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S.I.S. PIEMONTE Il mito di Orfeo e Didone tra musica e poesia. Specializzata: CLAUDIA REGIS Superviore: Prof. BARBARA GAROFANI Anno accademico 2008/2009

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S.I.S. PIEMONTE

Il mito di Orfeo e Didone tra musica e poesia.

Specializzata: CLAUDIA REGIS

Superviore: Prof. BARBARA GAROFANI

Anno accademico 2008/2009

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IL CONTESTO

La scuola e l’indirizzo

Questa UD è stata sperimentata durante il mio tirocinio attivo in una classe II di un Liceo Classico.

La classe e il livello

Nelle ore preliminari di osservazione, trascorse per aver modo di conoscere gli allievi, ho trovato

una classe motivata, partecipe alle lezioni, costante nello studio e con un profitto soddisfacente,

tranne poche eccezioni, pur con un certo divario tra l’orale (più soddisfacente) e lo scritto (in cui

anche gli studenti migliori trovavano alcune difficoltà).

Al momento del mio arrivo il tutor, che è rimasto fedele alla scansione “tradizionale” del

programma di latino, che distingueva la letteratura dagli autori, stava affrontando Lucrezio. Questo

mi sarebbe tornato utile in seguito, per proporre un confronto tra la poesia didascalica di Virgilio e

quella di Lucrezio appunto. Il fatto che la classe affrontasse la letteratura separata dagli autori, e

quindi in II Virgilio venisse studiato in letteratura, dopo aver già studiato l’anno scorso, in autori,

brani dalle Bucoliche, ha fatto sì che io impostassi il mio lavoro riducendo il numero di brani

affrontati in lingua, estrapolati dalle altre due opere virgiliane. Per cercare però di rendere il mio

intervento più significativo, ho pensato di lavorare sull’aspetto dell’ intertestualità, a cui la

letteratura latina ben si presta. Far riflettere i ragazzi sui legami tra autori diversi appartenenti alla

stessa cultura o a culture diverse, presentare la letteratura come un continuo dialogo tra testi della

stessa età o di epoche diverse (sul piano sincronico e diacronico), è un modo per stimolare negli

studenti un approccio critico verso la letteratura, troppo spesso considerata come un deposito di

cose morte. Per questo, parlando di Didone, può risultare interessante abbozzare un confronto con

l’eroina di Ovidio e con altre figure appartenenti alla stessa tipologie di amanti abbandonate. Inoltre

ho voluto dare alla mia UD la fisionomia di un percorso interdisciplinare (oltre che intertestuale),

prevedendo di accostare al testo latino la versione musicale dei brani analizzati. Pur consapevole

della complessità di un tale intervento, infatti, ritengo che, soprattutto in un contesto medio – alto

come quello in cui ha preso vita il mio tirocinio, sia importante, là dove i contenuti si prestano,

affrontare itinerari eterogenei, che favoriscano la dimensione metacognitiva degli allievi.

FINALITA’ DEL MIO INTERVENTO DIDATTICO

Oggi, anche in un liceo classico, la difficoltà maggiore degli allievi è la padronanza della lingua e

dei suoi meccanismi, sia per quella di partenza (in questo caso il latino), sia per quella d’arrivo

(l’italiano). Proprio per questo ritengo che l’analisi dei passi d’autore possano diventare un

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ulteriore momento di esercizio di traduzione: con questo fine ho dedicato molto tempo all’analisi

morfosintattica dei brani, anche a costo di dilatare i tempi, perché ritengo essenziale che gli studenti

si rendano conto di come e perché abbiamo tradotto, anziché imparare mnemonicamente la

traduzione resa dall’insegnante.

Da musicista mi sono sentita spesso ripetere (e a mia volta ho ripetuto a lungo) che non esiste un

unico metodo, una impostazione universalmente valida, che ognuno è diverso, ha proprie

caratteristiche fisiche e psicologiche che lo portano a “cercarsi” una propria strada. Essendo la

musica un’arte, è prima di tutto libera espressione di una sensibilità individuale. E’ anche vero,

però, che per poter diventare arte, la musica ha bisogno di una tecnica, e quindi di regole precise a

cui si è costretti e di divieti che vengono categoricamente imposti. I due aspetti, a mio avviso, sono

contemporaneamente presenti, e l’abilità dell’artista sta proprio nel celare la tecnica sotto

all’espressione, la fatica dietro ad un’apparente spontaneità.

A scuola mi sono chiesta spesso se valesse lo stesso principio. L’insegnante deve assecondare le

libere predisposizioni degli allievi, quindi sollecitare la personale interpretazione, la creatività e

l’intuizione o deve fornire delle regole, dei precetti e dei divieti? L’importante è che scrivano, e

non importa come scrivono? Va già bene se in modo più o meno approssimativo comprendono il

senso di un testo, senza impuntarsi troppo se la loro traduzione non è propriamente corretta?

Qualsiasi musicista sa bene quanta fatica, quante ore (magari davanti ad uno specchio) passate per

correggere un impercettibile movimento del proprio corpo che possa anche solo lievemente

compromettere non l’espressività, ma la “pulizia” formale. Sono pienamente d’accordo con la

necessità di non mettere delle briglie troppo strette agli allievi, sul fatto che formare non significa

plasmare a propria immagine e somiglianza gli studenti, però penso che compito dell’insegnante sia

non stancarsi mai di correggere ciò che non è corretto, indicare il modo per migliorarsi, anche se

costa fatica e sforzo di autocontrollo. Solo una volta che gli studenti avranno imparato delle regole

certe e quando le sapranno pienamente padroneggiare, potranno permettersi di infrangerle, ma in

modo consapevole, per fini espressivi od estetici, e non per distrazione o studio superficiale.

Per questo motivo, ad esempio, ritengo essenziale, nel caso del latino, che gli studenti sappiano

essere padroni della lingua per poter apprezzare la letteratura. Conoscere bene la lingua non vuol

certo dire pretendere che conoscano a memoria tutte le eccezioni delle declinazioni o tutti i

paradigmi, ma che siano in grado di tradurre in modo consapevole e letterale. Solo così potranno

poi chiedersi perché l’autore ha utilizzato un certo costrutto al posto di un altro, e potranno

apprezzarne le scelte stilistiche. Per tornare al paragone con la musica, la lingua è la nostra tecnica,

indispensabile base su cui costruire l’arte letteraria. E’ fondamentale pertanto che gli studenti

capiscano che la lingua è lo strumento scelto dall’autore per veicolare dei messaggi, per rendere,

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con un lessico ben preciso, con accorgimenti retorici, con il ritmo metrico, le sfumature del proprio

pensiero e della propria immaginazione. Lo studio della lingua non deve quindi essere fine a se

stesso, ma un necessario momento propedeutico all’approccio coi testi.

Fermo restando che nella pratica scolastica attuale non è più richiesta, al latino, una competenza

linguistica “ attiva” o “ produttiva”, ma esclusivamente “ ricettiva”, diventa necessario il principio

della “centralità del testo”, la cui lettura, analisi, comprensione e traduzione dovrebbero costituire

l’obiettivo primario ed essenziale già per il biennio, come si evidenzia nelle indicazioni dei

programmi Brocca, là dove si raccomanda un approccio diretto con la lingua documentata nei testi,

magari attraverso materiali didattici eventualmente semplificati e adattati. La parola testo, dal latino

textus, è un tessuto organico di parole ordinato secondo i principi di coesione e coerenza, al fine di

trasmettere un messaggio di senso compiuto che, per quanto tramandato in una lingua non più

parlata, attende di essere decodificato dall’interlocutore per poter poi essere interpretato e fruito.

Piegando, nel mio tirocinio, la letteratura a continue intersezioni con la musica, non ho voluto

scalzare il primato del testo e della sua centralità, ma al contrario, proprio partendo dal testo stesso,

mostrare la continuità di temi e di luoghi comuni attraverso i secoli, fino alla cultura moderna.

TEMPI, REQUISITI DI BASE E OBIETTIVI

Il mio intervento prevede 12 ore di lezione da 50 minuti, di cui 9 dedicate alle spiegazioni in classe,

2 alla verifica e una alla consegna e correzione delle stessa.

Dal momento che in II le ore settimanali di latino sono 4, una delle quali viene spesso dedicata

all’esercitazione in classe di traduzione, lo svolgimento di questa unità didattica richiede un mese e

mezzo di lezione.

Tenendo conto, come già detto, che la classe ha affrontato, in I, la trattazione di Virgilio in autori,

leggendo e traducendo brani dalle Bucoliche, i requisiti di base necessari per svolgere il mio

intervento sono:

conoscenze:

- conoscenza del contesto storico in cui si inserisce Virgilio: l’età augustea e suoi caratteri

- conoscenza della posizione di Virgilio all’interno dell’ ideologia augustea

- conoscenza della biografia di Virgilio, e, parzialmente, delle sue opere

- conoscenza del genere letterario dell’epica e del poema didascalico

- conoscenza di Lucrezio, De Rerum Natura, con particolare riferimento al libro IV, vv.1037

– 1287

- conoscenza dei fondamentali principi di prosodia

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- conoscenza delle più comuni figure retoriche di suono, di ordine e di significato

- a livello linguistico, conoscenza delle strutture morfosintattiche della lingua latina

- conoscenza del lessico di base della lingua latina

capacità:

- capacità di analizzare un testo latino per procedere alla traduzione in italiano

- capacità di prendere appunti

- capacità di rielaborare in modo critico quanto appreso

- capacità di esporre in modo appropriato, con un lessico adeguato

- capacità di ascoltare un brano musicale

competenze:

- saper riflettere in modo critico sul testo

- saper tradurre un testo

- saper operare confronti tra testi diversi di uno stesso autore o di autori differenti

- saper cogliere in un testo gli elementi caratteristici, a livello contenutistico e stilistico, di un

autore specifico

- saper attuare un confronto interdisciplinare

Gli obiettivi che questa UD persegue sono:

conoscenze:

- conoscenza delle Georgiche e dell’Eneide, del loro contenuto e delle loro caratteristiche

formali

- conoscenza del mito di Orfeo ed Euridice: il significato simbolico del mito, la sua

sopravvivenza in autori classici e moderni

- conoscenza delle trasposizioni musicali del mito di Orfeo ed Euridice

- conoscenza della figura di Didone: la sua statura drammatica, l’evoluzione del personaggio,

la sua fine tragica

- conoscenza della presenza della figura di Didone in altri autori

- conoscenza delle interpretazioni musicali del mito di Didone

capacità:

- consolidamento delle capacità indispensabili come requisiti di base

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competenze:

- saper cogliere la specificità del linguaggio e dello stile di Virgilio

- saper individuare, all’interno dei brani selezionati, un percorso tematico unitario

- saper ricondurre gli argomenti musicali affrontati all’interno del percorso letterario

METODI E STRUMENTI

Innanzitutto penso sia opportuno precisare i principi cardine alla base di un percorso

interdisciplinare che, per sua natura, nasce come un progetto complesso e ambizioso:

- lo scopo dichiarato di un intervento interdisciplinare è esaminare, parallelamente, un testo

letterario e uno musicale focalizzati sullo stesso argomento

- ovviamente, però, la classe non ha competenze musicali, trattandosi di un Liceo Classico. Questo

per forza di cose condizionerà la trattazione, che non potrà essere musicologia né, d’altra parte, ha

velleità di tal genere. L’insegnante che si accinge a un progetto di tal genere deve quindi cercare,

nel limite del possibile, di eliminare ogni forma di tecnicismo, perseguendo in primo luogo obiettivi

linguistici e letterari, e ponendosi, secondariamente, come scopo anche un’educazione

all’“immaginario”, all’espressione artistica in senso lato

- di conseguenza, al centro dell’ UD dovrà sempre e comunque esserci il testo latino, unità da cui

partire e a cui far sempre riferimento.

Inoltre, intendendo l’educazione letteraria come un rapporto diretto tra studente e testo, è

importante che gli allievi vengano coinvolti in modo attivo durante l’analisi dei testi, guidandoli

con richieste ben precise.

Per quanto riguarda gli strumenti, essendo questo percorso a cavallo tra più discipline, è necessario

che l’insegnante predisponga dispense e appunti per aiutare gli studenti a seguire quelle parti più

prettamente musicali, che ovviamente non sono presenti sul libro di testo. Per questo mi sono

servita spesso di fotocopie e del PC portatile per far ascoltare i brani musicali a cui ho fatto

riferimento durante le spiegazioni.

Per quanto riguarda i testi, invece, ho fatto riferimento al libro in adozione.

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PROCEDURA

1° lezione: 1 ora

Sono sufficienti poche parole per motivare la scelta di far ruotare un’intera UD attorno al tema

dell’amore, sebbene all’interno dell’opera virgiliana ci siano molti altri “filoni” importanti e

senz’altro “più battuti”. Il tema amoroso può essere utile per far risaltare la novità della poesia

virgiliana: è proprio l’eros, infatti, che dà, all’interno del contesto epico, maggiore spessore ai suoi

personaggi, facendoli muovere tra luci ed ombre. Enea è un eroe nuovo perchè conosce i sentimenti,

ha una complessità sconosciuta alle figure omeriche proprio in virtù della sua natura più complessa

e più tormentata. L’eros conferisce una particolare problematicità alla poesia bucolica e didascalica

di Virgilio, contribuendo a rappresentare la tragedia della sofferenza, del dolore e infine della morte

nel mondo agricolo, spesso apparentemente imperturbabile. La tematica dell’amore, quindi, può

fornire una possibile chiave di lettura per interpretare la poetica virgiliana e inoltre consente di

muoversi all’insegna della continuità, confrontando il poema didascalico virgiliano con quello

lucreziano, e le rispettive concezioni dell’ eros.

Da questo semplice schema risultano evidenti le tappe di questo lavoro, che, partendo dal testo, si

muoverà in altre direzioni:

1) GEORGICHE: genere, struttura, temi

2) III Libro: vv. 242-263: Amor omnibus idem confronto con LUCREZIO

3) IV Libro: il mito di Orfeo ed Euridice per la struttura confronto con CATULLO

per il tema confronto in MUSICA

4) ENEIDE: IV libro, la figura di Didone

5) Libro IV: versi 595-629 confronto con le altre EROINE ABBANDONATE della letteratura Didone in musica

Già da questo schema risalta la particolarità dell’impostazione del mio intervento, che implica, da

parte degli studenti, un approccio inconsueto alla letteratura latina, con una apertura verso la

musica. L’idea, per loro nuova, di studiare il latino in una dimensione interdisciplinare suscita

sicuramente molte curiosità: che versi dell’età augustea possano aver ispirato forme artistiche

diverse, come quella musicale, anche in età vicine alla nostra, fa riflettere su come il latino, almeno

la sua letteratura, non sia del tutto morto, ma abbia goduto, e forse goda ancora, di ottima salute!

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Ma lo stupore lascia presto il posto all’interesse, se si considera che il linguaggio poetico e quello

musicale, di qualunque genere, dal melodramma al pop, rispondono alle stesse esigenze espressive e

la loro struttura, la loro sintassi, non è poi così diversa.

Prima di affrontare i brani in lingua, è necessario partire dal concetto di furor ed eros in Virgilio:

che cosa vuol dire parlare di amor come furor in Virgilio?

Per far comprendere agli studenti come la concezione dell’amore di Virgilio sia pessimistica è

sufficiente leggere loro alcuni versi volutamente estrapolati dalle Bucoliche, escluse dal mio

percorso: in questo modo, alla fine delle mie lezioni, sarà evidente come la concezione tragica

dell’amore sia un filo rosso che accomuna l’intera opera virgiliana.

Scrivendo alla lavagna questi versi, si evidenziano le parole chiave connesse all’eros che poi

ritorneranno nei passi delle Georgiche presi in esame:

Ecloga III, 101: “idem amor exitium pecori pecorisque magistero” (il medesimo amore è rovina al

gregge e al custode del gregge). Fin da questi versi emergono due dati fondamentali: l’amore è

identificato come exitium, cioè rovina, ed accomuna in uno stesso tragico destino la bestia e l’uomo.

Ecloga VI : il poeta, che partecipa emotivamente alla sofferenza di Pasifae, in preda a un amore

innaturale per un toro, rivolge un’accorata apostrofe alla misera fanciulla, verso 47 : “A, virgo

infelix, quae te dementia cepit?” (ah, disgraziata fanciulla, quale follia ti prese?), in cui la passione

amorosa viene definita demenza, ricalcando, con una sorta di autocitazione, il monologo con cui

Coridone (tormentato da un amore non ricambiato) nell’Ecloga II compiange se stesso, verso 69: “A

Corydon, Corydon, quae te dementia cepit!”: le due esperienze amorose, se pure diverse, sono

simili per gli effetti devastanti, e vengono accomunate da Virgilio nel segno di una medesima follia.

Ancora più dolenti nella X Ecloga le note della disperazione di Gallo, verso 69: “Omnia vincit

Amor, et nos cedamus Amori” (l’Amore vince su tutto, e noi cediamo all’Amore). L’amore ha una

forza travolgente, è più forte di ogni cosa, nulla riesce a lenire l’amore infelice di Gallo per

Licoride, neppure la pace dell’Arcadia: la violenza dell’eros arriva a sconvolgere anche il mondo

bucolico, apparentemente imperturbabile; è in grado di devastare tutto e tutti.

Ricapitolando, fin dalle Bucoliche emerge la forza accecante dell’eros: un istinto che travolge tanto

il mondo animale quanto quello umano, una furia devastante che proietta un’ombra di morte: “mori

me denique coges” (mi spingerai infine a morire), canta Coridone, Ecloga II, verso 7; e più volte

nelle Georgiche come nell’Eneide, l’eros viene associato alla morte, in un drammatico connubio.

Dunque, con un semplice schema, vengono sintetizzati alla lavagna gli aspetti fondamentali della

concezione virgiliana dell’amore, fin qui emersa:

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AMOR

Idem exitium Dementia Omnia vincit Mori coges

(rovina che accomuna ( follia) (Vince ogni cosa) (Porterà come estrema uomini e animali) conseguenza alla morte)

Che l’amore in Virgilio sia spesso associato al concetto di rovina esistenziale, di sofferenza,

malattia e morte risulta da una semplice statistica lessicale: se si scrivono alla lavagna i sostantivi e

gli aggettivi che ricorrono più spesso nelle tre opere virgiliane per identificare la passione erotica, li

si può ricondurre tutti ad un medesimo campo semantico: quello della sofferenza, come si vede da

questo schema:

Sostantivi (in ordine di frequenza) Aggettivi

Insania aeger amarus crudelis

Error exitium furor durus improbus indignus

Cura dementia infandus insanus malus saevus

sollicitus

perdita di sè

C’è una sola eccezione: pius viene definito l’amore di Eurialo e Niso, ma la pietas del loro amore

non basta a salvarli. Certo esiste anche un aspetto più dolce e meno passionale dell’amore, ma

ugualmente tragico, che vive soprattutto nelle parole con cui Enea ricorda la moglie scomparsa

(Libro II): anche in questo caso l’eroe si definisce misero (v. 738, heu misero) e folle (v. 745,

amens) mentre vaga nella città alla ricerca di Creusa. Se questo errare tra le mura in preda al delirio

ci preannuncia la stessa scena della follia di Didone, è però profondamente diverso il sentimento

che anima i due episodi: è la morte e non la passione a rendere disperato Enea (v. 772, infelix). Il

rimpianto per una vita serena, in patria e tra gli affetti famigliari, risuona anche nel momento della

separazione da Didone nel IV libro: se gli dei gli avessero concesso di vivere come avrebbe voluto,

lo dice esplicitamente Enea, sarebbe rimasto a Troia, vicino alle reliquie dei suoi, che infatti

vengono definite dolci (dulcisque meorum reliquias colerem, v.342). In questi versi, dunque,

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Virgilio canta l’amore coniugale, che ritornerà con Orfeo ed Euridice, un amore che non ha nulla di

ferino e selvaggio, ma neppure questo è esente dalla sofferenza e dal dolore.

La visione dell’amore come evento perturbatore della vita non è certo una novità ascrivibile a

Virgilio: la filosofia epicurea, come gran parte delle filosofie ellenistiche, condannava l’amore in

quanto ostacolo alla saggezza. Il riferimento più immediato, per restare all’ambito epicureo, è

quindi Lucrezio, nel finale del Libro IV. Anche in Lucrezio l’amore aveva una connotazione

negativa: l’atto erotico, inteso come possesso materiale, viene visto come fonte di ansia e tormento

e non di piacere, ma soprattutto viene condannato l’aspetto psichico dell’amore, in quanto passione

cieca che provoca la perdita del prestigio, del decoro e che genera gelosia ed ossessione. Il

richiamo a Lucrezio non è casuale, dal momento che nel corso della trattazione, soffermandomi sul

III Libro delle Georgiche, si analizzerà il rapporto tra i due poeti e il debito di Virgilio verso

Lucrezio.

Come ho già mostrato con queste brevi note introduttive, Virgilio, appunto sulla scia di Lucrezio,

trasferisce agli animali le stesse passioni devastanti che travolgono gli uomini. Il quadro che ne

deriva è reso ancora più amaro proprio da questo comune destino: gli animali sono vittime

incolpevoli di una violenza istintiva a cui non si può sfuggire poiché l’impeto irrazionale dell’eros

tormenta senza scampo ogni essere animato, e se per Lucrezio l’uomo, in quanto essere razionale,

può trovare salvezza in una sorta di amore filosofico, agli animali, proprio perchè essere istintivi,

questo non è concesso.

2° lezione: 1 ora

Questa seconda lezione si concentra sul poema didascalico, analizzandone il genere, la struttura e

le tematiche. Il titolo stesso dell’opera tradisce l’appartenenza al genere letterario del poema

didascalico, nel solco di una lunga tradizione letteraria che partendo da Esiodo si era svuotata con i

poeti ellenistici nell’aspetto contenutistico a favore di un puro virtuosismo descrittivo. Per cercare

di essere il meno teorici possibile, anziché fare uno sterile elenco di nomi nell’ambito del genere

didascalico da cui Virgilio si discosta o ai quali si avvicina, può essere più produttivo guidare gli

studenti a ricavare i modelli e i contenuti dell’opera direttamente dal testo.

Partendo da questi versi

Libro II, vv. 490-494:

Felix qui potuit rerum cognoscere causas / atque metus omnis et inexorabile fatum / subiecit

pedibus strepitumque Acherontis avari. / Fortunatus et ille, deos qui novit agrestis, /

Panaque Silvanumque senem Nymphasque sorores.

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(Felice chi ha potuto investigare le cause delle cose e mettere sotto i piedi tutte le paure e il

fato inesorabile e lo strepito dell’avido Acheronte. Fortunato anche colui che conosce gli dei

agricoli, Pan e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle.)

non dovrebbe risultare difficile intuire chi sia questo uomo definito da Virgilio felix. L’immagine

dell’uomo che ha calpestato sotto i suoi piedi le paure superstiziose fa venire in mente l’elogio che

Lucrezio tesse di Epicureo e della sua prometeica sfida contro il Mostro della religio. Dunque,

Virgilio sembra istituire un dialogo a distanza con Lucrezio, ma perché? Perché è stato Lucrezio a

riscoprire il filone della grande poesia didascalica. Investita da uno slancio missionario, la poesia di

Lucrezio si era servita del miele della bellezza formale per trasmettere la sua amara medicina, il suo

messaggio di salvezza, e anche la poesia di Virgilio vuole offrire degli insegnamenti per l’umanità.

Tra i due poemi ci sono chiare analogie, riconducibili alla ricerca di una forma morale e spirituale di

autosufficienza in risposta alla crisi della repubblica romana. Diversa è però la soluzione proposta:

il saggio lucreziano si libera dalla pressione della storia attraverso la ragione, ma Virgilio definisce

felice anche colui che conosce ancora gli dei agricoli. L’ideale di vita proposto nelle Georgiche,

dunque, alternativo alla saggezza epicurea, è la filosofia, umile e quotidiana, del pius agricola, che

senza avere una conoscenza scientifica vive a contatto con la natura, fedele alla religiosità

tradizionale.

O fortunatos nimium, sua si bona novit, / agricolas!

riprende Virgilio, con un’apostrofe che risuona come una dichiarazione di poetica: la poesia di

Virgilio vuole essere (apparentemente) più modesta di quella lucreziana, rinuncia a spiegare

l’universo, gli astri, le eclissi, per cantare una materia senza gloria, ossia le campagne e i boschi.

Non ambisce a conoscere scientificamente i fenomeni naturali, “accontentandosi” di sua bona

noscere. Il contadino fortunatus, che conosce le divinità agresti, in una contemplazione ingenua

della natura, è contrapposto all’uomo felix, colui che è illuminato dal messaggio lucreziano-

epicureo. Così “le due figure astratte – il felix e il fortunatus – rappresentano due ideali destinatari;

sono complementari alle figure dei due poeti-didaskaloi che il testo ha appena modellato. La prima

figura realizza nitidamente in sé il messaggio didattico di Lucrezio: è per così dire il lettore ideale

del De rerum natura; la seconda riassume l’insegnamento che Virgilio vuole ora trasmettere, la più

modesta conoscenza di un modo sereno per vivere” (Garbarino 1991:413-416).

Un’altra questione delicata è quella del dedicatario dell’opera e dell’ideologia ad essa sottesa.

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Libro III, vv. 40-41:

Interea Dryadum silvas saltusque sequamur / intactos, tua, Mecenas, haud mollia iussa

(Intanto seguiamo i boschi delle Driadi e le balze inviolate al tuo, Mecenate, non indulgente

volere)

Virgilio si riferisce direttamente a Mecenate, il potente protettore vicino al principe Ottaviano. Il

destinatario dell’opera, quindi, è Mecenate, che infatti compare all’inizio dei proemi di ogni libro.

Ma come deve essere interpretata l’espressione “tuo non indulgente volere”? La scelta

dell’argomento georgico sembrerebbe essere stata suggerita al poeta dal patrono, d’altra parte non

va dimenticato il contesto storico: la terribile crisi politica e sociale aveva coinvolto anche la

piccola e media proprietà contadina, già danneggiata dall’estendersi del latifondo e ancora toccata

dalle devastazioni della guerra civile. Dunque un’opera sul lavoro dei campi poteva avere anche un

significato politico, inserendosi a pieno titolo all’interno del programma di risanamento di Augusto.

Il poema, però, non è semplicemente un’opera di propaganda scritta su ordinazione, semmai

Virgilio, anche per le sue vicende biografiche, si mostra particolarmente sensibile al mito nazionale

dell’unità italica, in una spontanea convergenza con il programma augusteo: i valori tradizionali che

il poeta invita a restaurare, attraverso il ritorno alla terra, sono infatti gli stessi che Augusto si era

imposto di realizzare dopo la vittoria di Azio.

Stabiliti il genere letterario e i contenuti, vale la pena soffermarsi ancora sulla struttura del poema,

per far risaltare la calibrata architettura formale, che può essere schematizzata alla lavagna con una

semplice tabella:

LIBRO I LIBRO II LIBRO III LIBRO IV

TEMI Lavoro dei campi Arboricoltura Allevamento del bestiame

Apicoltura

PROEMI Lungo Breve Lungo Breve

DIGRESSIONIFINALI

Guerre civili Lode della vita agreste

Peste degli animali del Norico

Storia di Aristeo e le sue api

Come si vede, è una struttura sorretta da somiglianze e contrasti: innanzitutto l’ordine in cui sono

collocati i temi disegna una curva in cui l’uomo è sempre meno protagonista per lasciare sempre più

spazio alla natura: al macrocosmo dell’uomo del primo libro risponde il microcosmo delle api nel

quarto. Inoltre i libri pari e quelli dispari sembrano accoppiati da chiare corrispondenze: il I e il III

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libro hanno un proemio lungo, il II e il IV breve; e ancora, i finali si richiamano quasi a specchio: i

libri dispari hanno una conclusione tragica, alle guerre civili del mondo umano corrisponde la

pestilenza del mondo animale. I libri pari invece hanno delle digressioni rasserenanti: l’elogio della

vita campestre del libro II si oppone alla minaccia della guerra, come la rinascita delle api nel libro

IV replica allo sterminio della pestilenza. Dunque una polarità tra temi di vita e temi di morte.

3° lezione: 1 ora

In questa lezione viene affrontato il primo brano in lingua: Libro III, vv. 242-263, Amor omnibus

idem. La lettura metrica non presenta particolari difficoltà, tolto forse il primo verso, che è uno dei

pochi esempi di verso ipermetro presente nelle Georgiche. Più tempo richiede invece la traduzione,

se si decide di fare preventivamente la costruzione morfo-sintattica dei periodi, in modo che i

ragazzi capiscano la motivazione della resa italiana e soprattutto siano poi in grado di ricondurre,

consapevolmente, la traduzione al testo originale. Personalmente penso che la traduzione non vada

fornita preventivamente agli studenti sottoforma di fotocopia, altrimenti, trovandosi già il lavoro

pronto, rischiano di non prestare la dovuta attenzione alla fase di analisi. Contestualmente è utile

fornire un apparato eterogeneo di note, nel quale far confluire a mano a mano osservazioni sia di

carattere linguistico sia di carattere stilistico.

Per cercare di stimolare il più possibile il coinvolgimento di tutta la classe nella fase di analisi, si

possono porre agli studenti 4 richieste: a livello sintattico individuare

1) i connettivi (congiunzioni copulative o avversative, pronomi ripetuti, avverbi in correlazione)

attraverso cui il testo è reso coeso

2) le congiunzioni o i pronomi impiegati per introdurre gli enunciati subordinati

A livello semantico evidenziare:

3) le parole chiave che concorrono a definire la passione erotica, senza però citare direttamente

l’amore

4) la definizione esplicita dell’amore

Ómne adeó ׀ genus ín terrís ׀ hominúmque ferárumque

ét genus aéquoreúm ׀, pecudés pictaéque volúcres,

ín furiás ׀ ignémque ruúnt:׀ amor ómnibus ídem.

245 Témpore nón alió ׀ catulórum oblíta leaéna

saévior érravít ׀ campís ׀ nec fúnera vólgo

tám multa ínformés ׀ ursí ׀ stragémque dedére

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pér silvás; ׀ tum saévos apér,׀ tum péssima tígris;

héu, male túm Libyaé ׀ solís errátur in ágris.

250 Nónne vidés, ׀ ut tóta ׀ tremór pertémptet equórum

córpora, ׀ sí tantúm ׀ notás odor áttulit áuras?

Ác neque eós ׀ iam fréna virúm ׀ neque vérbera saéva,

nón scopulí ׀ rupésque cavae ׀ átque obiécta retárdant

flúmina ׀ córreptósque .undá torquéntia móntis ׀

255 Ípse ruít ׀ dentésque Sabéllicus éxacuít sus ׀

ét pede prósubigít ׀ terrám, ׀ fricat árbore cóstas

átque hinc átque illínc .umerós ad vólnera dúrat ׀

Quíd iuvenís, ׀ magnúm ׀ cui vérsat in óssibus ígnem

dúrus amór? ׀ Nempe ábruptís ׀ turbáta procéllis

260 nócte natát caecá ׀ serús freta; ׀ quém super íngens

pórta tonát caeli, ׀ ét scopulís inlísa reclámant

aéquora; ׀ néc miserí ׀ possúnt revocáre paréntes

néc moritúra supér ׀ crudéli fúnere vírgo.

Il primo elemento che appare evidente è che nel testo prevale un andamento paratattico. Le

subordinate rintracciabili, infatti, sono poche: una interrogativa retorica, un periodo ipotetico e una

completiva. Tra l’altro tutte e tre ravvicinate, concentrate nella parte centrale, quasi a voler indicare

un infittirsi della tensione emotiva. Nella parte conclusiva, poi, abbiamo ancora due relative con il

verbo all’indicativo, con riferimento alla tragica fine del giovane innamorato. Per il resto

prevalgono le coordinate per polisindeto, tramite le congiunzioni: moltissime soprattutto le

congiunzioni copulative enclitiche. Queste rendono coeso il testo, così come le anafore

(tum…tum…tum) o gli avverbi in correlazione (hinc … illic).

A livello semantico, le parole chiave che identificano la passione sono: furia, ignes (2 occorrenze),

saevus (3 occorrenze), tremor: tutti termini che indicano una forza devastante, irrazionale e

incontrollabile. L’amore però, esplicitamente, viene citato solo due volte: al v. 259 viene definito

durus, ma soprattutto il v. 244 è fondamentale per comprendere la concezione virgiliana dell’eros:

amor omnibus idem. L’amore è una forza della natura che travolge allo stesso modo gli animali e

gli uomini. Virgilio indugia nella descrizione degli effetti dell’istinto sessuale su tutte le specie

animali, da quelle domestiche a quelle selvatiche, per sottolineare come l’eros sia una follia che non

risparmia nessuno (solo le api, si dirà nel Libro IV, godono del privilegio divino di essere immuni

dall’amore e dalla sua schiavitù, in quanto si generano prodigiosamente dalle carcasse di un bue).

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L’amore quindi non è un dono ma una condanna, e se solitamente era considerato una prerogativa

delle belle creature, Virgilio coinvolge nella cieca furia amorosa anche gli animali più sgraziati:

prima gli orsi rozzi e goffi, poi il maiale sabino. Questo a sottolineare come tutti gli esseri siano

accomunati dalla stessa furia irrazionale e violenta, da un durus amor che provoca effetti funesti.

L’irrazionalità della pulsione sessuale è ben esemplificata dalla leonessa: se la finalità dell’eros è la

riproduzione, quale maggiore follia che dimenticarsi dei propri cuccioli per riprodursi? (Georgiche,

III, 245).

Andando ancora più in profondità, si può chiedere agli studenti di osservare se dalla prima alla

seconda parte del brano ci sia un cambiamento di soggetto, se cambino cioè gli esseri travolti dalla

passione amorosa. Al v. 258, infatti, compare lo iuvenis. L’omologazione dell’uomo agli animali

avviene con l’inserzione del mito di Ero e Leandro, che troviamo, senza soluzione di continuità,

dopo una serie di exempla di indomabile istinto sessuale tratti dal mondo animale (leonessa, orsi,

cinghiale). Proprio il mito di Ero e Leandro collega l’amore alla morte (non a caso il libro culmina

con la peste del Norico): entrambi sono eventi biologici, i cui effetti hanno una portata devastante.

L’identificazione dell’eros con il furor, come già anticipato, è di derivazione filosofica e richiama il

finale del IV Libro del De rerum natura. Proprio sul debito di Virgilio nei confronti di Lucrezio

vale la pena soffermarsi, per sottolineare non solo i richiami ma anche la distanza rispetto al

precedente.

Nei primi due libri Virgilio espone, attraverso la teodicea del lavoro, la concezione di una natura

provvidenzialmente regolata. Nella natura riscontra un progetto divino volto al bene e le guerre

civili che sconvolgono l’armonia del mondo agreste sono responsabilità umana. Eppure, quella che

in Lucrezio è la culpa naturae sembra allungarsi anche nella natura virgiliana come un’ombra che

getta, a tratti, dubbi inquietanti sul disegno provvidenziale. Nel III libro il male assume le forme

della pulsione irrazionale dell’eros e della pestilenza, entrambi flagelli ascrivibili alla natura stessa,

e perciò indomabili.

La relazione più evidente Virgilio-Lucrezio emerge confrontando il brano analizzato del III libro

delle Georgiche e i versi 1037-1287 del De rerum netura, IV. Nel finale del IV libro Lucrezio

polemizza contro la passione d’amore perchè riduce l’uomo in schiavitù, rende folli e allontana, più

di ogni altra passione, dall’ideale epicureo di saggezza. La culpa naturae consiste nell’inganno

della voluptas che spinge uomini e bestie a desiderare il possesso del corpo, ma l’origine di tale

desiderio sta nella mente: idque petit corpus, mens unde est saucia amore (IV, 1048). Il desiderio

tormenta il corpo attraverso mutua gaudia, ma esiste solo nella mente. E un tale desiderio è violento

e irrazionale: la libido viene definita dira al v. 1046 e la cupido muta al verso 1057. Una natura

contraddittoria del desiderio erotico che fa della passione una sintesi ossimorica di dulcedo e frigida

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cura (vv 1059-1061). L’eros si configura quindi come una fraus che spinge l’uomo a desiderare

sempre di più in un cinico circolo vizioso: unaque res haec est, cuius quam plurima habemus, / tam

magis ardescit dira cuppedine pectus,vv. 1089-1090 (e questa è l’unica cosa, per cui, più ne

possediamo, tanto più il cuore arde di un desiderio feroce). Aspetti che torneranno nella teoria del

piacere di Leopardi, e che potranno essere ripresi l’anno successivo nel programma di italiano,

mettendo in evidenza anche le divergenze tra i due poeti.

Rispetto a Lucrezio in Virgilio manca l’analisi sulla fisiologia dell’istinto sessuale, ma comune ad

entrambi è la rappresentazione dell’amor come legge di natura che rende schiavi tutti gli esseri

viventi.

Mettendo a confronto questi versi, si possono cogliere le allusioni puntuali, anche a livello lessicale:

Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque

et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres

Georgiche, III, 242-243

Genus humanum mutaeque natantes

squamigerum pecudes et laeta armenta

feraeque/ et variae volucres

De rerum natura II, 342-344

Da notare, soprattutto, variae volucres variato in pictae volucres.

Ma questi stessi versi delle Georgiche III hanno un riferimento ancora più prossimo in un altro

passaggio del De rerum natura, IV:

In entrambi i casi l’attrazione erotica accomuna gli uomini agli animali, quello che cambia è la

prospettiva: il percorso di Lucrezio va dall’uomo agli animali, (nec mulier semper ficto suspirat

amore......nec ratione alia volucres..., IV, 1192-1198), Virgilio invece con un movimento opposto si

muove dagli animali all’uomo (solo al verso 258 si farà accenno al iuvenis). Nonostante il

rovesciamento di prospettiva, però, Virgilio condivide col modello il senso di sopraffazione di

fronte a una legge di natura così crudele. Ponendo al centro della propria attenzione l’animale,

Virgilio rinuncia a indagare le ragioni psicologiche dell’eros per rappresentare, in modo oggettivo,

la pulsione erotica attraverso i comportamenti degli animali. Questo non vuol dire che Virgilio sia

distaccato, anzi gli animali sono antropomorfizzati, la loro follia suscita compassione perchè è

specchio della follia umana. Se per Lucrezio, nei versi conclusivi del IV libro, l’uomo saggio può

giungere a una forma di amore filosofico, basato sulla consuetudine anziché sulla passione, capace

Omne adeo genus in terris hominumque ferarumque

et genus aequoreum, pecudes pictaeque volucres

Georgiche, III, 242-243

nec ratione alia volucres armenta feraeque

et pecudes et equae

De rerum natura IV, 1197-1198

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di scavarsi una sua nicchia come una goccia d’acqua che incide la roccia, Virgilio non ammette

una tale possibilità. Amor vincit omnia, si è già detto, non lascia scampo.

Quella di Virgilio nei confronti di Lucrezio è dunque un’allusività contrastiva: al blandus amor (De

rerum natura, I, 19) contrappone il caecus amor e il durus amor (Georgiche, III, 210 e 259), alla

Venus lucreziana dispensatrice di piacere e di vita oppone una Venus fonte di morte

(funera...stragem, Georgiche, III, 246-247).

Questo testo è servito sostanzialmente da premessa generale per i brani successivi, come esempio

emblematico della forza distruttrice ed universale dell’amore. Partendo da queste premesse

ideologiche dovrebbe essere più facile, per gli studenti, comprendere i miti di Orfeo e di Didone,

che seppure così diversi sono accomunati da uno stesso tragico destino di amore e morte.

4° lezione: 2 ore

Per questa lezione ho scelto l’introduzione del IV Libro delle Georgiche, da cui ho selezionato il

brano di Orfeo ed Euridice. Affinché gli studenti possano cogliere meglio il significato

dell’excursus della vicenda di Orfeo, e riescano a capire come essa sia funzionale all’impianto

didascalico del poema stesso, è necessario iniziare con l’analisi strutturale del IV Libro. Il mito di

Orfeo ed Euridice, infatti, è inserito, con un gioco di incastri, all’interno della digressione di Aristeo

e delle sue api, secondo la tecnica alessandrina della struttura a cornice.

Vediamo come: il IV libro è interamente dedicato alle api, che implicano una serie di riflessioni

morali, di credenze popolari e di antichi simbolismi, in quanto:

le api costituiscono un modello di società perfetta

le api partecipano dell’anima divina del mondo

le api sono un modello di virtù, poiché si generano senza ricorrere all’accoppiamento

le api simboleggiano la risurrezione dalla morte (la cosiddetta bugonía è il metodo di

riproduzione delle api dai cadaveri putrefatti dei buoi).

Le api quindi sono il simbolo della perfezione, cosa non nuova nel mondo classico, se si pensa a

Semonide, lirico greco del VII sec. a. C, che nella sua invettiva contro le donne salvava solo la

donna ape, l’unica degna di essere sposata, scrigno di tutte le virtù domestiche.

All’interno della descrizione del mondo perfetto delle api, la vicenda di Orfeo compare sotto forma

di excursus per spiegare proprio il mistero della bugonia, quindi con chiara funzione di aition,

secondo il gusto alessandrino. Aristeo, grande civilizzatore e scopritore di tecniche, ha perso le sue

api per un’epidemia, ma grazie all’aiuto della madre, la ninfa Cirene, scopre che la sua perdita è una

punizione perchè, senza volerlo, ha causato la morte di Euridice, la quale per sfuggire a lui

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inciampa e viene morsa da un serpente. E proprio qui si innesta la vicenda di Orfeo: un veggente,

Proteo, racconta ad Aristeo la triste storia di Orfeo, che, sceso all’Ade, riesce a riportare in vita la

sposa Euridice grazie al suo canto, ma poi la perde per sempre a causa di un fatale errore (è questa

la sezione presa in esame da noi). La storia di Aristeo avrà un lieto fine: con un sacrificio di buoi

riesce a sciogliere la maledizione e dalla carcassa bovina le sue api rinascono, invece la vicenda di

Orfeo ha un finale tragico: perderà infatti definitivamente Euridice e anche lui troverà la morte.

Dunque tra Aristeo ed Orfeo è istituito un parallelismo: entrambi gli eroi devono affrontare dure

prove e lottare contro la morte; le loro vicende approdano però a esiti opposti, e la ragione di questa

diversità va ricercata nel loro atteggiamento di fronte ai precetti divini. Orfeo fallisce perchè non

rispetta la prescrizione di Proserpina, Aristeo invece ha successo proprio in virtù della scrupolosa

obbedienza al volere divino. Così la digressione narrativa risponde alle esigenze didascaliche del

poema.

Sono molti gli elementi che accomunano le due figure: entrambi sono stati colpiti da una privazione

dolorosa (la moglie per l’uno, le sue api per l’altro), entrambi devono superare una dura prova per

vincere le rispettive privazioni e tutti e due devono sconfiggere la morte. Ma c’è un altro elemento

che caratterizza e identifica le due figure: entrambi sono degli eroi civilizzatori, l’uno ha insegnato

all’umanità la poesia (diventando simbolo in particolare della poesia elegiaca, nata per lenire le

sofferenze d’amore), l’altro l’apicultura. Sulla base di questi elementi quindi, secondo

l’interpretazione di G. B. Conte, l’insuccesso di Orfeo va visto come il fallimento della poesia

elegiaca rispetto alla poesia didascalica, incarnata da Aristeo, il perfetto agricola. Orfeo diventa

dunque l’archetipo mitico della figura del poeta-amante, che trova il suo doppio nell’usignolo

(qualis populea maerens philomela sub umbra / amissos queritur fetus, vv. 511-512), condannato a

cantare in solitudine per renovare dolorem. Viene così alimentato un topos letterario (già Catullo

paragonava il suo amore imperituro per il fratello morto al canto dell’usignolo, Carme 65) che

continuerà in Ovidio (Metamorfosi, VI), Properzio, e che proseguirà nella letteratura italiana, si

pensi a Petrarca (Canzoniere, CCCX) o Tasso.

L’opposizione esemplificata dai due miti, dunque, sarebbe tra amor et labor, tra due modelli

opposti di vita, l’uno fondato sulla passione amorosa, l’altro ispirato a una visione moralmente

superiore.

Questa tecnica di incastri, tipica della tradizione poetica alessandrina e neoterica, non era nuova a

Roma, ed infatti trova un’illustre corrispondenza nel Carme LXIV di Catullo, in cui il poeta

inserisce un racconto entro la cornice di un altro racconto. Il tema di entrambe le narrazioni sono le

nozze fra un essere mortale e una divinità: nel racconto-cornice il mortale Peleo sposa la dea Teti,

nel racconto contenuto nella cornice, inserito tramite la descrizione della coperta nuziale, la mortale

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Arianna diventa la sposa del dio Dioniso. Entrambe le storie testimoniano un’età remota in cui

l’umanità incorrotta era molto vicina al livello di perfezione divina, cosicché gli dei non

disdegnavano di mescolarsi agli uomini o d’imparentarsi con loro. Le due narrazioni, equivalenti

per lunghezza, sono diverse per intonazione. Nella prima si evoca un mondo avventuroso e

innocente, dove c’è solo bellezza e virtù; nella seconda l’amore si associa al delitto e al tradimento

e la colpa richiede punizione: Teseo è sleale verso Arianna, la quale a sua volta per amore dello

straniero tradisce la sua famiglia e uccide il fratello (il Minotauro), tuttavia gli dei ascoltano le

preghiere degli uomini (per lo meno ascoltano le preghiere di Arianna), puniscono il male,

ricompensano chi ne è vittima; gli uomini conservano ancora la pietas religiosa e per questo motivo

vivono in un mondo non ancora abbandonato dagli dei. Attraverso i miti di Peleo e Teti e di

Arianna e Teseo, Catullo vuol dare voce alla sua nostalgia per l’età degli eroi, sentita come vera età

dell’oro, e alla sua desolazione per la corruzione della sua epoca, in cui il lecito e l’illecito,

mescolati con empio furore, hanno allontanato dall’umanità il giusto cuore degli dei.

Dopo aver fornito queste coordinate, si può passare all’analisi del brano IV Libro delle Georgiche,

vv. 484-515.

Ancora una volta il brano è piuttosto semplice nella sua struttura. In particolare è interessante, sia

dal punto di vista morfo-sintattico sia sotto il profilo retorico, il verso 489:

ignoscenda quidem, scirent si ignoscere Manes

A livello stilistico si evidenzia il poliptoto del verbo espresso in due modi diversi. Dal punto di vista

grammaticale può essere utile schematizzare alla lavagna il periodo, scomponendolo

gerarchicamente in questo modo:

(Eurydice) veniebat principale

cum subita dementia cepit temporale

ignoscenda si (Manes) scirent periodo ipotetico dell’ irrealtà

apodosi (perifrastica passiva) protasi

ignoscere infinito con funzione nominale (c. oggetto)

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Passando quindi al commento contenutistico del brano tradotto, saranno gli studenti stessi a

rintracciare sul testo i termini con cui sono identificati i due protagonisti, Orfeo ed Euridice, e

l’Amore, completando la seguente tabella:

Orfeo: Euridice: Amore:

v. 488 incautum amantem subita dementia

v.491 immemor victusque

v.494 miseram

v.495 tantus furor

v.512 (metafora) durus arator

v.514 (metafora) miserabile carmen integrat

Sulla base di questo schema, si può ricostruire la prospettiva con cui Virgilio narra la vicenda. Il

poeta, che dà per scontata la conoscenza del mito da parte del lettore, si concentra sui momenti di

maggiore pathos, connotando l’amore come follia che conduce alla morte. Euridice, morta per

sfuggire ad Aristeo (innamorato di lei) è perduta per sempre a causa della dementia (v. 488) che

spinge Orfeo a guardarla. E qui compare un’altra parola chiave: furor. Euridice chiede infatti quis

tantum furor abbia perduto lei per sempre. Orfeo, al quale era stata fatta una concessione

straordinaria (strappare una vita alla morte), colto da un’improvvisa follia si volta a guardare la

sposa proprio quando erano alle soglie della luce. L’amore, che detta questo gesto inconsulto ad

Orfeo, ancora una volta è presentato come una forza improvvisa ed irrazionale, che conduce ad un

esito tragico. Questa volta però è una follia diversa rispetto a quello del III Libro: non è l’istinto

ferino e sessuale, ma piuttosto un richiamo irresistibile, un bisogno di vedere.

Ma che cosa detta questo gesto imprudente, apparentemente inspiegabile, di Orfeo? Cercare di dare

una risposta può essere molto interessante. Dopo tutto al cantore era stata posta un’unica

condizione, di non guardare l’amata; perchè tanta impazienza? Per cogliere il significato etico di

questa vicenda può essere utile ricordare altri miti o leggende in cui uno sguardo proibito viene

punito per volere divino. Si può citare la Bibbia, l’episodio della moglie di Lot, trasformata in una

statua di sale per essersi voltata in dietro a guardare la pioggia di zolfo e fuoco che cadeva su

Sodoma e Gomorra (Genesi, 19,26). Passando alla mitologia classica, tanti sono i riferimenti:

chiunque osasse guardare negli occhi la Medusa veniva trasformato in pietra. E’ importante che la

pietrificazione avvenga proprio attraverso gli occhi: chi guarda la Medusa, chi guarda Sodoma e

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Gomorra, è trasformato in statua di sale o di pietra, così come Coridone è trasformato in roccia per

aver visto Artemide fare il bagno, allo stesso modo per aver guardato la sua amata, Orfeo è punito

con la definitiva perdita della moglie.

La pietrificazione di chi guarda nonostante il divieto, così come la scomparsa dell’oggetto del

proprio desiderio che viene contemplato, rappresenta la punizione inflitta allo sguardo illecito,

punizione per uno sguardo che fissa o per uno sguardo possessivo, pieno di cupidigia o di orgoglio.

Insomma, una punizione della umana incontinenza, del peccato di ύβρις. Ma perché punire questa

sete di vedere? Perché guardare, osservare, spiare, contemplare vuol dire conoscere, penetrare

nell’essenza delle cose, carpire, oltre l’apparenza, il vero significato della realtà. Che presso i popoli

antichi fosse strettissimo il legame tra vista e conoscenza è confermato dal fatto che molte civiltà

usassero l’occhio come simbolo di sapere. La stessa identificazione tra occhio e sole, presso la

civiltà egizia ma anche presso i celti, trova in questo principio la sua ragione: il sole è luce e

illumina e permette di distinguere ciò che la tenebra (l’ignoranza) nasconde; l’occhio quindi è

metafora della conoscenza. Da qui il passo verso la veggenza: chi sa tutto riesce anche a vedere e a

sapere che cosa succederà. Ma a questo punto, almeno nel mondo greco, sembra scattare un

paradosso: spesso il veggente è cieco, come insegna Tiresia., le cui vicende, tra l’altro, sono legate a

quelle di un altro cieco famoso, Edipo. Tiresia, accecato per aver visto la nudità della dea Artemide,

anche se per sbaglio, peccando di hybris per aver visto “le cose non concesse..." (Callimaco), venne

punito con la cecità fisica. Ma in cambio ottenne la visione profetica. Parimenti Edipo, davanti alla

propria colpa, si acceca, smette di vedere per aver visto cose che non avrebbe dovuto vedere. E

anche lui, nel momento in cui fisicamente non ha più la vista, riesce a profetizzare ai suoi figli il

loro destino maledetto. L’uomo, quando è privato del senso della vista, riceve la capacità di vedere

le cose ben più in profondità, quindi una forma superiore di conoscenza, e la conoscenza è potere.

Questo giustifica perché uno sguardo proibito fosse così spesso punito nel mondo classico.

Questa parentesi sulla vista nel mito può essere arricchita da un altro tassello: la malia. Nella nostra

società il termine “malocchio” ha sviluppato un significato tutto particolare, ma originariamente

esso era un maleficio che veniva applicato con lo sguardo. L'occhio potente riusciva ad incantare

l'avversario, nel senso peggiore del termine. Questo è il fascinum dei latini, una forza che non aveva

certo l'aura positiva di cui noi moderni l'abbiamo caricata: il fascino era una magia, un sortilegio, e

fare il malocchio era "fascinare" qualcuno, partendo proprio dal potere degli occhi.

Per tornare al nostro Orfeo, in questo mito il vedere è abbinato ad un altro elemento, quello

dell’amore. I tre termini di riferimento sono la vista, la conoscenza e l’amore, ma come sono in

relazione? Si pensi ai famosi versi danteschi:

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“Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta” (Vita Nova,

cap.XXVI)

Il verbo pare non è tanto da intendersi “sembra”, quanto piuttosto “appare”, “si manifesta”. Quindi

l’amore nasce dalla manifestazione, dall’apparizione della donna e l’innamoramento è conseguenza

degli effetti che la visione, capace di far trascendere l’esperienza terrena in una estasi divina,

produce su chi contempla. A questo punto appare chiara la relazione tra i nostri tre termini:

l’amore nasce dalla contemplazione

la contemplazione (= conoscenza) passa attraverso la vista

l’amore passa attraverso gli occhi

La poesia stilnovista ruota attorno al senso della vista, che non è solo il mezzo per guardare, ma

appunto anche per conoscere. Dunque alla base di tale poetica c’è l’identità di amore e vista: si

pensi alla donna angelo, che solo tramite lo sguardo eleva l’animo dell’uomo che la contempla.

Questa stessa identità giustificava l’amore nella poesia classica: non è possibile scindere l’amore

dalla visione, dalla contemplazione. Ed è stato proprio questo binomio a portare alla rovina Orfeo. Il

mitico cantore, l’eroe che è riuscito a vincere le leggi dell’Aldilà, che ha saputo placare con la forza

del proprio canto le fiere più selvagge, non è riuscito a domare un demone più forte: il suo amore.

Data l’equivalenza tra il vedere e il conoscere (d’altra parte in greco la theoria è al tempo stesso la

visione e la contemplazione intellettuale, quindi la conoscenza), e dall’altra parte tra l’amare e il

conoscere, la richiesta posta ad Orfeo è impossibile. Al cantore, insomma, si è chiesto di amare

senza conoscere e la scissione di amore e conoscenza non è possibile. E’ appunto questo paradosso

a segnare l’esito tragico del mitico cantore. Il suo amore, che lo ha spinto addirittura a infrangere le

condizioni poste dal dio dei morti (rupta tiranni / foedera, v. 492), lo rende un amante incautus (v.

488), immemor (v.491) perché chiuso nella sua passione. L’eros non lascia scampo, conduce alla

rovina, e il cantore dell’amore, prototipo del poeta, è condannato a cantare il proprio dolore come

un usignolo. Anche il canto quindi, prerogativa di un cuore sconvolto dal furor erotico, sembra una

maledizione più che un privilegio. Isolato, il poeta-amante ripiega su se stesso e il fuoco che

alimenta la sua voce finisce per perderlo.

Pur non essendo possibile, per motivi di tempo, affrontare in modo esauriente un’analisi

comparata tra l’Orfeo virgiliano e quello, sempre di età augustea, ripreso da Ovidio nelle

Metamorfosi, X, è comunque interessante leggere alcuni versi ovidiani per mettere in luce alcune

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differenze di fondo: in Ovidio, ad esempio, l’amore non è accostato alla pazzia, il suo ritratto di

Orfeo ci offre un uomo disperato che supplica gli dei dell’Ade in nome di un dio, Amore, noto tanto

sulla terra quanto nel mondo sotterraneo. Anche il personaggio di Euridice assume connotati un po’

differenti: ella non rimprovera il marito per l’errore fatale, d’altra parte di che cosa avrebbe potuto

lamentarsi, se non di essere stata amata troppo? (quid enim nisi se quereretur amatam?, v.61)

Passando alla letteratura italiana si può ricordare brevemente la Favola di Orfeo di Poliziano del

1480, il primo componimento scenico di argomento profano in volgare, in cui temi tipici del

Quattrocento fiorentino vengono mescolati: l’ammirazione per la bellezza, il sentimento della

fragilità della vita, il rimpianto per la fugace giovinezza.

Soprattutto, però, va ricordata la letteratura novecentesca: i Sonetti a Orfeo, scritti in tedesco nel

1923 dal poeta Rainer Maria Rilke (1875-1926), in cui Orfeo testimonia la forza assoluta della

parola, che dal mondo dei morti raggiunge quello dei vivi, o i Dialoghi di Leucò, in cui Pavese

reinterpreta il mito: il cantore Orfeo svela a una baccante che si è voltato indietro non per ansia

d’amore, ma per deliberato proposito, consapevole che se Euridice fosse risorta tutto sarebbe

tornato come prima, che la morte sarebbe comunque tornata. Nella sua discesa agli Inferi Orfeo non

cerca Euridice, ma, diventando simbolo dell’inquietudine dell’uomo moderno, scende nell’Ade per

trovare se stesso e il proprio destino, per dare una senso al passato, alla morte, alla vita.

5° lezione: 1 ora

Questa lezione è la più sperimentale e, penso, dovrebbe essere anche la più entusiasmante per gli

studenti. Partendo dal testo latino, ampiamente analizzato la lezione scorsa, spostandosi al campo

musicale, si può evincere come la poesia possa essere fonte di ispirazione per un compositore, il

quale può, a seconda delle proprie intenzioni, mantenersi più o meno fedele al significato originario

del testo.

La storia di Orfeo ed Euridice simboleggia la forza disperata della passione amorosa, destinata alla

sconfitta, ma Orfeo, in quanto cantore, celebra anche la potenza della musica, che resta invincibile.

Attraverso la trasposizione in note di questa favola, dunque, la musica esalta se stessa, in una

dimensione quasi autoreferenziale.

Prima di esaminare le interpretazioni che nel corso dei secoli i compositori hanno dato di questa

vicenda, è opportuno rendere i ragazzi in grado di padroneggiare la dimensione mitica di Orfeo,

risalendo ben oltre al testo virgiliano, poiché questa favola è tra le più oscure e cariche di

simbolismo. Attestata in data antichissima, essa si è sviluppata a tale punto da diventare una vera

teologia, dai caratteri fortemente esoterici. Addirittura la sua influenza ha contaminato la primitiva

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iconografia cristiana: molti sarcofagi paleocristiani recano infatti l’immagine di Orfeo, simbolo di

banchetto eucaristico e di resurrezione.

Orfeo, citaredo di Tracia, ha un’origine oscura, a partire dall’etimologia del nome: dal greco

orphnós = tenebroso o dal greco orphanós = abbandonato. Non è chiaro neppure quale fosse il suo

divino patrono, se Febo Apollo, dio della luce, o Dioniso, dio dell’ebbrezza. Questa dualità, tra

l’altro, rispecchia l’antinomia presente nella musica stessa secondo la concezione greca, come

spiega F. Nietzsche, simboleggiata persino dagli strumenti: da una parte la cetra, prerogativa di

Apollo, indice di armonia razionale, dall’altra l’aulòs, attributo del satiro Marsia, e quindi riflesso

della componente dionisiaca, adatto ad esprimere la sfrenatezza e l’irrazionalità. Orfeo è musico e

poeta allo stesso tempo, a riprova del profondo legame che univa musica e poesia nella civiltà

classica. Le sue canzoni, accompagnate dal suono della cetra (secondo alcuni sarebbe stato proprio

lui l’inventore dello strumento, mentre secondo altri ne avrebbe semplicemente aumentato il

numero delle corde, da sette a nove, in onore delle Muse) sono così soavi da ammansire le bestie

feroci, da animare le piante. Come membro dell’equipaggio degli Argonauti, col suo canto ha

placato il mare in tempesta, ha neutralizzato con la dolcezza della sua voce il canto ammaliatore

delle Sirene, evitando che i compagni ne cadessero vittima.

Dunque, sono tanti i miti su Orfeo, ma la variante orfica più celebre, diventata un topos letterario in

età alessandrina, resta quella della catabasi per amore della moglie Euridice. E’ Virgilio, come

abbiamo visto, ad offrircene la versione più appassionata nel IV Libro delle Georgiche.

Ma come muore Orfeo? Secondo una leggenda Zeus lo uccide con un fulmine, secondo una variante

più famosa le donne trace, in preda ai rituali orgiastici del dio Bacco, lo avrebbero fatto a pezzi, e i

suoi brandelli sarebbero poi stati gettati nel fiume. La testa e le labbra del poeta sarebbero così state

trasportate dall’acqua sino a Lesbo, dove gli abitanti gli tributarono onori e gli eressero una tomba,

dalla quale ogni tanto usciva il suono di una lira. Lesbo divenne per questo la terra per eccellenza

della poesia lirica. La sua lira divenne invece una costellazione celeste, mentre la sua anima

raggiunse i Campi Elisi dove, rivestita di una luce bianca, canta ancora per i Beati.

Terminato questo excursus nel mito, con un salto di parecchi secoli, si può passare alla storia della

musica. Ovviamente, in una classe che non possiede i prerequisiti di ambito musicale, la trattazione

deve cercare di essere il meno cattedratica possibile, per non annoiare gli studenti con ulteriori

nozionismi. D’altra parte, però, è necessario contestualizzare le opere illustrate, per far sì che

possano coglierne le valenze etiche ed ideologiche, oltre che quelle estetiche. Inoltre, proprio

analizzando il mito di Orfeo, è possibile tracciare una sintetica storia del melodramma, dal

momento che la favola di Orfeo ed Euridice è il filo rosso che attraversa l’opera lirica, un mito che

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ha segnato la nascita dell’opera in musica, la sua riforma con conseguente rinascita, e la sua fine nel

segno di una parodia dissacrante.

La prima opera lirica tramandata fino a noi è stata infatti l’Euridice di Rinuccini con musica di

Jacopo Peri, una favola drammatica che ha inaugurato il 1600, rappresentata a Firenze in occasione

delle nozze di Maria de’ Medici e di Enrico IV di Francia. Un’altra versione, con musiche di

Caccini, sempre su libretto di Rinuccini, andò in scena nel 1602.

Il dato fondamentale, che è quello che dà senso a questa inserzione della musica in un percorso

letterario, è che l’opera in musica è nata dalla volontà di un circolo di letterati fiorentini, la

cosiddetta Camerata de’ Bardi, di ricreare lo spirito della tragedia greca, in cui testo, musica e

scenografia avevano pari importanza. Quest’esigenza nasce come reazione all’imperversare della

polifonia, che, con l’intonazione di più parti diverse insieme, causava la mancata comprensione

delle parole, a tutto vantaggio della musica.

Un’altra tappa fondamentale si registra nel 24 febbraio 1607, anno in cui nasce ufficialmente il

melodramma, proprio con l’Orfeo, favola in un prologo e tre atti composta da Claudio Monteverdi,

su libretto di Striggio jr, su commissione del duca di Mantova. L’opera riscosse un grande successo

ininterrotto, anche per lo stile innovativo, intensamente drammatico, tanto che in epoca moderna è

stata ancora trascritta da Malipiero (1904), Carl Orff (1923), Respighi (1935), Hindemith (1954),

Maderna (1967).

Per evitare una lezione troppo astratta si possono intervallare le nozioni teoriche con momenti di

ascolto; in questo modo gli studenti hanno modo di sperimentare concretamente come codici

espressivi diversi riescano ad esprimere lo stesso contenuto. Ovviamente sarebbe impensabile, e

dopo tutto inutile, ascoltare l’opera integrale, quindi è sufficiente selezionare alcuni brani che si

possono far vedere alla classe (da un DVD) tramite un PC. Preventivamente, però, bisogna fornire

agli studenti un glossario base, per potersi intendere: occorre chiarire che cosa sia nel melodramma

un coro, un recitativo ed un’aria. Per rendere questi concetti abbordabili si possono utilizzare delle

analogie col campo poetico, che loro padroneggiano. Illuminante in tal senso potrebbe essere il

raffronto tra l’aria solistica e il monologo letterario: il protagonista si esprime parlando (in questo

caso cantando) tra sé, ma rivolgendosi in realtà all’interlocutore ideale.

Il primo episodio scelto per l’audizione (5 minuti scarsi) è la toccata introduttiva dell’opera di

Monteverdi, un passo tra l’altro inconsapevolmente celebre, che sicuramente alcuni ragazzi avranno

già sentito, magari senza sapere di che cosa si tratti. Ho selezionato questo brano per cercare di

ricreare l’atmosfera che effettivamente si respirava a corte o a teatro all’origine del melodramma.

Era una festa, un’occasione per intervenire alla rappresentazione di una storia tratta dal mito, con la

consapevolezza di assistere ad una finzione (lo stesso patto implicito che lega lettore–scrittore).

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Come in tutte le feste regnavano la confusione, le chiacchiere e le maldicenze, fino a quando uno

squillo fuori palco annunciava che stava per avere inizio lo spettacolo. Il carattere solenne di questa

toccata introduttiva serviva proprio per richiamare l’uditorio all’attenzione e al silenzio: le portate

delle vivande si fermavano, le luci si abbassavano ed iniziava la finzione. L’edizione che ho scelto

da sottoporre alla visione della classe, tra l’altro, è molto suggestiva anche perché mostra proprio lo

squillo fuori palco delle trombe, al cui suono (presumibilmente come accadeva all’epoca) il

direttore d’orchestra si fa largo tra gli spettatori per dare inizio allo spettacolo.

Successivamente è la volta dell’ aria di Euridice Ahi vista troppo dolce e troppo amara del IV atto,

(nuovamente poco meno di 5 minuti): è importante che l’insegnante fornisca agli studenti le

fotocopie del libretto, in modo che sia per loro più agevole comprendere il testo, e magari

confrontarlo con l’originale poetico:

Ahi, vista troppo dolce e troppo amara!Così per troppo amor dunque mi perdi?Ed io, misera, perdoil poter più goderee di luce e di vita, e perdo insiemete d'ogni ben mio più caro, o mio consorte.

Da questo ascolto appare evidente che l’orchestra agli albori del melodramma è ancora poco nutrita,

d’altra parte l’opera era nata per essere rappresentata davanti ad una ristretta cerchia di nobili della

corte dei Gonzaga, quindi lo spazio fisico era ristretto e le esigenze di sonorità limitate. Va inoltre

ricordato che gli strumenti dell’epoca barocca, ancora all’inizio della loro storia, non possedevano

lo stesso volume sonoro di quelli moderni. Tuttavia essi avevano già una loro funzione drammatica,

in base alle loro caratteristiche: i flauti (dritti), gli archi e gli strumenti a pizzico ricreavano

l’atmosfera bucolica, i cornetti (una sorta di trombe di legno) dipingono invece il regno degli Inferi.

Il melodramma di Monteverdi, a differenza di quello di Peri, è fedele alla versione virgiliana del

mito: nel libretto di Rinuccini, infatti, Orfeo si vedeva restituita la sposa da Plutone senza

condizioni, l’opera si concludeva quindi con cori di pastori festanti per l’avvenuto

ricongiungimento, invece nell’Orfeo di Monteverdi l’eroe riesce a conquistarsi la felicità con le

proprie forze, ma poi la distrugge. Orfeo, proprio come nell’originale virgiliano, cede alla

tentazione di voltarsi indietro, venendo meno così ai precetti di Proserpina: sono gli stessi versi che

noi abbiamo tradotto, trascodificati in musica.

Proseguendo nella storia del melodramma, è ancora la favola di Orfeo a segnare una svolta

decisiva. Il 5 ottobre 1762, all’Hofburgtheater di Vienna va in scena Orfeo ed Euridice di Christoph

Willibald Gluck, su libretto di Ranieri de’ Calzabigi, letterato alla corte dell’imperatore a Vienna, e

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promotore della riforma del melodramma, dopo la degenerazione virtuosistica del Settecento. In

sintesi il principio cardine della riforma, nell’ottica di una sobrietà che rivalutasse il testo,

consisteva nel fare della melodia un mezzo d’espressione di emozioni e sentimenti ben definiti.

L’opera è tutta incentrata sulla figura di Orfeo, vero protagonista di una storia ormai nota, ma che

presenta una novità rilevante nel finale (è lo stesso librettista Calzabili a dire di aver “cambiato la

catastrofe”, per adattare la favola “alle nostre scene”): contrariamente al mito, Orfeo non muore ed

Euridice non viene persa per sempre, ma l’intervento del dio Amore, il deus ex machina, permetterà

al cantore di riavere la sua sposa, il tutto in una cornice di danze e gioia.

Di quest’opera si può far ascoltare l’aria più celebre, ossia il rondò (andante con moto, adagio,

della durata di circa 5 minuti) della scena prima del terzo atto, con il patetico pianto di Orfeo:

Che farò senza Euridice!Dove andrò senza il mio ben!Euridice?…Oh Dio!, rispondi;io son pure il tuo fedel.Euridice! Ah, non m’avanzapiù soccorso, più speranzané dal mondo, né dal ciel.Che farò senza Euridice!Dove andrò senza il mio ben!

Il Romanticismo, infine, ha proposto un’interpretazione caricaturale del capolavoro di Gluck: si

tratta dell’operetta Orphèè aux Enfers (Orfeo agli Inferi) di Charles Offenbach su libretto di

Cremieux e Halevy, andata in scena il 21 ottobre 1858 a Parigi. E’ una spumeggiante parodia, il cui

brio travolge i canoni consueti del melodramma e che finirà per far cantare tutta Parigi.

La ripresa del mito di Orfeo da parte del compositore francese è rivoluzionaria, in consonanza con

la satira della Francia del II impero che l’operetta si proponeva. La demitizzazione del mondo

classico a cui si assiste in quest’operetta mira in realtà a colpire l’ambiente contemporaneo.

Vale la pena di riassumere la storia: Orfeo è un insegnante di violino, la virtuosa Euridice del mito

non sopporta più lo sposo, tanto che si è innamorata di Aristeo e con lui lo tradisce.

Nell’attraversare un campo di grano per raggiungere il suo amato, Euridice viene punta da un

serpente e muore. Lascia felicemente questo mondo accompagnata da Plutone. Orfeo, appresa la

notizia da una lettera, tira un sospiro di sollievo, ma l’Opinione Pubblica lo spinge ad andare a

cercare sua moglie, pena il fallimento della carriera di musicista. Suo malgrado, Orfeo giunge

all’Olimpo, dove reclama udienza: la scena che lo accoglie è memorabile: gli dei ballano il can-can

e contestano Giove al ritmo della Marsigliese. In un susseguirsi di trovate e battute, l’azione si

sposta nell’inferno, trasformato quasi in un bordello. Quando Euridice è ormai recuperata, Giove dà

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un fenomenale calcio ad Orfeo e gliela strappa di mano: un trascinante baccanale accoglierà per

sempre Euridice all’Inferno e la sua presenza renderà la festa ancora più bella.

Dunque, Offenbach dissacra la componente apollinea dell’Orfeo e l’ha restituita alla dimensione

dionisiaca. L’operetta di Offenbach mostra una ripresa inconsueta di un mito, trasformato in un

non-mito, con la presenza dell’Opinione Pubblica a prendere il posto degli antichi cori nella sua

battaglia contro l’infedeltà. Memorabile, per la fortuna che ebbe in seguito, la musica che

accompagna il ballo del can-can:

TOUTS:Ce bal est original:d’un galop infernaldonnons touts le signal!Vive le galop infernal!Donnons le signald’un galop infernal!Amis, vive le bal!La la la la la!

Quest’ultimo brano, grazie al suo ritmo trascinante, nel tempo è diventato famoso

indipendentemente dall’opera, ha avuto una vita propria, trovando spesso collocazione come

colonna sonora di film o musical o pubblicità.

Per dimostrare ulteriormente la modernità del mito di Orfeo, si può concludere la lezione con un

riferimento alla canzone d’autore, che a sua volta ha tratto ispirazione dalla favola del mitico

cantore, attratta dalla sua carica simbolica. In particolare, nella canzone Euridice Roberto Vecchioni

(da "Blumun", 1993), con un’interpretazione significativa del mito, ha fatto di Orfeo un simbolo

dell’uomo moderno e della sua ricerca di un senso nella vita. Il testo può essere analizzato

dividendolo in sequenze. In questo modo emerge una costruzione speculare del testo:

PRIMA PARTE SECONDA PARTE

Pensiero di scendere nell’Ade Pensiero di ritornare nel mondo

Ricordo di Euridice e dolore della natura Possibilità di perdere Euridice

Decisione di cantare Decisione di voltarsi

Dentro il canto di Orfeo Dentro il voltarsi di Orfeo

Oltre il canto di Orfeo Oltre il voltarsi di Orfeo

Riferimento agli uomini

Risultato del canto Risultato del voltarsi

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Come si evince da questa tabella, la rigida simmetria del testo è infranta da un elemento che

compare solo nella prima parte e non ha riscontro nel secondo blocco, ed è proprio questo tema a

dare originalità e profondità alla canzone. Questa sequenza trascende la vicenda di Orfeo e Euridice

per collocarsi su di un piano più elevato, che lascia spazio a considerazioni di carattere generale

scaturite dal mito specifico: al centro dell’attenzione non sono più i due protagonisti, ma gli uomini,

dei quali si evidenzia innanzitutto la solitudine (sono semidimenticati) ma anche la tenacia

(aggrappati alla vita). Il furore dell’ultimo bacio è lo stesso che ci tiene aggrappati alla vita tanto più

quanto più si avvicina il momento della separazione.

E’ lo stesso furore che consente a Orfeo di vincere Ade: il suo successo è descritto tramite una

climax ascendente, la cui efficacia è sottolineata dal crescendo musicale che accompagna i versi:

“E canterò finché tu piangerai / E canterò finché tu perderai / Canterò finché tu scoppierai / e me la

ridarai indietro”.

L’Euridice che gli viene restituita non è però la stessa che aveva perso: le sue mani erano “passeri di

mare” quando era viva, ora invece “le carezze su di ieri non saranno mai più quelle”. L’elemento

delle mani fa un esplicito riferimento al testo virgiliano (là Euridice tende le sue fredde palme

all’amante ormai perduto).

L’Orfeo del cantautore, dunque, decide di voltarsi proprio perchè quella che gli viene ridata non è

più la sua amata, sceglie deliberatamente di abbandonare Euridice con un atto della volontà, non la

perde fortuitamente a causa soltanto della propria debolezza. Il carattere tutto d’un pezzo del

personaggio mitico conosce la lacerazione della decisione e della libera scelta, agisce in seguito a

una riflessione, come dimostrano i verbi, impiegati alla prima persona singolare dell’indicativo:

“morirò di paura”, “canterò”, “non avrò più la forza”, “mi volterò”. Quello di Vecchioni è dunque

un Orfeo moderno, che ha la facoltà di decidere autonomamente, la facoltà del libero arbitrio

sconosciuta agli eroi mitici. Il mutamento del carattere di Orfeo fa cambiare di conseguenza le sorti

della vicenda: il cantore abbandona la sposa negli Inferi. E’ la stessa innovazione già apportata dalla

rilettura del mito operata da Pavese ne L’inconsolabile, uno dei Dialoghi con Leucò (1947).

La sorte di questo “nuovo” Orfeo è paragonata da Vecchioni a quelle delle madri: esse perdono

coloro che amano più di ogni altra cosa, ma come Orfeo sono destinate a comprendere che non c’è

altra via se non quella di volere esse stesse la separazione dai figli, proprio in nome dell’amore che

le lega a essi. Per questo le madri accompagnano i figli verso i loro sogni, perché il destino dei figli

è lontano da loro, ed esse l’hanno compreso. Sottrarsi a questa legge significherebbe soltanto

procurare a sé e ai figli continue sofferenze, espresse mediante l’immagine delle vele nere che

segnano i ritorni. Proprio per non vedere le vele nere che avrebbero inevitabilmente segnato il

ritorno di Euridice, Orfeo sceglierà di accompagnarla verso il suo destino, lontano da lui. Euridice

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appartiene al regno dei morti, esattamente come Orfeo appartiene a quello dei vivi, e sa che tutto

quello che si piange/ non è amore: la sofferenza che inizia a assaporare sul sentiero degli Inferi è

solo l’inizio di quella che lo attenderebbe se riportasse in vita la sposa: si tratterebbe di un atto di

egoismo, come quello delle madri che trattengono disperatamente a sé i figli. Orfeo ha un’altra vita:

e ragazze sognanti/ mi aspettano a danzarmi il cuore: la vita lo chiama, esattamente come le stelle

che intravede all’uscita dell’Averno (e nel mondo su, là fuori/ si intravedono le stelle).

Per approfondire ulteriormente la modernità del mito di Orfeo si possono fare altri riferimenti alla

musica cantautorale: si citano, a titolo esemplificativo, la canzone Orfeo di Carmen Consoli o The

lyre of Orpheus di Nick Kave.

6° lezione: 2 ore

Questa lezione è focalizzata sul IV libro dell’Eneide, in cui si risolve drammaticamente

l’impossibile storia d’amore fra la regina di Cartagine Didone e il condottiero degli esuli troiani

Enea. Tutto il IV libro ruota attorno alla figura di Didone, che, colpita dall’eros come da una

malattia, progressivamente perde la propria identità, ed è proprio la vicenda di Didone a gettare una

nuova luce sulla figura di Enea, permettendo di sviscerarne meglio la personalità, arricchendolo di

sfumature che lo rendono più umano e tormentato. E’ questo il libro che più si discosta dal modello

omerico proprio per la centralità data alla vicenda amorosa, a cui viene dedicato così ampio spazio

(gran parte del I libro, tutto il IV libro e una breve conclusione nel VI libro), e per la statura di

questo personaggio, analizzato in ogni piega del suo animo. All’interno del libro Didone percorre

una parabola che le fa incarnare diversi ruoli: all’inizio è una regina, quindi chiusa nel suo ruolo

pubblico, ma presto si trasforma in una donna innamorata e poi ancora, ed è qui che campeggia in

tutta la sua drammatica grandiosità, diventa un’eroina abbandonata.

Prima di affrontare nel dettaglio l’episodio dell’abbandono della regina, scrivendo alla lavagna

alcuni versi si possono focalizzare i termini ricorrenti nella descrizione dell’innamoramento:

caeco carpitur igni, IV, v.2

volnus alit venis, IV, v.2

est mollis flammas medullas, IV, v.66

vivit sub pectore volnus, IV, v. 67

furens , IV, v. 68

uritur infelix Dido totaque vagatur urbe furens, v.68-69

demens , IV, v. 78

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A questo punto sarà facile individuare i campi semantici prevalenti:

ignis urit volnus

flammas furens demens

passione = fuoco effetti psicologici dell’amore = ferita che porta alla follia

Didone, all’inizio del libro, nel momento dell’innamoramento è divorata da una fiamma segreta, un

ardore che ha una natura malata. Virgilio insiste più volte proprio sul concetto di malattia e ferita:

Didone alimenta nelle sue vene la ferita, è stravolta dal suo sentimento che la divora nelle midolla.

L’amore quindi non è solo una piaga, una ferita, ma peggio ancora è una malattia incurabile, che si

subisce, una pestis, come si dice al v. 90. Proprio per questa sua natura esterna, travolgente ed

insana, l’amore riesce ad avere il sopravvento sul pudor della regina cartaginese, anche grazie ai

consigli della sorella Anna: Didone scioglie il suo voto di fedeltà a Sicheo, il marito deceduto

(solvitque pudorem, v. 56), ma soprattutto dimentica i suoi doveri di regina e non fa proseguire i

lavori per la costruzione di Cartagine. Quando poi al furor si sovrappone la disperazione per

l’abbandono la regina si trasforma in una baccante: infuria smarrita nell’animo e ardente delira per

tutta la città.

Questa concezione dell’amore come una potenza crudele e spietata, una malattia i cui sintomi sono

simili a quelli della morte, è di ascendenza greca. La fiamma dell’eros che rode le midolla di

Didone è la stessa che stravolge Saffo, poetessa greca vissuta tra il VII e VI sec. a.C, che già nel Fr.

130 dava un’appassionata descrizione del suo male: “Eros che scioglie le membra ora mi agita,

dolceamara invincibile creatura”. Anche i sintomi dell’amore, la voce che manca, il corpo che si

paralizza, il fuoco che scorre nelle vene, tutte immagini diventate dei topoi della letteratura erotica,

compaiono nella poetessa di Lesbo: “subito a me / il cuore si agita nel petto / solo che appena ti

veda, e la voce / si perde sulla lingua inerte. / Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle, / e ho buio

negli occhi e il rombo / del sangue alle orecchie. / E tutta in sudore e tremante / come erba patita

scoloro: / e morte non pare lontana / a me rapita di mente” ( Fr.31, traduzione di S. Quasimodo).

Virgilio ha costruito la figura di Didone risalendo alla poesia ellenistica attraverso la mediazione

neoterica, senza tralasciare gli influssi della tragedia. La sua Didone, infatti, riassume in sé i tratti di

Medea (vittima di un amore devastante nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e nell’omonima

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tragedia di Euripide), e di Arianna (Carme LXIV di Catullo). La passione rovinosa e colpevole,

l’abbandono e la maledizione accomunano queste tre eroine.

Nel cuore del libro IV alla passione subentra l’abbandono: Enea e Didone si trovano di fronte, in

una scena dialogata, ma le loro ragioni sono opposte e incompatibili: la regina risponde al codice

della poesia erotica, mentre Enea incarna il codice epico. La pudicizia che inorgogliva la regina

elevandola fino alle stelle, vero e proprio connotato divino, è estinta, lasciando il posto a

comportamenti furiosi confacenti ad una baccante.

Di nuovo ci si può soffermare su altri versi significativi:

eadem furenti, IV, v. 298

saevit , IV, v. 300

incensa, IV, v. 300

bacchatur; IV, v. 301

excita IV, v. 301

saevit inops animi totamque incensa per urbem bacchatur, IV, vv. 300-301

Il lessico della passione continua a ruotare ancora una volta attorno ai campi semantici del fuoco

bruciante e del furor, per altro complementari, che prefigurano il suicidio conclusivo.

Il comportamento di Didone da questo momento è quello di una donna offuscata nelle sue capacità

mentali, ormai la sua unica via d’uscita è il suicidio. Da questo momento la mente della regina è

offuscata dalla rabbia e si lancia in una spietata invettiva contro l’eroe, maledicendolo e giurando

eterno odio. Il dolore per l’abbandono si mescola al risentimento e allo sdegno. Didone si trasforma

in una Furia assetata di vendetta, non importa se a costo della sua stessa vita.

Il brano scelto da analizzare in classe è proprio quello dell’intenso monologo in cui Didone lancia la

sua invettiva contro Enea, vv. 595-629.

Dopo aver fornito la traduzione e l’analisi sintattica dei periodi, passando all’analisi, a livello

stilistico risultano interessanti soprattutto i versi conclusivi:

Litora litoribus contraria, fluctibus undas

imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque

per evidenziare il poliptoto litora litoribus ed arma armis, e il chiasmo litora (acc) litoribus (abl) –

fluctibus (abl) undas (acc).

La scelta del monologo come strumento espressivo di Didone non è casuale, come non lo è lo

sfondo notturno in cui si svolge : la regina è ormai sola, anche la sorella Anna resta fuori dai suoi

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progetti e la quiete notturna fa risaltare ancor di più, per contrasto, il tumultuare dell’animo di

Didone. Il cuore delle regina è devastato dalla passione come la sua mente è stravolta dall’ira (quae

mentem insania mutat, v. 595). Abbandonata, ferita e umiliata, nella mente di Didone si insinua la

sete di vendetta. Nel suo delirio la regina ricorda la sua ospitalità concessa ai Troiani esuli ed

insiste con ironia su alcuni comportamenti di Enea che, nella sua prospettiva, ribaltano l’immagine

dell’eroe pius. Ecco di cosa è stato capace l’eroe che, dicono, reca con sé i Penati e ha portato sulle

sue spalle il padre anziano e sfinito, l’eroe che le aveva giurato fedeltà dandole la sua mano destra!

Il sarcasmo si mescola alla ferocia: Didone indugia a ricordare le occasioni di vendetta che si è

lasciata sfuggire (vv. 600-603). Nelle sue tremende parole rivivono le atrocità di Medea e il mito di

Atreo: avrebbe potuto offrire ad Enea le carni di Ascanio, lo stesso Ascanio che all’inizio del IV

libro teneva amorevolmente in grembo. Ormai non le resta altro da fare e nella sua mente balena,

con fredda lucidità, la risoluzione del suicidio.

Importante quel participio futuro del v. 604: moritura, che esprime sapientemente l’idea di

imminenza e di intenzionalità dell’azione. Ormai Didone è risoluta a morire, nulla la spaventa più.

L’amore, che rende ciechi nel momento del desiderio e rende acuti nel momento del sospetto, è

capace di dare un sinistro coraggio a Didone, che da cerva ferita si trasforma in una furia spietata.

Dopo i violenti propositi di vendetta incomincia la parte più accorata: una solenne e terribile

invocazione alle potenze del cielo e degli Inferi. Prima la regina eleva la sua preghiera al Sole, che

tutto vede, sentito come garante della giustizia, poi si rivolge a Giunone, consapevole dei suoi mali,

quindi ad Ecate, la divinità infernale evocata con ululati durante i riti di magia ed infine alle Furie

vendicatrici. La delusione e l’autocommiserazione della donna tradita sconfinano nell’odio: fata

obstant (v. 440), i fati si oppongono ai suoi progetti d’amore, Didone sa che Enea è predestinato a

fondare una nuova città, sia pure, ma a costo di dolore e morte: paghi la sua colpa con le sofferenze

di una terribile guerra, con l’esilio, con la morte prematura. Queste sono le ultime, terribili parole

che la regina emette insieme col sangue, subito prima di suicidarsi (v.621), parole che suonano

come il sigillo della morte.

Di particolare intensità il v. 627:

nunc, olim, quocumque tempore

in cui, con un crescendo di intensità e di veemenza, Didone conclude il suo monologo con una

apostrofe al suo popolo: l’odio non si plachi ma si alimenti anche nelle future generazioni. Con

questo climax il presente e il futuro vengono uniti in una dimensione eterna.

Con una profetica maledizione Didone invoca un vendicatore che, sorto dalle sue ossa, perseguiti i

discendenti del popolo troiano:

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exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor

Questo vendicatore non ha un nome, ma pare avere un’identità. Dietro questo aliquis ultor,

indefinito e quindi ancor più terribile, è suggestivo infatti riconoscere Annibale. Ma perché inserire,

all’interno di un contesto intimo come quello di una disperata storia d’amore, un riferimento,

seppure velato, ad Annibale? Per riportare il discorso ai toni epici, dopo questa lunga pausa

dedicata al tema amoroso: dopo che l’intero IV libro è stato dedicato ad una vicenda privata, era ora

di tornare alla dimensione epica, che è per sua natura bellica: quindi l’ultor servirebbe come

cerniera, come collegamento per far riprendere il discorso. Ma c’è qualcosa di più: grazie a questo

riferimento implicito alla futura guerra, Virgilio riesce ad inserire la vicenda amorosa nel contesto

storico, rintracciando proprio in questo amore tradito, vissuto quando Roma ancora non era stata

fondata, la causa delle guerre puniche. L’odio perenne tra Cartaginesi e Romani, perciò, avrebbe

origine in queste parole. Inoltre questo riferimento getta una luce particolare sulla guerra stessa: non

sarebbe uno scontro tra popoli diversi, ma piuttosto un conflitto nato da un amore tra simili. Perché

a ben vedere Didone ed Enea sono simili nel loro dolore. Certo, ai nostri occhi la vittima è Didone,

è lei che viene sedotta ed abbandonata, è lei a darsi la morte per porre fine al suo straziante dolore,

ma anche Enea, seppure in modo diverso, è una vittima. Anche Enea, infatti, subisce il destino:

sopra tutto dominano i Fati, gli stessi fati che ostacolano l’amore di Didone ordinano a Enea di

partire, e l’eroe lo precisa con chiarezza: non cerca di sua spontanea volontà l’Italia.

Ed ancor di più, negli ultimi versi questa lotta mortale assume toni apocalittici: con due versi

concisi e per questo ancor più espressivi, Virgilio fa trascendere la tragedia di Didone ad un piano

universale: uomini, natura e storia pagheranno l’odio della regina (litora litoribus contraria,

fluctibus undas imprecor, arma armis, vv. 628-629).

Ormai Didone ha imboccato la via che la condurrà alla morte, è in preda ai propri demoni che le

sconvolgono la mente, ma non ha perso la propria lucidità.

Didone appartiene alla nutrita schiera delle eroine innamorate e abbandonate, in particolare la

regina cartaginese porta con sé la linfa delle eroine della tragedia greca, rilette attraverso la lirica

latina: Medea e Fedra rivivono in Didone, con la sovrapposizione dei connotati dell’Arianna del

celebre carme LXIV di Catullo.

Medea, Arianna e Didone sono accomunate dal rifiuto da parte dello straniero che hanno salvato e

ricorre per tutte loro, una volta tradite e abbandonate, il topos dell’impossibile desiderio di vendetta.

Per tutte l’amore nasce all’insegna della colpa, perchè comporta l’assunzione di un crimine. Medea

abbandona la patria, tradisce il padre, uccide il fratello e sacrifica anche i propri figli alla passione

per Giasone, diventando l’icona della donna privata dei beni più cari (patria, padre, fratello, marito,

figli) che precipita nell’abisso di una follia mostruosa, tanto da fare del genere femminile una razza

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maledetta. Anche Fedra è vittima di un furore rovinoso: una dira libido la sovrasta e non lascia

scampo alla ratio. Vicit ac regnat furor, riconosce Fedra, con versi che ci ricordano fin troppo bene

quelli virgiliani, un furor che provoca la morte del figliastro Ippolito che l’aveva rifiutata. La colpa

di Didone è diversa, ma la conduce ugualmente alla perdizione: fino ad allora chiusa nel suo pudor,

man mano che prevale in lei il furor, viene meno al suo ruolo di regina, alla sua fedeltà al marito

defunto, al suo dovere di erigere la città di Cartagine. E’ come se l’essere donna e l’essere regina

fossero due forze inversamente proporzionali: più cresce l’una più scema l’altra. La dimensione

pubblica e quella privata sembrano inconciliabili, anche Enea è vittima della stessa, triste, legge:

predestinato a fondare la città che dominerà il mondo, e anzi, che garantirà la pace al resto del

mondo, deve sacrificare i desideri di uomo al dovere di condottiero.

Didone quindi ha la stessa psicologia delle donne abbandonate ricordate in precedenza, ma è

qualcosa di più. La sua statura è maggiore, proprio perché prima di essere una donna innamorata è

stata guida di un popolo, ha fondato una città, ha dato leggi alla sua gente. E proprio nel momento

dell’abbandono si riappropria di questa natura, dell’antico pudor che le fa scegliere l’unica via

d’uscita, ossia il suicidio. La Didone epica è ferita nell’orgoglio come la Medea di Euripide, e il

genere epico assorbe in sé proprio i toni del genere tragico nel momento di maggior pathos, cioè

nel monologo della regina: le domande che Didone rivolge a se stessa ricalcano infatti quelle di

Medea. Il modello più immediato, in ambito latino, è la figura dell’ Arianna catulliana del Carme

LXIV: per Teseo ha tradito la sua famiglia, ha provocato la morte del Minotauro, suo mostruoso

fratello, condannandosi così a una condizione di solitudine prima psicologica, poi anche fisica,

quando si trova abbandonata su un’isola selvaggia. Anche l’amore di Arianna è stato provocato da

un intervento divino, e anche la sua passione brucia le sue viscere, come è per Didone (imis exarsit

tota medullis, Carme LXIV, v.91) e anche l’eroina catulliana lancia la sua terribile maledizione

contro l’uomo che l’ha abbandonata. Il lamento di Arianna ha lo stesso tono disperato di quello di

Didone: anche lei ricorda le promesse non mantenute, l’aiuto concesso all’esule, anche lei

rimprovera a Teseo una natura non umana. La differenza fondamentale tra le due figure sta

nell’epilogo delle loro vicende: ad Arianna è concesso il lieto fine: Bacco, giunto sull’isola di Dia,

si invaghisce della fanciulla e la sposa.

Alla luce di questa visione negativa dell’eros, anche Enea appare ai nostri occhi diverso rispetto agli

altri eroi epici. Egli non è un eroe freddo ed insensibile, non è così monolitico come potrebbe

sembrare, ma sa bene che non può mescolare la sfera pubblica con quella privata, la sua missione ha

una mira ben più alta, la fondazione di Roma. Proprio nella rappresentazione delle contraddizioni

che agitano l’animo umano, tanto quello di Didone quanto quello di Enea, Virgilio si mostra un

nuovo poeta epico. Quella di Virgilio diventa così un’epica del sentimento, per citare il titolo di un

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saggio di G. B. Conte, una poesia che riflette i sentimenti dei suoi protagonisti e che provoca, nei

lettori, quegli stessi sentimenti.

Nel mondo virgiliano assistiamo a una pluralità di punti di vista: la prospettiva di Didone, disposta a

posporre il bene del suo popolo alla propria passione, si sovrappone con quella di Enea, che pone al

di sopra di tutto la sua missione provvidenziale. Vengono così a coesistere tante coscienze, ognuna

con le sue ragioni, inconciliabili ma tutte, allo stesso modo, degne di partecipazione da parte di

Virgilio. Il poeta infatti si mostra particolarmente sensibile alle ragioni dei vinti, nel descriverci la

gloria dei vincitori si sofferma sul doloroso prezzo che pagano gli sconfitti. Ed è proprio Enea a

riassumere in sé una duplice natura di vinto e vincitore. Attraverso questo eroe Virgilio può nello

stesso tempo esporre la sua visione ideologica, che pone Roma al di sopra di tutto, e mostrare quali

valori e quali sentimenti debbano essere dolorosamente sacrificati per fondarla.

Anche per Didone è interessante procedere con una lettura comparata del mito: anche questa

vicenda, infatti, come quello di Orfeo, e forse ancor di più, è immortale e ha goduto di diverse

riletture. Ancora una volta si potrebbe porre a confronto la Didone virgiliana con quella di Ovidio,

sottolineandone le differenze. Ovidio ad esempio, insiste sulla dimensione esclusivamente privata

del personaggio: nelle Heroides, raccolta di lettere d’amore in distici elegiaci scritte da eroine ai

loro amanti, la VII epistola è quella di Didone per Enea. In questo brano Didone prospetta

pateticamente all’uomo che parte la possibilità di avere in grembo un figlio suo che morirebbe con

lei decisa a morire, la donna elegiaca non odia l’uomo che la abbandona, non vuole la sua morte

ma continua a preoccuparsi per lui. Ovidio ha umanizzato il mito, non pare interessato alla

dimensione tragica quanto all’aspetto più intimo di questo amore. E’ questa la massima distanza tra

le due eroine: la Didone ovidiana non è regina ma una donna supplice, pronta a sottomettersi –

secondo il codice elegiaco – al servitium amoris, disposta anche a seguirlo per mare solo come

hospes (hospita dicar, dum tua sit Dido quidlibet esse feret, Her. 7, 170).

7° lezione: 1 ora

Anche per Didone ho pensato valesse la pena impostare un discorso interdisciplinare, dato che la

tragica storia d’amore della regina cartaginese ha preso vita attraverso le note di molti compositori,

dalla Dido furens del romano Domenico Mazzocchi (1592-1665), che con successioni armoniche

sorprendenti e con l’impiego di tonalità poco o affatto usate sino ad allora, fa vivere nella

protagonista ogni contrastante segno del dramma che sta vivendo (preghiera, dolore, indignazione),

alla Dido and Enea dell’inglese Purcell e al più celebre melodramma Didone abbandonata di

Metastasio, vera stella dell’opera italiana nella Vienna del Settecento.

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Tra le tante opere che hanno cantato Didone (la Didone di Cavalli su libretto di Busenello del 1641,

la Dido and Aeneas di Purcell su libretto di Tate del 1689, la Didone abbandonata di Piccinni su

libretto di Metastasio del 1770, la Didone abbandonata di Mercadante su libretto di Metastasio del

1823), ho deciso di concentrarmi sul libretto di Metastasio, che fa della passione il perno della

vicenda.

Nei drammi metastasiani, infatti, la passione amorosa risalta come tematica centrale, la dinamica

fondamentale per l’evolversi dell’azione drammatica. L’espediente più utilizzato nei suoi drammi

per musica (drammi eroici-sentimentali, in cui il protagonista è esitante tra il suo ruolo di eroe e la

sua passione di uomo) è il contrasto tra il prorompere irrefrenabile e imprevedibile del sentimento e

la necessità di sacrificarlo al dovere imposto dal proprio ruolo, dunque un dissidio tra la spinta della

passione e il rigore del dovere. Il nodo drammaturgico può avere tre diverse modalità di

scioglimento: la rinuncia all’amore per fedeltà al proprio dovere, il tradimento del proprio dovere

per amore, la non-scelta realizzata attraverso il silenzio (il suicidio).

Nella Didone il dissidio tra passione e dovere è evidente: esso è motore scatenante del precipitare

degli eventi. La regina cartaginese, proprio come nel poema virgiliano, rinuncia al proprio ruolo a

causa della passione amorosa, non potendo più garantire un equilibrato governo al suo popolo; è

una donna che afferma il proprio diritto ad amare chi vuole, al di là dei giuramenti e degli obblighi.

Il tentativo da parte di Didone di conciliare il dissidio tra amore e dovere appare evidente nella

prima aria che Metastasio le fa cantare:

Son regina e sono amante;e l’impero io sola vogliodel mio soglio e del mio cor.Darmi legge invan pretendechi l’arbitrio a me contendedella gloria e dell’amor

Didone rivendica il diritto alla libertà, ma non potrà schierarsi da nessuna delle due parti: il suo

essere regina (il dovere) non le interessa più, d’altra parte l’amore richiede una corrispondenza che

Enea non vuole (non può) concedere. Anche l’eroe troiano è posto di fronte allo stesso dilemma,

diviso anch’egli tra amore e dovere e, anzi, è proprio una sua aria a mettere in risalto la difficoltà di

essere “eroi”, ruolo che, per Metastasio come già per Virgilio, impone di aderire alla missione che

gli dei gli hanno affidato:

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Fra il dovere e l’affettoAncor dubbioso in petto ondeggia il core.Purtroppo il mio valoreAll’impero servì d’un bel sembiante.Ah una volta l’eroe vinca l’amante

Didone non ha scelta: l’unica soluzione le pare il suicidio, vinta dalle conseguenze del suo

comportamento e definitivamente annientata dalla scoperta di essere stata tradita non solo da Enea

ma anche da Osmida, suo confidente e dalla sorella Selene (Anna nel testo virgiliano; il nome è

cambiato in Selene essenzialmente per ragioni metriche e foniche), “amante occulta” di Enea,

anch’ella divisa tra una passione irrazionale e il dovere.

Didone non ha quindi scampo, deve morire, l’inconciliabilità tra amore e passione si risolve in un

nulla, in una schiacciante impossibilità di scegliere. Didone, dunque, rappresenta una vera e propria

eccezione alla “regola” metastasiana che altrove consente ai suoi personaggi, dopo i tre atti in cui si

svolge il dissidio interiore, il sollievo di un lieto fine, sia esso dovuto alle loro scelte o piuttosto a un

deus ex machina. Il luttuoso finale della Didone abbandonata rappresenta dunque un caso a sé, che

conferma, però, la poetica metastasiana: chi vuole essere grande, sembra dire Metastasio, deve

sapersi sacrificare, deve saper mettere da parte i suoi egoismi e le sue passioni, per quanto oneste e

sincere, come ha fatto l’eroe Enea. Chi non riesce ad adeguarsi a questo imperativo, come Didone,

muore.

Dopo aver spiegato, sinteticamente, questi principi della Didone di Metastasio, si può concludere

facendo ascoltare in classe dall’opera l’aria di Didone “Son regina e son amante”, della durata di

6’30’’, a cui si è fatto cenno. In questa aria emerge chiaramente tutta la grandezza di questa eroina:

altera e fragile allo stesso tempo, che reclama la libertà di poter amare, pur sapendo che i Fati glielo

negano.

8° lezione: 2 ore

Queste due ore sono dedicate alla verifica sommativa, una prova semistrutturata, volta a

verificare:

la capacità di traduzione

la comprensione del testo, a livello linguistico e stilistico

la conoscenza teorica e pratica della morfosintassi latina

la capacità di collocare un testo nella produzione dell’autore

la conoscenza delle tematiche dell’autore

A tale scopo, agli studenti sono sottoposti:

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due brevi estratti da testi affrontati durante le lezioni da tradurre senza l’ausilio del

dizionario

quesiti di grammatica relativi ai versi tradotti, per verificare l’effettiva comprensione e non

uno studio meramente mnemonico e quindi poco significativo

quesiti di carattere stilistico-retorico

quesiti di carattere contenutistico

Per trasparenza, vicino ad ogni domanda è stato indicato il relativo punteggio, in modo che gli

studenti possano rendersi conto del livello minimo per la sufficienza. I punti sono stati distribuiti in

modo graduale, a seconda della difficoltà dei quesiti, per arrivare ad un totale di 40 punti da

convertire in decimi, su una scala da 1 a 10.

La verifica è stata pensata in modo da non tralasciare nessun argomento affrontato nell’ UD. Ho

deciso di dare maggior peso alle competenze linguistiche (5 punti per ogni passo tradotto

correttamente e 2 punti per le domande di carattere grammaticale), meno all’aspetto stilistico (un

solo punto per ogni domanda). Per quanto riguarda la valutazione della traduzione (che gli studenti

devono affrontare senza vocabolario, dal momento che questi brani sono stati puntualmente tradotti

ed analizzati in classe), ho sottratto 1 punto per gli errori di sintassi della frase e del periodo, 0,5

punti per gli errori morfologici e per le omissioni di una parola, 0,25 per imprecisioni lessicali o dei

tempi verbali.

Rilevante è stato il peso attribuito alle domande che richiedono una risposta aperta di commento

generale, dal momento che questa verifica è stata concepita come una interrogazione orale di autori

e letteratura.

Mentre predisponevo la verifica ho riflettuto a lungo se fosse opportuno inserire una domanda

anche sull’interpretazione musicale del mito di Orfeo o di Didone, affrontati in classe. Il mio timore

era quello di mettere in difficoltà gli studenti, poco avvezzi a maneggiare un vocabolario specifico e

a confronti interdisciplinari. In conclusione ho optato per un compromesso, ho cioè inserito una

domanda abbastanza generica, che lasciasse ampia libertà di scelta agli studenti, in modo che non si

sentissero troppo vincolati nella loro risposta.

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VERIFICA

1) A quale genere letterario appartengono le Georgiche? Quale è il modello più prossimo, in

ambito latino, con cui Virgilio istituisce una sorta di dialogo a distanza? Quali sono i punti

di contatto e le divergenze rispetto a questo modello ? punti 4

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2) Quale è la concezione virgiliana dell’amore quale emerge dal brano del III libro delle

Georgiche amor omnibus idem da noi analizzato? Fai riferimenti concreti al testo e traccia un

confronto con la visione lucreziana dell’amore. punti 6

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3) Questi versi sono tratti dal IV libro delle Georgiche:

511 qualis populea maerens philomela sub umbra

amissos queritur fetus, quos durus arator

observans nido inplumis detraxit; at illa

flet noctem ramosque sedens miserabile carmen

515 integrat et maestis late loca quaestibus implet.

traduci il brano punti 5

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4) qualis populea è una similitudine: chi viene paragonato all’usignolo? Perché il carmen è

definito miserabile? punti 2

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5) Spiega, in modo sintetico, la struttura e il contenuto del Libro IV delle Georgiche e il suo

significato morale-didascalico punti 4

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6) In classe abbiamo proposto una lettura musicale del mito di Orfeo: ogni compositore, a

seconda del periodo storico, ha dato una propria interpretazione del cantore, evidenziandone una

particolare valenza simbolica. Confronta la versione proposta da Monteverdi con quella di

Offenbach, oppure concentrati sulla canzone di Roberto Vecchioni, mettendo in evidenza le

analogie e le differenze rispetto al mito virgiliano e il significato simbolico di cui la vicenda

viene caricata punti 5

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7) Questi versi sono tratti dal IV Libro dell’Eneide:

625 Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor,

qui face Dardanios ferroque sequare colonos,

nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.

Litora litoribus contraria, fluctibus undas

imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque.

traduci il passo punti 5

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8) vires (v. 627): quale è il suo nominativo singolare? punti 1

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9) qui face Dardanios ferroque sequare colonos (v. 626) che tipo di proposizione è? punti 2

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10) quale figura retorica riconosci in nostris ex ossibus (v. 625)? punti 1

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11) litora litoribus contraria, fluctibus undas (v. 628): quali figure retoriche individui? punti 2

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12) Chi è l’ultor che compare nel v. 625? Che significato assume questo riferimento all’interno

della vicenda amorosa? punti 3

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FATTIBILITA’

Progettare un percorso interdisciplinare è sicuramente cosa complessa: bisogna associare

competenze diverse e padroneggiare codici espressivi differenti. Ovviamente è necessario che

l’insegnante di lettere, che decide di integrare i contenuti di italiano o latino con altre discipline,

quali la musica, sia competente anche in questo settore, dal momento che in un Liceo classico o

scientifico questa non è materia di studio, quindi non è possibile chiedere la cooperazione di

colleghi.

Molte sono le difficoltà anche a livello organizzativo: l’insegnante, che già è in continua lotta con il

tempo, spesso in ritardo rispetto alla tabella di marcia della programmazione di inizio anno, deve

calibrare bene gli spazi dedicati ad aspetti “extra”, deve tener sempre presente che la priorità del

proprio intervento didattico resta sempre e comunque di carattere letterario. E’ inoltre richiesta una

buona dose di improvvisazione, nel senso che spesso sarà necessario cambiare rotta strada facendo

a seconda della reazione degli studenti: solo sul campo si potrà capire quali accorgimenti adottare

via via, quali aspetti approfondire ulteriormente e quali invece tralasciare.

Non mancano poi difficoltà più concrete: muovendosi al di fuori della programmazione scolastica

tradizionale, l’insegnante deve fornire alla classe tutti gli strumenti necessari per seguire

l’argomento, quindi deve preparare dispense, distribuire fotocopie, e adoperare, se è il caso,

l’attrezzatura audio e video, se presente nella scuola, o il proprio PC portatile.

L’importante è non perdere di vista la finalità di un lavoro simile: l’insegnante non deve fare

sfoggio di erudizione, al contrario dovrà cercare di dare alla classe l’impressione che i diversi codici

espressivi siano complementari, quasi come se uno (la poesia) trovasse il suo pieno completamento

nell’altro (la musica). Per ottenere ciò bisogna cercare di essere il meno teorici possibile, rinunciare

talvolta ad una terminologia specifica, perché la musica, come d’altra parte la poesia, va sentita, in

senso letterale prima ancora che metaforico. La parola è già musica: ha una sonorità e un ritmo

capace di penetrare nell’orecchio e risuonare nell’anima. Gli studenti, oggi, spesso non sanno

cogliere questi aspetti (di qui, a parer mio, la difficoltà a leggere in metrica), perché il loro orecchio

è oggi abituato a sonorità diverse, con ritmi martellanti e sonorità assordanti. La poesia invece va

ascoltata in silenzio, perché solo dal silenzio può nascere la musica. La cosa più difficile di un

intervento didattico di questo tipo penso che sia proprio questa: creare un ambiente di lavoro

idoneo, capace di ascoltare, in cui la parola possa diventare musica. Per questo motivo ritengo che

una tale UD sia proponibile solo in contesti scolastici medio-alti, dove gli allievi mostrino ancora la

curiosità di imparare qualcosa di nuovo.