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1 21. a) Il genere epistolare L’epistola in Grecia In Grecia, le prime attestazioni della scrittura epistolare si trovano in un passo dell’Iliade. Nel sesto libro Bellerofonte, bellissimo giovane di cui la regina Anteia si era innamorata, viene inviato da Preto, marito della regina, presso il suocero per recapitargli una lettera: questa lettera contiene la condanna a morte di Bellerofonte, accusato di adulterio; il giovane, ignaro di tutto, diviene messaggero della sua stessa morte. La prima lettera dell’antichità è dunque portatrice di morte e di lutto. Lettere di tal fatta, ossia depositarie di messaggi di morte, sono presenti anche nei tragici (Euripide, Fedra) e negli storici (Erodoto I 123, VIII 128 e V 35 e Tucidide I 128). Sembra dunque che in questi autori prevalga una dimensione negativa della lettera, segno «della diffidenza originaria nei confronti della scrittura; diffidenza dunque anche verso la lettera» (Avezzù) che a causa della distanza tra i due interlocutori e della possibile falsificazione pone da subito problemi sull’autenticità del messaggio. Questo dissidio tra oralità e scrittura, che caratterizza la cultura greca fin dall’origine è espresso chiaramente in due opere di Platone, il Fedro e la Settima lettera. Il filosofo condanna la scrittura, definita disumana, poiché essa finge di creare fuori dalla mente ciò che solo nella mente può esistere, inoltre distrugge la memoria. La scrittura viene ritenuta innaturale, perché si situa fuori da un contesto di rapporti fra persone reali; l’assenza di un reale destinatario della comunicazione, la rende appunto innaturale e quindi esecrabile. Va rilevato che medesimi timori e preoccupazioni sono stati espressi dagli uomini alla fine del ‘400, con l’invenzione della stampa, e nel XX secolo dopo l’invenzione del computer, a dimostrazione che ogni innovazione tecnologica

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21.

a) Il genere epistolare

L’epistola in Grecia

In Grecia, le prime attestazioni della scrittura epistolare si trovano in un passo

dell’Iliade. Nel sesto libro Bellerofonte, bellissimo giovane di cui la regina Anteia

si era innamorata, viene inviato da Preto, marito della regina, presso il suocero

per recapitargli una lettera: questa lettera contiene la condanna a morte di

Bellerofonte, accusato di adulterio; il giovane, ignaro di tutto, diviene

messaggero della sua stessa morte.

La prima lettera dell’antichità è dunque portatrice di morte e di lutto. Lettere di

tal fatta, ossia depositarie di messaggi di morte, sono presenti anche nei tragici

(Euripide, Fedra) e negli storici (Erodoto I 123, VIII 128 e V 35 e Tucidide I 128).

Sembra dunque che in questi autori prevalga una dimensione negativa della

lettera, segno «della diffidenza originaria nei confronti della scrittura; diffidenza

dunque anche verso la lettera» (Avezzù) che a causa della distanza tra i due

interlocutori e della possibile falsificazione pone da subito problemi

sull’autenticità del messaggio.

Questo dissidio tra oralità e scrittura, che caratterizza la cultura greca fin

dall’origine è espresso chiaramente in due opere di Platone, il Fedro e la

Settima lettera. Il filosofo condanna la scrittura, definita disumana, poiché essa

finge di creare fuori dalla mente ciò che solo nella mente può esistere, inoltre

distrugge la memoria. La scrittura viene ritenuta innaturale, perché si situa fuori

da un contesto di rapporti fra persone reali; l’assenza di un reale destinatario

della comunicazione, la rende appunto innaturale e quindi esecrabile. Va

rilevato che medesimi timori e preoccupazioni sono stati espressi dagli uomini

alla fine del ‘400, con l’invenzione della stampa, e nel XX secolo dopo

l’invenzione del computer, a dimostrazione che ogni innovazione tecnologica

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che può influenzare la struttura del pensiero, viene percepita come pericolosa e

destabilizzante (Ong).

L’uso della lettera privata come strumento di comunicazione era raro, poiché la

preziosità del materiale scrittorio, l’ignoranza della scrittura da parte della

maggioranza e le difficoltà di comunicazione rendevano più semplice l’invio di

un messo, che riferisse oralmente il messaggio. Questa doppia possibilità di

comunicazione, orale e scritta, si riflette nel vocabolo stesso con cui si indica il

messaggio: il termine epistolé, di derivazione verbale (epistéllo = inviare), indica

sia il messaggio orale, affidato alla memoria del messaggero, sia quello scritto;

nella lingua latina, invece, il termine litterae, che indica in prima istanza le

lettere dell’alfabeto, è metonimia per indicare la scrittura.

A partire dal IV secolo a.C. si assiste ad una fioritura di testi epistolari che

hanno la caratteristica di essere delle lettere «aperte» ossia destinate ad un

pubblico, anche se il destinatario ufficiale è unico. Di solito sono lettere di

propaganda politica (Isocrate e Platone) o di argomento filosofico e morale

(Epicuro). In questi casi è fuori luogo parlare di epistolari veri e propri, perché le

lettere sono scritte con preciso intento divulgativo e non solo informativo.

Purtroppo fra quelle che ci sono rimaste molte vengono considerate dei falsi,

poiché in età ellenistica, tra il I secolo a.C. e il I d.C., quando avvenne la

codificazione del genere epistolare, vi fu un proliferare di lettere false attribuite a

grandi autori come ad esempio a Platone, ad Aristotele, ad Alessandro Magno,

ad Ippocrate.

Isocrate

La fama di Isocrate, oratore ateniese del IV secolo, è legata alla fondazione, nel

390, di una scuola di oratoria, che Cicerone definisce clarissima quasi rhetoris

officina (De oratore, II 13, 57). Il corpus delle opere di Isocrate che ci sono

pervenute consta di ventuno orazioni e di nove lettere.

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Riguardo alle lettere, così come per le orazioni, numerosi sono i dubbi sulla loro

autenticità.

I destinatari sono tutti re, tiranni, principi o magistrati, l’argomento è

prevalentemente politico. Sebbene siano lettere reali, indirizzate ad un unico

destinatario, spesso il messaggio si avvicina molto alla forma del discorso, del

trattato politico, solo che è più breve e si limita ad un unico concetto o a poche

idee; per questo ci si domanda se le lettere di Isocrate fossero destinate

davvero ai personaggi a cui sono indirizzate o fossero piuttosto delle

esercitazioni o modelli didattici.

Oltre alle lettere di argomento politico ci sono rimaste tre lettere commendatizie,

ossia di raccomandazione, sempre rivolte a personalità pubbliche detentrici del

potere.

Platone

Di Platone, oltre ai numerosi dialoghi e all’Apologia di Socrate, ci sono state

tramandate tredici lettere sulla cui autenticità sussistono numerosi dubbi. Oggi

si considerano certamente autentiche la sesta, la settima e l’ottava, tutte e tre di

argomento politico.

La settima, quella divenuta più famosa, si può considerare una sorta di

testamento del filosofo, poiché egli racconta la genesi delle sue idee politiche, le

esperienze vissute e conclude il testo con una digressione sulla teoria della

conoscenza. Come detto in precedenza questo è anche uno dei due testi in cui

Platone condanna l’uso della scrittura, sebbene per dare efficacia alle sue

obiezioni egli stesso utilizzi questo mezzo di comunicazione:

Ogni uomo che sia serio si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non gettarle in

balìa dell’avversione e dell’incapacità di capire degli altri. In breve, […] si deve

concludere che, allorché si vedano opere scritte di qualcuno, siano leggi di legislatore o

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scritti di qualche altro genere, le cose scritte non erano per tale autore le più serie, se

egli è serio, perché queste stanno riposte nella parte più nobile di lui; se, invece, mette

per iscritto quelli che per lui costituiscono veramente i pensieri più seri, «allora di

certo» non gli Dei, ma i mortali «gli hanno fatto perdere il senno».

(344 C, traduzione R. Radice)

Epicuro

Delle moltissime opere che scrisse, di cui Diogene Laerzio ci ha tramandato i

titoli, poche sono quelle che possediamo. Solo grazie agli scavi archeologici,

effettuati nella metà del XVIII secolo ad Ercolano, ci sono giunti frammenti

papiracei di Filodemo di Gadara, epicureo del I secolo a.C., che riportano passi

delle opere e delle lettere di Epicuro e ampie sezioni del poema Sulla natura,

testo che servì da modello all’opera di Lucrezio.

Con Epicuro ha inizio l’epistola filosofica, intesa come strumento divulgativo in

luogo del trattato, rispetto al quale l’epistola ha un linguaggio più accessibile,

soprattutto per i non addetti alla materia, e racchiude i punti salienti del tema

che l’autore tratta.

L’epistola di argomento filosofico viene indirizzata ad un amico o ad un allievo,

ma in realtà è destinata ad una comunità più ampia che di solito si identifica con

una precisa scuola filosofica di appartenenza. Epicuro è il primo autore greco di

cui ci restano testimonianze scritte di questo scambio epistolare tra maestro e

allievi.

Tre sono le lettere a noi pervenute in cui il filosofo riassume tutto il suo sistema:

la prima, indirizzata a Erodoto, tratta la fisica e la canonica; la seconda, a

Pitocle, affronta i temi dell’astronomia e della meteorologia, infine la terza,

dedicata a Meneceo, riguarda l’etica. La cura formale e stilistica che

caratterizza le epistole divulgative, in particolare la terza, induce gli studiosi a

ritenere che Epicuro pensasse ad una successiva pubblicazione.

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La lettera a Meneceo contiene la parte divenuta più popolare della dottrina di

Epicuro, ma anche quella più spesso criticata nell’antichità, poiché si fraintese il

suo pensiero. Epicuro esorta alla filosofia, alla conoscenza e alla meditazione

dei princìpi che sono a fondamento della felicità; egli individua i quattro

ingredienti («tetrafarmaco») che riescono a liberare l’uomo dalle paure ed

aprirgli la strada verso la ricerca del piacere: non bisogna temere gli dèi perché

essi non intervengono nelle cose umane; non bisogna temere la morte, perché

essa è perdita di sensazioni, per cui gli esseri umani non la percepiscono; non

bisogna considerare indistintamente tutti i piaceri un bene e ogni dolore un

male.

Epicuro saluta Meneceo

[122] Non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio di filosofare si stanchi: nessuno è

troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima. […] [123] I precetti che ti ho

continuamente raccomandato mettili in pratica ed esercitali, ritenendoli il principio

fondamentale di una vita felice. Per prima cosa considera la divinità un essere

immortale e beato, come la comune nozione del divino suggerisce, e non attribuire a

essa nulla che sia estraneo all’immortalità o diverso dalla beatitudine […] Gli dèi

esistono: perché la loro conoscenza è evidente; ma non esistono nel modo in cui i più li

concepiscono […] [124] Essi in realtà, dediti soltanto alle virtù loro proprie, accolgono i

loro simili, reputando estraneo tutto ciò che non è tale.

Abituati a pensare che la morte per noi è nulla: perché ogni bene e ogni male risiede

nella possibilità di sentirlo: ma la morte è perdita di sensazione. […] [125] Cosicché è

folle chi asserisce di temere la morte non perché quando sarà presente gli arrecherà

dolore, ma perché è l’attesa che gliene provoca. Il male, dunque, che più ci atterrisce, la

morte, è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la

morte noi non siamo più.

[…] [ 129] Il piacere è il bene primo a noi connaturato: da questo muoviamo per ogni

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scelta e ogni rifiuto e a esso facciamo riferimento […] Tutti i piaceri sono un bene,

perché sono per natura a noi congeniali, ma non tutti sono da scegliere; così come tutti i

dolori sono un male, ma non tutti sono tali da dover essere fuggiti. [130] Conviene certo

giudicare tutte queste cose in base ad una visione opportunamente commisurata dei

vantaggi e degli svantaggi. Perché in certe circostanze il bene può essere per noi un

male, e viceversa il male può essere un bene.

[135] […] Medita dunque queste cose e quelle dello stesso genere giorno e notte, in te

stesso e con chi è simile a te, e non avrai mai turbamento né nel sonno, né da sveglio,

ma vivrai come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che

viva fra beni immortali.

(Traduzione N. Russello)

Di Epicuro ci sono rimaste anche epistole di carattere privato, purtroppo solo in

forma di frammento, che testimoniano la grande varietà di situazioni, di

argomenti, di registri stilistici che caratterizzano la scrittura epistolare del

filosofo. In esse si passa dai toni affettuosi e consolatori, all’invettiva, dagli

argomenti privati alle questioni finanziarie. Ciò che accomuna la maggioranza

delle lettere è la philía, l’amicizia disinteressata, che da precetto filosofico si

rivela concreta norma di vita: il forte sentimento di amicizia non si manifesta

solo nei confronti degli amici, ma anche verso le loro famiglie.

Queste le ultime parole, nel giorno della morte, scritte al discepolo Idomeneo:

Era il giorno beato e insieme l’ultimo della mia vita quando ti scrivevo questa lettera. I

dolori della vescica e dei visceri erano tali da non poter essere maggiori; eppure a tutte

queste cose si opponeva la gioia dell’anima per il ricordo dei nostri passati ragionamenti

filosofici. Tu, ora, come è degno della buona disposizione che hai avuto da giovinetto

per me e per la filosofia, abbi cura dei figli di Metrodoro.

(Traduzione G. Arrighetti)

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Il medesimo affetto si ritrova in una lettera inviata alla madre per rassicurarla

sulla sua attività filosofica e sul suo stato di benessere:

[…] Pensa dunque, o madre, che noi viviamo sempre felici in mezzo a questi beni, e

fatti animo riguardo a quello che facciamo. Risparmia piuttosto, per Zeus, quegli aiuti

che ci mandi continuamente. Non voglio che ti manchi qualcosa perché io ne abbia di

troppo; ma è meglio che manchi a me piuttosto che a te. E del resto io vivo

comodamente senza che mi manchi nulla, per il denaro degli amici e per quello che mi

manda continuamente il padre, il quale poco tempo fa mi ha mandato per mezzo di

Cleone nove mine. Non dovete dunque ciascuno dei due darvi pensiero per noi, ma

piuttosto star vicini l’un l’altro […]

(Traduzione G. Arrighetti)

La lettera, dunque, è impiegata da Epicuro sia come strumento dottrinale e

catechetico, sia come mezzo per informarsi sulla salute dei suoi cari e sulle loro

attività quotidiane.

L'epistola Roma

L’età imperiale

Nei secoli dell’impero si accentua quella dicotomia, già presente in età tardo

repubblicana, tra lettere informative e lettere prive di tale funzione. Soprattutto

dopo la pubblicazione dell’epistolario di Cicerone, avviene quel processo di

retoricizzazione dell’epistola, che porterà quest’ultima a perdere la sua primaria

funzione informativa e a trasformarsi in importante genere letterario.

Si diffonde l’epistola d’arte, che ha lo scopo di delectare il destinatario, e

l’epistola in versi, entrambe segni di un cambiamento dei tempi e soprattutto

della paura che lettere private venissero intercettate e potessero cadere nelle

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mani dell’imperatore; i letterati, temendo di compromettersi e di inimicarsi i

rappresentanti del potere, svuotano la lettera di contenuti impegnati, in modo

che essa risulti innocua in caso di eventuali intercettazioni.

Si diffondono dunque le litterae litteratae, caratterizzate da una particolare

elaborazione formale e scritte prevalentemente per essere pubblicate. L’intento

editoriale dà luogo ad una attenta rielaborazione stilistica delle epistole ed

all’eliminazione di tutti quegli elementi considerati contingenti come la data di

invio. La conseguenza di questa operazione di restyling crea ai filologi moderni

notevoli difficoltà sia nell’operazione di ordinamento cronologico delle varie

lettere sia nel riconoscimento di quelle reali da quelle fittizie; fino ad ora gli

studiosi si sono basati su questi epistolari «artistici» per ricostruire le

caratteristiche dell’epistolografia latina d’età imperiale, ma oggi il rinvenimento

di un certo numero di lettere papiracee latine, che permettono di ampliare il

quadro d’assieme tradizionale, consente un diverso approccio al problema.

Tra gli epistolari degli imperatori il primo di cui abbiamo notizia da numerose

fonti è quello di Augusto. Tutte le lettere che possediamo ce le ha tramandate

Svetonio, ma notizie di questa raccolta sono presenti anche in autori di età

giulio-claudia, come Seneca il Vecchio. Oltre ad una serie di lettere pubbliche

sono presenti numerose missive private indirizzate ad amici quali Attico,

Mecenate, Virgilio, Orazio e ai più stretti parenti: la moglie Livia, la figlia Giulia, il

figlio adottivo Tiberio. Esse ci mostrano l’immagine meno ufficiale

dell’imperatore, un lato più intimo che contrasta con la figura tramandataci dalla

tradizione; inoltre anche da un punto di vista linguistico testimoniano l’uso di un

impasto linguistico che costituisce una testimonianza preziosa per lo studio del

sermo cotidianus.

Orazio e Ovidio ci hanno lasciato gli unici esempi di epistole in versi

dell’antichità: si tratta in parte di lettere realmente inviate, in parte di epistole

letterarie, i cui contenuti sono molto vari. È importante sottolineare che con

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questi due autori l’epistola si apre alle forme del trattato poetico e a quelle

dell’elegia, mostrandosi uno strumento di scrittura duttile e versatile, capace di

accogliere in sé le più varie forme comunicative. Questa peculiarità consentirà al

genere epistolare di sopravvivere nei secoli e di modificarsi, a seconda delle

esigenze degli scrittori e della società, senza tuttavia perdere le proprie

caratteristiche.

Le Epistulae di Orazio, composte in esametri, sono raccolte in due libri. Il primo ne

contiene 20, pubblicate dallo stesso autore tra il 20 e il 19 a.C.; le lettere sono

indirizzate ad amici e trattano in modo colloquiale i temi della morale oraziana. Il

secondo libro, forse pubblicato postumo, composto tra il 19 e il 13 a.C., contiene

due epistole di argomento letterario, una indirizzata ad Augusto, l’altra a Giulio

Floro, giovane compagno di Tiberio con aspirazioni letterarie; è incerto se attribuire

al secondo libro una terza epistola, quella indirizzata ai Pisoni e denominata Ars

poetica. L’Ars è un trattato di 476 esametri che illustra le teorie peripatetiche sulla

poesia, soprattutto quella drammatica.

Nel componimento proemiale del primo libro, Orazio annuncia di aver

abbandonato la poesia e di essersi rivolto alla filosofia; egli non intende seguire

una scuola in particolare, ma fornire verba et voces quibus hunc lenire dolorem

possis (I 34). Orazio riprende il modello epicureo delle lettere filosofiche, pur non

essendo un filosofo, e dopo aver mostrato, con le Satire, quali siano i difetti degli

uomini, ora si pone come maestro e intende ammonire e insegnare. I temi trattati

sono quelli tipici della morale oraziana: la ricerca del giusto mezzo, l’autàrkeia, la

campagna, come luogo ideale dove trascorrere l’esistenza, in opposizione al

frenetico ambiente cittadino; rispetto alle Satire, però, il tono è più dimesso, il poeta

appare disilluso e il ritiro nell’angulus, luogo protetto e solitario, appare l’unica

soluzione per trascorrere una vita serena. La maggior parte dei componimenti ha

funzione protrettica, si esortano cioè gli amici a seguire la scelta sapienziale di

Orazio, ad intraprendere un cammino di saggezza:

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Orazio, Epistulae

Dimidium facti, qui coepit, habet; sapere aude,

incipe. Vivendi qui recte prorogat horam,

rusticus expectat dum defluat amnis; at ille

labitur et labetur in omne volubilis aevum.

(I 2, 40-43)

Chi bene comincia è a metà dell’opera.

Coraggio, cerca di essere saggio: incomincia.

Chi rimanda l’ora della saggezza è il contadino

in attesa che il fiume defluisca:

ma il fiume scorre e scorrerà veloce

per la notte dei tempi.

(Traduzione M. Ramous)

La colloquialità che caratterizza il primo libro avvicina le lettere ai sermones

oraziani, tanto che in base ad alcune testimonianze di antichi scrittori si è

supposto che Orazio «non intendesse denominare epistulae questi suoi

sermones. In «Epist. II 1, 250 si accenna a sermones e si allude certamente

alle epistulae; Quintiliano (X 1, 94) non conosce epistulae di Orazio; Svetonio

stesso (Vita H. 8) parla solo di sermones» (Scarpat). Tuttavia questi testi

conservano tutte le caratteristiche della lettera: hanno un destinatario, sono

presenti le formule di saluto e di commiato, e il tono intimo e personale le

differenzia da quello mordace e ironico delle Satire; inoltre, non bisogna

dimenticarlo, sono testi in cui si sente fortemente l’influenza della precedente

esperienza poetica di Orazio, che conferisce al tono dimesso e colloquiale del

sermo la musicalità e l’armonia del verso.

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Nel secondo libro Orazio affronta questioni letterarie sostenendo posizioni

contrastanti con l’ideologia augustea, che incentivava la produzione di una

poesia utile e popolare e mostrava una predilezione verso l’epica e il teatro,

considerati i generi migliori per fare presa sul popolo. Nelle prime due epistole

Orazio esprime la sua idea sul ruolo del poeta e affronta la questione del teatro

e della letteratura arcaica.

La rivoluzione neoterica e il callimachismo avevano trasformato profondamente

il gusto letterario di Orazio, il quale non riesce a venire incontro alle esigenze

letterarie di Augusto. Nella lettera a lui rivolta, se da un lato attacca l’ignoranza

del popolo e di una parte dell’aristocrazia, incapaci entrambi di comprendere la

sua poesia raffinata, dall’altro, in segno di stima e rispetto verso Augusto,

ammette di non possedere la vis necessaria per scrivere opere di tal genere.

L’Ars poetica ci mostra invece un Orazio più conciliante nei confronti

dell’imperatore e sembra accogliere il programma di rinascita del teatro,

auspicato da Augusto. Invia così a due giovani aristocratici, in forma di lettera,

alcuni consigli per poter comporre nuove opere teatrali. Nell’epistola

confluiscono insieme alle teorie aristoteliche e ai gusti di Orazio, tutta una serie

di trattati di autori a noi sconosciuti, di cui è difficile rintracciare l’opera.

La soluzione prospettata auspica la nascita di un teatro impegnato e urbano, di

un’opera che conservi gli argomenti del teatro attico arcaico (morale, religione,

politica), all’interno di una forma che risponda ai dettami della poesia

callimachea ed alle regole di unità ed organicità di stampo aristotelico. L’Ars

poetica non vuole essere solo un manuale pratico, ma una vera e propria

dichiarazione di poetica, in cui si mescolano i consigli pratici e i giudizi estetici.

Orazio ritiene che il poetare non sia un’attività come le altre e assegna al poeta

e alla poesia una funzione morale e civile:

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Orazio, Ars poetica

Aut prodesse volunt aut delectare poetae

aut simul et iucunda et idonea dicere vitae.

Quicquid praecipies, esto brevis, ut cito dicta

percipiant animi dociles teneantque fideles;

omne supervacuum pleno de pectore manat.

Ficta voluptatis causa sint proxima veris:

ne quodcumque volet poscat sibi fabula credi

neu pransae Lamiae vivum puerum extrahat alvo.

Centuriae seniorum agitant expertia frugis

celsi praetereunt austera poemata Ramnes

omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci

lectorem delectando pariterque monendo.

Hic meret aera liber Sosiis, hic et mare transit

et longum noto scriptori prorogat aevum.

Il fine dei poeti è di giovare, o di dilettare, o di dire a un tempo cose piacevoli e utili alla

vita. Nell’impartir precetti sii breve; che la mente del discepolo li afferri sùbito e li

ritenga tenacemente: tutto ciò ch’è superfluo trabocca dall’intelletto ricolmo. Le cose

immaginate allo scopo di dilettare siano verosimili; né il dramma esiga che si presti fede

a qualsiasi panzana; né dal ventre della strega, che l’ha divorato, estragga il bambino

vivo e verde. Le centurie degli anziani deridono i drammi, che non contengono

ammaestramenti; i cavalieri boriosi disprezzano le composizioni serie. Raccoglierà tutti

i suffragi chi saprà contemperare con l’utile il dilettevole, offrendo spasso al lettore e

insieme istruendolo. Un libro di siffatto genere frutterà ai Sosii buona moneta; varcherà

il mare, e assicurerà per gran tempo la fama al celebrato scrittore.

(Traduzione T. Colamarino)

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Le Epistole di Orazio incontreranno larga fortuna a partire dal Medioevo fino a

tutto il Settecento, non come genere poetico, di cui pochi furono gli epigoni, ma

soltanto per il contenuto morale.

Alla produzione giovanile di Ovidio appartengono le Heroides, ventuno lettere

scritte in distici elegiaci. Le prime quindici sono scritte da eroine del mito ai loro

mariti o amanti, le restanti sei sono lettere di tre innamorati cui seguono le

risposte delle rispettive compagne. Probabilmente le due serie di lettere, scritte

in periodi differenti, sono state poi pubblicate in un unico volume. La definizione

di epistulae viene data dallo stesso Ovidio in un’opera successiva, l’Ars

amatoria, in cui parlando delle proprie opere afferma di essere l’inventore di

questo nuovo genere di epistole in versi:

Ovidio, Ars amatoria

[…] vel tibi composita cantetur Epistola voce;

ignotum hoc aliis ille novavit opus

(3, 345-46)

[…] o recita, se vuoi, con voce modulata una sua Epistola:

era un genere ignoto e l’ha inventato lui

(Traduzione E. Pianezzola)

Effettivamente non si hanno testimonianze di opere di questo tipo precedenti,

anche se Properzio, nel quarto libro delle elegie, scrive una lettera in versi

inviata da al marito Licota, lontano da Roma, in cui si intravedono già alcune

caratteristiche di questa nuova forma epistolare.

Si tratta di lettere fittizie non solo perché mittente e destinatario appartengono

alla sfera del mito, eccetto la poetessa greca Saffo, ma anche perché sono

scritte con il solo intento di sfogarsi: Deianira scrive ad Ercole che è già morto,

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Arianna si trova su un’isola deserta, Penelope scrive ad Ulisse senza sapere

dove egli si trovi. La primaria funzione comunicativa della lettera viene meno, ci

si trova di fronte a dei veri e propri monologhi. Da un punto di vista formale tali

monologhi assomigliano molto alle suasoriae, esercizi utilizzati nelle scuole di

retorica, basati su argomenti fittizi, che servivano a far esercitare i giovani

nell’arte oratoria. Le suasoriae, in particolare, avevano la finalità di consigliare e

di orientare l’azione di un personaggio di fronte ad una situazione difficile. Le

lettere sono dunque il tentativo di queste donne abbandonate di convincere i

loro uomini a ritornare sui propri passi.

Ovidio si appropria dei personaggi e delle storie del mito, dell’epos e della

tragedia e li reinterpreta secondo un taglio elegiaco, offrendoci l’unico esempio

di lettera d’amore dell’antichità, visto che i papiri non ce ne hanno tramandata

neanche una. Tuttavia, al di là del nome epistulae l’unica cosa che accomuna

questi testi con le lettere reali è il tono intimo con cui le protagoniste si rivolgono

ai loro amati.

I Tristia e le Epistulae ex Ponto, sono due libri di epistulae in distici elegiaci,

composte durante il soggiorno forzato di Ovidio nella cittadina di Tomi, in Asia

Minore (8 d.C.). Le cause della relegatio, che diversamente dall’esilio non

comportava la perdita di beni e della cittadinanza, non furono mai ben chiare,

ma è probabile che il poeta fosse stato testimone dell’adulterio di Giulia Minore,

nipote di Augusto, e non lo avesse denunciato all’imperatore, andando così

contro la Lex Iulia de adulteriis che puniva oltre all’azione anche il

favoreggiamento.

Il poeta sente il bisogno di mostrarsi innocente agli occhi dell’imperatore e a

quelli dei propri amici, di giustificare i passati comportamenti, di scindere i

contenuti della propria poesia dalla personale condotta di vita. La distinzione tra

vita e arte è il leitmotiv che attraversa le due raccolte, permettendo ad Ovidio di

mostrarsi un uomo rispettoso del mos maiorum, senza dover rinnegare il

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contenuto delle proprie opere, in particolare dell’Ars amatoria che era stata

colpita maggiormente da giudizi censori. In due passi delle Epistulae (Trist. II

247-50; Pont. 3, 3, 49-50) egli afferma che bisogna relativizzare ciò che lui ha

scritto, che l’Ars non era destinata alle donne perbene, che egli non ha

incoraggiato l’adulterio, né si è mostrato irriverente verso l’imperatore.

In queste opere l’elegia si riappropria della sua funzione originaria di canto di

sofferenze e di lamenti; il poeta cerca di mantenere una propria dignità anche

nel lontano esilio, ma i toni di disperazione e supplica prevalgono sull’orgoglio

ferito; proprio per queste caratteristiche alcuni studiosi sostengono che questi

testi, anche se sono lettere realmente inviate, «appartengono alla storia

dell’elegia; l’epistolografia su di esse ha poco da dire» (Scarpat).

Se da un punto di vista formale questa obiezione è corretta tuttavia i testi

risultano interessanti non solo per l’autobiografia del poeta, ma anche per

delineare meglio i rapporti tra potere e letteratura nella Roma imperiale.

Dalle lettere traspare un mondo di affetti legato alla figura del poeta. Non solo i

più stretti familiari, ma anche gli amici che hanno condiviso con lui molti

momenti vengono elogiati e ringraziati per l’affetto ed il sostegno ricevuto:

Ovidio, Tristia

O mihi post ullos numquam memorande sodales,

Et cui praecipue sors mea visa sua est,

Attonitum qui me, memini, carissime primus

Ausus es adloquio sustinuisse tuo,

Qui mihi consilium vivendi mite dedisti,

Cum foret in misero pectore mortis amor

[…]

Haec mihi semper erunt imis infixa medullis

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Perpetuusque animae debitor huius ero,

[…]

Di tibi sint faciles et opis nullius egentem

Fortunam praestent dissimilemque meae!

(I 5)

O tu che mai dovrò nominare dopo chiunque altro

dei miei compagni, e che soprattutto facesti tua la mia

[sorte

tu che lo ricordo, o carissimo, osasti per primo

[sostenermi

mentre ero stordito dalla condanna con le tue buone

[parole,

che mi desti con tenerezza il consiglio di vivere

mentre nel cuore distrutto vi era il desiderio di morire

[…]

Quello che hai fatto mi sarà per sempre infisso nelle

[più nascoste

midolle e sempre ti sarò debitore di questo mio respiro

[…] Gli dèi ti siano generosi e ti diano una sorte

non bisognosa di alcun aiuto e ben diversa dalla mia!

(Traduzione R. Mazzanti)

I Tristia scritti nella prima fase dell’esilio, sono caratterizzati dall’assenza del

nome del destinatario, perché Ovidio, temendo che le lettere potessero essere

intercettate, non voleva compromettere i suoi più cari amici. Il poeta esiliato

cerca conforto nelle persone care, chiede aiuto agli amici più potenti, affinché

intercedano per lui presso l’imperatore.

17

Nelle Epistulae ex Ponto, dove i nomi dei destinatari sono espliciti, è possibile

individuare la rete di relazioni che il poeta aveva costruito a Roma; in questa

raccolta si avverte maggiormente la sua disillusione e la sua stanchezza, le

speranze di una pena meno aspra sembrano svanire lentamente. Il dialogo con

l’imperatore è risultato privo di efficacia ed il poeta decide di mutare strategia ed

indirizzare le lettere soprattutto alle persone vicine al princeps o ai suoi futuri

successori. Uno dei destinatari più frequenti è Cotta Massimo, figlio di Messalla

vicino alla famiglia imperiale. In una lettera a lui destinata Ovidio inserisce un

panegirico ad Augusto, ne elogia i mores e le virtutes, e lo prega di perdonarlo e

di avere pietà di lui:

Ovidio, Epistulae ex Ponto

Parce, vir inmenso maior virtutibus orbe,

iustaque vindictae supprime lora tuae.

Parce, precor, saecli ducus indelebile nostri,

terrarum dominum quem sua cura facit.

Per patriae nomen, quae te tibi carior ipso est,

per numquam surdos in tua vota deos,

perque tori sociam, quae par tibi sola reperta est,

et cui maiestas non onerosa tua est,

perque tibi similem virtutis imagine natum,

moribus adgnosci qui tuus esse potest,

perque tuos vel avo dignos vel patre nepotes,

qui veniunt magno per tua iussa gradu,

parte leva minima nostras et contrahe poenas,

daque, procul Scythico qui sit ab hoste, locum.

(2, 8, 23-36)

18

Perdona, o eroe più grande per le tue virtù del mondo intero, e togli via i giusti colpi

della tua vendetta. Perdona, ti prego, onore indistruttibile del nostro secolo, tu che la

sollecitudine rende padrone dell’universo. Per il nome della patria, che ti è più caro di te

stesso, per gli dèi che non sono mai sordi ai tuoi voti, per la compagna del tuo talamo,

che sola è stata trovata uguale a te e per la quale la tua maestà non è gravosa, e per tuo

figlio, simile a te nell’immagine della virtù, che per le sue qualità può essere

riconosciuto come veramente tuo, e per i tuoi nipoti, degni e del loro nonno e del loro

padre, che avanzano a grandi passi secondo i tuoi ordini, consola anche in minima parte

e lenisci il mio supplizio; dammi un soggiorno che sia lontano dal nemico scitico.

(Traduzione S. Fasce)

Oltre ai lamenti e alle richieste di aiuto le lettere contengono descrizioni

naturalistiche della terra che lo ospita e racconti sugli usi e i costumi del popolo

di Tomi. Spesso il giudizio verso il luogo è molto sprezzante e la terra è definita

barbara e inospitale, soprattutto per le condizioni climatiche:

Ovidio, Tristia

Haec mea si casu miraris epistula quare

alterius digitis scripta sit, aeger eram.

Aeger in extremis ignoti partibus orbis,

incertusque meae paene salutis eram.

Quem mihi nunc animum dira regione iacenti

inter Sauromatas esse Getasque putes?

Nec caelum patior, nec aquis adsuevimus istis,

terraque nescioquo non placet ipsa modo.

(I 3, 1-8)

19

Se per caso ti meravigli perché questa mia lettera sia stata scritta dalla mano di un altro,

è perché sono malato. Malato nelle più lontane regioni del mondo sconosciuto, sono

perplesso persino sulla guarigione. Quale credi sia il mio animo, mentre giaccio malato

in un paese terribile, fra i Sarmati e i Geti? Non reggo al clima; non mi sono potuto

abituare a queste acque, e lo stesso paese, non so come, non mi piace.

(Traduzione S. Fasce)

Il fitto scambio epistolare non produsse tuttavia gli effetti sperati e Ovidio morì in

quella terra straniera tra il 17 e il 18 d.C.

L’epistolario di Seneca, tràdito con il titolo Epistulae ad Lucilium o Epistulae

morales, è composto da 124 epistulae raccolte in 20 libri. Esso tuttavia non

rappresenta tutta la produzione epistolare del filosofo, poiché Gellio ci dà notizia

di un libro XXII di lettere indirizzate a Lucilio e sappiamo anche dell’esistenza di

ulteriori epistole inviate ad altri corrispondenti.

Il tono moraleggiante e didattico dell’epistolario e i contenuti delle lettere,

strettamente connessi a quelli dei dialogi, hanno da sempre dato adito al dubbio

se si trattasse di lettere reali o fittizie. Alcuni studiosi, inclini a considerarle

fittizie, ritenevano che Seneca avesse scelto la forma epistolare solo per una

questione editoriale (forse in concorrenza con il modello ciceroniano) e che

Lucilio fosse soltanto il dedicatario dell’opera e non un vero e proprio

destinatario.

In realtà ormai la critica propende per la soluzione opposta basandosi su varie

componenti strutturali: in primo luogo l’esistenza di un preciso impianto

cronologico, sebbene l’assenza delle date nelle subscriptiones, renda

complesso l’ordinamento delle lettere; inoltre si riscontrano vari elementi che

caratterizzano la lettera privata, come ripetizioni, contraddizioni, riflessioni

intime; infine la presenza nelle lettere della topica epistolare latina, il continuo

riferimento alle epistole inviate da Lucilio, la varietà tematica, oltre gli argomenti

20

di carattere morale, e soprattutto l’esistenza di differenze strutturali tra blocchi di

epistole sono considerati ulteriori indizi per dimostrare la veridicità di questo

scambio epistolare.

Tuttavia l’epistolario senecano presenta un’ambiguità di fondo che è possibile

riscontrare anche a livello stilistico, poiché il discorso, anche quando si svolge

con toni familiari ed intimi, non è privo di quella eleganza che è imposta dalla

rielaborazione stilistica attuata in vista della pubblicazione. Del resto l’intento

editoriale viene esplicitato dallo stesso Seneca:

Seneca, Epistulae

Secessi non tanto ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum

negotium ago. Illis aliqua quae possint prodesse conscribo: salutares admonitiones,

velut medicamentorum utilum compositiones, litteris mando, esse illas efficaces in meis

ulceribus expertus, quae etiam si persanata non sunt, serpere desierunt.

(8, 2)

Mi sono allontanato non tanto dagli uomini quanto dagli impegni e prima di tutto dai

miei impegni personali: sono al servizio dei posteri. Scrivo cose che possano servire

loro; affido alle mie pagine consigli salutari come se fossero ricette di medicamenti

utili; ne ho sperimentata l’efficacia sulle mie ferite che non sono guarite completamente,

ma almeno non si sono diffuse.

(Traduzione C. Barone)

È verosimile che Seneca abbia pubblicato i vari gruppi di lettere in momenti

diversi, ciononostante tutte le lettere sono legate da un filo conduttore grazie al

fatto che fu egli stesso a curarne la raccolta e la revisione editoriale. L’idea di

pubblicare il suo carteggio privato può essergli venuta da raccolte precedenti

come quella di Epicuro, di cui mostra di avere conoscenza diretta, e quella

ciceroniana verso cui si mostra piuttosto critico (Ep. 118, 1-2). Il modello

21

epicureo viene invece elogiato poiché sfrutta in funzione didattica le potenzialità

comunicative dell’epistola, che si rivela un utile strumento di formazione

spirituale:

Seneca, Epistulae

Egregie hoc tertium Epicurus, cum uni ex consortibus studiorum scriberet: «Haec»

inquit «ego non multis, sed tibi; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus».

(7,11)

Eccellente anche questa terza affermazione di Epicuro; in una sua lettera a un compagno

di studi: «Io parlo non per molti, ma per te;» scrive, «noi siamo l’uno per l’altro un

teatro sufficientemente grande».

(Traduzione C. Barone)

Seneca è il primo che pubblica personalmente il suo epistolario ed è dunque

consapevole di compiere un’operazione letteraria e offrire ai lettori un genere

nuovo. La consapevolezza dell’originalità della propria opera è espressa

nell’incipit dell’ epistola 15:

Seneca, Epistulae

Mos antiquis fuit, usque ad meum servatus aetatem, primis epistulae verbis adicere «Si

vales bene est, ego valeo». Recte nos dicimus «Si philosophari, bene est». Valere enim

hoc demum est. Sine hoc aeger est animus; corpus quoque, etiam si magnas habet vires,

non aliter quam furiosi aut frenetici validum est.

(15, 1)

Era abitudine degli antichi, in uso fino ai miei tempi, scrivere all’inizio delle lettere «Se

tu stai bene ne sono contento, io sto bene». Giustamente noi diciamo: «Se ti dedichi alla

filosofia, ne sono contento», poiché alla fin fine questo significa stare bene. Senza la

22

filosofia l’anima è malata e anche il corpo, se pure è in forze, è sano come può esserlo

quello di un pazzo o di un forsennato.

(Traduzione C. Barone)

La scomparsa della formula canonica della praescriptio modifica la consueta

funzione informativa della lettera, che diviene adesso uno strumento di analisi

della vita interiore, di crescita spirituale sia per il maestro che per il discepolo:

Seneca, Epistulae

Putas me tibi scripturum quam humane nobiscum hiemps egerit, quae et remissa fuit et

brevis, quam malignum ver sit, quam praeposterum frigus, et alias ineptias verba

quaerentium? Ego vero aliquid quod et mihi et tibi prodesse possit scribam. Quid autem

id erit nisi ut te exhorter ad bonam mentem? Huius fundamentum quod sit quaeris? Ne

gaudeas vanis.

(23, 1)

Pensi che ti scriva quanto è stato benevolo con noi l’inverno, così mite e breve, quanto

sia maligna la primavera, quanto fuori stagione il freddo e altre sciocchezze tipiche di

chi non ha argomenti? Ti scriverò, invece, qualcosa che possa essere utile a entrambi. E

che altro se non esortarti alla saggezza? Chiedi quale ne sia il fondamento? Non

compiacersi delle vanità.

(Traduzione C. Barone)

Egli desidera che la sua opera possa essere un modello valido per i posteri, che

possa giovare, trasmettere testimonianze di saggezza pratica. Ogni giorno si

deve meditare su un argomento, l’occasione può anche essere un qualsiasi

avvenimento quotidiano, partendo dal quale bisogna riflettere e giungere a

23

considerazioni più generali, che, alla fine di ogni lettera, verranno sintetizzate in

una sententia morale, pillola di saggezza che va imparata a memoria in modo

che possa essere utile nel momento del bisogno.

La pratica epistolare si rivela dunque rispetto ai dialogi, uno strumento

educativo adatto ai «principianti», a coloro che iniziano a seguire un percorso

filosofico e che non sono subito pronti per affrontare in modo esaustivo gli

argomenti principali della filosofia di Seneca. A differenza del trattato, l’epistola

pone un solo tema al centro dell’attenzione, non è vincolata ad una

argomentazione troppo rigorosa, e, poiché è simile al dialogo, può sostituire

perfettamente la conversatio che si tiene durante il convictus dei sapienti; la

lettera si rivela la forma ideale per porre le basi della relazione educativa tra

maestro e discepolo, essa «diversa per natura e dimensioni dal liber, permette

di affrontare ogni volta singoli argomenti di immediato apprendimento. Mentre il

liber, il trattato, si distingue per una sua esaustiva sistematicità, l’epistula

costituisce un approccio parziale alla verità, si orienta su un singolo aspetto di

essa. Ma anche la discussione dei singoli argomenti delle epistole non è

caratterizzata, come nel trattato, dalla linearità e dal rigore: la lettera tende non

tanto a dimostrare una verità quanto a esortare, a invitare al bene: è un tipo di

letteratura principalmente parenetica» (Rosati).

Si crea dunque uno stretto rapporto tra la forma epistolare e il percorso

educativo di Lucilio. Ma questo procedimento non è un’invenzione di Seneca,

poiché egli ricalca esattamente la tecnica usata nella scuola di Epicuro, che

prevedeva un iter verso la sapienza scandito in tre tappe: in una prima fase il

discepolo acquisiva i princìpi fondamentali, poi affrontava uno studio un po’ più

esteso attraverso la lettura di raccolte di massime e precetti, infine giungeva ad

un approfondimento della dottrina e alla meditazione filosofica. Sempre

seguendo il modello di Epicuro, ma in parte anche di Cicerone, egli assicura a

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Lucilio che, attraverso il loro scambio epistolare, egli diverrà famoso, resterà

nella memoria dei posteri:

Seneca, Epistulae

Exempli Epicuri referam. Cum Idomeneo scriberet […] «si gloria» inquit «tangeris,

notiorem te epistulae meae facient quam omnia ista quae colis et propter quae coleris.

Numquid ergo mentitus est? Quis Idomenea nosset nisi Epicurus illum litteris suis

incidisset? […] Nomen Attici perire Ciceronis epistulae non sinunt. […] Quod Epicurus

amico suo potuit promittere, hoc tibi promitto, Lucili: habebo apud posteros gratiam,

possum mecum duratura nomina educere.

(21, 3-5)

Ti farò l’esempio di Epicuro. Scrivendo a Idomeneo […] diceva: «Se ti interessa la

gloria, ti renderanno più famoso le mie lettere che tutte le faccende di cui ti occupi e per

cui sei onorato». E non ha forse detto la verità? Chi conoscerebbe Idomeneo se Epicuro

non ne avesse scolpito il nome con le sue lettere? […] Le lettere di Cicerone fanno

vivere il nome di Attico. […] La promessa che Epicuro poté fare al suo amico te la

faccio anch’io, caro Lucilio: godrò del favore dei posteri e posso condurre con me fuori

dalle tenebre uomini destinati a una lunga fama.

(Traduzione C. Barone)

Nonostante queste promesse, nell’antichità, le Epistulae ad Lucilium godettero

di poca fortuna, non furono imitate e raramente citate.

L’epistolario di Plinio è composto da dieci libri: quelli da uno a nove contengono

lettere scritte tra il 97 e il 108 d.C. e sono state pubblicate dallo stesso Plinio,

mentre il decimo libro contiene le lettere inviate da Plinio a Traiano e le risposte

dell’imperatore; queste, in prevalenza, risalgono al periodo in cui lo scrittore era

governatore in Bitinia e probabilmente furono pubblicate dopo la sua morte.

25

Come tutti gli epistolari fin qui esaminati anche quello di Plinio pone problemi

sull’ordinamento cronologico e sulla pubblicazione della raccolta. Nella lettera

prefatoria all’epistolario l’autore dichiara di non aver seguito un ordine

cronologico nella raccolta delle lettere, ma di averle raccolte secondo il caso:

Plinio, Epistulae

Collegi non servato temporis ordine […], sed ut quaeque in manus venerat.

(I 1, 1)

Le ho raccolte, senza però attenermi alla successione cronologica […], ma seconda che

ciascuna mi capitava in mano.

(Traduzione F. Trisoglio)

In realtà secondo numerosi studi, inaugurati dal Mommsen, si riscontra, in linea

di massima, un impianto cronologico che solo in alcuni libri viene violato, poiché

l’autore, non avendo un numero sufficiente di lettere da pubblicare, tra quelle

scritte nel periodo di allestimento, ne inserisce alcune precedenti; è probabile

che questa operazione sia stata fatta per i libri VIII e IX. Riguardo alla

pubblicazione si ritiene che i volumi siano stati editi in momenti diversi. Gli

studiosi hanno fatto molte congetture su quale sia stata la reale successione

delle epistole, basandosi sulla maggiore o minore affinità di struttura interna tra i

libri.

Sulla natura dell’epistolario sono stati avanzati gli stessi dubbi sollevati per

quello di Seneca, ossia se si tratti di lettere reali o fittizie; ma come nel caso di

Seneca si deve pensare ad una rielaborazione di lettere reali, in cui tutti gli

elementi considerati contingenti vengono eliminati. Del resto lo stesso Plinio

nella lettera prefatoria ammette di aver pubblicato le epistole paulo curatius

scriptae e di volere modificare quae adhuc neglectae iacent. Il processo di

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rielaborazione è riscontrabile in tutte le lettere contenute nella raccolta, poiché,

rispetto alla canonica tipologia epistolare, presentano alcune differenze: ad

esempio l’eliminazione sistematica dell’appello diretto all’amico destinatario, al

vocativo, nel corpo della lettera, appello caratteristico di Cicerone (ad es. mi

Attice, mi Pomponi, mi frater etc.) e presente nel carteggio con Traiano; oppure,

all’inizio di molte lettere, Plinio fa riferimento alla missiva dell’amico cui si

accinge a rispondere spesso con stilemi che sembrano dimostrare che egli ha

uniformato successivamente gli «attacchi», pur reali, delle sue epistole.

Rispetto agli epistolari precedenti sicuramente ciò che caratterizza la raccolta

pliniana è la dimensione letteraria che non è solo presente come argomento di

conversazione, ma emerge anche dalla cura stilistica dei suoi testi. Il tono è

raffinato, la lingua corretta, l’architettura del periodo armoniosa, la scrittura è

sempre meditata; scompare quella spontaneità tipica delle lettere ciceroniane.

Le missive sono dedicate ciascuna ad un singolo argomento, i destinatari sono

vari, così come varia è la distribuzione degli argomenti nei libri; questa scelta

non risponde ad un criterio di casualità, come espresso nella lettera prefatoria,

ma ad un ordinato disegno, pensato dall’autore, per non annoiare il lettore e

attirare un ampio pubblico.

Il modello di riferimento è Cicerone, ammirato sia come uomo politico che come

letterato:

Plinio, Epistulae

[…] ob hoc maxime delectat auguratus meus, quod M. Tullius augur fruit. Laetaris

enim, quod honoribus eius insistam, quem aemulari in studiis cupio.

[5] Sede utinam, ut sacerdotium idem, ut consulatum multo etiam iuvenior quam ille

sum consecutus; ita senex saltem ingenium eius aliqua ex parte adsequi possim!

(4, 8, 4-5)

27

[…] il mio augurato ti fa piacere perché anche Cicerone fu augure. Sei infatti contento

che io nelle pubbliche cariche segua le tracce di colui con cui desidero rivaleggiare nella

produzione letteraria. [5] Realizzerei davvero il mio più alto sogno se, come ho

raggiunto lo stesso sacerdozio, come sono arrivato al consolato, e addirittura molto più

giovane di lui, così almeno da vecchio potessi conseguire anche solo una parte del suo

genio!

(Traduzione F. Trisoglio)

In realtà i due epistolari sono molto diversi sia per gli argomenti trattati, sia per

lo stile che in Plinio è molto più raffinato. Tuttavia Plinio imita alcuni passi o

intere lettere di Cicerone, ne fa esplicita allusione, riprende alcune delle sue

espressioni greche.

Nonostante le differenze con l’epistolario ciceroniano, anche quello di Plinio

presenta molti elementi di carattere biografico, anch’egli rispecchia fedelmente

la vita dei suoi tempi, in cui però l’antico impegno civile, che caratterizzava il

civis di età repubblicana, è venuto meno di fronte all’accentramento del potere

nelle mani dell’imperatore; le disquisizioni letterarie, le lodi di uomini insigni, le

descrizioni di paesaggi naturali sono i temi più frequenti nel suo epistolario, a

dimostrazione del mutato clima politico, di cui Plinio è perfettamente

consapevole:

Plinio, Epistulae

[1] Facis iucunde, quod non solum plurimas epistulas meas, verum etiam longissimas

flagitas. […] Praeterea nec materia plura scribendi dabatur.

[2] Neque enim eadem nostra condicio quae M. Tulli, ad cuius exemplum nos vocas. Illi

enim et copiosissimum ingenium et par ingenio qua varietas rerum qua magnitudo

largissime suppetebat; [3] nos quam angustis terminis claudamur, etiam tacente me

perspicis, nisi forte volumus scholasticast tibi mittere. (9, 2, 2)

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[1] È per me un vero piacere che tu mi chieda con insistenza delle lettere non solo in

gran numero, ma anche di grande lunghezza. […] Dall’altra parte non avevo argomenti

per scriverti di più. [2] La mia posizione è infatti ben diversa da quella di Cicerone, al

cui esempio tu mi richiami. Egli era dotato di un ingegno esuberante e poteva fare il più

largo assegnamento su temi che sia per varietà che per grandezza erano degni del suo

ingegno. [3] Quando siano invece angusti i limiti che mi rinserrano, tu lo vedi bene

anche senza le mie dichiarazioni, a meno che io mi rassegni a spedirti delle lettere che

siano componimenti scolastici.

(Traduzione F. Trisoglio)

La consapevolezza del proprio stile e delle caratteristiche proprie del genere

epistolare emerge in alcune lettere in cui l’autore esprime le sue teorie

sull’essenza e sulla funzione della lettera stessa. Secondo Plinio l’epistola deve

affrontare un unico argomento, e proprio per questo deve essere caratterizzata

dalla brevitas. Da un punto di vista linguistico egli propende per un sermo

pressus et purus («stringato e naturale»).

Il carteggio con Traiano presenta caratteristiche molto differenti rispetto alla

raccolta precedente. In primo luogo il destinatario è unico ed il rapporto che

unisce i due corrispondenti è al contempo affettuoso e ufficiale, per cui le lettere

private sono in realtà di pubblico interesse, inoltre all’argomento letterario si

sostituiscono i problemi relativi all’amministrazione delle province. Anche di

fronte a queste lettere gli studiosi hanno tentato di trovare risposte adeguate al

problema dell’ordinamento cronologico e a quello della pubblicazione del

corpus. A tutt’oggi si è inclini a pensare che le epistole ci sono giunte nell’ordine

con cui furono inviate e che la pubblicazione sia opera di un amico di Plinio,

che, dopo la sua morte, volle rendere omaggio allo scrittore mostrando anche la

sua immagine di uomo pubblico, di «servitore» dell’impero.

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Plinio, Epistulae

C. Plinius Traiano Imperatori

[1] Quinto decimo kalendas Octobres, domine provinciam intravi, quam in eo obsequio,

in ea erga te fide, quam de genere humano mereris, inveni.

(17b)

Gaio Plinio all’imperatore Traiano

[1] Signore, il 17 settembre ho fatto il mio ingresso nella provincia e l’ho trovata

animata da quella deferenza e da quella fedeltà verso di te che ti meriti da tutto il genere

umano.

(Traduzione F. Trisoglio)

Plinio, Epistulae

Traianus Plinio

[1] Cuperem sine querela corpusculi tui et tuorum pervenire in Bityniam potuisses […].

[2] Quo autem die pervenisses in Bithyniam, cognovi, Secunde carissime, litteris tuis.

Provinciales, credo, prospectum sibi a me intellegent. Nam et tu dabis operam, ut

manifestum sit illis electum te esse, qui ad eosdem mei loco mittereris.

(18)

Traiano a Plinio

[1] Sarebbe mio vivo desiderio che tu avessi potuto giungere in Bitinia senza che se ne

dovesse lagnare la tua salute cagionevole né quella del tuo seguito […]. [2] Ho poi

saputo dalla tua lettera, o carissimo Plinio, in quale giorno tu sei giunto in Bitinia. I

cittadini della provincia si renderanno conto, credo, che sono stati oggetto di una mia

speciale considerazione. Infatti anche tu ti impegnerai perché essi vedano chiaramente

che sei stato prescelto come il più idoneo per andare a tenere presso di loro il mio posto.

(Traduzione F. Trisoglio)

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Effettivamente dal carteggio con Traiano emerge un’immagine di Plinio più

come uomo d’azione che come letterato. Lo scrittore parla di problemi concreti

che deve affrontare un amministratore, inerenti la giustizia, le questioni fiscali e

amministrative. I testi risultano così importanti fonti documentarie per la

ricostruzione delle caratteristiche dell’amministrazione imperiale; inoltre, la

presenza di formule stereotipe ci permette di renderci conto delle caratteristiche

delle lettere ufficiali di età imperiale, spesso composte grazie all’uso di formulari

burocratici tipici delle cancellerie.

Nell’epistolario sono presenti anche molte lettere commendatizie con cui Plinio

raccomanda all’imperatore persone conosciute in Bitinia e a lui divenute care; la

richiesta più frequente riguarda la concessione della cittadinanza romana:

Plinio, Epistulae

C. Plinius Traiano Imperatori

[1] Ago gratias, domine, quod et ius Quiritium libertis necessarie mihi feminae et

civitatem Romanam Harpocrati, iatraliptae meo, sine mora indulsisti.

Sed, cum annos eius et censum, sicut praeceperas, ederem, admonitus sum a

peritioribus debuisse me ante ei alexandrinam civitatem imperatore, deinde Romanam,

quoniam esset Aegyptius.

[3] Rogo itaque, ut beneficio tuo legitime frui possim, tribuas ei et Alexandrinam

civitatem et Romanam.

(6)

C. Plinio all’imperatore Traiano

[1] Ti ringrazio, signore, di avere senza indugio benignamente concesso il diritto dei

Quiriti alle liberte di una signora che è congiunta a me da una stretta amicizia, e la

cittadinanza romana al mio medico Arpocrate.

Ma, mentre – in ossequenza alle tue disposizioni – io denunciavo la sua età e la sua

31

situazione economica, fui avvisato da chi era più pratico di me, che io gli avrei dovuto

ottenere prima la cittadinanza alessandrina e poi quella romana, perché si trattava di un

egiziano.

[3] Ti prego pertanto di concedergli la cittadinanza sia alessandrina che romana,

affinché io possa godere del tuo favore in pieno accordo con le norme di legge.

(Traduzione F. Trisoglio)

Plinio, Epistulae

Traianus Plinio

[1] Civitatem Alexandrinam secundum institutionem principum non temere dare

proposui. Sed, cum Harpocrati, iatraliptae tuo, iam civitatem Romanam impetraveris,

huic quoque petitioni tuae negare non sustineo.

(7)

Traiano a Plinio

[1] Mi sono prefisso, in conformità con le disposizioni degli imperatori, di non

concedere senza seri motivi la cittadinanza alessandrina. Ma siccome hai già ottenuto

per il tuo medico Arpocrate la cittadinanza romana, non mi basta l’animo di opporre un

diniego a questa tua seconda domanda.

(Traduzione F. Trisoglio)

L’epistolario ad familiares conobbe da subito una buona fortuna, soprattutto nel

IV secolo, in cui si assiste alla codificazione del genere epistolare ed alla

creazione di canoni di autori da imitare. Il carteggio tra Plinio e Traiano non

ebbe la stessa fortuna nell’antichità, forse perché affrontava argomenti troppo

tecnici legati all’amministrazione imperiale ed evidentemente poco interessanti

per i lettori delle epoche successive.

Il corpus frontoniano, scoperto nel 1815 dal cardinale Angelo Mai, ci è

32

pervenuto tramite un codice smembrato in varie parti per cui ci sono molte

lacune ed è difficile evidenziarne la struttura; inoltre alcune lettere sono state

trascritte in luoghi differenti, per cui è difficile stabilirne la reale collocazione,

così come è complesso stabilire se tali ripetizioni e spostamenti siano stati fatti

dal curatore del volume, o, come è più probabile, siano dovuti alle precarie

condizioni della tradizione manoscritta.

Una condizione così precaria del testo manoscritto pone seri problemi sulla

questione dell’ordinamento cronologico delle lettere e sulla loro pubblicazione.

Le caratteristiche stilistiche e la disposizione nel corpus, nonostante si registri,

anche in questo caso, l’assenza della data nelle subscriptiones, fanno

ipotizzare che non sia stato Frontone a pubblicare tutta la raccolta, perché le

sue lettere, a differenza di quelle di Plinio, sono poco rielaborate, più

spontanee. Si ritiene tuttavia che le epistole che trattano problemi retorici e le

epistole ad amicos siano state pubblicate dallo stesso autore.

Le lettere che compongono l’epistolario sono private, di carattere intimo e

testimoniano gli stretti rapporti che Frontone intrattenne con i membri della

famiglia imperiale e soprattutto con Marco Aurelio e con Lucio Vero, dei quali fu

maestro di retorica. Le epistole documentano il percorso educativo dei due

giovani imperatori che mostrano un particolare affetto verso il loro maestro. In

particolare Marco Aurelio, oltre a mostrarsi un ottimo alunno, esprime senza

remore il profondo affetto che lo lega a Frontone, che non solo gli ha insegnato

l’arte retorica, ma lo ha anche educato alla vita e alla verità:

Frontone, Epistulae

Magistro meo

[1] Duas per id tempus epistulas tuas accepi. Earum altera me increpabas et temere

sententiam scripsisse arguebas, altera vero tuere studium meum laude nitebaris. Adiuro

tamen tibi meam, meae matris, tuam salutem mihi plus gaudii in animo coortum esse

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illis tuis prioribus litteris meque saepius exclamasse inter legendum: «o me

felicem!» «Itane», dicet aliquis, «felicem te ais, si est qui te doceat, quomodo

gnåmhn sollertius, dilucidius, brevius, politius scribas?» Non hoc est quod me

felicem nuncupo. Quid est igitur? Quod verum dicere ex te disco.

(3, 13)

Al mio maestro

[1] In questo momento ricevo due tue lettere. In una di esse mi rimproveri e

dimostri che ho composto una massima senza riflettere, nell’altra, invece, cerchi,

lodandolo, di sostenere il mio zelo. Tuttavia ti assicuro per la mia salute, quella di

mia madre e la tua che si destò nel mio animo più gioia alla tua prima lettera e che

nel leggerla esclamai ripetutamente: o me fortunato! Qualcuno mi dirà «sei così

felice perché hai ci ti insegna a comporre una massima con più cura, chiarezza,

brevità e eleganza?» Non è per questo che mi chiamo fortunato. Perché allora?

Perché da te imparo a dire il vero.

(Traduzione F. Portalupi)

Frontone: Epistulae

Domino meo

[1] Quod poetis concessum est o¬nomatopoieîn, verba nova fingere, quo facilius

quod sentiunt exprimant, id mihi necessarium est ad gaudium meum expromendum,

nam solitis et usitatis verbis non sum contentus, sed laetius gaudeo quam ut

sermone volgato significare laetitiam animi mei possim: tot mihi a te in tam paucis

diebus epistulas scriptas easque tam eleganter; tam amice, tam blande, tam effuse,

tam fraglanter conpositas, cum iam tot negotiis quot officiis, quot rescribendis per

provincias litteris distringerere.

(3, 14)

34

Al mio signore

[1] Il neologismo concesso ai poeti, cioè il creare parole nuove, per estrinsecare

con più facilità i propri sentimenti, è necessario a me per esprimere la mia gioia. In

effetti le parole usate comunemente non mi appagano; ma la mia esultanza è troppo

viva perché io possa manifestare col linguaggio comune la felicità del mio amico:

che tu mi abbia scritto in così pochi giorni tante lettere composte con tale eleganza

e affetto, con tale dolce e ardente trasporto, quando appunto sei occupato da tanti

affari, da tanti compiti, dal dovere di rispondere a tante lettere nelle varie province.

(Traduzione F. Portalupi)

I rapporti tra i due si raffredderanno, solo per un breve periodo, quando

Marco Aurelio, accostatosi alla filosofia, trascurerà la retorica, in seguito ci

sarà un nuovo riavvicinamento.

Il carattere biografico delle lettere permette di ricostruire, attraverso tutto

l’epistolario, le personalità dei destinatari e i rapporti personali che essi

intrattenevano con Frontone; da questo punto di vista l’epistolario

frontoniano è quello che più si avvicina alle lettere di Cicerone, anche se a

differenza di queste ultime, riflette unicamente un mondo personale ristretto

e chiuso, incentrato sull’insegnamento della retorica e sull’affettuoso

rapporto tra maestro e scolaro. La società, al di fuori della corte imperiale,

non viene mai descritta; il rapporto tra allievo e maestro assorbe tutta

l’attenzione dei due corrispondenti, che si limitano per lo più a discorsi

letterari; ma il mondo della letteratura, se si esclude quello delle scuole di

retorica con la prassi delle esercitazioni assegnate agli allievi, non emerge,

come accade invece nell’epistolario di Plinio, nella sua complessità e nelle

sue articolazioni.

35

Frontone, Epistulae

Ave mi magister optime

[1] Scio natali die quoiusque pro eo, quoius is dies natalis est, amicos vota suscipere;

ego tamen, quia te iuxta ut memet ipsum amo, volo hac die, tuo natali, mihi bene

precari. Deos igitur omnis, […] mihi votis advoco […] Minervam genibus nixus obsecro

atque oro, si quid ego umquam litterarum sciam, ut id potissimum ex Frontonis ore in

pectus meum commigret.

[3] Vale, mi dulcissime et carissime magister. Rogo, corpus cura, ut, quom venero,

videam te. Domina mea te salutat.

(3, 10)

Salute, mio ottimo maestro

[1] So che gli amici, nel giorno della nascita di qualcuno, fanno voti per colui di cui

quel giorno è il compleanno; io invece, poiché ti amo come me stesso, voglio in questo

giorno del tuo compleanno rivolgermi un augurio. Dunque ogni divinità […] io imploro,

[…] prego e scongiuro Minerva, se mai io possa conoscere un po’ le lettere, che, questo

specialmente, passi dalla bocca di Frontone nell’animo mio.

[3] Addio, mio dolcissimo e carissimo maestro. Abbiti cura, ti prego, perché, quando

verrò, ti possa vedere. La mia signora ti saluta.

(Traduzione F. Portalupi)

Domini meo

Omnia nobis prospera sunt, quom tu pro nobis optas; neque enim quisquam dignior

alius te qui a dis quae petit inpetret; nisi quod ego cum pro te precor; nemo alius te

dignior est pro quo impetretur. Vale, domine dulcissime. Dominam saluta.

(3, 11)

36

Al mio signore

Tutto mi è propizio se tu mi fai gli auguri, e nessun altro è più degno di te di ottenere

dagli dèi ciò che chiede; tranne me quando faccio voti per te: non c’è nessun altro di te

più degno in grazia del quale si sia esauditi. Addio, carissimo signore. Saluta la mia

signora.

(Traduzione F. Portalupi)

Cicerone e Plinio sono gli autori di epistole a cui Frontone fa esplicito

riferimento o velata allusione, attraverso la ripresa di frasi, l’imitazione di alcuni

pezzi di lettere, l’emulazione di alcuni passi. Da un punto di vista stilistico è

notevole la cura formale con cui sono redatte le sue lettere, «ma quello che più

colpisce nelle lettere di Frontone, così attentamente costruite, letterariamente

bilanciate, cesellate al bulino e lavorate al mazzuolo in ogni parola, è

l’apparenza di semplicità e la delicatezza degli affetti» (Portalupi).