sialontana da me, di questo crimine inaudito, di questa crudele empietà; quale delitto pagheran-no essi miseri? Delitto è aver padre Giasone e delitto maggiore Medea madre. (pausa) Sianouccisi, non sono miei1; periscano, sono miei. Sono senza delitto e senza colpa, sono innocen-ti: io lo confesso. (breve pausa) Lo era anche mio fratello. Perché, animo mio, vacilli? per-ché le lacrime bagnano il mio volto, ed ora l’ira, ora l’amore mi tirano indecisa da una partee dall’altra? Una duplice furia mi trasporta mentre esito; come quando i venti impetuosi fan-no atroci guerre, discordi i flutti dovunque portano il mare e l’oceano ribolle, così il miocuore ondeggia. L’ira caccia l’amore, l’amore l’ira. Cedi all’amore, mia pena. Venite, figlimiei, (escono i figli dalla casa) solo conforto della mia casa infelice, venite e abbracciatemiforte. Sani e salvi vi abbia vostro padre, purché tali vi abbia anche la madre. Mi pressanol’esilio e la fuga. Presto mi saranno rapiti, strappati al mio seno, tra le lagrime, e gementi trai baci. (con crudele angoscia) Muoiano al padre: per la madre sono morti. (pausa) Di nuovos’accresce la mia collera, l’odio divampa; l’antica Erinni2 mi riafferra la mano che non vuo-le. O ira, ti seguo dove mi conduci. Fosse uscita dal mio seno la prole della superba Tantali-de3 e due volte fosse stata madre di sette figli! Fui sterile per la mia vendetta; ne ho partoritidue che bastano a mio fratello e a mio padre. (pausa) Dove va questa turba sfrenata di Fu-rie? chi cerca? perché prepara i suoi dardi di fiamma, contro chi l’infernale schiera rivolge lefiaccole sanguinose? (con magica solennità) Un gigantesco serpente sibila ritorto nella suasferza vibrante. Megera4 chi insegue con la torcia ostile? Chi è lo spettro che viene esitantecon le membra dilaniate? (breve pausa: poi con un urlo) Mio fratello! esige vendetta:l’avrai, intera. Conficcami negli occhi le tue fiaccole, dilaniami, bruciami; ecco, il mio pettos’apre alle Furie. (pausa) Ordina, fratello alle dee vendicatrici di allontanarsi da me e di an-dare tranquille ai Mani fraterni: lasciami a me stessa e serviti, fratello, di questa mano cheha impugnato la spada. (colpisce uno dei figli) Con questa vittima plachiamo i tuoi Mani.(pausa) Che è questo frastuono improvviso? Si preparano le armi, mi cercano per uccidermi.Salirò sul più alto tetto della casa, ora che la strage è incominciata. (al figlio vivo, con tragi-ca ironia) Tu vieni, con me compagno. (al figlio morto) Anche il tuo cadavere porterò viacon me. Suvvia, animo mio: non devi dissipare in segreto la tua potenza; fa vedere a tuttiche cosa può la tua mano.(Medea sale sul tetto della casa, trascinando il cadavere del figlio morto e portando permano il vivo. Sopraggiunge Giasone con una scorta di armati).

GIA. (ai soldati) Uomini fidi che vi dolete delle sciagure dei vostri re, accorrete, prendiamol’autore di questo orrido delitto. Qui, qui, portate i vostri dardi, soldati di una invitta coorte,distruggete dalle fondamenta la casa.

ME. (trionfale) Ormai, ormai ho riavuto scettro, fratello, padre, e i Colchi posseggono la spogliadell’ariete d’oro; sono tornati i regni, torna la verginità rapita. O numi, finalmente benigni, ogiorno di festa, o nozze! Va’, il delitto è compiuto, la vendetta non ancora: continua, mentresono ancora calde le mani. Perché indugi animo mio? perché esiti, tu possente? (con altrotono) L’ira è già caduta. Mi pento del mio atto, mi vergogno. Che feci, misera? misera? Mal-grado mi penta, l’ho fatto? Una grande voluttà m’invade contro mia voglia, ecco cresce. So-lo questo mi mancava: lui spettatore. Nulla ritengo d’aver fatto sino ad ora: ogni delitto, cheho compiuto senza di lui, è stato vano.

526 Il teatro tragico di età neronianaA

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1. La frase occidant, non sunt mei;/ pereant mei sunt esprime la tragica contraddittorietà del considerare i figli comenon suoi – in quanto ripudiata, non li sente più tali – e nel contempo come suoi, data l’impossibilità di annullare il vin-colo dell’amore materno.

2. L’antica Erinni è la furia che aveva già guidato la mano di Medea ad uccidere il fratello e il suocero.

3. La superba Tantalide è Niobe, che pretese d’essere superiore a Latona e fu punita da Apollo e Diana, che le ucciseroi quattordici figli (sette maschi e sette femmine).

4. Megera, una delle tre Furie (le altre due sono Tisifone e Aletto).

Le tragedie di Seneca 527

GIA. (scorgendo Medea, ai soldati, feroce) Eccola, sovrasta sul limite del tetto. Il fuoco qualcunovi porti, e cada bruciata dalle fiamme.

ME. (a Giasone, beffarda) Prepara, Giasone, per i tuoi figli le esequie estreme e innalza il sepol-cro: la tua sposa e il tuo suocero hanno già gli onori dovuti ai defunti, sepolti da me; uno deituoi figli, eccolo, ha avuto la morte, quest’altro alla tua presenza avrà lo stesso destino.

GIA. (supplicando) Per tutti i numi, per le nostre fughe, per il letto maritale che la mia fedeltà nonviolò mai, risparmia mio figlio. Se vi è un delitto, è mio: mi offro alla morte; sacrifica mecolpevole.

ME. (spietata) Proprio lì dove tu non vuoi, dove tu hai dolore, lì spingerò l’arma. Va’ orgogliosoora, cerca il letto della vergine, abbandona chi hai reso madre.

GIA. Uno solo basta alla mia punizione.ME. Oh, se la mia mano potesse saziarsi d’una sola morte, nessuna morte avrebbe cercato. Anche

se li uccidessi tutti e due, sarebbe troppo poco per la mia pena. Se si nasconde ancora nelmio seno materno un tuo pegno d’amore, frugherò colla spada le viscere e lo estrarrò colferro.

GIA. Ormai compi il delitto incominciato, più non ti supplico, risparmia, almeno, questa attesa almio supplizio.

ME. (con crudele voluttà) Goditi il lento delitto, non aver fretta, mia collera: questo giorno èmio; mi servo del tempo a me concesso.

GIA. (con odio) Nemica, uccidimi!ME. Tu mi dici di aver pietà. Bene, ho finito. (uccide l’altro figlio) Non ho più nulla da sacrifi-

carti, mio dolore. Solleva qui i tuoi occhi pieni di pianto, ingrato Giasone. Riconosci la tuasposa? Così sono solita fuggire. (scende dal cielo un carro alato. Un’aura quasi divina illu-mina Medea) S’è aperta la via verso il cielo: due serpenti squamosi offrono il collo sotto-messi al giogo. Prenditi ormai i tuoi figli, padre. Io me ne andrò nell’aria sul carro alato.(trasportata dal carro alato, sparirà nell’aria).

GIA. (con amaro sarcasmo) Vattene per gli alti spazi del cielo sublime, attesta che non vi sono Id-dii là dove tu ti sollevi.

(trad. di B. Gentili)

Bozzetto per la messa in scena della Fedra di Racine.

La tradizione manoscritta attribuisce a Seneca anche l’Octavia una tragediad’argomento storico romano, cioè una praetexta, che svolge la triste vicenda dellaprima moglie di Nerone, ripudiata e poi uccisa dall’imperatore. Il fatto che Senecastesso compaia nel dramma, nella veste del buon consigliere che tenta di dissua-dere Nerone dal misfatto, è indice della falsità dell’attribuzione, giacché nessun au-tore antico aveva mai posto se stesso sulla scena. Inoltre la morte di Nerone è de-scritta con particolari troppo rispondenti alla realtà, quindi non può essere statascritta da Seneca, che era morto nel 65 d.C, tre anni prima dell’imperatore. Nerone ripudia Ottavia, figlia di Messalina e di Claudio, per passare a seconde nozze conPoppea. Seneca esprime la propria contrarietà alla decisione dell’imperatore, ma è un con-sigliere ormai inascoltato. Dopo aver domato l’insurrezione dei fautori di Ottavia, il principemette in atto il suo progetto. La donna viene mandata a morte, dopo aver dato prova di for-za e coraggio stoici. In chiusura della tragedia appare l’ombra di Agrippina, madre di Nero-ne e sua vittima, che predice la rovina del figlio: «Sconterà con la sua vita di assassino idelitti e porgerà la gola ai nemici, abbandonato, vinto, privo d’ogni sostegno» (vv. 629-631).Questa profezia diviene l’incubo di Poppea, cui appare in sogno la scena terribile in cui Ne-rone, tremante, affonda nella propria gola la spada crudele. L’opera, ambientata nell’anno 62 d.C. a Roma, è quasi certamente nata negli am-bienti dell’opposizione stoica e senatoria. S’è ipotizzato che l’autore fosse il trage-diografo Lucio Anneo Cornuto, un liberto della famiglia Annei il cui prenome avrebbefacilitato l’errata attribuzione a Seneca. In ogni modo, la praetexta può essere statacomposta solo post eventum, cioè a morte di Nerone avvenuta, sia per la precisionedi particolari con cui questa è descritta troppo corrispondenti alla realtà storica, siaperché la rappresentazione dell’imperatore come despota sanguinario non sarebbestata possibile se egli fosse stato in vita. Inoltre l’Octavia ci è stata conservata dauna ramo secondario della tradizione manoscritta, il meno attendibile e maggior-mente interpolato (recensio A). Per tutti questi motivi, quasi certamente la tragedia èstata scritta pochi anni dopo la morte di Nerone da un poeta appartenente all’am-biente senatorio, che conosceva assai bene i comportamenti etici e la produzione diSeneca: alcuni passi sono la trasposizione in versi dei Dialoghi del filosofo. L’ambiente culturale che ha espresso l’Octavia è certamente quello senatorio. Lodimostra, come si accennava sopra, la considerazione di Nerone come di un tiran-no assassino e il fatto che non compare mai il senato, ormai ridotto a vana parven-za di un potere di fatto concentrato nelle mani del principe, ma solo il popolo ano-nimo (chorus Romanorum). Di rango esclusivamente senatorio erano anche i de-stinatari della praetexta certamente destinata alla lettura, come apprendiamo aproposito delle tragedie di Curiazio Materno1 dal Dialogus tacitiano, che si immagi-na iniziato «il giorno seguente a quello in cui Curiazio Materno aveva dato lettura(recitaverat) del Catone»: una tragedia che, avendo per protagonista il personaggiosimbolo della libertas repubblicana, non lascia dubbi riguardo al contenuto di oppo-sizione al regime imperiale (e infatti Tacito aggiunge che la recitatio «urtò la sucet-tibilità dei potenti»). In questo clima culturale teso, nel quale la tragedia diviene ilgenere della resistenza senatoria alla tirannide imperiale, s’inserisce l’Octavia. Ormai il genere tragico non ha più un avvenire, infatti non sopravviverà alle epura-zioni neroniane e alla politica di ricambio sociale dei Flavi, che sostituirono allavecchia nobilitas la nuova nobiltà dei funzionari italici e provinciali.

1. Di Curiazio Materno, forse messo a morte da Domiziano, si conservano i titoli di duepraetextae e di due cothurnatae, rispettivamente Domitius, Cato e Thyestes, Medea.

L’Octavia, una praetexta attribuita a Seneca

528 Il teatro tragico di età neronianaA

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La trama

La falsa attribuzione a Seneca

La tragedia come generedell’opposizione senatoria

Della fortuna popolare del mimo in età repubblicana già abbiamo parlato (pp. 46).Un successo di pubblico ancora maggiore, confrontabile solo con quello dei giochicircensi, riscuoteva in età imperiale il pantomimo (fabula saltica). Si trattava di unarappresentazione teatrale solitamente con due attori, dei quali uno cantava o reci-tava un testo con l’accompagnamento di strumenti (flauto, siringa, cembali, lira),l’altro lo mimava coi gesti e con la danza. Il carattere «italico» di questo generescenico è provato dal fatto che i Greci lo chiamavano «danza italica». Scrissero fabulae salticae poeti impegnati come Lucano e Stazio. In particolarequest’ultimo compose «libretti» per pantomimi, che soddisfacevano alla richiesta diletteratura di consumo avanzata dai nuovi lettori «borghesi», appartenenti ai cetiemergenti d’età flavia. Giovenale ne ricorda uno, l’Agave, composto per un celebreattore del tempo, e ci informa che soprattutto grazie a queste produzioni commer-ciali – e non con le pubbliche letture (recitationes) della più impegnativa Tebaide –Stazio poteva sbarcare il lunario:

Tutti corrono a udire la bella voce del poeta e la poesia della Tebaide, cosìcara al pubblico quando, per la gioia della città, Stazio ha fissato il giornodella dizione: tanta è la dolcezza con la quale egli ha avvinto gli animi e tan-to il piacere con cui lo si ascolta. Ma quando coi suoi versi ha infrante persi-no le sedie, se non vuole morire di fame, deve vendere a Paride la sua Agave.

L’attore Paride di cui parla Giovenale aveva raggiunto, come spesso accadeva aidivi di pantomimo, un grande successo, al punto da divenire l’amante della mogliedi Domiziano, che per questo lo fece giustiziare. Giovenale testimonia l’abbandonoscomposto e lascivo delle fans, incluse le nobili matrone, alle suggestioni erotichedella danza:

Quando Batillo interpreta la pantomima di Leda con la flessuosità sensualedel corpo, Tuccia non trattiene più la vescica; Apula emette improvvisa-mente, come quando fa l’amore, un gemito lungo e lamentoso; Tìmele spa-lanca gli occhi…

L’eccessiva popolarità di questi professionisti obbligò in vari casi gli imperatori aemettere decreti di espulsione nei loro confronti. Il gradimento delle masse per lafabula saltica è confermato da Seneca che, anticipando il giudizio degli scrittori cri-stiani, la considera con aristocratico disprezzo come l’espressione di gusti grosso-lani, incompatibili con la ricerca della virtù:

Come può piacere alla folla chi ama la virtù? Per acquistare il favore dellafolla si richiedono mezzi disonesti. Devi farti simile ad essa … D’altra par-te, se ti vedrò celebre per favore popolare, se al tuo ingresso si sentirà lostrepito e il plauso e simili onoranze da pantomimi, se per tutta la città tiloderanno donne e bambini, perché non dovrei provare compassione per te,sapendo quale via porta a tale popolarità?

La fortuna del pantomimo

La fortuna del pantomimo 529

Il successo strepitoso

Sat. VII 82-87; trad. di A. Barelli

Sat. 6, 63 ss.

Ep. 29, 12;trad. di G. Monti

Altre forme di spettacolo

Ma in fondo anche Seneca è affascinato dalla capacità mimetica e dalla muta elo-quenza di questi attori:

Noi guardiamo con ammirazione i pantomimi, perché sanno esprimerequalunque situazione e qualunque passione con prontezza di gesti cheeguaglia la rapidità delle parole.

Gli argomenti erano prevalentemente mitologici, come la vicenda di Agave che inpreda alla frenesia bacchica dilania il corpo del proprio figlio, ed erano tratti dai re-pertori più comuni della commedia e della tragedia o ispirati a contenuti satirici. Laparte propriamente letteraria era quasi del tutto subordinata alla musica e alla dan-za, tanto che Seneca quasi identifica il pantomimo con l’ars saltandi: «L’artigianonon ha bisogno di chiedere informazioni sul suo mestiere … non più di quanto ilpantomimo dovrà informarsi sulla danza» (Ep. 95, 56). Il termine stesso «pantomi-mo» (dal gr. pan «tutto» e miméomai «imito») dichiara la prevalenza quasi assolutadell’azione mimetica, anche se non era escluso un accompagnamento narrativodei fatti rappresentati sulla scena.

530 Altre forme di spettacoloA

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La danza del serpente (CIL IV, 1595). Riportiamo un carme figurato graffito sull’ingresso di una casa pompeiana (I-IIsec. d.C.) e riproducente un serpente. Nel testo, che è la locandina di un imminente spettacolo di pantomimo, sono invi-tati a formulare un giudizio equo gli spettatori di un numero eccezionale: la danza del serpente eseguita dal giovanecontorsionista Sepumio. Il balletto, certamente sensuale e ricco di ammiccamenti erotici, è un pantomimo.

Serpentis lusus si qui sibi forte notavit,Sepumius iuvenis quos facit ingenio,spectator scaenae sive es studiosus equorum:sic habeas lances semper ubique pares.

Chi ebbe occasione di notare con quanto ta-lento il giovane Sepumio esegue il gioco delserpente, sia tu uno spettatore della scena oun amante di cavalli, possa tener sempre eovunque eguali i piatti della bilancia.

(trad. di M. Gigante)

Subordinazione dei testialla danza

Ep. 121, 6

Dopo la fine dell’Impero romano d’Occidente (476), negli anni di fine secolo il re ostrogotoTeodorico tentò di conciliare e favorire una reale convivenza fra Romani ed Ostrogoti; allaluce di questa politica si mostrò indulgente verso la passione del popolo romano per glispettacoli al punto di restaurare i teatri in cui venivano rappresentati. Ed è per merito diCassiodoro, il quale era stato segretario alla corte di Teodorico e dopo la guerra greco-go-tica si era ritirato nel monastero da lui fondato in Calabria, e ai suoi dotti monaci, che granparte delle opere antiche fu salvata dalla distruzione e trasferita in Occidente. Queste, tra-smesse alle generazioni future grazie all’assiduo lavoro di copiatura di codici di opere sacree profane da parte dei monaci benedettini, costituiranno le fondamenta della cultura euro-pea. Sarà dunque soprattutto grazie a loro che l’Europa occidentale e meridionale dei se-coli VI e VII, ormai cristiana, ebbe, a livello dei ceti medio-alti, una cultura comune i cui ele-menti sono presenti anche nella letteratura drammatica medievale. Nel VII secolo nella nostra penisola si svilupperà un’intensa vita culturale: in questo ambitonascono testi dialogati che si rifanno alle commedie di Terenzio, le quali, accettate e stu-diate nelle scuole ecclesiastiche in quanto utili per la conoscenza della lingua e della metri-ca latina, ebbero diffusione europea.Nell’VIII-IX secolo grazie al monaco Alcuino che lo indusse a ciò, Carlo Magno, re dei Fran-chi e vincitore dei Longobardi, il fondatore del Sacro Romano Impero, attuerà un vasto pia-no di restaurazione culturale dell’Occidente cristiano su basi classico-religiose. È la cosìdetta «rinascita carolingia» a cui contribuiranno anche dotti italiani e, più tardi, il germanicoRabano Mauro (784-856), che scrisse, rielaborando un testo anonimo forse del IV secolo,la Cena Cypriani (catalogo di personaggi biblici di diverse epoche), che ricoprirà una parti-colare importanza per lo spettacolo, in quanto sarà in seguito rielaborato scenicamente perun «pantomimo biblico» e, secondo alcuni studiosi, rappresentato alla corte pontificia. Inrealtà il mondo ecclesiastico giudicava negativamente e condannava tutte le rappresenta-zioni allora in voga, forme di spettacolo mimiche, coreutiche, musicali, sopravvissute allacaduta dell’impero, seppure ai margini della vita sociale. Si era esaurito invece il teatro let-terario, conservatosi soltanto nella tradizione scolastica che ne perpetuava modelli e lin-guaggio.Fra i suoi autori è in particolare Terenzio che viene ammirato e utilizzato per comporre nuo-vi drammi più che in Italia nel resto d’Europa. Ne utilizzò la lingua e la metrica nelle sueopere (storie di eremiti o martiri, ma anche di borghesi tentati), di forma classica e spiritocristiano, Rosvita, monaca sassone vissuta nel X secolo che, prima donna d’Europa, com-pose drammi che saranno modello per gli scrittori dell’età umanistica, per cui la sua produ-zione riveste una importanza particolare.

Forme di rappresentazione drammatica nel Medioevo

Forme di rappresentazione drammatica nel Medioevo 741

Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgiaborghese

Rosvita di Gandersheim

La «rinascita carolingia»:Rabano Mauro

Illustrazioni delle commedie te-renziane.

Caduta e conversione di Maria nipote di Abramo eremita

Per coglierne la tipologia, ne presentiamo un passo tratto da «Caduta e conversione di Maria nipote di Abramo eremita». Questa latrama: Maria, dopo aver vissuto per venti anni da eremita, ingannata da un giovane vestito da monaco e perduta la verginità, tornanel mondo dove va a vivere in casa di un lenone; dopo due anni però, ascoltando gli ammonimenti di Abramo che, per avvicinarla,aveva finto di volerne diventare amante, si pente e si converte. Una nuova vita fatta di digiuni, veglie e preghiere riscatta i suoi pec-cati. Qui presentiamo la scena in cui Abramo, andato a cercarla sotto la veste di cliente, la incontra e le parla:

742 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

ABR. = Abramo; OSTE; MA. = Maria

ABR. Salve, buon oste!OSTE Chi è che parla? Salve, ospite!ABR. Hai forse una stanza libera per un viaggiatore che

vuol pernottare?OSTE Certo; le nostre stanze non si negano a nessuno.ABR. Bene.OSTE Entra; ti prepareranno la cena.ABR. Ti debbo molto per questa accoglienza cordiale,

ma ti chiedo qualcosa di più.OSTE Chiedi pure quello che vuoi: te lo darò.ABR. Accetta questa piccola somma che ho con me e fa’

in modo che partecipi al nostro pranzo quella stu-penda fanciulla che so essere qui nella tua dimora.

OSTE Perché la vuoi vedere?ABR. Perché ho molto piacere di conoscere colei di cui

assai spesso e da moltissimi ho sentito celebrare labellezza.

OSTE Chiunque ne ha celebrato la bellezza, non si è in-gannato: infatti il suo volto splendido supera quel-lo di tutte le altre donne.

ABR. Ardo d’amore per lei.OSTE Mi meraviglio davvero che tu, così vecchio, ti sia

innamorato di una donna molto giovane!ABR. Credimi, non sono venuto per nessun altro motivo,

se non per vederla.OSTE Vieni, vieni, Maria, e mostra la tua bellezza al no-

stro neofita.MA. Ecco, vengo.ABR. Quale fiducia, quale fermezza di proposito può es-

sere in me ora che vedo costei, che allevai nel se-greto dell’eremo, ornata come una meretrice? Manon è tempo di mostrare nel volto ciò che tengochiuso nel cuore: voglio trattenere a forza le lacri-me, che vorrebbero sgorgare, e ricoprire con simu-lata allegria esteriore l’amarezza del mio intimodolore.

OSTE Fortunata Maria, rallegrati; perché ormai non soloi tuoi coetanei, ma anche quelli che sono già vec-chi vengono da te e accorrono ad amarti.

MA. Tutti coloro che mi amano ricevono da me in cam-bio un eguale amore.

ABR. Avvicinati, Maria, e dammi un bacio.MA. Non solo ti darò dolci baci, ma circonderò con

mille carezze questo tuo vecchio collo.ABR. Oh, sì.MA. Che sento? Quale nuovo stupendo gusto io provo?

Ecco, il profumo che io sento mi ricorda la fra-granza della vita casta che una volta conducevo.

ABR. Ora bisogna simulare, ora bisogna insistere nellefacezie a guisa di giovane voluttuoso, perché nonmi riconosca per la mia serietà e si vada a nascon-dere per la vergogna.

MA. Ahi, me infelice! Da dove caddi e in quale fossa diperdizione precipitai!

ABR. Non è un posto adatto al lamento, questo, dove siaffollano i commensali.

OSTE Maria, perché questi sospiri? Perché queste lacri-

me? Non sei stata qui due anni senza emettere maiun sospiro, senza dire mai una parola triste?

MA. Oh, volesse il cielo che fossi morta prima di questidue anni e non fossi giunta a tanta infamia!

ABR. No, non sono venuto per piangere con te i tuoipeccati, ma per unirmi con te in amore.

MA. Ero agitata da un lieve rimorso, perciò parlavo co-sì; mangiamo e stiamo allegri; hai ragione, non èquesto il tempo di piangere i peccati.

ABR. Abbiamo mangiato e bevuto abbastanza, grazie al-la tua generosità, o bravo oste; permettimi ora dilevarmi da tavola per stendere nel letto questostanco corpo e ristorarmi con un dolce riposo.

OSTE Come ti piace.MA. Alzati, signor mio, alzati; verrò in camera con te.ABR. Bene. Non potrei rassegnarmi ad uscire senza la

tua compagnia.

MA. Ecco la stanza pronta per noi; ecco un letto prepa-rato con ottimi materassi. Siedi: ti toglierò le scar-pe perché tu non ti affatichi.

ABR. Prima sbarra la porta affinché nessuno abbia lapossibilità di entrare.

MA. Non preoccuparti per questo; farò in modo chenessuno possa entrare qui facilmente.

ABR. È tempo ormai che mi scopra il capo e che rivelichi io sia. O figlia adottiva, o parte dell’animamia, Maria, non riconosci questo vecchio che ti haallevato come un padre, che ti ha dato in isposa al-l’Unigenito del Re celeste?

MA. Ahimè! È il mio padre e maestro Abramo che par-la!

ABR. Che cosa ti è successo, o figlia?MA. Una tremenda sciagura.ABR. Chi ti ha ingannato? Chi ti ha sedotto?MA. Colui che trasse a rovina i nostri progenitori.ABR. Dov’è quella vita angelica che conducevi in terra?MA. È del tutto perduta.ABR. Dov’è il tuo pudore verginale? Dove la tua mera-

vigliosa continenza?MA. Svaniti.ABR. Se non rinsavisci, quale ricompensa puoi più spe-

rare per la fatica dei digiuni, delle orazioni, delleveglie, ora che quasi caduta dall’altezza del cielo,sei precipitata nel profondo dell’inferno?

MA. Ahimè!ABR. Perché mi hai disprezzato? Perché mi hai abban-

donato? Perché non mi hai confessato la tua rovi-nosa caduta, in modo che io stesso, con il mio ca-ro Efrem, facessi per te una penitenza adeguata?

MA. Una volta che, caduta in peccato, precipitai, nonosai così contaminata accostarmi alla tua santità.

ABR. E chi fu immune da peccato all’infuori del figliodella Vergine?

MA. Nessuno.ABR. È umano peccare, ma è diabolico persistere nel

peccato; e non è giusto rimproverare chi cade al-l’improvviso, ma chi trascura di risollevarsi rapi-damente.

Forme di rappresentazione drammatica nel Medioevo 743

MA. Ahimè infelice!ABR. Perché cadi? Perché resti prona a terra? Alzati e

ascolta quello che ti dico.MA. Il timore mi ha fatto cadere, perché non ho potuto

sopportare la forza del rimprovero paterno.ABR. Pensa al mio affetto per te e scaccia il timore.MA. Non posso.ABR. Non ho io per te lasciato l’agognata via dell’ere-

mo, non ho messo completamente da partel’osservanza della vita monastica al punto che davecchio eremita mi sono trasformato in commen-sale di uomini lascivi e, per non farmi riconoscere,ho pronunziato parole di scherzo, io, che da tantotempo osservavo il silenzio? Perché chini il voltoe guardi a terra? Perché sdegni di rispondere e diunire le tue parole alle mie?

MA. Sono confusa per la consapevolezza della mia col-pa: per questo non oso levare gli occhi al cielo, néconversare con te.

ABR. Non nutrire sfiducia, o figlia, non disperare; escidall’abisso della disperazione, fissa in Dio la spe-ranza dell’anima tua.

MA. L’enormità dei miei peccati mi ha precipitata nelprofondo della disperazione.

ABR. I tuoi peccati, lo riconosco, sono gravi; ma la mi-sericordia di Dio è più grande di quanto chiunque

possa credere. Perciò rompi i lacci e non trascura-re per pigrizia il poco tempo che ti è concesso perpentirti: sovrabbonderà la grazia divina là doveabbondò l’obbrobrio dei peccati.

MA. Se ci fosse qualche speranza di meritare il perdo-no, non mi mancherebbe il desiderio della peni-tenza.

ABR. Abbi pietà della fatica che ho affrontato per te edeponi questa pericolosa disperazione, che, lo sap-piamo, è più grave di tutte le colpe commesse. In-fatti solo chi dispera che Dio voglia aver miseri-cordia dei peccatori, pecca senza rimedio. Ma co-me una scintilla di selce non può accendere il ma-re, così la gravità dei nostri peccati non può muta-re la dolcezza della bontà divina.

MA. Non nego l’infinita bontà di Dio, ma, se considerol’enormità del mio delitto, temo di non essere ca-pace di soddisfarlo con penitenza adeguata.

ABR. Cada su me la tua iniquità; solo ti chiedo di torna-re al luogo da cui uscisti, e di riprendere la vitache abbandonasti.

MA. Non resisto più alle tue preghiere; accetto docil-mente tutto quello che mi vorrai ordinare.

ABR. Ora riconosco che sei veramente mia figlia, quellache allevai; ora credo che meriti di essere amatapiù di ogni cosa.

Sempre sul versante letterario osserviamo che nel XII secolo in Francia nasce e si sviluppa,ad opera di alcuni teologi scrittori, la così detta commedia elegiaca, un nuovo genere di com-posizione drammatico-narrativa che si rifà alla commedia antica, oltre che a quella di Teren-zio, a Plauto e a Menandro. Rinasce così in Europa la commedia letteraria, specchio di unarealtà sociale inquietante e di una moralità in crisi, destinata a circolare nei diversi paesi del-l’Europa cristianizzata. Simili a questi, apparvero in Italia testi di intellettuali laici che, ponen-do sulla scena per un pubblico colto personaggi e situazioni di diversi ambienti sociali, chevengono presi di mira, offrono un divertimento «spregiudicato e non conformista».Rivolto invece a un pubblico più ampio, dopo un silenzio plurisecolare, a fianco di quelladescritta, nasce nel IX secolo una nuova forma di teatro, quello religioso; grazie al circolaredella cultura religiosa, si sviluppa il dramma liturgico latino che mette in scena episodi epersonaggi del Nuovo Testamento: temi prediletti sono in quelli delle celebrazioni pasquali.Dal IX al XIII secolo animerà tutte le feste dell’anno «ponendo le basi per il futuro teatro, re-ligioso e profano, latino e “volgare” (romanzo e neo-germanico) dell’Europa medioevale», evedrà presto una grande diffusione anche in Italia. Gradatamente prese il sopravvento, sulsenso religioso di queste commemorazioni, lo spettacolo e ad esse si affiancò la loro paro-dia. In realtà forme scherzose e irridenti durante certi periodi festivi vi erano state anche neisecoli del primo Medioevo, tollerate dalla Chiesa che pure aveva combattuto tradizioni esuperstizioni pagane; ma allora venne concesso agli studenti delle scuole ecclesiasticheche, anche nelle chiese, in un periodo di vacanza, fosse sovvertito ogni ordine e «capovol-to» il mondo, così come sarà nelle feste carnevalesche. «La rivolta dei giovani consistevanell’imitazione parodistica degli anziani, dei superiori, la festa si faceva beffa, fino ai limitidella blasfemia, dei riti usuali, delle cerimonie, delle omelie, delle processioni. Uno scolaret-to veniva vestito con i paramenti vescovili, altri parodiavano i canonici, tutti celebravano ritida burla, con sguaiataggini, oscenità, violenze» (Doglio). Diffusesi in tutta Europa, nonmancarono di destare scandalo, ma solo più tardi (1207), con Innocenzo III, furono ufficial-mente proibite.

Commedia elegiaca

Il teatro religioso

A fianco di queste realtà più «popolari», dall’XI secolo si rinnova in Europa il genere epicoe nascono le «Canzoni di gesta»; ad esso, nel XII secolo, si affianca, opera di poeti colti, lalirica provenzale, che si diffonde nei principali paesi europei e in Italia negli ambienti di cor-te presso i quali artisti e intellettuali di diversa provenienza erano ospitati. In questo multi-forme quadro culturale, compare in Italia, seppure marginalmente, la prima produzionedrammatica in lingua italiana. Se indubbiamente non era mai venuto meno lo spettacolo, questo fino ad allora aveva avu-to carattere soprattutto istrionico; «la diffusione della parola poetica, partecipata al grandepubblico, nel caso dei poemi cavallereschi, assimilata dai ceti aristocratici e alto-borghesinel caso della poesia provenzale», la rinascita della letteratura influenzeranno la genesidella nuova drammaturgia in lingua italiana fra il XII e il XIII secolo. I testi arrivati a noi, vari per tematiche, modalità strutturali, linguaggi, si presentano eteroge-nei per qualità artistica: i primi autori, dalla diversa estrazione sociale e formazione cultura-le, facevano parte per lo più di quegli «artisti girovaghi» che avevano continuato ad esisterepermettendo la sopravvivenza di forme teatrali, seppure per lo più modeste. I nuovi artisti sipresentavano sulla scena con diverse «specialità»: erano musicisti, poeti, attori, saltimban-chi, buffoni ed operavano nelle corti, nelle piazze, sui sagrati delle chiese, in ogni luogo incui sia possibile dare spettatolo: sono i giullari, che diedero vita ad un’intensa produzioneteatrale. Per lo più affidati alla sola recita, parte dei testi giullareschi è stata trascritta, e cosìsalvata da certi notai bolognesi, assidui frequentatori degli spettacoli di piazza. Come esempi, una ballata in versi endecasillabi, in cui si presentano due cognate che, invivace «contrasto» alternano insulti a proposte di alleanza, «un’alleanza basata sui piaceridel cibo e del letto spregiudicatamente enunciati»:

Oi bona gente, oditi et intenditila vita che fa questa mia cognata.

La vita che la fa vui l’odiritee, se ve place, vòilave contare…

e una ballata che presenta un dialogo fra madre e figlia in cui la figlia rivela alla madre ildesiderio amoroso che la spinge verso un giovane:

Matre, tant’ò lo cor acunto,la voglia amorosa e conquisa,ch’aver voria lo meo drudovixin plu che non è la camixa.Con lui me staria tutta nudané mai non vorria far devisa:eo l’abracaria en tal guisache’l cor me faria allegrare.

Dunque spesso licenziosi, gli spettacoli giullareschi e gli attori che li presentavano si attira-rono la condanna della Chiesa che conservò l’ostilità che aveva sempre avuto verso formedi spettacolo popolari in cui la licenza e spesso l’oscenità erano comuni.

Nel Quattrocento permangono le rappresentazioni sacre tanto diffuse nel Medioevo, ma inesse l’aspetto profano viene ad assumere sempre maggiore spazio, sostituendo spesso icasi tratti dalle Sacre Scritture con eventi mondani.Sopravvivono anche le rappresentazioni giullaresche con i loro caratteri di realismo e spre-giudicatezza, e talvolta oscenità. Questi aspetti sono presenti anche in nuove forme di teatro,il teatro goliardico, in cui viene proposta la realtà sociale del tempo. Centri di queste speri-mentazioni drammatiche le città universitarie come Bologna, Padova, Firenze, Pavia, Vene-

Il teatro nell’Umanesimo

744 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

Verso la rinascita letteraria e teatrale

Gli spettacoli giullareschi

Musico e giocoliere in miniatu-ra francese del XIII secolo.

Il teatro goliardico

zia. Con lo spirito satirico-burlesco proprio dell’ambiente universitario, docenti e neolaureatidiedero vita a rappresentazioni di commedie latine, stando a mostrare la vitalità di questeopere, d’altronde mai spenta completamente, come abbiamo visto parlando della presenza edell’influsso dei testi di Terenzio nell’Alto Medioevo. Spinti da intenti pedagogici, ma con tonigoliardici, misero in scena costumi e vizi dell’ambiente studentesco o borghese-cittadino deltempo, oggetto preferito della loro satira. Gli schemi, classici, sono spesso arricchiti da spun-ti novellistici ed allusioni alla vita e ai personaggi in vista del tempo. Si cimentano in questo ti-po di commedie latine, di solito scritte in prosa, anche intellettuali noti come Leon Battista Al-berti, autore in età giovanile di un Philodoxus, ed Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa PioII, che scrive Crysis, commedia che si serve del modello plautino per trasporre su un pianodrammatico momenti di vita reale: oggetto della sua ironia l’ambiente della Curia. Grazie a scoperte di codici contenenti commedie latine sconosciute al Medioevo e all’in-venzione della stampa, si diffuse la conoscenza dei commediografi latini che, sempre più,vennero rappresentati prima in latino e, presto, anche in traduzioni commissionate poi dainobili delle diverse corti del tempo. Altro segno, in ambito teatrale, della rinascita dell’interesse per l’antichità, la presentazionesulla scena, in occasione di feste, di testi che rievocavano episodi della storia di Roma odella mitologia classica ispirantisi per lo più a Ovidio, talvolta con intenti allusivi o allegorici.Dunque alla fine del ’400 il teatro conosce una stagione particolarmente vivace, grazie an-che all’interesse di molti principi, nutriti di arte e letteratura, che proteggevano gli artisti de-diti a questa attività: ecloghe latine che avevano come modelli Virgilio e Ovidio, drammi mi-tologico-satireschi, commedie tratte dai testi latini o create sul loro schema ma con spuntidella novella trecentesca, in particolare del Boccaccio, tragedie sono le rappresentazioni invoga nelle corti. D’altra parte attori portano in tutta Italia temi comici «nei dialoghi giocosi,nelle parodie, negli scherzi salaci ed osceni, nelle farse popolareggianti», mostrando d’averereditato la giulleria medievale.

Nel Cinquecento il teatro comico, che pure eredita tutte le esperienze teatrali precedenti,acquista sempre più un carattere colto: i letterati che si dedicano alla scrittura di questo tipodi testi sono consapevoli dell’operazione che compiono, un’operazione che coniuga tradi-zione e innovazione. E se l’innovazione segue la strada del realismo, per cui la contempo-raneità è presente nelle loro opere, la fondamentale classicità della commedia è innegabi-le. Ma i due elementi non sono in contraddizione: «i classici sono anzi il vettore di questoviaggio nel reale: da modello si trasformano in strumento di una più acuta percezione e tra-scrizione della modernità» (G. Davico Bonino). Il clima culturale, in cui la commedia nasce,determina l’esigenza di scrivere testi con canoni che ne caratterizzino il genere: tali canoni,come l’unità di luogo e di tempo (decade l’unità di azione) gli autori trovano nelle opere del-la commedia classica che va a porsi come modello; altri elementi formali la presenza e lafunzione del prologo, la scansione in atti e la distribuzione delle scene. Ma la ripresa deiclassici va al di là: viene ripreso l’elemento della «fortuna», seppure non più intesa, comenell’antichità, come «fato», ma mutato e rinnovato secondo la nuova concezione, che vedel’Uomo «motore della sua vita e di quella del mondo»; tornano in scena numerosi perso-naggi-tipo quali abbiamo visto nella commedia latina, pur adattati alla realtà sociale deltempo (ciò d’altronde si rivela necessario in uno spettacolo di carattere comico, perché lacomicità, soprattutto se di costume, per aver presa sul pubblico, non può non fare riferi-mento a elementi sociali e culturali e di cronaca ad esso noti). Viene ricavata dall’esempiolatino anche la costruzione del dialogo in cui le battute sono giustapposte in modo tale dacreare tensione drammatica ed effetto comico; il tipo di linguaggio che, come quello plauti-no ricorreva a grecismi e si serviva di parole per metà greche e per metà latine, fa ricorso amescolanze di volgare, dialetti e miscele plurilinguistiche.

La commedia dal Rinascimento al Settecento

La commedia dal Rinascimento al Settecento 745

La riscoperta della tradizione latina

746 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

La strega

Presentiamo un esempio tratto dalla commedia del fiorentino Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, La strega, in cui viene delinea-ta ed attualizzata la figura del miles gloriosus: di Plauto sono atteggiamenti e modo d’esprimersi del personaggio, funzione scenicadel servo che fa da spalla al miles, il modo di servirsi della lingua: le parole, a volte inventate, a volte inusuali, a volte di sapore popo-laresco, accostate in assonanze e cantilene, hanno vita soprattutto per i suoni e la musicalità che è in esse:

ATTO II - SCENA I

TAD. = Taddeo padrone; FAR. = Farfanicchio ragazzo

TAD. Tutte le pene, tutte le catene e tutte le sbarre delmondo non mi terrebbono che io non andassi viaoggi:1 costoro mi menano per la lunga, credendosiavere a che fare con qualche Neron; che ne di’ tu,Farfanicchio?

FAR. Dico di sì, padrone: mostrate pur loro che voi seteun uomo, e non un’ombra.

TAD. L’arme sono in punto?FAR. Signor sì, nette e pulite.TAD. Or così, Farfanicchio, tu cominci a frizzare:2 dammi

pur di quel signore per la testa;3 ma che diavol vuoldir questo, che quando io son teco ognuno ride?

FAR. Non lo so io.TAD. Togli! e pur ridono: questo non mi avveniva quan-

do io andava fuori col Gonnella;4 io ho voglia dicacciarti via e di ritor5 lui.

FAR. Fatene come di vostro.TAD. Questa risata non mi piace: a dispetto del vermo-

cane, per la puttana del canchero! che, se io avessil’arme a canto, io farei qualche gran male. Oh, chemaladetto sia il cielo! Farfanicchio, tu mi debbifar dietro qualche chiacchiera!6

FAR. Mi maraviglio della signoria vostra: credete voiperò che io sia matto?

TAD. Che ne so io? poiché io veggio ognuno ridere, egliè forza che tu mi dia il pepe, la monna o il gongo-ne, o che tu mi facci dietro bocchi, ceffo o grifo.7

FAR. Misericordia! che diavol dite voi? nessuna so fardi coteste cose: elle dovevano usarsi già al tempodi Nicolò Piccinino, o al tempo di Bartolomeo Co-glioni.8

TAD. A tempo mio s’usavano, che non son peròl’antichità di Brescia, innanzi l’assedio, che io erafanciullo.

FAR. Tant’è; nonché io sappia far cotesti giuochi, ionon gli ho mai più sentiti ricordare.

TAD. Vuoi tu che io te l’insegni?FAR. Di grazia, io ve ne resterò obbligato.TAD. O stammi a vedere, e pon mente bene: questo è

grifo; così si fa ceffo, e questo è bocchi.FAR. O buono, o buono, o buono!TAD. A questo modo si dà il pepe o le spezie; questa è

la monna; e così si dà il gongone.FAR. Gala!9 disse il Frizzi: queste sono altre che chiac-

chere e novelle!TAD. Io te ne farei mille, tutte più belle l’una che l’altra.FAR. Cacalocchio! Per fare cose da fanciulli e da bam-

bini voi dovete essere il Teri.10

TAD. Che vuol dire il Teri o non Teri? e chi fu questoTeri?

FAR. Che ne so io? dovette essere qualche grand’uomofilosofo, dottore o poeta.

TAD. Tu lo sai bene! Il Teri giocava agli aliossi a suotempo meglio che giovane di Firenze, come face-va io a’ ferri, che non si diceva altro che Taddeo;ed aveva una detta che squillava gli aguti cinque-cento braccia discosto.

FAR. Ah, ah, ah, ah!TAD. Tu ridi?FAR. O chi non riderebbe ai giocacci che voi contate?TAD. Giocacci gli aliossi e i ferri?FAR. Dalle carte e i dadi in fuori…TAD. Che carte e che dadi? Il gioco de’ ferri ha tanti ca-

pi11 che tu meraviglieresti, e tra gli altri il buco acapo alla punta, e in terra peggio, e poppa lo stec-co, passano battaglia. Ma favellare con chi non in-

1. «non mi tratterebbero dal partire», per andare a fare il soldato. Taddeo, innamorato della vedova Geva, poiché il padre gliela ha ri-fiutata, ha deciso di partire soldato, mettendo a repentaglio la sicurezza del patrimonio familiare.

2. «ad essere efficiente».

3. «dammi pure dello stupido».

4. Gonnella era il nome di un altro servo.

5. «riprendermi».

6. «tu devi parlarmi dietro», naturalmente per prenderlo in giro, senza che egli se ne accorga.

7. «dare il pepe, la monna o il gongone» stanno ad indicare gesti di derisione; «far bocchi ceffo o grifo» indicano vari tipi di boccac-ce fatti dal servo sempre a scherno del padrone.

8. Sono nomi di due famosi condottieri; il secondo nome, storpiato in modo da destare riso, è quello del Colleoni.

9. «Gala!»: esclamazione meravigliata con senso di approvazione. «Disse il Frizzi» è un modo di accompagnare e completarel’esclamazione.

10. Farfanicchio schernisce apertamente il padroncino, senza che questi se ne avveda. «Voi dovete essere il Teri»: «dovete essere bra-vo come il Teri». Il paragone è privo di senso in quanto fatto «a orecchio» dal servo che ricorda il nome celebre a Firenze, senza cono-scere il motivo della celebrità. Ma non è escluso che anche l’errore sia voluto e rientri nel divertimento di Farfanicchio.

11. «tante mosse» (fra le quali «il buco a capo alla punta, e in terra peggio»).

La commedia dal Rinascimento al Settecento 747

tende è uno gettar via le parole, perché questo belgiuoco, con molti altri, è ora spento affatto.

FAR. Che? voi ne avete degli altri begli simile a questo?TAD. O caro! Che mi di’ tu? e a tempo mio erano i

giuochi ordinati secondo le stagioni e i mesi: chio-se, spilletti, trottola, paleo, soffio, giglio o santo,mattonella, meglio al muro, verga, misurino,aliossi, rulli, ferri, e cento altri, che tutti eranogiuochi da perdere e da vincere; ma quegli che sifacevano per passatempo e per piacere erano bel-lissimi, che sono oggi quasi tutti quanti perduti.

FAR. Deh! contatemene qualcuno, che voi mi fate stra-biliare.

TAD. Si bene; ora ascoltami.FAR. Dite pure.TAD. Salincerbio, salta la spiga, metti l’uovo, mosca

cieca, pigliami topo, alla foglia, al becco mano-messo, a gallinenvenvella, a bicicalla calla quantecorna ha la cavalla; che diavol ne so io?

FAR. Cacasevo! oh! voi sete sì innanzi? oh! voi potrestigagliardamente fare una lettura a veduta, e legger-la a mente nell’Accademia.

TAD. Che parli tu d’Accademia? egli è un tempo che ione sarei stato, se io avessi voluto; lo Stradino mipregò cento volte che io volessi entrare negli Umi-di, allora che ella era favorita daddovero, ma nonv’ebbi mai il capo.

FAR. Che lo avevate alla guerra?TAD. All’amore e alla Geva, alla Geva e all’amore ebbi

sempre volto il cuore; e per dirti, io vo ora allaguerra per non potere far altro: o io morrò gloriosomorendo milite, o io ritornerò bravo, bravo di sor-te che ella arà di grazia di essere mia; e forse miuscirà della mente; qualcosa fia: a questo modonon posso io stare.

FAR. Voi la discorrete bene e saviamente.TAD. E vo’ che noi andiamo or ora a vedere se noi tro-

viamo due cavalli per Bologna; e avviatigli allaporta, torneremo a sciolvere, armerenci e ande-ren via.

FAR. Buona, anzi ottima pensata ha fatto la signoria vo-stra.

TAD. Ahi, Farfanicchio mio, quella signoria ha il buono:non te la sdimenticare. Ma che diavolo mi fai tudietro? tu vedi come costoro ridono di cuore.

FAR. Mi par ch’egli abbino riso sempre.TAD. Vanne un po’ dinanzi.FAR. Ah, ah, signore, non si conviene alla signoria vo-

stra andar dietro al ragazzo.TAD. Andianci con Dio almeno.FAR. A vostra posta.TAD. Su, alto, andianne alle faccende, seguitami di

buon passo, e chi vuol ridere rida.FAR. Pur l’avete intesa, la signoria vostra.

Il servo che dietro al padrone fa boccacce e sberleffi senza che egli se ne accorga non può non suscitare le risate del pubblico, chesi trova così coinvolto nella derisione di Taddeo, personaggio che, nella sua ingenuità, presta il fianco alla presa in giro dell’astutoFarfanicchio: la scena fa già pensare alla commedia dell’arte e il servo a personaggi quale Arlecchino: d’altronde non si può negareche la tipologia del servo furbo, che si incarnerà anche in alcune maschere, ha il suo prototipo nel servo delle commedie di Plauto; al-trettanto dicasi per la figura del soldato smargiasso (Capitan Fracassa, Matamoro, Spaventa ecc.) che nel miles gloriosus plautino hala sua origine.

Alla stesura di commedie letterarie si dedicarono, nella prima metà del Cinquecento, anchealtri scrittori: per citare solo i più noti, Pietro Aretino, Ariosto, Bibbiena, Machiavelli:d’altronde per ogni autore di teatro cinquecentesco era esperienza d’obbligo la commediadi imitazione classica. In tutti sono presenti elementi sia della commedia classica che dellanovellistica, in particolare, del Trecento, la quale viene a costituire soprattutto «la chiaveper costruire una commedia nuova con i mezzi teatrali ricavati da Plauto e Terenzio» (Bosi-sio). Così nell’Ariosto, se Plauto e Terenzio sono senz’altro gli autori che fungono maggior-mente da fonti e modelli, è presente anche il Boccaccio del Decameron; così nella comme-dia Calandria del Bibbiena, in cui protagonisti sono due gemelli separati dal destino, lospunto evidentemente è tratto dai Menecmi di Plauto, ma, come è stato di recente dimo-strato, la presenza maggiore è quella del Boccaccio «in una fittissima trama di prestiti sin-tattici e lessicali». Anche Machiavelli, che ha dato vita alla Mandragola, la più matura e ori-ginale delle commedie del Cinquecento, nella sua commedia Clizia non manca di rifarsi,soprattutto per quanto riguarda la tematica, alla Casina di Plauto. Un’esperienza dunque, quella della commedia di imitazione classica, che in tutti gli scrittoridi teatro del tempo, chi più, chi meno, lascia un segno profondo. Naturalmente le opere teatrali vivono grazie alla possibilità di essere rappresentate e inquesto secolo la rappresentazione è favorita dalla politica culturale dei principi delle variecorti: la città «più teatrale» fu Ferrara proprio grazie alla passione per il teatro degli Este; aquesta si possono affiancare Mantova, Firenze, Venezia, Urbino, Siena, Napoli, Roma con

Aretino, Ariosto, Bibbienae Machiavelli

Teatri, città e mecenati

la corte pontificia. Il pubblico naturalmente è quello delle corti, un pubblico colto e raffinato,in grado di apprezzare i testi e le recite proposte. Ovunque riveste una notevole importanza la spettacolarità, per cui l’allestimento viene par-ticolarmente curato ad opera spesso degli stessi autori, ed è ad esso che si deve il succes-so delle rappresentazioni.Si è già detto dell’attualizzazione del teatro latino ottenuta attraverso la presenza della real-tà contemporanea, elemento di novità della commedia cinquecentesca; questa d’altrondesi poneva l’obiettivo di portare sulla scena la società del tempo, indicandone e criticandonei costumi, con lo scopo non solo di divertire, ma, per lo più, anche di educare in senso laicoe civile.

748 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

Mandragola

Così la Mandragola di Machiavelli si presenta come satira di costume: ne presentiamo il prologo e la scena in cui viene sviluppata labeffa ordita a danno di Nicia dal parassita Ligurio – a cui tiene bordone un monaco corrotto – per compiacere il giovane e ricco Calli-maco, che si è invaghito della bella Lucrezia, moglie di Nicia:

PROLOGO

Iddio, vi salvi, benigni uditori,Quando e’ par che dependaQuesta benignità da lo esser grato.Se voi seguite di non far romori,Noi vogliàn che s’intendaUn nuovo caso in questa terra nato.Vedete l’apparato,Quale or vi si dimostra:Questa è Firenze vostra;Un’altra volta sarà Roma o Pisa: Cosa da smascellarsi per le risa.

Quello uscio che mi è qui in su la man ritta,La casa è d’un dottoreChe ’mparò in sul Buezio legge assai.Quella via che è colà in quel canto fitta,È la Via dello Amore,Dove chi casca non si rizza mai.Conoscer poi potraiA l’abito d’un frate,Qual priore o abateAbiti el tempio ch’all’incontro è posto,Se di qui non ti parti troppo tosto.

Un giovane, Callimaco Guadagni,Venuto or da Parigi,Abita là in quella sinistra porta.Costui, fra tutti gli altri buon compagni,A’ segni ed a’ vestigiL’onor di gentilezza e pregio porta.Una giovane accortaFu da lui molto amata,E per questo ingannataFu come intenderete, ed io vorreiChe voi fussi ingannate come lei.

La favola Mandragola si chiama.La cagion voi vedreteNel recitarla, come io m’indovino.Non è el componitor di molta fama:

Pur se voi non ridete,Egli è contento di pagarvi el vino.Uno amante meschino,Un dottor poco astuto,Un frate mal vissuto,Un parassito di malizia el cucco,Fien questo giorno el vostro badalucco.E se questa materia non è degna,Per esser pur leggieri,D’un uom che voglia parer saggio e grave,Scusatelo con questo, che s’ingegnaCon questi van pensieriFare el suo tristo tempo più suave,Perch’altrove non haveDove voltare el viso:Ché gli è stato intercisoMonstrar con altre imprese altra virtute,Non sendo premio alle fatiche sue.

El premio che si spera è che ciascunoSi sta da canto e ghigna,Dicendo mal di ciò che vede o sente.Di qui depende sanza dubio alcunoChe per tutto tralignaDa l’antica virtù el secol presente;Imperò che la gente,Vedendo ch’ognun biasma,Non s’affatica e spasmaPer far con mille suoi disagi un’oprache ’l vento guasti o la nebbia ricuopra.

Pur se credessi alcun, dicendo male, Tenerlo pe’ capegliE sbigottirlo o ritirarlo in parte,Io lo ammunisco e dico a questo taleChe sa dir male anch’egli,E come questa fu la sua prim’arte;E come, in ogni parteDel mondo ove el sì suona,Non istima persona,Ancor che facci el sergieri a coluiChe può portar miglio mantel di lui.

La commedia dal Rinascimento al Settecento 749

Ma lasciàn pur dir male a chiunque vuole.Torniamo al caso nostro,Acciò che non trapassi troppo l’ora.Far conto non si de’ delle parole,Né stimar qualche mostroChe non sa forse s’e’ si è vivo ancora.Callimaco esce fuoraE Siro con seco haSuo famiglio, e diràL’ordin di tutto. Stia ciascuno attento,Né per ora aspettate altro argumento.

ATTO SECONDO - SCENA SESTA

LIG. = Ligurio; CAL. = Callimaco; NIC. = messer Nicia

LIG. El dottore fia facile a persuadere, la difficultà fiala donna, ed a questo non ci mancherà modo.

CAL. Avete voi el segno?NIC. E’ l’ha Siro, sotto.CAL. Dàllo qua. Oh! questo segno mostra debilità di re-

ne.NIC. Ei mi par torbidiccio, e pur l’ha fatto or ora.CAL. Non ve ne maravigliate. Nam mulieris urinae sunt

semper maioris grossitiei et albedinis et minorispulchritudinis quam virorum. Huius autem, incaetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eo-rum quae ex matrice exeunt cum urina.

NIC. Oh, uh, potta di san Puccio! Costui mi raffiniscetra le mani; guarda come ragiona bene di questecose!

CAL. Io ho paura che costei non sia, la notte, mal coper-ta, e per questo fa l’orina cruda.

NIC. Ella tien pur addosso un buon coltrone, ma la staquattro ore ginocchioni a infilzar paternostri, in-nanzi che la se ne venghi al letto, ed è una bestia apatire freddo.

CAL. Infine, dottore, o voi avete fede in me o no, o io viho a insegnare un rimedio certo o no. Io, per me,el rimedio vi darò. Se voi arete fede in me voi lopiglierete, e se oggi a uno anno a vostra donna nonha un suo figliolo in braccio, io voglio avervi adonare dumila ducati.

NIC. Dite pure, ché io son per farvi onore di tutto e percredervi più che al mio confessoro.

CAL. Voi avete a intendere questo, che non è cosa piùcerta a ingravidare una donna che darli bere unapozione fatta di mandragola. Questa è una cosaesperimentata da me dua paia di volte e trovatasempre vera, e se non era questo, la reina di Fran-cia sarebbe sterile, e infinite altre principesse diquello Stato.

NIC. È egli possibile?CAL. Egli è come io vi dico. E la fortuna vi ha in tanto

voluto bene che io ho condotto qui meco tuttequelle cose che in quella pozione si mettono, e po-tete averle a vostra posta.

NIC. Quando l’arebb’ella a pigliare?CAL. Questa sera doppo cena, perché la luna è ben

disposta e el tempo non può essere più appropriato.NIC. Cotesta non fia molto gran cosa. Ordinatela in

ogni modo: io gliene farò pigliare.CAL. È bisogna ora pensare a questo: che quell’uomo

che ha prima a fare seco, presa che l’ha cotestapozione, muore infra otto giorni, e non lo campe-rebbe el mondo.

NIC. Cacasangue! io non voglio cotesta suzzacchera; ame non l’appiccherai tu! Voi mi avete concio bene!

CAL. State saldo, e’ ci è remedio.NIC. Quale?CAL. Fare dormire subito con lei un altro che tiri, stan-

dosi seco una notte, a sé, tutta quella infezionedella mandragola. Dipoi vi iacerete voi sanza peri-culo.

NIC. Io non vo’ far cotesto.CAL. Perché?NIC. Perché io non vo’ far la mia donna femmina e me

becco.CAL. Che dite voi, dottore? Oh, io non v’ho per savio

come io credetti. Sì che voi dubitate di fare quelloche ha fatto el re di Francia e tanti signori quantisono là?

NIC. Chi volete voi che io truovi che facci cotesta paz-zia? Se io gliene dico, e’ non vorrà; se io non glie-ne dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto: io non civoglio capitare sotto male.

CAL. Se non vi dà briga altro che cotesto, lasciatene lacura a me.

NIC. Come si farà?CAL. Dirovelo: io vi darà la pozione questa sera dopo

cena; voi gliene darete bere, e subito la metteretenel letto, che fieno circa a quattro ore di notte. Di-poi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io, e an-drencene cercando in Mercato Nuovo, in MercatoVecchio, per questi canti: e il primo garzonaccioche noi troviamo scioperato, lo imbavaglieremo, ea suon di mazzate lo condurremo in casa e in ca-mera vostra al buio. Quivi lo mettereno nel letto,direngli quello che abbia a fare, né ci fia difficultàveruna. Dipoi, la mattina, ne manderete colui in-nanzi dì, farete lavare la vostra donna, starete conlei a vostro piacere e sanza periculo.

NIC. Io son contento, poi che tu di’ che e re e principisignori hanno tenuto questo modo; ma, sopra atutto, che non si sappia, per amore degli Otto!

CAL. Chi volete voi che ’l dica?NIC. Una fatica ci resta, e d’importanza.CAL. Quale?NIC. Farne contenta mogliama, a che io non credo cha

la si disponga mai.CAL. Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi essere

marito, se io non la disponessi a fare a mio modo.LIG. Io ho pensato el rimedio.NIC. Come?LIG. Per via del confessoro.CAL. Chi disporrà el confessoro?LIG. Tu, io, e danari, la cattività nostra, loro.NIC. Io dubito, non che altro, che per mie detto la non

voglia ire a parlare al confessoro.LIG. E anche a cotesto è rimedio.CAL. Dimmi!LIG. Farvela condurre alla madre.NIC. La le presta fede.LIG. E io so che la madre è della opinione nostra. Orsù,

avanziamo tempo, ché si fa sera. Vatti, Callimaco,a spasso, e fa’ che alle dua ore noi ti troviamo incasa con la pozione ad ordine. Noi n’andremo a

750 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

casa la madre, el dottore e io, a disporla, perché èmia nota. Poi n’andremo al frate, e vi ragguaglie-reno di quello che noi aren fatto.

CAL. Deh! non mi lasciare solo.LIG. Tu mi pari cotto.CAL. Dove vuoi tu che io vadia ora?LIG. Di là, di qua, per questa via, per quell’altra; egli è

sì grande Firenze!CAL. Io son morto.

Vaccaria

Anche un autore come il Ruzante, la cui commedia è caratterizzata da un potente realismo, difende il valore dell’imitazione e i model-li latini, pur nel rifiuto della lingua degli antichi commediografi. Un esempio di ciò è in uno dei due prologhi della Vaccaria, commediache si rifà a Plauto (Asinaria) per la struttura portante e a Terenzio (Adelphoe) per il tono e lo studio dei caratteri:

PROLOGO I (detto da uno spirito folletto)

Giocamo un pegno, che non è fra voi alcuno che sappi chi iosia. Volete dir ch’io son Mercurio, o pur un recitator di ar-gomenti di comedie? Ma non lo indivinareste giamai. A nontenervi in tempo sapete chi son? Uno spirto folletto. Sapeteperché me vi lascio vedere? Perché me vi mostro. Sapete on-de io vengo? Da l’altro mondo. E voglio dirvi perché.

Uno, che di là Actio e di qua Plauto è nominato (perchéchi è uomo da bene di là ha cura di chi è uomo da bene diqua), manda a dirvi che, dovendosi questa sera recitaruna comedia, non vogliate biasmarla se elle non è latina,o in verso, o di lingua tutta polita; ché, se egli fosse fravivi a questi tempi, non farebbe le sue comedie di altramaniera che di questa medesima, di cui sète spettatori. Esoggionge che non vogliate far giudizio di questa a le sue,che scritte lasciò, ché vi giura, per Hercule e per Apollo,ch’elle furono recitate altramente che non sono stampateoggidì; perché molte cose stanno ben nella penna, chenella scena starebben male.

Or io non ho da dir, né aspettar altra risposta. Se voleteche saluto alcuno di là, mi parto. Adio.

Scommettiamo che non c’è nessuno tra voi che sappia chiio sia. Volete dire che io sono Mercurio, oppure uno diquelli che recitano l’argomento delle commedie? Ma non loindovinereste mai. Per non tenervi in sospeso, sapete chisono? Uno spirito folletto. Sapete perché mi lascio vedereda voi? Perché a voi mi mostro. Sapete da che luogo pro-vengo? Dall’altro mondo. E voglio spiegarvene il motivo.Uno che, nell’al di là, viene chiamato Accio e qua Plauto(dato che è uomo dabbene all’altro mondo, si prende curadi chi è uomo dabbene in questo mondo), vi manda a direche, dovendosi recitare stasera una commedia, non voglia-te criticarla perché non è latina, o scritta in versi, o scrittatutta in una lingua raffinata; se egli infatti fosse vivo diquesti tempi, non scriverebbe le sue commedie in mododiverso da quello in cui è scritta questa stessa, di cui sietespettatori. E aggiunge che non vogliate giudicare questa inrapporto a quelle che lui ci lasciò scritte, perché vi giura,per Ercole e per Apollo, che esse furono recitate in manie-ra diversa da quella in cui oggi sono stampate; dal mo-mento che molte cose che sulla scena starebbero male,nella penna invece stanno bene. Ora io non ho altro da di-re, e non ho da aspettare altra risposta. Se volete che salu-ti qualcuno nell’al di là, io me ne vado. Addio.

Nella seconda metà del Cinquecento, al mutare della struttura politica anche il teatro sub-isce profondi cambiamenti. Gli spettacoli non sono più rappresentati per il raffinato e coltopubblico delle corti, ma per uno più ampio, composto di diversi strati sociali; le recite sonopresentate in sale teatrali, appositamente costruite, da compagnie stabili allo scopo soprat-tutto di divertire. Mutano fisionomia e struttura della commedia: acquista un’importanza pre-ponderante la scenografia con musica, balli, intermezzi; più che al testo il successo è affi-dato all’attore e alla sua abilità tecnica, alla voce, alla mimica, alla capacità gestuale. Na-sce la commedia dell’arte, che avrà grande sviluppo nel ’600 e vivrà fino al ’700, quando ilGoldoni introdurrà una nuova riforma nel teatro comico italiano. Venuto meno l’intento dirappresentare il costume e la società del tempo, la realtà contemporanea è «colta nei suoiaspetti più corposi». I personaggi non hanno più una loro fisionomia, ma diventano personaggi fissi, da cui hannotratto origine le maschere, che tuttavia echeggiano i personaggi della commedia letteraria cin-quecentesca e quindi del teatro latino: Pantalone ricorda il pater familias della commedia erudi-ta, il Capitano il miles, Arlecchino, come altri Zanni (il tipo del servo semplice e goffo) il servus.

La commedia dell’arte

Due Zanni nella rappresentazio-ne grafica di Alessandro Cervel-lati. [da Storia dei burattini eburattinai bolognesi, Cappelli,Bologna 1974].

Le «maschere»

Storia di base rimane la vicenda amorosa: dopo numerosi ostacoli e contrasti di solitoda parte di vecchi padri (talora anche mariti), grazie al determinante aiuto di astuti ser-vi i giovani innamorati concludono felicemente la loro storia. Permane anche il tipo ditrama, risultata dalla ricombinazione di strutture tratte dai repertori della commedia re-golare e quindi caratterizzata da intrighi ed equivoci, inganni e beffe. Il tratto più carat-teristico della commedia dell’arte è la massima importanza data alla recitazione: gli at-tori lavoravano su un canovaccio che delineava unicamente la struttura della comme-dia, indicando soltanto il luogo in cui si svolgeva l’azione, la situazione, gli eventi; que-sto canovaccio gli attori trasformavano, inventando e improvvisando, in rappresentazio-ne, arricchendolo di tutti gli elementi scenici di tipo comico: lazzi (buffi atti giocosi), ge-sti, battute attraverso cui venivano messe in risalto le doti di chi recitava; la commediadunque, di cui canto e danza erano parti integranti, era creata direttamente sul palco-scenico. Questo tipo di commedia, messa in scena da compagnie di teatro stabili, riscosse un note-vole successo popolare anche fuori d’Italia, in Francia, Spagna, Inghilterra, dove, negli ulti-mi anni del Cinquecento, molte compagnie di attori “itineranti” si erano recate per far cono-scere le loro recite.Determinante sarà in quei paesi la conoscenza della commedia italiana del Cinquecento acui come modello guarderà tutta l’Europa, come stanno a dimostrare le numerose traduzio-ni e imitazioni in voga in quegli anni, rivelandosi così un fondamentale momento geneticodello spettacolo scenico moderno sulla cui base si rinnoverà la drammaturgia europea.Per ricordare solo i maggiori scrittori di commedie, menzioniamo per la Francia Corneil-le, Racine (più noto per le tragedie) e Molière, che diedero grande prestigio al teatrofrancese del XVII secolo, per la Spagna Lope de Vega e Calderon de la Barca, perl’Inghilterra Shakespeare. Per lo più autori-attori seppero fondere l’esperienza teatralecon le esigenze letterarie; tutti conobbero, per lo meno attraverso riadattamenti cinque-centeschi, le opere dei commediografi antichi che, attraverso la loro rielaborazione, eb-bero nuova vita.

La commedia dal Rinascimento al Settecento 751

Veduta del Teatro Olimpico diVicenza.

Gli influssi delle commedie italiane in Europa

L’avaro

Di Molière, che negli Antichi riconosceva i suoi maestri e che fissò nel testo ciò che nella commedia dell’arte era lasciato all’improvvi-sazione e al talento dell’attore, fornendo per primo indicazioni per la messa in scena, riportiamo una scena tratta da L’avaro, in cuil’autore francese è debitore a Plauto (Aulularia) sia per la trama generale che per il carattere del protagonista.

SCENA SETTIMA

ARP. = Arpagone

ARP. (gridando al ladro, dal giardino) Al ladro! al ladro! all’assassino! al malandrino! Giusto cielo, fammi giustizia!Sono perduto, sono assassinato, m’hanno scannato, mi hanno rubato il mio denaro! Chi può essere? Che ne è sta-to? Dov’è? Dove si nasconde? Che debbo fare per ritrovarlo? Dove andare? Dove non andare? Che sia là? Chesia qui? Chi è? Fermo! (A se stesso, afferrandosi un braccio) Rendimi il denaro, briccone!… Ah! sono io. Lamia testa se ne va; non so più dove sono, chi sono e che cosa faccio. Ahimè! povero il mio denaro! povero il miodenaro! l’amico mio più caro! M’hanno privato di te, e ora che t’hanno portato via da me, ho perduto il mio so-stegno, la mia consolazione, la mia gioia! Tutto è finito per me; non ho più nulla da fare a questo mondo. Comefaccio a vivere senza di te? È finita. Non ce la fo più. Muoio, sono morto, sono sepolto. Non c’è nessuno che vo-glia risuscitarmi restituendomi il mio caro denaro o dicendomi chi l’ha preso? Eh? Cosa dite? Nessuno. Chiun-que abbia fatto il colpo, bisogna che abbia spiato il momento con molta cura, e si è scelto proprio quello in cuiparlavo con quel traditore di mio figlio. Usciamo. Bisogna che mi rivolga ai giudici, che metta alla tortura tutti,serve, servitori, valletti, figlio, figlia e anche me. Che cos’è tutta questa gente? Non vedo nessuno che mi dia so-spetto e tutti mi sembrano il mio ladro. Eh? di che cosa parlate là? di quello che m’ha derubato? E questo chias-so lassù? C’è forse il mio ladro? Vi prego, se sapete qualcosa del mio ladro, vi supplico di dirmelo. Non è nasco-sto in mezzo a voi? Mi guardano tutti e si mettono a ridere. Scommetto che tutti hanno preso parte al furto chemi è stato fatto. Su, presto, dei commissari, dei gendarmi, dei podestà, dei giudici, delle torture, delle forche, deiboia. Voglio fare impiccare tutti e se non ritrovo il mio denaro, m’impiccherò io, dopo.

Nel resto dell’Europa, specialmente in Francia con Corneille e Racine e in Inghilterra conShakespeare, si sviluppa la tragedia. In parte si recuperano il mito e la tragedia classica(Francia), in parte si dà vita a un dramma storico dalle profonde tinte tragiche (Inghilterra).Sono comunque visibili i segni del teatro italiano itinerante (in Italia, salvo pochi tentativiaulici, la tragedia si svilupperà nel melodramma e più tardi, nei testi alfieriani).Il segno forse più evidente della commedia dell’arte sul teatro inglese d’epoca elisabettianaè la presenza della figura del clown, il buffone (erede, in fondo, degli antichi mimi latini),particolarmente amato dal pubblico elisabettiano. Questo si ritrova anche nella tragedia do-ve gli autori di teatro del tempo introdussero «elementi bassi», venendo a creare una com-mistione lontana dai rigidi schemi dei generi classici.

752 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

SCENA III

PORT. = Portiere; MAC. = Macduff

(Entra un Portiere)PORT. Qui si batte, nulla di più vero; ma se un uomo cu-

stodisce le porte dello Inferno, egli dovria ben difrequente volgerne e rivolgerne la chiave(battono). Picchia, picchia, picchia. Chi va là, innome di Belzebub? Egli è un fattore ches’appiccò, stanco d’attendere le messi: arriva intempo; porti pur seco buone tele, chè qui n’avràd’uopo per asciugarsi il sudore (battono). Picchia,picchia. Chi è là, in nome del Diavolo? In fedemia, è un dottorino che avrebbe giurato sopra en-trambi i piattelli della giustizia, e commesso millemariuolerie, segnandosi sempre nel nome del Si-gnore. Oh sia il benvenuto, dottore (battono)! Pic-chia, picchia, picchia. Chi è là? Sull’onor di Sata-nasso, l’è un sartore. Ah maledetto sartore! vieniqui ad abbrustolarti la bugiarda lingua (battono).Picchia, picchia: mai un momento di riposo! Chi

siete voi…? Ma questo luogo è troppo freddo perpoter raffigurare l’Inferno, né voglio più farla daportiere del diavolo. M’era immaginato di condurqui un uomo di tutte quelle professioni che guida-no pel più breve cammino al fuoco dell’eternagioia; ma… (battono). Vengo, vengo (va ad apri-re). In mercè, signori, non vi dimenticate del por-tiere. (Entrano Macduff e Lenox)

MAC. Buon uomo, ti coricasti dunque assai tardi iersera,per dormire anche a quest’ora?

POR. Affè, signore, che sbevazzavamo ancora alla se-conda cantata del gallo; e il bere sapete che è ungran provocatore di tre cose.

MAC. Quali sono queste cose che il bere provoca?POR. Il sonno, la parola, e un’altra che, se mel permet-

tete, passerò sotto silenzio.MAC. Alla buon’ora, il mio uomo: or vanne a vedere s’è

alzato il nobile Macbeth. Col frequente nostro bat-tere avremmo dovuto risvegliarlo; e… se nonm’inganno… sì, eccolo appunto.(Entra Macbeth)

Macbeth

Un esempio è dato dalla figura del Portiere che, intervenendo nella scena successiva all’omicidio e al dialogo tra Macbeth e sua mo-glie, riporta l’azione a toni «comici», abbassando la tensione drammatica.

Se in Europa la commedia del Cinquecento è stata sostanzialmente «italiana», nel Seicen-to si affermano la commedia spagnola e, soprattutto, quella francese. In questo secolo inItalia mancano commedie di qualità; sulla scena compaiono da un lato traduzioni di com-medie di autori antichi o francesi e spagnoli, da un altro continua la tradizione della com-media dell’arte che però, dopo un secolo e mezzo di successo, va esaurendosi, incontran-do sempre meno il gusto degli spettatori, che saranno maggiormente attratti dal melodram-ma che fondeva elementi tragici e comici.

Il teatro del XVIII secolo è importante «perché acquisisce nell’Europa continentale una fun-zione sociale che non aveva dai tempi dell’antica Grecia» (Brown). A tutti risulta evidenteche è ormai necessario rivitalizzarlo e moralizzarlo.

La commedia del Settecento e dell’Ottocento

L’interno di un celebre teatro elisabettiano, The Swan (Il cigno), neldisegno di Jan De Witt del 1596. [Utrecht, Biblioteca dell’Università].

In Italia nasce, verso la metà del secolo, un appassionato dibattito sui problemi posti dallasituazione in cui versa la commedia e sulle diverse possibilità di riformarla e si fa stradal’idea di dover ridare al testo la funzione di struttura-base dello spettacolo. Significative trasformazioni saranno operate grazie alla riforma di Goldoni. Sarà lui cheriuscirà a creare il tipo di commedia nuova e moderna a cui tutti, letterati, pubblico e teatran-ti, tendevano, una commedia «spettacolare ed educativa, realistica e critica». Egli, dopo nu-merose esperienze teatrali che seguivano le modalità di spettacolo in voga (scrittura di ca-novacci), solo intorno agli anni ’50, venuto a contatto con intellettuali e aristocratici rappre-sentanti di un mondo imbevuto di cultura riformatrice, aperto all’Europa, comprese che unavera riforma della commedia non poteva fare a meno di ridare importanza al testo. Dallascrittura dunque del semplice canovaccio, come era stato nella commedia dell’arte, passò,come era stato nell’antichità, a quella di tutte le battute: gli attori in tal modo non dovevanopiù improvvisare sulla scena. Il cambiamento era notevole perchè non riguardava solo chiscriveva le opere per il teatro, ma anche chi faceva teatro. I tipi fissi delle maschere dellacommedia dell’arte vennero da lui sostituiti da personaggi della quotidianità con una propriacaratterizzazione, tratti dalla società a lui contemporanea. Questo tratto realistico è unito adun intento morale: con una moderata satira di costume sono presi di mira i mali della socie-tà, soprattutto i vizi della nobiltà, ma anche l’avidità della classe borghese, la rozzezza delpopolo; comunque la borghesia risulta migliore della nobiltà; e della borghesia vengono ri-proposti i valori portanti della tradizione: la famiglia, l’onore, l’attenzione al patrimonio.

La commedia del Settecento e dell’Ottocento 753

La «riforma» goldoniana

La locandiera

Di una delle sue migliori e più note commedie di carattere, La locandiera, proponiamo la lettura dialcune scene (VI-IX) del I atto: come personaggi vi compaiono il Conte, uomo arricchito che hacomprato il titolo nobiliare, il Marchese di Forlimpopoli, nobile decaduto e ormai senza danaro, Mi-randolina, la locandiera, la quale rappresenta il ceto borghese-mercantile pieno di senso pratico eattento al danaro. I due uomini corteggiano Mirandolina che con civetteria tutta femminile e buonsenso si destreggia per non urtare i suoi clienti; nel monologo però si rivelano la sua vera indole e isuoi pensieri nascosti:

SCENA VI

MAR. = il Marchese; CON. = il Conte; MIR. = Mirandolina.

MIR. Che uomo selvatico! Non ho veduto il compagno.CON. Cara Mirandolina, tutti non conoscono il vostro

merito.MIR. In verità, son così stomacata del suo mal procede-

re, che or ora lo licenzio adirittura.MAR. Sì; e se non vuol andarsene, ditelo a me, che lo fa-

rò partire immediatamente. Fate pur uso della miaprotezione.

CON. E per il denaro, che aveste a perdere, io supplirò epagherò tutto. (Sentite, mandate via anche il Mar-chese, che pagherò io). (Piano a Mirandolina)

MIR. Grazie, signori miei, grazie. Ho tanto spirito chebasta, per dire ad un forestiere ch’io non lo voglio,e circa all’utile, la mia locanda non ha mai camerein ozio.

SCENA VII

FAB. = Fabrizio e detti

FAB. Illustrissimo, c’è uno che la domanda. (Al Conte)CON. Sai chi sia?

FAB. Credo ch’egli sia un legatore di gioje. (Mirandoli-na, giudizio; qui non istate bene). (Piano a Miran-dolina, e parte)

CON. Oh sì, mi ha da mostrare un gioiello. Mirandolina,quegli orecchini, voglio che li accompagniamo.

MIR. Eh no, signor Conte…CON. Voi meritate molto, ed io i denari non li stimo

niente. Vado a vedere questo gioiello. Addio, Mi-randolina; signor Marchese, la riverisco! (Parte)

SCENA VIII

MAR. = il Marchese; MIR. = Mirandolina

MAR. (Maledetto Conte! Con questi suoi denari mi am-mazza). (Da sé)

MIR. In verità il signor Conte s’incomoda troppo.MAR. Costoro hanno quattro soldi, e li spendono per va-

nità, per albagia. Io li conosco, so il viver delmondo.

MIR. Eh, il viver del mondo lo so ancor io.MAR. Pensano che le donne della vostra sorta si vincano

con i regali.MIR. I regali non fanno male allo stomaco.MAR. Io crederei di farvi un’ingiuria, cercando di obbli-

garvi con i donativi.

Rina Morelli (Mirandolina) eGiorgio De Lullo (Fabrizio) inuna scena dell’Atto III de La lo-candiera, nel celebre allestimen-to di Luchino Visconti (stagioneteatrale 1952/1953).

MIR. Oh, certamente il signor Marchese non mi ha in-giuriato mai.

MAR. E tali ingiurie non ve le farò.MIR. Lo credo sicurissimamente.MAR. Ma dove posso, comandatemi.MIR. Bisognerebbe ch’io sapessi, in che cosa può Vo-

stra Eccellenza.MAR. In tutto. Provatemi.MIR. Ma verbigrazia, in che?MAR. Per bacco! Avete un merito che sorprende.MIR. Troppe grazie, Eccellenza.MAR. Ah! direi quasi uno sproposito. Maledirei quali la

mia Eccellenza.MIR. Perché, signore?MAR. Qualche volta mi auguro di essere nello stato del

Conte.MIR. Per ragione forse de’ suoi denari?MAR. Eh! Che denari! Non li stimo un fico. Se fossi un

conte ridicolo come lui…MIR. Che cosa farebbe?MAR. Cospetto del diavolo… vi sposerei. (Parte)

SCENA IX

Mirandolina sola.

MIR. Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signormarchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mivolesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà.Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo

754 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

non so che farne. Se avessi sposato tutti quelli chehanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti!Quanti arrivano a questa locanda, tutti di mes’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti etanti mi esibiscono di sposarmi adirittura. E que-sto signor cavaliere, rustico come un orso, mi trat-ta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere ca-pitato alla mia locanda, il quale non abbia avutopiacere di trattare con me. Non dico che tutti in unsalto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi co-sì? È una cosa che mi muove la bile terribilmente.È nemico delle donne? Non le può vedere? Poveropazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappiafare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che nonl’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi cimetto di picca. Quei che mi corrono dietro, prestopresto si annoiano. La nobiltà non fa per me. Laricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio pia-cere consiste in vedermi servita, vagheggiata, ado-rata. Questa è la mia debolezza, e questa è la de-bolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non cipenso nemmeno, non ho bisogno di nessuno; vivoonestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tut-ti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglioburlarmi di tante caricature di amanti spasimanti;e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere econquassare quei cuori barbari e duri che son ne-mici di noi, che siamo la miglior cosa che abbiaprodotto al mondo la bella madre natura.

Le innovazioni di Goldoni destarono rivalità e polemiche da chi voleva si conservasse latradizione italica della commedia dell’arte come Chiari e Gozzi; quest’ultimo rifiutava pro-prio alcuni tratti peculiari del nuovo teatro: il realismo, l’uso di un linguaggio contemporaneoe dialettale. Ciò indusse Goldoni ad allontanarsi dall’Italia e a recarsi in Francia, dove vissefino alla morte (a Parigi divenne il drammaturgo della Comédie Italienne e scrisse, in fran-cese, due commedie di carattere).Si può affermare che Goldoni, autore di farse e di commedie di ogni specie, d’intreccio e dicarattere, che seppe rappresentare la società del Settecento con grande vivacità scenica,sia stato l’ultimo grande rappresentante della commedia intesa come genere con normeprecise; dopo di lui vi si dedicarono pochi scrittori.Il Settecento dunque fu un secolo che dedicò grande attenzione al teatro comico. Ne è pro-va anche il nascere di nuovi sviluppi di questo genere, anche se destinati a non averegrande prosieguo: sulla tradizione, mai completamente spenta, degli intermezzi musicali,nascono l’opera buffa napoletana e poi il dramma giocoso inventato da Goldoni, tipi dicommedie musicali in cui si alternavano parti recitate e parti cantate. L’Ottocento vede protagonista, nell’ambito del teatro, la Francia. Ovunque lo spettacolo piùpopolare fu il melodramma intendendosi con questo non, come in Italia, un sinonimo diopera lirica, ma un genere teatrale nella cui formula erano accostati personaggi ed elemen-ti patetici ad altri decisamente comici, a cui cercarono di dare dignità letteraria Victor Hugoe Alexandre Dumas padre. Diverse da questo per forma e finalità, farse e commedie bril-lanti inframezzate da canzoni su arie popolari venivano rappresentate nei teatri riservati aigeneri popolari come il Vaudeville, dove il pubblico voleva ridere e distrarsi. In Italia il teatro, a parte l’opera di Rossini e di Verdi, non conosce nuove forme: le rappre-sentazioni si rifanno di solito alla commedia dell’arte, perpetuandosi in tal modo la tradizio-ne del teatro popolare che a queste affianca anche il balletto, o alle commedie di Goldoni,che rimane unico punto fermo per tutto il secolo. Diversamente che nel resto d’Europa, do-

L’Ottocento francese e la stasi italiana

ve scomparvero quasi completamente lasciando il posto a teatri nazionali, continuarono atener vivo il teatro le compagnie itineranti in cui gli attori si specializzavano in «ruoli», ossiaparti, personaggi che competevano a ciascuno di loro. Si può dire dunque che «la storiadel teatro italiano ottocentesco è comunque storia dei suoi attori» (Molinari), che si riface-vano ad un patrimonio che si era andato tramandando nei secoli e costituiva la peculiaritàdel teatro italiano. Per darne un’idea riportiamo un esempio di come venne codificata la tra-dizione mimica, la gestualità dell’attore:

Furore: Levare, rimettere il cappello, calcarlo in testa, gettarlo a terra, riprenderlo,falo a pezzi; camminare a gran passi disordinati, ora diritto, ora obliquo. Ora lemani ne’ capelli, ora tirar giù il farsetto, sbottonarlo, slacciarlo; sostare un mo-mento or qua or là. Picchiar forte col pugno sulle mobiglie, rovesciar sedie, fracas-sar vasi, stoviglie, battersi col pugno la cervice, chiudere spalancar usci, lanciarsi asedere, pestare, rivoltarsi, rimbalzare in piedi.Orgoglio: Un braccio imbisacciato al sommo del petto, l’altro arrovesciato sulfianco col gomito rivolto al dinanzi e capo retto.

A cavallo fra Ottocento e Novecento il teatro conosce un periodo di crisi. Vero protagonistadiventa l’attore che, alla ricerca di nuove forme espressive, media fra autore e scena; si svi-luppano così numerose scuole di drammaturgia.Tragedie e commedie, intese secondo i canoni classici, non vengono più scritte: entrambi igeneri si sono esauriti. Le poetiche del ’900, e in particolare il simbolismo, mettono in crisi ilsistema di convenzioni teatrali ritenute dal naturalismo le uniche in grado di rappresentarefedelmente la realtà. «Lo spazio della scena cerca un’altra verità, non più quella apparente,neanche se documento fedele della realtà… La parola poetica, in versi e con il concorso diquanto può evocare le più differenti sensazioni, dalla musica al canto agli odori ai colori, sifa protagonista della scena: non racconta eventi, non tesse trame, non sviluppa azioni, mapredica liricamente se stessa e la propria potenza» (Greco). Così anche il movimento futurista auspica un teatro che rompa con la tradizione; come scri-ve Marinetti, l’intenzione era di «abolire la farsa, il vaudeville, la pochade, la commedia, ildramma e la tragedia, per creare al loro posto le numerose forme del teatro futurista, comele battute in libertà, la simultaneità, la compenetrazione, il poemetto animato, la sensazionesceneggiata, l’ilarità dialogata, l’atto negativo, la battuta riecheggiata, la discussione extra-logica, la deformazione sintetica, lo spiraglio scientifico».In questo secolo nascono nuove forme teatrali come il dramma borghese e il teatro grotte-sco in cui vengono mescolati registri e stili tragici e comici, ma anche un teatro leggero conl’operetta, il varietà, il cabaret. La categoria del comico in tutte può essere presente, dovepiù, dove meno, con espressioni e intenti diversi. La comicità non mira sempre e solo a di-vertire. Prevale negli artisti l’intento di comunicare i sentimenti che pervadono la societàborghese: assurdità dell’esistenza, angoscia, incomunicabilità. Questa comunicazione nonè affidata prevalentemente al racconto del reale, ma talora, come nel teatro grottesco, pa-rodiando le convenzioni della vita sociale e dell’illusionismo del teatro tradizionale (cade laseparazione fra scena e pubblico, crolla il mito della recitazione, il testo non pre-esiste piùalla rappresentazione, ma si crea sulla scena stessa); talora, come sarà nel teatro dell’as-surdo e poi in altre espressioni del teatro d’avanguardia, il centro d’attenzione è trasferitosul linguaggio che diventa lo specchio di una realtà frantumata e dissolta.Il teatro si osserva, scopre le sue carte, instaura con il pubblico un nuovo rapporto. Piran-dello, attraverso la riflessione teorica (di particolare interesse per il nostro tema lo scrittoL’umorismo) e una continua ricerca e sperimentazione sulla scena, è uno dei grandi artefi-ci di questo processo. Egli inoltre ha dato vita ad uno dei filoni che avranno maggiore svi-luppo nel teatro novecentesco, quello dell’incomunicabilità e dell’assurdo a cui si è fattocenno.

Il teatro nel Novecento

Il teatro nel Novecento 755

Il teatro futurista

Dal dramma borghese al teatro dell’assurdo

Delirio a due

Un esempio di teatro dell’assurdo è in Eugène Ionesco, scrittore degli anni ’50, in cui parodia e farsa sono finalizzate a presentarel’assurdità delle convenzioni che dominano l’uomo. Il dialogo che segue, in Delirio a due, mostra il vano tentativo di comunicare attra-verso la parola che risulta così vuota espressione.

756 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

Camera qualunque, sedie, letto, pettiniera, finestra in fon-do, porta a sinistra, porta a destra. Lei è davanti alla petti-niera situata accanto alla porta a proscenio sulla sinistra.Lui passeggia per la stanza, non propriamente nervoso maun po’ agitato, le mani incrociate dietro la schiena, gli oc-chi al soffitto, come se guardasse volare le mosche. Si odo-no dall’esterno rumori, voci, colpi d’arma da fuoco. Mimi-ca senza parole – andirivieni dell’uomo, toeletta della don-na – per sessanta secondi. I due personaggi sono in vesteda camera e pantofole. La veste da camera dell’uomo èpiuttosto sporca, quella della donna rivela qualche velleitàdi civetteria. Lui non è rasato. Entrambi non sono giovani.

LEI La vita che mi avevi promesso! Quella che mi faifare! Ho abbandonato un marito per seguire unamante. Il romanticismo. Il marito ne valeva diecidi te, seduttore! Non mi contraddiceva, lui, stupi-damente.

LUI Non ti contraddico per partito preso. Quando dicicose che non sono vere, non posso star zitto. Ho ilculto della verità.

LEI Quale verità? Dal momento che ti dico che nonc’è nessuna differenza. Questa è la verità. Non c’èdifferenza. La chiocciola e la tartaruga, sono lastessa cosa.

LUI Storie. Non sono affatto la stessa bestia.LEI Bestia sarai tu. Idiota.LUI L’idiota sei tu.LEI Insultami, imbecille, schifoso, seduttore.LUI Ma ascoltami almeno, ascoltami, per piacere.LEI Che cosa debbo ascoltare dopo diciassette anni

che ascolto. Diciassette anni che mi hai strappata amio marito, al mio focolare.

LUI Ma questo non ha niente che vedere con la que-stione.

LEI Quale questione?LUI Quella di cui stiamo parlando.LEI Basta, non ci sono più questioni. La chiocciola e

la tartaruga sono la stessa bestia.LUI No, non sono la stessa bestia.LEI Sì, la stessa.LUI Ma chiunque te lo dirà.LEI Chiunque chi? La tartaruga non ha un guscio? Ri-

spondi.LUI E allora?LEI La chiocciola non ce l’ha?LUI Sì. E allora?LEI La tartaruga e la chiocciola non si chiudono forse

nel loro guscio?LUI Sì. E allora?LEI La tartaruga, o chiocciola, non è un animale lento,

bavoso, con il corpo corto? Non è una specie dipiccolo rettile?

LUI Sì. E allora?LEI E allora, vedi, ti fornisco prove, io. Non si dice

lento come una tartaruga e lento come una luma-ca? E la lumaca, cioè la tartaruga, forse che nonstriscia?

LUI Non allo stesso modo.LEI Non allo stesso modo che cosa? Vuoi dire che la

chiocciola non striscia?LUI No.LEI Allora vedi bene che è una tartaruga.LUI Ma no.LEI Testardo, lumacone! Spiega perché.LUI Perché.LEI La tartaruga, cioè la chiocciola, passeggia con la

sua casa sulla schiena.LUI La lumaca è imparentata con la chiocciola. È una

chiocciola senza casa. Per contro la tartaruga nonha niente che vedere con la lumaca. Ah! Vedi?Vedi che non hai ragione.

LEI Ma spiegami, spiegami, zoologo, perché non avreiragione.

LUI Perché…LEI Forza, fuori le differenze, se sei capace di trovar-

ne.LUI Perché… le differenze… Ci sono delle rassomi-

glianze, non posso negarlo.LEI Allora perché ti ostini a negare?LUI Le differenze, sono… sono… è inutile, visto che

non vuoi ammetterlo; e poi sono troppo stanco.Ho già spiegato tutto, non vorremo mica ricomin-ciare adesso. Ne ho fin sopra i capelli.

LEI Non vuoi spiegare perché hai torto e perché sei acorto di argomenti. Se tu fossi in buona fede loconfesseresti. Ma sei in mala fede, sei sempre sta-to in mala fede.

LUI Quante stupidaggini dici. Rifletti: la lumaca ap-partiene… o meglio la chiocciola… mentre la tar-taruga…

LEI Oh basta! Basta! Smettila! Non ne posso più disentirti divagare.

LUI Anch’io, non ne posso più di ascoltarti. Non vo-glio più ascoltare niente.

(Rumore di una forte esplosione)

LEI Non ci capiremo mai.LUI Come ci si potrebbe capire? Non ci capiremo mai.

(Pausa). La tartaruga ha le corna?LEI Non ho mai guardato.LUI La chiocciola le ha.LEI Non sempre. Solo quando le fa vedere. La tartaru-

ga è una chiocciola che non le fa vedere. Di checosa si nutre la tartaruga? D’insalata. La chioccio-

la anche. Dunque sono la stessa bestia. Dimmi checosa mangi e ti dirò chi sei. D’altronde la tartaru-ga e la lumaca sono commestibili.

LUI Non si cucinano nello stesso modo. D’altrondenon si mangiano tra di loro proprio come i lupi,perché sono della stessa specie.

LEI Questo tutt’al più vuol dire che una è una varietàdell’altra. Ma sono la stessa specie, la stessa.

LUI Specie di minchiona.LEI Dicevi, scusa?LUI Dicevo che noi non siamo della stessa specie.LEI Avresti dovuto accertartene da un pezzo.LUI Me ne sono accorto dal primo giorno. Troppo tar-

di, però. Avrei dovuto accorgermene prima di farela tua conoscenza. La vigilia. Dal primo giorno hocapito che noi non ci saremmo mai capiti.

LEI Avresti dovuto lasciarmi a mio marito, all’affettodei miei, avresti dovuto dirmelo, lasciarmi ai mieidoveri. Doveri che erano un piacere di ogni atti-mo, di giorno e di notte.

LUI Che cosa ti è saltato in mente di venirmi dietro?LEI Sei tu che mi hai assalita, seduttore! Diciassette

anni fa! Non si ha cervello a quell’età. Ho abban-donato i miei figli. Non avevo figli, ma avrei potu-to averne. Tanti quanti avessi voluto avrei potutoaverne. Mi avrebbero circondata e mi avrebberodifesa. Diciassette anni!

LUI Verranno altri diciassette anni, ancora diciassette.La ruota gira.

LEI Ma il brutto è che tu non vuoi ammetterel’evidenza. Anzitutto la lumaca ha la sua casettanascosta. Dunque è una chiocciola. Quindi in so-stanza una tartaruga.

LUI Ci sono: la chiocciola è un mollusco, un molluscogasteropode.

LEI Mollusco sei anche tu. Il mollusco è un animalemolle, come la tartaruga, come la chiocciola. Nonc’è nessuna differenza. Se tu spaventi una chioc-ciola, quella si nasconde nella sua conchiglia,esattamente come la tartaruga. Prova di più chesono la stessa bestia.

LUI Dopo tutto me ne importa proprio niente. Sono di-ciassette anni che litighiamo per la tartaruga e lachiocciola…

LEI Per la chiocciola o tartaruga.LUI Come preferisci. Non voglio più sentirne parlare.

(Pausa). Anch’io ho abbandonato mia moglie,d’accordo, avevo già divorziato. Ci si consolapensando che è una cosa che succede a migliaia dipersone. Non si dovrebbe divorziare. Se non mifossi sposato, non avrei divorziato. Non si sa mai.

LEI Oh sì, con te, non si sa mai, sei capace di tutto. Unvero buono a nulla.

LUI Una vita senza avvenire non è mai altro che unavita senza avvenire. E ancora.

LEI C’è gente che ha fortuna. I fortunati. Gli sfortunatinon ne hanno.

LUI Io ho troppo caldo.LEI Io ho freddo. Non è l’ora di aver caldo.

Il teatro nel Novecento 757

LUI Ti rendi conto che non si va mai d’accordo. Mai.(Apre la finestra).

LEI Vorresti farmi gelare. Uccidermi.LUI Non voglio ucciderti. Voglio soltanto un po’ d’aria.LEI Dicevi che ci si doveva rassegnare all’asfissia.LUI Quando l’ho detto? Non ho mai detto una cosa si-

mile.LEI Sì che l’hai detto. L’anno scorso. Non sai più

quello che ti dici. Ti contraddici.LUI Non mi contraddico. Sono le stagioni.LEI Quando sei tu ad aver freddo mica che me la lasci

aprire la finestra.LUI Appunto questo ti rimprovero, di aver caldo quan-

do io ho freddo e freddo quando io ho caldo. Nonriusciamo mai ad avere caldo e freddo nello stessotempo.

LEI Non si ha mai freddo e caldo nello stesso tempo.LUI No. Mai caldo e freddo nello stesso tempo.LEI La verità è che non sei un uomo come gli altri.LUI Io? Io non sono un uomo come gli altri?LEI No. Sfortunatamente non sei un uomo come gli al-

tri.LUI No, non sono un uomo come gli altri, fortunata-

mente.

(Esplosione)

LEI Sfortunatamente.

(Esplosione)

LUI Fortunatamente. (Esplosione). Un’esplosione. Ionon sono un uomo qualunque. Non sono un imbe-cille, come tutti gli imbecilli che hai conosciuto.

(Esplosione)

LEI Toh! Un’esplosione.LUI Non sono il primo venuto! Ero invitato a casa di

principesse che avevano scollature fino all’ombe-lico e sopra camicette per coprirsi altrimenti sa-rebbero state nude. Avevo idee geniali. Avrei po-tuto scrivere, mi avrebbero invitato a farlo. Avreipotuto essere poeta.

LEI Ti credi più furbo degli altri, anch’io l’ho creduto,un giorno, quando ero pazza. Non è vero. Ho fattofinta di crederti, perché mi hai sedotta, ma tu seisoltanto un cretino.

LUI Cretina!LEI Cretino! Seduttore!LUI Ti proibisco di insultarmi e non chiamarmi più se-

duttore. Non ti vergogni?LEI Non ti insulto. Ti smaschero.LUI Anch’io ti smaschero. Via i belletti. (Le dà un for-

te schiaffo).LEI Vigliacco! Seduttore! Seduttore!LUI Attenzione… o guai!LEI Dongiovanni! (Gli dà uno schiaffo) Ben ti sta!LUI Zitta! Ascolta!…

Ma, come si è accennato, a fianco di questo teatro impegnato, nascono e si sviluppano ge-neri che sono di tono decisamente leggero e conservano l’intento di far ridere:l’avanspettacolo, il varietà, la rivista, il café chantant, il cabaret. Tutti questi si configuranocome spettacoli senza una trama (esclusa la rivista), ma composti di brevi scenette chespesso sfruttano tecniche ripetitive e uguali a se stesse che attingono alla comicità popolare. L’avanspettacolo era destinato ad essere rappresentato prima della proiezione dei film; ilcafé chantant era come un momento di spettacolo nei caffé in cui la borghesia ricca consu-mava; il varietà nasceva come l’avanspettacolo, ma presentava spettacoli molto ricchi e ar-tisti selezionati e di grande fama; il cabaret infine si presentava come spettacolo destinatoad un pubblico più colto, in quanto usava tecniche più raffinate come giochi di parole.

758 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

Il teatro leggero

Due esempi di questa comicità: il primo è una scenetta-canovaccio scritta prima della Seconda guerra mondiale forse da Mimì Mag-gio per la sua compagnia che girava per tutta l’Italia, il secondo è tratto da Mistero buffo di Dario Fo che inizia il suo percorso artisti-co come cabarettista e di questo conserva traccia anche nelle sue opere più mature.

MIMÌ MAGGIO

ROS. = Rosalia; BEN. = Beniamino

ROS. Scusate, scusate. Dottor Carlo? Il dottor Carlo èvenuto in teatro? Ho lasciato due biglietti al botte-ghino. Per favore, la maschera. Maschera, è venu-to in teatro il dottor Carlo per me? Ma qui non c’ènessuno. Scusate, signore…

BEN. Prego; mi dica.ROS. Avete visto Carlo?BEN. A chi?ROS. Carlo, il dottor Carlo?BEN. (dopo un tempo) Mi spiace, ma non lo conosco.ROS. Ma non vi ho chiesto se lo conoscete, vi ho chie-

sto se l’avete visto.BEN. Ma se non lo conosco, come lo vedo?ROS. Perché, voi a me mi conoscete?BEN. No.ROS. Allora non mi vedete!BEN. (dopo un tempo) No, io a voi vi vedo…ROS. Ah, mi vedete?BEN. Sì.ROS. Mi vedete? E allora perché a Carlo, che io conosco

e voi non conoscete, non lo vedete, mentre a me,che non mi conoscete, mi vedete? Perché, perché?

BEN. (dopo un tempo) Mado’, me chesta è scema!ROS. (starnutisce tre volte).BEN. Salute!ROS. No, non vi preoccupate: ho preso freddo alle spal-

le e ne devo fare nove.BEN. Quanti ne dovete fare?ROS. Nove.BEN. E quanti ne avete fatti?ROS. Tre.BEN. Mado’, cca ce spicciamo a’ Vigilia ’e Natale!ROS. Per piacere, mi date un poco il fazzoletto?BEN. Il fazzoletto? (Poi, dopo un tempo, le dà il fazzo-

letto).ROS. (si soffia il naso, rumorosamente, poi ridà il faz-

zoletto a Beniamino) Grazie.BEN. (guarda il fazzoletto sporco, è interdetto, lo tocca)

All’anima! Signo’, lo sapete che siete proprio una

sporcacciona?ROS. E perché?BEN. E come, vi soffiate il naso proprio vicino al fazzo-

letto mio!ROS. Perché, voi col fazzoletto che ci fate?BEN. Io mi ci soffio il naso!ROS. Ebbè, e io che ho fatto, non mi ci sono soffiata il

naso?BEN. (dopo un tempo) Ma voi quale naso ci avete sof-

fiato?ROS. Il mio, il mio! E non volevate mica che vi soffiavo

il naso a voi?BEN. Il naso mio me lo soffio io.ROS. E soffiate, forza soffiate…BEN. (guarda il fazzoletto sporco, lo tocca, poi, dopo un

tempo, infastidito) No, adesso non mi va!ROS. (aggressiva) E allora non ve lo soffiate. Che colpa

ne ho io se ho il raffreddore.BEN. (stizzito) E se avete il raffreddore vi comprate un

fazzoletto!ROS. Ma io il fazzoletto che l’ho (Mostra il fazzoletto)

eccolo.BEN. E come, avete il fazzoletto vostro e venite a pren-

dere il fazzoletto mio?ROS. E si capisce: perché poi se qualcuno mi chiede il

fazzoletto io poi che faccio, gli dò il fazzolettosporco?

BEN. E allora pigliatevi questo (le dà il suo fazzolettosporco) e datemi questo (fa per prendere il fazzo-letto pulito di Rosalia).

ROS. Ma nossignore, ma come, avete il vostro fazzolet-to e volete sporcare il mio?

BEN. Ma voi il mio l’avete sporcato?ROS. Ma che c’entra questo, io ve l’ho chiesto per pia-

cere…BEN. Eh… piacere fino a un certo punto. (Dopo un tem-

po) Allora io vi dico, per piacere, datemi cinquan-tamila lire!

ROS. Perché, voi con le cinquantamila lire vi ci soffiateil naso.

BEN. No, io ’e cinquantamila lire me le vaco a mangia’.ROS. Perché, io sono andata a mangiare con il vostro

fazzoletto?

Il teatro nel Novecento 759

BEN. (dopo un tempo, spazientito) Ma come ragionachesta!

ROS. Ma lo sapete che siete un bel tipo: prima mi date ilvostro fazzoletto e poi volete sporcare il mio. Ep-poi chiedete cinquantamila lire a una donna… malo sapete chi chiede cinquantamila lire a una don-na? Lo sapete, lo sapete? I magnaccia. Eppoi losapete quanto ci metto a guadagnare cinquantami-

la lire io? Una settimana. (Poi pronta, aggressiva)Ma insomma, voi che volete ’a me?

BEN. (dopo un tempo. Ha perso completamente la pa-zienza) Ma tu che vuo’ ’a me! (Esce).

ROS. Ma io cercavo un mio amico, Carlo, il dottor Car-lo… (Esce).

Mistero buffo, Moralità del cieco e dello storpio

La mescolanza di situazioni dolorose, comiche, grottesche e sacre è tipica del teatro di strada medioevale, la cui tradizione è ripresa daFo, autore-attore proveniente dal cabaret. Nel brano, il cieco e lo storpio, due «maschere» della comicità bassa, incrociano una scenadrammatica, la flagellazione di Cristo, e temono che un miracolo, risanandoli, li costringa a perdere i «vantaggi» della loro invalidità.

STORPIO Fermate, no ’l senti sto fracaso? CIECO Sí, ol me pare de zente che cria e biastema!

Contra a chi l’è che i vosa? STORPIO Fait un poc pu in drio che ’ag sciaro de vardar-

ghe… lilò pogia… Bon, adeso ol vedi… agl’han con lü… povaro Cristo.

CIECO Povaro Cristo a chi? STORPIO A lü, Cristo in la persona… Jesus, fiol de Deo!

CIECO Fiol de Deo? Lo qual? STORPIO Come: lo qual? Lo unigo fiol, gniurantu!

Un fiol santisim… e i ghe dise che ol fa robemirabil, meravegiose: ol guarise e maladie, lepejor tremende co gh’è al mundo, a chi e sopor-ta con l’anema zoiosa. Donca a l’è mejor chesbaracheme de sta contrada.

CIECO Sbaracar? E par qual reson? STORPIO Parché mi no podo tor sta condision con alegre-

sa. I dise che se sto fiol de Deo ol gnise a pasarde chi loga, mi gnería miracolat d’un boto… e tianca, a la misma manera… Pensaghe un poc, sedavero ghe cata a tuti e doj la disgrazia de vesliberadi di nostri desgrazi! D’un boto ags’trovaríam in la cundision d’es obligat a tor viaun mestier per impoder campare.

CIECO Mi a digaría d’andarghe in contra a sto santo,che ol ghe traga fora de sta sventura malarbeta.

STORPIO At dighi de bon? At gnirat miracolat, bon, e attocherà crepar de fame… che toeti i te criaran:“Vagj a lavorar! … ”

CIECO Ohj che me cata i sudori fregi in del pensar-ghe…

STORPIO “Vagi a lavorar, vagabondo, – i te diserà, – bra-sce robade a la galera … ” E a perderesmio olgran previlez che g’avemo in pari ai siori, ai pa-roni, de tor gabela: lori col slongar i truchi de lalege, nojaltri con la pità. Li doi a gabar cojoni!

CIECO Andemo, scapemo via de sto incontro col santoche mi a vòi pitosto morir. Ohj mama de mi…’ndem… ’ndem de vulada al galop… tachete ae orege, da guidarme pí lontan che ti pol de stacità! Andarem fora anch de Lombardia… Anda-rem in Franza o in un sito dove no podarà rivar

STORPIO Fermati, non senti questo fracasso?CIECO Sì, mi sembra di gente che grida e che bestem-

mia! Contro chi è che gridano?STORPIO Fatti un po’ più indietro che cercherò di guar-

dare… appoggia qui… Bene, adesso lo vedo…ce l’hanno con lui… povero Cristo.

CIECO Povero Cristo a chi?STORPIO A lui, Cristo nella persona (in persona)… Gesù,

figlio di Dio!CIECO Figlio di Dio? Quale?STORPIO Come: quale? L’unico figlio, ignorante! Un fi-

glio santissimo… e dicono che fa cose mirabili,meravigliose: guarisce le malattie, le peggiori etremende che ci sono al mondo, a chi le soppor-ta con anima gioiosa. Dunque è meglio che sba-racchiamo da questa contrada.

CIECO Sbaraccare? E per quale ragione?STORPIO Perché non posso accettare questa condizione

con allegria. Dicono che se questo figlio di Diovenisse a passare da questa parte, io verrei mi-racolato di colpo… e tu anche, nella stessa ma-niera… Pensaci un po’, se davvero ci capita atutti e due la disgrazia di essere liberati dallenostre disgrazie! Di colpo ci troveremmo nellacondizione d’essere obbligati a prenderci unmestiere per poter campare.

CIECO Io direi di andare incontro a questo santo, checi tiri fuori da questa disgrazia maledetta.

STORPIO Dici davvero? Verrai miracolato, bene, e ti toc-cherà crepare di fame… ché tutti ti grideranno:«Vai a lavorare!… »

CIECO Ohi che mi vengono i sudori freddi nel pensarci…

STORPIO «Vai a lavorare, vagabondo, – ti diranno, –braccia rubate alla galera…». E perderemmo ilgrande privilegio che abbiamo uguale ai signo-ri, ai padroni, di prendere la gabella: loro al-lungando (ingrandendo) i trucchi della legge,noi con la pietà. I (tutti e) due a gabbare (im-brogliare) coglioni!

CIECO Andiamo, scappiamo via da questo incontro conil santo, che io voglio piuttosto morire. Ohimamma di me (mia)… andiamo… andiamo divolata al galoppo… attaccati alle orecchie, (inmodo) da guidarmi il più lontano che tu puoi daquesta città! Andremo fuori anche dalla Lom-

760 Dallo spazio teatrale classico alla drammaturgia borghese

gimai sto Jesus fiol de Deo… Andaremo a Ro-ma! …

STORPIO Sta’ calmo, calmo, spiritat matido, che ti mesgropi in tera…

CIECO Ohi, te pregi, salvame!STORPIO State bon… che ag salveremo tot doi in compa-

gnia… no gh’è ane ’mo pericolo, co la proce-sion che mena ol santo no la s’è anc’mo movü-da.

CIECO Ag fan cos’è?STORPIO L’han ligat a una corona… e i è dre’ a pical.

Ohj come i pica, sti scalmanat!…

CIECO Oh poer fiol… perché ol pichen? Cos ol g’hafait a lori… sti scalmanat?

STORPIO L’è gnì a parlag de ves tüti amorosi, compagnde tanti fradeli. Ma ti varda ben de no lasartemiga catar de cumpassion par lü, che o l’è ol pügran pericol de ves miraculat.

CIECO No, no… no g’ho compasion… che par mi nol’è nisün quel Crist… che no ghe l’ho gimai co-gnosüdo mi… Ma dime cosa ag fan adeso…

STORPIO Ag spüen adoso… sgarusi purscel, in facia agspüen…

CIECO E lü, cosa ol fa… cosa ol dise, sto poraso santofiol de Deo?

STORPIO No dise… no ’l parla… no ’l se rebela… e no ivarda miga d’inrabít, a quei scalmanat…

CIECO E come i varda?STORPIO I varda con malencunia…CIECO Oh car fiol… no me dighi pù nagota de quel che

va a súced che mi am senti sgriscì ol stomego…e freg al core, che g’ho pagüra che abia vesquajcos che somegia a la compasion.

STORPIO Anch mi am senti ol fiat che am sgiungia al gar-garoz e i sgrisci in d’i brasci… Andem, andemvia de chi löga.

CIECO Sì, ’ndem a serarse in quai lógu dua as poda fa’a men de gnì a cugnusar di sti robi dulurusi. Micognoso una hosteria…

STORPIO ’Scolta!CIECO Cosa?STORPIO Sto gran frecas… chi a renta.CIECO No sarà miga ol santo fiol che ariva?STORPIO Oh, Deo grazia, no me farme stremire che sare-

simo perdüj… là intorna a la culona non gh’èpü niuno…

CIECO Ne manco ol Jesus fiol de Deo? Dove i se soncasciadi?

STORPIO I son qua… ecoi che i riva toeti in procesion…a semo ruinadi!

CIECO A gh’è chì anco ol santo?STORPIO Sì, a l’è in d’ol meso… e l’han cargado d’una

crose pesanta, ol poareto!…CIECO No stat a perderte in compasione… desbregate

pitosto a guidarme in quai lögu indoe ghe pode-

bardia… Andremo in Francia o in un sito (luo-go) dove non potrà arrivare giammai questoGesù figlio di Dio… Andremo a Roma! …

STORPIO Stai fermo, fermo, spiritato ammattito, che micadi in terra…

CIECO Ohi, ti prego, salvami!STORPIO Stai buono… che ci salveremo tutti e due in

compagnia… non c’è ancora pericolo, ché laprocessione che mena (accompagna) il santonon si è ancora mossa.

CIECO Cosa fanno?STORPIO L’hanno legato a una colonna… e sono dietro a

picchiarlo (stanno picchiandolo). Ohi come pic-chiano, ’sti scalmanati!…

CIECO Oh povero figlio… perché lo picchiano? Cosagli ha fatto a loro… ’sti scalmanati?

STORPIO È venuto a parlargli di essere tutti amorosi,uguale a (come) tanti fratelli. Ma tu guarda be-ne di non lasciarti prendere da compassioneper lui, che è il più gran pericolo di (per) esseremiracolati.

CIECO No, no, non ho compassione… che per me non ènessuno, quel Cristo… che non l’ho mai cono-sciuto io… Ma dimmi cosa gli fanno adesso…

STORPIO Gli sputano addosso… schifosi maiali, in facciagli sputano…

CIECO E lui cosa fa… cosa dice, ’sto poveraccio santofiglio di Dio?

STORPIO Non dice, non parla, non si ribella… e non liguarda neanche da arrabbiato, quegli scalmana-ti…

CIECO E come li guarda?STORPIO Li guarda con malinconia.CIECO Oh caro figlio… non dirmi più niente di quello

che va succedendo che mi sento stringere lostomaco… e freddo al cuore, che ho paura chedebba essere qualcosa che assomiglia alla com-passione.

STORPIO Anch’io sento il fiato che mi si ferma in gola e ibrividi alle braccia… Andiamo, andiamo via daqui.

CIECO Sì, andiamo a chiuderci in uno di quei luoghidove si possa fare a meno di venire a conoscerequesti fatti dolorosi. Io conosco un’osteria…

STORPIO Ascolta!CIECO Cosa?STORPIO Questo gran fracasso… qui vicino.CIECO Non sarà mica il santo figlio che arriva?STORPIO Oh, Dio grazia (per grazia di Dio), non mi far

spaventare ché saremmo perduti… là attornoalla colonna non c’è più nessuno…

CIECO Nemmeno Gesù figlio di Dio? Dove si sono cac-ciati?

STORPIO Sono qua… eccoli che arrivano tutti in proces-sione… siamo rovinati!

CIECO C’è qui anche il santo?STORPIO Sì, è nel mezzo… e l’hanno caricato di una cro-

ce pesante, poveretto!…CIECO Non stare a perderti in compassione… sbrigati

piuttosto a guidarmi in qualche luogo dove pos-

Il teatro nel Novecento 761

mo nascondere ai so ögi…STORPIO Sì, andemo… pogia de drita… cori, cori, prima

che ol ghe poda vardà, sto santo miracoloso.

CIECO Ohj che me sont inzupad in d’una cavegia…che no sont piú capaz de moverme!

STORPIO Te vegna un cancaro, improprio adeso?… no tipodevi guardare in do te metevi i pie?

CIECO Eh no che no podevo vardare… che mi sontsguercio e no me podo vedar i pie! Come no ipodo? Sì che i podo vedar… me i vedo! Me ve-do i pie … o che bei doj pie che g’ho! Santibei… con tuti i didi … quanti didi?Cinco par pie… e coi ongi grosete e picininedisgradante in fila… Oh, voi basarve toti, a unpar uno.

STORPIO Mato… staite bon che ti me stravachi. Ohj…che ti m’ha copad… disgrasio… at podesi tor apesciadì… toi! (gli dà una pedata).

CIECO Ohj maravegia… ag vedi anca ol ciel… e i ar-bori… e le done! (Come se le vedesse passare)Bele, le done!… Miga tute!

STORPIO Ma sont stait propi mi che t’ho molat la pescia-da? Fame provar de novo: sí… sí… C’ol siamalarbeto sto giorno… a sont roinat!

CIECO Ol sia benedeto sto fiol santo che ol m’ha gua-rit! A vedi quel che no g’ho gimai vedüo in vidamia… e geri stat grama bestia a vorseme scaparde lü, che no gh’è roba pi dolza e zoiosa almondo co valga la luz.

STORPIO Ol diavol g’habia a menarselo via e con lü, in-sema, lo quei ch’ag sont recognisenti… Duevapropi es tant malarbío sfortunat de ves vardat daquel inamoros? A son desesperat! Am tocheràmorir de buele svoie… am magnería ste giamberinsanide bele crüe, p’ol elespet!

CIECO Mato a gero mi, mo ol veghi ben, a scapare delbon camino par tegnirme su quelo scuro… chenon saveva mi sto gran premio co fuse ol veder-ghe! Oh beli i colori coloradi… i ogi de e do-ne… i lavri e ol rest… beli i formighi e e mo-sche… e ol sole… ag podi pü che vegna notepar vedeg i stele e gnì a l’aostaría a descovrir olcolor del vin! Deo grazia, fiol de Deo!

STORPIO Ohj me mi… che ’m tocarà andar de sota a unpadron a südar sangu per magnar… Ohi malasventura sventurada sporscela… dovarò’ndarme intorna a cerciarme un altro santo cheol me faga la grazia de storpiarme de novo i ga-reti…

CIECO Fioi de Deo meraviglioso… no gh’è parole néin volgar né in latino che poden di’ co l’è unfium in piena, la tua pità! Schisciad sota unacrose, ti g’ba anc’mo de giunta tanto amor depensarghe pur anco e a desgrasiò de nojalteridisgrasiat!…

siamo nasconderci ai suoi occhi…STORPIO Sì, andiamo… appoggia a destra… corri, corri,

prima che ci possa guardare, questo santo mi-racoloso…

CIECO Ohi, mi sono azzoppato a una caviglia… (tanto)che non sono più capace di muovermi.

STORPIO Ti venga un cancro, proprio adesso?… non po-tevi guardare dove mettevi i piedi?

CIECO Eh no che non potevo guardare… ché io sonocieco e non mi posso vedere i piedi! Come nonposso? Sì che li posso vedere… me li vedo! Mivedo i piedi… o che bei due piedi che ho! Santibelli… con tutte le dita… quante dita? Cinqueper piede… e con le unghie grossette e piccoli-ne degradanti in fila… Oh, vi voglio baciaretutte, una per una.

STORPIO Matto… statti (stai) buono che mi rovesci.Ohi… che mi hai accoppato… disgraziato… sepotessi prenderti a pedate… tieni! (gli dà unapedata).

CIECO Oh meraviglia… vedo anche il cielo… e gli al-beri… e le donne! (Come se le vedesse passare)Che belle le donne! … Non tutte!

STORPIO Ma sono stato proprio io che ti ho dato la peda-ta? Fammi provare di nuovo: sì… sì… Che siamaledetto questo giorno… sono rovinato!

CIECO Sia benedetto questo figlio santo che mi ha gua-rito! Vedo quello che non ho mai visto in vitamia… ero stato (una) grama bestia a volermenescappare da lui, ché non c’è cosa più dolce egioiosa al mondo che valga la luce.

STORPIO Il diavolo abbia a portarselo via e con lui, as-sieme, quelli che gli sono riconoscenti… Dove-vo proprio essere tanto maledetto sfortunato daessere guardato da quell’innamorato (uomopieno d’amore)? Sono disperato! Mi toccheràmorire di budelle vuote… mi mangerei questegambe risanate belle crude, per il dispetto!

CIECO Matto ero io, adesso lo vedo bene, a scapparedal buon cammino per tenermi su quello oscu-ro… che non sapevo io ’sto gran premio chefosse il vederci! Oh belli i colori colorati… gliocchi delle donne… le labbra e il resto… bellele formiche e le mosche… e il sole… non neposso più che venga notte per vedere le stelle eandare a un’osteria a scoprire il colore del vi-no! Deo gratias, figlio di Dio!

STORPIO Ohimè (Povero me)… ché mi toccherà andaresotto a un padrone a sudar sangue per mangia-re… Oh mala sventura sventurata e porca… Do-vrò andare intorno a cercarmi un altro santo chemi faccia la grazia di storpiarmi di nuovo i gar-retti…

CIECO Figlio di Dio meraviglioso… non ci sono parolené in volgare né in latino che possano dire co-me sia un fiume in piena, la tua pietà! Schiac-ciato sotto una croce, hai ancora in aggiuntatanto amore da pensare perfino alle disgrazie dinoialtri disgraziati!…