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«EIKASMOS» XVI (2005) Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902) «Quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esami- nate e rimenate a una a una piglian posto nella mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace» (G. Leopardi, Epistolario, a c. di P. Viani, Firen- ze 1883, I 28). Manca, a tutt’oggi, uno studio complessivo e organico sulla presenza e la rice- zione di Lucrezio nella cultura italiana dell’Ottocento. Questa oggettiva lacuna nella bibliografia sul Fortleben lucreziano 1 appare tanto più sorprendente perché inversa- mente proporzionale al rinnovato clima di interesse che nel secolo XIX ha circon- dato il poeta latino 2 . Ancora istruttivo a questo riguardo è il giudizio espresso da Mario Saccenti in un contributo di qualche anno fa: «Lucrezio invero, con tutto ciò che il suo poema significava […] tra razionalismo e sensismo, tra materialismo e meccanicismo e determinismo biologico, conosceva, nell’ultimo trentennio dell’Ot- tocento, la sua più fortunata stagione dopo quella galileiano-gassendiana del Seicen- to: la alimentavano, ora separati ora commisti, un positivismo che incorporava con qualche equivoco e qualche ingenuità concetti evoluzionistico-darwiniani, un socia- 1 Tra i contributi che ripercorrono a grandi linee la fortuna del testo lucreziano, focalizzandone alcuni snodi chiave, si possono ricordare G.D. Hadzsits, Lucretius and His Influence, London- Calcutta-Sidney 1935 (invecchiato ma ancora utile); W. Schmid, Lukrez und der Wandel seines Bildes, «A&A» II (1946) 193-219; L. Alfonsi, L’avventura di Lucrezio nel mondo antico … e oltre, «Entr. Hardt» XXIV (1978) 271-321; V.E. Alfieri, Lucrezio tra l’antico e il moderno, «A&R» n.s. XXIX (1984) 113-128; P. Boyancé, La gloria di Lucrezio, in Lucrezio e l’epicureismo, trad. it. Brescia 1985 2 (ed. or. Paris 1963), 323-333; M. von Albrecht, Lucrezio nella cultura europea, «Paideia» LVIII (2003) 264-286; H. Jones, La tradizione epicurea. Atomismo e mate- rialismo dall’Antichità all’Età Moderna, trad. it. Genova 1999 (ed. or. London-New York 1992), su Epicuro, ma con numerosi rinvii anche al De rerum natura; di un certo interesse sono i contributi apparsi nella miscellanea Présence de Lucrèce. «Actes du colloque tenu à Tours (3-5 décember 1998)», textes réun. et prés. par R. Poignault, Tours 1999, passim, e per l’età contem- poranea, sebbene si rivolga ad un pubblico di non specialisti, anche W.R. Johnson, Lucretius and the Modern World, London 2000. 2 A un discorso analogo si presta, per la verità, anche il Settecento: Alfonsi, o.c. 271 lamentava infatti che, a fronte dell’attenzione riservata alla ricezione di Lucrezio presso il neoatomismo seicentesco, molto lavoro restasse ancora da fare per quella delicata età di passaggio tra Illuminismo e Preromanticismo che costituisce «un capitolo di solito trascurato dai latinisti, quanto vivace- mente sviluppato da italianisti e storici della cultura e del pensiero».

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«EIKASMOS» XVI (2005)

Traduttori italiani di Lucrezio (1800-1902)

«Quando ho letto qualche Classico, la mia mentetumultua e si confonde. Allora prendo a tradurreil meglio, e quelle bellezze per necessità esami-nate e rimenate a una a una piglian posto nellamia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace»(G. Leopardi, Epistolario, a c. di P. Viani, Firen-ze 1883, I 28).

Manca, a tutt’oggi, uno studio complessivo e organico sulla presenza e la rice-zione di Lucrezio nella cultura italiana dell’Ottocento. Questa oggettiva lacuna nellabibliografia sul Fortleben lucreziano1 appare tanto più sorprendente perché inversa-mente proporzionale al rinnovato clima di interesse che nel secolo XIX ha circon-dato il poeta latino2. Ancora istruttivo a questo riguardo è il giudizio espresso daMario Saccenti in un contributo di qualche anno fa: «Lucrezio invero, con tutto ciòche il suo poema significava […] tra razionalismo e sensismo, tra materialismo emeccanicismo e determinismo biologico, conosceva, nell’ultimo trentennio dell’Ot-tocento, la sua più fortunata stagione dopo quella galileiano-gassendiana del Seicen-to: la alimentavano, ora separati ora commisti, un positivismo che incorporava conqualche equivoco e qualche ingenuità concetti evoluzionistico-darwiniani, un socia-

1 Tra i contributi che ripercorrono a grandi linee la fortuna del testo lucreziano, focalizzandonealcuni snodi chiave, si possono ricordare G.D. Hadzsits, Lucretius and His Influence, London-Calcutta-Sidney 1935 (invecchiato ma ancora utile); W. Schmid, Lukrez und der Wandel seinesBildes, «A&A» II (1946) 193-219; L. Alfonsi, L’avventura di Lucrezio nel mondo antico … eoltre, «Entr. Hardt» XXIV (1978) 271-321; V.E. Alfieri, Lucrezio tra l’antico e il moderno,«A&R» n.s. XXIX (1984) 113-128; P. Boyancé, La gloria di Lucrezio, in Lucrezio e l’epicureismo,trad. it. Brescia 19852 (ed. or. Paris 1963), 323-333; M. von Albrecht, Lucrezio nella culturaeuropea, «Paideia» LVIII (2003) 264-286; H. Jones, La tradizione epicurea. Atomismo e mate-rialismo dall’Antichità all’Età Moderna, trad. it. Genova 1999 (ed. or. London-New York 1992),su Epicuro, ma con numerosi rinvii anche al De rerum natura; di un certo interesse sono icontributi apparsi nella miscellanea Présence de Lucrèce. «Actes du colloque tenu à Tours (3-5décember 1998)», textes réun. et prés. par R. Poignault, Tours 1999, passim, e per l’età contem-poranea, sebbene si rivolga ad un pubblico di non specialisti, anche W.R. Johnson, Lucretius andthe Modern World, London 2000.

2 A un discorso analogo si presta, per la verità, anche il Settecento: Alfonsi, o.c. 271lamentava infatti che, a fronte dell’attenzione riservata alla ricezione di Lucrezio presso il neoatomismoseicentesco, molto lavoro restasse ancora da fare per quella delicata età di passaggio tra Illuminismoe Preromanticismo che costituisce «un capitolo di solito trascurato dai latinisti, quanto vivace-mente sviluppato da italianisti e storici della cultura e del pensiero».

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lismo in espansione che pareva derivare dal mondo letterario atteggiamenti e accentiscapigliati, un anticlericalismo rinfocolatosi e allargatosi con e dopo Porta Pia finoa identificarsi con larga parte dell’Italia ufficiale»3. Come si vede, non risulta age-vole ricondurre a unità i diversi fattori – politici, sociali, filosofici, letterari – chenell’arco di un secolo concorsero a riabilitare, in Italia, il nome dell’insanus poetaepicureo, creando le premesse per l’avvento di quella che ancora il Saccenti nonesita a definire la «vera e propria congiuntura lucreziana» ottocentesca. Un fatto ècerto. Chi intendesse tracciare un ampio affresco della fortuna italiana di Lucrezionell’Ottocento – sull’esempio di quanto ha fatto Sebastiano Timpanaro per Lucano4

– dovrebbe esaminare la questione almeno sotto tre differenti angolature: la filologia,la filosofia, la letteratura5. È stato già osservato che lo sviluppo, in Italia, di unacritica testuale e di un’esegesi del testo lucreziano fondate su base scientifica èintimamente collegato al più generale risveglio della filologia classica che si attuanel nostro Paese nell’ultimo trentennio del secolo6: questo perché, a partire dal 1860,comincia ad essere recepito e messo a frutto il fondamentale lavoro ecdotico edesegetico condotto sul De rerum natura in Germania e in Inghilterra tra gli anniVenti e la fine dell’Ottocento, lavoro concretizzatosi in una serie di edizioni criticheche sono rimaste, per ragioni diverse, esemplari, dal Lachmann (Berlin 1850) alBrieger (Leipzig 1894), passando per il Bernays (Leipzig 1852) e il Munro (l’Editiomaior in tre volumi è del 1886). Tale eredità fu raccolta in Italia da Camillo Giussani:tra il 1896 e il 1898, a Torino, veniva alla luce la sua edizione riccamente commen-tata del De rerum natura7. Un vero «classico» degli studi lucreziani, per usare leparole del Timpanaro8, che si rivela a tutt’oggi strumento prezioso, se non sotto il

3 M. Saccenti, Leopardi e Lucrezio, in Leopardi e il mondo antico. «Atti del V ConvegnoInternazionale di studi leopardiani (Recanati 22-25 settembre 1980)», Firenze 1982, 120 (= M.S.,Occasioni tra l’antico e il moderno, Modena 1989, 32s.). Sulla stessa linea si situa anche ilseguente pensiero di Piero Treves: «anti-spiritualismo e anti-cristianesimo, […] le scoperte deipapiri ercolanesi di Filodemo o della scuola epicurea, l’esempio straniero del Guyau, tutto parvefelicemente cospirare a re-immettere il poema di Lucrezio nell’universa cultura nostra» (L’ideadi Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli 1962, XXXVIII).

4 Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento, in Aspetti e figure della culturaottocentesca, Pisa 1980, 1-80.

5 Accenni sparsi alla rinascita lucreziana del secolo scorso si trovano in Treves, o.c. passim,nonché Id., Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962 e Tradizioneclassica e rinnovamento della storiografia, Milano-Napoli 1992.

6 In proposito mi limito a rinviare a E. Degani, Italia. La filologia greca nel secolo XX, inFilologia e storia. «Scritti di Enzo Degani», Hildesheim 2004, 1046-1120, con bibliografia.

7 Nella Prefazione che apre il primo volume degli Studi lucreziani, lo studioso, dopo averericordato le principali tappe della fortuna critica di Lucrezio nell’Ottocento, dichiara di volere«informare i lettori italiani del movimento moderno degli studi lucreziani, assai poco noti ingenerale» (VI).

8 S. Timpanaro, Il primo cinquantennio della «Rivista di Filologia e d’Istruzione Classica»,«RFIC» s. 3 C (1972) 435 e n. 1, dove si ravvisa nello «splendido commento» lucreziano del

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profilo della constitutio textus, certamente per la dottrina e l’acume dispiegatinell’esegesi delle questioni filosofiche. Quanto poi agli altri due aspetti della rina-scita di Lucrezio nell’Ottocento – la letteratura e la filosofia – va detto che entrambidischiudono prospettive di studio tanto attraenti quanto problematiche. Il primochiama in causa la vexata quaestio delle possibili interferenze che la lettura delpoema lucreziano – diretta o mediata – potè suscitare nelle due massime personalitàpoetiche del nostro primo Ottocento: Foscolo, che di Lucrezio fu anche traduttore,in prosa e in versi (vd. infra pp. 428s.), e Leopardi, la cui effettiva frequentazionecon il testo lucreziano, viceversa, è ancora oggetto di discordanti valutazioni9; ilsecondo versante, in verità assai meno indagato, riguarda l’accoglienza riservata alDe rerum natura in àmbito positivistico, quando la personalità e l’opera di Lucreziodivennero oggetto di ammirazione e autentico culto fra quanti – filosofi, criticimilitanti, letterati – si professavano seguaci della dottrina darwiniana10: fra i primicertamente Gaetano Trezza, il «prete darwinista» secondo la definizione di Papini11,e il poeta Mario Rapisardi, traduttore integrale di Lucrezio, sul quale avremo mododi tornare più avanti. Di questa rinascita lucreziana ottocentesca intenderei illustrareuna facies decisamente meno nota, ma non per questo meno istruttiva: quella delletraduzioni. A ben vedere, i volgarizzamenti del De rerum natura rappresentano, senon il più significativo, certamente uno dei più pronunciati elementi di novità e di

Giussani «il più diretto precedente» dei lavori del Bignone sulla filosofia epicurea: l’Epicurolaterziano del 1920 e l’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro del 1936.

9 Per un quadro d’insieme sulle traduzioni foscoliane di Lucrezio si veda U. Foscolo, Let-ture di Lucrezio. Dal De rerum natura al sonetto Alla sera, a c. di F. Longoni, Milano 1990. Peril vivace dibattito innescato dalla recente pubblicazione del frammento poetico foscoliano certa-mente ispirato all’inno a Venere di Lucrezio, si vedano anche V. Di Benedetto, Lo scrittoio diUgo Foscolo, Torino 1990, 193-197 (editio princeps con commento); M. Gigante, Foscolo eLucrezio: un nuovo testo, «A&R» n.s. XXXV (1990) 112-114; F. Giancotti, Venere e Voluttà: unabbozzo poetico di Ugo Foscolo e Lucrezio, in AA.VV., «Studi classici e cristiani offerti a F.Corsaro», Catania 1994, 293-317. Sul tema Lucrezio e Leopardi segnaliamo da ultimo P. Mazzocchini,Lucrezio in Leopardi: ulteriori note ed osservazioni, «Orpheus» n.s. XXIV (2003) 148-184, conampia bibliografia.

10 È il caso di accennare al fatto che il fervore mostrato dal Positivismo verso il poeta dellaratio epicurea non fu esente da grossolani fraintendimenti di natura metodologica, con il risultatodi «elevare un concetto scientifico moderno a criterio d’interpretazione storica e [...] rifletterloparadossalmente a ritroso su un passato pre-scientifico» (P. Casini, Zoogonia e “trasformismo”nella fisica epicurea, «GCFI» s. 3 XVII [1963] 179). Il passo lucreziano che più si prestava aragionamenti di questa natura è senza dubbio V 855-877, dove il Bailey stesso rileva «an evengreater affinity to the Darwinian idea of the survival of the fittest» (Titi Lucreti Cari De rerumnatura libri sex. Ed. with proleg., crit. app., transl. and comm. by C. B., Oxford 1947, 1465).Sulle connessioni, reali e presunte, fra la trattazione lucreziana dell’origine della specie e l’evo-luzionismo darwiniano si sofferma ora G. Campbell nell’Introduction del suo recente commentoa una sezione del V libro lucreziano (Lucretius on Creation and Evolution. A Commentary on Dererum natura 5, 772-1104, Oxford 2003, in part. 4ss.).

11 Autoritratti e ritratti, Milano 1962, 743-745.

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originalità della parabola di Lucrezio nell’Ottocento italiano: il regesto delle versio-ni lucreziane apparse nel XIX sec. si impone all’attenzione per consistenza numericae varietà tipologiche, tanto da costituire un unicum nella vicenda italiana del poema.Non meno di ventidue traduzioni (fra integrali e parziali, in prosa e in versi) furonocondotte sul De rerum natura lungo tutto l’arco del secolo: un computo che decisa-mente va oltre le «four italian translations in verse and two in prose» cui è rimastaferma la bibliografia lucreziana del Gordon (la cui stima riguarda, per la verità, solol’ultimo quarto del secolo)12, ma che pure ha ricevuto sinora scarsa considerazione.Il problema, per la verità, è di portata più generale. Va detto, infatti, che lo studiodelle traduzioni e degli interpreti, antichi e moderni, del De rerum natura ha riscossosinora un interesse assai tiepido fra gli studiosi di Lucrezio (non senza qualcheeccezione)13, all’opposto di quanto è accaduto per altri autori latini quali, ad esem-pio, Catullo, Virgilio, Orazio14. Chi voglia dunque farsi un’idea sull’iter complessi-vo delle traduzioni (italiane e non) di Lucrezio deve ancora ricorrere ad un contri-buto di Ferdinando Gabotto del 1918, il quale, malgrado l’apprezzabile originalitàdell’impianto, non ha avuto séguito nella letteratura lucreziana del Novecento15.Sarà utile fare un passo indietro, per esaminare le traduzioni lucreziane sino al 1800.

12 Sono complessivamente undici (cinque in prosa, sei in poesia) le traduzioni italianeintegrali sino al 1956 segnalate da C.A. Gordon, A Bibliography of Lucretius. Introd. and notesby E.J. Kenney, Winchester 19852, a fronte delle 17 in lingua francese, 19 inglesi, 5 tedesche, 3russe, 5 spagnole (148).

13 A parte il volume di Saccenti sulla traduzione del Marchetti (per cui vd. infra n. 27) ealcuni interventi puntuali su quella del Rapisardi (su cui vd. infra pp. 436-438), fra i non nume-rosi lavori di argomento lucreziano si possono menzionare A. Barbuto, Ungaretti traduce Lucrezio,in «Atti del Convegno Internazionale su Giuseppe Ungaretti (Urbino 3-6 ottobre 1979)», a c. diC. Bo-M. Petrucciani-M. Bruscia-M.C. Angelini-E. Cardone-D. Rossi, Urbino 1981, 639-653;J. Vons, Du Bellay, traducteur-interprète de Lucrèce, in Présence de Lucrèce cit. 313-326 (sullaversione cinquecentesca di Du Bellay), nonché F. Condello, Lucrezio, Catullo, Orazio e Sanguineti:esercizi di pseudotraslazione, in corso di stampa per «il Verri». Deludente, perché relativo ad unatraduzione di concorso ministeriale, è G. Biasuz, Una traduzione da Lucrezio di Giacomo Zanella,in «Medioevo e Rinascimento veneto, con altri studi in onore di Lino Lazzarini», II. Dal Cinque-cento al Novecento, Padova 1979, 393-408.

14 Tra i lavori più recenti, apparsi in veste ora di rassegne sistematiche ora di sondaggi espigolature, mi limito a ricordare, a titolo di esempio, per Catullo, F.M. Pontani, Un secolo ditraduzioni da Catullo, «RCCM» XIX (1977) 625-644; per Virgilio, oltre a N. Zorzetti, Traduzio-ni, in Enciclopedia Virgiliana V (1990) 244s., vd. A. Traina, La traduzione e il tempo. Treversioni del proemio dell’Eneide (1-7), in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, III,Bologna 1989, 115-131; per Orazio, oltre a R. Rocca, Traduzioni, in Enciclopedia Oraziana I(1996) 367-369, si veda A. Traina, Traduzioni di Orazio, in AA.VV., «Atti dei Convegni diVenosa, Napoli, Roma (novembre 1993)», Venosa 1994, 329-337 e Id., Paolo Bufalini traduttoredi Orazio, in Poeti latini (e neolatini). Note e saggi filologici, V, Bologna 1998, 211-218.

15 Il testo apparve come Prefazione a Tito Lucrezio Caro. Della natura delle cose, trad. diC. Leardi, Tortona 1918, V-XXVI (delle traduzioni italiane si parla da p. XX). Prima del contri-buto del Gabotto, sui traduttori lucreziani si era rapidamente soffermato Amilcare Mazzarella nel

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In Italia, analogamente al resto dell’Europa, si comincia piuttosto tardi a tradurre Lucrezio16,se consideriamo che sin dal 1417, secondo la communis opinio, il poema riappare nei circuitinella cultura europea, grazie alla celebre scoperta di un codice lucreziano ad opera di PoggioBracciolini. Né si può dire che, a questo vistoso ritardo sul fronte delle traduzioni, vengaposto rimedio tra Umanesimo e Rinascimento, epoche in cui pure il De rerum natura èoggetto di un crescente interesse erudito e filologico: prova ne sono le 28 edizioni lucreziane(commentate e non) apparse in poco più di un secolo a partire dalla princeps del 1473(Brescia, a cura di Tommaso Ferrando17). Si può ben dire che Lucrezio viene letto, studiatoe annotato, ma nella misura in cui può esserlo un autore che non rientra nel canone scolasticodegli scriptores classici18. Vero è, d’altra parte, che tra i secoli XVI e XVIII appaiono alcuneriscritture cristianizzanti del poema, vale a dire poemi didattici redatti in perfetto stile lucrezianoe volti a confutare la falsa dottrina di Epicuro: dal De principiis rerum di Scipione Capece(Capicius) edito a Napoli nel 1534 con dedica ad Alessandro Farnese, al De animorumimmortalitate di Aonio Paleario (Lugduni 1536), antenati italiani del più celebre e fortunatoAnti-Lucretius del Cardinale Melchior de Polignac, edito a Parigi nel 1747 (ma compostoquasi interamente prima del 1700)19. Tuttavia, altro sono i liberi rifacimenti20, altro le tradu-zioni vere e proprie: e di queste, fedeli o libere che siano, se ne trovano ben poche21.

suo studio su Lucrezio del 1846 (vd. infra p. 433), il quale, tuttavia, non aveva potuto citare chetre soli esempi italiani: il Marchetti, il Pastore e, per l’Ottocento, il Renieri (sui quali vd. infrarispettivamente pp. 425 e 433). Più ampia, benché ancora incompleta, è la panoramica sui tradut-tori prodotta da L. Cisorio in un breve articolo in cui si commenta un saggio di versione delFerracini (Per un saggio di versione del poema di Tito Lucrezio Caro, Cremona 1901, estr. da«Il Torrazzo» XXIII [1901] 22ss.; per il Ferracini, vd. infra p. 440): fra i traduttori di Lucreziopresi in esame – in ordine cronologico il Marchetti, il Vanzolini, il Tolomei, il Sartori, il Rapisardi– è a quest’ultimo che il Cisorio riserva l’elogio più convinto, il quale consuona col giudizio giàformulato qualche anno prima dal Trezza (vd. infra p. 438).

16 Come è giustamente rilevato da Gordon, o.c. 147: «translations of the De rerum natura werelate in appearing and comparatively fewer then those of other classical authors of equal standing».

17 Cf. W.B. Fleischmann, Lucretius, in P.O. Kristeller-F.E. Cranz, Catalogus translationumet commentariorum. Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries, II,Washington 1971, 349-365.

18 Sull’ambivalente destino del poema nel Cinquecento italiano si veda ora V. Prosperi, Disoavi licor gli orli del vaso. La fortuna di Lucrezio dall’Umanesimo alla Controriforma, Torino2004 (in part. il capitolo Venere, la Vergine e la voluttà, 97-179), la quale osserva come leesplicite prese di distanza dall’«empio» poeta latino da parte di intellettuali, critici letterari,poeti, filologi e stampatori che costellano l’intero secolo – e di cui la studiosa offre qualcheesempio – attestano la discreta diffusione e conoscenza di cui il De rerum natura godeva se nonaltro presso un pubblico dotto e selezionato di addetti ai lavori.

19 Vd. Fleischmann, o.c. 355 (con bibliografia) e Gordon, o.c. (Appendix II. The Imitatorsof Lucretius, 293-307). Dell’Anti-Lucretius Francesco Maria Ricci eseguì una traduzione italiana,apparsa in due volumi a Verona nel 1751 e riprodotta in una ristampa della traduzione marchettiana(Lausanne 1761).

20 Per quanto concerne i rifacimenti, basterà ricordare il filone di poesia scientifica di ispi-razione lucreziana fiorito in Inghilterra tra Sette e Ottocento (su cui vd. T.J.B. Spencer, Lucretiusand the Scientific Poem in English, in Lucretius, ed. by D.R. Dudley, London 1965, 131-164).

21 A proposito della indisponibilità di una traduzione in volgare del De rerum natura nel

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Secondo la bibliografia lucreziana del Gordon, la prima traduzione italiana del poemasarebbe quella di Gianfranco Muscettola o Musettola (1530 ca.), di cui si sono tuttavia persele tracce. Diversa testimonianza ci offre, sulla scorta del Quadrio22, la Storia della lettera-tura italiana del Tiraboschi (VII/3, Milano 1824, 1790), stando al quale sarebbe Tito Gio-vanni da Scandiano, morto nel 1582, il primo ad avere volgarizzato il De rerum natura.Nella lettera dedicatoria a Pietro Giovanni Ancarani premessa alla Fenice, poemetto interzine edito a Venezia nel 1555, il letterato scandianese lasciò scritto di avere «tradotto,ampliato e commentato» Lucrezio. Tuttavia, nemmeno di questo lavoro di esegesi e tradu-zione compiuto sul poema si hanno ulteriori notizie23. Si può poi ricordare il rodiginoGirolamo Frachetta, menzionato nella Bibliotheca del Fabricius come autore di una versioprosaica del poema lucreziano (I 84): il lavoro del Frachetta, stampato a Venezia nel 1589,consiste, per la verità, in una «Breve sposizione di tutta l’opera di Lucrezio, nella quale sidisamina la dottrina di Epicuro e si mostra in che sia conforme al vero e con gl’insegnamentidi Aristotile, e in che differente»24.

È noto che i secoli dal XVII al XVIII assistono alla rapida ascesa della stella lucreziana:il neoatomismo gassendiano, che tenta di conciliare il materialismo epicureo con ilprovvidenzialismo cristiano (del 1647 è lo scritto apologetico del Gassendi De vita et moribusEpicuri), e la scuola galileiana di Pisa per quanto attiene specificamente all’Italia tornanoa leggere il divulgatore latino di Epicuro, fonte principale, insieme a Diogene Laerzio, delladottrina fisica del Giardino. Non stupisce, dunque, che le traduzioni di Lucrezio conoscanoun veloce incremento e si infittiscano in tutte, o quasi, le lingue nazionali. Tra il Seicentoe il Settecento, in Francia compaiono non meno di tredici traduzioni lucreziane, tra integralie parziali, altrettante in Inghilterra, almeno quattro in Germania. E l’Italia? Rispetto allealtre nazioni europee, il nostro Paese continua a mostrarsi più refrattario ad accogliere ilmessaggio ideologicamente imbarazzante di Lucrezio, pregiudizialmente sentito come unalter Epicurus25: il numero esiguo delle traduzioni lo attesta in maniera eloquente. Nulla dirilevante offre il Cinquecento, né tantomeno il Seicento, quando pure Inghilterra e Franciavedono comparire la prima versione del poema lucreziano nelle rispettive lingue nazionali,ad opera di John Evelyn (1656, limitatamente al I libro)26 e di Michel de Marolles (1659).

Cinquecento, Prosperi, o.c. 102 nota che «una rassegna dei frammenti o dei singoli versi lucrezianiche si trovano tradotti in italiano all’interno di opere cinquecentesche […] testimonia del diffusodesiderio dei letterati italiani di cimentarsi con un’opera così alta».

22 Della storia e della ragione d’ogni poesia dell’abate F. Saverio Quadrio, IV, Milano1749, 30 (sulle traduzioni).

23 «Della version di Lucrezio il solo sesto libro conservasi nella libreria de’ Conventuali diAsolo a cui fece dono de’ suoi libri» (1790s.). Anche il Fabricius nella sua Bibliotheca cita i «TitiJoannis Scandianensis Commentarii doctissimi» (I 85).

24 Che non si trattasse di una vera e propria traduzione attesta anche J.M. Paitoni, Bibliotecadegli autori antichi greci, e latini volgarizzati, II, Venezia 1774, 238: «della traduzione diT. Giovanni Scandinense e della Parafrasi di Girolamo Frachetta io non parlo per non essere quellamai uscita alle stampe e questa una Esposizione diffusa della dottrina, non delle parole di Lucrezio».

25 Vd. A. Grilli, Leopardi e Lucrezio, «A&R» n.s. XLVI (2001) 52.26 Per la prima traduzione integrale di Lucrezio in lingua inglese bisogna attendere il 1682,

anno in cui esce ad Oxford quella del Reverendo Thomas Creech, destinata ad immediato suc-cesso editoriale, in patria e all’estero.

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Se passiamo al Settecento, il computo è presto fatto: domina incontrastata la ‘bella infedele’dello scienziato toscano Alessandro Marchetti, nelle cui mani il poema di Lucrezio assurgea simbolo dell’attacco sferrato dalla scuola galileiana contro il dogmatismo aristotelicodell’Accademia. Non a caso, malgrado la Protesta premessa alla traduzione, in cui il Marchettidichiarava di non condividere «le ree e malvagie cose» professate da Lucrezio in materiareligiosa, la traduzione, già pronta dal 1668, vede la luce postuma solo nel 1717, a Londra,per le cure di Paolo Rolli, e non sfugge alla messa all’Indice. Questo Lucrezio amplificatoe ricantato, autentico monumento del «classicismo barocco-arcadico, erede di poesia grecae latina per i filtri di Petrarca, dei didascalici cinquecenteschi, di Caro, di Tasso, di Chiabrera,anticipatore e iniziatore […] delle maniere aggraziate e fiorite dell’Arcadia storica»27, co-noscerà una serie pressoché ininterrotta di edizioni e ristampe, sino a quella curata dalCarducci nel 1864 per la casa editrice Barbera. Certo è che il coro di consensi e l’interessedi critica riscosso dalla versione dello scienziato toscano hanno finito per oscurare un’altratraduzione italiana di Lucrezio apparsa nel XVIII sec., quella dell’Abate Raffaele Pastore28,che tardò un poco ad apparire, se è vero che il Tiraboschi ammette di non averla potutavisionare29. Nemmeno questa traduzione del Pastore, decisamente più fedele e pedestre diquella marchettiana30, poté sfuggire alla censura del santo Uffizio, malgrado lo sforzo,trasparente già nel titolo, di neutralizzare le empietà del testo31. Discorso a parte merita poiuna traduzione lucreziana inedita, e a quanto mi risulta pressoché sconosciuta, conservatain un manoscritto cartaceo della Biblioteca Statale di Cremona databile al sec. XVIII32, dicui dà notizia un articolo di L. Cisorio (Di una versione inedita del «De rerum natura» di

27 A. Marchetti, Della natura delle cose di Lucrezio, a c. di M. Saccenti, Modena 1992,XVIs. Per l’esauriente disamina dei modelli letterari presenti alla memoria del traduttore si veda,dello stesso autore, Lucrezio in Toscana. Studio su Alessandro Marchetti, Firenze 1966, in part.170ss.

28 La filosofia della natura di Tito Lucrezio Caro e confutazione del suo deismo e materia-lismo, col poema di Aonio Paleario dell’immortalità degli animi dell’abate R. Pastore, Londra[ma Venezia] 1776. Ogni libro della traduzione è chiuso da Riflessioni e confutazioni particolaridei principali aspetti della dottrina materialistica di Epicuro. Sulla censura moralistica del Pastorenei confronti del poema lucreziano e le riserve espresse sulla traduzione del Marchetti, vd.Saccenti, Lucrezio in Toscana cit. 131.

29 La seconda edizione apparve a Modena tra il 1787 e il 1793. Cito dalla ristampa milanesedel 1822, I 283.

30 Tuttavia, nel suo studio su Lucrezio del 1846, il Mazzarella notava che «la traduzione delPastore, che è forse la più bella delle sue fatiche, merita lode per quella sobria fedeltà che appuntomanca al suo predecessore; e qua e là essa si eleva a tutta la grandezza del proprio modello; però,con tutto questo, per essere il più spesso troppo pedissequa, con poco garbo, e talvolta anzi duraed equivoca, non lascia di farci desiderare qualche cosa di meglio» (97).

31 L’aspetto curioso è che, a distanza di un secolo, i gusti del cattolicissimo Pastore siincontreranno sorprendentemente con quelli di Mario Rapisardi; l’abate e il poeta cultore diDarwin, infatti, tradussero, oltre al testo di Lucrezio, anche un altro poeta latino, molto lontanodal primo sotto il profilo ideologico: Catullo. Del liber catulliano il Pastore volgarizzò una sceltadi carmi «d’espurgata lezione» (Vinegia 1776), verso i quali mostrò la stessa pruderie moralisticagià riservata al poeta epicureo.

32 Vd. Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia. Opera fondata dal Prof. G. Mazzatinti,LXX, Firenze 1939, 110 (nr. 132).

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Lucrezio esistente nella Biblioteca governativa di Cremona, Estratto da «La Provincia» diCremona [CCV, 1899]). Come si desume dalla dedica posta sul frontespizio, la traduzionefu venduta da un certo Montaldi al prof. C. Fumagalli, insegnante nel Reale Liceo di Cremona,e da questi donata, nell’aprile del 1872, all’allora Bibliotecario della Biblioteca Nazionaledi Cremona, Prof. Stefano Bissolati. Di provenienza ignota, il manoscritto reca internamenteil nome del traduttore, tale Giovanni Allainig, probabile pseudonimo33. Il testo della tradu-zione, in versi numerati di cinque in cinque e vergati in scrittura corsiva «ordinata e niti-dissima»34, è seguito, nel verso dell’ultima carta, da un foglio contenente l’elenco dei «Versiomessi e trasposti nella traduzione di T. Lucrezio Caro in italiano» e, nell’ultima carta dopol’indice, da un Avvertimento, dove si specifica che la versione è stata condotta sull’edizionecominiana di Lucrezio stampata a Padova nel 172135. Tornando al problema della datazionee della genesi della traduzione, il Cisorio, nell’articolo citato, pur senza formulare ipotesiprecise, è propenso a intendere la nostra versione come il prodotto della ribellione di uno«spirito libero» contro il clima di censura e il coro di critiche con cui era stata accolta latraduzione del Marchetti36. Tant’è che, a quanto riferisce ancora il Cisorio, l’intendimentodel traduttore sarebbe filosofico prima che artistico e poetico: prova ne sarebbero, per unverso, la presenza di un ricco indice delle cose più insigni (dove sono elencati con cura itemi principali della dottrina epicurea trattati nel poema), per un altro, la mediocre fatturastilistica della traduzione («l’arte vi è scarsa e in genere vi manca l’eleganza, l’armonia ela maestà propria di Lucrezio», e «lo stile […] è in genere languido e freddo, poco delicatoe soave»), la quale risulterebbe compensata, tuttavia, da «un’esposizione di pensiero semprechiara e piana, tanto che in questa versione sembran quasi scomparsi gli intralciati misteridella filosofia degli atomi» (14s.).

Sembra dunque lecito affermare che l’Ottocento mette fine al silenzio forzatocui Lucrezio era stato ridotto tra il Seicento e la fine del Settecento. A quasi duesecoli di distanza dal ‘caso’ Alessandro Marchetti, nel XIX sec. il poema epicureotorna a circolare in lingua italiana, grazie ad una capillare attività di traduzione chedai primi decenni del secolo si prolunga sino alle soglie del Novecento. La celebre

33 A questo proposito il Cisorio precisa quanto segue: «dopo alcune ricerche abbiamo potutoconstatare che appunto nel 1872 in Sospiro (provincia di Cremona), moriva un dotto parroco, untal Tosi, dai cui eredi forse poté essere comperato dal Montaldi il manoscritto in questione insiemecon altri libri che allora, dicesi, furono venduti. La coincidenza della morte di questo parroco conl’acquisto del codice fatto dal Fumagalli ci sembra degna che sia almeno rilevata» (6s.).

34 Mazzatinti, o.c. 110.35 Titi Lucretii Cari de rerum natura libri VI. Ad optimorum exemplarium veritatem exacti.

Quae praeterea in hac Patavina Editione accesserint, Epistolae subsequentis postremae paginaedeclarant, Patavii 1721. Excudebat Josephus Cominus.

36 «Non è improbabile che qualche spirito libero […] abbia ritentato con nobile ardire laprova, quasi per tener desta, se non nel pubblico, almeno in se stesso o nel circolo de’ suoi amici,la fiamma di quel libero pensiero acquistato a prezzo di tante lotte e di tanti sforzi. E forse questospirito libero poteva nascondersi sotto la veste talare di qualche dotto prete, il quale, per isfuggireall’inevitabile censura de’ suoi correligionari, volle tener celato il suo nome sotto uno pseudo-nimo» (9s.).

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dichiarazione del Terracini secondo cui «la traduzione è il genere letterario che piùlimpidamente riflette la storia del gusto e delle culture» trova nella vicenda lucrezianaun’applicazione ed una conferma esemplari37.

Che la vitalità di un testo si misuri e si lasci apprezzare compiutamente ancheper il tramite dei suoi interpreti nelle diverse lingue nazionali è fatto ormai larga-mente riconosciuto da chi si occupa della fortuna e della sopravvivenza di un‘classico’, di qualunque epoca o lingua: di qui l’idea di tracciare un profilo, o sevogliamo una mappa, della ricezione di Lucrezio nell’Ottocento italiano sub specietranslationum. Ho provveduto a stilare un regesto delle traduzioni lucreziane di cuisi è riusciti ad avere notizia, per lo più per via autoptica, talvolta solo di secondamano. Va detto subito che il presente elenco intende raccogliere in una sede uni-taria un materiale che, pur essendo almeno in parte noto, risultava sino ad oradisseminato in una pluralità di strumenti, non sempre facili da reperire e consulta-re38. Per ognuna di queste traduzioni, aventi fisionomie e caratteri difformi, si èprovveduto a segnalare, laddove possibile: alcuni essenziali dati bio-bibliograficisul traduttore (o, in alternativa, il semplice rinvio agli strumenti idonei); la consi-stenza dei brani lucreziani tradotti; la presenza di eventuali dediche e prefazioni; lasede in cui il volgarizzamento vide la luce (opuscolo, volume – monografico omiscellaneo – o rivista); la biblioteca che ne conserva almeno un esemplare; infine– ma soltanto per pochissimi – la circostanza, o meglio l’occasione che ne condi-zionò l’ideazione e/o la pubblicazione. Infatti, è sufficiente anche solo scorrerealcuni di questi testi per ravvisarvi la fisionomia tipica dei testi d’occasione:un’‘occasionalità’ tanto più evidente per il fatto che, in più di un caso, si tratta disaggi di traduzione offerti in quella veste di opuscoli per nozze che aveva riscosso

37 B. Terracini, Il problema della traduzione, in Conflitti di lingue e di culture, Venezia1957, 98. Già il Gabotto, o.c. XXs. individuava un nesso causale tra il consistente numero ditraduzioni del poema apparse nella seconda metà dell’Ottocento e il fortunato trentennio di cuiLucrezio poté beneficiare in piena stagione darwiniana.

38 Oltre alle pagine del Gordon dedicate alle Italian translations (o.c. 193-211), ai fini delcensimento mi sono avvalsa principalmente delle sezioni lucreziane comprese in W. Engelmann-E. Preuss, Bibliotheca scriptorum classicorum, II. Scriptores Latini, Leipzig 1882, 400-407;P. Canal, Bibliotheca scriptorum classicorum Graecorum et Latinorum, Bassani 1884, 126-131;R. Klussmann, Bibliotheca scriptorum classicorum et Graecorum et Latinorum, II. ScriptoresLatini, Leipzig 1912, 555-566; di alcuni repertori sulle traduzioni dal greco e dal latino, qualiF. Argelati, Biblioteca dei volgarizzatori, II, Milano 1767, 349s.; Paitoni, o.c. 237s.; C. Lucchesini,Della illustrazione delle lingue antiche, e moderne e principalmente dell’Italiana procurata nelsecolo XVIII dagli Italiani. Ragionamento storico, e critico di C. L., II, Lucca 1819, 158;F. Federici, Degli scrittori latini e delle italiane versioni delle loro opere. Notizie raccolte dal-l’Ab. F.F., Padova 1840, 17s.; della voce Lucretius del CLIO. Catalogo dei libri italiani del-l’Ottocento (1801-1900), Milano 1991, 2695s. Per i profili biografici dei traduttori, mi limito quia citare l’imprescindibile Archivio Biografico Italiano (ABI), così ripartito: I, a c. di T. Nappo,München 1987-1990; Archivio Biografico Italiano, II. Nuova serie, 1994; Archivio BiograficoItaliano sino al 1996, III, 1999; Archivio Biografico Italiano fino al 2001, IV, 2000-.

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larghissimo seguito negli ambienti del classicismo sette-ottocentesco, in particolarein area emiliano-romagnola39.

Ugo FoscoloDa una ventina d’anni a questa parte, il quadro dei rapporti intrattenuti dal Foscolo con

il De rerum natura si è fatto sensibilmente più sicuro e dettagliato. Il rinvenimento, neglianni Ottanta, di un esemplare della traduzione del Marchetti appartenuto al poeta, contenen-te alcuni saggi autografi e inediti di traduzione da Lucrezio, ha permesso di «ricostruirefinalmente per intero quel “progetto” lucreziano»40 accarezzato dal Foscolo: il quale, pro-prio tra il 1802 ed il 1803, compose i tre celebri discorsi in prosa di argomento lucreziano(Della poesia lucreziana, De’ tempi di Lucrezio, Della religione lucreziana), prolegomeniideali a un lavoro sistematico di traduzione e commento al poema che, di fatto, non fu maiintrapreso. È stato osservato come, nell’evoluzione poetica e filosofica del Foscolo, il Dererum natura fu il viatico privilegiato verso una conoscenza meno superficiale dei temicardine della dottrina epicurea (l’atarassia, la dottrina del piacere catastematico, l’interpre-tazione meccanicistica dell’universo che esclude qualsiasi teodicea). Ma per il Foscolo il Dererum natura rappresentò qualcosa di più del semplice medium poetico con cui addolcirel’amara dottrina del Giardino. Se così non fosse, difficilmente ci spiegheremmo la lungalista di luoghi foscoliani per i quali la critica ha da tempo identificato o fondatamentesupposto ora possibili ascendenze lucreziane, ora generiche consonanze tematiche e lessicalitra i due testi, ora vere e proprie allusioni e riprese puntuali del De rerum natura, dissemi-nate lungo un arco temporale che dall’Ortis del 1802 giunge sino alle Grazie (1813), conuna concentrazione maggiore nella lirica e nei Sepolcri41. Ma ciò che più importa sottoline-are in questa sede è l’esistenza di quei saggi di traduzione che il poeta appose, insieme a note

39 Nella produzione letteraria minore dell’Ottocento «le composizioni poetiche per nozze,“offerte, consacrate, dedicate” – come si scriveva – agli sposi o ai genitori nel giorno “semprefausto, felice” del loro matrimonio» risultano «le più cariche di storia sociale e di storia delcostume, essendo esse proiezione d’usi e rituali soggetti a mutamenti» (Giovanna Bosi Maramotti,Verseggiatori ed eruditi romagnoli tra Sette e Ottocento in opuscoli per nozze, «Studi Romagnoli»XLIII [1992] 338; della stessa vd. anche Le muse d’Imeneo. Metamorfosi letteraria dei librettiper nozze dal ’500 al ’900, Ravenna 1995). La studiosa ricorda come tra l’iniziale dominio dellaforma poetica, preferita per tutto il Settecento, e l’affermazione definitiva del testo in prosa,avvenuta in pieno Ottocento, si collochi una fase di trapasso, in cui ai componimenti originalifurono significativamente preferiti i saggi di traduzione di testi classici. Per quanto attiene allascelta degli autori tradotti, la palma va senza dubbio ai componimenti catulliani di argomentonuziale: dei soli carmi 61 e 64 J.P. Holoka (Gaius Valerius Catullus. A Systematic Bibliography,New York-London 1985) ha censito non meno di 22 traduzioni italiane, apparse lungo tutto l’arcodel secolo.

40 Così il Longoni in Foscolo, o.c. 11, al quale si rimanda per una più accurata informazionesu tutta la questione Foscolo-Lucrezio.

41 Per le più vistose tessere lucreziane ravvisate sino ad ora nell’opera del Foscolo si vedala ricognizione fatta da Longoni in Foscolo, o.c. 11ss. Particolarmente significativo è il caso delsonetto Alla sera: il già ricordato volume marchettiano contenente le traduzioni di Lucrezio neha infatti restituito una redazione con notevoli varianti, le quali attestano «profondi influssilucreziani sulla stesura definitiva» (ibid. 18).

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varie ed emende ortografiche, come marginalia alla versione lucreziana del Marchetti. IlFoscolo, dunque, non si accontentò di conoscere il De rerum natura per il solo tramite delsuo intermediario seicentesco, ma compulsò direttamente l’originale latino: e non già in unaqualunque antologia ad usum scholarum, ma nella pregevole edizione commentata del Reverendoinglese Thomas Creech. La stessa di cui il poeta si avvalse al momento di tradurre alcuniexcerpta del poema latino. Quello che possiamo leggere nella versione foscoliana è però unLucrezio quantitativamente ridotto: quasi «ritagliato e arrangiato» a misura del traduttore42.Unico fra i passi tradotti ad avere ricevuto una doppia redazione è l’episodio della giovenca(II 352-366), reso celebre dalle imitazioni virgiliane e ovidiane43: di questo brano il poetaapprontò due distinte versioni, una in endecasillabi – conosciuta sin dall’Ottocento – ed unain prosa, decisamente più fedele alla lettera dell’originale, come l’autore stesso ebbe adammettere44. A questa seconda tipologia rispondono poi le traduzioni di alcune sezioni delIII libro (1-248; 418-422; 770-790), in parte corredate da appunti a piè di pagina.

Michele Leoni (?): Della natura delle cose. Poema di T. Lucrezio Caro. Nuovamentevolgarizzato, prima edizione, Lugano, Tipografia Ruggia e Comp., 1827.

Questa traduzione lucreziana è al centro di un piccolo mistero. Benché la bibliografiadel Gordon (o.c. 207), che fa riferimento ad un esemplare conservato presso la BibliotecaAmbrosiana di Milano, attribuisca la nostra versione a Michele Leoni, in realtà essa dovettecircolare in forma anonima: tali risultano, infatti, le sei copie di cui ho potuto prenderevisione in diverse biblioteche italiane45. Se non che, uno dei tre esemplari conservati pressol’Istituto milanese (precisamente quello con segnatura S N V I. 102), pur identico agli altri,reca, nel recto del foglio di guardia (margine sinistro in alto), la nota manoscritta «versionedi Michele Leoni»; di qui l’errata dicitura con cui il volume è inventariato nel catalogo (TitoLucrezio Caro, Della natura delle cose. Versione di Michele Leoni), la quale spiega, evi-dentemente, il dato registrato nel Gordon. Pur non essendo possibile accertare né la prove-nienza né l’attendibilità di questa nota marginale, essa appare di per sé interessante e persinoattraente, considerata la notorietà e il ruolo non disprezzabile che Michele Leoni riveste nel

42 Nel senso in cui l’espressione è impiegata da A. Traina, Alfieri traduttore di Seneca, inSeneca nella coscienza dell’Europa, a c. di I. Dionigi, Milano 1999, 240 (ora in Poeti tradottie traduttori poeti, a c. di I. Dionigi, Bologna 2004, 13) in relazione agli interventi di selezionee di omissione, preliminari alla traduzione, che l’Alfieri opera sul testo senecano.

43 Che il traduttore nutrisse un certo interesse per l’argomento di questo passo è confermatodal fatto che, come precisa Longoni in Foscolo, o.c. 51 n. 1, «il Foscolo ritornerà stigmatizzando,nel discorso Della religione lucreziana, la brutalità umana anche verso “quegli animali tranquillie solitari” del tutto innocui alla sua incolumità, e riflettendo sulle crudeltà dei sacrifici nellaConsiderazione terza della Chioma, intorno a Diana Trivia (Ed. Naz., VI, Scritti politici e lette-rari dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Firenze 1972, pp. 395 sg.)».

44 Il poeta stesso aveva dato notizia di questi esercizi di traduzione in una lettera al Rosinidatata 9 gennaio 1803: «vi dirò di me, ch’io morior curis, che vivo in casa più giorni allasettimana, che ho la barba lunghissima, che veglio notte e giorno, che traduco in prosa litteralmenteLucrezio» (Ed. Naz., Epist., I, a c. di P. Carli, Firenze 1949, 170).

45 Tutte e sei le copie – di cui una conservata alla Marciana di Venezia, due a Bologna(Biblioteca dell’Archiginnasio e Biblioteca di Casa Carducci), le restanti tre alla BibliotecaAmbrosiana – condividono la medesima intestazione riportata sopra.

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panorama dei traduttori ottocenteschi di scuola classicistica46. Nell’ipotesi che l’attribuzionecorrisponda a verità, la versione integrale di Lucrezio non sarebbe che una delle tante proveaffrontate dal Leoni nel corso di una lunga e prolifica carriera di traduttore dalle lingueantiche e moderne. Per le prime si dovrà ricordare anzitutto il volgarizzamento dell’Eneide,apparso a Pisa nel 1821 e subito stroncato sulla rivista romana «Il Giornale Arcadico diScienze, Lettere, ed Arti» (XIII [1822] 291-294), «organo ufficioso se non ufficiale» dellaScuola classica romagnola47 e sede principe del dibattito sul problema del tradurre cheinfuriava in quegli anni48. Certo è che le critiche mosse dai Romagnoli al Leoni, caldamente

46 Borgo San Donnino (Parma) 1766-Parma 1858 (cf. ABI I 563,192). Dal 1840 Professoredi Letteratura italiana alla Facoltà parmense, fu vivace poligrafo (tragedie e poesie varie) e svolseun’intensa attività pubblicistica presso diverse riviste dell’epoca, tra cui gli «Annali di scienze elettere», da lui fondati insieme al Foscolo e al Rasori. Il Timpanaro (Aspetti della fortuna diLucano cit. 59ss.) lo ricorda come «un letterato eclettico […] dotato, nel bene e nel male, dinotevoli qualità mimetiche e assimilatrici», che «aveva svolto e continuava a svolgere un’utileopera di divulgazione e di mediazione culturale soprattutto come traduttore di innumerevoli autoriclassici (Virgilio, Sallustio, Lucano) e stranieri europei». A parte questa benemerita attività ditraduzioni divulgative, per il resto il Leoni non diede contributi originali al panorama della culturaclassicistica del tempo e al coevo dibattito sulla questione della lingua (vd. M. Turchi, MicheleLeoni, testimone e interprete di un rinnovamento culturale, «Archivio storico per le ProvincieParmensi» s. 4 XVII [1965] 313: «la personalità di M. Leoni […] non può dirsi di quelle cheriescono ad imprimere un carattere fortemente distintivo ed originale alla propria opera»). Degnodi interesse è tuttavia un articolo di contenuto linguistico stampato nel 1821 sulla neonata «An-tologia» col titolo Appendice Critica all’opera del Sig. C. Giulio Perticari: questo scritto delLeoni, apparso come recensione all’opuscolo del Perticari Dell’amor patrio di Dante (1820),rappresenta un atto d’accusa diretto contro l’autore e l’illustre suocero Vincenzo Monti, «sia perle premesse teoriche che per i metodi pratici seguiti nella Proposta, ed è, allo stesso tempo, unadifesa decisa della funzione e dell’attività dell’Accademia della Crusca» (Stefania De StefanisCiccone, La questione della lingua nei periodici letterari del primo ’800, Firenze 1971, 141).

47 P. Ferratini, La traduzione dai classici latini in Romagna: lineamenti tipologici e quantitativi,in Scuola classica romagnola. «Atti del Convegno di studi (Faenza, 30 novembre, 1-2 dicembre1984)», Modena 1988, 174, cui si rimanda per l’accurata disamina dei caratteri, teorici e pratici,del vertere romagnolo.

48 «Cinque principalmente […] sono i poeti greci e latini, de’ quali la nostra lingua ha cosìclassiche traduzioni, che faticosissima cosa sia non già il superarle, ma l’andar loro pur da vicino:Omero, Callimaco, Lucrezio, Virgilio e Stazio, volgarizzati da altrettanti celebri uomini, il Monti,lo Strocchi, il Marchetti, il Caro e il Card. Bentivoglio. Sicchè noi vivamente preghiamo tutticoloro che si sentono di riuscire nell’arte difficile del tradurre, a consacrare gli studi loro ad altrigrandi esemplari, e tenersi oggimai d’ogni inutile concorrenza con que’ solenni» (291). A mar-gine si ricorderà che in quel torno di tempo l’Eneide del Caro fu oggetto di un’aspra polemicatra gli affiliati della Scuola classica, accesi fautori del volgarizzamento cinquecentesco, e alcuni‘dissidenti’ traduttori di area emiliano-lombarda, tra cui lo stesso Leoni, il parmigiano ClementeBondi e il Foscolo (cf. E. Bonora, Consensi e dissensi intorno all’«Eneide» del Caro, in Stile etradizione. Studi sulla letteratura italiana dal Tre al Cinquecento, Milano 1960, 91-102): sullascia dell’Algarotti (le cui Lettere intorno alla traduzione dell’«Eneide» del Caro risalivano al1744), costoro rimproverarono al Caro le eccessive infedeltà e la patina linguistica prebarocca,rivendicando il diritto di cimentarsi nella traduzione del poema virgiliano (così il Bondi nella sua

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invitato ad astenersi dai testi classici già brillantemente volgarizzati (tra cui figura ancheLucrezio!), non sortirono l’effetto desiderato. Dopo Virgilio, infatti, negli anni Trenta è lavolta del poema di Lucano, apparso nel 1836: per una singolare concomitanza, in quellostesso anno vedeva la luce, a Pesaro, l’ultima attesa dispensa dell’altro e ben più celebrevolgarizzamento della Farsaglia, dovuto al conte pesarese Francesco Cassi49. Ma proprioquesta indiscriminata e promiscua familiarità con i classici, antichi e moderni (tradusseanche tutto il teatro di Shakespeare, Verona 1819-1822), fu all’origine dei giudizi nonsempre benevoli riservatigli dai contemporanei50. Per tornare alla traduzione lucreziana, leipotesi che si possono formulare si riducono, come è ovvio, a due. La prima: il volgarizzamentosi deve ad un classicista di identità ignota, e allora la menzione del Leoni presente sul-l’esemplare milanese si giustifica con la diffusa tendenza a ricondurre il prodotto adespotosotto l’auctoritas di un personaggio che in quegli anni godeva di una certa notorietà. Laseconda: Michele Leoni fu, in effetti, l’autore della traduzione di Lucrezio edita a Luganonel 1827 presso quella stessa casa editrice Ruggia con cui – si badi – il nostro pubblicherà,due anni più tardi, un volume di Prose. Se questa ipotesi coglie nel segno (come sembre-rebbe indicare anche la recensione che l’«Antologia» di Vieusseux dedicò alla nostra tradu-zione nel 182851), non c’è dubbio che la scelta dell’anonimato costituisca una prova elo-

Prefazione: «la traduzione di Virgilio è un arringo da poter corrersi ancora, e […] il tentarlaanche dopo di Annibal Caro non era poi, come pensano alcuni, una temerarietà da Titani»,L’«Eneide» tradotta in versi italiani da Cl. B., I, Parma 1790, XXI [il corsivo è mio]).

49 Sulla genesi e la ricezione del volgarizzamento cassiano nel milieu classicistico dellaprima metà dell’Ottocento si vedano, oltre al canonico S. Timpanaro, Francesco Cassi traduttoredi Lucano, in Timpanaro, Aspetti e figure cit. 81-103, i più recenti lavori di Chiara Nonni, LaFarsaglia di Francesco Cassi: un filtro dantesco, «Studi e Problemi di Critica Testuale» LXVIII(2004) 49-79 e Aemulatio e intertestualità nella Farsaglia del Cassi, in Poeti tradotti cit. 29-62.

50 Per tutti valgano le parole di G. Mazzoni, L’Ottocento, Milano 19607, 94 (cf. ancheR. Lasagni, Leoni, in Dizionario biografico dei parmigiani, III, Parma 1999, 191s.): «MicheleLeoni […] traduceva in versi sciolti i Nuovi canti di Ossian dall’inglese di Giovanni Smith […]e preparava parecchie altre, per non dire troppe, versioni d’ogni sorta».

51 Proprio la collaborazione intrattenuta dal Leoni con la rivista fiorentina, concretizzatasiin una serie di articoli apparsi tra il 1821 e il 1827 con la sigla L. (vd. P. Prunas, L’«Antologia»di Gian Pietro Vieusseux, Roma-Milano 1906, 71 n. 2 e passim), sembra avvalorare ulteriormentela nostra ipotesi: in caso contrario, riesce difficile credere che una traduzione di autore ignotopotesse essere oggetto della lunga recensione apparsa sul numero XXXI della rivista fiorentina(luglio-agosto-settembre, 59-72). A ciò si aggiunga che la sigla M., posta in calce all’articolo,nasconde con ogni probabilità il nome di Giuseppe Montani, che proprio grazie all’intercessionedell’«amico Leoni» aveva potuto entrare nella rivista (cf. Prunas, o.c. 78s.; l’elenco e la spiega-zione delle sigle adottate dai collaboratori della rivista si trovano alle pp. 435-437). Dopo averedifeso il poema di Lucrezio dalle tradizionali accuse di ateismo dirette contro la dottrina diEpicuro e avere menzionato il volgarizzamento del Marchetti, definito mirabile benché non esen-te da qualche difetto, il recensore passa alla nuova versione di Lucrezio, affermando di apprez-zare il «coraggio» che una tale impresa richiede. Sulla traduzione, di cui viene offerto unospecimen (V 1025ss., sull’origine del linguaggio), il recensore esprime un giudizio nel complessofavorevole (benché non manchi qualche rilievo in merito a singole scelte linguistiche), che tieneconto soprattutto del grado di fedeltà all’originale.

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quente – e non è l’unica – del clima di sospetto che ancora pesava sul poema di Lucrezio52.Se dunque, come sembra, nel 1827 il nome del poeta epicureo non poteva ancora esserepronunciato senza incorrere nel biasimo e nella censura di un certo milieu intellettualecattolico (quello che il Treves chiama «neoguelfismo»), non stupisce che il Leoni abbiapreferito non esporsi e far circolare la propria versione lucreziana in forma anonima, benchéla paternità ne fosse ben nota agli addetti ai lavori. Questo quadro sembra trovare unaconferma ulteriore nell’Avvertimento che apre il volume della traduzione; in questa sede iltraduttore, ricalcando un antico cliché della critica lucreziana, accenna alle «massime erro-nee» contenute nel poema, sull’esempio della Protesta di Alessandro Marchetti (vd. suprap. 425): «il poema Della natura delle Cose è in ogni sua parte così ben conosciuto, che ilpigliare a combatterne le massime erronee e fare protestazioni, a fine di ovviare agli effettidi un volgarizzamento di esso, sarìa da estimare opera superflua». Nel séguito figura un’in-teressante synkrisis con il Lucrezio toscano, che il nuovo traduttore si vanta di avere surclassatoin stringatezza e aderenza all’originale («finalmente intorno il modo di questa versionediremo, che se una maggiore brevità può per ventura disporre a qualche indulgenza, ciconfidiamo di ottenerla in vista degli oltre duemila versi risparmiati in confronto dell’altradel Marchetti»): un’affermazione orgogliosa che, alla luce di quanto si è detto, può suonarecome una polemica a distanza indirizzata contro chi, qualche anno prima, aveva sancitol’imperfettibilità della versione marchettiana. Da ultimo, è degno di menzione il fatto cheil volgarizzatore indichi espressamente i commenti e le edizioni lucreziane seguite: tre, inquesto caso, quella del Fayus (Bassani 17882 [Parisiis 16801]), del Lambinus (Lutetiae 15703

[Parisiis 15631]) e dell’Havercampus (Lugduni Batavorum 1725).

52 A questo proposito disponiamo di numerose testimonianze, coeve all’anno di pubblica-zione della versione lucreziana, ma anche posteriori di diversi decenni. Ci limitiamo a qualcheesempio. Nel 1819 Lucchesini, o.c. 158, dopo avere menzionato in termini elogiativi la traduzio-ne lucreziana del Marchetti, si affretta a precisare quanto segue: «commendando però l’opera delMarchetti io intendo dire, che belli sono i suoi versi, e che fedelmente ha espressi i sensi dell’Au-tore, ma biasimo solennemente i sentimenti d’irreligione e d’Epicureismo, che la Chiesa ha in luicondannati, e da’ quali doveva la sua penna tenersi più lontana come n’era lontano il suo cuore».Qualche anno più tardi, nel 1839, G.I. Montanari, autore di un fortunato manuale di retorica aduso scolastico, poteva accusare il De rerum natura di essere «tutto fango epicureo» (Istituzionidi rettorica e belle lettere tratte dalle lezioni di Ugo Blair dal padre F. Soave ampliate e arric-chite da G.I. M., Foligno 1836). La seconda edizione fiorentina del 1839 ospita un capitoloaggiuntivo Dei traduttori in cui la versione del Marchetti è oggetto del seguente giudizio: «[A.M.]che ebbe ed ha gran voce di eccellente, se il soggetto epicureo del poema, che è tutto fangoepicureo, non mi facesse rimanere dal parlare più oltre e dal disdirne la lettura ai giovani finchèchi ne ha autorità non conceda loro la lettura del traduttore, e l’età matura non conceda proficua-mente quella del Poeta latino» (cito dalla ristampa del 1843, 164). Ma fu certamente tra gliesponenti del neoguelfismo che Lucrezio trovò, come è ovvio, i suoi più aspri detrattori: a partele riserve espresse da Niccolò Tommaseo (per cui vd. I. Dionigi, Un traduttore di Lucrezio traFoscolo e Rapisardi, in Poeti tradotti cit. 66 e n. 10), si ricorderà che Eugenio Ferrai, nell’in-troduzione alla sua benemerita traduzione dal tedesco della Istoria della letteratura greca di K.O.Müller, apparsa per i tipi di Le Monnier tra il 1858 e il 1859, proponeva di bandire Lucrezio dalleaule scolastiche «per la ragione morale» (vd. Treves, Lo studio dell’antichità classica cit. 953-992; il passo che riguarda Lucrezio è riportato a p. 975).

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Gaetano Renieri53: La natura delle cose di T. Lucrezio Caro. Recata in verso italiano dalCav. G. R., Venezia 183154.

Il volume si apre con una Prefazione, in cui il traduttore si compiace del fatto che lenumerose traduzioni lucreziane apparse di recente nelle diverse lingue europee abbiano con-tribuito, per un verso, a rendere più fruibile il testo, assai impegnativo, del poema latino (siricorderà il giudizio di Quintiliano sul difficilis Lucretius [X 1,87])55, per l’altro a riscattareLucrezio dalle pregiudiziali accuse di «immoralità» e di «irreligione» di cui era tradizional-mente fatta oggetto la dottrina di Epicuro56. Segue uno scritto a firma dell’avvocato AldebrandoPaolini (Firenze 18 agosto 1831), il quale annovera tra i molti pregi della traduzione del Renieri(«chiara, nobile, schietta e veramente poetica») anche «la purezza dei vocaboli, e dei modi dicostruzione, senza vizio di Arcaismo, che la pedanteria vorrebbe metter in moda» (XVII).

Amilcare Mazzarella57: Di Tito Lucrezio Caro e del suo poema De rerum natura. Studio diA. M., colla versione di molti frammenti, scelti fra i migliori del testo, Mantova, Negretti, 184658.

A conclusione dello studio (pp. 107-178) si trovano i seguenti saggi di traduzione: dalI libro, Invocazione a Venere (vv. 1-40), Il sacrificio d’Ifigenia (vv. 85-101), L’impeto deiventi (vv. 272-291); dal II, La sapienza (vv. 1-65), La vacca orbata del suo vitello (vv. 355-366), L’allegoria di Cibele (vv. 589-642); dal III, L’alma soggiace ai mali del corpo (vv.460-482); La voce della coscienza (vv. 991-135); dal IV, Tutto è movimento (vv. 588-421e 317-333), L’eco (vv. 574-598), I sogni (vv. 959-994); dal V, I primordi dell’umanità (vv.925-1456); dal VI, La peste di Atene (vv. 1120-1184).

Luigi Carrer59

Il volume Poesie scelte di L. Carrer, Firenze 1854, contiene i seguenti brani lucrezianitradotti60: la versione integrale del primo libro (pp. 539-570), l’Incipit (vv. 1-46, pp. 570s.)

53 Già Bibliotecario della Corte imperiale durante il regime francese, cultore di interessi sialetterari che scientifici, dopo la Restaurazione fu autore di diverse traduzioni di testi latini, fracui Lucrezio, e biblici, quali l’Apocalisse, i Salmi, il Cantico dei Cantici, il Libro di Giobbe (vd.L. Cheluzzi-G.M. Galgagnetti, Serie cronologica degli uomini di merito più distinto della cittàdi Colle di Val d’Elsa, Colle 1841, 34).

54 La copia conservata presso l’Archiginnasio di Bologna di cui mi sono valsa è una ristam-pa datata Firenze (per i tipi V. Batelli e figli) 1833.

55 Il Renieri sottrae a questo giudizio positivo proprio la traduzione del De rerum natura diAlessandro Marchetti, che «non sembra averlo né giustificato, né chiaramente interpretato» (Vs.).

56 «Né in qualunque modo al nostro medesimo autore potrà giustamente venire imputato ilpiù indiretto e piccolo tratto, che si opponga alla Religione ed al costume […]; nel poema diLucrezio non s’incontra né irreligione, né immoralità, né attentato ai costumi, non ostante il pococonto che fa dei superi Dei, il suo più presunto che esplicito materialismo» (XI).

57 Professore di Liceo a Milano, come si ricava da ABI I 637,399.58 Esemplare visionato presso la Biblioteca Marciana di Venezia.59 Venezia 1801-1850. Per un profilo bio-bibliografico del Carrer, poeta e critico letterario

vicino al Foscolo, di cui curò una pregevole edizione completa delle opere corredata da una Vita(Venezia 1842), rinvio a F. Del Beccaro, Carrer, in DBI XX (1977) 730-734.

60 Esemplare visionato alla Biblioteca di Casa Carducci. Nella strenna Non ti scordar di me,Milano 1846 erano già apparsi i seguenti saggi di traduzione: Il Voto (I 330-418); l’Omeomeria

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e una selezione di passi del II libro (Amor materno della giovenca [vv. 352-366; pp. 571s.];Processione di Cibele [vv. 598-628; pp. 572s.]), dal III (Congedi mortuari [vv. 894-899; pp.573s.], La morte inevitabile a tutti [vv. 1024-1041; p. 574], Perplessità della vita [vv. 1045-1067; p. 575]), dal V (Antichi usi di guerra [vv. 1297-1325; pp. 576s.]), dal VI (Le nubi ela pioggia [vv. 495-512; p. 577], La pestilenza d’Atene [vv. 1138-1285; pp. 577-582]).

Lodovico Pellegrino Merenda Colombani61: Invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro.Versione inedita del Conte P. M. C. di Forlì, Forlì, Casali, 185862.

La traduzione, pubblicata postuma per iniziativa del fratello Giuliano Colombani, figu-ra in un opuscolo per le nozze Mengoni-Bianconcini.

Giuliano Vanzolini63: T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose libri sei. Traduzione diG. V., seconda edizione corretta e riveduta, Pesaro, Federici, 1879.

La fatica trentennale della traduzione lucreziana, iniziata già negli anni Cinquanta,edita in dispense tra il 1863 e il 1877 e apparsa postuma in versione integrale nel 1879, duesoli mesi dopo la prematura morte, suscitò l’ammirazione e il plauso di un giovane ma giàautorevole Carducci, promosso da poco all’Ateneo bolognese (con lui il Vanzolini intratten-ne un proficuo scambio epistolare), oltre che del concittadino pesarese Terenzio Mamiani.Muovendo da alcune dichiarazioni di poetica del Vanzolini – il quale per un verso si appellaai principi di fedeltà e chiarezza rispetto all’originale, per un altro accosta non casualmentela poesia di Lucrezio a quella del ‘padre’ Dante – si è tentato altrove di illustrare i due volti,tra loro complementari, del nostro traduttore: il traduttore letterario e il traduttore filologo64.Se infatti le frequentissime reminiscenze dantesche e, più in generale, l’adesione al modellolinguistico tre-cinquecentesco delineato da Vincenzo Monti ripropongono grosso modo idettami della Scuola classica romagnola, fiorita nella prima metà dell’Ottocento tra Emilia-Romagna e Marche e coagulata intorno al magistero del traduttore dell’Iliade, vero è, tut-tavia, che il rigore linguistico e la vocazione esegetica che il Vanzolini mostra verso il testolatino hanno radici più antiche, che escono dai confini della Romagna. Nel corso del Set-tecento, infatti, la scuola filologica veronese – nelle figure di Anton Maria Salvini e diScipione Maffei e allievi – aveva teorizzato e praticato la traduzione letterale e ‘strumentale’dei classici, contrastando la moda imperante delle ‘belle infedeli’ con le armi dell’«inerenza»e della «religiosa esattezza» da tenersi verso l’originale. Questi, dunque, i precedenti e imodelli più probabili cui il Vanzolini poteva guardare per la traduzione lucreziana: va detto,

di Anassagora (I 830-903), mentre la Pestilenza d’Atene (VI 1136ss.) era già comparsa nellaStrenna Italiana, Milano 1847.

61 Forlì 1813-Bologna 1852. Nel fondo Piancastelli della Biblioteca Saffi di Forlì si conser-vano alcuni suoi scritti d’occasione quali Idillio di Salomone Gessner. Imitazione del conteLodovico Pellegrino Merenda. Nozze Sauli-Visconti Aimi, Forlì 1844 e Per la promozione allaporpora di monsignore Ignazio Masotti. Ode, Faenza 1884.

62 La copia di cui mi sono giovata è conservata alla Biblioteca Marciana.63 Casteldimezzo (Pesaro) 1824-Pesaro 1879. Sulla personalità e l’opera del Vanzolini, vd.

A. Boschini, Cenni biografici di Giuliano Vanzolini, in Armi vecchie, Pesaro 1907, 393-399,I. Ciavarini Doni, G. Vanzolini. Ricordo, Ancona 1879, nonché Dionigi, Un traduttore cit. passim.

64 Vd. Giuliano Vanzolini tra Lucrezio e Dante, «Studi e Problemi di Critica Testuale» LXV(2002) 13-46 e Leggere Lucrezio con Dante. Il De rerum natura tradotto da Giuliano Vanzolini,in Poeti tradotti cit. 79-127.

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tuttavia, che l’impiego serrato e a tratti sorprendentemente circostanziato che il Vanzolinifa della lingua della Commedia evidenzia elementi di indubbia originalità. Non è un casoche, sin dal 1852, il traduttore avesse additato nell’aurorale Dante e nell’enniano Lucreziodue archetipi letterari e linguistici, degni della qualifica di «primi poeti ordinati» dellerispettive letterature: evidentemente, il traduttore potè sperimentare quell’affinità linguisti-ca e stilistica tra Dante e Lucrezio – artefici entrambi di prodigiose creazioni lessicali (novaverba) – che, dopo essere stata notata dal Foscolo nel suo commento alla Commedia, siavviava a diventare fortunato topos di tanta critica lucreziana, fino al Novecento.

Giovan Battista Cipriani65: Da Tito Lucrezio Caro. Saggio di traduzione di G.B. C., Ve-nezia 186366.

Antonio Tolomei67

Il Tolomei pubblicò a più riprese saggi di traduzione da Lucrezio (a cominciare dal-l’opuscolo per le nozze Giusti-Cittadella [Padova 1863]), i quali furono raccolti nel volumepostumo Scritti vari, Padova, Draghi, 1894 (I 1-50; II 352-366 [L’istinto dell’amor mater-no]; III 972-1024 [Le favole antiche]; V 925-1268 [L’umanità primitiva]; VI 1138-1286 [Lapeste d’Atene])68. Queste versioni piacquero, tra gli altri, al Trezza, che ne pubblicò alcunibrani all’interno della monografia Lucrezio (Firenze 1870) con questa presentazione: «invece della mia prosa, io porgo al Lettore questi versi mirabilmente belli di A. Tolomei. Cosìl’egregio padovano ci possa dar presto compita un’Opera che onorerebbe la nostra lettera-tura non tanto ricca di traduzioni eccellenti»69. I passi lucreziani riportati nella traduzionedel Tolomei sono: I 1-25, 29-40, 80-101; II 352-366; V 970-981, 1028-1058, 1063-1086,1198-1240; VI 1145-1177.

Jacopo Sartori70: Tito Lucrezio Caro. La natura delle cose. Libri sei. Tradotti in versiitaliani da J. S. veronese. Edizione Postuma, aggiuntovi il testo latino secondo le stampemigliori e più recenti, Verona, Tip. Cesira Noris, 187671.

65 Avvocato di origine friulana, attivo a Venezia. Fu autore di sonetti, odi, canzoni, apparsein giornali, strenne e raccolte varie del Veneto e dell’Istria (vd. ABI I 299,286).

66 Un copia dell’opuscolo, contenente la versione del solo inno a Venere, si conserva allaBiblioteca Marciana.

67 Padova 1839-1888 (cf. ABI II 623,57). Letterato e giurista, fu patriota e partecipò attiva-mente alla vita politica del Paese, sia a livello locale – ricoprendo le cariche di consiglierecomunale, assessore alla cultura e infine sindaco nella città di Padova – sia nazionale, in qualitàdi Deputato parlamentare.

68 Traduzioni parziali si trovano in Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Libro I, dal v.102 al v. 150. Versione poetica di A. T., Padova, Tip. F. Sacchetto, 1887 (nozze Giusti-Godoy);T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Libro V, dal v. 1240 al v. 1267. Traduzione di A. T.,Padova, Tip. F. Sacchetto 1891 (nozze Luzzatti-Pontremoli).

69 Giudizio riecheggiato da A. De Gubernatis, Tolomei, in Dizionario biografico degli scrit-tori contemporanei, Firenze 1879, 1259 («stampò […] alcuni bellissimi saggi di versione dalpoema di Lucrezio che ne fanno desiderare il compimento anche dopo l’ondosa e tumida delRapisardi tanto lodata dal Trezza») e dal Cisorio (vd. supra n. 15).

70 Soave [Verona] 1808-Sona [Verona] 1874.71 Mi sono valsa di due esemplari conservati presso la Biblioteca Statale Isontina di Gorizia

e la Marciana di Venezia.

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Alla traduzione, dedicata dal curatore Osvaldo Perini al conte Leopoldo Pulle, è pre-messa una lunga sezione introduttiva, che si apre con una Nota bio-bibliografica del Sartori(XI-XXVI): qui si ricordano, in particolare, la precoce vocazione del traduttore per la poesialatina (nata nel periodo di formazione presso il seminario di Verona ma presto accantonataper la carriera forense) e la lunga fatica della traduzione lucreziana, iniziata in epoca gio-vanile, interrotta e successivamente ripresa, ma rimasta incompiuta72. Come ci fa sapere ilcuratore, la versione di Lucrezio, data alle stampe postuma, è il frutto della collazione diquattro diverse redazioni; inoltre, dal momento che il testo latino stampato a fronte ripro-duce quello della recente edizione del Munro (1866), il curatore asserisce di avere segnalatoin nota i casi in cui la traduzione del Sartori presuppone lezioni diverse, ricavate da edizionilucreziane precedenti. È significativo che per mostrare al lettore l’eccellenza della traduzio-ne del Sartori – improntata alla massima fedeltà verso l’originale – il curatore scelga la viadel confronto con «alcuni brani delle altre versioni che sono in Italia più in voga e sidividono o contendono il suffragio del pubblico»: i traduttori coinvolti sono il Marchetti,come è ovvio, e il Tolomei, mentre i brani lucreziani scelti come campione sono l’inno aVenere, il sacrificio di Ifigenia e la peste d’Atene. La Nota biografica è seguita da un’ampiaPrefazione (XXVII-LXXXVII) concepita, sull’esempio dei medioevali accessus ad auctores,come introduzione generale al poema lucreziano, considerato nei suoi rapporti con la tradi-zione poetica latina anteriore e successiva, la temperie politica, letteraria e filosofica dellaRoma del I sec. a.C., e con i fondamenti etici e fisici della dottrina epicurea. Dopo una brevesezione dedicata alla lingua di Lucrezio, giudicata mirabile sotto molti aspetti tranne che peril vizio d’arcaismo, segue un excursus sulla trasmissione, la fortuna e le principali edizionidel testo lucreziano.

Mario Rapisardi73: Libri sei di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R., Milano, Brigola, 1880;Libri sei di T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R. Seconda edizione riveduta dal traduttore eaccresciuta di una prefazione di G. Trezza, Torino-Roma-Firenze, Loescher, 1882; Libri seidi T. Lucrezio Caro. Tradotti da M. R., in Opere ordinate e corrette da esso, Catania 1896(riproduce sostanzialmente il testo della traduzione dell’8074).

Il poeta catanese Mario Rapisardi, guadagnatosi una certa notorietà in virtù di unaclamorosa polemica col Carducci, fu con Gaetano Trezza il principale corifeo della riletturapositivistica del poema lucreziano invalsa in Italia nell’ultimo trentennio del XIX sec.75 Fu

72 «La fece e la rifece più volte con cura e passione dedicandovi tutta la pazienza e tutta latenacità d’una mente laboriosa e feconda come la sua» (XIII).

73 Catania 1844-1915.74 Alcune varianti d’autore della traduzione lucreziana, annotate dal Rapisardi sulla propria

copia delle Opere, sono state edite da A. Tomaselli, Commentario rapisardiano, con numeroselettere di illustri scrittori a Mario Rapisardi, Catania 1932, 215ss.

75 Il culto tributato dal Positivismo al poeta epicureo, apprezzato per l’entusiasmo da neofitacon cui tesse l’elogio della ratio e combatte l’ignoranza delle cause, trova compiuta espressionenella poetica Epistola a Lucrezio del Rapisardi, affine, per il tono innologico, agli appassionatielogi lucreziani di Epicuro («è tua l’anima ribelle, è tua la possa / che in granitici carmi il veroincide»). Il componimento ripercorre le tappe salienti della fortuna del De rerum natura: nellagalleria di imagines che occupa buona parte dell’epistola («l’egregio Toscan», alias AlessandroMarchetti, «Poggio», «Aldo solerte», «Marullo audace», «Avanzio», «Crechio bizzarro», «Lambino»,

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anzi proprio dal Lucrezio del Trezza (Firenze 1870 [18873]) che il Rapisardi trasse l’impulsodecisivo a cimentarsi nella versione integrale del De rerum natura, cui lavorò per circa unventennio76. Negli endecasillabi della traduzione lucreziana i critici hanno riconosciuto inmaniera pressoché unanime l’esito migliore della vena poetica del catanese: merito di quellaautentica simpatia e consonanza spirituale con il poeta epicureo, nel quale il Rapisardi«sentì un altro se stesso»77. Per l’autore dei poemi filosofico-scientifici Palingenesi, Giobbe,Lucifero, l’incontro con Lucrezio fu l’approdo naturale di una entusiastica adesione al verbodarwiniano78. Non a caso, in una lettera del 26 aprile 1877 all’amico Filippo Zamboni(professore di Lettere Italiane all’Accademia Commerciale di Vienna, corrispondente anchedel Carducci)79, il Rapisardi accoppiava i due profeti della ragione nell’elenco degli auctorescongeniali al suo orientamento ideologico e letterario: «ora vado per un mese in campagna,senza altri libri che le opere di Darwin e il De rerum natura». Alla traduzione lucreziana ilRapisardi si accostò senza ambizioni filologiche, lasciate a studiosi più competenti. Essadoveva piuttosto assolvere un duplice scopo: per un verso, non adulterare l’austerità vigo-rosa e titanica del poema lucreziano, demerito di tutte le versioni precedenti80; per l’altro,dar finalmente prova del genio poetico del traduttore, rimasto, sino ad allora, per lo piùincompreso («se un lavoro di erudizione lo possono fare parecchi in Italia, una traduzione,modestia a parte, non la possono fare che pochi»). D’altra parte, la decisione di tradurreLucrezio più in veste di letterato militante che non in quella di filologo non impedì alRapisardi di sincerarsi del fatto che la versione fosse condotta sulle più recenti e attendibiliedizioni critiche: di qui la richiesta allo Zamboni di procurargli l’«opera magistrale del

«Lachmanno, acuta/mente divinatrice», il «buon Munro», il «divo Galilei», il «Darvinio carro»)è facile riconoscere i traduttori, i filologi, gli esegeti, gli editori e financo gli scienziati che hannocontribuito, a diverso titolo, a mantenere viva la fama di Lucrezio nei secoli. La fede scientistaed evoluzionistica del Rapisardi traspare in maniera inequivocabile sul piano del lessico: siritrovano tutti i temi e i vocaboli chiave del gergo darwiniano, tra cui il «Vero» («tu che diritto/ miravi al Ver con infallibil dardo»), la «Forza» che governa gli elementi del cosmo, il «pensiergagliardo» che combatte la superstizione religiosa, la «mavorzia prole» epicurea che ha apertola strada alla conoscenza razionale della natura. Lo spirito marziale che pervade tutta l’Epistolanon era sfuggito al Trezza, che così concludeva la sua Prefazione all’edizione del 1882: «l’Epi-stola del Rapisardi a Lucrezio è impressa del suo spirito ardente e titanico; poesia tutto sdegnocontro i tartufi superstiti del mondo moderno, somigliante a lava che si rovescia da un vulcanoin fiamme. La ribellione ai gioghi dell’intelletto vi è piena e aperta; l’ironia redentrice si librasulle rovine olimpiche degli Dei, ed il vero scientifico vi si afferma come l’eterna salute dell’uo-mo [i corsivi sono miei]».

76 Dell’amicizia che legò il Rapisardi al Trezza testimonia il fitto scambio epistolare, di cuifornisce qualche esempio Tomaselli, o.c. 143ss.

77 P. Tremoli, Mario Rapisardi traduttore di Lucrezio, «Annali Triestini» XIX (1949) 10.78 Vd. anche I. Dionigi, L’inferno è qui. Un esempio di lettura lucreziana (De rerum natura

3, 978-1023), in AA.VV., Latina didaxis, XII, a c. di S. Rocca, Genova 1998, 19-34.79 Traggo questa e le successive informazioni sulla corrispondenza Rapisardi-Zamboni da

Tremoli, o.c. 11ss.80 In una lettera al Fanfani del 15 settembre 1878, riportata da Tomaselli, o.c. 70, il Rapisardi

dichiarava di volere presentare «il titano così com’è, senza fargli la barba e mettergli la cipria,come sogliono fare tutti i traduttori».

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Munro» (Cambridge 1864 [Editio minor]), con la quale temperare le «audacie filologiche»del Lachmann, come il traduttore avrà a ripetere nell’Avvertenza filologica premessa all’edi-zione del 1896. Le speranze che il Rapisardi aveva riposto nella fatica lucreziana vennerotuttavia frustrate. Dopo la delusione per le critiche poco benevole ricevute dal suo Lucifero(da imputarsi, come dirà all’amico Zamboni, alla pochezza delle miserae mentes di memorialucreziana), anche la versione del De rerum natura fu accolta da un coro di stroncature81,suggellate dalla massima autorità letteraria vivente, il Carducci82. L’unica voce levatasi adifesa del Rapisardi era stata quella del Trezza, suo sodale nella causa positivistica: nellaPrefazione alla versione lucreziana citata, il Veronese non esitò a tributargli entusiastichelodi e gli riconobbe il merito di essere riuscito, «meglio di ogni altro», nel difficile compitodi «riprodurre lo stile di Lucrezio»83.

Uriele Cavagnari84: Lucrezio. I sei libri intorno alla natura delle cose. Recati in versiitaliani da U. C. Libro primo, Roma, tip. Savio e C., 188285.

La traduzione fa parte di un opuscolo miscellaneo, che comprende anche alcuni saggidi versione dal poema di E.D. Parny La guerre des dieux.

Francesco De Antonio86: Della natura delle cose di Tito Lucrezio Caro. Traduzione diF. D. A., Milano, Fratelli Dumolard Editori, 188387.

Il volume, pubblicato postumo, è dedicato dalla vedova Angiolina Rossi alla città diAlessandria e ai suoi cittadini. Alla traduzione è premessa un’introduzione, datata 1882, a firmadel Prof. Giuseppe Brambilla: dopo alcuni ringraziamenti di rito rivolti al De Antonio peressersi cimentato nella traduzione dalle lingue classiche, impresa ardua e pur tuttavia utile

81 Si veda ad esempio quella di Ruggero Bonghi, Una nuova traduzione di Lucrezio [Rapisardi1880], «La Rassegna settimanale» XCVI (1879) 304-307 (= R. B., Horae subsecivae, I, Roma1883, 81-94).

82 In proposito si vedano le testimonianze raccolte in M. Rapisardi-G. Carducci, Polemica.Introduzione di F. De Roberto, Catania 1881.

83 «Se chi traduce Lucrezio dee possedere un’anima affine alla sua, l’autore del Lucifero lapossiede. Egli è un grande ribelle a tutti i gioghi del dogma che ricomparve, con altre forme, adarrestare la ragione disviandola in una fede ebbra d’assurdi […]. Perciò il Rapisardi riuscì, megliodi ogni altro, nel riprodurre lo stile di Lucrezio. Certo gli ostacoli non erano lievi, né direi cheegli li abbia superati senza lasciarvi, qualche volta, i segni delle resistenze patite. Ma nessunoprima di lui li superò con tanta efficace vittoria [i corsivi sono miei]» (6). Gli fa parziale eco ilMazzoni, o.c. 1408, il quale riconosce al traduttore «la straordinaria attitudine a rendere in versieloquenti non i concetti precisi né le immagini determinate, bensì un’esaltazione, che ha delreligioso, verso la sublimità della vita e per ciò contro quanto la mortifichi o l’abbassi».

84 Del Cavagnari (Este [Padova] 1845-?), giornalista attivo tra Venezia, Padova, Roma eFirenze, si conosce anche una tragedia intitolata Assalonne, Roma 18832 (Napoli 18771).

85 Esemplare visionato presso la Biblioteca di Casa Carducci.86 Alessandria 1821-1881. Ottenuta nel 1842 la laurea in medicina presso l’Ateneo di To-

rino, dal 1860 al 1880 fu stimato Professore di Storia Naturale al Reale Liceo di Alessandria, cittànella quale ricoprì anche le cariche di consigliere comunale e di assessore alla cultura (vd.D. Bonardi, Cenni biografici del dott. Prof. Cav. Francesco De Antonio, «Rivista di Storia, Arte,Archeologia della Provincia di Alessandria» XIII [1914] 304-310).

87 Copia visionata presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna.

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all’incivilimento della nazione, il curatore loda le virtù poetiche e la «potenza inventiva» diLucrezio, pari a Virgilio nello «splendor dello stile» e nella «purità della lingua», ma a luisuperiore «nel vigore e nell’altezza dei concetti». Subito dopo avere rilevato come lo stile diLucrezio sia stato per lo più tradito dalle traduzioni precedenti, con la sola eccezione (sic!) dellaversione di «Alessandro Marchetti che, non ostante le sue non piccole mende, da tutti gl’intel-ligenti si giudica la migliore», il Brambilla riconosce alla versione del De Antonio, condotta sudi una ristampa dell’edizione del Creech, «esattezza d’interpretazione e facilità di versificazione».

Antonio Nardozzi88: Amor omnibus idem (da Lucrezio, Libro II). Traduzione di A. N.,«Lettere e Arti» I/9 (1889) 10.

Si tratta della traduzione di alcuni versi del celebre episodio della giovenca, passo frai più tradotti nell’Ottocento (lo stesso Foscolo vi si era cimentato a più riprese; vd. suprap. 429). Il nome del Nardozzi è legato soprattutto ad un’apprezzata versione in endecasillabidelle Georgiche di Virgilio89, redatta tra il 1876 e il 1886, di cui il Carducci elogiò «laflessuosità melodica e sfumata onde più fantastica e affettuosa spira la imagine»90.

Luigi Pinelli91: Dal De rerum natura di Lucrezio (lib. III, v. 931 e seg.), «La Biblioteca delleScuole Italiane» III/17 (1891) 267; Dal De rerum natura di Lucrezio (V, v. 1192 e seg.).Traduzione di L. P., «La Biblioteca delle Scuole Italiane» IV/6 (1891) 91.

Giovan Battista Menegazzi92: L’inno a Venere di Lucrezio ed altre versioni metriche diG.B. M., Alatri, Tip. O. De Andreis, 189293.

88 Imola 1839-1892.89 Virgilio Marone, Le Georgiche. Tradotte da A. Nardozzi, seconda edizione migliorata e

accresciuta con la versione di Peleo e Teti di Catullo, Imola 1894 (18851). Per un ritratto complessivodel traduttore, non esente da intenti celebrativi, vd. F. Lanzoni, Della vita e degli scritti del cav.Antonio Nardozzi, commentario del Prof. Can. Co F. L., Imola 18932: di qui apprendiamo che se«Cicerone, Cesare, Sallustio, Cornelio [furono] i suoi prosatori latini», il Nardozzi «sentiva Lucrezioe gli doleva che mentre si porgeva solenne maestro d’eleganza, si facesse guida al materialismo» (80).

90 Il giudizio, apparso sulle pagine della «Domenica del Fracassa», è riportato integralmenteda Lanzoni, o.c. 87s. Una copia della traduzione virgiliana si trova non a caso presso la Bibliotecadi Casa Carducci, dove si conservano anche alcune lettere e biglietti di ringraziamento autografidel Nardozzi.

91 S. Antonino (Treviso) 1839-1913 (vd. R. Binotto, Personaggi illustri della marca trevigiana.Dizionario bio-bibliografico dalle origini al 1996, Treviso 1996, 451s.). Abbandonati gli studidi legge a Pavia, si laureò in Lettere alla Normale di Pisa, per poi intraprendere la carriera diProfessore di Letteratura Italiana e di Preside presso il Liceo di Udine. Fu autore di varie raccoltedi versi, molto apprezzate dal Carducci, cui fu legato da sincera amicizia (come attesta il fittoepistolario conservato presso la biblioteca della casa); ricordiamo: Affetti e pensieri, Udine 1869;Vita intima, Milano 1876; Poesie minime con alcune traduzioni, Bologna 1880; Epigrammi esatire, Treviso 1896.

92 Poeta, traduttore e critico letterario: cf. G.V. Catullo. L’epistola ad Ortalo ed altri carmi.Tradotti da G.B. Menegazzi, Roma 1895; La vecchia e l’anfora. Nuove versioni metriche diG.B. Menegazzi, Monteleone 1897; Contemplando la terra. Versi, Padova 1890; I latinismi nellaDivina Commedia, Roma 1913.

93 Copia conservata presso la Biblioteca di Casa Carducci.

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Si tratta di una crestologia di poesia greca e latina (classica e umanistica) in traduzioneitaliana (Saffo, Anthologia Palatina, Catullo, Virgilio, Orazio, Persio, Anthologia Latina,Pontano, Poliziano, Ariosto); i passi lucreziani tradotti sono l’inno a Venere94 (I 1-40),l’episodio della giovenca (II 352-366), la processione delle stagioni (V 735-747).

Il libretto è dedicato al prof. Giuseppe Tambara con la seguente intestazione: «le ragio-ni artistiche che mi guidarono in queste traduzioni furono da me esposte in vari articolipubblicati, e in riassunto, in una breve prefazione alla versione delle Bucoliche di Virgilio95.Certo, rimane sempre vera, in parte, la sentenza di Dante “Nulla cosa per legame musaicoarmonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare senza rompere tutta sua dolcezza earmonia”»96.

Andrea Ferracini97: T. Caro Lucrezio. De rerum natura. Traduzione di A. F., Vicenza,Franzoi, 189498.

Questa traduzione del proemio lucreziano in endecasillabi sciolti figura in un opuscoloper le nozze Pigatti-Cibele. Alcuni altri saggi di versione dal II libro99 sono stampati ecommentati dal Cisorio in due articoli apparsi sulla rivista «Il Torrazzo» del 1901, il secon-do dei quali presenta un confronto, decisamente favorevole al Ferracini, con le traduzionidel Marchetti, del Sartori e del Rapisardi 100.

94 Già apparso in «Lettere e Arti» I/33 (1889) 12.95 G.B. Menegazzi, Le Bucoliche di Virgilio. Traduzione metrica, Padova, Angelo Draghi

Editore-Libraio, 1891. Nella Prefazione si legge: «Ho tentato di rendere in italiano sicuramente,[…] senza irreligiose zeppe o parafrasi, dal testo criticamente curato, col senso dell’originaleanche il suono del verso e gli enjambements che sono così caratteristici nello stile di Virgilio; diriprodurne il disegno del verso e della frase; di conservare, quando e quanto l’indole di nostralingua il conceda, il pensoso e poetico vocabolario virgiliano. Insomma, ho tentato ogni mezzoperché il verso la lingua lo stile ritenessero, più ch’è possibile, i caratteri dell’originale. Esserriuscito da per tutto non credo, in molti tratti lo spero».

96 Sulla celebre sentenza dantesca (Conv. I 7,14s.), alla quale si sono appellati i numerosisostenitori dell’intraducibilità della poesia dall’Umanesimo sino al Novecento (da Croce a Jakobson),si veda G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino 1991, 27ss.

97 Novoledo di Villaverla (Vicenza) 1857-Vicenza 1908. Abbandonata la carriera di farma-cista per dedicarsi agli studi letterari, a partire dal 1887 insegnò dapprima al Liceo di Marsalae successivamente presso la Scuola Industriale Rossi di Vicenza, coniugando cultura umanisticae interessi scientifici (Alla scienza. Versi, Padova 1880; Una lezione di geometria piana. Versi,Vicenza 1893; Nozze Bassani-Trivellato. Allo sposo. Poesia epitalamica, Vicenza 1893); vd.S. Rumor, Gli scrittori vicentini dei secoli decimottavo e decimonono, I, Venezia 1905, 593.

98 L’esemplare di cui ho preso visione si trova presso la Biblioteca Nazionale Centrale diFirenze.

99 II 1-61; 146-158; 483-502.100 Vd. supra n. 15. Alla traduzione del vicentino sono riconosciute «varietà di ritmo, chia-

rezza di pensiero […] lingua di buona tradizione italiana, fedeltà religiosa anche nei passaggi piùardui, forma non istentata né ricercata, spezzatura del verso artistica e armoniosa» (10). A quantoci risulta, il Ferracini non pubblicò nessun’altra traduzione lucreziana, benché il Cisorio affermidi avere visionato «il manoscritto dell’intero primo libro e il principio del secondo» (7).

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Carlo Lanza101: La pestilenza nel poema di Lucrezio e nel poema di Virgilio, «AAP» XXV/17 (1895) 1-12102.

Garibaldino e antiborbonico, socio di diverse associazioni culturali tra cui l’AccademiaPontaniana, il Lanza tenne l’insegnamento di Letteratura Greca e Latina, dapprima al LiceoUmberto di Napoli, successivamente presso il Liceo Genovesi, dove insegnò sino all’annodella morte. Svolse un’intensa attività di esegesi sui testi classici, fu autore di dissertazionimonografiche (Cicerone e Sallustio) e curatore di diversi strumenti ad uso scolastico (ma-nuali e antologie). Prolifico volgarizzatore sia dal greco – Colluto Tebano, Trifiodoro,Esiodo, Apollonio Rodio, Museo – che dal latino (Catullo, Virgilio, Orazio, Petronio enaturalmente Lucrezio), teorizzò e praticò la versione libera in base alla convinzione che«quanto meno vedete voi il traduttore, meno la versione è imperfetta, e in quel luogo, in cuinon lo vedete più, l’opera è veramente perfetta»103.

Raffaele Elisei104: Nozze Brizi-Elisei. Invocazione a Venere. Traduzione dal poema La naturadi Lucrezio, Firenze, Tipografia di S. Landi, 1896105.

La traduzione, che il volgarizzatore avverte essere stata eseguita di getto sul testocritico del Bernays, venne offerta dai fratelli Elisei come dono per le nozze della sorellaClotilde con Alfonso Brizi.

Emanuele Armaforte106: Da Lucrezio. Inno a Venere. Traduzione di E. A., Palermo 1902(con dedica alla Nobile donna Contessa Maria Airoldi di Lecco)107.

È l’ultima delle traduzioni ottocentesche di Lucrezio di cui abbiamo notizia, e anzisconfina nel secolo seguente: il testo della traduzione fu ripubblicato nel 1928 sulla rivista«Atene e Roma» (n.s. IX 73s.)108.

101 Foggia 1834-Napoli 1908.102 Si tratta della traduzione del finale lucreziano della peste (VI 1089-1384) e della pesti-

lenza del Norico del III libro delle Georgiche (vv. 475-565). Per un profilo del Lanza latinistae traduttore, vd. Patrizia Ippolito, Carlo Lanza, in La cultura classica a Napoli nell’Ottocento,Napoli 1987, 669-676.

103 Trifiodoro. Lo sterminio di Troia, «AAP» XIV (1881) 265.104 Assisi 1870-Firenze 1957 (cf. ABI I 378,422s.). Tra le altre opere, si ricordino anche Di

un passo controverso nella canzone all’Italia di G. Leopardi, Perugia 1901; Della città natale diSesto Properzio, Roma-Assisi 1916; Euripide. Le Baccanti. Con ampio commento esegetico gram-maticale sintattico ed etimologico delle parole del prof. R. Elisei, Firenze 1930; Orazio liricomaggiore. Scelta di 44 odi e 6 epodi con prefazione e commento del prof. R. Elisei, Firenze 1935.

105 Un esemplare dell’opuscolo è posseduto dalla Biblioteca di Casa Carducci.106 Altofonte (Palermo) 1870-New York 1926.107 Ne ho visto copia presso la Biblioteca di Casa Carducci.108 Da una succinta nota biografica che accompagna la traduzione apprendiamo che l’Armaforte

fu autore, oltre che di una Grammatica e di una Sintassi latine (Palermo 1926), anche di apprez-zati componimenti poetici in lingua latina, che nel 1911 gli valsero il secondo posto, dopoGiovanni Pascoli, al concorso bandito per la celebrazione del Natale di Roma (vd. Carminapraemiis et laudibus in certamine poetico ornata quod S.P.Q.R. edidit ad Diem Natalem Urbisanno ab regno Italico instituto L. sollemniter celebrandum, Romae MCMXI).

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Carlo Leardi109: T. Lucrezio Caro. Della natura delle cose. Traduzione di C. L., con unaPrefazione di F. Gabotto, Tortona 1918110.

Per ultime segnaliamo alcune traduzioni a tutt’oggi irreperibili o che presentano ancoraampi margini di incertezza, per lo più relativi all’identità del traduttore, che sinora non èstato possibile colmare con l’ausilio dei repertori biografici disponibili:

Cl. Quaranta111

A quanto mi risulta, la sola testimonianza sul volgarizzamento in prosa del Quarantaè quella offerta da V.E. Alfieri, Lucrezio, Firenze 1929, 218 nell’àmbito di un giudizio assaisevero nei riguardi dei traduttori lucreziani: «nessuna traduzione italiana merita di esserecitata, non quella classica e rimbombante del Marchetti, non quella del Rapisardi, non quelladel Vanzolini, neppure il tentativo in prosa di Cl. Quaranta (libro VI), perché tutte dannoun’immagine gravemente alterata del poeta: non mantengono il tono dell’originale, cosapressoché impossibile, né della poesia sono buoni commenti».

Luciano Chiesa: Titi Lucretii Cari De rerum natura libri sex. Libro primo recato in versiitaliani da L. C., Alessandria, Jacquemod, 1874112.

Michele Psaila: T. Lucrezio Caro. La natura, libri sei. Traduzione di M. P., Napoli, Detkene Rocholl, 1895113.

A conclusione di questa rassegna bio-bibliografica, procederemo con un sinte-tico esame comparativo circa la ratio vertendi dei nostri traduttori, utilizzandocome cartina di tornasole l’esordio del De rerum natura, l’inno a Venere, passo frai più fortunati e discussi del poema114. Per parte nostra, non pretendiamo di fornirecontributi originali ad un brano così vexatus, né intediamo soffermarci sui singoliproblemi. Piuttosto, tenendo fede alla prospettiva di studio che ci interessa, cilimiteremo a rilevare che, fra le traduzioni lucreziane ottocentesche, il proemiovanta non a caso un numero di tentativi superiore a qualsiasi altro episodio all’in-

109 Viguzzolo (Tortona) 1835-1882 (vd. ABI I 557,395s.). Per un profilo del Leardi, depu-tato in Parlamento fra i banchi della Sinistra (fu Segretario delle Finanze durante il primo gabi-netto Cairoli), vd. L. Leardi Antongini, Cenni biografici di Carlo Leardi, Firenze 1883.

110 Ma la data di pubblicazione non deve trarre in inganno, giacché la traduzione, «terminatada molti anni» (così Gabotto, o.c. XXIII), ha come termine ante quem il 1882, anno di morte deltraduttore. La copia da me visionata si conserva presso la Biblioteca Nazionale Centrale diFirenze.

111 Un Clinio Quaranta è menzionato nel CLIO come autore di traduzioni da Virgilio, Mar-ziale e Anacreonte, copie delle quali si trovano presso la Biblioteca di Casa Carducci (inviate indono dal Quaranta stesso, che figura non a caso tra i corrispondenti del Professore bolognese).

112 Di questa traduzione non sono riuscita a trovare copia fino ad ora.113 Se ne conserva una copia presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.114 Una disamina particolareggiata dei primi otto versi del proemio lucreziano nella versio-

ne del Vanzolini e del Rapisardi ha condotto Dionigi, Un traduttore cit. 70-72.

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terno del poema, ed è pertanto il candidato migliore per l’indagine che ci proponia-mo. Va da sé che, per la patina linguistica arcaica e lo stile alto in cui è composto,evidenti sin dal grandioso attacco Aeneadum genetrix (probabile ricordo dell’ennianote †saneneta precor, Venus, te genetrix patris nostri, Ann. 58 Sk.115), il testo dovetterappresentare un difficile banco di prova per i volgarizzatori.

Considerando l’ampiezza (43 esametri) e la complessità concettuale del passo,anziché addentrarsi in un esame dettagliato delle singole versioni (ben diciannove,i cui testi vengono comunque riprodotti per intero nell’Appendice)116, abbiamointerpellato la sensibilità linguistica e la vocazione esegetica dei traduttori su alcu-ne questioni significative. In primo luogo (A), si è verificato come vengono resi initaliano certi tratti linguistici e stilistici lucreziani di matrice epico-tragica, esegnatamente enniana, quali gli aggettivi composti e gli arcaismi (in particolaremorfologici), che conferiscono solennità al dettato e trovano nel genus grande delproemio la propria sede naturale117. Contestualmente, si è inteso portare un piccolocontributo alla storia dell’esegesi italiana del De rerum natura, sondando la reazio-ne dei traduttori rispetto a singoli vocaboli o locuzioni di interpretazione dubbia oproblematica, che meglio di altri rivelano l’acume interpretativo di chi traduce.Nell’àmbito del nostro campione testuale, la scelta è ricaduta naturaliter su duecasi: concelebras (v. 4) e ferae pecudes (v. 14)118. In secondo luogo (B), l’intertestualità,

115 L’incomprensibile saneneta è stato oggetto di numerose proposte di emendamento, tracui nunc sancta del Colonna, sale nata del Vahlen e Aeneia dello Skutsch, il quale vi sente unpossibile riferimento alla `Afrodivth Aijneiav" cui era dedicato un tempio ad Ambracia (vd. TheAnnals of Q. Ennius, ed. with introd. and comm. by O. S., Oxford 1985, ad l.).

116 Alle diciotto traduzioni ottocentesche si è ritenuto opportuno associare, in quanto ine-dita, anche la traduzione tramandata sotto il nome dell’Allainig, ascritta al XVIII sec. (vd. suprapp. 458s.).

117 Sui diplâ onómata come marca peculiare della Dichtersprache rinvio ai contributi com-presi nel volume La lingua poetica latina, a c. di A. Lunelli, Bologna 19883, in particolareH.H. Janssen, Le caratteristiche della lingua poetica romana 121ss. e M. Leumann, La linguapoetica latina 169ss.

118 Ad un discorso analogo si presta anche il v. 41 (nam neque nos agere hoc patriaitempore iniquo), di interpretazione controversa: più di uno studioso, infatti, ha tentato di inferirenotizie circa la cronologia del poema a partire dalla vaga determinazione temporale patriaitempore iniquo, che a qualcuno è parsa alludere, se non ad una specifica guerra in corso, quantomenoad una situazione di generale instabilità politica e sociale della res publica (cf. anche talibus inrebus del v. 43; contra, F. Giancotti, Ipotesi cronologica. Il patriottismo di Lucrezio e il precettoLAQE BIWSAS, in Il preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani ed epicurei, Messina-Firenze1978, 139-155, al quale si rimanda per una rassegna delle varie ipotesi). In questa sede peròimporta soprattutto notare che la maggior parte dei traduttori concorda nell’intendere il dimostra-tivo hoc come ablativo riferito a tempore (Allainig «tra i romor bellici, in cui trovasi / ora lapatria»; Leoni «in questo tempo, sì a la patria iniquo»; Renieri «in questa […] avversa etade»;Mazzarella «in questa […] iniqua etade»; Carrer «in tal […] / età dira»; Cipriani «in tali tempi[…] avversi»; Tolomei «in questi giorni […] iniqui»; Sartori «in questi / […] perversi tempi»;Psaila «in questi tempi / tristi»; Armaforte «sì iniqui alla patria anni volgendo»; Leardi «in questi

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cui è interamente dedicato il paragrafo conclusivo, oltre ad alcune osservazionisparse nel corso dell’analisi. Il nostro intento è mostrare come nell’officina dilavoro dei traduttori entrino in gioco due differenti forme di memoria intertestuale:se le frequenti analogie e coincidenze testuali attestano una costante imitatio/aemulatioverso i precedessori (anzitutto il Marchetti), più significative risultano alcune remi-niscenze, probabili allusioni e persino autentiche citazioni letterarie, che rinvianoad auctores individuabili o, più genericamente, alla langue codificata e dunqueanonima. Dove possibile, ho provveduto a segnalare tali riscontri (anche soltantoper via ipotetica), non già per mera crenofilia, ma per ragioni di senso: talvolta,infatti, soltanto l’agnizione dei possibili modelli (italiani o latini che siano) presentialla memoria del traduttore consente di chiarire opzioni stilistiche singolari e per-sino scarti vistosi rispetto all’originale. A questo si somma poi un secondo motivodi interesse. Chiunque abbia un minimo di familiarità con le traduzioni prodottenella temperie del classicisimo ottocentesco non esiterà a riconoscere in questeversioni ‘musive’ un segno dei tempi e quasi una marca di scuola. L’ossequio peri campioni della stagione letteraria del Tre-Cinquecento (da Dante, numen onnipresentenella coscienza linguistica dell’Ottocento, fino a Tasso) e, soprattutto, l’esempiomagistrale dell’Iliade di Vincenzo Monti – il quale aveva sentenziato, come è noto,che «quando si traduce, non è più la lingua del tradotto, a cui si debbono i primiriguardi, ma quella del traduttore»119 – fanno sì che, non di rado, la stretta aderenzaall’originale sia preoccupazione meno urgente che riecheggiare ‘i testi di lingua’della letteratura nazionale, riesumandone movenze e formule collaudate120. Se dun-

fortunosi / tempi») anziché come complemento oggetto di agere (nel senso di ‘condurre avantiquesta impresa poetica’, come lasciano intendere Rapisardi «attender […] io non potrei / […]all’opra», De Antonio «compir io non potrei / l’opra incoata»): a favore di questa secondaopzione, preferita dalla quasi totalità degli editori e commentatori lucreziani recenti, depongonosia il confronto con IV 969 [in somnis videmur] nos agere hoc autem et naturam quaerere rerum,sia la caratura solenne di cui è dotata l’espressione agere hoc, formula di origine rituale poipassata nel linguaggio ordinario (vd. Bailey, o.c. ad l. e Lucrèce. De rerum natura. Comm.exégét. et crit. par A. Ernout et L. Robin, I-III, Paris 19622, ad l.).

119 Considerazioni sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade, in Opere, a c. diM. Valgimigli e C. Muscetta, Milano-Napoli, 1953, 1028s.

120 Su questo tratto peculiare del Monti traduttore, si vedano I. De Luca, L’«Iliade» delMonti, in Tre poeti traduttori. Monti, Nievo, Ungaretti, Firenze 1988, 11-53 e A. Bruni, Cesarottinell’«Iliade» di Vincenzo Monti, in Aspetti dell’opera e della fortuna di Melchiorre Cesarotti, ac. di G. Barbarisi-G. Carnazzi, Milano 2002, 661-724. Vero è che il recupero della letteraturanazionale nella traduzione dei testi latini e greci vanta origini più antiche dell’Iliade montiana:si pensi, per fare solo due nomi eccellenti, alla cinquentesca Eneide di Annibal Caro o al seicentesco‘Lucrezio toscano’ di Alessandro Marchetti. Tuttavia, nel classicismo ottocentesco, tale prassisembra essere portata a sistema e acquisire significati inediti, soprattutto alla luce della «restau-razione del culto di Dante» – per riprendere le parole del Dionisotti (Varia fortuna di Dante, inGeografia e storia della letteratura italiana, Torino 19772, 266) – che impronta l’intero secolo:in merito si vedano, tra gli altri, Scuola classica romagnola cit. passim; V. Citti, Traduzione e

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que un’autorità riconosciuta come Vincenzo Monti, il «tesoriere musaico» dellatradizione italiana illustre (secondo la felice definizione del Russo121), non avevaesitato a rivestire l’originale con le «finissime lane» degli auctores italiani122, nondovrà sorprendere che anche i nostri ben più modesti traduttori abbiano ceduto alrichiamo della tradizione. Delle forme e degli esiti concreti del riuso intertestualeci occuperemo tra breve. Tuttavia, anticipando i risultati della nostra indagine, èbene precisare sin d’ora che soltanto in una minoranza di casi la reminiscenza dottaincastonata nel testo presuppone un’effettiva corrispondenza, concettuale e/o for-male, tra il locus classico e l’auctor italiano fruito dal traduttore, come inveceaccade in altri volgarizzamenti ottocenteschi, quali la Farsaglia del Cassi (per lacoppia Lucano-Dante) o il meno noto De rerum natura di Giuliano Vanzolini (perla coppia Lucrezio-Dante)123. Nelle traduzioni lucreziane esaminate, le tessere d’autoredi rado svolgono una funzione esegetica; più di frequente, esse rispondono ad unaesigenza di ornatus, ossia innalzano e impreziosiscono il dettato124, alla stregua diarcaismi e latinismi (linguistici e semantici), collaudati o di nuova formazione. Perconcludere, malgrado l’esiguità del campione testuale considerato, si ha l’impres-sione che i nostri traduttori, con la sola eccezione del Rapisardi, in linea generaleattingano dal serbatoio della tradizione non già per scrupoli di ordine etico o ide-ologico – che pure non sarebbero suonati fuori luogo trattandosi dell’epicureoLucrezio125 – ma per ragioni squisitamente estetico-letterarie: ora per esibire lapropria cultura letteraria, ora per bilanciare il nitore formale del testo classico conle glorie letterarie nazionali, secondo quella norma del ‘compenso’ che aveva gio-cato un ruolo decisivo nella riflessione ottocentesca sul tradurre126.

rapporti intertestuali, in La traduzione dei testi classici. Teoria, Prassi, Storia. «Atti del Con-vegno di Palermo (6-9 aprile 1988)», a c. di S. Nicosia, Napoli 1991, 91-102; M. Mari, Momentidella traduzione fra Settecento e Ottocento, Milano 1994, passim.

121 Vincenzo Monti e la letteratura moderna, in Ritratti e disegni storici, III. Dall’Alfieri alLeopardi, Firenze 19632, 164.

122 L’espressione è ancora del Monti, che la usa nelle Considerazioni cit. 1032.123 Per le riprese della Commedia nella traduzione del Cassi (che gioca in modo virtuosistico

sui luoghi in cui la Commedia dipende dalla Farsaglia lucanea) e del Vanzolini (che additaalcune suggestive analogie linguistiche tra i due poeti, a dispetto della mancata conoscenza diLucrezio da parte dell’Alighieri), si vedano rispettivamente Nonni, La Farsaglia del Cassi cit.passim e Magnoni, Leggere Lucrezio con Dante cit. 97-119.

124 Sull’omologia funzionale che lega il meccanismo dell’arte allusiva ai tropi in generale,vd. G.B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario. Catullo Virgilio Ovidio Lucano, Torino19852, 13s.

125 Secondo un costume ben attestato fino a tutto il Settecento e oltre: sentenze moraleggiantidi ispirazione cristiana miranti ad adeguare i testi pagani alla sensibilità moderna abbondano, adesempio, nelle traduzioni omeriche del Cesarotti (in particolare nella seconda versione poetica,intitolata La morte di Ettore), per cui si veda M. Mari, Le tre Iliadi di Melchiorre Cesarotti, inMomenti della traduzione cit. 161-235.

126 L’esigenza di ‘compensare’ la perdita di elementi significativi del testo originale, già

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A.

v. 3 navigerum (scil. mare)A partire dal Renieri, risulta maggioritaria la traduzione-ricalco: navigerum127, neologismo

lucreziano occasionalmente ripreso nella letteratura posteriore (Marziale, Ausonio), è traslitteratoin «navigero», latinismo acquisito alla lingua letteraria a partire dalla traduzione dell’Odisseadel Pindemonte (XV 545). D’altra parte, sulla scia del Marchetti, che aveva oscurato l’ag-gettivo composto nel semplice «profondo», topico del mare, nell’Ottocento rifuggono dallatinismo il Leoni, il Mazzarella, il Cipriani, il Tolomei, lo Psaila, l’Elisei, l’Armaforte e ilLeardi: mentre i primi due optano per «navigabil», la soluzione «navigato», adottata da tuttigli altri, ripropone un modulo risalente all’Eneide del Caro (III 251 «rinavigando il navigatomare», dove il traduttore cinquecentesco aveva reso mediante la figura etimologica il semavirgiliano della ripetizione: rursus … remenso / … ire mari [III 143s.]). C’è poi anche chi,come il Merenda, annacqua il composto nella perifrasi esornativa («il mar che ha carco / dinavi il dorso»), che potrebbe avere il proprio modello diretto in Tasso, Gerusalemme Con-quistata XVI 55 «mentre il mar carco, e le minute arene / son di schiere, e di navi, e d’aureespoglie».

v. 3 frugiferentis (scil. terras)Il composto a terminazione participiale frugiferentis128, hapax quasi assoluto con una

probabile matrice enniana (cf. Ann. 510 Sk. terrai frugiferai)129, è conservato unicamente daltardo Menegazzi, che osa il probabile neologismo «frugiferente»130; appena più cauto era

presente nella trattatistica del Settecento (per cui vd. Claudia Fanti, Teorie della traduzione nelSettecento italiano. Note e discussioni, Bologna 1980, in part. 21ss.), fu particolarmente sentita,nella prima metà del secolo XIX, dagli esponenti della Scuola classica romagnola: questo spiegain gran parte una tipologia di traduzione che si propone di sostituire «alle grazie latine le grazieitaliane» (sono parole di Paolo Costa), e che, come ricorda il Ferratini, per «bilanciare l’originale,perfetto nelle sue intatte misure classiche», ricorre «a una lingua altrettanto pura e decantata, resadisponibile da una tradizione non meno nobile» (o.c. 191).

127 Sui composti in -fer e -ger, tra i più rappresentati in Lucrezio, vd. J.C. Arens, -Fer and-Ger. Their Extraordinary Preponderance among Compounds in Roman Poetry, «Mnemosyne»s. 4 III (1950) 241-262. Per l’elenco complessivo dei composti lucreziani si veda T. Lindner,Lateinische Komposita. Morphologische, historische und lexikalische Studien, Innsbruck 2002,276-278.

128 Per questa tipologia di aggettivi, di cui il poema offre diversi esempi (cf. tra gli altri, I945 suaviloquens, II 878 e V 789 pennipotens, II 942 omnituens), vd. il classico Françoise Bader,La formation des composés nominaux du latin, Paris 1962, 254-260 (Noms d’agent en -nt-: difrugiferens si parla a p. 259).

129 Il lessema lucreziano tornerà, e col medesimo referente, nel solo Iuvenc. II 549 (terrarumfrugiferentum).

130 Per questa tendenza a tradurre il novum verbum dell’autore antico con un vocabolo chesuoni parimenti nuovo nella lingua d’arrivo è d’obbligo il rinvio al Leopardi, che nello Zibaldone(luglio o agosto 1817) dedica interessanti osservazioni alla resa italiana di quei composti creati«a bella posta» dagli scrittori greci: «un’osservazione importantissima intorno alle traduzioni, eche non so se altri abbia fatta, e di cui non ho in mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte

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stato il Renieri, il quale aveva ripiegato su «fruttifero», latinismo composto pluriattestatodal Duecento in avanti. Nelle altre traduzioni il composto è in prevalenza soppiantato dalsemplice e più opaco «ferace», latinismo standardizzato nella lingua letteraria in relazionealla terra e dotato di un color lucreziano (cf. II 1098 terras … feraces); in alternativa,troviamo i più prosaici «fruttuoso» (Carrer, Cipriani, Psaila), «pingue» (Mazzarella, Elisei)e «ubertose» del Tolomei (e poi del Sartori, del Rapisardi e dell’Armaforte). Fanno ecce-zione il Merenda e il Leardi: il primo opta anche qui (come già nel caso di navigerum, vd.supra p. 446) per una circonlocuzione, «la terra / che di spiche s’adorna» (a margine sinoterà che nella traduzione i termini mare/terra con relativi epiteti compaiono in sequenzainvertita rispetto al latino); il Leardi sceglie la iunctura arcaizzante di matrice quattrocen-tesca «la di biade / terra altrice», già riattivata nell’Ottocento dal Pindemonte131.

v. 18 frondiferasque (scil. domos)Il composto (altre 2 occorrenze in Lucrezio: I 256 [silvae], II 359 [nemus]) si trovava

già nel teatro di Nevio (Trag. 22 R.3 frondiferos locos) e ritornerà nel solo Seneca tragico(Oed. 274 [nemora]). Benché dotato di una coloritura epicheggiante (cf. Pindemonte, OdisseaXX 338 «bosco frondifero»), il calco «frondiferi» non riscuote molta fortuna tra i volgarizzatori:lo troviamo infatti nel solo Rapisardi («case frondifere»). Le altre soluzioni lessicali sidispongono entro un arco sinonimico in cui trovano posto forme participiali di impiego perlo più prosastico («frondeggianti alberghi» traduce il Leoni, seguito alla lettera dallo Psaila),vocaboli dalla patina letteraria quali l’arcaizzante «fronduto» (Renieri) e l’allotropo «fronzuto»(Vanzolini, Cavagnari e Ferracini) e infine il più neutro «frondoso», adottato già nel Sette-cento dall’Allainig e poi molto sfruttato nell’Ottocento (Mazzarella, Carrer, Merenda, Cipriani,Tolomei, Sartori, Menegazzi, Elisei e Leardi, presso gli ultimi due nella iunctura «frondosialberghi» di cui offre esempi il Tasso delle Rime [1066,6 e 1069,9, in entrambi i casi alsingolare]). C’è poi chi (De Antonio e Armaforte), sull’esempio del Marchetti («boschiombrosi»), oscura la ricercata perifrasi lucreziana in una più generica determinazionepaesaggistica («foreste ombrose»), non priva, tuttavia, di risonanze poetiche132.

v. 29 fera moenera militiaiLa iunctura in questione (lett. «feroci doveri della guerra»), che ricompare quasi iden-

tica al v. 32 con variatio lessicale del determinante (belli fera moenera), esibisce una

volte noi troviamo nell’autore che traduciamo p.e. greco, un composto una parola che ci pareardita, e nel renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fatto questo siamo contenti.Ma spessissimo quel tal composto o parola comechè sia, non solamente era ardita, ma l’autorela formava allora a bella posta, e però nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nelloscritto come fanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle tante paroledell’Alfieri p.e. spiemontizzare ec. ec. Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato unaparola corrispondentissima proprissima equivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questaparola non è nuova e non fa in noi quell’impressione che facea ne’ greci» (Zibaldone, edizionecommentata e revisione del testo critico a c. di R. Damiani, Milano 1997, I 17).

131 Cf. Colonna, Hypnerotomachia Poliphili 31,2; Pindemonte, Odissea XIX 499-501 «d’uominie donne / su l’altrice di molti immensa terra / spavento io fui».

132 Oltre al Pindemonte, Odissea XIII 240, dove la iunctura torna identica, si vedano ancheBoiardo, Orlando Innamorato II 21,14 e Tasso, Gerusalemme Liberata XII 29.

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studiata patina arcaica (tanto nella grafia dittongata moenera quanto nella forma del genitivomilitiai) che conferisce solennità al dettato. Prima di Lucrezio il nesso munera militiai, checonoscerà un discreto impiego nella storiografia (Cesare, Livio e Tacito) e nell’epica tarda,compare nel frammento di una Menippea di Varrone intitolata Kosmotoruvnh. Peri; fqora'"kovsmou133. Ma veniamo ai traduttori. Mentre il Marchetti aveva concentrato la resa deldettato lucreziano, agglutinando le due espressioni lucreziane sinonimiche (vv. 29 e 32, vd.supra) nella locuzione topica «il fiero Marte» (capillarmente attestata dal Boccaccio alMonti), «i fieri ludi» del Leoni (riecheggiato dal Vanzolini e dal Tolomei con «il fiero ludodei brandi») presuppongono con ogni probabilità il celebre incipit delle Stanze polizianee134.A considerazioni analoghe si presta la metonimia «campi cruenti» del Cavagnari («de’campi / cruenti il nume, Marte armipossente», che rende assai liberamente quoniam bellifera moenera Mavors / armipotens regit), la quale mostra una rispondenza più che sospettacon un passo montiano (riecheggiato, a quanto pare, anche dal Manzoni)135. Gli altri tradut-tori si attengono per lo più al lessico marziale standardizzato nel registro epico-tragico,riattivando talora locuzioni di consolidato uso letterario: «il militar furore» (Renieri), «i feridella guerra travagli» (Mazzarella), «l’aspre guerresche fazïoni» (Carrer), «l’ire di guerra»(Merenda), «l’armi» (Cipriani), «l’empie fiamme di guerra» (Vanzolini), «il furore empiodi guerra» (Sartori), «gli acri studj dell’armi» (Rapisardi), «i ludi dell’armi» (De Antonio),«de le pugne le rabbie» (Menegazzi), «le crude opre di guerra» (Ferracini), «i giuochi aspridi guerra» (Psaila), «l’aspre militari fatiche» (Elisei), «strepito de l’armi» (Armaforte),«l’opre di guerra» (Leardi)136.

v. 33 armipotens (scil. Mavors)L’epiteto di Marte armipotens, già impiegato da Accio come attributo di Minerva

(Trag. 127 R.3), è poetismo caro, tra gli altri, a Virgilio, che lo applica sia ad eroi (Aen. VI839, Achille) che a dèi (IX 717, Marte). Nell’intento di preservare la caratura solennedell’espressione lucreziana, la maggioranza dei traduttori (Leoni, Mazzarella, Carrer, Vanzolini,Rapisardi, Cavagnari, Ferracini, Psaila, Armaforte, Leardi) opta per «armipotente» (anchenella variante «armipossente»), latinismo di origine trecentesca (Boccaccio, Teseida VII 32)tornato in auge nella poesia classicheggiante dell’Ottocento per opera del Monti e del Pindemonte(rispettivamente Iliade IV 151 e Odissea XXII 251), alle prese con l’arduo compito di

133 Si tratta del fr. 223 fera militiai munera belli ut praestarem (vd. Marcus Terentius Varro.Saturae Menippeae, hersg., übers. und komm. von W.A. Krenkel, St. Katharinen 2002, 394-398), dovesia fera che militiai risultano correzioni del Palmerius rispettivamente in luogo delle lezioni sera emilitia in, tràdite nei codici di Nonio (538,20s. M. = 863 L.); militia si legge viceversa nell’edizionedi Buecheler (Petronii Saturae rec. F.B. Adiectae sunt Varronis et Senecae Saturae similesquereliquiae ex ed. sext. anni MDCCCCXXII a Guilelmo Heraeo cur. rep. et suppl., Berolini 1958).

134 Stanze I 1 «Le gloriose pompe e’ fieri ludi / della città che ’l freno allenta e stringe / amagnanimi Toschi». Ma va detto che la stessa iunctura compare anche in due opere del de’Medici (De summo bono 1,93 e Selve 2,11) pressapoco coeve a quella del Poliziano.

135 Mascheroniana 3,139s. «su i cruenti suoi campi più non freme / di Marte il tuono»;Adelchi (At. 3, Coro 65).

136 Per fermarsi ad un unico esempio, «strepito dell’(d’/de l’) armi» ricorre diffusamente, siain prosa che in poesia, dal Boccaccio (Filocolo I 17) al D’Annunzio (Elegie romane, FelicemNiobem! 20).

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tradurre in italiano gli epiteti formulari omerici137. Retaggio della dizione arcaica è purel’altro latinismo, «belligero»138, adottato dal solo De Antonio («il belligero Iddio MarteGradivo»): qui il teonimo entra in un cumulo di epiteti altisonanti tra cui spicca il latinismo«Gradivo», attributo topico di Marte sin dal Cinquecento139, già precedentemente adottatodal Leoni e dal Tolomei («Gradivo armipotente»). All’artificiosa pesantezza del compostoaltri traduttori preferiscono ora (Renieri, Menegazzi) la circonlocuzione di memoria alfieriana«possente in armi» (cf. Polinice at. 1, sc. 4, v. 264), ora il latinismo «bellicoso» (Elisei e,in unione con «armipotente», Cipriani), che, sempre in riferimento al dio della guerra, vantadiversi esempi nella lingua poetica (dal trecentesco Serdini [15,40] al Pindemonte [OdisseaVIII 353]). Armipotens è invece del tutto soppresso nel Sartori, che converte teonimo erelativo epiteto nella locuzione «dell’armi il Dio», la cui trafila corre dal Tassoni (La sec-chia rapita II 56) al Monti (Iliade V 587), passando per il Marino (Adone I 2, etc.) e l’Alfieri(Satire 10,16).

Loci di interpretazione dubbia:1) La voce concelebras (v. 4), qui riferita all’azione vivificatrice che Venere-voluptas

esercita sulla triade topica cielo/mare/terra, è stata variamente intepretata. A partire dal Pius(1511)140, editori e commentatori hanno inteso il vocabolo ora nel senso etimologico di«popoli», «affolli di creature» (così il Lambino [1564]), con cui il verbo è certamenteimpiegato in II 344s. (variae volucres, laetantia quae loca aquarum / concelebrant)141, orain quello più ampio, comprensivo anche del primo, di «vivifichi», «riempi della tua presenza

137 La questione di come rendere adeguatamente la formulità omerica, dibattuta sin dalSettecento (dai francesi Perrault e La Motte agli italiani Salvini, Maffei, Cesarotti), coinvolseanche i principali traduttori ottocenteschi di Omero, dal Monti, al Foscolo e al Pascoli, i qualiadottarono soluzioni non univoche: per il Monti, incline a sostituire il composto con aggettivisemplici, esornativi e di risonanza letteraria, vd. M. Mari, Introduzione all’Iliade montiana, inMomenti della traduzione cit. 347-392: 362ss.; per il Foscolo si veda A. Bruni, Foscolo tradut-tore del primo canto dell’Iliade, «Filologia e critica» IV (1979) 280-321: 308s.; per il Pascoli,le cui traduzioni perseguono «la rivitalizzazione semantica» dell’epiteto, recuperandone «l’im-magine originaria, oblitterata nel grigiore della lingua comune», vd. A. Traina, Il latino delPascoli. Saggio sul bilinguismo poetico, Firenze 19712, 170-172 e Retractationes Pascolianae,«Rivista Pascoliana» XV (2003) 181 (con bibliografia). Di tutti e tre i traduttori si occupa, conrisultati invero deludenti, D. Zoppi, I traduttori di Omero e la formularità, «AFLM» XVI (1983)447-482.

138 «Belligero Marte» si trovava nel Boccaccio (Comedìa delle ninfe fiorentine XXXVIII15) e nella quattrocentesca Hypnerotomachia Poliphili del Colonna (6,8; 11,3; 28,3).

139 Così nell’Ariosto (Cinque canti 1,98) e nella Traduzione delle deche di Tito Livio diJacopo Nardi (1554,7; vd. GDLI VI 1011), ma più di frequente «Gradivo» è impiegato in sosti-tuzione del teonimo (cf. e.g. Marino, Adone XII 84; Redi, Bacco in Toscana 649; Parini, Il giorno[II red.], Meriggio 359; Pindemonte, Odissea VIII 466; Monti, Musogonia 577 e Iliade II 840).

140 «Auges tuo dulci initu: ut ita multiplicata celebria sint et populosa. Vel concelebras,frequentas: penetras enim in viscera maris et in terras: afflatuque tuo feminali mare terramquenon minus auges quam laetificas», ad l.

141 Così anche il ThLL IV 18, che registra entrambi i passi lucreziani sotto la prima acce-zione di concelebro «frequentare, inhabitare, complere».

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fecondatrice», il quale pare suggerito alla lontana da un passo di Nonio142. Per la primasoluzione, accreditata dal Creech (1695)143, propende, fra i moderni, l’Ernout («toi par quisous les signes errants du ciel, la mer porteuse de vaisseaux, les terres fertiles en moissonsse peuplent de créatures»), mentre la seconda, più fortunata a partire dal Munro («thegoddness fills at once with her presence […] this sense is therefore more poetical than, andalso implies, that of peopling») è stata recepita, tra gli altri, dal Giussani («riempi di te; tidiffondi; sei la vita di»), dal Bailey («who [Venus] fillest with thy presence»), dal Pizzani(«riempi della tua presenza»), dal Fellin («désti la vita»), dal Rouse (che traduce «fille withyourself»), dal Giancotti (il quale suggerisce di tradurre «dovunque avvivi della tua pre-senza»)144.

Fra i traduttori italiani, merita di essere menzionato il Marchetti, che in questo caso nonsi limita a seguire il commento del Creech, ma trascrive quasi alla lettera e ingloba nellatraduzione la citata nota esegetica del reverendo inglese («d’animai d’ogni specie orni [ilmar e tutta la terra]», con cui consuona anche la posteriore versione dell’Allainig, «riempidi viventi»). Fra i volgarizzatori ottocenteschi, solo un’esigua minoranza si accontenta diun’unica forma verbale: di norma, infatti, la voce concelebras è amplificata in dittologiesinonimiche e persino tricola verbali (Armaforte, vd. infra). L’esegesi di concelebrare nelsenso di «popolare» trova riscontro nel Mazzarella («allieti di popolo»), nel Merenda («po-poli»), e poi soprattutto dal Rapisardi in avanti, ossia nel De Antonio («popoli ed ornid’animali e piante») e nello Psaila («popoli il mar […] di pesci, / di fruttüose biade orni laterra»), dove l’impiego di «orni» rinvia con sicurezza al precedente marchettiano (vd. supra);viceversa, più sbilanciate verso la seconda opzione esegetica risultano le traduzioni «fecon-di, e colmi» (Renieri), «fecondi» (Carrer, seguito dal Cipriani e dall’Elisei), «empi di tuavirtù» (Vanzolini145), «fai di vita festanti» (Tolomei), cui farà eco parziale «empi di vita»(Cavagnari), e ancora «del tuo sguardo fecondi» (Sartori), «di vita allieti» (Ferracini), «fe-condi» (Leardi). D’altra parte, se «famosa (la terra) rendi» del Leoni deriva da un palese

142 Il quale chiosava concelebrare con commovere ([274,32 M. = 421 L.]). Per questa secon-da opzione propende anche il Lewis-Short, che registra il nostro passo sotto il significato «to fill,animate, enliven, cause to abound», suggerendo la seguente traduzione «who hast filled with life».

143 «Clarius vero, reples et exornas varia animantium foetura», ad l.144 Per cui vd. rispettivamente Lucrèce. De la nature, texte ét. et trad. par A. Ernout, I-II,

Paris 19242; T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex. Ed. with notes and transl. byH.A.J. Munro, I-III, Cambridge 1886 [Editio maior], ad l.; T. Lucreti Cari De rerum natura librisex. Rev. del testo, comm. e stud. introd. di C. Giussani, I-III, Torino 1896-1898, ad l.; Bailey,o.c. ad l.; Lucreti de rerum natura locos praecipue notabiles coll. et illustr. H. Paratore, comm.instr. H. Pizzani, Romae 1960, ad l.; Lucrezio. Della natura, a c. di A. Fellin, Torino 1963;Lucretius. De rerum natura, with an engl. transl. by W.H.D. Rouse. Rev. with new text, introd.,notes, and index by M.F. Smith, London 1975; F. Giancotti, Religio, natura, voluptas. Studi suLucrezio, Bologna 1989, 367.

145 La soluzione «empi di tua virtù» del Vanzolini sembra tenere presente, a sua volta, unpasso dell’Adone mariniano, e più precisamente un’invocazione a Venere (XVI 64) che è tradu-zione pressoché letterale dell’ipotesto lucreziano: «luce del terzo ciel, pietosa diva, / d’ogni esser,d’ogni ben fonte fecondo, / vivo e vital principio onde deriva / quant’ha di bel, quant’ha di dolceil mondo, / che dela tua virtù generativa / empi l’aria, la terra e ’l mar profondo, / anime e corpi,misti ed elementi».

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fraintendimento del vocabolo lucreziano (inteso nel senso di «laudibus efferre», ThLL III746), più difficile è dire quale interpretazione accolgano il Menegazzi, con il suo fantasioso«susciti a nozze», e l’Armaforte, che addirittura triplica il verbo lucreziano rifondendosoluzioni già adottate dai predecessori («empiendo di te, popoli e abbelli»).

2) Spetta all’Ernout – è cosa nota – il merito di avere riconosciuto nella discussalocuzione ferae pecudes (v. 14) una coppia polare asindetica la quale designa «gli animaliselvaggi e gli animali domestici» sensibili al fascino di Venere-voluptas146. L’interpretazio-ne avanzata dallo studioso nel 1924, e in seguito accolta dalla maggioranza degli editori ecommentatori lucreziani, fra cui il Bailey, ha segnato una svolta decisiva rispetto all’esegesiprecedente147: fino a tutto l’Ottocento, infatti, gli studiosi si dividevano sostanzialmente trala posizione del Creech (1695), il quale, contro l’emendamento ferae <et> pecudes propostodal Bentley, aveva inteso ferae pecudes come ossimoro costituito da un aggettivo con valorepredicativo e da un sostantivo (nel senso di pecudes Venere efferatae; così anche Giussani,Pascal, Merril), e la posizione del Wakefield (1796-1797), il quale aveva corretto il testotràdito in fere pecudes («gli animali in generale», seguito dubitosamente dal Munro, ad l.)148.D’altra parte, ampio credito ha riscosso, sino al Novecento149, l’esegesi di ferae pecudes =

146 Per la puntuale disamina di tutta la questione, di cui ci limitiamo a ricordare le tappesalienti, si rinvia a V. Citti, In principio erat Bentley, in La parola ornata. Ricerche sullo statutodelle forme nella tradizione poetica classica, Bari 1986, 103-127. L’esegesi dell’Ernout è oraaccolta nel ThLL X/6 956.

147 Colgo l’occasione per segnalare un fatto sfuggito, a quanto pare, agli studiosi lucrezianiche si sono occupati del problema: prima dell’Ernout, la proposta di considerare ferae pecudescome asindeto era stata avanzata, seppur con cautela e senza la minuta discussione che le riser-verà lo studioso francese, da J.H. Warburton Lee nell’edizione commentata dei primi tre librilucreziani apparsa a Londra nel 1884 e ristampata nel 1888 (T. Lucreti Cari De rerum natura,libri I-III. Ed. with introd. and notes by J.H. W.L.): nella breve nota di commento ad l., subitoprima di accreditare la correzione del Wakefield fere (che per altro è erroneamente segnalatacome «MSS reading»), lo studioso afferma: «the analogy of 163 (armenta atque aliae pecudes,genus omne ferarum) suggests that ferae pecudes might be an instance of asyndeton – “beasts andcattle”», concludendo però che «this is perhaps inadmissible with two words, though it is commonwith three or more» (123). Ma va detto che già l’Eichstädt, nel primo tomo della sua edizionelucreziana del 1801 (Titi Lucreti Cari de rerum natura libri sex ad optimorum exemplariumfidem emendati cum Richardi Bentleii animadversionibus, Gilberti Wakefieldi praefationibus etcommentariis integris caeterorumque interpretum praestantissimorum observationibus selectisedidit suas notas et indices copiosissimos adiecit H.C.A. E., I, Lipsiae 1801), aveva stampatoferae, pecudes, tant’è che i due vocaboli sono registrati separatamente nell’Index finale.

148 Le incertezze e oscillazioni esegetiche relative al nostro nesso sono ben testimoniate dallanota ad l. nell’edizione dell’Havercamp, Lugduni Batavorum 1725; ma la chiosa è dovuta allamano del Preiger): «cur ferae, omissis mansuetis? an quia feras omnes simpliciter bestias dixit,oppositione ad homines facta? [...] an, quia amore omnes efferantur mansuetae pariter ac ferae?».

149 P. Ferrarino, Laus Veneris, in AA.VV., Ovidiana, Paris 1958, 301-316 (ora in Scrittiscelti, Firenze 1986, 305-319); Lucreti de rerum natura locos praecipue notabiles coll. et illustr.H. Paratore, o.c. ad l.; E. Flores, La composizione dell’inno a Venere di Lucrezio e gli Inniomerici ad Afrodite, «Vichiana» n.s. VIII (1979) 237-251.

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«gli animali selvaggi» (come se fosse una perifrasi per ferae), che dà a pecudes il significatogenerico di omnia animalia (cf. Nonio, 158,31s. M. = 233 L.)150.

Veniamo ai nostri traduttori. Trattandosi di versioni prive, in linea generale, di noteesplicative, nella maggioranza dei casi risulta problematico accertare quale interpretazioneessi abbiano seguito: fa eccezione l’Armaforte, il cui «il gregge disfrenato» presuppone conogni evidenza l’esegesi del Creech (vd. supra). Quanto agli altri, i più si limitano a trasporrein modo pressoché letterale i due vocaboli, accedendo così a iuncturae ossimoriche (costi-tuite ora da due sostantivi, ora da un nome più attributo) quali «il gregge de le belve» delLeoni, «feraci armenti, e greggi» del Renieri, «le quadrupede fere» del Mazzarella (di cuiè semmai apprezzabile il tentativo di tradurre ‘Lucrezio con Lucrezio’, forse sulla base dimore ferarum / quadrupedumque … ritu [IV 1264s.]), «il gregge ferin» del Carrer (e delCipriani), «il gregge feroce» del Merenda, «il selvaggio armento» del Tolomei (al pluralenel Ferracini)151. Altri si limita a tradurre uno solo dei due termini del binomio lucreziano,più spesso pecudes (ma il Vanzolini, il Sartori e il Leardi traducono rispettivamente «ognifera», «selvagge fere» e «le vaganti belve», possibile ricordo, questo ultimo, della iuncturalucreziana montivaga fera di I 404152), omettendo del tutto l’altro: abbiamo così «le greggi»del Rapisardi (al singolare nel De Antonio), «le mandre» del Cavagnari, «gli armenti» delMenegazzi, «il lanuto bestiame» dello Psaila153, sino a «le agnelle» dell’Elisei.

B.

I traduttori lucreziani esaminati esibiscono una certa familiarità con il thesaurus dellaletteratura italiana e con alcuni auctores in particolare: a ben vedere, nello scrittoio deinostri volgarizzatori l’antico si sposa col moderno, sicché, accanto agli immancabili Petrarca,Ariosto e Tasso – pilastri del canone classicistico montiano – spiccano alcune voci poeticheillustri del panorama ottocentesco, quali Leopardi e Carducci; di qui i traduttori mutuano

150 Ma vero è che quest’ultima proposta si fonda su due passi di Varrone (RR II 1,5 in locismultis genera pecudum ferarum sunt aliquot) e Columella (IX 1 ferae pecudes ut capreoli dammaequenec minus orygum cervorumque genera et aprorum) in cui la locuzione ferae pecudes designa,in un caso, animali domestici che vivono allo stato selvatico, nell’altro, animali selvatici allevatiin riserve. Precisazioni in Citti, o.c. 114s.

151 Sebbene nella lingua italiana i lessemi ‘armento’, ‘fera (fiera)’, ‘gregge’ possano desi-gnare per estensione anche «gli animali in genere» (GDLI, rispettivamente I 669s., V 950, VII29s.), illustri esempi letterari – fra cui Petrarca, RVF 128,40 «fiere selvagge et mansuete gregge»,Gambara, Rime 43,21s. «fiere isnelle e ben pasciuti armenti / scherzar si veggion per i campiinsieme», Tasso, Rime 723,27-29 «la lor doppia virtute / infonde ardire e forza / ne gli augei, nele fere, e ne gli armenti», Il Mondo creato VI 101s. «e ’nsieme / con le fere produca (la terra)armenti e gregge» – inducono a ritenere che le traduzioni lucreziane riportate sopra accostinoimpropriamente sotto il profilo semantico vocaboli che nella langue letteraria erano divergenti senon antitetici.

152 E «le fiere» reca anche la versione settecentesca a firma dell’Allainig.153 Locuzione che sembra alludere al lucreziano lanigerae pecudes (II 318, 662; V 866; VI

1237), ma attraverso il filtro linguistico dell’ariostesco «gregge lanuto» (Orlando furioso XXXI58), ripreso anche dal Tasso (Il Mondo creato III 899).

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soluzioni linguistiche collaudate e garantite che, mentre innalzano il tono della traduzione,ne certificano l’appartenenza ad una precisa lignée letteraria. Va detto, tuttavia, che unasiffatta prassi traduttoria, sensibile alle suggestioni della tradizione poetica nazionale, nonesclude occasionali esempi di aderenza letterale o iper-letterale al testo latino, quale siregistra, ad esempio, nella resa degli aggettivi composti lucreziani e, più in generale, nellapresenza copiosa di latinismi. Gli echi letterari disseminati nel dettato, il cui grado diintenzionalità non è sempre accertabile, appaiono distribuiti con una frequenza disuniformenelle singole traduzioni e interessano porzioni testuali di estensione variabile, dalla singolalocuzione al verso intero. Considerata la natura capillare del fenomeno e l’importanza cheesso assume ai fini dell’interpretazione di questi testi (vd. supra pp. 444s.), si è ritenuto diintegrare la documentazione già fornita con una campionatura supplementare, relativa aluoghi del proemio sin qui trascurati.

La clausola di matrice enniana lumina solis (v. 5; cf. Ann. 265 Sk.), che designa la«luce della vita» cui accedono le creature (genus omne animantum) al momento di nascere(exortum), nella versione del tardo Elisei («a l’aprico / raggio di Febo il novo parto esulta»)acquista una vernice mitologica sconosciuta all’originale, in virtù di una puntuale citazioneleopardiana (Inno ai Patriarchi 32-34 «e gl’inarati colli / solo e muto ascendea l’apricoraggio / di febo»). Altrove la mediazione della lingua poetica italiana esplicita ciò che inlatino è taciuto o sottinteso, come nell’esempio seguente tratto dall’Armaforte154: al v. 6 iventi (menzionati da Lucrezio senza ulteriore specificazione), che con la loro fuga annun-ciano l’avvento di Venere-primavera, diventano i «brumal soffi» di mariniana memoria(Adone VII 128 «soffi gelidi brumali»). Altrove la reminiscenza letteraria è facilmenteinnescata da topoi universali, diffusi tanto nella letteratura latina che in quella italiana: così,il verso lucreziano che descrive l’epifania della bella stagione (v. 10 nam simul ac speciespatefactast verna diei) deve aver suscitato nel Merenda il ricordo di un’altra primavera (edi un altro Zefiro) al cui ritorno è consacrato un celebre e fortunato incipit petrarchesco(«come più tosto primavera il dolce / tempo rimena», di contro a RVF 310,1s. «Zephirotorna, e ’l bel tempo rimena, / e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia»155)156. Proseguendo, nelDe Antonio, la iunctura allitterante «fecondo fiato», che impreziosisce fonicamente il latinogenitabilis aura (v. 11) oscurando però il valore causativo dell’aggettivo157, parrebbe ispi-

154 Il quale risulta particolarmente corrivo agli innesti e alle reminiscenze poetiche, comedimostra anche la traduzione di rapidos amnis (v. 15) con «le correntìe di rapide fiumane», cheriprende quasi alla lettera un componimento del Giusti (Poesie, A Gino Capponi 2 «correnti dirapide fiumane»).

155 L’attacco petrarchesco, oggetto di molteplici allusioni (vd. Ariosto, Rime 61,1; Tasso,Rime 1547,86), riecheggia formalmente l’incipit catulliano iam ver egelidos refert tepores (46,1),il quale si innestava, a sua volta, su ben precisi modelli letterari ellenistici, in particolare epigrammatici,fra cui Leonida di Taranto (AP X 1 [= 85 G.-P.],1s. oJ plovo" wJrai'o", kai; ga;r lalageu'sacelidwvn / h[dh mevmblwken cwj carivei" Zevfuro"), da cui dipende, ad esempio, Antipatro diSidone, AP X 2 (= 41 G.-P.); cf. The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams, ed. by A.S.F. Gow-D.L. Page, Cambridge 1965, II 385s.

156 Analogamente, illustri precedenti letterari ha pure la clausola «il nuovo Aprile» delTolomei, a monte della quale stanno Tasso, Rime 121,4 e 1674,34; Marino, La Sampogna, Idillio12,241; Carducci, Rime nuove 45 (Vignetta), 4 e 68 (Idillio maremmano), 1.

157 Il valore attivo e propriamente causativo di genitabilis, ‘che fa generare, che fa nascere

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rata alla descrizione mariniana della Primavera in Adone VII 157 «Altra (sorella) spirandoognor fecondo fiato / ride con giovenil faccia serena» (nel contesto di una processione dellestagioni). Ancora nel Merenda, la definizione degli uccelli come «dipinti dell’aria abitatori»(v. 12 aeriae … volucres) non si spiega se non risalendo all’archetipo virgiliano pictaevolucres (Georg. III 243 e Aen. IV 522), forse filtrato da alcuni intermediari italiani (Poliziano,Stanze I 90 «augelletti dipinti»; Tasso, Gerusalemme Liberata II 96 «pinti augelli» e soprat-tutto Marino, Adone XX 7 «dipinti del’aria alati figli»)158. In corrispondenza del v. 15, bendieci traduttori (Allainig, Leoni, Renieri, Mazzarella, Carrer, Vanzolini, Tolomei, Sartori,Psaila, Leardi) duplicano, mediante locuzioni sinonimiche, la voce lepos contenuta nellalocuzione capta lepore159, dove il nome verbale capta – accordato proletticamente con ilquamque del verso successivo (vd. Munro, ad l.) – esprime la condizione dell’animalesoggiogato dal fascino di Venere. Tale duplicazione lessicale non costituisce un gratuitoartificio retorico ma riflette, piuttosto, una precisa situazione testuale: per lungo tempo, apartire dalla Iuntina curata dal Candidus (ma non nella seconda Aldina del Navagerius[1515]), le edizioni lucreziane hanno continuato a stampare, in corrispondenza del v. 15,l’esametro illecebrisque tuis omnis natura animantum, fortunata interpolazione umanisticavolta, con ogni probabilità, a dare un soggetto esplicito al participio capta (Bailey, ad l.)160.Scendendo nel dettaglio delle traduzioni, la coppia nominale «vezzi e lusinghe» adottata siadal Renieri che dal Carrer possiede una duplice motivazione: anzitutto agglutina le soluzionilessicali già operate dal Marchetti («teneri tuoi vezzi lascivi»; e «vezzi», per lepos, tornerànel Rapisardi, nel De Antonio, nel Ferracini e nello Psaila) e dal Leoni («tue lusinghe»); altempo stesso, la nostra iunctura vanta una cospicua serie di antecedenti letterari che pote-vano legittimarne l’impiego (cf. Tasso, Gerusalemme Conquistata XIII 27; Il Mondo creatoV 897; Marino, La Sampogna, Idillio 3,397).

L’iterazione dell’avverbio cupide al v. 20 (cf. v. 16 te sequitur cupide quo quamqueinducere pergis) sottolinea il trasporto con cui gli animali accolgono l’arrivo di Venere e sidispongono a perpetuare la stirpe. La quasi totalità dei traduttori, eccezion fatta per ilFerracini («con desio»/«con desio»), predilige la variatio nella resa dei due avverbi, per

la vita’ (derivante dall’originaria funzione strumentale degli aggettivi in -bilis, su cui cf. C. DeMeo, Note semantiche sulle formazioni latine in -bilis, Bologna 1972, ora in Varia selecta,Bologna 1994, 87-108) è meglio conservato nella perifrasi del Mazzarella, «altor di vita», o nella«brezza fecondatrice» del Merenda.

158 Su questa espressione topica vd. V. Citti, Gli augelli pinti, in La parola ornata cit.139-141.

159 «Allettato / dalla tua grazia e dalle tue lusinghe» Allainig; «da tua beltà, da tue lusinghepreso» Leoni; «dai vezzi, e le lusinghe tue / […] commossa» Renieri; «a la tua festa, / ai vezzituoi rapita» Mazzarella; «a tuoi vezzi preso e alle lusinghe» Carrer; «alle tue grazie presa e a’blandimenti» Vanzolini; «di tuoi molli incanti / e di tue gioje […] annodi» Tolomei; «dalle grazietue, / dai tuoi vezzi […] presa» Sartori; «da bellezza indotto / e dai tuoi vezzi» Psaila; «alle tuegrazie preso e alle lusinghe» Leardi.

160 Per la genesi di questa interpolazione tradizionalmente ascritta al Marullo (ma ancora ilLambino ne difendeva la genuinità, sentenziando «mihi videtur versus Lucretio dignissimus»), sileggano le precisazioni del Munro nella Introduction 8s. (dove è avanzata l’ipotesi che l’autorefosse il Poliziano).

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scongiurare il pericolo di pesanti e monotone ripetizioni161: tra le varie soluzioni prescelte,spiccano la locuzione «con accesa brama» del Carrer, per la quale si può richiamare Tasso(Rinaldo VIII 3) e l’arcaismo «disïosamente/desïosamente» (già adottato dal Cipriani e dalVanzolini e poi ripreso dal Menegazzi e dall’Elisei), avverbio di primogenitura dantesca(Conv. Canz. 2,1s. «Amor che nella mente mi ragiona / della mia donna disïosamente»)ripreso dal Boccaccio (Rime I 7,8) e dai narratori toscani (Bandello, Novelle 3,27; Firenzuola,Ragionamenti, Dedica 2). Per restare in tema di omaggi a Dante, non si può non menzionareil preziosismo «s’infuturi (ogni schiatta)» del Tolomei, composto verbale di primogenituradantesca162, occasionalmente recuperato tra Otto e Novecento163 e qui riattivato per tradurre,sempre al v. 20, il lucreziano saecla propagent164 (dove la forma sincopata saecla ricorrenon già nell’accezione cronologica di ‘generazioni’ ma come sinonimo di genera, ‘razze’).

Talvolta il traduttore rimodula in maniera nient’affatto lieve l’ordito del testo lucreziano,come accade nei versi del Cavagnari «e fora, orbato / del tuo soccorso, arida landa e muta /e inamabile il mondo», a fronte di nec sine te quicquam dias in luminis oras / exoritur nequefit laetum neque amabile quicquam (vv. 22s.): dettaglio interessante è che il nesso «mutalanda», che non ha precedenti, riapparirà a pochi anni di distanza nel Carducci (al quale iltraduttore inviò copia del proprio lavoro; vd. supra n. 85) e nel Pascoli165. Il giro «graziaperenne a’ detti miei comparti», con cui il Leoni rende aeternum da dictis, diva, leporem(v. 28), riproduce un modulo arcaico e letterario attestato, tra gli altri, nell’Ariosto (Orlando

161 Ma non mancano nemmeno casi di ripetizioni prive di riscontro nell’originale e introdot-te a scopo di enfasi: un esempio è offerto dai versi del Carrer «e nulla / esce al dì senza te, senzate nulla / v’ha d’amabile e lieto» (cf. vv. 22s. nec sine te quicquam dias in luminis oras / exoriturneque fit laetum neque amabile quicquam), dove l’epifora di «nulla» è potenziata dalla geminatio«senza te, senza te», non nuova nella lingua letteraria (cf. Ariosto, Orlando Furioso XLIII 171«Solo senza te son; né cosa in terra / senza te posso aver più, che mi piaccia» e Cesarotti, OssianV Temora 1,362-364 «senza te la pugna / combatterassi, senza te nel bosco / le lievi dammeinseguiransi»).

162 Tra i numerosi lessemi verbali di innovazione dantesca, particolare rilevanza quantitativae stilistica possiedono quelli con prefisso in-, modulo formativo presente sin dalla lingua delleorigini che Dante estende a sostantivi, aggettivi, numerali, avverbi, pronomi personali e posses-sivi, tra cui «indiarsi» (‘assimilarsi a Dio’, di Par. IV 28), «imparadisare» (‘innalzare a gioieparadisiache’ di Par. XXVIII 3), «insemprarsi» (‘durare per sempre’ di Par. X 148), «indovarsi»(‘trovar luogo’ di Par. XXXIII 138), tutti non a caso dalla terza cantica, che risulta infatti la piùricca di neologismi; sui nova verba danteschi e la loro fortuna nella tradizione letteraria succes-siva si veda il classico P.A. Di Pretoro, Innovazioni lessicali nella «Commedia», «Atti dell’Ac-cademia Nazionale dei Lincei» CCCLXVII (1970) 263-297, il quale ha censito 84 probabilivocaboli di nuovo conio, tra lessemi verbali (70), nominali (13) e aggettivali (1), e altresìG. Ghinassi, Neologismi, in Enciclopedia Dantesca IV (1973) 38.

163 Par. XVII 98 «s’infutura la tua vita», di cui serberanno memoria, tra gli altri, D’Annun-zio (Maia, Laus vitae 20,75 «sculta rupe che s’infutura» e Alcyone, L’Alpe sublime 42) e Montale(Satura, Milano 1971, 49 «il tempo s’infutura nel totale»).

164 Non si può escludere che proprio l’espressività del neologismo dantesco abbia agevolatoil bizzarro conio «s’aggioconda» – hapax assoluto stando alla LIZ e al GDLI – qui adibito dalTolomei per tradurre fit laetum (v. 23).

165 Carducci, Rime nuove 38 (Brindisi d’aprile), 11s.; Pascoli, Poesie varie 31 (Astolfo), 157s.

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Furioso XVII 113 «e di sua grazia tanto gli comparte») e nel Tasso (Gerusalemme Conqui-stata I 6 «e tu l’alte sue grazie a me comparti»; Rime 1390,13 «tanto più di tua grazia a mecomparti»).

Veniamo ora all’icastico quadro delle due divinità contenuto nei versi finali. Nellatraduzione dello Psaila, l’«insanabil piaga» d’amore di cui Marte è vittima (v. 34 aeternodevictus vulnere amoris, laddove la gran parte dei traduttori mantiene l’attributo lucreziano«eterno») mostra un inequivocabile colore alfieriano (tre occorrenze nelle tragedie, di cuidue in clausola: Don Garzia at. 3, sc. 1, v. 142; Sofonisba at. 2, sc. 2, v. 257, Mirra, at. 1,sc. 1, vv. 146s.). Ancora. Il verso che ritrae Marte in estatica contemplazione delle graziedi Venere (v. 36 pascit amore avidos inhians in te, dea, visus) offre al Renieri l’occasionedi un raffinato intarsio intertestuale: l’espressione «li famelici sguardi in te di amore /pasce» riecheggia da vicino i versi con cui Tasso, lettore e postillatore di Lucrezio, avevaritratto, nel canto XVI della Liberata, le figure di Armida e Rinaldo, novelli Venere e Marte:18s. «Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle / le posa il capo, e ’l volto al volto attolle,/ e i famelici sguardi avidamente / in lei pascendo si consuma e strugge. / S’inchina, e i dolcibaci ella sovente / liba or da gli occhi e da le labra or sugge». Il medesimo verso lucrezianonella traduzione dell’Elisei suona «in te fissi gl’immoti occhi bramosi, / d’amor li pasce»:qui, soppresso ogni riferimento alla bocca del dio (inhio, lett. ‘sto a bocca aperta’, ‘aneloansiosamente’), l’immagine verte tutta sul motivo della visione, grazie all’inserzione dellaiunctura «immoti occhi», ampiamente collaudata nel registro poetico166. Petrarchismi codi-ficati nella lingua poetica sono sia «soavi accenti» (RVF 283,6)167 con cui il Leoni, il Tolomei(nella variante lessicale «soavissimi») e il Ferracini traducono suavis loquellas (v. 39), sia«soavi parolette» (adattamento di RVF 183,2 «le soavi parolette accorte»168) del Vanzolinie più tardi dello Psaila, soluzione, questa, forse agevolata da un’errata interpretazione del-l’astratto verbale loquella (alternante con loquela) quale diminutivo169; è poi ancora il Can-zoniere petrarchesco (26,10) che si intravvede dietro ai «dolci amorosi detti» del Menegazzi.Le «dolcissime querele» («lamenti, espressioni lamentose e querule», GDLI XV 116-118),che, nella versione del Sartori, rimpiazzano impropriamente le suavis loquellas di Venere,costituiscono un omaggio alla poesia del Tasso (Rime 303,8) e del Parini (Il Giorno [II red.],Meriggio 157). Infine, il giro di frase petens placidam Romanis, incluta, pacem (v. 40),saldato dalla triplice iterazione della labiale, nel De Antonio costituisce il punto di partenza

166 La trafila corre dall’Ariosto (Cinque canti I 90) all’Ottocento (Carducci, Rime e ritmi 8[Bicocca di S. Giacomo], 125), passando per il Caro (Eneide IV 501) e l’Alfieri (Agamennone at.4, sc. 5, v. 236). Ma «immoto», riferito a Marte, si trovava già nella traduzione del De Antonio(«pende immoto / dal labbro tuo divin»).

167 Vd. e.g. Pulci, Morgante XXVII 155; Sannazaro, Arcadia, Ecloga 11,47; Tasso, Rime35,9, etc.

168 Una ripresa puntuale dell’intera iunctura petrarchesca si trovava nel Tasso lirico (Rime300,1-3 «Quante soavi parolette accorte / a’ miei desiri intrica / la mia gentil guerriera»); perriecheggiamenti parziali vd. anche Trissino, Rime 59,69; Pindemonte, Odissea I 82s. («con soavie molli / parolette»).

169 Per l’oscillazione grafica -l-/-ll-, che interessa gli astratti con suffisso -ela (ad es. que-rela, suadela, nitela), da ricondursi all’influsso delle formazioni diminutive in -ella, vd.B. Zucchelli, Studi sulle formazioni latine in -lo- non diminutive e sui loro rapporti con i diminutivi,Parma 1969, 34 n. 14.

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per un virtuosistico collage di brani d’autore («perché taccia il grido / tristo di guerra e leRomulee genti / pace sotto le bianche ali raccolga»): la prima parte sembrerebbe contami-nare il topos poetico del «grido di guerra» (Caro, Eneide VIII 62s.; Alfieri, Saul at. 3, sc.4, v. 300; Monti, Iliade IV 410; Carducci, Juvenilia 89 [Magenta], 4) con il manzoniano «iltristo grido / della vendetta» (Manzoni, Il Conte di Carmagnola at. 5, sc. 5, vv. 275s.);quello che segue è ripresa letterale del leopardiano Sopra il monumento di Dante che sipreparava in Firenze (1s. «Perché le nostre genti / pace sotto le bianche ali raccolga»).

Se inequivocabile è poi la primogenitura petrarchesca dell’espressione «il chiaro germe(de’ Memmi)»170 con cui il Carrer e il Sartori traducono Memmi clara propago (v. 42), nonmeno evidente è la coloritura aulica di cui è dotata la locuzione «generosa prole»171

dell’Armaforte; ma nessuno dei due eguaglia la disinvoltura dell’Elisei, che non esita achiudere la traduzione lucreziana con un palmare tassello petrarchesco: «e i gravi casi ognorfanno il mio Memmio / Pensoso più d’altrui che di se stesso» (cf. RVF 53,99-101 «vedrai /un cavalier, ch’Italia tutta honora, / pensoso più d’altrui che di se stesso»)172.

A L E S S A N D R A M A G N O N I

170 RVF 338,7, donde la mutuarono anche il Caro (Eneide XII 576s. «il chiaro germe / del’antico Dolòne») e il Monti (Iliade V 98s. «fugge davanti / al chiaro germe d’Evemone»).

171 Serdini, Rime 17,39; Ariosto, Orlando Furioso I 3; Marino, Adone IX 128; Monti, IliadeII 832 e XV 643.

172 Ma già il Monti aveva commesso lo stesso furtum nel Bardo 2,26s. «la virtù che fa l’uomnegli ardui tempi / più pensoso d’altrui che di se stesso».

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458 MAGNONI

Appendice

I testi

MarchettiAlma figlia di Giove, inclita madredel gran germe d’Enea, Venere bella,degli uomini piacere e degli Dei:tu che sotto i girevoli e lucentisegni del cielo il mar profondo e tuttad’animai d’ogni specie orni la terra,che per sé fòra un vasto orror solingo;te, Dea, fuggono i venti; al primo arrivotuo svaniscon le nubi; a te germogliaerbe e fiori odorosi il suolo industre;tu rassereni i giorni foschi, e rendicol dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo,e splender fai di maggior lume il cielo.Qualor, deposto il freddo ispido manto,l’anno ringiovanisce, e la soaveaura feconda di Favonio spira,tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli,ferito il cuor da’ tuoi pungenti dardi,cantan festosi il tuo ritorno, o Diva;liete scorron saltando i grassi paschile fere, e gonfi di nuov’acque i fiumivarcano a nuoto e i rapidi torrenti;tal da’ teneri tuoi vezzi lascividolcemente allettato ogni animaledesïoso ti segue ovunque il guidi.Insomma tu per mari e monti e fiumi,pe’ boschi ombrosi e per gli aperti campi,di piacevole amore i petti accendi,e così fai che si conservi ’l mondo.Or se tu sol della natura il frenoreggi a tua voglia, e senza te non vededel dì la luce desïata e bella,né lieta e amabil fassi alcuna cosa;te, dea, te bramo per compagna all’opra,in cui di scriver tento in nuovi carmidi natura i segreti e le cagionial gran Memmo Gemello a noi sì caroin ogni tempo e d’ogne laude ornato.Tu, dunque, o Diva, ogni mio detto aspergid’eterna grazia, e fa’ cessare intanto

e per mare e per terra il fiero Marte,tu che sola puoi farlo. Egli sovented’amorosa ferita il cuor trafittoumil si posa nel divin tuo grembo.Or, mentr’ei pasce il desïoso sguardodi tua beltà, ch’ogni beltade avanza,e che l’anima sua da te sol pende,deh porgi a lui, vezzosa Dea, deh porgia lui soavi preghi, e fa’ ch’ei rendaal popol suo la desïata pace.Che se la patria nostra è da nemichearmi agitata, io più seguir non possocon animo quïeto il preso stile;né può di Memmo il generoso figlionegar sé stesso alla comun salute.

Allainig ? (sec. XVIII)Alma Venere, Madre della Schiattad’Enea, piacer degli uomini, e dei Divi,che sotto i segni mobili del Cieloriempi di viventi il Mare e il Suolo;mentre per te si concepisce d’essiogni specie, e sen vien nata a miraree godere i lucenti rai di Febo:te, Dea, fuggono i venti, e si dileguanoal tuo apparir le nubi: a te producel’industrioso Suol fiori odorosi:tu quieti fai del Mare ondoso i fiotti,e rendi il Ciel più luminoso e chiaro.Sempre che a noi sen riede la ridentestagion di Primavera, e che di zeffirol’aura feconda invigorisce e domina;tocchi da’ strali tuoi nel cuor gli uccellicol canto, o Diva, annunziano il tuo arrivo.Liete le Fiere scorrono, saltando,le fertili pasture, e a nuoto passanoi rapidi torrenti. Sì allettatodalla tua grazia e dalle tue lusingheè qualunque Animal, ch’ esso ti siegueavidamente ovunque tu il conduci.Per te in somma nei Mari, Monti, e Fiumi,

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nelle frondose selve, e verdi campi,di piacevole amor i petti ardendo,fai che duri ogni Specie per più Secoli.Poiché dunque tu sola il Tutto reggi,né cos’alcuna senza te alla Lucedel dì sen vien, né grata riesce e amabile;bramo che tu mi sia compagna a scriveredella natura delle cose i versi,ch’or m’accingo a compor pel nostro Memmo,che tu, Dea, volesti in ogni generedi virtù sempre adorno ed eccellente.Dai per tanto a’ miei detti eterna grazia,e fa che in questo mentre in Mare e in Terracessin della milizia le faccende;tu che sola a’ Mortali puoi recaretranquilla pace: imperciocché rettoredegli affari della guerra è il fiero Marte,il qual per te d’amor nel cuor feritosovente nel tuo grembo si riposa:onde allor ch’ei, con te colcato, pascelo sguardo in contemplar la tua bellezza,e che lo spirto suo da quel sol pendeche dalla bocca tua supina esala;allor, dipoi, ch’ei sta fra le tue braccia,chiedigli con parole dolci e vezziche dia a’ Romani la bramata pace.Poiché tra i romor bellici, in cui trovasiora la patria nostra, né io possoseguir l’opra intrapresa, né può Memmonon impiegarsi alla comun salute.

Leoni (?) 1827O de gli Eneadi madre, o de’ mortalidiletto e de gli Dei Venere bella:tu, che, del ciel sotto i rotanti giri,di biade varie la ferace terrafamosa rendi e ’l navigabil mare:ché per te d’animali ogni famigliasi concepe, e del sole emerge al lume:te, Diva, e ’l tuo venir fuggono i ventie le nubi del ciel: soavi fioril’industre terra a te germoglia: il pianoa te ride del pelago, e, placato,con diffuso splendore il ciel riluce.Come di primavera il dì si abbella,

e di Favonio il genitabil fiatodisciolto spira, da tua forza, o Dea,percossi il cor, te pria gli aërei augellie ’l tuo ritorno annunziano: ne’ lietipaschi indi il gregge de le belve esulta,e a nuoto varca i rapidi torrenti:da tua beltà, da tue lusinghe presoogni animal così, te ovunque il guidicupidamente segue: in fin per marie monti e fiumi di rapace corso,per le verdi campagne e i frondeggiantialberghi de’ pennuti, in tutti infusoun blando amor, sì fai, che in ogni stirpecon desiderio si propaghi il mondo.Or, poiché sola, o Dea, tu de le cosela naturna governi, e nulla in luce,che lieto e amabil sia, senza te spunta,a me compagna te ne’ carmi invoco,onde quella espor tento a Memmio nostro,che ognor de’ pregi tutti ornar ti piacque.Grazia perenne a’ detti miei comparti,e su la terra e l’onde i fieri ludifa che tra tanto, o Dea, cessin de l’armi:ché i mortali comporre in queta pacelice a te sola. De la guerra i fieriludi Gradivo armipotente regge,che d’eterna ferita il cor trafitto,a te sovente si restaura in grembo,e, riguardando, con obliquo collo,gli avid’occhi d’amor pasce in te fiso,e con lo spirto da’ tuoi labbri pende.Or, mentre posa sul divin tuo corpo,soavi accenti, o Dea, sovra lui piovi,e la pace ai Romani, inclita, chiedi.Ché in questo tempo, sì a la patria iniquo,né oprar poss’io con disïoso core,né in tal condizïon l’illustre figliomancar di Memmio a la comun salute.

Renieri 1831Alma Venere, ô madre dei Romani,e voluttà degli uomini, e dei Numi:del ciel che sotto ai roteanti segnicol navigero mar fecondi, e colmile fruttifere terre; ogni animale

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460 MAGNONI

poiché per te si concepisce, e, nato,alla luce del sol volge lo sguardo:te, Diva, e il tuo venir le nubi, e i ventifuggon; soavi a te sommette i fioridedalea la terra; a te sorrideplacato il mare, e serenato il cielodel diffuso splendor per te riluce.E quando, con l’april, si avviva, e schiudel’aura che spira il genital Favonio;te, Diva, e il nume tuo primi gli augellinunziano, in cor da tua virtù percossi.Nei pascoli feraci armenti, e greggisaltellano, e a guadar sen vanno i fiumi.Così dai vezzi, e le lusinghe tuela natura animal tutta commossa,te, dove indurla vuoi, segue bramosa.In fin pei monti, per il mar, pei fiumi,per gli alberghi fronduti degli augelli,e i campi verdeggianti un dolce amorespirando in sen d’ogni animal, le speciea generare, e a propagar lo infiammi.E poiché la natura delle cosesola governi, e senza Te non puotecosa nascere al dì, né cosa oprarsiche sia lieta, ed amabile; Te sociaai versi bramo aver, che, delle coseintorno la natura, intesser tantoa Memmio nostro, che tu Dea mai sempredi ogni rara virtù volesti ornato.Eterne al dir quel più dona le grazie,o Diva, e intanto il militar furore,sopito in terra, e in mare, fà che riposi.Gli uomini dilettar con queta pacepuoi sola tu, perché, possente in armi,Marte regge di guerra i fieri offici,che se ben spesso, dall’eterna piagavinto di amor, nel grembo tuo ristora:e disteso così, guatando in suso,li famelici sguardi in te di amorepasce anelando, e ai labbri tuoi sospesatutta del resupin l’anima resta.E del santo tuo corpo allor che, ô Diva,il giacente circondi, a lui soavedella tua lingua il favellar rivolgi,dolce a Roma implorando illustre pace:perché, né noi placati agir possiamo

in questa al patrio suolo avversa etade;né puote in caso tal mancar dei Memmila chiara stirpe alla comun salute.

Mazzarella 1846Salve, o agli Eneadi Genitrice, salvevoluttà de’ celesti e degli umani,Alma Venere, o tu, che dell’Empirosotto ai rotanti segni, il navigatomare allieti di popolo, e le pinguiterre. Per te degli animanti il regnotutto s’avviva e a’ rai del sole assorge.Al tuo venir, te, dea, fuggono i venti,te del cielo le nubi: a te l’industreterra soavi schiude i fior, del marea te ridono i flutti, e serenatacon effuso splendor l’etra rifulge.Di primavera non appena i giornisvelino il bel sembiante, e aperto aleggidi Favonio lo spiro, altor di vita,e già primieri i volitanti augelliaccesi in cor della tua fiamma, o Dea,te nunziano ed il tuo nume presente;e saltellan per mezzo a’ lieti paschile quadrupede fere, e i ratti fiumitravarcano, e così degli animalil’universa famiglia, a la tua festa,ai vezzi tuoi rapita, avidamentene vien seguace ove che tu la guidi.A dir breve, entro al mar, fra’ monti, in mezzoa le fiumane, a le magion frondosede’ volanti, e de’ campi a la verzura,dolce a tutti destando amore in petto,fai che bramosi, come àn legge e formadall’istinto, propaghino le schiatte.Or poi che delle cose la naturareggi tu sola, e senza di te di sottoai padiglioni dell’empireo lumecosa alcuna non sorge, e nulla maidi lieto avvien, nulla che amabil sia,io compagna te invoco a questi carmi,che delle cose intorno alla naturacantar m’ardisco al buon Memmiade nostro,cui tu pur sempre d’ogni pregio, o Dea,volesti adorno e sovra gli altri eccelso.Onde viemmeglio i versi miei tu infiori

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d’eterne grazie, o Diva; e fa che intantoin tutti mari, in tutte piagge i feridella guerra travagli abbian posa.Ben tu i mortali di tranquilla pacesola pui consolar, però che Martearmipotente delle pugne i feritravagli regge, e nel tuo sen ei spessod’insanabile amor ferito in core,ti si abbandona, e a bocca aperta, il chinoonor della sua fronte avidamentefisando in te, pasce d’amor lo sguardo,e dalle labbia tue pende il suo spirito.Su lui dunque sporgendoti, o Divina,mentr’egli posa nel tuo grembo santo,dolce la lingua ai detti sciogli, e pace,secura pace impetra, Inclita, a Roma.Ché in questa della patria iniqua etadené di buon grado noi cantar possiamo,né fallir può di Memmio il chiaro sanguefra tanti casi alla comun salute.

Carrer 1854Madre d’Enea, desio d’uomini e Numi,Alma Venere, tu, che sotto a’ segniroteanti del cielo il mar fecondinavigero, e le glebe fruttuose;per cui quantunque gente d’animaliconcepe, e nata a’ rai del sol s’allegra;tu venti e nubi, o Dea, sperdi dal cieloall’apparir tuo primo; a te sommettei giocondi suoi fior l’industre terra,t’arridon le marine, e serenatobrilla di luce interminata il cielo.Poiché non prima al dì mostra il vivacesuo viso primavera, e il genïalealito di Favonio erra diffuso,l’aerio volator che in cor ti sente,te, o Diva, tosto e il tuo venir festeggia;salta il gregge ferin ne’ lieti paschi,e traversa la rapide correnti;tale, a tuoi vezzi preso e alle lusinghe,ovunque trarlo vuoi, cupidamentete segue ogne animante, e in mari e in alpe,entro rapidi fiumi, ne’ frondosiritiri de’ volanti, e nelle verdicampagne universal spirando amore,

fai sì che d’una in altra si propaghistirpe la vita con accesa brama.S’hai tu il governo di natura, e nullaesce al dì senza te, senza te nullav’ha d’amabile e lieto, a me ti piacciavenir compagna nel dettar de’ carmi,onde fia delle cose la naturaaperta a Memmo nostro, a cui tu destiin ogni tempo, o Dea, tener la cimad’ogni eccellenza. Quindi avviva, o Dea,del tuo riso immortal queste mie carte.Sopite sien per te frattanto l’aspreguerresche fazïoni in terra e in mare,perché tu sola puoi di cara pacegiovar le genti, se l’armipotentearbitro Marte delle pugne orrende,preso per te d’insazïato amore,sovente nel tuo grembo s’abbandona,e, resupino la viril cervice,avido figge in te gli occhi e si bea.Tu, allor, o Diva, che del santo corposì lo sorreggi, e gli sovrasti amante,dolcissime parole di tua boccaversa, chiedendo pe’ Romani tuoisecura pace; ché né in tal poss’ioetà dira alla patria aver tranquillispirti, né in tai distrette il chiaro germede’ Memmi tôrsi alla comun salute.

Merenda 1858O de’ Quiriti Genitrice, o caravoluttà de’ mortali e degli Dei,Venere bella, che sottesso gli ampigiri degli astri popoli la terrache di spiche s’adorna, e il mar che ha carcodi navi il dorso (poiché il vario stuolodegli animali si concepe ed apretua mercè le pupille ai rai del Sole).O Dea tu vieni, e al tuo venir le nubifuggono e i venti, e le dedalee glebemenan fiori odorosi, e ridon l’onde,e di luce più viva il Ciel risplende.Come più tosto primavera il dolcetempo rimena, e la soave brezzafecondatrice di Favonio spira,i dipinti dell’aria abitatori

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cantano o Diva i tuoi ritorni il coredal tuo strale feriti: ai lieti paschischerza il gregge feroce, e varca a nuotole rapide riviere; e all’esca presovoluttuosa delle tue lusinghecupidamente ogni animal ti segueper dovunque lo guidi: in fin pe’ mari,e pe’ monti, e pe’ fiumi, e per le aperteverdeggianti campagne e le frondosedimore degli augelli in ogni pettodesti un soave palpito d’amoreche le stirpi propaga …. Intanto acquetal’ire di guerra in ogni dove: il risodella pace è tuo dono: è Marte il Numedelle battaglie che talora si gettanel tuo grembo odoroso il cor trafittod’immortale ferita. Allor levateverso te le pupille e sul tuo senoappoggiata la testa e colla boccasemiaperta gli sguardi avidamentepasce d’amore, e alle tue labbra avvintaquasi l’alma gli resta. Or mentre o Divatu lo soffolci col divin tuo corpoil miel soave delle tue paroleimpetri al germe di Quirin la pace.

Cipriani 1863Degli Eneadi madre, animatriceVenere, amor degli uomini e de’ Numi,che sotto a’ roteanti astri fecondiil navigato mar, le fruttuoseglebe, mentre per te si crea e nutred’animali ogni specie a’ rai del sole:te, Dea, fuggono i venti ed in dileguoal tuo primo apparir vanno le nubi;il suolo industre a te fiori olezzantigermoglia, arridon le marine e brillaper diffuso splendor tranquillo il cielo.E come appena al dì lieta disvelaPrimavera il suo viso e novamentedi Favonio il fecondo alito spira,gli aerei augelli, che nel cor ti sentonote, Diva, e il tuo venir nunziano primi;salta ne’ pingui paschi e le correntirapide varca a nuoto il ferin gregge:tale allettato da’ tuoi vezzi ovunque

trarlo ti piaccia disïosamenteogni animal te segue e in mari, in monti,entro rapidi fiumi, negli asilifrondosi degli augelli, in verdeggiantiprati spirando universale amoreopri così che col desìo la vitaogni specie ne’ secoli propaghi.Se tu sola il governo hai di naturae senza te nulla esce al giorno e nullasenza te lieto e amabile diviene:tu siimi aita nel dettar de’ carmionde i segreti di natura apertifar tento a Memmo nostro, a cui tu, Diva,in tutte cose valentìa consenti.Quindi tu spira, o Diva, a’ detti mieieterna grazia e fa che quete intantonella terra e nel mar posino l’armi.Perché tu sola consolar le gentipuoi colla pace se al tuo dolce amplessol’armipotente, bellicoso Marted’amore inestinguibile compresos’abbandona sovente e resupinofisando il guardo nel divin tuo visodi tua bellezza estatico si bea.Tu allora, inclita Diva, che del santocorpo sì lo sorreggi ed amorosagli sovrasti abbracciandolo, soaviparole effondi da’ labbri tuoi e pacestabile implora alla romana gente;ché in tali tempi alla mia patria avversiné possiam noi tranquilli oprar, né torsipuote de’ Memmi la cospicua schiattain tali eventi alla comun salute.

Vanzolini 1863 (ed. int. 1879)Degli Eneadi madre, alma Ciprigna,voluttà de’ mortali e de’ celesti,la qual sotto i rotanti astri del cieloil navigero mare e il suol feraceempi di tua virtù; ché si concepeper te ogni specie d’animanti e natadel sole avvivator si gode al raggio:te, dea, te i venti, te le nubi fuggonoquando ne fai ritorno; a te summettesoavi fiori la dedalea terra;a te lo suol marino arride, e il cielo

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luce placato di più spanto lume.Ché appena Primavera in sua beltadeal dì si manifesta, e di Favoniospira dischiusa la feconda aurettate primamente, o dea, gli aerei augelli,e tua venuta van significando,dalla tua forza tocchi entro del cuore.Indi ogni fera per gli allegri paschiva saltellando e i rapidi torrentinuotando varca; con sì forte affettoalle tue grazie presa e a’ blandimentiogni sorta animai segueti ovunqueti talenta menarli. Infin tu, diva,pe’ mari e’ monti e pe’ rapaci fiumie pe’ fronzuti alberghi degli augellie pel verde de’ campi a tutti un dolcemettendo amor per entro alle midolleadopri sì che desïosamentesi propaghi ciascuno in sua famiglia.Or poi che sola tu reggi natura,né cosa senza te nasce alle aperteaure del dì, né lieta o amabil fassi;te, diva, amo compagna a questi versi,che delle cose intorno alla naturaal Memmiada nostro oso cantare:cui tu volesti porre a tutti in cimad’ogni tuo dono in ogni etade adorno.Onde, o diva, via più spira a’ miei dettieterna grazia: e intanto fa che l’empieper ogni terra e mar fiamme di guerraquetin sopite: ché di lieta pacei mortali bear tu sola puoi,dacché regge di guerra i feri ludil’armipotente Marte, il qual soventeresupino si adagia entro al tuo grembo,ferito d’eternal piaga d’amore;e sì guardando in suso, il ritondettocollo piegato, e in te le labbra aperte,pasce d’amore i cupid’occhi, e pendetutta l’anima sua dal tuo bel viso.Or mentre presso le tue membra santequesti riposa, e tu sovra gl’inchina,inclita diva, il capo, e dalla boccaversa soavi parolette accorteper li Romani tuoi chiedendo pace.Però che a’ tempi sì funesti a Roma

né possiam noi con riposato cuorepor mente a scriver versi, né di Memmiola chiara stirpe alla comun salutenegarsi in tanta estremità di cose

Tolomei 1863O del seme d’Enea madre, de’ Numivoluttà e de’ mortali, alma Ciprigna,che il navigato mar, che l’ubertoseterre nel raggio dei volubil’astrifai di vita festanti, è in tua virtudese nel lume del sol nasce e s’allietatanta famiglia d’animai. Te Divafuggono i venti, e il nubilo orizzonterisplende al tuo venir; a Te profumimanda l’industre terra; a Te d’un risol’infinita dei mari onda s’increspa,serenato e diffuso arde l’Olimpofulgidamente. E come il nuovo Aprilei giorni abbella, e la feconda espandeala Favonio, aerei pellegrininunziano il tuo venir, Diva, i pennutidel tuo Nume compunti. Indi pel verdedei lieti paschi erra il selvaggio armentoo la ratta disfida onda dei fiumi.Si fattamente di tuoi molli incantie di tue gioje ogni vivente annodi,che per qual via Tu mova, o a qual Tu mirianelando Ti segue. E via pei mari,e in vetta ai monti, o dentro acque torrentie dei volanti nei frondosi alberghi,o in apriche verzure, entro ogni pettola soave inspirando aura d’amore,è tua virtù se con dolci desirisi rinnovi ogni schiatta e s’infuturi.Poichè il vario degli enti ordin correggi,Diva, Tu sola, e senza Te prodottanulla cosa è nel Sol, né s’aggioconda,né s’accende d’amor, socia a miei carmite invoco or ch’io dell’universe cosecanterò la natura; e a Memmio nostroche d’ogni pregio, tua mercè, s’adornasovr’ ogni altro mortal, voli il mio canto.Però d’eterna venustà cospargi,diva, le note, e fa che intanto il fieroludo dei brandi in ogni mare e in ogni

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piaggia si plachi, ché ben puoi Tu soladi tranquilla bear pace i mortali.Tu il puoi, ché impero ha sulla rea vicendadelle pugne Gradivo armipotente:e spesso vien che nel tuo grembo ei posidalla piaga immortal vinto d’amore,e tal, dimesso il formidabil capo,ti riguardi ammirando, e sospirosoin Te, Dea, gli amorosi occhi dissetiavidamente, e dal tuo labro pendatutta l’anima sua. Tu allor d’amplessi,mentr’ei posa sul tuo petto divino,lo ricingi amorosa e gli susurrasoavissimi accenti al cor, chiedendoil seren della pace, Inclita, a Roma.Ché in questi giorni della patria iniquinon s’adagia il mio cor; né può l’eccelsaprole dei Memmi, in così duri eventinegar sè stessa alla comun salute.

Sartori 1876Del gran germe d’Enea generatrice,de’ mortai, degli Dei vita, e diletto,Alma Venere bella, o tu del cielosotto i segni volubili lucenti,tu che il mare navigero, e le terreubertose del tuo sguardo fecondi:poiché tutta per te la gran famigliadegli animai s’ingenera, e, giâ surta,mira il lume del Sol, te, Dea, te i ventifuggono; te del ciel le fosche nubial tuo primo apparir: a te soaviporge ingegnosa e frutti, e fior la terra:a te ride del mar l’onda, e di largolume rifulge il Ciel queto e sereno.Ché tosto che della stagion fioritasi mostrano i bei giorni, e di Favoniospira già l’aura genital dischiusa,te gli aerei pennuti, o Diva, in prianunciano, e il tuo venir, già tocchi il coredall’arcana tua possa: inde selvaggefere, i pingui scorrendo e lieti paschi,scherzan festose, ed i torrenti, e i fiumisfidano a nuoto. Dalle grazie tue,dai tuoi vezzi così già presa, e vinta,te desïosa ogn’animal natura

segue ovunque la guidi a tuo talento.Alla fine pei mari, i fiumi, e i monti,e degli augei per le frondose stanze,e pei colli, e pei campi, in ogni pettoinstillando un amor blando e soavecupido fai che si propaghi il mondo.Poiché dunque sei tu, che delle cosesola governi la natura, e nullasurge del lume nell’aeree piaggesenza te, né si fa lieta, né degnacosa alcuna d’amor, te guida io bramoaver ne’ carmi miei, ché al nostro Memmiodelle cose svelar vo’ la natura,Memmio, cui, Dea, tu stessa ognor volestid’ogni pregio far ricco: onde al mio direvieppiù dona, o mia Diva, eterna grazia.Fa ch’intanto il furore empio di guerraper le terre, e pei mari omai s’acqueti.Poiché sola bear puoi di tranquillapace i mortai: ché della guerra i casiregge dell’armi il Dio, che, dall’eternaamorosa ferita il cor conquiso,spesso ti giace in grembo: e sì ripostala ben fatta cervice in sù lo sguardofissando tutto in te, Diva, e nel tuoviso assorto d’amor gli avidi lumipasce, e supin da’ labbri tuoi tal pendech’in quei sembra versar tutt’i suoi spiriti:tu dunque allor che sul divin tuo corpoei si riposa, circonfusa, o Diva,sciogli il labbro in dolcissime querele,e pace, o santa, a’ tuoi Romani impetra;ché volontier né della patria in questipormi all’opra poss’io perversi tempiné mancare de’ Memmj il chiaro germein tai perigli alla comun salvezza.

Rapisardi 1880O degli Eneadi madre, o degli umani,dei numi voluttà, Venere altrice,che il navigero mar, che l’ubertoseterre, del ciel sotto i volgenti segni,popoli, ché per te genera, e natodel sole a’ raggi ogni animal si allegra;te, dea, fuggono i venti; al tuo veniredileguansi le nubi; a te sommette

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fiori soavi la dedalea terra;a te ridon le vaste onde e placatod’una luce diffusa il ciel risplende.Te, come pria la bella primaverai suoi giorni dischiude, e sciolta avvivasila dolce di favonio aura feconda,cantan reduce dea gli aerei uccelli,che primi il tuo poter sentono in core;pe’ lieti paschi esultano le greggi,guadan ratte fiumane; ed a tal segnopreso è da’ vezzi tuoi, che ovunque il guidi,cupidamente ogni animal ti segue.Tu infin per monti e mari e per rapacifiumi e campagne verdeggianti e casefrondifere d’alati, in ogni pettoalto incutendo un dilettoso amore,fai che ciascuno per la propria speciecon gran desio la stirpe sua propaghi.E giacché sola tu reggi il governodell’universo, e nulla a le divinerive del giorno senza te si leva,nulla è senza di te lieto e giocondo,te spiratrice a questi versi imploroor che le leggi di Natura intendosvelar di Memmio al figlio, a noi sì caroe che tu, dea, d’ogni bel pregio ornatosempre e in tutte le cose egregio hai fatto.Però, meglio che mai, diva, consentiuna grazia immortale a’ detti miei,e fa’ che in terra e in mar taccian fra tantogli acri studj dell’armi alfin sopiti,quando sola tu puoi giovar di chetapace i mortali, e Marte armipossente,che l’aspre della guerra arti governa,dall’eterna d’amor piaga conquiso,spesse volte nel tuo grembo si lascia,e abbandonando stupefatto indietrola bella testa, con bocca anelanted’amore avidi in te pasce gli sguardi,resupino così, che tutto, o dea,dalle tue labbra il suo spirito pende.Deh, mentre tu col corpo intemeratocirconfondi sovrana il dio giacente,sciogli del labbro il dir suave, e paceplacida pe’ Romani, inclita, chiedi:ché attender non turbato io non potrei

fra’ turbamenti della patria all’opra,né di Memmio mancar potría la chiarastirpe in tal uopo alla comun salute.

Cavagnari 1882Della stirpe romulea genitrice,Venere santa, voluttà de’ numie de’ mortali, che dai cerchi eternifulgida spiani a’ naviganti il maree la terra ferace empi di vita,ché da te si procrea, per te s’affacciaalle soglie del giorno ogni animale,te, dea, fuggono i venti; al giunger tuoscompaiono le nubi; a te l’industregleba coltiva gli odorati fiori,per te scherzano l’onde e riscintillane’ diffusi splendori il ciel pacato.Scuote non ben le vesti algide il verno,non il mite e fecondo alita aprilee incitati da’ tuoi dolcepungentistimoli, già gli aërei cantoris’alzan l’arrivo tuo significando;festose indi saltellano pei verdipaschi le mandre e i rapidi torrentivarcano; colto alle blandizie tue,con infrenabil bramosia te segueove tu il tragga ogni vivente e viaper mari e fiumi e monti e campi e cased’augei fronzute, ad eternar la vitablando ne’ petti tu concili amore.Or te, che sola delle cose tuttela vicenda governi; e non ispunta,se tu nol voglia, un raggio; e fora, orbatodel tuo soccorso, arida landa e mutae inamabile il mondo, iddia, te invocoauspice al carme onde a svelar m’accingodi natura gli arcani a Memmio nostro,ch’è d’ogni pregio, tua mercè, superbo.Di non caduca venustà tu dunqueingentilisci il verso e fa che in terrataccia intanto e sul mare ogni guerrescoorror. La pace vien da te; de’ campicruenti il nume, Marte armipossenteplacar tu puoi quando com’ei costuma,dall’eterno ferir vinto d’amore,estenuato al tuo grembo si dà

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e la fronte alle stelle, con apertabocca in te, dea, gli sguardi avidi pascearrovesciato sì, che il suo respiroonda è del tuo. Allor tu, circonfusosovra il corpo celeste, inclita, il dio,co’ labbri elisi alla tua Roma pacepace deh implora! Se in nefande guerreduri la patria, mal potrà il mio genioalacre alzarsi e mal porgermi ascoltoMemmio, votato alla comun salute.

De Antonio 1883O madre degli Eneadi, alma de’ Numi,e dell’uom voluttà, Venere bella,che il navigero mare e le feraciterre del ciel sotto i rotanti segnipopoli ed orni d’animali e piante,per te concepe ogni animale e figlia,e la luce del sol per te rimira:te Dea fuggon i venti, il venir tuofuggon le nubi, a te fiori soavinutre e sommette la dedalea Terra,a te sorride il mare, a te placatola placida sua luce il ciel diffonde.E quando riede la stagion novellae col primaveril fecondo fiatoZefiro torna ad allegrar la terra,te, Dea, saluta primo e il tuo ritornol’augel dell’aria, che d’amor feritosente nel cor del Nume tuo la possa,esulta il gregge negli ameni paschie i rapidi torrenti a nuoto varca,e dove il chiami o guidi avidamentepreso da’ vezzi tuoi corre giulivo.Tu pe’ mari e pe’ monti e pel rapacecorso de’ fiumi e per foreste ombrosee per gli aprici verdeggianti campi,d’amor giocondo riscaldando i petti,desti nell’alme quel desio soave,per cui la specie ogni animal propaga.E poi che sola delle cose, o Diva,tieni il governo e la natura reggi,e niuna cosa senza te mai sursea respirar le pure aure vitali,né letizia esser puote ove tu manchi,socia e propizia all’opra mia te bramo,

ove le cose e la natura in dolcicarmi descrivo al generoso figliode’ Memmi, che tu, Dea, d’ogni bell’artesempre volesti ornato e d’ogni laude.Grazia immortale a’ versi miei concedie per mari e per terre abbiano intantotregua i ludi dell’armi e di tranquillapace gli uomini bea tu che il puoi sola.Da’ nodi avvinto di perenne amorespesso nel grembo tuo riposa il capoil belligero Iddio Marte Gradivo,e lo sguardo bramoso in te fissando,dell’amor tuo si pasce e pende immotodal labbro tuo divin; ora a lui mentreprona d’un guardo il fai beato, o Diva,volgi preghiera perché taccia il gridotristo di guerra e le Romulee gentipace sotto le bianche ali raccolga.Ché tra i tumulti bellici e i periglidella patria compir io non potreil’opra incoata, e alla comun salvezzanon potrebbe mancar l’opra d’un Memmiogerme preclaro della Memmia stirpe.

Menegazzi 1892Madre a gli Eneadi, gioia, desio de’ mortali

[e de’ numi,alma Venere iddia, che di sotto al mutevole

[cieloil navigero mare, la terra frugiferentesusciti a nozze; o iddia, per te d’animanti

[ogni species’apre a la vita e sorge, la luce a godere del

[sole.Te venïente, o dea, te i gelidi venti e le nubifuggono; a te dischiude la dédala terra i so

[avifiori, sorride a te l’immensa distesa de’ mari,splende, rasserenato, d’un lume diffuso

[l’olimpo.Poi come il mondo s’apre nel raggio di

[primavera,e disserrata spira di zefiro l’aura feconda,primi gli aerei augelli, nel cuor da tua forza

[percossi,il tuo ritorno, o dea, conclaman soave

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[cantando.Indi gli armenti esultan pe’ lieti pascoli verdi,passan torrenti e fiumi: di tale dolcezza

[rapiti,che desïosamente ti seguono, attratti,

[dovunque.E via pe’ mari immensi, su’ monti e ne’

[fiumi rapaci,e degli augei ne’ domi frondosi e pe’ campi

[virenti,entro nel seno a tutti stillando l’ambrosia

[d’amore,fai che cupidamente le schiatte s’innovin per

[gli anni.E poi che sola, o dea, tu reggi le cose universe,e senza te nessuno può a fulgidi liti del giornosorgere, e niuna cosa gioconda ed amabile

[farsi,siimi compagna, o diva, ne l’aspra fatica de’

[carmi,or che svelare io tento gli arcani de la natura.E fa che de le pugne s’acquetino intanto le

[rabbie,per la terra e pel mare, per tutto dovunque tu

[regni.Tu sola, o dea, tu sola, ne puoi ridonare la

[pace,poi che possente in armi va Marte reggendo

[le pugne.Ei, da l’eterna piaga d’amore ferito, soventegittasi nel tuo grembo, e, chino la splendida

[testa,pasce d’amore gli avidi sguardi, in te fiso, o

[divina,e dal tuo labbro pende, a lui resupino, lo

[spirto.Or al giacente, o dea, del santo tuo petto

[ricinto,dolci amorosi detti dal labbro soave gli

[aprendo,tu gli domanda, o santa, pe’ figli di Romolo

[pace.

Ferracini 1894Alma Venere, o madre degli Eneadi,voluttà dei mortali e degli dei,

che il navigero mare e le feraciterre di sotto alle giranti stelledi vita allieti poiché fai che tuttenascan le stirpi dei viventi e il solegenerate rimirino; te, diva,te rifuggon i venti e al tuo appariresi dileguan le nuvole del cielo:fiori soavi la dedalea terraa te germoglia; a te dei vasti maril’onde mandan sorrisi e serenatodi vivido fulgore il ciel risplendediffusamente. E non appena il giornoprimaverile si schiude e aperto avvivisiil fecondo favonio, il cor percossidalla tua forza annunziano i volantiil tuo venire, indi i selvaggi armentisaltellano qua e là pei lieti paschie traversan le rapide correnti.Così rapito da’ tuoi molli vezziogni vivente con desio ti segue,e in qual vuoi parte tu lo guidi. Infine,per mari e monti e travolgenti fiumie pe’ fronzuti degli uccelli alberghie i verdi campi, in ogni cor versandoun dolce amor, tu fai che con desîola propria stirpe ogni animal propaghi.Poiché dunque tu sola la naturadelle cose governi e niuna cosanasce del giorno alle region divine,e niuna cosa si allïeta e degnad’amor si rende, nel comporre i carmite socia io bramo, in cui della naturasvelar tento gli arcani al nostro amatosangue di Memmio che tu, diva, adornod’ogni tuo don sempre innalzar volesti.Perciò grazia immortal meglio tu, diva,dona a’ miei carmi. E in ogni terra e marefa che intanto le crude opre di guerraposin placate. Ché a te sola è datobear gli umani di tranquilla pace.Perrocché Marte armipossente l’artifiere regge di guerra, egli che spesso,domato da immortal piaga d’amore,nel tuo sen s’abbandona e, reclinatoil ben tornito collo, ti riguarda,ed anelando l’avide pupille

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pasce d’amor così che dal tuo labbrotutto pende il suo spirto. Or tu che cingicol santo corpo il resupin, gl’infondisoavi accenti, e una pace tranquilla,inclita diva, pei Romani implora.

Psaila 1895O voluttà degli uomini e di numi,genitrice di Enea, Venere bella,che del ciel sotto i passeggieri segnipopoli il mar navigero di pesci,di fruttüose biade orni la terra:per tua cagione ogni animato corpoconcetto e nato guarda i rai del sole.Te, Diva, i venti fuggono: le nubil’arrivo tuo, varïopinti fioriti schiera ai passi la solerte terra,a te sorride l’ocëano e calmobrilla di effuso lume il firmamento.Tostoché s’apre il maestoso aspettodi primavera e disserrata l’auradel fecondante zeffiro si avviva,primi gli augei da te percossi il corecantan il dolce tuo ritorno, o Diva.Indi saltella per i paschi ameniil lanuto bestiame e passa a nuotorapidi fiumi: da bellezza indottoe dai tuoi vezzi avidamente segueTe qualunque animale, ove lo guidi.Finalmente pei mar, per le montagne,per i rapaci fiumi e i frondeggiantidi uccelli alberghi e i verdeggianti campi,tenero amor spirando in tutti i petti,opri in guisa che ognun generalmentepropaghi con fervor la propria stirpe.Giacché tu sola a la natura imperiné, senza te, ai divini orli del giornorisorge alcuna cosa, né diventaalcuna cosa amabile, né lietate procura esser socia a scriver versiche su natura a stender m’ingegnoal nostro Memmio, il qual volesti, o Dea,ornato di ogni pregio andar famosoin ogni tempo: or maggiormente accorda,diva, ai miei detti venustà perenne.Fa sì che intanto i giuochi aspri di guerra

per le terre e pei mar giaccian sopiti;poiché tu sola con tranquilla pacepuoi sollevare i miseri mortaliavvegnaché de la battaglia i duriregga doveri Marte armipotente,che nel tuo grembo spesso si rimette,vinto di amor da una insanabil piaga:e così alzando gli occhi e la rotondacervice riposando, a bocca aperta,pasce d’amor gli avidi sguardi e pende,dea, dai tuoi labbri del supin lo spirto.Sciogli soavi parolette e pregacostui giacente sul divin tuo pettoavviticchiata intorno a lui, che rendaferma pace ai Romani, inclita Diva;perocché darci all’opra in questi tempitristi alla patria non possiam coll’almaimperturbata né potrà la chiarastirpe di Memmio, in tal condizione,abbandonar la pubblica salute.

Elisei 1896O degli Eneadi madre, alma Ciprigna,degli uomini delizia e degli Dei,tu, che, nel raggio de’ superni giri,il navigato mar, la pingue terrafecondi; ché per te, Diva, concepeogni animata stirpe, ed a l’apricoraggio di Febo il novo parto esulta:a te dinanzi, o Dea, fuggono i ventifuggon le nubi; a te manda odoratacopia di fior quest’ammirabil terra;a te ride del mar l’immenso piano;e il ciel tutto di viva luce accesosplende placato. E come al dì l’aspettoprimaveril ritorna, e di Favoniospira il fecondator soffio novello;primi salutan te, Diva, che incedii vaganti augelletti, il cor percossida tua virtù; saltellano pei lietipaschi le agnelle; a prova altre nei fiuminuotan per giuoco; e dal piacer condottemove ciascuna ovunque tu le inviti.Pel mar, pei monti e pei correnti fiumi,pe’ verdi campi e pei frondosi alberghidegli augelli, così, mentre soave

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brama d’amore in ogni petto infondi,segui tue leggi, e disïosamentedi stirpe in stirpe avanzano l’etadi.E poi che, sola, di natura, o Diva,l’ordin governi, e senza te non spuntagermoglio ovunque il dì spande i suoi raggi,né letizia o bellezza si ritrova;deh! Tu arridi compagna ai versi miei,che a cantar de LA NATURA imprendoDELLE COSE al mio Memmio, a lui che

[ornatodi tutti pregi, o Dea, sempre volestidagli altri insigne: e tanto più la graziaquindi immortale ai versi miei concedi.E ne concedi ancor, Diva, che l’aspremilitari fatiche in ogni locoe di terra e di mar taccian sopite:tu che, sola, donar puoi la tranquillapace ai mortali: però che di guerral’opre nefande il bellicoso imperaMarte, ch’ei pure, dall’eterna vintopiaga d’amor, nel tuo grembo soventes’abbandona: ed il bel collo rovescio,in te fissi gl’immoti occhi bramosi,d’amor li pasce, e sta di lui supinopur dal tuo volto l’anima sospesa.Tu, Diva, allora le tue sante membrasul giacente ricingi, e la dilettavoce movendo, placida ne impetrapace ai Romani: ché l’iniqua etadesecuri tutti noi viver non lascia,e i gravi casi ognor fanno il mio Memmio«Pensoso più d’altrui che di sé stesso».

Armaforte 1902O del germe d’Enea progenitrice,o voluttà degli uomini e dei numi,Alma Venere iddia, che sotto agli astrivolgenti per il queto aere celeste,il navigato mare, e l’ubertoseterre, empiendo di te, popoli e abbelli;ché, per te generata, al sol s’allegral’infinita famiglia dei viventi;te fuggono i brumal soffi, e le nubi,al tuo santo apparir; a te cospargei germinati calici soavi

la terra consapevole; a te rideplacida la distesa ampia dei mari,e d’un lume diffuso il serenatocielo risplende. Allor che vaga rompela primavera, e, schiuso, i campi avvivamolle alitando di favonio il fiatofecondatore, te gli aerei uccellicantano primi, o diva, e il tuo ritorno,saettati nel cor dalla possentetua deità; quindi pei lieti paschiscorrazza il gregge disfrenato, e guadale correntìe di rapide fiumane.Tale dovunque a te piace guidarlo,affascinato dalle tue dolcezze,con voglia ardente ogni animal ti segue.Così per monti e mari e per rapacifiumi e campagne rinverdite e ombrosipenetrali d’alati, in ogni pettoincutendo un desio dolce d’amore,fai che cupidamente ogni diversastirpe si rinnovelli e si propaghi.E poi che sola l’alto imperio reggidi tutto l’universo, e cosa alcunanon sorge alle vitali aure del giorno,senza di te, né lieta di natiagrazia s’abbella, o amabile sorride,te, dea, te invoco al canto mio compagna,or che le leggi di Natura e gli altisegreti disvelar tento al sì carofiglio di Memmio, che tu, dea, volesti,in ogni tempo, d’ogni pregio ornato.Però meglio che mai, diva, concedia me tue grazie, e sia il mio canto eterno.Fa’ che intanto pei mari e in ogni terralo strepito de l’armi alfin sopitosi plachi; quando tu sola, se vuoi,giovi di tranquillissima quietei mortali; ché Marte armipossenteregge il governo dell’acerba guerra.Egli, domato dall’eterna piagad’amor, spesso al tuo grembo s’abbandona,e arrovesciata la superba testa,te, stupefatto, ammira, ed anelandopasce in te gli affamati occhi d’amoreavidamente; sì che, o dea, del numeresupino la grande anima pende

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dalla tua bocca. Allor mentre inchinatoil santo petto, circonfondi il carogiacente, soavissime parolea lui susurra, inclita dea, chiedendope’ tuoi Romani la serena pace.Ché, sì iniqui alla patria anni volgendo,attender non potrei con riposatoanimo al sacro carme, né potriain tal uopo mancar la generosaprole di Memmio alla comune salute.

Leardi 1918(ma ante 1882, vd. supra n. 110)O degli Eneadi madre, degli umanie de’ celesti voluttà, alma Venere,che sotto i segni mobili del cieloil navigato mare e la di biadeterra altrice fecondi; ché concettoè ogni animal per te nelle sue specie,e la luce del sol nascendo mira:te, al tuo apparire, o dea, fuggono i ventie l’atre nubi, soavi fior germogliala terra industre, a te il marino fluttosorride, e il cielo di diffusa lucesplende placato. Appena si apre il giornodi primavera, e di Favonio schiusala genitale aura s’avvisa, primite salutano, o diva, e il tuo ritornogli aerei augei da tua forza in cor percossi;pe’ lieti paschi le vaganti belvesaltano, e i gonfi varcano torrenti,e alle tue grazie preso e alle lusinghe

cupidamente ogni animal ti seguedove li meni; e tu per mari e montiper i fiumi rapaci, ne’ frondosialberghi degli augei, pe’ verdi campidolce inspirando in ogni petto amorefai che sue stirpi Cupido propaghi.Poiché le cose di natura solatu reggi, e senza te cosa non sorgealle divine spiaggie della lucené si fa lieta e amabile, te invoco,compagna a’ versi miei, ne’ quali io studiosvelare la natura delle cosea Memmio nostro, cui tu adorno festied in ogni opra e in ogni tempo chiaro.Dolcezza eterna al canto mio tu spira,o diva, e fa che intanto in terra e in mare,posin l’opre di guerra, ché tu solagli uomini allietar puoi di pace queta,ché Marte armipotente le fiere opreregge di guerra, e spesso ei s’abbandonanel grembo tuo dalla ferita eternad’amore avvinto, e la lunga cervicepiegata addietro in alto riguardandocon bocca anela in te avido pascegli occhi di amore, e dal tuo viso pendeil suo respiro. Lui che sul tuo santocorpo supino posa, o dea, circondasopra ridente, e con soavi dettipace tranquilla pei Romani implora.Ché della patria in questi fortunositempi cantare con serena mentenon io posso, e de’ Memmii l’alta prolenon può mancare alla comun salute.