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- 1 - TRADIZIONE E OBSOLESCENZA NEL DIRITTO PENALE PROF. ANDREA R. CASTALDO * Resumen: In questo lavoro, l’Autore rivisita le articolazioni del diritto penale, squarciando il velo sull’inconsistenza di tabù ormai privi, nella sostanza, della sacralità che continua indebitamente a preservarli in un’aura di intoccabilità, causa della stagnazione applicativa e di pensiero che consegna il diritto penale a uno splendido isolamento, nella sua autoreferenzialità. In tale prospettiva, percorsa con il proficuo approccio offerto dalla gesamte Strafrechtswissenschaft e alla luce del contributo decisivo di ricerche empirico- criminologiche e di indagini statistiche, viene riletto il nodo del rapporto efficienza-garanzia, rivalutandone il possibile contemperamento come momento favorevole al progressivo consolidamento di un consenso sociale, inteso quale sostrato essenziale per un’opera riformatrice seria e incisiva. Resumen: En este trabajo, el autor revisa las articulaciones del derecho penal, corriendo el velo sobre la inconsistencia del tabú ahora ya privado, sustancialmente, de la sacralidad que continúa preservándolo indebidamente bajo un aura de “intocable”, a causa del estancamiento aplicado y del pensamiento que constriñe al derecho penal a un espléndido aislamiento de autorreferencialidad. En esta perspectiva, de la mano de la provechosa aproximación ofrecida por la gesamte Strafrechtswissenschaft, y a la luz de la decisiva contribución de las investigaciones empírico-criminológicas y de los datos estadísticos, surge una relectura del nudo de la relación eficiencia-garantía, revalorizando la posible reconciliación como momento favorable para la consolidación progresiva de un consenso social, entendido como base esencial para una obra reformadora seria e incisiva. I. LA MODERNIZZAZIONE DEL DIRITTO PENALE. Le riflessioni sul diritto penale (sul ruolo, sui compiti, sulla stessa legittimazione) si caratterizzano per le loro basi consolidate, per un impianto classico ancorato a principi tradizionali che soffrono il peso dell’obsolescenza. A ben vedere, in nessun campo delle conoscenze (dalla letteratura all’arte, dalla medicina alle scienze tecnologiche) si registra un analogo fenomeno, contrassegnato dall’assoluta impermeabilità - quando non da un atteggiamento di fastidiosa indifferenza - al nuovo. * Ordinario di Diritto Penale, Università degli Studi di Salerno, Segretario Generale per l’Europa I.C.E.P.S

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TRADIZIONE E OBSOLESCENZA NEL DIRITTO PENALE

PROF. ANDREA R. CASTALDO*

Resumen: In questo lavoro, l’Autore rivisita le articolazioni del diritto penale, squarciando il velo sull’inconsistenza di tabù ormai privi, nella sostanza, della sacralità che continua indebitamente a preservarli in un’aura di intoccabilità, causa della stagnazione applicativa e di pensiero che consegna il diritto penale a uno splendido isolamento, nella sua autoreferenzialità. In tale prospettiva, percorsa con il proficuo approccio offerto dalla gesamte

Strafrechtswissenschaft e alla luce del contributo decisivo di ricerche empirico-criminologiche e di indagini statistiche, viene riletto il nodo del rapporto efficienza-garanzia, rivalutandone il possibile contemperamento come momento favorevole al progressivo consolidamento di un consenso sociale, inteso quale sostrato essenziale per un’opera riformatrice seria e incisiva. Resumen: En este trabajo, el autor revisa las articulaciones del derecho penal, corriendo el velo sobre la inconsistencia del tabú ahora ya privado, sustancialmente, de la sacralidad que continúa preservándolo indebidamente bajo un aura de “intocable”, a causa del estancamiento aplicado y del pensamiento que constriñe al derecho penal a un espléndido aislamiento de autorreferencialidad. En esta perspectiva, de la mano de la provechosa aproximación ofrecida por la gesamte Strafrechtswissenschaft, y a la luz de la decisiva contribución de las investigaciones empírico-criminológicas y de los datos estadísticos, surge una relectura del nudo de la relación eficiencia-garantía, revalorizando la posible reconciliación como momento favorable para la consolidación progresiva de un consenso social, entendido como base esencial para una obra reformadora seria e incisiva.

I. LA MODERNIZZAZIONE DEL DIRITTO PENALE.

Le riflessioni sul diritto penale (sul ruolo, sui compiti, sulla stessa legittimazione) si

caratterizzano per le loro basi consolidate, per un impianto classico ancorato a principi

tradizionali che soffrono il peso dell’obsolescenza.

A ben vedere, in nessun campo delle conoscenze (dalla letteratura all’arte, dalla

medicina alle scienze tecnologiche) si registra un analogo fenomeno, contrassegnato

dall’assoluta impermeabilità - quando non da un atteggiamento di fastidiosa indifferenza - al

nuovo.

* Ordinario di Diritto Penale, Università degli Studi di Salerno, Segretario Generale per l’Europa I.C.E.P.S

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Fondamentalmente, la lesione del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice,

la funzione di garanzia connessa, la rieducazione del condannato, non rappresentano

certamente novità nel dibattito attuale e condensano una stagnazione nel pensiero e nella

metodologia applicativa.

La constatazione, persino banale, di tale evidente ‘stato dell’arte’ non reca in sé un

automatico giudizio di disvalore, ma vuole limitarsi semplicemente ad una presa di

coscienza, per sollecitare il necessario approfondimento, le cui cause sono tuttora poco

investigate.

Esemplificando: un’infezione di origine batterica conta oggi su sofisticate tecniche di

indagine, anche preventive e geneticamente manipolative, su sicuri strumenti di diagnosi, e

metodiche terapeutiche eradicative della patologia. La medicina sociale del diritto penale si

avvale al contrario – terminata da tempo la spinta propulsivo-riformatrice dei movimenti

criminologici - di stereotipi privi ormai del supporto empirico, di un’auscultazione manuale

del paziente, al quale non resta che applicare (rectius, prescrivere) la cura del carcere,

nell’illusione di conciliare lo stigma applicativo con la salvaguardia del baluardo

costituzionale della risocializzazione.

a) Sull’isolamento della ’scienza’ penale.

Altrettanto anomalo è l’isolamento di cui soffre la scienza del diritto penale: non si

tratta soltanto della ben nota incomunicabilità con la giurisprudenza e con l’opinione pubblica

(il destinatario - utente è sempre relegato al ruolo di comparsa), ma del più grave

estraniamento rispetto alle discipline contigue.

Se infatti il diritto societario, la contrattualistica hanno dovuto arrendersi, piegandosi

sotto il peso di nuove forme e schemi, e persino la procedura penale ha assunto una

fisionomia diversa (si pensi alla giustizia contrattata e ai riti alternativi), finendo così per

assumere una funzione trainante nei confronti del penale sostanziale, il vecchio, caro diritto

penale è rimasto fedele a se stesso, in una sorta di autoreferenzialità non scevra da precisi

ideologismi.

Né la storia del diritto penale ci consegna movimenti di avanguardia, a differenza

della letteratura e delle arti, e con la sola eccezione forse dei movimenti abolizionistici, che

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per la loro natura di rottura hanno se non altro il vantaggio di accelerare cambiamenti e

traghettare verso il nuovo.

Occorre sfatare inoltre un ulteriore luogo comune, e cioè che il risicato appeal del

diritto penale sia conseguenza della legislazione penale disordinata degli ultimi decenni: che

il nostro legislatore – indipendentemente dal colore politico – non brilli per tecnica, e non

insegua razionalità di sistema, é un dato acquisito.

Ma altrettanto incontrovertibile, anche se non egualmente sottolineato, è che:

- tale disordine è conseguenza legittima di una scienza del diritto penale obsoleta per

linguaggio e contenuto, incapace di fissare modelli di riferimento adeguati a chi fa le norme

(e a chi deve interpretarle);

- la tecnica legislativa ispirata sovente nei risultati alla logica del compromesso è del

tutto naturale, in quanto espressione dei lavori parlamentari e dunque della mediazione

politica tra maggioranza e opposizione, e persino delle lobby condizionanti i programmi di

politica criminale (non prenderne atto rappresenterebbe un’inutile ipocrisia);

- non si può disconoscere al legislatore il merito di una maggiore attenzione ai tempi

mutati e alla correlata opera di modernizzazione, attraverso la regolamentazione di intere

aeree mediante la riformulazione o l’introduzione di nuove fattispecie (ambiente, criminalità

informatica, risparmio).

Si dirà: ma alla scienza del diritto penale spetta il compito di interpretare le scelte del

legislatore, ed è dunque vincolata agli spazi lasciati dalle norme di parte generale, da quel

legislatore cronicamente incapace di dare al Paese un nuovo codice penale e una nuova parte

generale, nonostante i generosi contributi offerti dalla dottrina.

A prescindere dalla tormentata storia che alcune commissioni di riforma hanno avuto,

l’obiezione non coglie nel segno.

In primo luogo, qui si rivendica agli studiosi del diritto penale non tanto la funzione

applicativa, necessariamente limitata, dell’esegesi della norma per ricondurla alla teoria

generale, bensì il ruolo propositivo di motore di ricerca, di sperimentazione e indirizzo

proprio nei confronti del legislatore.

Ma anche sul versante a valle le cose non vanno così bene.

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La dottrina contemporanea, in maggioranza, è ancora ferma a schemi tradizionali, ad

un impianto classico fortemente stridente con il novum e con una forte resistenza ad accettare

linee ricostruttive alternative.

E valga l’esempio della causalità: a differenza di altri Paesi, anche geograficamente

lontani, la teoria dell’imputazione oggettiva stenta a prendere piede; e se le investigazioni di

Stella hanno avuto l’indiscusso merito di ridare autorevolezza scientifica ai principi fondanti,

l’indirizzo classico prevale e l’idea della prevedibilità continua in giurisprudenza – salvo

isolate eccezioni – a rappresentare il discrimine dell’attribuzione dell’evento.

O ancora l’imputabilità: qui la barriera dei quattordici anni si presenta distonica

rispetto alle nuove acquisizioni della scienza medica e al più generale impatto del progresso

culturale, senza contare l’attrito con una prassi vistosamente di segno contrario, come il

fenomeno delle baby-gangs insegna.

Il tutto soltanto nell’illusione, ormai superata storicamente, di tutelare dal rigore

penale un minore, anagraficamente e socialmente non più tale.

Il paragone con l’esperienza comparata rende ancora più evidente ciò: basterebbe

pensare al dogma eroso della irretroattività in malam partem nel caso di riforme peggiorative

intervenute ‘in corso d’opera’, durante il giudizio, o, sul versante processuale, l’accettazione

in altri ordinamenti della tangibilità del dictum di proscioglimento.

b) La distanza tra teoria e prassi.

La scollatura tra teoria e pratica o, se si preferisce, l’inadeguatezza (di immagine e di

mezzi) del diritto penale è particolarmente evidente di fronte a emergenze politico-sociali,

come il terrorismo.

Peraltro, ancora una volta il legislatore si è mosso con tempismo, introducendo un

paniere di disposizioni con l’intento di predisporre un’adeguata risposta al fenomeno. Si potrà

essere critici verso tale pacchetto, ma l’impressione che si trae dal seguire il dibattito nostrano

è l’accanita resistenza verso la difesa di modelli politico-criminali di scarso impatto

antagonista.

Così, mentre non solo nei Paesi a assetto più pragmatico (come gli Stati Uniti, dove la

dottrina s’interroga sulla legittimazione della tortura in casi estremi, ad esempio di ticking-

bomb situation), ma persino in quelli a impostazione classica (la Germania, con il dibattito

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sulla possibilità di non ripudiare il diritto penale tradizionale, ma di ‘sospenderlo’

provvisoriamente, sostituito da un diritto penale militare) si sperimentano percorsi innovativi,

la stagnazione del pensiero di casa nostra appare francamente in risalto, e le voci sul punto si

limitano alla generica contrapposizione tra efficienza e garanzia del (nel?) diritto penale.

In nome, tuttavia, di una fragile aporia e di uno storico malinteso, che si nutre

dell’aprioristica inconciliabilità degli estremi, viceversa plasmabile nell’ossimoro delle

efficienti garanzie.

È tempo infatti di riconoscere che l’ ‘efficienza’ di un sistema è essa stessa

espressione di garanzia, poiché permette un migliore funzionamento, una macchina rodata

dalla giustizia più vicina ai bisogni del suo utente, innocente o colpevole che sia.

c) Le priorità di tutela nella prospettiva dell’utente.

Le riflessioni innescate dalla mutata fenomenologia sociale coinvolgono così gli

assetti e gli equilibri tradizionali in cui si muove il diritto penale, nelle articolazioni degli

istituti di parte generale e nelle funzioni rivestite.

Il diritto penale del futuro – un’espressione carica di simbolismo, poiché riconosce

implicitamente la persistenza del diritto penale, contemporaneamente lasciando

nell’indeterminatezza del concetto di futuro la relativizzazione del tempo e dell’applicazione

nel tempo – dovrà per forza di cose cimentarsi con la rivisitazione dei suoi ‘fondamentali’,

con esercizio di umiltà, se vuole davvero recuperare il gap con l’opinione pubblica.

Ad esempio, nel ranking delle priorità dell’uomo della strada la sicurezza occupa una

posizione privilegiata. È un’espressione abusata, che nella sua estensione terminologica

racchiude non solo problemi di ordine concreto, ma anche esigenze emotive del ‘sentirsi

sicuro’, in relazione ai bisogni di vita e alle aspettative quotidiane.

Basterebbe pensare a tutte quelle forme insidiose di violenza collettiva gratuita: dalle

degenerazioni di piazza, con i connessi insulti alle forze dell’ordine - oggetto di implicita

immunità penale per i manifestanti -ai blocchi stradali con le autorità istituzionali in prima

linea. Fenomenologie disseminate di protesta, retrocesse da comportamenti penalmente

rilevanti a espressioni di disagio sociale, tuttavia incrinanti la fiducia del cittadino, in nome di

una falsa visione di libertà di pensiero che diventa anarchia allorquando oltrepassa i confini

della legalità.

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Questo stato di cose, la connessa, palpabile sensazione di insicurezza e di paura, con

gli inevitabili riflessi economici in termini di sviluppo e crescita, è stata intercettata

nuovamente in modo diverso: più sensibile il legislatore, che ha cercato di plasmare i singoli

reati e le pene sulle aspettative del corpo sociale (il simbolismo della legislazione penale, la

cui accezione negativa dimentica però la naturale tendenza ‘politica’ a soddisfare e

‘ricompensare’ il corpo elettorale), conseguendo in tal modo quanto meno un effetto di

riavvicinamento all’utente; più refrattario il teorico, nella convinzione che il diritto penale – e

la teoria che lo governa – rivesta esclusiva funzione di garanzia del reo e non serva a

impedire la criminalità.

Ma si tratta di un’acquisizione che consegna il diritto penale a uno splendido

isolamento, nella sua autoreferenzialità.

La fase della minaccia (della pena) serve in realtà a dissuadere il potenziale autore di

reati dalla loro commissione, come l’idea classica della prevenzione generale ha spiegato; e la

versione ‘positiva’, culturalmente più raffinata e non adeguatamente rappresentata,

nell’imporre un modello di orientamento, mira proprio al contenimento dei reati.

Dunque, esiste un segmento procedimentale nel quale, sicuramente,la prevenzione del

reato, id est la sicurezza pubblica, è appannaggio del diritto penale.

d) Educazione e non rieducazione del condannato?

Ma è all’atto dell’esecuzione della pena (detentiva, il cui ruolo da protagonista è

indiscusso e tacitamente accettato) e dell’ingombrante gestione del condannato, che le cose si

complicano. In effetti, la predominante e assorbente opzione della rieducazione, dell’emenda

del reo (nella scintillante visione ideale, e nel programma costituzionale e di riforma, poiché

nella prassi una ricognizione persino superficiale e banale del mondo carcerario consegna una

realtà agli antipodi) non è affatto antinomica a politiche di sicurezza sociale.

Se l’obiettivo primario è infatti la prevenzione speciale (ma occorrerebbe chiedersi

come una tale politica, che presuppone un programma costante e adeguato di investimenti,

possa conciliarsi con la cronica carenza di risorse finanziarie, per trarre conferma dell’utopia

del programma), di fatto il raggiungimento del traguardo comporta l’abbassamento

dell’indice di criminalità.

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In breve: la neutralizzazione della pericolosità sociale, e dunque il soddisfacimento

del bisogno collettivo di tranquillità e sicurezza, non è estraneo al diritto penale, persino

considerato nella veste tradizionale. Nel momento della minaccia della pena, per l’effetto di

prevenzione ‘indistinta’ che lo contorna; nel momento dell’applicazione, per l’effetto di

eliminazione singola della recidiva scaturente dal programma di ‘attenzione personalizzata’

della rieducazione.

Semmai, il discorso sulla recidiva – e sulle analisi empiriche attestanti il suo alto tasso

– dovrebbero automaticamente dimostrare la crisi del modello attuativo della rieducazione.

Ma anche l’ideale della necessità ad ogni costo di redimere il reo, con la connessa ideologia

del trattamento, finiscono per provare troppo: non si tratta soltanto della nota questione

dell’imposizione di un programma rieducativo, e dunque di una violenza, di una costruzione

imposta a accettare valori sociali nei quali il condannato non si riconosce, accusa che si

ritorce contro gli stessi teorici del garantismo, ma è il più sottile equivoco che si cala nel

programma di recupero.

Si resta così fedelmente innamorati al mito seducente della rieducazione (e derivati:

reinserimento, risocializzazione, e così via). Non a caso, una condizionante scelta semantica

che implica l’esistenza di un’indimostrata educazione o inserimento di base. È ancora però

attuale una tale opzione di fronte alla società multiculturale, a fenomeni sociocriminali nei

quali è la stessa ‘umanità’ del crimine a essere in discussione? Con quali strumenti dommatici

ragioneremo nei casi, già ricordati in precedenza, di ticking-bomb situation? Se si parlasse –

differenziando le politiche punitive – di educazione o socializzazione del reo, probabilmente

il contenuto pedagogico afflittivo della pena risulterebbe più giustificabile, recuperando un

ispessimento del rigore sanzionatorio che l’opinione pubblica (e non solo) avverte come

prioritario. Attraverso magari la previsione di prestazioni lavorative del condannato,

direttamente o indirettamente a favore della vittima (individuale o collettiva), agganciate al

suo precedente know-how di esperienze.

Quanto al versante costituzionale, la previsione già esistente del “tendere alla

rieducazione”, un obiettivo dunque e non un imperativo, potrebbe essere corroborata

dall’addenda dell’ “assicurando la sicurezza individuale e collettiva”, così rafforzando quale

sottoprincipio la tutela della vittima.

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E qui si inserisce il punctum dolens della distanza tra teoria e pratica, e

dell’incomprensibilità ai più delle formule e schemi.

È allora ormai, raggiunto il momento in cui una riflessione più attenta deve imporsi: a

cospetto di un mutato modello sociale, dove sacche resistenti di criminalità derivano da

scarsa integrazione (ad esempio, immigrazione clandestina), o da rifiuto di integrazione, per il

geloso attaccamento alle proprie culture, appare quanto meno azzardato immaginare una

politica di rieducazione, se difetta alla base il presupposto, la condivisione cioè degli stessi

valori, e il loro riconoscimento. L’accettazione del nuovo status quo porterebbe

probabilmente alla presa d’atto dell’abbandono di un’arrogante ideologia del trattamento, per

i limiti endogeni che incontra in tali contesti, a causa dell’isolamento del condannato.

E altrettanto probabilmente condurrebbe a un’accentuazione salutare del carattere

della retribuzione, oltretutto ancorata al requisito vincente della proporzionalità fondata sulla

colpevolezza, e al contrario poco conciliante con la predeterminazione in durata della pena

inflitta, non potendo essere chiaro in anticipo quando l’opera di risocializzazione avrà colto

nel segno (il furto seriale di oggetti di valore modesto, ma espressione del rifiuto dell’idea di

proprietà, rende bene la divaricazione tra una durata della pena estesa in ragione del cammino

educativo e contemporaneamente esigua in virtù della scarsa offensività).

Vorrei fare un esempio per chiarire questi aspetti.

La pratica della infibulazione è oggi finalmente vietata da una legge ad hoc (L. 9

gennaio 2006, n. 7), che punisce le mutilazioni sessuali.

Sappiamo benissimo che in alcune società tale pratica non solo è tollerata, ma

incoraggiata, rappresentando un valore eticizzante. Ebbene, la mutilazione effettuata apparirà

all’extracomunitario del tutto lecita, e anzi non comprenderà o addirittura rifiuterà una cultura

nella quale l’atto è penalmente sanzionato. Come comportarsi in casi del genere? È qui che la

teoria della rieducazione – già nella sua visione ideale – mostra i segni dell’affaticamento.

Sarebbe più corretto intanto parlare di un’educazione del condannato a valori che mai ha

conosciuto, ma come ciò possa avvenire (e in quale cornice temporale) attraverso lo

schiudersi delle porte del carcere è solo un tributo che si paga all’altare dell’ipocrisia.

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II. IL CONTESTO STORICO TRADITO: L’INVECCHIAMENTO DEI PRINCIPI CLASSICI E IL

PESO DELLA VITTIMA DEL REATO.

Ancora una volta, la chiave di decifrazione dell’aspetto di inadeguatezza rispetto al

nuovo risiede nel mancato allineamento temporale dei principi ispiratori. Il diritto penale

classico – nel suo significato di modernità – si sviluppa come Magna Charta del delinquente,

costruendo intorno a questi una fitta rete di garanzie. La posizione di centralità del reo andava

peraltro giustamente valorizzata ed era perfettamente congruente con il relativo momento

storico, rappresentando l’affrancamento dagli abusi di uno Stato totalitario e l’emersione

della idea di democrazia.

In buona sostanza, la democratizzazione della società avveniva su vari livelli, e uno

fondamentale era la tutela del delinquente dagli abusi attraverso il codice penale, proprio

perché il delinquente costituiva l’anello più debole e più esposto all’arbitrio del potere, per la

sua marginalità e riprovevolezza sociale.

In definitiva, la storia della Strafrechtswissenschaft nella costruzione del volto del

diritto penale si può leggere come progressiva conquista di spazi di garanzia: il principio di

legalità, ovviamente, il reato come lesione di un bene giuridico prevalentemente individuale,

e la connessa sfiducia verso il reato di pericolo per l’accentuata anticipazione della soglia di

tutela e dunque l’impoverimento dell’offensività, la prevalenza dell’Erfolgsunwert

sull’Handlungsunwert, il societas delinquere non potest per la visione materiale,

antropocentrica della responsabilità personale, la causalità ancorata a leggi scientifiche di

copertura per la razionalizzazione degli avvenimenti, sino alla pena come rieducazione. O, se

si vuole, nel contrastare teorie ‘eversive’ della classicità instaurata: dalla emarginazione del

finalismo, nella versione originaria e negli epigoni à la Jakobs del Feindstrafrecht, dal rifiuto

del diritto penale del rischio, dalla critica allo Zufallskomponent del reato colposo, solo per

citare le più significative.

Insomma, il codice penale a garanzia dell’imputato e del condannato si è stratificato

nella legislazione e sedimentato nelle coscienze degli studiosi, le cui teorizzazioni sono

arrivate ad oggi in via tralaticia.

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Intendiamoci, con ciò non voglio dire che siffatte conquiste di civiltà vadano abrogate:

esse rappresentano il lento e faticoso cammino nella ricerca e affermazione dei diritti

dell’individuo in un periodo storico di oppressione statuale, e come tali vanno salvaguardate.

Ma ora che, almeno da noi, lo Stato di diritto non è revocabile in dubbio e la

democrazia è consolidata, dopo la parentesi buia del nazismo, del fascismo, delle dittature

comuniste, si tratta di prendere atto, da una parte, che l’emergenza è cessata e, dall’altra, che i

tempi sono cambiati. In parole semplici: il baricentro del diritto penale va riequilibrato, e in

favore della vittima; che il codice penale venga rappresentato come uno strumento di tutela

dell’autore del reato, e che il soggetto passivo rappresenti un ospite indesiderato e trattato con

sufficienza al tavolo della giustizia, è giuridicamente errato e difficile da far comprendere al

cittadino. In quest’ottica, l’istituto del risarcimento del danno va sicuramente potenziato nella

prassi, e vanno introdotte misure di sostegno immediate (psicologiche e economiche) per la

vittima a carico del reo - salvo restituzione –, specie nei casi nei quali gravi indizi di

colpevolezza autorizzino a una prognosi di responsabilità.

Soprattutto nel campo dell’applicazione della pena, e nel diritto penitenziario,

l’archetipo della tutela del reo e l’ideale della risocializzazione hanno prodotto una

legislazione sbilanciata in favore dell’indulgenza di massa e una confusa sovrapposizione di

istituti, con plurime e scoordinate competenze giurisdizionali.

Con il risultato di una pena del tutto incerta nelle concrete modalità esecutive e nella

durata. Oltretutto – è il caso di sottolinearlo - di fronte a una geografia della criminalità

profondamente mutata per autore e tipo di reato.

Ad aggravare il quadro di generalizzato scontento e di inefficienza degli ingranaggi

della macchina giudiziaria è che le idee tradizionali governanti la teoria del diritto penale

impattano con una realtà consolidata su basi totalmente differenti, accentuando la lontananza

tra astratto e concreto.

A livello normativo, in quanto dei principi classici poco o nulla è rimasto: dal primato

delle fattispecie colpose sulle dolose, dalla proliferazione dei reati di pericolo, dalla

prevalenza dei beni collettivi, dalla responsabilità parapenale per le persone giuridiche.

E a livello sociopolitico: dalla cultura di sospetto verso i border-line, poveri e

nullatenenti, con le misure di polizia e prevenzione ritagliate sulla loro marginalizzazione, al

rovesciamento di ruoli, con la ghettizzazione della ricchezza da origine non provata,

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originariamente tarata sulla sua radice illecita (è il tema dei riciclaggio), o persino da lecita

alle sue terminazioni illecite (è il tema del finanziamento al terrorismo).

Così come è radicalmente cambiata la percezione sociale del delinquente, una volta

sedimentata nel tessuto del quotidiano l’idea di democrazia.

III. PER UNA CHIAVE DI LETTURA DIVERSA: RIFLESSIONI MINIME IN TEMA DI RUOLO

SOCIALE.

Se il processo di svecchiamento anacronistico funzionerà, potrà apparire persino

normale e legittima la chiacchierata espansione nella prassi della criminalità colposa e/o

omissiva, come promanazione legislativa e come giurisprudenza applicativa.

Ma lo strumento del giurista dovrà arricchirsi di nuovi linguaggi e di moderne

dotazioni.

L’inadeguatezza del ruolo sociale è ad esempio il denominatore comune in grado di

spiegare la teoria della colpa e dell’omissione: il tradimento delle ‘regole cautelari’ o delle

‘garanzie’, in altre parole la delusione delle aspettative riposte nell’attore di determinate

scelte della vita di relazione è il motore del rimprovero colposo e omissivo.

L’implementazione di questo tipo di criminalità è dunque erede legittimo della

moltiplicazione delle situazioni relazionali, con il carico connesso di responsabilità, sempre

più confuse per via dell’affastellamento delle norme regolatrici.

Se la dottrina del ruolo sociale è in definitiva nella sua linearità e semplicità in grado

di decifrare l’esistenza e la ratio puniendi della colpa e dell’omissione quale eccentricità

colpevole rispetto allo status, normativamente definito, di normalità e dunque garante

dell’incolumità privata e pubblica, il parametro del ruolo psicologico, ossia nei rapporti

interpersonali la situazione di dominio o di auctoritas di un soggetto nei confronti di uno

‘svantaggiato’, è analogamente in grado di comprendere la disciplina del concorso di persone

(si pensi all’autore mediato e alla famosa Tatherrschaft, o all’art. 116 c.p.). La dinamica dei

ruoli è del resto presente in ulteriori istituti: dalle circostanze (error aetatis irrilevante, per via

della posizione di dominio psicologico) alle presunzioni di illiceità di specifiche fattispecie

(violenza sessuale presunta, abusi di potere e autorità).

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Persino l’articolata e ostica tematica dell’errore è riconducibile a una difettosa

interpretazione del ruolo rivestito dall’autore del reato: l’error facti o iuris, l’aberratio sono,

con la complicità di ‘incidenti di percorso’ legati alle difficoltà della vita quotidiana e con il

salvagente della necessaria colpevolezza per il cattivo agire – grazie a un provvidenziale

intervento della Corte Costituzionale -, momenti censurabili di un mal riposto ‘affidamento

sociale’ nel soggetto attivo.

Non da ultimo, la dottrina dei ruoli si può rivelare utile non solo in chiave

ermeneutica, ma anche semplificativa.

Il tradizionale rasoio di Occam si riferisce qui alla vexata quaestio dei contenuti della

colpa cosciente e della irrisolvibile differenziazione con il dolo eventuale, quanto meno a

livello di prova processuale. Ebbene, posto che la colpa é, per quanto si è detto, lo sviamento

dalla funzione sociale assegnata, tradendo così le aspettative e la fiducia delegata, la colpa

con previsione dell’evento è in definitiva un’inutile complicazione, della quale non si avverte

il bisogno per giustificare il castigo e che fatalmente ingenera confusione con il gemello del

dolo eventuale, costringendo a contorsionismi logici – impossibili, poiché legati

all’introiezione psicologica – per scoprire l’atteggiamento di accettazione o meno dell’evento

lesivo.

Se proprio si vuole tenere l’istituto, per esprimere una graduazione quantitativa e

qualitativa del rimprovero (come è attualmente, grazie all’esistenza dell’aggravante), si

potrebbe pensare, con maggiore proficuità dommatica e ottimale senso pratico, a sostituire la

previsione dell’evento con la consapevolezza del rischio cagionato. Se insomma la

disattenzione omissiva, la superficialità episodica rappresentano un peccato veniale, la

conosciuta creazione dello stato di pericolo (pur sempre accompagnata dalla non

intenzionalità del risultato lesivo) genera un’accresciuta Strafwürdigkeit.

Per intenderci: tra l’automobilista che ha dimenticato di accendere i fari in condizioni

di ridotta visibilità e chi oltrepassa consapevolmente il limite di velocità in un centro abitato

ritenendo inutile il divieto e confidando nella propria abilità, a parità di evento cagionato

(incidente stradale con lesioni a un pedone), tra la distrazione dell’infermiere che confonde il

medicinale da somministrare e il collega che lo ritarda, consapevolmente sicuro

dell’irrilevanza della prescrizione oraria, a parità di evento cagionato (complicanza insorta

nel paziente trattato), la coscienza della ‘disseminazione’ del rischio traccia il reale distinguo

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per l’opinione pubblica (e per la vittima), e dunque la relativa dosimetria sanzionatoria. Resta

così irrilevante l’alchimia dello step successivo del rischio accettato o meno.

Sono solo esempi – necessariamente naiv e incompleti – per una rilettura del codice

penale, suggestioni per allineare ai tempi costruzioni teoriche in parte ormai datate,

sollecitando l’avvicinamento con la prassi e con i sensori dell’opinione pubblica.

IV. L’INEVITABILE COINVOLGIMENTO DELLA PROCEDURA PENALE.

Il pendant processuale, indissolubilmente agganciato al profilo sostanziale, presenta

analoghe incongruenze ed è responsabile della crisi del diritto penale, ma è evidente come

una sia pur sommaria trattazione costituirebbe un evidente fuor d’opera.

Mi limito pertanto a un unico spunto di riflessione, concernente la frizione tra il

principio garantista della presunzione di non colpevolezza e la fase delle indagini preliminari.

È sin troppo noto come la lentezza della macchina processuale, la farraginosità della stessa,

unitamente alla già richiamata serialità di istituti a vario titolo incidenti sulla pena, finiscano o

per abolirla del tutto, sempre che nel frattempo non sia intervenuta la prescrizione, o per

mitigarne la severità sanzionatoria. Altrettanto noto è come il vero ‘regolamento di conti’, lo

stigma del reato, si anticipi e si percepisca nelle indagini preliminari e nelle mani del P.M.,

dove spesso le concesse misure cautelari rappresentano l’anticipata espiazione di una pena

che non verrà. Dalle ‘sanzioni’ classiche a quelle più moderne, quali la spettacolarizzazione

del processo, o il costo dell’inchiesta – in termini mediatici e economici - per l’indagato, il

discorso non cambia: il dominus è l’accusa, è lui il regista della trama. Ma l’inadeguatezza e

la vulnerabilità del sistema attuale, segnatamente l’inesistenza di un meccanismo di reale

compensazione e controllo dei poteri del P.M., nonché di una previsione legislativa efficace

di blindatura contro errori e ‘effetti collaterali’ si evidenziano traumaticamente specie nel

circuito economico-finanziario.

Come la cronaca purtroppo insegna, una denuncia ‘mirata’ contro una società quotata,

ancorché generica, provoca – in virtù della ‘garanzia’ dell’obbligatorietà dell’azione penale –

la necessaria attivazione dell’accusa e l’alimentazione del circuito mediatico.

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In molti casi, il clamore provoca il ribasso del titolo in borsa, di cui può

strumentalmente approfittare il denunciante per acquisizioni speculative a buon mercato o per

strategie più raffinate. Ad esempio, acquistare corporate bond o, in caso di un loro pregresso

possesso, convertirli in azioni per l’impossibilità di liquidarli da parte della società – target

sotto inchiesta, arrivando così persino al controllo della società.

Il tutto attraverso una mera indagine penale.

Di fronte a un’archiviazione, di fronte a un’assoluzione dibattimentale, l’ingenuità del

sistema è manifesta e non presenta rimedi. L’autore del presunto reato sarà la prima vittima, e

solo in via teorica potrà accedere – laddove sussistano i presupposti – a forme di indennizzo.

Ma gli effetti più dirompenti della irreversibilità dei mutamenti economici

intervenuti, a dispetto della reversibilità della presunzione di innocenza, riguardano le vittime

inconsapevoli dell’inchiesta giudiziaria, per la perdita subita, per i quali l’anonimato del

mercato inghiotte qualsiasi speranza di ristoro.

V. IDENTITÀ DEL REATO E TIPOLOGIE DIFFERENZIATE DI CONTRASTO.

La gesamte Strafrechtswissenschaft, secondo la felice e proficua intuizione della

dottrina di area tedesca, intesa come studio integrato del diritto e della procedura penale, è

dunque quanto mai attuale.

E se qualsiasi intervento limitato a un ramo rischia di risultare scoordinato e in

definitiva poco efficace se non inserito in un contesto generale, la globalizzazione esige

ormai la prospettiva europea. In questo senso ogni riforma del diritto penale nazionale va

pensata in uno scenario sopranazionale, sia come propagazione eterodiretta di fonti

comunitarie, sia come fenomeno di esportazione normativa inseribile in uno scenario di

coordinazione.

Basti pensare alla regolamentazione del riciclaggio e del terrorismo, due esempi ‘di

moda’ e di estremo interesse, per comprendere la dimensione di omogeneizzazione europea,

sostanziale e processuale.

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Ma una riforma del diritto penale orientata alla prassi deve fare i conti soprattutto con

l’abbandono della velleitaria idea di una risposta punitiva unica, in termini di risorse

utilizzate e di tempi di intervento e soluzione.

È del resto sufficiente prendere atto di quanto la realtà già registra, attraverso anticorpi

che la macchina giudiziaria sviluppa per reagire all’endemico inceppamento. Non si tratta

tanto della celebrata illusione dell’obbligatorietà dell’azione penale, un totem ampiamente

detabuizzato, quanto di quel ‘diritto penale a due velocità’ che qualsiasi utente del sistema –

giustizia conosce e ha avuto modo di sperimentare. L’ipertrofico numero di procedimenti

penali determina così una selezione strisciante secondo metodiche diffuse e testate: dalla

semplice postergazione del fascicolo nella fase delle indagini preliminari, alla tecnica del

rinvio dibattimentale, in una politica dell’oblio che produce quasi sempre gli effetti sperati.

a) Le due velocità: l’illecito bagatellare;

Ma non è questo che preme sottolineare; molto più importante è infatti l’oggetto della

selezione.

In una scomposizione della massa di reati – un esercizio come noto tutt’altro che

facile per la difficoltà già in origine di mappare l’esistente – una prima fetta è costituita dagli

illeciti di scarso peso in termini di disvalore offensivo, convenzionalmente qualificati come

bagatellari: qui la risposta della prassi è nel senso di un atteggiamento di burocratizzazione,

grazie a un modulo trasversale di minimo impegno e convinta demotivazione, che finisce per

coinvolgere la stessa vittima del reato. E’ una rete ad ampio strascico, nella quale ricadono

fenomenologie sociali variegate e diversamente rilevanti quanto a impatto lesivo: dai furti nei

supermercati a quelli di autoveicoli o in abitazioni private, dalle truffe di modesta entità a casi

di microinquinamenti ambientali o di violazioni della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Categoria dunque assai vasta, dove il collante del disinteresse diffuso coinvolge i plurimi

anelli della catena: dal legislatore, che nell’iscrivere nel genus dei delitti o delle

contravvenzioni, e comunque nel modellare il range punitivo, determina di fatto il tono di

attenzione e alimenta le convinzioni e le aspettative degli attori successivi, alle forze

dell’ordine, agli agenti sul territorio, agli organi investigativi e al P.M., per l’appunto, i quali,

nel leggere la regolamentazione penale di un fenomeno disfunzionale, ne decifrano

immediatamente il senso e lo iscrivono nell’ambito del bagatellare, con il relativo

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‘trattamento’. Senonché, una tomografia ragionata del settore, essenziale per disegnare lo

schema di riforma integrata nella prospettiva indicata, è francamente di estrema difficoltà,

forse impossibile.

Perché non esiste una definizione di illecito bagatellare, simile di fatto a una

Leerformel cangiante in contenuto o significato non solo in base al tempo (come è logico),

ma anche in virtù del territorio di applicazione, per la differente valutazione delle priorità di

tutela (basti pensare all’abusivismo edilizio, e all’impatto generato in alcune zone d’ Italia), e

persino in ragione delle energie residuali disponibili (in regioni a forte densità criminale, e

con preoccupazioni di ordine pubblico, il baricentro delle politiche di prevenzione di polizia e

repressione giudiziaria si concentra su tali temi, condizionando negativamente l’attenzione

verso fenomeni satellitari che acquistano automaticamente il carattere di marginalità).

b) i reati di allarme sociale.

L’altro insieme è così costituito dai reati di allarme sociale.

Ovviamente, il livello di attenzione è massimo, la convinzione nei propri mezzi

giustificata, l’asse legislatore-magistratura solido (a una tipizzazione della fattispecie in

forma severa, supportata da misure processuali adeguate, si affianca una gestione efficiente

del potere giudiziario secondo logiche di concentrazione temporale e di forma).

Tuttavia, anche in questo caso l’inclusione nella categoria non è predefinibile con

parametri certi. Sicuramente vi rientrano i delitti gravi in se, storicamente e direi

ontologicamente espressione di lesioni di interessi forti del singolo o della comunità (uno per

tutti, l’omicidio), nonché i reati oggetto di emergenze socioculturali. Ma qui il discorso si fa

più complesso, perché non è affatto chiaro cosa si debba intendere per fenomenologie

emergenziali, e segnatamente se un’ ‘emergenza’ sia tale per la sua natura intrinseca o per la

visibilità dichiarata. Mi spiego: è l’oggettiva offensività di un comportamento a determinare

l’emergenzialità, cioè un impegno prioritario nella lotta, o piuttosto – secondo una logica

rovesciata – dinamiche sociopolitiche a decretare lo stato di allerta? E se si, quali?

Emotività dell’opinione pubblica, incanalamento conseguenziale da parte dei partiti

politici, pressioni di lobbies, interesse dei media?

La storia degli ultimi decenni è piena di emergenze (e dei relativi corollari: logiche di

emergenza, emergenze criminali, legislazione simbolica…) applicate a fenomeni tra loro

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eterogenei. E tra l’altro con altalenanti vicende: ora positive (l’eradicazione della piaga dei

sequestri di persona) ora di stallo (l’ ‘emergenza incendi’), ora di ritorno (dal terrorismo degli

‘anni di piombo’ alla nuova versione internazionale post-2001). E, naturalmente,la perenne

emergenza, per riprendere un’efficace invenzione concettuale, della mafia, fisiologica

patologia della nostra storia. Peraltro, fronteggiate con misure straordinarie in gran parte

rimaste nell’intelaiatura complessiva dell’ordinamento, e dunque con carattere di

irreversibilità, indipendentemente dall’esito degli effetti sul campo.

La scomposizione dei reati nelle due species del bagatellare e dell’emergenza

determina così quella doppia velocità in termini di interesse e trattamento.

E probabilmente neppure esaurisce l’intera gamma, situandosi al centro un’ulteriore

massa di reati che vengono gestiti con procedure ordinarie, senza particolari accentuazioni in

un senso o nell’altro, determinando indici statistici che condizionano pesantemente la lettura

complessiva dei dati. Reati che non appartengono nominalmente ad alcuna delle categorie

descritte, e che sono i fatti concreti (le circostanze in senso tecnico-giuridico) a spostare

nell’orbita di attrazione dei due poli, certamente non assimilabili a un palindromo.

c) Il nodo del rapporto efficienza-garanzia.

Ora, è abbastanza singolare che, se non è possibile individuare nominatim i singoli

reati appartenenti a ciascuna delle species, è viceversa agevole riconoscere i tratti essenziali

delle politiche di risposta innescate.

Definibili mediante la famosa coppia efficienza – garanzia. Infatti, per gestire

l’emergenza, occorre garantire il risultato: e il risultato è efficacia dell’intervento, quale

sinonimo di neutralizzazione del fenomeno criminale, e efficienza dei mezzi, in termini di

corretto funzionamento della macchina giudiziaria. Ecco allora che il piatto della bilancia si

inclina verso il peso dell’efficienza, mentre le ‘garanzie’ si accomodano a rimorchio.

Interessante è esaminare cosa succede sul fronte opposto. L’illecito bagatellare viene

trattato per le ragioni spiegate con sufficiente noncuranza. Il disinteresse non si coniuga così

con efficienza e qui, con effetto non ricercato né voluto, ma egualmente conseguenziale, si

recupera il senso delle garanzie bistrattate dall’emergenza.

E persino colpevoli defaillances del pianeta–giustizia (esempio tristemente noto ai

frequentatori di aule giudiziarie: i continui rinvii per omesse citazioni testimoniali o più

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semplicemente per la loro assenza, sicuramente non così verificabili massicciamente in un

processo per mafia) si giustificano in nome del rigido ossequio a regole di forma.

Ecco allora che da quest’angolazione si smaschera l’equivoco dell’incompatibilità

efficienza-garanzia e della più frequente esposizione come efficienza vs. garanzia. In realtà

l’efficienza è un obiettivo perseguibile nel pieno rispetto delle regole - le garanzie di cui si

discorre – mentre sono i formalismi inutili, adoperati spesso per giustificare le difficoltà di

mettere a regime la risposta sanzionatoria, a poter (rectius, dover) essere tranquillamente

espunti dal sistema senza contraccolpi, anzi migliorando il funzionamento complessivo.

L’efficienza è del resto un target da rincorrere (anche) con tecniche alternative.

Promuovendo per esempio modalità appetibili di cooperazione sociale, al fine di spingere gli

individui a interagire secondo regole di solidarietà, salvaguardanti il proprio egoismo

razionale. Come il ‘dilemma dei prigionieri’ insegna, non sempre la soluzione più

vantaggiosa in termini personali viene preferita, adottandosi nella prassi modelli

comportamentali in peius per il difetto alla base di concertazione.

VI. IL CONTRIBUTO EMPIRICO.

E’ fuor di dubbio come non soltanto lo sforzo di riforma vada concentrato lungo la

direttrice plurima dell’europeizzazione e della procedura penale, ma come anche occorra il

contributo decisivo di ricerche empirico-criminologiche (sulla scomposizione dei reati e dei

loro autori) e di indagini statistiche, finora limitate e poco coinvolgenti.

Una risposta sul volto futuro del diritto penale non può prescindere infatti da

conoscenze approfondite dell’oggetto da studiare, e per indagare su luoghi comuni che non si

sa se e quanta scientificità posseggano.

a) Alcuni pregiudizi indimostrati.

Ad esempio, una delle accuse più frequenti mosse al sistema penale, e al legislatore

che ne è l’artefice, è l’espansione incontrollata dell’area del penalmente rilevante.

L’incremento del numero delle fattispecie tipiche viene valutato negativamente e ritenuto

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responsabile della perdita di credibilità della minaccia punitiva. Oltre alla crisi della giustizia

penale, inceppata a causa della congestione provocata dai troppi (e inutili) procedimenti.

Tuttavia, ciascuna di queste affermazioni soffre di un deficit cognitivo di base.

L’implementazione dei comportamenti che costituiscono reato su quali cause si

fonda?

Si tratta cioè di un meccanismo necessitato, per l’emersione di nuovi fenomeni che

esigono una risposta penale obbediente ai canoni di offensività e sussidiarietà, o di un

esercizio gratuito di forza ostentata, fine a se stesso, e comunque espressione del simbolismo

legislativo? E ancora, come si concilia l’incremento a monte dovuto al legislatore con

l’analogo processo di crescita legato a valle all’interpretazione estensiva (a volte ostinata)

della magistratura di determinate fattispecie, che finisce per creare ulteriori ipotesi di reato?

E’ - nuovamente - una necessità di sopperire alle falle di un sistema tutt’altro che completo

sul fronte della repressione, o l’esigenza di intercettare le (presunte) ansie dell’opinione

pubblica, in nome di un bisogno di supplenza?

Inoltre, l’equazione creazione di nuovi reati / incapacità di gestire l’ordinario numero

di processi è proprio così scontata? Siamo sicuri che a ogni introduzione di ulteriori figure

criminose corrisponda un parallelo incremento di procedimenti penali per quello specifico

reato, o essi restano disapplicati giurisprudenzialmente proprio in ragione del loro imprinting

simbolico, come tale disapprovato?

E infine, soprattutto, la domanda principale, il presupposto dal quale derivano tutte le

altre: è esatto affermare che negli ultimi anni si sia assistito alla crescita del numero dei reati?

L’opposta linea politico-criminale di depenalizzazione ha prodotto alla fine un bilanciamento,

e il saldo finale sull’enne numero di reati è preceduto dal segno più o meno?

In conclusione e riassumendo: non è possibile assicurare la corretta medicina da

prescrivere se difetta un’appropriata diagnosi. Diagnosi che si alimenta attraverso il

contributo essenziale delle scienze empiriche, settore a oggi ampiamente trascurato.

b) La depenalizzazione e il deficit cognitivo.

L’atro lato della medaglia si chiama depenalizzazione. Rappresentata come

un’esigenza irrinunciabile di ogni tentativo di riforma e invocata come panacea dei mali della

giustizia.

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Minore unanimità si registra però sull’individuazione delle tipologie di illeciti da

espungere dall’area penalistica. Se in astratto la soluzione poggia sulla definizione in

negativo (va depenalizzato tutto ciò che non è meritevole di pena e può essere affidato alle

cure meno intensive di settori alternativi, quali l’illecito civile o amministrativo), è chiaro

come l’inserimento della specifica fattispecie nel cestino ingombrante dei rifiuti da riciclare

risenta delle opzioni ideologiche di fondo e della sensibilità socioculturale individuale.

Ma, provando se non a rovesciare l’impostazione classica, quanto meno a illuminarla

di una luce differente, la ricerca andrebbe arricchita coinvolgendo il profilo soggettivo della

criminalità.

Il problema, cioè, non consiste esclusivamente nel numero eccessivo dei reati, ma sul

fatto che si commettono troppi reati, e che troppi sono gli autori di reati. Non esiste in

definitiva un identikit tipico del delinquente, né questi come in passato è identificabile

secondo precise categorie. Al più si può concedere che a classi di reato si associano tipologie

differenziate delinquenziali, secondo una trasversalità che non risparmia alcuna classe

sociale.

Curiosamente, non è possibile affermare con certezza se l’espansione del penalmente

rilevante abbia finito per innescare una reazione di corto-circuito, generando l’estensione dei

soggetti attivi, o se, al contrario, la realtà del ‘tutti delinquono’ abbia prodotto la nascita di

ulteriori fattispecie tipiche.

La multifattorialità delle cause di insorgenza della criminalità determina tuttavia

l’importanza di uno studio selettivo che vada a radiografare il fenomeno, sia per trovare sul

fronte repressivo le misure di contrasto più idonee, sia per ricercare su quello preventivo gli

ostacoli da rimuovere alla crescita di legalità.

Diminuzione, quindi, del numero dei procedimenti penali non attraverso la (sola)

politica di depenalizzazione, ma anche tramite il complementare processo di azione mirata al

potenziale indistinto delinquente.

Probabilmente, tale percorso incentrato sul chi delinque e non sul cosa restituirebbe al

reato e alla pena quella funzione di stigmatizzazione sociale indebolita dalla percezione nella

collettività dell’ineluttabilità di incappare prima o poi nelle maglie generose del diritto

penale.

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Ovviamente, anche in prospettiva astratta. Infatti, la convinzione di aver commesso un

reato non è necessariamente associata all’individuazione e al connesso accertamento di

responsabilità in sede processuale. Ciò che erode infatti a livello psicologico l’effetto

deterrente della minaccia è - certo - la concreta applicazione della pena, ma anche la

sensazione strisciante dell’impossibilità di sfuggire alla realizzazione di un reato, a

prescindere dal proprio status, che semmai rappresenta un fattore aggiuntivo di ‘inclinazione

naturale’ verso sponde particolari di reato. E se ‘così fan tutti’, vuol dire che non è tanto

riprovevole, e comunque scatta un meccanismo di autoassoluzione. Il che - sia detto per

incidens - è tra l’altro responsabile dell’elevato e pressoché ubiquitario fenomeno della

Dunkelziffer. La vittima è poco motivata a sporgere denuncia, gli organi investigativi a

individuare l’autore del reato, e così via, in un meccanismo perverso a catena.

VII. POLITICHE DI RIFORMA E CONSENSO SOCIALE.

Un’opera riformatrice seria e incisiva non può infine prescindere dal consenso sociale

che la ispira e la governa. Pensare di imporre una visione etica appannaggio di una

maggioranza selezionata, una scala di valori non condivisa il più possibile dall’opinione

pubblica, si rivelerebbe un’operazione poco lungimirante e destinata a un sicuro insuccesso.

Come l’esperienza insegna, se non è radicata negli utenti la convinzione della

disfunzionalità nociva di specifici comportamenti, l’attrazione nell’orbita del diritto penale

non è risolutiva del fenomeno, né una politica di inasprimento sanzionatorio, che anzi

alimenta la reazione psicologica contraria del definitivo convincimento dell’ingiustizia del

divieto. Nuovamente provocando un giustificazionismo di risacca sull’ineluttabilità del

comportamento delittuoso (paradigmatico il caso dell’evasione contributiva) e l’elevata cifra

oscura.

Non è questione della trita querelle sulla doverosità di una riforma dall’alto o dal

basso, ma semmai della indissolubilità tra un movimento eterodiretto, che eviti tuttavia il

compiacimento autoreferenziale, e una spinta endogena, in grado di rivelare le reali esigenze,

di contenuto e limiti.

E’ un compito difficile, ma non impossibile.