Diritto Processuale Penale FERRUA

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PROCEDURA PENALE 2: PROF. FERRUA, IL GIUSTO PROCESSO. Con c.p.p. cambia il modo di concepire il contraddittorio: DAL CONTRADDIT. SULLA PROVA AL CONTRADD.PER LA PROVA. Il contradd. Si esercita ora nel momento di formazione della prova e non più anche prima sui verbali delle dichiarazioni raccolte da organi inquirenti. La conseguenza è che le dichiarazioni di testi/imputati valgono in processo come prove solo se formate in contraddittorio: DICHIARAZIONI RACCOLTE UNILATERALMENTE (SALVO POCHE ECCEZIONI) NON PO SSO ESSERE UTILIZZATE COME PROVE A GIUDIZIO. REGOLA D’ORO DEL PROCESSO ACCUSATORIO: IL CONTRADDITTORIO IN SENSO FORTE, inteso come insieme di norme volte a separare nettamente indagini preliminari ( destinate alla ricerca delle fonti di prova) dal dibatti mento (preordinato alla formazione della prova). 1) Una di queste norme è: regola di esclusione probatoria: LA DICHIARAZIONE UTILIZZATA PER CONTESTAZIONE, ANCHE SE LETTA DALLA PARTE, NON PUO’ COSTUITUIRE PROVA DEI FATTI IN ESSA AFFERMATI MA PUO’ ESSERE USATA DAL GIUSDICE PER STABILIRE LA CREDIBILITA’ DELLA PERSONA ESAMINATA. Ci sono delle limitate eccezioni per le dichiarazioni assunte dal PM e dalla polizia giudiziaria nel corso della perquisizione o sul luogo e immediatezza del fatto. 2) Altra norme fondamenta le per il processo fondato sul contradd. è: il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria. Gli ufficiali e gli agenti di polizia non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni.

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PROCEDURA PENALE 2: PROF. FERRUA, IL GIUSTO PROCESSO.

Con c.p.p. cambia il modo di concepire il contraddittorio: DAL CONTRADDIT. SULLA PROVA AL CONTRADD.PER LA PROVA.

Il contradd. Si esercita ora nel momento di formazione della prova e non più anche prima sui verbali delle dichiarazioni raccolte da organi inquirenti. La conseguenza è che le dichiarazioni di testi/imputati valgono in processo come prove solo se formate in contraddittorio: DICHIARAZIONI RACCOLTE UNILATERALMENTE (SALVO POCHE ECCEZIONI) NON POSSO ESSERE UTILIZZATE COME PROVE A GIUDIZIO.

REGOLA D’ORO DEL PROCESSO ACCUSATORIO: IL CONTRADDITTORIO IN SENSO FORTE, inteso come insieme di norme volte a separare nettamente indagini preliminari ( destinate alla ricerca delle fonti di prova) dal dibattimento (preordinato alla formazione della prova).

1) Una di queste norme è: regola di esclusione probatoria: LA DICHIARAZIONE UTILIZZATA PER CONTESTAZIONE, ANCHE SE LETTA DALLA PARTE, NON PUO’ COSTUITUIRE PROVA DEI FATTI IN ESSA AFFERMATI MA PUO’ ESSERE USATA DAL GIUSDICE PER STABILIRE LA CREDIBILITA’ DELLA PERSONA ESAMINATA. Ci sono delle limitate eccezioni per le dichiarazioni assunte dal PM e dalla polizia giudiziaria nel corso della perquisizione o sul luogo e immediatezza del fatto. 2) Altra norme fondamentale per il processo fondato sul contradd. è: il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria. Gli ufficiali e gli agenti di polizia non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni.

LA SVOLTA INQUISITORIA: il contraddittorio è visto come ostacolo alla ricerca della verità, diffidenza per nuovo c.p.p. “Contraddittorio versus la ricerca della verità”. Con tre sentenze del 1992 la Corte Costit. Accoglie questioni incostituzionalità nuove norme: n. 24, 254, 255.

LA CORTE NON INDICA IL PRINC. A DIRETTA RILEVANZA PROCESSUALE CON CUI QUESTE NORME CONTRASTEREBBERO, ECCETTO IL “PRINC. DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA”di cui non c’è traccia in cost., si ricava dall’ampliamento delle deroghe all’oralità

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e al contradd. nel codice di rito (le eccezioni diventano principio).

Motivazione sentenze del ’92: irragionevole ostacolo che le disposizioni impugnate frappongono alla ricerca della verità, fine del processo penale. Da questo momento il legislatore è condizionato a seguire il contraddite. In senso debole tipico del cod. abrogato.

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Sentenza 24 del 1992 (su testimonianza polizia giudiziaria): DICHIARA ILLEGGITTIMO ART. 195 4 C. DEL CPP. Su testimonianza indiretta della polizia giudiziaria. Il verbalizzante fa entrare nel dibattimento le info segretamente raccolte in indagini della polizia giudiziaria attraverso la testimonianza (che sia o no possibile esame fonte diretta). Anche se viene sentito il teste diretto le sue dichiarazioni non si sostituiscono a quelle del teste indiretto: ci si accompagnano e il giudice valuta liberamente le une e le altre. Le incongruenze della normativa dichiarata incostituzionale si potevano risolvere diversamente: incongruenze su irripetibilità della testimonianza diretta. Aneddoto della vittima morente. In realtà si riusciva a demolire queste incongruenze con appigli interpretativi diversi: l’art. 195 cpp non vietava alla polizia giudiziaria di riferire qualsiasi cosa parola proferita da tersi ma solo LE DICHIARAZIONI ACQUISITE DA TESTIMONI, supponente con tale espressione si intendessero solo le dichiarazioni rilasciate nel corso del procedimento in un dialogo tra teste e ufficiale/agente di pol. giud. Ciascuno nella propria qualità, quindi LE DICHIARAZIONI RILASCIATE ALL’INTERNO DI UNO SPECIFICO ATTO DI POLIZIA GIUD.

La perdita di tali dichiarazioni era giustificata dalla loro segretezza e dal fatto che comunque sono raccolte da organi che non possono garantire ai testimoni le stesse cose del magistrato. Ma anche a voler ritenere la perdita di queste dichiarazioni irragionevole sarebbe stato sufficiente dichiarare illegittimo l’art. 512 cpp nella parte in cui non consentiva la lettura degli atti assunti dalla polizia quando per fatti o circostanze imprevedibili ne fosse divenuta impossibile la ripetizione.

Sentenza 254 del ’92 (sull’efficacia probatoria delle contestazioni). Dopo la sentenza n. 24 si apre una profonda contraddizione nel sistema: viene ammesso il recupero probatorio delle dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria nelle indagini preliminari ma non è ammesso il recupero delle dichiarazioni raccolte dal PM attraverso la lettura dei verbali. Ci sarebbe un regime più severo quanto a rilevanza probatoria nei confronti degli atti compiti dal PM rispetto a quelli della polizia giud. Questa sentenza dichiara illegittimo l’art. 513 c.2 ccp NELLA PARTE IN CUI NON PREVEDE CHE IL GIUDICE, SENTITE LE PARTI, DISPONGA LA LETTURA DEI VERBALI DELLE DICHIARAZIONI RESE DALLE PERSONE AL PM QUALORA QUESTE SI AVVALGANO DELLA FACOLTA’ DI NON RISPONDERE.

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Sentenza 255 del ’92 (sull’efficacia probatoria delle contestazioni).

Censura la norma-simbolo del processo accusatorio, dichiarando illegittimo l’art. 500 c. 3 e 4 cpp nella parte in cui non prevede l’acquisizione nel fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni

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precedentemente rese dal testimone e contenute nel fasc. del PM, se sono state utilizzate per le contestazioni in comma 1 e 2 dello stesso articolo.

Quindi: quando il teste depone in dibattimento la dichiarazione già resa al PM resta inutilizzabile solo se la riproduce fedelmente. Se tace o la rende difforme: la precedente dichiarazioni, per il tramite della contestazione, è regolarmente acquisita.

Il giudice dovrà scegliere tra le due versioni, come avviene in sistemi misti e di solito prevale la prima perché più vicina ai fatti.

L’indagine preliminare in questo modo diventa una specie di istruzione sommaria (peggio che sistema misto perché atti utilizzabili in chiave probatoria non sono compiuti dal giudice).

Per alcuni non è comunque annullato il contraddittorio né l’esame incrociato. In effetti non si annullano ma si alterano. In un processo basato sul contradd. se il teste depone nel dibattimento si può solo vedere se dice il vero o no, si accerta se sono vere le dichiarazioni assunte in contraddittorio e non fuori, cristallizzate nei verbali e che servono solo ai fini delle contestazioni. Dopo le sentenze del ’92 il procedimento è invertito: non è più la prima dichiarazione a fare da critica alla seconda ma l’inverso. Il contraddittorio diventa funzionale all’utilizzazione come prove dei verbali.

Argomentazioni Corte: RICERCA VERITA’ COME FINE INELUDIBILE DEL PROCESSO + OSTACOLO IRRAGIONEVOLE RAPPRESENTATO DALLE NORME SULL’ESCLUZIONE PROBATORIA.

La polemica si concentra sul primo aspetto anche se in realtà il problema sta nel METODO DI RICERCA DELLA VERITÀ che il cos. Del 1988 aveva individuato nel contraddittorio sul presupposto che le dichiarazioni raccolte in segreto siano inaffidabili.

D.L. 306 del 1992 recepisce i dicta della Corte. Non ci sono modifiche costituzionali. In clima di emergenza criminosa c’è poca apertura per svolte maggiormente garantistiche ( Strage di Capaci, assassino di Borsellino, inchiesta di Mani Pulite). I magistrati del pool milanese assumo ruolo di

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interlocutore per ogni riforma penale. In questo contesto c’è acquiescenza nei confronti della progressiva demolizione del sistema accusatorio.

IL GARANTISMO SELETTIVO DELLA LEGGE 267 DEL ’97, ci sono due tardivi tentativi di recupero del contraddittorio nel 1997. Si è in periodo di stigmatizzazione della stagione giudiziaria.

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Si propagano formule come “recuperare il primato della politica”, costringere la magistratura ad un passo indietro, ecc…+ accuse a giudici e pm di indirizzare la propria azione a fini politici.

Ecco le iniziative:

1) Su base del progetto del Senatore Cirami viene riformulato l’art. 513 cpp con la LEGGE 267 DEL 1997, in tema di valutazione delle prove. Le dichiarazioni rese nell’indagini preliminari dall’imputato o dal coimputato in processi separati che si avvalgono del diritto di silenzio in dibattimento non possono essere usate nei confronti di altre, a meno che non vi sia il loro consenso o accordo tra le parti. Si liberalizza (per evitare la perdita del contrib. probat.) inoltre l’incidente probatorio per l’esame dei coimputati, ammettendolo oltre gli originari limiti dell’art. 392 cpp (fondato motivo di ritenere che la persona non possa essere esaminata nel dibattimento per infermità o grave impedimento p sia esposta a violenza, minaccia o promessa di denaro o altra utilità affinché non deponga/deponga il falso.

In realtà questa liberalizzazione è guastata da due fattori indici di un garantismo selettivo:

- Settorialità e incoerenza del riaffermare il valore del contraddittorio solo in vista del silenzio del coimputato già dichiarante sul fatto altrui. - Disposizione transitoria che devia alla regola tempus regit actum che suscita il sospetto di interferenza sui processi in corso. 2) Iniziativa costituzionale: la giustizia è tra i temi affidati alla Commissione Bicamerale per le riforme cost. La magistratura interpreta questa scelta come un’azione punitiva di rivincita sulla giurisdizione da parte del potere politico. Giugno 1998:il lavoro della Commissione fallisce ma i princ. e le regole del giusto processo nell’art. 130 del progetto saranno ripresi dalla riforma cost. dell’art. 111 Cost. con qualche variazione:

Nel testo originale si parla di ORALITA’/CONCENTRAZIONE E IMMEDIATEZZA (non ci sono poi) + si prevede l’istituzione di PUBBLICI UFFICI DI ASSISTENZA LEGALE PER GARANTIRE AI NON ABBIENTI DIR. DI AZIONE E DIFESA. Mancano invece e poi sono stati introdotti: REGOLA DEL CONTRADDITT. NE’ NORME DI DETTAGLIO LEGATE A QUESTO.

SENTENZA COST. 361 DEL ’98. La nuova versione dell’art. 513 cpp viene devoluta alla Corte Cost. da otto giudici. Ragioni: irragionevole dispersione della prova che deriverebbe dall’inutilizzabilità della dichiarazione resa erga alios nell’indagine preliminare da parte del coimputato rimasto in silenzio in dibatt. (molti richiami a sentenza 254 del ’92 tra le motivazioni).

La corte dichiara illegitt. l’art. 513 cpp Nella parte in cui non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o ometta di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto di sue

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precedenti dichiarazioni e non ci sia accordo tra le parti, si applichi l’at. 500 commi 2 bis e 4 cpp. = nel silenzio del coimput. Scatta il recupero della prova previsto per l’esame dei testimoni, cioè la contestazione e acquisizione al fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni rese prima.

Questa sentenza non è politica ma troppo impolitica perché non coglie che i tempi sono cambiati e che questa scelta non sarebbe stata tollerata in clima di rapporti tesi tra magistrati e potere politico. Era anche difficile da parte della corte ripudiare le precedenti sentenze e il silenzio dell’imputato non è edificante esempio di contraddittorio.

RIFORMA ART. 111 COST.:

Dopo la sentenza 361 le Camere Penali indicono una settimana di astensione dalle udienze perché questa sentenza sprofonda la difesa in un abisso. Reagisce anche il mondo politico perché la sentenza colpisce una legge direttamente approvata dal Parlamento e con larghissima maggioranza (è una minaccia al suo potere) e non una norma del codice di rito (compilata dalla commissione ministeriale con delega). Si individuano carenza nelle garanzie e intrusione della Consulta nella sfera del legislatore con la scusa di colmare le lacune.

Vengono presentati 12 progetti di legge costituzionale (tra cui uno poi scartato che specifica che le sentenze di accoglimento della Corte Cost. sono decisioni di mero accertamento di legittimità: sono messe al bando le sentenze manipolative sia additive che sostitutive). I progetti confluiscono in un disegno di legge cost. S/3619 e poi nella riforma dell’art. 111 Cost. e prevedono la costituzionalizzazione delle garanzie processuali abbattute dalla consulta. L’accusa alle sentenze passate è di aver scardinato il sistema delle garanzie trasformandolo in un sistema inquisitorio e facendo diventare il dibattimento una fase formale e inutile.

La riforma viene approvata nella seduta del 1 nov. 1999 con 522 voti a favore su 626 (maggioranza superiore ai 2/3).

La nuova legge Cost. 23 nov. 1999, n. 2 (inserim. Del giusto processo nell’art. 111 Cost.) si compone di 2 articoli:

- principi e regole del giusto processo - regime transitorio: la legge regola l’applicazione dei principi ai procedimenti penali in corso al momento dell’entrata in vigore (7 gennaio 2000).

C’è smentita dei dicta precedenti della Corte: es. LA COLPEVOLEZZA NON PUO’ ESSERE PROVATA SULLA BASE DI DICHIARAZIONE RESE DA PARTE DI CHI SIA SEMPRE SOTTRATTRO VOLONTARIAMENTE PER LIBERA SCELTA ALL’INTERROGATORIO DA PARTE DELL’IMPUTATO (ART. 111 C.4 PARTE 2 COST.).

La riforma viene chiamata dai mass media Super 513.

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C’è un po’ di rammarico a sinistra per aver lasciato fuori la difesa dei non abbienti e la tutela delle vittime del reato.

La legge di attuazione del giusto processo è la 63 del 2001 (modifiche al cod. penale e al cod. di proc. penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge cost. di riforma dell’art. 111 Cost.).

Le camere penali esultano e l’Associaz. Naz. Magistrati continua ad invocare una riduzione dell’area del diritto di silenzio.

La riforma cost. può essere vista sotto due diverse ottiche: necessaria affermazione dei basilari principi di civiltà processuale che si erano affievoliti oppure disegno di rivincita del potere politico sulla giurisdizione e animato da intenti punitivi verso la magistratura.

C’erano già norme in cost. compatibili con le garanzie minacciate (es. art. 24 c.2 Cost raltivo all’inviolabilità del dir. di difesa) generiche e che non specificano i contenuti delle garanzie ma che di certo non impedivano la scelta per il contraddittorio nella formazione della prova. Forse c’era un’esprit de ressentiment ma questo non significa che la riforma cost. non fosse utile e necessaria perché ormai c’era l’insuperabile ostacolo della giurisprudenza costituzionale pregressa. La corte si ostinava a ritenere costituzionalmente non tollerabili certe norme e ora queste sono costituzionalmente necessarie. La riforma ha irrigidito il giusto processo con molti dettagli che forse era meglio lasciare alla discrezionalità del legislatore.

Art. 111 Cost., costituito da 5 commi. I primi 2 riguardano il processo in genere e i restanti solo quello penale. Molto innovativi sono il 4° e il 5° comma (contraddittorio nella formazione della prova e le eccezioni). Altri commi c’erano già in fonti sovrannazionali o in cost. L’art. 111 cost. è diverso da Convezione europea dei dir. dell’uomo e altre fonti internazionali che parlano di giusto processo come dir.sogg.perchè le garanzie del giusto proc. In cost. sono oggettive(non sono solo proiezioni del dir. Di difesa e degli interessi dell’imputato). ART. 111 QUINDI HA UNA FORMULAZIONE OGGETTIVA CHE ASSORBE QUELLA SOGGETTIVA (non vale l’inverso). Bisogna ora ricordare la distinzione dworkiniana tra PRICIPI E REGOLE:

- Principi sono proposizioni normative a elevato grado di genericità (fattispecie aperta), applicabili nella forma del più o meno (max. espansione o restrizione). Es. 2° comma art. 111 Cost.(contraddittori, terzietà e imparzialità giudice, ragionevole durata).

- Le regole invece sono proposizioni normative ad elevata specificità, a fattisp. chiusa, nella forma del “tutto o niente”e destinate ad essere o no attuate (no pox. intermedie) es. seconda frase 4° comma art.111.

E’ una distinzione di grado nebulosa nelle zone di confine. Se non si riesce e catalogare una proposizione come regola o principio si considera che:

- i principi in sede di attuazione sono soggetti a ponderazione, bilanciamento. Il legislatore ordinario deve trovare un punto di equilibrio anche quando sono in conflitto tra di loro (però non tutti i princ. sono sullo stesso piano).

- Le regole non sono sogg. a bilanciamento ma a differenza dei princ. Sono suscettibili di eccezioni purché previste dalla stessa fonte cost.

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LE ECCEZIONI RAPPRESENTANO PER LA REGOLA CIO’ CHE RAPPRESENTA IL BILANCIAMENTO PER IL PRINCIPIO.

PRINCIPI GENERALI: IL GIUSTO PROCESSO

Nella prima frase dell’art.11 l’idea di giustizia emerge due volte: “giurisdizione” nel senso di pratica che consente di dare giustizia, dire il diritto in situazioni di conflitto e poi con la qualifica di “giusto” che connota lo strumento con cui si esercita tale pratica.

Giusto processo = formula antica, con origine nei concetti di fair trial e due processo of low. Il riferimento più immediate però è il PROCESSO EQUO a cui sono informati l’art. 6 della Convenzione Europea dei dir. dell’uomo e delle libertà fondamentali e l’art. 14 del Patto internazionale sui dir. civili e politici. E’ il punto di arrivo di un’evoluzione.

Due processo f law è l’sigenza di legalità, rispetto delle regole procedurali. L’attributo “equo” aggiunge l’idea di equilibrio e parità dei soggetti che esercitano le diverse funzioni davanti al giudice. “GIUSTO” VA OLTRE A “EQUO”: suggerisce un assetto processuale cognitivof0ondato sul sapere elaborato dialetticamente, capace di dare una decisione giusta (seppur fallibile). Il processo deve essere giusto, è ovvio e fondamentale (ovvio perché sarebbe paradossale che l’istituzione sociale che dispensa la giustizia non lo fosse e fondamentale perché la decisione è maggiormente accettata se si ha un giudizio positivo sulle procedure seguite per arrivarvi). L’ingiustizia di una procedura è più dannosa di quella di una decisione perché la prima si reitera e non è come la seconda un fatto singolo e occasionale.

Che connotati deve avere il processo per essere giusto?

L’espressione giusto processo è riassuntiva nel quadro delle molteplici norme di dettaglio, rafforzativa, ma ha anche valore autonomo tale da condizionare le future scelta legislative? BISOGNA FARE UN TEST DI COMMUTAZIONE CHE CONSISTE NEL CHIEDERSI COSA ACCADREBBE SE IL PROCESSO NON FOSSE QUALIFICATO COME GIUSTO EX ART. 111 COST.(nel contesto ideale del controllo di costituzionalità). La Corte sinora ha parlato di giusto processo come compendio delle diverse garanzie previste in Cost.+ Conv. Europea. Ma si potrebbe usare questa formula in un senso non riassuntivo ma autonomamente come strumento di censura? Si potrebbe dichiarare illegittima una norma soltanto perché in contrasto con il princ. del giusto processo? Probabilmente no., in futuro al max. potrà avere lo spazio oggi di competenza del controllo sulla ragionevolezza (ex art. 3 Cost.) ma ciò comporterebbe l’esercizio di un notevole potere discrezionale. Andare oltre e dire che da tale principio scaturiscano direttive autonome e diverse è difficile e pericoloso.

Escludiamo che “giusto processo” possa essere un puro e semplice giudizio di valore, rimesso al soggettivismo dell’interprete (potrebbe avere qualsiasi contenuto, una cosa può nella storia passare dall’essere giusta all’essere ingiusta). L’interprete finale è la Coste Cost. e quindi questa avrebbe un potere enorme di invalidare ogni disposizione non condivisa (in nome delle proprie concezioni di giustizia).

Un significato non arbitrario giusto potrebbe essere basato su valiri universalmente condivisi (max. assenso degli interessati, ecco perché il contraddittorio è la regola d’oro, perché nessuno accetterebbe di essere condannato sulla base di dichiarazioni poi smentite in pubblico confronto). La qualifica di giusto o ingiusto è criticata comunque da molti scettici perché non sono criteri giuda per il legislatore, è un’espressione emotiva che trasforma l’esigenza in un postulato assoluto ( A.Ross.). Per procedere correttamente bisognerebbe (per eliminare l’influenze dei singoli) riprendere l’allegoria di Rawls del velo dell’ignoranza: i principi di giustizia sono scelti da individui all’oscuro della loro futura posizione nella società.

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GIUSTO PROCESSO POTREBBE ESSERE DEFINITO COME QUELLO SCELTO DA PERSONE RAZIONALI IN UNA SITUAZIONE DI IDEALE IMPARZIALITA’ (ignare appunto del ruolo che avranno (giudice, imputato, ecc…). Hapshire: per definire un processo giusto bisogna che le rispettive e opposte rivendicazioni siano ascoltate. In pratica ci sarà un convergente consenso su alcuni fondamentali aspetti: giudice imparziale, precostituito dalla legge, il princ. dell’audiatur

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altera pars da cui deriva il contradditt. e l’eguaglianza tra le parti, pubblicità udienze, difesa ai non abbienti, tempi ragioneli e una struttura idonea a favorire decisioni giuste cioè corrette nell’interpretazione delle norme e nella valutazione delle prove + specificam. per proc. Penale la tempestiva conoscenza dell’accusa e la non presunzione di colpevolezza (+ adeguate garanzie per libertà personale). Nella cost. troviamo tutto questo tranne la pubblicità delle udienze che non è espressamente riconosciuta ma che la giurisprudenza ritiene implicita (Sent. Cost. del 1992, è un princ. essenziale in ordinamento democratico fondato su sovranità popolare). Qualcuno ritiene che il giusto proc. Implichi un giudice privo di ogni potere probatorio + inutilizzabilità di ogni prova illegittimamente ottenuta + separazione carriere, ecc…Questi concetti però non sono così largamente condivisibili come quelli precedenti perché alcuni in nome del valore di giustizia potrebbero arrivare a conclusioni diametralmente opposte: qui sarà il legislatore a fare da arbitro (no corte cost.).

I CARATTERI UNIVERSALIZZABLI DEL GIUSTO PROCESSO (CHE SONO SOLIDI FINO A RAPPRESENTARE UN PARAMETRO NEL GUD. DI LEGITTIMITA’) SONO GIA’ TUTTI ENUSCLEABILI IN ART. 111 COST. E ALTRE DISP. PROCESSUALI. Ci sono anche garanzie processuali non così universalizzabili (ad es. l’obbligatorietà dell’azione panle che anche se collegata all’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge non è condivisa in molti ordinamenti.

DICHIARAZIONI DI INCOSTITUZIONALITA’ PER SEMPLICE CONTRASTO CON GARANZIA GIUSTO PROCESSO: MOLTO IMPROBABILI (di fatto) E NON AUSPICABILI. Sarebbe assurdo che ciò derivasse proprio da una norma nata per frenare l’invadenza della Corte Cost. nella sfera del legislatore. IL PRECETTO GIUSTO PROCESSO SARA’ SEMPRE RICHIAMABILE COME RIASSUNTIVO E RAFFORZATIVO DELLE GARANZIE COSTITUZIONALIZZATE. AL PIU’ E’ IMMAGINABILE SINERGIA TRA GIUSTO PROCESSO E ART. 3 COST. SU CONTROLLO RAGIONEVOLEZZA. La formula ha comunque forza connotativa e simbolica su tre piani:

1) i processi svolti secondo vecchie regole, definiti su base di dichiarazioni unilateralmente raccolte in ind. prel.: difficilmente si potranno sostenere giusti a confronto con art. 111 cost. QUANDO SI DANNO CERTI CONNOTATI AL GIUSTO PROCESSO AUTOMATICAMNTE DIVENTANO INGIUSTI I PROCESSI PRIVI DI QUEI CONNOTATI (erano giusti secondo le vecchie disposizioni e sono diventati ingiusti). Essendoci però l’intangibilità del giudicato per i processi già definiti, l’ingiustizia di questi è giuridicamente irrilevante, non lo stesso può dirsi socialmente parlando (si chiedeva revisione delle condanne inflitte senza rispettare il contraddittorio).

2) Il legislatore si deve impegnare ad attuare le regole e i principi costituzionalizzati. La formula giusto proc. non è solamente rafforzativa esemplificativa: coinvolge l’intera disciplina di rito, sollecitato bilanciamento tra garanzie ed efficienza, tra i diversi interessi coinvolti. Es. La Corte europea dei dir. dell’uomo nel 2004 aveva censurato l’Italia per assenza di congegni idonei a concretizzare il diritto delle persone condannate in contumacia ad ottenere un riesame dell’accusa (se non hanno rinunciato consapevolmente a comparire se non siano state informate del procedimento). Giusto processo vuol dire anche osservanza di una regola analoga a quella del MAXIMIN (il sec. princ. di giustizia di Rawls che esige di massimizzare la parte minimale in una sostanziale divisione diseguale). Le garanzie processuali in aumento non devono di fatto tornare ad esclusivo vantaggio delle parti economicamente più forti, ma devonp dare beneficio anche ai meno abbienti.

3) Gli operatori del processo dovrebbero tutti avvertire il richiamo al giusto processo come richiamo alla correttezza/lealtà anche se nell’esercisio di funzioni radicalmente diverse. Questo dal punto di vista della prassi, non disciplinare o deontologico. IL PROCESSO DEVE ESSERE PERCEPITO COME GIUSTO DAI CITTADINI (spettatori e coinvolti nel processo) e per questo è essenziale anche il contegno degli attori perché deve esserci consapevolezza che il proc. è una pratica comunicativa basata sul confronto di argomenti e ragioni e che tutto questo fa si che si realizzino gli ideali di giustizia. Ricoeur: l’incorporazione nei codici di compassione e generosità è un compito

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ragionevole ma difficile e interminabile.

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LA VALUTAZIONE DELLE PROVE

Il giusto processo È REGOLATO DALLA LEGGE,ossia dalle fonti normative che includono legge formale e atti con forza di legge ad essa equiparati. Il processo ha come elemento costitutivo le disciplina legale: forme e formalità preordinate alla decisione. La forma non può piegarsi a forzature del singolo processo, sono inderogabilmente determinate dalla legge. La legalità è un valore elementare delle stato di diritto (no discrezionalità nell’individuazione garanzie da parte del giudice). La disciplina legale regola l’intera sequenza probatoria ma nel processo penale c’è un settore di stretta pertinenza giudiziale in cui il legislatore non dovrebbe intervenire (anche se l’art. 192 cpp fa la scelta contraria): LA VALUTAZIONE DELLE PROVE. Il legislatore deve fissare le regole di selezione delle prove (regole di inclusione ed esclusione) e questo lo fa con direttive in art. 111 Cost. c. 3°,4°,5°. Ma una volta soddisfatta questa esigenza non sono necessari criteri di valutazione legali: può dirlo solo il giudice. NON E’ CHE LA VALUTAZIONE DEL GIUDICE SIA LIBERA NEL SENSO DI ARBITRARIA: la motivazione e il controllo del giudice superiore garantiscono il rispetto delle regole di logica, scienza ed esperienza. E’ congenito nell’inferenza induttiva un rimasuglio di discrezionalità ineliminabile. La decisione non discende dalle prove ma è da queste sottodeterminata (il quadro probatorio è logicamente compatibile con diverse ricostruzioni dei fatti altrimenti al giudice sarebbe sostituito da un computer). IL SOLO CRITERIO CHE SI PUO’ PER LEGGE STABILIRE (oggi nel nuovo testo dell’art. 533 cpp) E’ QUELLO DELLA COLPEVOLEZZA OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO.

RAGIONEVOLE = PLAUSIBILE, non logico (ci sarebbe sempre il dubbio).Solo il giudice può stabile quando e se il dubbio diventa irragionevole (accezione molto vaga), perché nessuna norma può togliere al giudice questa responsabilità.

ART. 192 CPP: CODIFICA I CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE (IN MODO INEVITABILMENTE INADEGUATO): sono disposizioni sagge ma non aumentano le garanzie e rischiano di generare pericolosi contraccolpi per l’interprete. Es. art. 192 c.

3 recita che le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in proc. connesso sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. Quindi in caso di testimonianza dell’offeso non è necessario esigere riscontri? Oppure: c. 2, l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizia a meno che non siano gravi, precisi e concordanti. Si rischia un livellamento arbitrario tra prove induttive deboli Ad es. attinenti al comportamento umano) e prove induttive forti (esempio: fondate su leggi scientifiche).

ICRITERI LEGALI SONO INEVITABILMENTE ASTRATTI E INCOMPLETI, funzionano o per eccesso o per difetto. Anche in art. 111 Cost. c’è un criterio di valutazione della prova: divisto di provare la colpevolezza sulla base di dichiarazioni di chi per libera scelta si sia sempre volontariamente sottratto al controesame.

RISERVA DI LEGGE

Posta in c. 1 art. 111 Cost. ma non è incompatibile con l’emanazione di decreti legge né con il potere di censura esercitato dalla Corte Costituzionale con sentenze di accoglimento che sono atti normativi ad ogni effetto. Il problema è nel modo di esercitare tale potere: per le sentenze di tipo ablativo nessun problema (dichiarano illegittime le disposizioni o significati di disposizioni). Per le sentenze manipolative di tipo additivo o sostitutivo (illegittima la disposizione nella parte in cui non prevede o prevede A invece che B)la corte introduce positivamente una nuova o diversa disciplina.

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Per giustificarle si parlava di “sentenze a rime obbligate”: la nuova disciplina deriverebbe da previsioni costituzionale deduttivamente e la corte si limita a portare alla luce scelta implicite. In realtà è una finzione, la corte sceglie una delle scelte costituzionalmente accettabili. Diventano intoccabili e restringono il potere del legislatore (possibile solo revisione costituzionale). Non si possono vietare perché a volte sono indispensabili ma una tendenza di self restraint negli interventi di questo tipo sarebbe auspicabile nel rispetto della ripartizione dei poteri. In effetti sin dai primi

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interventi in materia di garanzie del giusto proc. la Corte si è orientata così, affermando che al legislatore è affidato il compito di definire gli istituti processuali e calibrarli: è un’autolimitazione davanti alle prerogative parlamentari. L’ART. 111 COST. RIFORMATO HA CAMBIATO NON SOLO LE REGOLE PROCESSUALI MA ANCHE IL MODO IN CUI LA CORTE ESERCITA I SUOI POTERI DI CENSURA.

CONTRADDITORIO, PARITA’ TRA LE PARTI E GIDICE TERZO E IMPARZIALE

2° c. art. 111: fissa 4 importanti princ. per OGNI PROCESSO.

1) CONTRADDITORIO

2) CONDIZIONI DI PARITA’

3) GIUDICE TERZO E IMPARZIALE

4) DURATA RAGIONEVOLE

I primi tre sono valori primari di giustizia, il quarto è una condizione di efficienza della giustizia.

Erano già tutti presenti nel nostro ordinamento e desumibile da:

Contradditt.: art. 24 c. 2 Cost.

Parità: art. 3/24 Cost.

Terzietà/Imparzialità: art. 101 c. 2 Cost.

Durata ragionevole: dai princ. Cost. che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale e esigenza di razionalità delle norme proc. + art. 6 Conv. Europea

OGNI PROCESSO SI SVOLGE NEL CONTRADDITTORIO DELLE PARTI:

In progetto Bicamerale c’erano anche oralità e immediatezza (tolti a ragione perché ci sono comunque restrizioni come nell’incid. probat. E questa regola doveva essere estesa a tutti i tipi di proc.)

C’è anche silenzio in tema di PUBBLICITA’ DELLE UDIENZE (originariamente era prevista nell’art. 101 del progetto PRESENTATO DALLA Costituente il 31 gennaio ’47): già nel ’47 questa disposizione fu ritenuta superflua, pubblicità udienze è implicitamente prescritta da sist. Cost. come fondamento democratico del potere giurisdizionale, esercitato in nome del popolo italiano (art. 101 Cost.)

Probabilmente c’è un’altra motivazione: l’ampiezza raggiunta dal giudizio abbreviato con legge 479 del 1999.

Qui il contradditt. corrisponde al princ. AUDIATUR ET ALTERA PARS e non quello nella formazione della prova come in c. 4°. E’ quindi il contraddittorio generico, partecipazione dialettica delle parti., gioco d’interventi alternati o contestuali. In questa accezione il contraddittorio postula

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una struttura triadica e non si riferisce all’indagine se non quando vi intervenga il giudice per assumere decisioni o per formare prove non rinviabili al dibattimento (es. misure cautelari e incidenti probatori).

IL CATALOGO DELLA GARANZIE NEL CONTRADD. NON è MAI CHIUSO, NON MAI COMPLETO, SAREBBE TEORICAMENTE POSSIBILE SEMPRE INNALZARE LE GARANZIE: UN LIMITE ALL’ESPANZIONE STA NEL BILANCIAMENTO CON GLIA LTRI PRINCIPI.

Di norma il contradd. Precede la decisione del giudice ma non si esclude che possa essere posticipato per legge (es. impugnazione misure coercitive inaudita altera parte).

Il contradditt. riguarda tanto il tema storico quanto quello giuridico ma non anche la qualifica non contestata. I profili fattuali se non contestati sfuggono al controllo difensivo ma ciò non vale per i profili giuridici (che spesso mutano in camera di consiglio e sarebbe quindi necessaria la regressione alla sede dibattimentale con danni per la ragionevole durata): sarebbe illogico postulare un onere conoscitivo da parte della difesa. E’ impostante però garantire l’imputato dal rischio che la diversa qualifica giuridica possa risolversi in una surrettizia lesione del diritto di prova: si garantisce

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quindi all’imputato il più ampio diritto alla controprova in sede d appello senza subordinarne l’esercizio all’impossibilità di decidere allo stato degli atti.

…IN CONDIZIONI DI PARITA’…

Non vuol dire avere gli stessi strumenti e non vuol dire identità di poteri-doveri delle parti. Calamandrei riferito al proc. civile: uguaglianza parti non può distruggere la diversità di posizione iniziale derivante dal fatto che la invocazione del giudice proviene non da entrambe le parti ma da una parte che propone la domanda contro l’altra che al contrario senza volontà si trova coinvolta. A maggior ragione ciò sarebbe scorretto nel proc. penale. Il PM esercita poteri autoritativi e ciò si riflette sulle prove. LA PARITA’ ESIGE UNA RELAZIONE DI NECESSARIA RECIPROCITA’ TRA LA PARTE CHE ACCUSA E LA PARTE CHE RESISTE E I POTERI DEVONO ESSERE IDONEI A CONTROBILANCIARE QUELLI DELLA’LTRA IN FUNZIONE DELLE OPPOSTE PROSPETTIVE PER AVERE EQUILIBRIO NELLE VARIE TAPPE PROCESSUALI. Si può essere pari disponendo di armi diverse e appropriate alla propria funzione.

DAVANTI AD UN GIUDICE TERZO:

La Bicamerale non aveva inserito anche il termine imparziale. Non sono sinonimi ne rafforzativi l’uno dell’altro: molta giurisprudenza della corte cost. fa uso promiscuo del binomio ma in realtà gli aggettivi hanno significati autonomi.

- La terzietà riguardo lo status (piano ordinamentale): l’uff. del giudice deve essere organizzato in modo da renderlo soggetto alla sola legge (no potere politico né parti)

- L’imparzialità concerne a funzione esercitata nel processo: non deve essere accusatore come avverrebbe se potesse esercitare l’azione panale o indagare e non devono nemmeno sussistere gravi ragioni per ritenere compromessa la sua autonomia (le ragioni sono tipizzate in norme su incompatibilità, ricusazione e rimessione).

Anni ’90: Corte cost. molto severa nei giudizi sui pregiudizi al giudice da precedenti valutazioni espresse sulla materia oggetto del processo., proliferazione di cause di incompatibilità e poi costretta a specificare con un distinguo arbitraro che le pregresse decisioni idonee ad incidere sull’imparzialità sono solo quelle appartenenti alle fasi diverse del medesimo processo .

Il giudice, senza contrasto con l’imparz., può esercitare un potere probatorio in extremis per rimediare alle negligenze delle parti., ma solo in modo sussidiario e con circoscrizione dell’ambito ad opera della legge. Se la res iudicanda è indisponibile e la parte non deduce tempestivamente la prova decisiva e resta inerte non si preclude la sua assunzione definitivamente; a questi estremi l’imparzialità sarebbe salvaguardata solo se si separasse come nel proc. con giuria la figura di chi dirige l’escussione dibattimentale che decide la colpevolezza.

Spesso l’endiadi terzietà-imparzialità riaccende l’attenzione sulla questione separazione delle carriere: la contiguità tra giudice penale e PM effettivamente non giova alla terzietà del giudice anche dal punto d vista dell’immagine del cittadino. RIFORMA PER L’ORDINEMANTO GIUDIZIARIO: L.150 DEL 2005 (????) propone un’organizzazione verticale degli uffici del PM in tensione con l’art. 107 Cost. c. 3 secondo cui i magistrati si distinguono solo per diversità di funzioni.

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LA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO

Riguarderebbe solo il proc. in senso stretto che inizia con es. dell’azione (sintatticamente). Logicamente invece è estesa al senso ampio che include gli atti di indagine preliminare (infatti il cod. di rito prevede durate massime). Il princ. della ragionevole durata è contemplato già in art. 6 Conv. Europea con una differenza:

- CONVENZIONE: LA GARANZIA E’ COSTRUITA COME DIRITTO SOGGETTIVO, IMMEDIATAMENTE AZIONABILE (ogni persona ha diritto ad un’equa e pubbl. udienza entro un termine ragionevole).

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- COSTITUZIONE: LA LEGGE ASSICURA LA DURATA RAGIONEVOLE DEL PROCESSO. Questo per conseguenza del fatto che la Corte non può sindacare sulla durata del singolo processo ma solo sulle norme che prevedono tempi lunghi e passaggi inutili non giustificate da esigenze repressive o garanzie difensive. In realtà anche in questi sindacati la Corte incontra il limite del potere discrezionale del legislatore nello scandire i tempi e i modi delle fasi processuali (sono sindacabili solo quando manifestamente irragionevoli). Per i difetti di lentezza della nostra giustizia bisogna guardare a problemi organizzativi per i quali bisogna ricorrere ala Corte Europea cui compete valutare in concreto i tempi dei processi.

Non è pensabile fissare termini per legge di durata massima ma si potrebbe, anche se con difficoltà per le scarse risorse, preveder un risarcimento all’imputato assolto dopo inammissibili ritardi processuali (es. L. 89 del 2001 sulla previsione di un’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole di durata del processo).

LA RAGIONEVOLE DURATA NON E’ SOLO UN DIRITTO DELLA PERSONA COINVOLTA NEL PROCESSO, E’ ANCHE UNA GARANZIA OGGETTIVA DI BUON FUNZIONAMENTO DELLA GIUSTIZIA. Qualcuno ritiene arbitraria questa lettura che sarebbe irragionevole e che stravolgerebbe la gerarchia dei valori costituzionali rendendo il princ. dello SPEEDY TRIAL (sorto come garanzia all’individuo contro abusi derivanti dal protrarsi ingiustificato del proc.) in un congegno al servizio della difesa sociale idoneo a prevale sui diritti dell’imputato; in nome della speditezza si violerebbe il dir. di difesa. Contrapposti sono gli allarmi lanciati da più parti relativi al rischio di paralizzare i processi con una proliferazione di garanzie difensive (Es. il Progetto Pittelli di iniziativa parlamentare). La ragionevole durata è un canone oggettivo ma è anche un diritto soggettivo?No, per almeno due ragioni:

1) tale interpretazione è in netto contrasto con l’art. 111 Cost. 2°c., e ciò si ricava confrontandolo il tenore della Conv. Eur. Che esrpime il medesimo valore in senso di dir. sogg. LA LEGGE ASSICURA LA RAGIONEVOLE DURATA (formulazione ogg.) – OGNI PERSONA HA DIRITTO AD UN’EQUA E PUBBLICA UDIENZA ENTRO UN TERMINE RAGIONAVOLE (formulaz. sogg.).

LA FORMULAZIONE OGG. NON ESCLUDE MA ASSORBE QUELLA SOGGETTIVA (ciò che è oggettivamente connotato del proc. diventa anche dir. dell’imputato mentre non vale l’inverso).

2) la dimensione oggettiva della rag. durata è così strutturalmente congenita al processo che, anche senza essere espressa in cost., discernerebbe dal più generale principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. E’ una condizione di efficienza. La Corte, già prima della riforma (es. sentenza 353 del ’96 in tema di rimessione del processo quando censurò l’assenza nella disciplina cost. di un equilibrio fra i principi di economia processuale e terzietà del giudice poiché gli abusi dello stesso potrebbero compromettere il bene cost. dell’efficienza del processo enucleabile dai princ.cost. che regolano l’es. della funzione giurisdizionale e il canone fondamentale della razionalità delle norme processuali) si era pronuncia in questo senso. Non si può ritenere che la ragionevole durata sia solo un dir. di parte e non anche un’obiettiva esigenza di buona amministrazione della giustizia (indebolirebbe la resistenza contro attacchi delle garanzie difensive proprio cercando di negare l’esistenza di un possibile conflitto tra queste e la rag. Durata ed evitando così la ricerca di un equilibrio tra i diversi valori del giusto processo).

IL BILANCIAMENTO DEI PRINCIPI

Bisogna definire il rapporto ragionevole durata e altre garanzie del giusto processo. Un punto fermo è la distinzione dworkiniana tra principi e regole. Le regole sfuggono il bilanciamento che è la tecnica di attuazione dei principi (ma sono soggette ad eccezioni): su di esse (precetti cost. espressi

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in forma di regola) la rag. durata non esercita influenza. Es.: contraddittorio sulla formazione della prova che anche se è definito principio è una regola (è principio dove demanda al legislatore la scelta degli strumenti idonei a realizzare il metodo dialettico, in positivo, ma è regola dove estromette dal quadro decisorio le dichiarazione segretamente raccolte da organi investigativi, in

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negativo + seconda parte della disposizione “la colpevolezza non può essere provata sulla base delle dichiarazioni…”). Le regole sono sottratte al bilanciamento con interessi concorrenti come la rag. durata,

I principi del giusto processo in 2° comma art. 111 Cost. (imparz. e terz. del giudice, contraddittorio genericamente inteso come proiezione del dir. di difesa, parità delle parti e la ragionevole durata) sono precetti di ottimizzazione, norme volte a prescrivere che qualcosa sia realizzato nella misura del possibile, in modo più o meno esteso a seconda del peso attribuito ai principi concorrenti. Sono inderogabili e il bilanciamento/ponderazione operato dal legislatore (non dall’interprete) funziona come l’eccezione per le regole. Se correttamente bilanciati i princ. del giusto proc. si compongono in un rapporto di solidarietà che li rafforza reciprocamente anche perché tre di essi sono strettamente interdipendenti (Funzione cognitiva, imparzialità e dir. di difesa). Non sono illimitatamente espandibili, attuabili unilateralmente ignorando il bilanciamento: si avrebbero disastrosi risultati ed equivoci (si veda la legge Cirami con la vaga categoria del “legittimo sospetto” come presupposto di rimessione e il testo unificato Pittelli che moltiplicava le incompatibilità e i motivi di ricusazione). Gli esiti sarebbero caricaturali.

Es: Diritto di difesa esasperato: vietate le misure cautelari inaudita altera parte, diritto di assunzione incondizionata delle prove anche quando manifestamente irrilevanti e superflue, ricorso immediato in Cassazione cpntro le decisioni incidentali con sospensione del processo. Imparzialità: vietare al giudice ogni intervento d’ufficio nell’istruz. dibatt. Anche le domande in extremis ai testimoni con rischi per la completezza dell’accertamento.

IL VALORE SUSSIDIARIO DELLA RAGIONEVOLE DURATA

Funzione cognitiva/imparzialità del giudice e diritto di difesa sono valori primari giustizia. La ragionevole durata invece è una condizione di efficienza e ha ruolo sussidiario: non in senso riduttivo, semplicemente implica che sia già stata fatta dal legislatore una scelta relativa a determinate garanzie e quindi il concetto di rag. durata può essere individuato solo a partire da un modello prioritariamente definito (prima si definisce il giusto processo, poi la rag. durata e non il contrario).C’è quindi un rapporto di priorità ma ciò non toglie che è necessario procedere col bilanciamento. Bisogna individuare un nucleo di garanzie essenziali per ogni valore primario, in relazione al quale la durata non può mai essere irragionevole. Si potrà poi accrescere il nucleo ma ponderandone le ripercussioni del surplus di garanzie sui tempi processuali. Il diritto alla difesa è un principio cost. e pertanto non può subire eccezioni: non è possibile scalfirlo in nome dell’efficienza o altri valori. Specularmente il principio può espandersi illimitatamente e le sue garanzie accrescersi sino a bloccare la giustizia. Quindi anche la ragionevole durata potrà rappresentare un LIMITE MA NON ALLA DIFESA, SOLO ALL’INCONTROLLATA PROLIFERAZIONE DI GARANZIE POTENZIALI. Non essendo ipotizzabili eccezioni al principio, il bilanciamento con la ragionevole durata sarà l’unico possibile freno.

ETICA PROFESSIONALE E RAGIONEVOLE DURATA

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Quando la condanna appare prevedibile è molto probabile che il difensore si avvalga di ogni mezzo per ritardare la sentenza, compreso il decelerare volontariamente il processo per guadagnare la prescrizione del reato. L’invito ad assicurare la ragionevole durata è rivolto al legislatore e non alle parti. Non tutte le scelte per dilatare i tempi sono uguali, ben diverse dalle richieste probatorie e le eccezioni sulla validità degli atti sono le scelte aggressive come ad es. la ricusazione del giudice per motivi palesemente infondati. Quale che sia la tattica ostruzionistica mette male individuare contegni deontologicamente censurabili (a meno che non si alleghino fatti scientificamente falsi o atteggiamenti di gratuito discredito verso controparti, testimoni, giudice, ecc). Anche quando si riuscisse a dimostrare che l’intendo era puramente dilatorio (molto difficile perché si parla di psiche) sarebbe irrilevante perché le garanzie sono a disposizione delle parti. Le finalità delle azioni che si intraprendono in processo non sono sindacabili, si può solo sindacare sull’esistenza del dir. invocato (fondamento della richiesta) e la sanzione è solo il rigetto del giudice. Di recente si è osservato che l’avvocato potrà legittimamente puntare alla prescrizione ma non fino al punto di sabotare il processo con pratiche dilatorie palesemente dirette AL SOLO FINE DI IMPEDIRNE LO SVOLGIMENTO (Ferrajoli). La distinzione su queste basi è utile come criterio regolativo del difensore ma non altrettanto dal p.to di vista sanzionatorio: intento puramente dilatorio o occasionalmente dilatorio o differenza tra rallentamento e blocco del processo sono distinzioni impraticabili. Anche l’imputato può esercitare pratiche ostruzionistiche, specie quelle più aggressive come la richiesta di remissione e ricusazione, perché sono tipici atti di parte per i quali l’avvocato non è legittimato. TOCCA ALLA LEGGE EVITARE CHE CI SIANO EFFETTI ROVINOSI SUL PROCESSO ATTRAVERSO L’USO STRUMENTALE DELLE GARANZIE. Dove non c’ etica del difensore, come nel bilanciamento, deve esistere l’etica del legislatore nella sede ideale della revisione del codice di rito.

LE GARANZIE DEL PROCESSO PENALE, GIUSTIZIA DEL PROCESSO E GIUSTIZIA DELLA DECISIONE

Cosa significa giusta decisione?Possiamo individuare 4 condizioni necessarie:

1) Una disciplina legale del processo che garantisca requisiti minimi di equità (terzietà del giudice e audiatur et altera pars).

2) L’osservanza in concreto di forme e regole processuali legali (tra cui anche le condizioni di validità).

3) La corretta qualificazione giuridica del fatto.

4)La congruenza della ricostruzione storica del fatto rispetto alle prove legittimamente acquisite (la condanna deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio di colpevolezza.

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Sono tutte condizioni che attengono al processo (la prima però opera su un piano diverso perché richiede valutazioni secondo equità). Se bastassero però queste condizioni si avrebbe, secondo la tripartizione rawlisiana (procedura pura-perfetta-imperfetta), una giustizia procedurale pura, non ci sarebbero criteri esterni al processo per decidere sulla giustizia del suo risultato: sarebbero inevitabilmente prodotte decisioni giuste. Il processo ideale è quello che rispettando le garanzie e i valori assicura con maggiore probabilità un risultato giusto, che quindi siano condannati i colpevoli e prosciolti gli innocenti, sapendo a priori che nessuna procedura è in grado di garantire in modo assoluto il risultato. In realtà il processo è un esempio tipico di procedura imperfetta, caratterizzata da fallibilità inevitabile perché il fatto è ricostruito induttivamente. Vi è, sia nella giustizia perfetta e imperfetta ma non in quella pura, un criterio indipendente e antecedente la scelta del metodo per stabilire ciò che si può ritenere un risultato di giustizia. La differenza tra giustizia procedurale perfetta e imperfetta è che nell’ultima non c’è mai un metodo la cui osservanza rigorosa possa garantire un esito giusto. Quindi: nella giustizia procedurale perfetta le regole garantiscono la giustizia del risultato mentre in quella pura la giustizia è solo l’osservanza delle regole. Riconoscendo la fallibilità della procedura dobbiamo quindi aggiungere un criterio ai quattro enunciati, un quinto criterio indipendente dal processo:

5) L’enunciato storico formulato del giudice deve essere vero in senso forte, deve corrispondere ai fatti che realmente sono stati. Anche se non si ha mai la certezza definitiva questo criterio è fondamentale.

In presenza di tutti e 5 i requisiti il processo raggiunge il suo fine (alla violenza del reato subentra il diritto).Potrebbe succedere però che la sentenza condanni un innocente comunque: la decisione sarebbe giusta nel processo ma ingiusta in termini metateorici perché condanna un innocente. Tutti gli ordinamenti danno rilevanza alla giustizia trascendente alla legalità ma la fallibilità della giustizia indica che c’è sempre un possibile divario tra la ricostruzione dei fatti operata in processo e la realtà di ciò che è stato. Può succedere anche ovviamente il contrario, con l’assoluzione doverosa in termini processuali ( giusta quindi all’interno del processo) del colpevole (ingiusta in termini metateorici perché non è vero l’enuciato in forza del quale si ha l’assoluzione). IL CONCETTO DI SENTENZA GIUSTA IMPLICA LA VERITA’ DELL’ENUNCIATO A CAUSA DEL QUALE SI E’ ASSOLTI O CONDANNATI E CIO’ PERCHE’ QUANDO SOPRAGGIUNGE LA PROVA CHE DIMOSTRA LA FALSITA’ DELL’ENUNCIATO NON SI DIRA’ CHE LA SENTENZA E’ DIVENTATA ORA INGIUSTA MA SOLO CHE SI E’ RAGGIUN TA LA PROVA DI UN’ORIGINARIA INGIUSTIZIA INDECIFRABILE ALL’EMANAZIONE DELLA SENTENZA.

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PROCESSO E VERITA’

La verità dell’enunciato storico implica un rapporto di corrispondenza tra entità linguistica (l’enunciato) un’entità extralinguistica (il fatto oggetto di giudizio). Il aftto roami è scomparso, inconoscibile, non più reale. La linea referenziale che congiunge enunciato e fatto accaduto è inconoscibile, quindi si proseguirà su una linea inferenziale che lega l’enunciato con oggetto il fatto storico sparito a enunciati su fatti attuali, cioè le prove. Il metodo di verifica tra prove e fatto storico sta nella congruenza della proposizione da provare rispetto alle premesse probatorie. Visto che non è possibile conoscere i fatti del passato se non tramite quelli del presente si potrebbe pensare di abbandonare ogni riferimento alla verità o parlarne solo in senso pragmatico che attribuisce l’aggettivo “vero” a ciò che si è confermato? No, la nozione, non epistemica (quindi indipendente dalla prova) di verità come corrispondenza tra i fatti resta essenziale almeno come criterio regolativo utile per il legislatore (nell’individuare il metodo di accertamento), per il giudice (nella valutazione di scelte discrezionali) e per il cittadino (nel criticare procedure e decisioni ingiuste). Ma soprattutto il con concetto di verità serve a sottolineare come una condanna o un’assoluzione possano essere ingiuste perché è falso l’enunciato nonostante la congruenza con tutte le prove processuali. LA PROVA DELLA COLPEVOLEZZA SI OTTIENE SOLO NEL PROCESSO MA LA VERITA’ DELLA PROPOSIZIONE CHE L’AFFERMA E’ INDIPENDENTE DAL PROCESSO: LA DISTINZIONE TRA CIA’ CHE E’ VERO E CIO’ CHE C’ RITENUTO VERO E’ ESSENZIALE PER LA NOZIONE OGGETTIVA DI VERITA’.

MODELLI COGNITIVI E MODELLI ANTICOGNITIVI, LA GIUSTIZIA NEGOZIATA

Il processo delineato dall’art. 111 Cost. è un processo cognitivo, volto alla formazione del sapere sul tema della colpevolezza attraverso la pratica comunicativa del contraddittorio. Il processo penale ha come funzione quella di accertare la colpevolezza: accertamento come atto cognitivo e accertamento come atto imperativo.

Cognitivo: segnato dal percorso argomentativo che dalle prove conduce alla colpevolezza (dai fatti del presente deriva per via induttiva l’accertamento del fatto storico e di conseguenza il giudice decide di riflesso dello stato di cose).

Imperativo: si esprime nell’atto performativo con cui il giudice impone all’imputato una qualifica. Abbiamo il movimento inverso a prima, la decisione del giudice produce uno stato di cose che incide sul mondo esterno.

Cognitivo: la colpevolezza discende dall’accertamento di un sapere. Senza questo profilo la sentenza sarebbe un mero atto di forza.

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Imperativo: la colpevolezza discende dall’esercizio di un potere. Senza questo lato la sentenza perderebbe effetto vincolante.

Il processo è cognitivo a due condizioni:

1) Completezza accertamento:è’ necessario che si possa svolgere un’indagine completa e deve essere consentito produrre ogni prova non manifestamente irrilevante o in contrasto con i princ. dell’ordinamento.

2) Regola di giudizio in conclusione dell’accertamento: la colpevolezza deve essere provata oltre ogni ragionevole dubbio. Sotto questo connotato si scivola verso impostazione anticognitiva.

Il modello cognitivo è ulteriormente scindibile in base al metodo con cui si forma il sapere:

1) processi che praticano il contradd. in senso forte (quindi dal momento di formazione della prova e dove, salvo eccezioni, le dichiarazioni raccolte in fasi predibattimentali non hanno valore)

2) processi in cui il contraddittorio è in senso debole ( anche le dichiarazioni raccolte prima del dibattimento e quindi unilateralmente possono costituire prova quando siano contestate a chi le ha rese nel corso dell’esame orale – come accadeva tra svolta inquisitoria e riforma).

Entrambi i processi sono affiancabili a procedure negoziali con il consenso dell’imputato o accordo tra parti: si devia in diverse misura dal metodo del contradd. Es: patteggiamento, giudizio abbreviato, acquisizione concordata di atti d’indagine o investigativi.

Abbreviato e acq. Concordata non incidono formalmente sulla funzione cognitiva: il proc. resta improntato al principio di completezza delle indagini e alla regola della colpev. oltre ogni rag. dubbio (anche se imparz. accertamento minata da unilateralità prove).

Applicazione della pena su richiesta delle parti: procedura nettamente anticognitiva (specialm. se nel corso di indagine).

Nel patteggiamento il giudice non accerta la colpevolezza e si limita ad accertare l’assenza di cause di non punibilità (Cassazione 1996: sono pene sia quelle ordinarie che quelle a seguito di patteggiamento ma l’ordinaria è legata al previo giudizio mentre nell’altra il giudizio manca). Il giudice in fatti non dichiara la colpevolezza ma specifica solo nel dispositivo che la pena è applicata su richiesta delle part (ex art. 444 c 2 cpp).

Nel patteggiamento l’imputato non chiede, come nell’abbreviato, di essere giudicato sulla base degli atti raccolti dalle indagini prel.: chiede con l’accordo della controparte direttamente la pena con una riduzione della stessa che è il corrispettivo per il mancato accertamento della resp. (in abbreviato la riduzione è corrispettivo della rinuncia al contradd. e all’oralità). Se nell’abbreviato si dovesse provare la colpevolezza oltre il rag. dubbio il PM sarebbe riluttante a concedere il proprio consenso, rischiando di vedere impunito l’imputato pur avendo già concordato la pena (il giudice non può respingere la richiesta delle parti per incompletezza indagini).

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Qualcuno pensa di risolvere il problema della separazione tra pena e colpevolezza con la specifica statuizione che la sentenza a seguito di patteggiamento accerta la resp. dell’imputato. Altri ritengono necessario inserire nella richiesta di patteggiamento un’ammissione di colpevolezza. Questo però non inciderebbe sulla sua struttura anticognitiva (inciderebbe solo sul profilo imperativo), a meno di trasformarlo in un rito abbreviato (dove è diverso il metodo probatorio ma non la regola di giudizio).

Nel modello costituzionale che spazio può avere il patteggiamento? Con Legge del 2003 il patteggiamento ora è applicabile fino a pena di 5 anni (innalzamento del limite massimo entro cui si può accedere al patteggiamento). E’ legittimo? E’ costituzionalmente tollerabile (ma non preferibile).Nella fascia di reti a ridotta gravità il deficit conoscitivo e di conseguenza il rischio di errore giudiziario può ritenersi compensato dai vantaggi in termini di economia. Per la fascia medio alta il rischio appare inaccettabile. Se si percepisce invece il proc. come mera soluzione del conflitto tra le parti il patteggiamento appare come mezzo ideale per la composizione e potrebbe avere un ambito applicativo anche illimitato. Ma il processo penale è indisponibile quindi questa soluzione è assolutamente inadeguata. Nonostante questo si è diffusa sulla scia della nota OPPOSZIONE DI MIRJAN DAMASKA TRA PROCESSO COME ATTUAZIONE DI SCELTE POLITICHE O COME SOLUZIONE DEI CONFLITTI (forse versione odierna del conflitto processo inquisitorio e proc. accusatorio). In realtà è fuorviante.

- Proc. come attuazione di scelte politiche: le legge penale sostanziale è sicuramente frutto di scelta politiche ( espressione della maggioranza parlamentare). Ma qui si intende il processo penale di cui lo Stato si avvale per imporre il suo indirizzo politico. Questo quadro è assolutamente incompatibile con l’assetto della giustizia in un ordinamento liberale.

Per Corte Cost. il proc. penale non è volto solo a risolvere i conflitti ma serve ad accertare i fatti reali per pervenire ad una soluzione il più possibile rispondente al risultato voluto dal dir. sost.

- Proc. come mera soluzione di conflitti: in questo caso la struttura ideale del proc. sarebbe anticognitiva, come la giustizia negoziata. Il contraddittorio non sarà lo strumento per arrivare alla conoscenza ma un pesa di sui liberarsi attraverso l’accordo delle parti. Esito processuale come frutto della negoziazione e non più della conoscenza.

Con il declino del proc. inquisitorio sono emersi due modi di concepire il modello accusatorio (proc. nello stato di dir.):

1) fare leva soprattutto sui potere dispositivi delle parti, nella logica del lassez faire, discrezionalità dell’azione penale.

2) fare leva sul contraddittorio nella formazione della prova, obbligatorietà az. penale, dir. penale sost. minimo incentrato su lesione dei dir. fond.)

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Nel complesso delle norme cost. è privilegiato il secondo modello: obbligatorietà azione panale, contraddittorio, indipendenza magistrato.

Eccetto i temperamenti relativi all’esigua rilevanza del fatto, c’è nel nostro proc. penale obbligatorietà az. penale per portare il giudice a conoscenza del fatto.

L’accertamento deve essere oggettivo nel senso che sia indipendente delle interferenze politiche, l’oggettività va intesa nel senso di proiezione dell’imparzialità del giudice e contraddittorio nella formazione della prova (non vuol dire che non sia una congettura, un’ipotesi).

L’esigenza cognitiva c’è sia nel giudizio di fatto quanto in quello di diritto ma sul terreno del fatto ha un particolare rilievo: errori interpretativi e sulla ricerca delle qualifiche giuridiche sono sempre documentabili (come nella teoria scientifica nell’evolversi della ricerca). Gli errori di fatto invece sono documentabili solo sulla base di prove la cui disponibilità non è pubblica o durevole. Ecco l’esigenza cognitiva nel fatto è così forte: la scienza corregge i suoi errori ma i fatti accertati non correttamente sono quasi sempre irrimediabilmente persi. I fatti hanno la testa dura: hanno potere di grande resistenza nei confronti dell’osservatore ma sono facilmente falsificabili da parte del potere politico.

CONVENZIONE EUROPEA NELLA COSTITUZIONE

Solo relative e specifiche del proc. penale sono le direttive del 3° comma art. 111 Cost. che riproduce le garanzie dell’art. 6 par. 3 Conv. Euro.

La Corte aveva sempre negato a tale fonte valore costituzionale anche come parametro nei giudizi di legittimità. La corte aveva comunque riconosciuto una particolare resistenza alla convezione (norme da fonte con competenza atipica e insuscettibili di abrogazione o modificazioni da legge ordinaria). Inoltre gran parte delle garanzie lì stabilite erano implicite nel dir. inviolabile della difesa (art. 24 c 2 Cost.) Quindi ammesso che la Conv. è una fonte sovraordinata alla legge ordinaria, l’individuazione del dir. d difesa nei suoi contenuti minimi è doverosa. Le sentenze della svolta inquisitoria non si sono mai spinte ad affermare che l’art. 24 Cost. potesse intendersi in termini tali da contraddire le garanzie del giusto processo stabilite nella Convenzione (le sentenze hanno solo ridotto le garanzie facendo crollare il modello accusatorio). Il richiamo alla garanzie convenzionali suona come invito a valorizzarle, una netta smentita degli indirizzi della Corte sul recupero delle dichiarazioni rese fuori dal contradd.

a) “NEL PROCESSO PENALE, LA LEGGE ASSICURA CHE LA PERSONA ACCUSATA DI UN REATO SIA NEL PIU’ BREVE TEMPO POSSIBILE INFORMATA RISERVATAMENTE DELLA NATURA E DEI MOTIVI DELL’ACCUSA A SUO CARICO”.

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In art. 111 “processo” si intende in base alla singola garanzia comprendere o meno la fase antecedente all’esercizio dell’az. penale. Qui c’è un riferimento sia all’accusa che alla persona accusata. Tecnicamente la disposizione si riferirebbe solo alla fase del processo vero e proprio quando il PM abbia già formulato l’imputazione: ci sarebbe un abbassamento della tutela rispetto all’attuale disciplina codicistica (che prevede informazione di garanzia a partire dal primo atto di indagine preliminare al quale il difensore ha dir. di assistere). Probabilmente (come fa intuire “riservatamente” e “più breve tempo possibile”) si allude invece a qualunque fase del procedimento in cui si registri la sostanziale attribuzione di un reato ad una persona da parte degli organi inquirenti (quindi anche le indagini preliminari). La formula comunque nonb parla di immediata conoscenza dell’accusa, ma di CONOSCENZA “NEL PIÙ BREVE TEMPO POSSIBILE” (che permette un contemperamento tra diritto e esigenze investigative).

Il dir. alla tempestiva conoscenza dell’accusa è una consicio sine qua non per svolgere efficacemente la difesa, da cui deriva anche la continuità tra l’accusa comunicata e quella per cui si procede (l’informazione non è solo sul dato accusatorio di partenza).

A differenza della convenzione in cost. non si accenna all’informazione in lingua comprensibile all’accusato ma ci si arriva con l’interpretazione: l’assistenza dell’interprete come dir. stabilito nel seguito della norma ha come presupposto logico che anche l’atto di accusa sia comprensibile. La Corte infatti ha precisato che il dir. dell’imputato ad essere immediatamente/dettagliatam. informato nella LINGUA DA LUI CONOSCIUTA su natura e motivi imputazione deve essere considerato un DIT: SOGG: PERFETTO, DIRETTAMENTE AZIONABILE. Questa garanzia è in norme di legge ordinaria ma ha un contenuto di valore implicito nel riconoscimento costituzionale, a favore di ogni uomo del diritto inviolabile di difesa (art. 24 c.2 Cost.) ed essendo questo princ. fondamentale ai sensi dell’art. 2 Cost. il giudice è sottoposto al vincolo interpretativo di conferire alle norme di garanzia di dir. di difesa su esatta comprensione dell’accusa un significato espansivo per rendere concreto ed effettivo se possibile il diritto dell’imputato.

b) “…DISPONGA DEL TEMPO E DELLE CONDIZIONI NECESSARI PER PREPARARE LA DIFESA”, una direttiva sotto forma di princ. E desumibile già dell’art. 24 c.2 Cost. Sarebbe una contraddizione definire inviolabile il diritto di difesa e non dare la possibilità di esercitarlo efficacemente. Il problema sta nell’individuare i tempi e le condizioni mediante il bilanciamento ( in particolare con rag. durata). Funzionali a questa direttiva sono tre leggi che hanno ridefinito il ruolo del difensore:

- L. 397 del 2000 (indagini difensive)

- L. 60 del 2001 ( difesa d’uffico)

- L. 134 del 2001 ( patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti).

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c) “…ABBIA LA FACOLTA’DAVANTI AL GIUDICE DI INTERROGARE E FAR INTERROGARE LE PERSONE CHE RENDANO DICHIARAZIONI A SUO CARICO, DI OTTENERE LA CONVOCAZIONE E L’INTERROGAZIONE DI PERSONE IN SUA DIFESA NELLE STESSE CONDIZIONI DELL’ACCUSA E L’AQUISICIONE DI OGNI ALTRO MEZZO DI PROVA A SUO FAVORE.

Ci sono tre varianti rispetto alla norma convenzionale: il richiamo al giudice (davanti cui effettuare gli interrogat.), il riferimento alle persone e non solo ai testimoni (per scongiurare il pericolo di interpretazioni restrittive) e il diritto dell’accusato di acquisire ogni altro mezzo di prova (anche qui c’era rischio di interpretazioni restrittive). Alcuni giudici di merito hanno ritenuto che la formula abbia introdotto il principio della possibilità per l’imputato di interrogare direttamente almeno i testimoni a carico: è un’interpretazione eccessiva perché al massimo renderebbe possibile al codice di rito una modifica che consenta l’intervento personale dell’imputato nell’esame ma non sicuramente la costituzionalizzazione di questo principio. Giudice: si intende il giudice incaricato di pronunciare la decisione finale, quindi il GIUDICE DIBATTIMENTALE. Non essendo costituzionalizzati i principi di oralità e immediatezza restano pienamente valide le prove assunte in sede di incidente probatorio anche se questo non toglie il dir. di chiedere nuovamente l’esame del teste davanti al giudice (salvo limitazioni in legge). IL DIR. DI PROVA NON E INDISCRIMINATO: RAGIONEVOLEZZA VUOL DIRE CHE QUESTO DIR. SARA’ SUBORDINATO A DETERMINATE CADENZE TEMPORALI E ANCHE AD UN VAGLIO GIUDIZIALE DI AMMISSIBILITA’/RILEVANZA. Testo Unificato Pittelli: in XIV Leg. Toglie al giudice il potere di escludere le prove manifestamente irrilevanti o superflue; tale libertà assoluta di produrre prove senza pertinenza di economia e pertinenza, evoca immediatamente un contrasto con art. 3 e 111 c. 2 Cost. per irragionevole protrazione dei tempi processuali.

d) “…SIA ASSISTITA DA UN INTERPRETE SE NON COMPRENDE E NON PARLA LA LINGUA IMPIEGATA NEL PROCESSO”: processo in senso ampio (anche ind. prel.). In Cost. manca riferimento alla gratuità del servizio ma è in Conv. di Roma, inoltre la gratuità è ritrovabile in art. 143 cpp (assistenza gratuita dell’interprete).

LA FORZA EPISTEMICA DEL CONTRADDITTORIO

Per ricerca della verità (come fine primario e ineludibile del proc. penale come da sent. Cost. 255 del ’92) bisogna recuperare le dichiarazioni raccolte da organi inquirenti ? Seconda sent. del’92 sì, “PRINCIPIO DI NON DISPERSIONE DELLA PROVA”. L’errore sta nel ritener ostacolo alla ricerca della verità il contradd. come se ci fosse antitesi tra i due valori dove destinato a soccombere è sicuramente il contradd. Questo discorso crolla con art, 111 c. 4 Cost. “IL PROC. PENALE E’

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REGOLATO DAL PRINCIPIO DEL CONTRADD. NELLA FORMAZIONE DELLA PROVA”. Qui non è un semplice dir. individuale ma anche una garanzia oggettiva, condizione di regolarità del processo. Forse sarebbe stato più corretto parlare di metodo e non di princ., come strumento per ricostruire i fatti. Torna un valore alleato, come nel cod. del 1988. Finalmente si possono ricostituire le regole di esclusione probatoria di prove poco affidabili. La prova certo non va dispersa ma ora la Costituzione ci dice che le dichiarazioni raccolte nel processo sono prove perché c’è un contributo dialettico delle parti. C’è diffidenza verso prove raccolte in segreto: la prova dichiarativa si forma attraverso una serie di interazioni tra dichiarante e interrogante, domande e risposte, in cui il massimo influsso è esercitato da chi ha poteri autoritativi. Possono esserci influenze sulle dichiarazioni: l’esame incrociato non annulla questo problema ma lo bilancia opponendo la parzialità dell’accusatore a quella difensore in un dialogo sotto il controllo del giudice. Il presupposto epistemologico è che la verità si manifesti o si tradisca contro il volere delle parti. Sul piano della prova il contradd. rappresenta l’imparzialità giurisdizionale.

IL CONTRADDITTORIO NELLA FORMAZIONE DELLA PROVA: OGGETTO E LIMITI

Con l’art. 111 comma 4 vengono imposti al legislatore due obblighi:

1) apprestare tecniche e strumenti idonei a formare le prove in contradd. (la direttiva opera come principio, ampio e inderogabile);

2) estromettere dal quadro decisorio le prove non formate in contraddittorio (è una regola di esclusione probatoria; la dichiarazione unilateralmente formata sarà totalmente irrilevante per la decisione salve eccezioni)

Esistono due limiti impliciti:

1) il contradd. nella formazione della prova riguarda solo il tema principale del processo, cioè quello della colpevolezza (sui temi incidentali è utilizzabile ogni atto valido indipendentemente dalla sede e metodo di assunzione).

2) la regola del contradd. vale solo per le prove di cui si possa astrattamente ipotizzare la formazione in contradd. (ad es. non vale per documenti e oggetti pertinenti al reato rispetto ai quali il contradd. si svolge SULLA prova e non nella sua formazione, idem per intercettazioni).

Cadono sotto sanzione di inutilizzabilità le dichiarazioni raccolte nell’indagine preliminare o in investigazione difensiva e specularmente c’è il divieto di testimonianze indiretta sul loro contenuto da parte di chi le avesse ricevute.

Per ciò che viene detto fuori dalla sede processuale: potranno essere esser acquisite tutte queste dichiarazioni attraverso prove documentali o testimonianze indirette (metadichiarazioni). SE LA

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TESTIMONIANZA INDIRETTA E’ INUTILIZZABILE NON E’ PERCHE’ LA DICHIARAZIONE-OGGETTO E’ STATA FATTA FUORI DAL CONTRADD. MA PERCHE’ E’ STATO VIOLATO IL DIR. AL CONTROESAME DEL TESTE DIRETTO.

Inutilizzabilità della testimonianza indiretta vuol dire che la meta dichiarazione è prima di tutto una premessa probatoria rispetto al fatto materiale che è stato

INTERPRETAZIONI RIDUTTIVE DEL CONTRADDITTORIO

A) IL RAPPORTO TRA PRIMA E SECONDA PARTE DELL’ART. 111 C. 4 COST.

Gli avversari della regola d’oro dopo l’entrata in vigore della nuova norma hanno subito cercato di neutralizzarne la portata innovativa. Per i contrari era necessario solo esplicitare il divieto di dare valore probatorio alle dichiarazioni rese da persone poi sottrattesi all’esame difensivo con il silenzio in dibattimento. Si sollecitava la conferma delle scelte della scolta inquisitoria.

La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rilasciate da chi per libera scelta si sia sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato e del suo difensore. Critiche:

-Per i critici della svolta si ricaverebbe da tale disposizione, a contrario, che sono ammissibili ad uso probatorio le dichiarazioni rese da chiunque accetta l’esame: è un discorso errato. In presenza di X è vietato Y = non si può dedurre che dove sia assente X allora sia consentito Y, perché per arrivare a tale conclusione bisognerebbe dimostrare che Y non è vietato da nessun’altra disposizione e questo infatti è vietato dalla prima parte dell’art. 111 c. 4 Cost. che esige il contradd. nella formazione della prova. La seconda parte è una traduzione in negativo della prima. Resta quindi sempre implicito il divieto di usare a fini decisori le dichiarazioni raccolte segretamente come sono quelle contestate al testimone. Se così non fosse l’art. 111 comma 5 sarebbe primo di significato perché non avrebbe senso prevedere deroghe al contradd. per la provata condotta illecita o irripetibilità oggettiva se non ci fosse il divieto al di fuori del caso in cui vi sia libera sottrazione al controesame (art. 111 c. 4 seconda parte Cost.). Probabilmente la seconda parte non è neppure passibile di eccezioni quali quelle previste per il primo passaggio, cioè ammissibilità della prova unilaterale per accordo delle parti o consenso dell’imputato: probabilmente il divieto di condanna vigente sulla base di dichiarazioni di chi si sia sempre volontariamente sottratto al controesame inderogabile, a differenza degli altri casi.

- Qualcuno sostiene che se già la prima parte del 4 comma contenesse una regola di esclusione sarebbe superflua la seconda parte (sarebbe già implicito nel primo passaggio): ma una norma di legge non può essere interpretata in modo da essere inutile. Da qui deriva la negazione delle

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premessa e restringere il divieto alla sola sottrazione per libera scelta. Forse effettivamente la seconda parte dell’art. è ridondate ma nei lavori preparatori c’era il timore che la sottrazione volontaria al contradd. fosse valutata come una forma di imposs. ogg. e quindi l’interpretazione estensiva del concetto “irripetibilità”. I riformatori pensavano che inserendo la sottrazione al controesame fosse aumentata la tutela. Gli avversari invece se ne sono fatti forti. GLI EFFETTI DELLA SECONDA PARTE DEL 4 COMMA SONO TUTTI DA RICERCARE ALL’INTERNO DELLA FATTISPECIE REGOLATA, COSTITUITA DALLA VOLONTARIA SOTTRAZIONE ALL’INTERROGATORIO DA PARTE DELL’INDAGATO E SUO DIFENSORE. Alcuni effetti: spostamento dell’onere probatorio circa la libera scelta in capo alla parte interessata a far valere il divieto (difesa), possibilità di valutare in utilibus le dichiarazioni (sono se attinenti alla colpevolezza), estensione del divieto a due tipi di dichiarazioni che non rientrerebbero nella regola di esclusione probatoria (le dichiarazioni rese al PM in sede di esame diretto da un soggetto che per libera scelta rifiuti il controesame perché la prova di è comunque formata in contradd.e le dichiarazioni rese in sede extraprocessuale.

LA SECONDA PARTE DEL 4° C. NON PUO’ RIDERRE LA PRIMA PARTE AD UNA PROPOSIZIONE MERAMENTE DECLARATORIA.

NON E’ PENSABILE CHE SI VINCOLI IL LEGISLATORE AL RISPETTO DEL CONTRADD. SOLO IN RAPPORTO ALLE DICHIARAZIONI RESE DA CHI RIFIUTA DI RISPONDERE IN GIUDIZIO (LASCIANDO APERTA LA VIA A SCELTE INQUISITORIE IN MATERIA DI CONTESTAZIONI).

Quindi al di fuori delle eccezioni previste dalla legge costituzionale nessuna dichiarazione può costituire prova ai fini della decisione se raccolta in segreto.

SECONDO ARGOMENTO A DISCAPITO DEL CONTRADDITTORIO:

TEORIA DELLA PROVA COMPLESSA

La dichiarazione raccolta nell’indagine ma sottoposta al vaglio delle parti tramite la contestazione, diventerebbe parte integrante di una PROVA COMPLESSA formata nel contradd. dibattimentale e della quale il giudice si potrebbe legittimamente servire per la decisione valutando congiuntamente dichiarazioni contestate e dichiarazioni rese in giudizio. Se si avverte la necessità di teorizzate che tale prova è formata in contraddite. È proprio perché, al contrario della prima ragione di critica, si riconosce la presenza nella direttiva cost. di una regola di esclusione operante anhe quando il soggetto si sottopone al controesame. Questa teoria ha molti consensi (anche in convegno associazione fra studiosi del proc. penale del 2000. E’ vero che la dichiarazione usata per le contestazioni è un mezzo che serve al contraddittorio (costringe l’esaminato a rendere conto del

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mutamento di versione) ma non è comunque formata in contraddittorio. C’è in questa teoria una confusione tra strumento e prodotto (dichiarazione precedente e testimonianza dibattimentale). LA CONTESTAZIONE NON PUO’ AVERE L’EFFETTO DI MUTARE LA NATURA DI QUEL CHE SI CONTESTA. La contestazione di una dichiarazione segreta vale quanto una domanda perché serve solo a stimolare una risposta e non si può ovviamente usare come risposta una domanda.

Si contesta che la risposta vada comunque valutata contestualmente alla domanda e quindi si dovrò lo stesso valutare la precedente dichiarazione che viene appunto contestata per il tramite della domanda. E’ corretto ma dobbiamo tenere presente questa struttura della prova testimoniale: c’è il passaggio da una proposizione probatoria a una proposizione da provare, N racconta P, P è vera.

Sicuramente la domanda serve a dare senso alla risposta, ad interpretarla correttamente, ma non può mai essa stessa divenire proposizione probatoria né autonoma né congiunta all’unica ammissibile che è rappresentata da ciò che il teste afferma in dibattimento.

C’E’ UNA NETTA DIFFERENZA TRA USO PROBATORIO E USO INTERPRETATIVO.: NEL PRIMO LA DICHIARAZIONE CONTESTATA PUO’ ENTRARE IN CONFLITTO CON LA DICHIARAZIONE ORALE E SU QUESTA PREVALERE. Nel secondo caso servirà solo come una qualsiasi domanda a chiarire il senso della risposta (rapporto esplicativo e non di conflitto). Ricostruito il senso delle risposte bisognerà valutarne la credibilità e solo questo fine la legge consente al giudice di utilizzare la dichiarazione contestata (che resta inefficace dal p.to di vista probatorio perché formata fuori dal contradd.).

QUINDI: CHE IL SOGGETTO CHE HA RILASCIATO DICHIARAZIONI RACCOLTE IN SEGERTO SI SOTTOPONGA O MENO ALL’ESAME DIBATTIMENTALE IL LEGISLATORE NEGA A TALI DICHIARAZIONI VALORE PROBATORIO.

IRRILEVANZA PROBATORIA NELLE CONTESTAZIONI EX NUOVO ART. 500 CPP

La regola d’oro rientra nel processo penale e ad essa sono funzionali due disposizioni del codice di rito nuova formulazione:

- art. 500 cpp che finalmente definisce l’irrilevanza probatoria delle contestazioni: le dichiarazioni lette per la contestazione possono essere valutate ai fini della credibilità del teste e solo in casi eccezionali entrano a fare parte del fascicolo del dibattimento.

- art. 195 cpp comma 4 che ripristina il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni (solo per informazioni acquisite in sede procedimentale nell’ambito di un atto a ciò preordinato): non rientrano in tale divieto le

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dichiarazioni del morente sul luogo del delitto, i dialoghi captati fuori dal contesto procedimentale o le parole sfuggite durante una perquisizione. NON RILEVA CHE L’INFORMAZIONE SIA OMESSA NEL VERBALE. QUEL CHE CONTA PER L’ESCLUSIONE E’ SOLO CHE SIA MANCATO IL CONTRADDITTORIO.

Ci sono due argomenti sostenuti da chi cerca di negare che l’art. 500 cpp consacra la regola dell’esclusione:

- non viene detto che le contestazioni possono essere usate SOLO per valutare la credibilità.

- l’art. 526 cpp autorizza implicitamente l’uso di tutte le dichiarazioni rese da chi non si sia poi sottratto al contro esame, nelle parte in cui ribadisce “la sottrazione per libera scelta”.

E’ insostenibile: l’art. 500 cpp esclude esplicitamente l’acquisizione nel fascicolo del dibattimento le dichiarazioni contestate e nessun atto di indagine può diventare prova se non inserito nel fascicolo dibattimentale. Questo effetto non potrebbe mai derivare dall’art. 526 perché questo attiene alla fase decisoria e pertanto riguarda solo gli atti contenuti nel fascicolo (come le dichiarazioni di chi si sia poi volontariamente reso irreperibile per sottrarsi al controesame e su cui non può reggersi come la colpevolezza sulla base della nuova formulazione dell’art. 526 cpp). E’ un discorso autoconfutante; prima si contesta l’ingresso di troppa rigidità del giusto processo, poi interpretazione riduttiva del giusto processo e poi la negazione di concetti di cui inizialmente si negava l’esistenza.

IL CONTROLLO DI CREDIBILITA’ DEL TESTIMONE

Quando un testimone prima dichiara nero e poi bianco il giudicer si trova ad affrontare un DILEMMA: credere o meno a bianco. Prima era un TRILEMMA, credere a bianco, non credere a bianco, credere a nero.

La Corte cost. nella sentenza del 1992 n. 255 aveva dichiarato illegittimo il comma 3 dell’art. 500, ora c. 2 dello stesso art. Le ragioni erano che: si imponesse al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nella decisione perché SE LA PRECEDENTE DICHIARAZIONE ERA CONSIDERATA VERITIERA E SUFFICIENTE A STABILIRE INATTENDIBILITA’ TESTE NELLA DEPOSIZIONE IN DIBATTIMENTO ERA IRRAZIONALE INTRODURRE LA PRIMA DICHIARAZIONE IN GIUDIZIO IN CONTRADD. E POI NON POTERLA ACQUISIRE UTILMENTE AI FINI DELLA PROVA. In realtà l’art. non dice questo:IL PRESUPPOSTO PER RITENERE INATTENDIBILE IL TESTE NON E’ LA PRIMA DICHIARAZIONE MA IL SUO CONTEGNO IN DIBATTIMENTO, il non riuscire ad essere convincente sul perché ora c’è una versione difforme dalla prima).

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PER LA CORTE NEL ’92 LA SEQUENZA DI VALUTAZIONE DELLA TESTIMONIANZA E’: CONTESTAZIONE, VERITA’/FALSITA’ PRIMA DICHIARAZIONE, ATTENDIBILITA’ SECONDA DICHIARAZIONE,

LA SEQUENZA CORRETTA DI VALUTAZIONE DELLA TESTIMONIANZA E’ INVECE: CONTESTAZIONE, REAZIONE TESTE, ATTENDIBILITA’/INATTENDIBILITA’ DICHIARAZIONE DIBATTIMENTALE.

E’ il contegno del teste e non la verità della precedente dichiarazione a squalificare la dichiarazione dibattimentale.

Inoltre la negazione dell’enunciato deve cadere sulla prova di quanto affermato in dibattimento e non sulla verità di questa affermazione (non è provato bianco è molto diverso dal dire è provato non bianco che in caso di opposizione di nero e bianco si tradurrà in è provato nero); Sulla base delle contestazioni quindi non è mai dimostrabile la falsità della dichiarazione dibattimentale.

LE META-DICHIARAZIONI DEL TESTE

Possono esserci casi in cui il teste dichiarante bianco in giudizio, ammetta di aver di aver dichiarato nero agli inquirenti. In sostanza abbiamo tre dichiarazioni: 1) nero (in indagine preliminare, è la dichiarazione oggetto delle prossime ammissioni), 2) bianco (dichiarazione dibattimentale); 3) meta-dichiarazione (dibattimentale) in cui si dichiara di aver detto nero in sede preliminare ( una sorta di testimonianza indiretta la cui peculiarità sta nel fatto che a parlare è sempre la stessa fonte).

La dichiarazione n. 1 (nero) non può essere usata per provare la verità di quanto in essa dichiarato. Ci si può arrivare tramite la dichiarazione n. 3?

La meta-dichiarazione è pienamente ammissibile perché resa in contradd. e quindi valutabile dal giudice come dichiarazione dibattimentale. E’ però una testimonianza indiretta e quindi prova che è stato detto nero ma non la verità di nero. Nessuna norma sulla testimonianza indiretta però vieta al giudice di compiere una seconda inferenza: passare dal resoconto della dichiarazione oggetto alla verità di tale dichiarazione (molto difficile perché si tratta di una dichiarazione inidonea in concreto a provare un fatto ma non è non valutabile come prova). Ma nel caso specifico questo salto di passaggio non è ammissibile per via dell’art. 500 cpp e art. 111 cost. (divieto probatorio): dalla meta-dichiarazione possiamo arrivare solo alla dichiarazione oggetto (provare che è stata resa) ma qui ci dobbiamo arrestare (non possiamo provarne anche la verità. L’inferenza si ferma alla dichiarazione oggetto. Lo stesso vale nel caso in cui il teste dichiari di non ricordare quanto dichiarato precedentemente (a meno che non si tatti di amnesia patologica, recuperabile ex. Art. 512 cpp): si avrebbe la perdita del contributo probatorio. Sarebbe diverso se ci fossero altri spunti tali da provare la veridicità della dichiarazione oggetto (ad es. un teste che con testimonianza indiretta

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riporta il contenuto della dichiarazione oggetto ricevuta confidenzialmente). Caso diverso, il teste ricorda di aver dichiarato una cosa ma ma non ricorda i fatti: non sarà del tutto attendibile ma sarà possibile un uso probatorio del richiamo dibattimentale a quella dichiarazione (non ingresso nel dibattimento della dichiarazione originaria, solo richiamo ad essa). La ratio sta nel fatto che la dichiarazione è comunque stata raccolta precedentemente in segreto e non è affidabile.

LA CORTE COSTITUZIONALE PROMUOVE LA REGOLA D’ORO

La corte oggi tendenzialmente rigetta tutte le interpretazioni riduttive del contradd. nella formazione della prova.

- SENT. 32 DEL 2002: respinge questione di legittimità art. 195 cpp 4 c. relativo al divieto di testimonianza indiretta da parte della polizia giudiziaria. Dal principio nell’art. 111 Cost. che rende formale il rinascimento del contraddittorio sulla formazione della prova come strumento/metodo di conoscenza dei fatti, discende quale corollario il divieto di ammettere quali prove le dichiarazioni acquisite unilateralmente da organi investigativi.

- ORDINANZA 36 DEL 2002 (su art. 500 cpp): la costituzionalizzazione del contraddittorio ha reso il processo penale impermeabile al materiale raccolto in assenza di dialettica delle parti sul fronte della formazione della prova ed è del tutto coerente con questo la previsione di istituti volti a preservare la fase del dibattimento da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti. ITER ARGOMENTATIVO: dal princ. del contradd. nella formazione della prova deriva l’esigenza di impedire che l’istituto delle contestazioni si atteggi alla stregua di un meccanismo di acquisizione illimitato e incondizionato delle dichiarazioni. Questa esigenza è soddisfatta dall’art. 500 cpp che prevede un parametro di valutazione oggettivamente circoscritto delle dichiarazioni lette per le contestazioni e dall’altro ipotesi di utilizzabilità pleno iure (per consentire ampia facoltà di prova senza intaccare i principi del contradd.). NELL’ART. 500 QUINDI C’E’ UNA REGOLA DI ESCLUSIONE E QUESTO DERIVA DA UN CHIARA SCELTA DEL LEGISLATORE IN ATTUAZIONE DEI PRINC. COSTITUZIONALI. La corte non chiarisce sarebbe stata compatibile con la cost. anche la scelta opposta di riconoscere valore probatorio alle contestazioni. Dalla decisione però pare che la scelta fatta sia stata una scelta obbligata a fronte dell’art. 111 cost.: se ogni dichiarazione contestata si mutasse in prova la fase dibattimentale non sarebbe certo preservata da contaminazioni probatorie. Inoltre la corte afferma che i limiti probatori relativi alla dichiarazioni lette per le contestazioni non incidono affatto sulla coerenza intrinseca della motivazione che il giudice è chiamato a svolgere sul complesso della deposizione risultante dall’esito della contestazione e sullo scrutinio di credibilità. Al contrari qualsiasi prova non

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utilizzabile comprometterebbe l’obbligo di motivazione per il solo fatto di essere persuasiva. Complesso della deposizione testimoniale, quale risultante all’esito delle contestazioni: è tutto ciò che il teste dichiara nell’esame orale, gli enunciati su cui si apre l’alternativa vero o falso. Le dichiarazioni usate per le contestazioni sono lo strumento con cui si sollecita un certo resoconto ma non possono valere come proposizioni probatorie. IL SOLO USO CONSENTITO PER IL CONTROLLO DI CREDIBILITA’ DELLA TESTIMONIANZA DIBATTIMENTALE (c.2 art. 500). Non esiste più la teoria della prova complessa ( l’informazione assunta in segreto diventerebbe per effetto della contestazioni parte integrante della prova formata in contraddittorio e che il giudice utilizzerebbe ai fini decisori valutando congiuntamente le dichiarazioni rese in giudizio e quelle contestate). I contestatori affermavano, sulla falsariga della sentenza cost. 255 del ’92, le contorsioni logiche cui dovrebbe soggiacere la decisione del giudice ex art. 500 cpp: da un lato il giudice DEVE NEGARE VALIDITA’ DI PROVA ALLA TESTIMONIANZA DIBATTIMENTALE SUL PRESUPPOSTO CHE SIA VERA LA DICHIARAZIONE USATA PER LA CONTESTAZIONE MA GLI E’ ANCHE INCOERENTEMENTE VIETATO DI VALUTARE LA DICHIARAZIONE RESA UNILATERALMENTE AI FINI PROBATORI CON IL RISULTATO DI DECIDERE IN MODO CONTRADDITTORIO AL SUO LEGITTIMO CONVINCIMENTO. Questo meccanismo non sta in piedi perché in realtà IL PRESUPPOSTO PER RITENERE INATTENDIBILE IL TESTE NEL GIUDIZIO NON E’ LA VERITA’ DI QUANTO AFFERMATO IN PRECEDENZA MA IL SUO CONTEGNO IN DIBATTIMENTO. La Corte non si spinge fino a dichiarare questo: avrebbe dovuto negare le sue precedenti sentenze.

L’ART. 111 C. 4 letto in negativo implica la regola dell’esclusione probatoria sulla base di cui nessuna dichiarazione raccolta unilateralmente degli organi inquirenti può essere usata come prova ai fini decisori se non nei casi eccezionali contemplati nel comma 2 (consenso imputato, accertata irreperibilità di natura oggettiva e provata condotta illecita).

LA SOTTRAZIONE PER LIBERA SCELTA AL CONTROESAME

Il rifiuto al contraddittorio non rappresenta sicuramente un caso di accertata impossibilità oggettiva. E anche l’art. 111 cost. 4 comma implicherebbe l’impossibilità di recuperare la prima dichiarazione resa. Per sicurezza i riformatori (scongiurando il rischio di equiparazione del silenzio ad una causa oggettiva) hanno inserito una regola per rafforzare il contradd. (in realtà è stato un appiglio per contestare la forza del contradd.). SE QUALCUNO PER LIBERA SCELTA SI E’ SEMPRE VOLONTARIAMENTE SOTTRATTO AL CONTRITERROGATORIO LA COLPEVOLEZZA

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DELL’IMPUTATO NON POTRA’ ESSERE PROVATA SULLA BASE DELLE DICHIARAZIONI DA COSTUI RESE.

Non è mai possibile concludere per l’utilizzabilità della dichiarazione solo perché al persona si sia sottratta volontariamente al controesame. Nell’area delle dichiarazioni rese unilateralmente opera:

- se c’è sottrazione volontaria al controesame l’inammissibilità quale prova della dichiarazione.

- se non c’ è libera sottrazione:regola dell’esclusione probatoria, sono inutilizzabili le prime dichiarazioni.

- eccezioni nei casi previsti.

La mancata integrazione di una fattispecie non può comunque mai ridurre l’ambito operativo delle altre fattispecie.

Se c’è sottrazione al controesame per libera scelta sarà impossibile usare le dichiarazioni alla base di una sentenza di colpevolezza, mentre è possibile la valutazione in utilibus.

Se non c’è la libera scelta (COME SUCCEDE SEMPRE NEGLI ATTI DI INVESTIGAZIONE DIFENSIVA IMPUTATO-DIFENSORE) la scelta ricade tra l’esclusione (inutilizzabilità prova) o eccezioni (piena utilizzabilità).

Ricapitolando:

ATTI RACCOLTI UNILATERALMENTE DA POLIZIA GIUDIZIARIA O PM I IMPLICANO TRILEMMA TRA 1) REGOLA SPECIALE RELATIVA ALLA SOTTRAZIONE PER LIBERA SCELTA; 2) REGOLA DI ESCLUSIONE; 3) ECCEZIONI.

ATTI RACCOLTI DA DIFENSORE IMPLICANO UN DILEMMA TRA 1) REGOLA DI ESCLUSIONE; 2) ECCEZIONI. Non è invece mai ipotizzabile la sottrazione per libera scelta.

PER LE DICHIARAZIONE RESE FUORI DAL PROCEDIMENTO LA REGOLA DI ESCLUSIONE E’ INOPERANTE (concerne solo prove costituite).

Una persona si sottrae al controinterrogatorio quando è chiamata a deporre da giudice o parti (se nessuno ne chiedesse l’esame si giocherebbe tutto tra regola di esclusione ed eccezioni, ma non verrebbe usato il comma 4 art. 111 cost.)

. VOLONTARIAMENTE: ogni libera scelta è volontaria (non sempre viceversa) ed è una frase ridondante. Non conta che la condotta rappresentata dalla scelta della sottrazione sia una condotta illecita o un diritto del teste ( quindi è libera scelta anche la facoltà di tacere del coimputato). Non vuole dire scelta lecita. E’ concetto vago e anche difficile da ricostruire perché implica una sfera della psiche umana; ogni comportamento intenzionale diretto a schivare il controesame difensivo. E’ possibile che sia un esplicito rifiuto o sua serie preordinata di atti realizzati con l’intento di non parlare e crearsi una fattispecie di

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impossibilità oggettiva ( cd actniones liberae in causae, come irreperibilità premeditata o suicidio). Se la sottrazione non è frutto di scelta (ad es. morte) oppure non sia libera (minaccia, violenza, ecc), si ricade nell’accertata impossibilitò oggettiva o nella provata condotta illecita. Non c’è totale coincidenza tra ciò che non è libera scelta e le eccezioni previste: le dichiarazioni diverranno così inutilizzabili (es. rifiuto di deporre perché intimoriti senza influssi delittuosi esterni). . SEMPRE: la volontà di sottrarsi deve esistere sino all’ultimo momento utile per il controesame e quindi sino alla chiusura dell’istruzione dibattimentale in entrambi i gradi di giudizio. Se interviene un evento che esclude la libera scelta da quel momento la dichiarazione potrà essere utilizzata (es. si può essere assolti in primo grado perché l’accusatore si sottraeva al controesame e poi condannati in secondo grado perché questi è morto; non avrebbe rilevanza se fosse pendente il ricorso in cassazione ma se l’esito fosse l’annullamento con rinvio avremmo l’ingresso del prova nel processo). . LA COLPEVOLEZZA NON PUO’ ESSERE PROVATA…: Poterebbe essere:

1) una regola di esclusione: costringerebbe il giudice a non acquisire quel dato che ai fini decisori rimane irrilevante tamquam non esset.

2) criterio di valutazione: il giudice deve conoscere e valutare qual dato ma deve orientare il suo convincimento in un modo specifico.

LA SOTTRAZIONE DI CUI PARLA L’ARTICOLO E’ SOLO QUELLA NEI CONFRONTI DELLA DIFESA.

Dalla struttura della norma e le sue imposizioni si può dedurre che probabilmente sia intesa come un criterio di valutazione; NON VIENE DETTO CHE LE DICHIARAZIONI SONO INUTILIZZABILI MA SOLO CHE SU DI ESSE IL GIUDICE NON POTRA’ FONDARE LA COLPEVOLEZZA DELL’IMPUTATO: POSSONO ESSERE (NON C’E’ DIVIETO) ACQUISITE NEL FASCICOLO DIBATTIMENTALE E VALUTATE NEL CONTENUTO MA NON SARANNO MAI IDONEE A SUFFRAGARE L’IMPOTESI ACCUSATORIA (MENTRE RESTANO PIENAMENTE UTILIZZABILI A FAVORE DELL’IMPUTATO). Nel codice di rito sarà comunque possibile un sistema più garantista e infatti è stato scelto di fare una distinzione tra sottrazione per libera scelta o nella mancat comparizione.

Artt. 500 e 513 cpp convertono il criterio in regola di esclusione.

Artt. 512 e 526 cpp (impossibilità di ripetizione e sottrazione per libera scelta) confermano l’impostazione dell’art. 111 cost. e sono criteri di valutazione.

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. SULLA BASE: Potrebbero gli elementi avere comunque una valenza indiretta come elementi di riscontro alle prove di colpevolezza? No, ridurrebbe l’efficacia preclusiva del criterio di valutazione. Inoltre i riscontri se fossero decisivi (se non lo fossero la colpevolezza sarebbe comunque provata) sarebbero prove perché senza di essi sono si reggerebbe in piedi la colpevolezza. L’unico modo per capire se la colpevolezza è determinata da quelle dichiarazioni è chiedersi quale sarebbe stato l’esito senza di esse (test di resistenza).

IL CRITERIO DI VALUTAZIONE E’ UTILIZZABILE ANCHE NEL CASO DI DICHIARAZIONI RESE IN SEDE DI DIBATTIMENTO AL PM O ALA PARTE CIVILE DA PARTE DI CHI POI SI SIA RIFIUTATO DI RISPONDERE AL DIFENSORE O SI SIA ALLONTANATO DAL DIBATTIMENTO.

In questo caso non sono dichiarazioni raccolte in segreto ma davanti ai controinteressati e ai difensori non è negato il diritto di controesame. Pertanto queste dichiarazioni saranno legittimamente acquisite nel processo (stessa cosa se il teste nel controesame divagasse sulle domande) ma sono comunque altamente inaffidabili. Il comma 4 dell’art. 111 tocca anche queste dichiarazioni ottenute con l’esame diretto che quindi non potranno stare alla base della colpevolezza. Questa volta sulla correttezza della norma ci sono dei dubbi, sia perché irrigidisce il quadro che andrebbe più ampiamente valutato un concreto e anche perché la sanzione di impossibilità di condanna sulla base delle dichiarazioni vige solo per quelle non ripetute davanti al difensore e non viceversa ( silenzio davanti al PM dopo dichiarazioni già rese al difensore). Il divario in questo caso è attenuato dal fatto che l’attendibilità delle dichiarazioni “a singhiozzo” è molto bassa. Questa disparità in cost. comunque è stata appianata dal legislatore ordinario con la previsione nell’art. 500 cpp 3° c. della norma “se il teste rifiuta di sottoporsi all’esame o controesame DI UNA DELLE PARTI nei confronti di essa non saranno utilizzabili senza il suo consenso le dichiarazioni rese all’altra parte. Ciò significa inutilizzabilità anche a favore dell’imputato.

LA PROVA PER ATTIVARE IL DIVIETO DI UTILIZZAZIONE (CRITERIO DI VALUTAZIONE CHE VIETA L’USO DELLA DICHIARAZIONE A BASE DELLA COLPEVOLEZZA) GRAVA SU CHI LO INVOCA (DI NORMA LA DIFESA). Nel caso di actiones libera in causae è problematico. L’accusa acquisirà agevolmente la dichiarazione per l’impedimento a ripeterla e toccherà al difensore che irripetibilità è tale perché caudata dalla libera scelta del dichiarante (se non ci fosse il criterio di valutazione sarebbe l’accusa a dover dimostrare sia l’irripetibilità che l’impossibilità non imputabile a libera scelta). NEL DUBBIO SI SI

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PREFERISCE RITENERE CHE IL DICHIARANTE NON SI SIA SOTTRATTO AL CONTROESAME PER LIBERA SCELTA MA SOLO PER IMPOSSIBILITA’ DI NATURA OGGETTIVA. Diversamente, se la difesa ha raccolto la dichiarazione nell’investigazione difensiva sarà proprio queste per far valere le dichiarazioni a dover provare che queste sono irripetibili per motivi oggettivi e non sarà applicabile la seconda parte del comma 4 art. 111 cost.

IL CRITERIO DI VALUTAZIONE EX ART. 111 COST. COMMA 4 SECONDA PARTE E’ INVALICABILE, quindi nemmeno il consenso dell’imputato nell’ammettere la dichiarazione resa da chi poi si sa volontariamente sottratto al controesame non è accattabile (quindi le eccezioni alla formazione del contraddittorio nella formazione della prova non valgono per il criterio di valutazione). IN CASO DI RIFIUTO A DEPORRE L’ACCORDO TRA LE PARTI PRODUCA L’EFFETTO ACQUISITIVO MA NON INCIDA MINIMAMENTE SUL DIVIETO DI TRARRE DA QUELLE DICHIARAZIONI LA PROVA DELLA COLPEVOLEZZA (solo utilizzabili quindi a favore dell’imputato). In art. 500 c. 7: con accordo parti le dichiarazioni in fascicolo PM sono legittimamente acquisite nel fascicolo dibattimentale ma non c’è un pieno regime di utilizzabilità (art. 526 che ricalca il criterio di valutazione. Il problema non si pone per impossibilità accertata di natura oggettiva e provata condotta illecita che sono fuori dalla libera scelta.

SOTTRAZIONE AL CONTROESAME E DICHIARAZIONI EXTRAPROCESSUALI

La regola di esclusione opera per le dichiarazioni unilateralmente assunte in indagine preliminare/investigazione difensiva. LE DICHIARAZIONE EXTRAPROCESSULI NON SONO TOCCATE DELLA REGOLA DI ESCLUSIONE (utilizzabili per il tramite della testimonianza indiretta). Per questo tipo di dichiarazioni opera o meno il criterio di valutazione? Qui emerge il perché sia stato un errore erigere ad autonoma fattispecie la sottrazione per libera scelta. Se questa regola non ci fosse stata sarebbe stata ammissibile la testimonianza e indiretta sulla dichiarazione extraprocessuale e una volta chiamato il testimone diretto e questo sottratto al controesame difficilmente il giudice avrebbe basato alla testimonianza indiretta la sentenza di colpevolezza; la valutazione sarebbe stata fatta sull’attendibilità in concreto delle dichiarazioni. Un divieto legale opera in modo astratto e rigido, senza possibilità di adattamento, mentre un ostacolo empirico è verificabile e mai insuperabile. Il richiamo alle dichiarazioni rese sembra comprendere sia quelle in ambito processuale che extraprocessuale. Argomenti per tesi contraria: il contesto in cui si è raggiunta la formulazione della disposizione, la direttiva sul contraddittorio che limiterebbe il raggio d’azione dello stesso alla sede processuale e infine “dichiarazioni rese” sembrerebbe

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sottendere un contesto formalizzato. Per motivo legato alla genesi: l’intento dei legislatori era rivolto alle dichiarazioni processuali ma non era volto ad escludere le altre (avrebbero aggiunto a dichiarazioni rese “nel procedimento”). Per questione contraddittorio: la prima e la seconda parte del 4° c. non si riferiscono allo stesso ambito, stessa tipologia di prove. Per il contraddittorio è ovvio che la regola valga solo per le prove costituite in processo; nella seconda parte il riferimento è solo alle dichiarazioni e non ci sarebbe alcun correttivo come nel primo caso per le dichiarazioni rese fuori dal processo che danno diritto al controesame del teste.

DICHIARAZIONE RESE: espressione che si spiega con il linguaggio tecnico giuridico della cost. dove rendere dichiarazioni significa qualsiasi atto di parola indipendentemente dalla sede in cui si svolge. Quindi il criterio di valutazione si applica a tutte le dichiarazioni rese, anche a dialoghi confidenziali.

X testimonia in giudizio su quanto, decisivo per la colpevolezza di Y, gli abbai confidenzialmente raccontato W.

W si rifiuta per libera scelta di sottoporsi al controesame.

Sicuramente la colpevolezza non potrà essere provata dalla dichiarazione di W eventualmente rese nelle indagini preliminari.

Ma la testimonianza indiretta di X che valore avrà? Sulla base di esse non potrà comunque essere provata la colpevolezza di Y. La medesima conclusione nel caso di dichiarazioni contenute in uno scritto. RICORDIAMO SEMPRE PERO’ CHE E’ UN CRITERIO DI VALUTAZIONE E NON UNA REGOLA DI ESCLUSIONE PROBATORIA (legittimamente acquisiti nel fascicolo dibattimentale e valutabili dal giudice ma non potranno essere alla base della colpevolezza). Si sono solo temperamenti a questa conclusione:

1) La fattispecie della sottrazione per libera scelta non può essere integrata dall’imputato in relazione al fatto di cui è accusato (potrebbe togliere efficacia alle sue stesse dichiarazioni).

2) La dichiarazione non può essere provata assumendo come vere le dichiarazioni nel loro contenuto narrativo o descrittivo ( soggetto all’alternativa vero/falso); SARA’ POSSIBILE L’USO DI ENUNCIATI NON DESCRITTIVI, m anche quelli narrativi presi nella loro materialità (come fatti storici indipendentemente da cosa sia in essi asserito).

Quindi anche l’art. 195 cpp non è incostituzionale (nella parte in cui consente l’utilizzo della prova testimoniale indiretta trova un correttivo del criterio di valutazione della setssa ex art. 526 cpp): ACQUISIBILI LE DICHIARAZIONI COME PROVE, NON DIMOSTRABILE LA COLPEVOLEZZA SULLA BASE DELLE STESSE.

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DEROGHE AL CONTRADDITTORIO, C. 5 ART. 111 COST.

La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato, accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita.

E’ una formula autorizzativa con anche un contenuto precettivo (il legislatore è tenuto a dettare una disciplina dei tre casi in cost. ma ha ampi poteri discrezionali (restando sempre nel campo delle eccezioni). Sarà possibile una disciplina anche più garantista.

A) IL CONSENSO DELL’IMPUTATO

Per alcuni questa formula sempre supporre che il contradd. sia rinunciabile da parte dell’imputato. In realtà bisogna guardare il quadro mettendo in relazione il comma 5 con il comma 4 nell’ottica di regola/eccezione. La costituzione non ammette indiscriminatamente la possibilità per l’imputato di disporre del dir. al contraddittorio ma solo in determinati casi di consentire all’acquisizione di prove formatesi unilateralmente (in casi in cui presumibilmente questo non inciderà negativamente sulla giustizia della decisione). Sono perfettamente legittimi gli articoli volti al controllo della spontaneità del consenso o al rinnovo di prove unilaterali sulla cui ammissibilità le parti si erano accordate. Ci sarà sicuramente un criterio di utilità cui sottostà la scelta dell’imputato di accettare le prove unilaterali dell’accusa (ad es. sconti della pena) ma bisogna anche accertare che la scelta non sia dettata solo da ragioni economiche legate agli eccessivi costi della difesa. L’acquisizione concordata di atti può spingersi sino all’acquisizione in blocco delle prove raccolte unilateralmente dal PM: il rito ordinario si trasforma così in una sorta di rito abbreviato dove il premio non formalizzato dipende esclusivamente dalla discrezionalità del giudice che definisce la pena base tra i limiti edittali: sarebbe una sorte di giudizio semplificato allo stato degli atti e sono state sollevate domande di costituzionalità (nella parte in cui non sono previste riduzioni della pena e il consenso dell’imputato all’acquisizione del fascicolo del PM nel fascicolo dibattimentale) cui la risposta della corte è stata un rigetto: ACCORDO SULLA PROVA E RITO ABBREVIATO SONO DUE RITI PROCESSUALI DISOMOGENEI E NON ASSIMILABILI ( acquisizione accordata non esclude il dir. delle parti di articolare pienamente i propri mezzi di prova; nel rito abbreviato invece è un rito a prova contratta dove le parti possono far acquisire solo limitati elementi integrativi e il giudizio si fonda su prove raccolte nelle indagini).

PROBLEMI RELATIVI AL PATTEGGIAMENTO: dal 2003 la pena richiedibile dalla parti è stata innalzata a 5 anni e quindi il patt. può essere usato per risolvere il 90% delle cause. E’ un rito decisamente anticognitivo; potrebbe scontrarsi col modello di giusto processo delineato dall’art.111 Cost.: si parla di tensione tra le norme ma non di costituzionalità. SI POTREBBE CONSIDERARE L’ACCERTAMENTO DELLA RESPONSABILITA’ COME MODERATAMENTE

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DISPONIBILE TALE DA AMMATTERE CON L’ACCORDO TRA LE PARTI UN ACCERTAMENTO DA PARTE DEL GIUDICE SOLO DELLA CAUSE DI NON PUNIBILITA’. Se si muove invece dalla premessa opposta il passo seguente deve essere l’incostituzionalità del patteggiamento. Sarebbe un’operazione puramente nominale vedere nel patteggiamento un processo cognitivo, con accertamento delle responsabilità, magari introducendo la formula che nella procedura negoziata si accerta la colpevolezza. Un giudice di merito aveva sollevato la questione di legittimità dell’allargamento alla fascia più elevata dei reati rispetto agli artt. 3 e 111 cost. dicendo che il sistema processala penale non può ridursi ad un luogo di negoziazioni che svilisce la funzione giurisdizionale. Risposta della Corte: la scelta di ampliare l’ambito di operatività del patteggiamento non è irragionevole e rientra sicuramente nella sfera di discrezionalità del legislatore. L’ordinanza di rimessione parlava anche di un altro problema. Non si rinuncia semplicemente al metodo di accertamento (come in art. 111) ma proprio all’accertamento e non si ha la prova positiva della colpevolezza ma solo un accertamento in negativo. Da qui la conclusione potrebbe essere: la copertura costituzionale si restringe all’abbreviato lasciando fuori il patteggiamento proprio perché in esso NON C’E’ ACCERTAMENTO DI RESPNSABILITA’. Da questo ragionamento però non discenderebbe solo l’illegittimità dell’allargamento ma del patteggiamento stesso. L’ART. 111 C. 5 NON PARLA DI ABBANDONAMENTO TOUT COURT DI UN METODO MA L’ABBANDONO DI QUESTO PER UN ALTRO (DA FORMAZIONE IN CONTRADD. A FORMAZIONE UNILATERALE).

Dopotutto però nemmeno la regola che subordina l’applicazione di una pena alla prova di colpevolezza è formalizzata (è implicita nel quadro cost.) e potrebbe applicarsi il limite (anch’esso non formalizzato) della volontà della parti. La regola si estrapola in via interpretativa dai principi e nulla vieta di interpretarla in modo tollerante di limiti.

B) ACCERTATA IMPOSSIBILITA’ DI NATURA OGGETTIVA

Non dispersione prova in una chiave diversa da quella prevalsa nella svolta inquisitoria del 1992 (significava a priori affermazione dell’efficacia probatoria delle dichiarazioni unilateralmente raccolte): è la scelta del male minore rispetto alla perdita del contributo probatorio per motivi indipendenti dalla volontà del teste. La sopravvenuta irripetibilità è un fatto neutro e accidentale e di per sé inidoneo a convalidare retrospettivamente l’atto unilaterale e di questo il giudice dovrà tenere conto nella sua prudente valutazione. E’ IRRILEVANTE COME SI SIA ACQUISITA LA PROVA PER AVERSI UNA RAZIONALE E MOTIVATA VALUTAZIONE DELLA STESSA. Per la Corte Europea dei dir. dell’uomo ravvisa sistematicamente una violazione dell’art. 6 c. 3 lettera D della conv. Quando l’imputato non possa interrogare il teste la cui dichiarazione è posta a

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fondamento esclusivo e determinante della sentenza (senza distinzione della causa). Si abbassano ancora maggiormente i valori di attendibilità della prova quando questa sia una dichiarazione irripetibile provenga da un coimputato (coinvolto nel tema del processo e non soggetto all’obbligo di verità).

a) OCCORRE PRIMA DI TUTTO CHE SIA IMPOSSIBILE FORMARE IL CONTRADDITTORIO PER CAUSE CHE APPUNTO PRECLUDANO L’ESAME ORALE IN SENSO MATERIALE (es. morte, irreperibilità anche quando causata dalla paura di comparire per minacce perché manca la volontà di sottrarsi all’esame) SIA IN SENSO FUNZIONALE (patologie fisiche o psichiche tali da rendere inabili a deporre). Ovviamente sono possibili situazioni di confine (giudice con molto potere discrezionale) ad es. forte stress del minore destinato ad aggravarsi con deposizione (forse qui la Cassazione ha esagerato perché ha fatto una valutazione di opportunità circa le conseguenze dell’esame) per il quale si è operata una corta di arbitraria estensione dei motivi d’infermità mentale come fonte di impossibilità oggettiva. Di sicuro il mancato di ricordo non è una causa di impossibilità oggettiva di ripetizione (non si applica art. 512 cpp). Il sistema migliore per evitare un allargamento dei casi sarebbe muoversi preventivamente, realizzando ad es. l’assunzione anticipata della prova in sede incidentale e garantendo metodi tali da non ledere i diritti della persona come già previsto nel cod. di rito oppure attivare specifiche modalità di ascolto del testimone: si salvaguarda il contradd. senza ledere all’integrità psicofisica della persona. NON INTEGRANO LA PREVISIONE COSTITUZIONALE LE MERE DIFFICOLTA’ AL COMPIMENTO DELL’ATTO (es. temporanea assenza dal territorio italiano, la mancata presentazione del testimone o l’infermità che impedisca l’abbandono del domicilio: basterebbero gli strumenti giudiziari ordinari come le sospensione del dibattimento, l’accompagnamento coattivo o l’esame al domicilio).

In cost. non si richiede che l’impedimento sia imprevedibile ma questo è previsto nell’art. 512 cpp.

B) L’impossibilità deve essere di natura oggettiva, ha due significati:

- Deve essere REALE: legata ai fatti nel senso di accertata (non ipotetica);

- Deve dipendere da circostanze INDIPENDENTI DELLA VOLONTA’ DEL DICHIARANTE che rendano non ripetibili le dichiarazioni rese in precedenza (a prescindere dall’atteggiamento soggettivo del dichiarante). Quindi: no rifiuto di deporre (che sia meno un diritto) oppure le situazioni provocate ad arte dal dichiarante (cd actiones liberae in causa). Nel caso di sottrazione per libera scelta invece sappiamo che si procede ex comma 4 art. 111 Cost. che è una disciplina speciale e pertanto prevale (non potranno provare la colpevolezza ma attraverso criterio di valutazione potranno essere acquisiti in dibattimento). Per le dichiarazioni raccolte in investigazione difensiva sono solamente sottoposte all’alternativa tra esclusione ed eccezione. Verranno acquisite

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in processo solo quando si provi (onere che grava sulla difesa) che l’impossibilità di rinnovare l’atto sia di natura oggettiva. UESTE CONCLUSIONI SONO SOLO A LIVELLO COSTITUZIONALE.; il legislatore ordinario può adottare una disciplina più garantista nel codice convertendo il criterio di valutazione in regola di esclusione; questo è effettivamente accaduto con la distinzione introdotta per la sottrazione rendendosi irreperibili o rifiutandosi di rispondere in giudizio.

- CHI SI RIFIUTA DI RISPONDERE: IL CRITERIO DI VALUTAZIONE DIVENTA REGOLA DI ESCLUSIONE E LE DICHIARAZIONI SONO ACQUISIBILI SOLO PER ACCORDO TRA LE PARTI (ART. 500 E ART. 513).

- CHI SI RENDE IRREPERIBILE: SI APPLICANO GLI ART. 512 (SIMMETRICO ALL’ART 111 C. 5) E ART. 526 C. 1 BIS (art. 111 c. 4): LE DICHIARAZIONI IRRIPETIBILI SONO ACQUISIBILI SE RISULTA CHE IL DICHIARANTE SI E’ A BELLA POSTA RESO IRREPERIBILE E SARANNO INIDONEE A PROVARE LA COLPEVOLEZZA.

C) L’IMPOSSIBILITA’ DEVE ESSERE ACCERTATA (PROVATA anche se non si ha un vero e proprio procedimento incidentale. Deve4 essere fatta una verifica rigorosa e approfondita con diritto delle parti di interloquire (ad es. non mera verifica burocratica su difetto di notificazione).

L’ONERE DELLA PROVA GRAVA SU CHI E’ INTERESSATO AD ACQUISIRE LE DICHIARAZIONI.

La disposizione va coordinata con il criterio di valutazione

C) PROVATA CONDOTTA ILLECITA

Lesione della libertà di autodeterminazione:

Potenzialmente è qualsiasi contegno che abbia provocato una lesione ad un bene giuridicamente protetto. Interpretata in rapporto alla raccolta delle prove può essere definita come il caso in cui il contradditt. nella formazione della prova è reso vano dall’inquinamento che subisce a causa dell’altrui condotta. Si ha quindi una perdita di autodeterminazione da parte del teste. Manca la libertà di dire il vero o il falso ed è come se il teste divenisse inabile a deporre. L’esame diventa una pseudotestimonianza che giustifica il recupero probatorio delle precedenti dichiarazioni.

PER CORTE COST.: LA CONDOTTA ILLECITA E’ QUELLA CHE COMPROMETTA LA LIBERTA’ DI AUTODETERMINAZIONE DELLA FONTE DICHIARATIVA.

Art. 500 c. 4 cpp (applicabile a testimoni e coimputati per dichiarazioni erga alios): saranno acquisite in fascicolo per il dibattimento le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone “quando anche per le circostanze emerse nel dibattimento vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone sia sottoposto A VIOLENZA, MINACCIA, OFFERTA O PREMESSA DI DENARO

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O ALTRE UTILITA’ affinché non deponga o deponga il falso. (non è necessario che le intimidazioni provengano dall’imputato). La condotta illecita quindi NON PUÒ ANCHE ESSERE INTEGRATA DAL CONTEGNO DELLO STESSO DICHIARANTE con deliberata reticenza del soggetto obbligato a rispondere o la condotta che soggetto che renda deliberatamente dichiarazioni tali da dare dell’argomento una rappresentazione diversa fa quella precedentemente narrata.

DUE ORDINANZE di rimessione alla corte cost. DEL TRIBUNALE DI BRESCIA in merito nell’anno 2001:

Si ipotizza l’illegittimità dell’art. 500 c. 4 cpp in riferimento ad artt. 3 e 111 Cost. nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni rese in precedenza e usate per contestazione possano essere acquisite nel fasc. dibattimentale e successivamente usate per provare fatti ALLORCHE’ SI RAVVISINO NELLA DEPOSIZIONE DIBATTIMENTALE GLI ESTREMI DEL DELITTO DI FALSA TESTIMONIANZA.

La corte (sentenza 453 del 2002) respinge la questione escludendo che la formula condotta illecita si presti alla lettura tale da abbracciare oltre alle condotte POSTE IN ESSERE SUL DICHIARANTE anche quelle realizzate dallo stesso. Si aprirebbe automaticamente la via al recupero come prova piena degli atti assunti fuori dal contraddittorio in ogni caso di divergenza tra dichiarazioni dibattimentali e dichiarazioni pregresse (o reticenza).

Il comma 5 dell’art. 111 sembra ammettere che la provata condotta illecita possa anche esonerare dalla citazione del teste. La legge di attuazione però ha operato una scelta restrittiva: LA PROVATA CONDOTTA ILLECITA GIUSTIFICA IL RECUPERO DELLE DICHIARAZIONE SOLO NELLE IPOTESI CHE SEGUONO:

- IL TESTE ESAMINATO IN DIBATTIMENTO SI RIFIUTI DI RISPONDERE/RENDA DICHIARAZIONI DIFFORMI (ART- 500 C.4 CPP), - QUANDO SI TRATTI DELL’ESAME DI IMPUTATO IN UN PROCEDIMENTO CONNESSO (ART. 210 CPP), - QUANDO L’IMPUTATO SIA CONTUMACE O ASSENTE O CHE SI RIFIUTI DI PARLARE PER LE DICHIARAZIONI PRECEDENTI CONTRA ALIOS (ART. 513) - QUANDO SIA PROVATO CHE LA CONDOTTA ILLECITA ESCLUDE LA LIBERA SCELTA DEL DICHIARANTE (ART. 512)

CI VUOLE CONTESTAZIONE EFFETTIVA AL TESTIMONE PER IL RECUPERO? SI, ALMENO SICURAMENTE NEL CASO DI ACCETTAZIONE DELL’ESAME

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DIBATTIMENTALE (anche perché la norma si trova proprio sotto la rubrica delle “contestazioni dell’esame testimoniale”), per il silenzio effettivamente non è possibile fare una contestazione.

LA PROVA DELLA CONDOTTA ILLECITA

Art, 500 c. 4 e 5: quando anche per le circostanze emerse nel dibattimento vi sono ELEMENTI CONCRETI per ritenere…il giudice decide SVOLGENDO GLI ACCERTAMENTI CHE RITIENE NECESSARI, su richiesta di parte che può fornire elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a…

QUINDI SI HA UN PROCEDIMENTO INCIDENTALE (non c’è invece per l’accertamento dell’oggettiva impossibilità per la minore complessità o forse solo per la diversa espressione “accertata che evoca un’operazione meno dialettica e ritualizzata).

Dove la cost. prevede che un tema sia provato anche il cod. deve pretendere e non si può provare senza prova: ELEMENTI CONCRETI PER RITENERE CHE…NON VUOL DIRE CHE SIA SOLO UN “SEME “ DI PROVA (anche se preciso obiettivo e significativo), come ha sostenuto un giudice di merito (Trib. Di Torre Annunziata” nel 2001. Se si prescindesse la prova sarebbe incostituzionale. SICURAMENTE NEL PROCEDIMENTO INCIDENTALE LA PROVA DELLA CONDOTTA ILLECITA PUO’ SVOLGERSI IN TERMINI PARZIALMENTE DIVERSI RISPETTO AL CASO IN CUI SI PROCEDESSE CONTRO CHI L’HA POSTA IN ESSERE. L’efficacia persuasiva richiesta è diversa da quella necessaria per la condanna degli autori. Prova nel proc. penale è tutto ciò che può servire per un tema di ordine fattuale ma il tipo di prova e il grado di evidenza richiesta per una decisione positiva variano a seconda del procedimento e del tema da provare. LA PROVA DELLA CONDOTTA ILLECITA E LA PROVA SULLA COLPEVOLEZZA sono diverse per due fondamentali ragioni:

1) NON VALE LA REGOLA DEL CONTRADD. NELLA FORMAZIONE DELLA PROVA (PER COND. ILLECITA), quindi sono ammessi anche atti raccolti unilateralmente; il solo limite è (individuato in sede interpretativa) l’impossibilità di usare come prova della condotta illecita quella stessa dichiarazione che si vuole acquisire in giudizio (rischio di bootstrapping, cortocircuito). Questo è confermato dal richiamo generico a “elementi concreti per ritenere che…”, il procedimento incidentale è connotato da più ampia libertà di forme e modalità di accertamento (no però atti nulli o inutilizzabili perché formalmente contra legem). Resta da chiarire se si possa invocare il diritto della difesa e ottenere il controesame delle persone la cui dichiarazione fonda la a prova della condotta illecita. Probabilmente no perché le varie disposizioni del codice riguardano il tema della colpevolezza. No0n può comunque essere ignorato il diritto di difesa (art- 24 c. 2 Cost.) o il

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contraddittorio genericamente inteso ma il diritto va adattato alla struttura e allo scopo della procedura incidentale. 2) LO STANDARD RICHIESTO PER LA PROVA DI UN QUALSIASI FATTO NON E’ MAI INDIVIDUABILE CON PRECISIONEPERCHE’ LE INFERENZE INDUTTIVE NON SONO MAI VALIDE O NON VALIDE (COME QUELLE DEDUTTIVE) MA PIU’ O MENO VEROSIMILI O PROBABILI. Pe la colpevolezza bisogna avere prove oltre ogni ragionevole dubbio, per l’illecito non possono però essere solo vaghe ragioni o motivi di sospetto: sarà necessario fare una valutazione secondo i parametri di ragionevolezza e di persuasività. Circostanze emerse in dibattimento: assegnata rilevanza anche alle modalità di deposizione indici di n’interferenza illecita sulla spontaneità del teste.

IL REGIME DELLE DICHIARAZIONI IRRIPETIBILI (artt. 512, 526 c. 1 bis cpp).

Le due norme non sono applicabili quando il dichiarante comparso in dibattimento rifiuti di rispondere o si astenga dal deporre avendo diritto: in questi casi si applica l’art. 500 e il 513 cpp che sanzionano come inutilizzabili le dichiarazioni già rese fuori dal contraddittorio.

L’IRRIPETIBILITA’ PROPRIAMENTE INTESA IMPLICA CHE NON SIA PIU’ POSSIBILE PROCEDE ALL’ESAME ESSENDO COSTUI MORTO, IRRIPERIBILE O VENUTO AD ESSERE INABILE A DEPORRE: SI RIENTRA NELL’ART. 512 CPP che prevede che a richiesta di parte le dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria del PM e dai difensori delle parti private e del giudice nell’ud. prel. siano lette e acquisite al fascicolo dibattimentale quando per fatto/circostanze imprevedibili ne sia venuta meno la ripetibilità (onere della prova a carico della parte interessata ad acquisire la deposizione precedente).

PER ART. 111 C. 5: L’IRRIPETIBILITA’ DEVE ESSERE DI NATURA OGGETTIVA(non provocata ad arte dal dichiarante).

PER ART. 512 NON PARLA DI OGGETTIVITA’. I CASI DI IRRIPETIBILITA’ SOGGETTIVA SAREBBERO PALESEMENTE INCOSTITUZIONALI.

Possono esserci problemi per questa divergenza? Nessun problema per le dichiarazioni raccolte dall’accusa (si applica art. 526 c. 1 bis cpp: sono acquisite a richiesta di parte come irripetibili ex art. 512 e se la difesa prova la “libera scelta” non potranno essere usate per provare la colpevolezza)

Se le prove sono raccolte dal difensore e il teste si sottragga ad arte al controesame dell’accusa l’art. 526 è inapplicabile perché il teste non si è sottratto da parte dell’imputato e del suo difensore. Sarebbe quindi un’IRRIPETIBILITA’ SOGGETTIVA che renderebbe utilizzabili a favore dell’imputato quelle dichiarazioni.

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E quindi bisogna interpretare con un correttivo la’rt. 512 cpp e ritenere che per le dichiarazioni raccolte dalla difesa dell’imputato alle quali non è mai applicabile l’art. 526 c. 1 bis la non ripetibilità sia oggettiva. Quindi ci sarà ora una disparità: le dichiarazioni raccolte dagli organi inquirenti o difesa parte lesa potranno essere acquisite in caso di irripetibilità ex art. 512 cpp, salvo divieto di provare su di esse la colpevolezza dell’imputato (ex. Art. 526 c.1 bis); per le dichiarazioni raccolte dal difensore dell’imputato l’acquisizione è subordinata al carattere oggettivo dell’irripetibilità, la cui prova grava sulla difesa interessata ad utilizzarle.

IL DIRITTO DI SILENZIO NELLA TESTIOMONIANZA DELL’IMPUTATO:

Un modello a sfondo accusatorio ( a contrario dell’inquisitorio) deve garantirsi funzionalità attraverso l’idea che le dichiarazioni rese in sede preliminare non possano evitarsi di ripetere in dibattimento sotto esame incrociato. In questo modelsso il dibattimento è un luogo di parola e non di silenzi. SUL FATTO PROPRIO LA FACOLTA’ DI TACERE E’ INCONDIZIONATAMENTE TUTELATA (c’è il pericolo dell’autoincriminazione), SUL FATTO ALTRUI INVECE PUÒ ESSERE UN DIR. MINORE, SPECIE SE L’IMPUTATO ABBIA Già LIBERAMENTE SCELTO DI RENDERE DICHIARAZIONI ERGA ALIOS (silenzio giustificato solo dal rischio di autoaccusarsi). Per queste ragioni il dic. Sdi silenzio dsi affievolisce quando l’imputato sia chiamato a deporre dopo la chiusura del proprio processo con sentenza irrevocabile. Ci sono due direttive in merito:

1) caduta radicale dell’incompatibilità a testimoniare per l’imputato prosciolto o condannato con sent. definitiva; 2) imposizione di obblighi testimoniali all’imputato di un diverso reato in procedimenti connessi o collegati che abbia reso dichiarazioni sull’altrui responsabilità.

In entrambi i casi l’assunzione della qualità di testimone è subordinata ad una serie di cautele.

IMPUTATO TESTIMONE DOPO LA SENTENZA IRREVOCABILE

ART. 197 BIS C.1 CPP: L’IMPUTATO IN UN PROCEDIMENTO CONNESSO O DI UN REATO COLLEGATO PUO’ SEMPRE ESSERE SENTITO COME TESTIMONE QUANDO NEI SUOI CONFRONTI SIA INTERVENUTA UNA SENTENZA IRREVOCABILE (assoluzione, condanna o applicazione pena concordata).

La caduta di incompatibilità riguarda TUTTI GLI IMPUTATI DI PROC. CONNESSI O COLLEGATI, QUINDI ANCHE COIMPUTATI NEL MEDESIMO REATO. Con sent.

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irrevocabile non è più configurabile un concreto interesse difensivo a non deporre come teste (c’è solo esigenza di non compromettere la possibilità di una revisione per chi sia stato ingiustamente condannato). L’IMPUTATO POTRA’ ASTENERSI DAL DEPORRE SU FATTI PER I QUALI E’ STATA PRONUNCIATA LA SENTENZA DI CONDANNA NEI SUOI CONFRONTI SE NEL PROCEDIMENTO AVEVA NEGATO LA PROPRIA RESPONSABILITA’ O AVEVA TACIUTO.

Nel caso di sentenza di NON LUOGO A PROCEDERE in ud. prel. o la pronuncia del provvedimento di ARCHIVIAZIONE sarebbe possibile seguire tre soluzioni:

1) il soggetto è sentito sic e simpliciter (non c’è più regime di incompatibilità ex art. 197 cpp) 2) il soggetto è sentito come testimone assistito (come se ci fosse una sent. irrevocabile) 3) il soggetto è sentito come imputato/indagato in procedimento connesso o collegato perché non c’è caduta del regime di incompatibilità a testimoniare previsto per imputati di procedimenti pendenti (non luogo a procedere e archiviazione non sono in art. 197 e 197 bis)

LA SOLUZIONE PIU’ CORRETTA E’ LA TERZA. La mancata citazione negli att. Visti dell’arch. e non luogo non è una lacuna ma una scelta del legislatore che distingue le sentenze propriamente irrevocabili dall’arch. e il non luogo a procedere perché considera questi dotati di minore stabilità, definitivi solo allo stato degli atti (possibile riassunzione ruolo indagato o imputato se indagini riaperte o revocata la sentenza). Nell0 stesso senso si è pronunciata la Corte nel 2003 su illegittimità art. 197 e 197 bis. La corte ha anche detto che l’archiviazione è disposta in situazioni molto eterogenee quanto alla normale forza di resistenza ad una eventuale riapertura delle indagini e quindi sul piano testimoniale potrebbero esserci molte diverse soluzioni (ad es. in base al fatto che il sogg. archiviato fosse indagato in procedimento connesso o per reato collegato).

ARCHIVIAZIONE E SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE LASCIANO0 SOPRAVVIVERE LA’INCOMPATIBILITA’A TESTIMONIARE MA NON CAMBIA NULLA PER LE REGOLE SULLO STATUS DI IMPUTATO DICHIARANTE ERGA ALIOS ( l’imputato di un diverso reato connesso o collegato è assunto comunque a teste limitatamente ai fatti su cui abbia reso dichiarazioni sull’altrui resp.)

E’ quindi un’estensione della precedete normativa che (Corte cost. 2000) precisa che, nel caso di archiviazione o non luogo a procedere, si avesse l’incompatibilità come teste implica la permanenza dello status d’imputato o indagato e quindi in questi casi venisse a mancare.

IMPUTATO-TESTIMONE DURANTE IL PROCEDIMENTO

Testimonianza del coimputato prima della sentenza irrevocabile. Nel primo testo letto alla Camera si era scelto uno schema riduttivo del diritto di silenzio: L’imputato che avesse reso dichiarazioni

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sui fatti concernenti l’altrui responsabilità avrebbe limitatamente a queste assunto l’obbligo di dire la verità e di rispondere in contraddittorio.

E’ prevalsa come scelta definitiva una chiave compromissoria: PRIMA DELLA SENTENZA IRREVOCABILE AD ASSUMERE LA VESTE DI TESTE SUL FATTO ALTRUI PUO’ SOLO ESSERE L’IMPUTATO DEL REATO CONNESSO (ART.12 CPP)O COLLEGATO (ART. 371) MA MAI IL COIMPUTATO NEL MEDESIMO REATO.

Art. 64 cpp; la persona deve allora essere informata che: le sue dichiarazioni potranno essere usate sempre nei suoi confronti, ha la facoltà di non risp. a nessuna domanda ma il procedimento proseguirà il suo corso, assumerà l’ufficio di testimone qualora rendesse dichiarazioni su fatti che concernono l’altrui resp. (salve incompatibilità in art. 197 e art. 64)

- COIMPUTATO NEL MEDESIMO REATO (coimputazione in senso forte): INCOMPATIBILITA’ ASSOLUTA A TESTIMONIARE SINO A SENT. IRREVOCABILE. - -COIMPUTATO IN DIVERSO REATO, CONNESSO O COLLEGATO (coimputazione debole): INCOMPATIBILITA’ RELATIVA CHE CADE QUANDO SI SIANO RESE DICHIARAZIONI SULL’ALTRUI RESPONSABILITA’.

La differenza quindi dipende da un presupposto (stesso o diverso reato) che dipende dalle scelte del PM che potrebbe essere pertanto indotto a forzare la qualifica dei fatti.

La corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità rispetto all’art. 3 cost. della norma che dispone l’incompat. assoluta del coimputato nel medesimo reato poiché tale disciplina appare giustificata in ragione alla situazione derivante dall0unicità del fatto-reato e dei profili di interferenza (disponibilità discrezionale del legislatore che ha scelto di garantire il diritto di silenzio come corollario essenziale del dir. di difesa, pur se comporta la perdita della prova testimoniale). Ma dalla frase “il diritto di silenzio come corollario essenziale del dir. di difesa” la scelta per l’incompatibilità sembra imposta dai princ. cost.

Corte cost., ordinanza 202 del 2004: per coimputato nel medesimo reato o imputato in reato connesso non ancora giudicato nel suo procedimento c’ è forte esigenza di garantire la preclusione verso l’obbligo di dichiarare fatti contigui al fatto proprio tali da essere potenzialmente lesive del proprio inviolabile dir. di difesa e delle libere scelte connesse.

Rischi connessi a questa impostazione:

- perdita del materiale probatorio per effetto del silenzio: ora può prevenirsi attraverso l’incidente probatorio: L. 267 del 1997 che ha liberalizzato i presupposti dell’inc. prob. ammettendo anche indagati ed imputati a prescindere dai limiti del codice (infermità, violenza, ecc…)

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- C’è grande difficoltà nella distinzione tra il fatto proprio e quello altrui. Il progetto votato alla Camera non diceva se il coimputato potesse o meno , deponendo sul fatto altrui, rifiutarsi di rispondere su ciò che lo esponesse a rendere dichiarazioni influenti anche sulla sua posizione. Negare questo diritto sarebbe stata una violazione dell’art. 24 cost. 2° c. In questo modo il coimputato, costretto a dire la verità su tutto per aver parlato in ind. prel., potrebbe essere indotto a tacere dall’inizio. Rispondendo positivamente invece per il coimputato sarebbe facile sottrarsi sistematicamente ad ogni domanda sul fatto altrui perché connessa col fatto proprio. In alcuni ordinamenti si offre l’immunità in cambio della testimonianza ma questa non è una soluzione percorribile in un sistema ad azione penale obbligatoria.

In revisione organica del cod. di rito il quadro potrebbe mutare ad es. consentendo la testimonianza anche al coimputato (perdendo però il privilegio di tacere per evitare autoincriminazioni sul fatto a lui addebitato). Nel rapporto tra diritto al silenzio e diritto al confronto con l’accusatore non esiste una soluzione ideale ma solo equilibrata.

DICHIARAZIONI ERGA ALIOS E ACQUISTO DELLA QUALITA’ DI TESTIMONE

Limiti cronologici:da quando sia assume l’ufficio di testimone?

- primo testo votato nel 2000 alla Camera:gli obblighi testimoniali si attivavano solo davanti al giudice nel contradd. tra le parti (quindi in dibattimento o in sede di incidente prob.) - versione definitiva: immediatamente dopo aver reso la dichiarazione su fatti altrui perché sono caduti i riferimenti al giudice e al contradd., quindi potrà essere sentito come teste già nell’ind. prel., sia dal PM che dalla polizia giud.

OGGETTO DELLA TESTIMONIANZA, L’ALTRUI RESPONSABILITA’

Serve che il teste sia libero di scegliere di deporre SU FATTI CONCERNENTI LA RESP. ALTRUI. Questi fatti sono oggetto della testimonianza assistita. Quindi: fatti sull’altrui responsabilità, indipendentemente dai riflessi di tali dichiarazioni sulla propria e indipendentemente dalla circostanza che si formulino esplicite accuse. Non conta la consapevolezza che le dichiarazioni coinvolgano altre persone quindi l’atteggiamento psicologico è irrilevante. Conta il dato oggettivo di averle rese liberamente dopo l’informativa e anche ciò anche quandola rilevanza erga alios emerga o si manifesti in un momento successivo.

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FATTI CHE CONCERNONO LA RESPONSSNBILITA’ DI ALTRI: il rapporto tra la dichiarazione e i fatti può essere diretto (il dichiarante riferisce in tutto o in parte la condotta criminosa altrui) oppure indiretto (quando i fatti dichiarati appaiono induttivamente rilevanti oer l’accertamento del reato.

Il fatto di reato deve già essere individuabile in base alle dichiarazioni rese o è sufficiente che queste assumano un qualche significato nella catena inferenziale che dalle prove porta al tema da provare (il fatto di reato)? L’esigenza di rendere il dichiarante completamente consapevole delle conseguenza delle proprie dichiarazioni farebbe propendere pe la prima soluzione ma la dizione della norma fa propendere per la seconda che è anche più coerente con gli obiettivi probatori perseguirti con restrizione del dir. di silenzio. Diventa però imprevedibile per il dichiarante la sfera del futuro impegno alla parola (un fatto potrebbe apparire insignificante nell’interrogatorio come “una macchina rossa è passata nel luogo y alle ore x” poi nel corso delle indagini diventare essenziale per l’accertamento della responsabilità altrui). Insomma per molti imputati la miglior linea difensiva potrebbe essere tacere dall’inizio. I fatti su cui si rendono dichiarazione sono qualcosa di più ampio dei fatti propriamente dichiarati: i primi aprono un tema, i seconsi sono definiti dalle singole risposte su quel tema. Potrebbe essere comunque fisiologica un’espansione sul tema delle dichiarazioni, perché si diventa testimoni sui fatti narrati e su ogni altro rilevante nell’accertamento dell’ipotetico reato. Sarebbe stravagante intendere l’art. 64 cpp lettera c) nel senso che il teste sia escutibile solo su ciò che aveva detto ma potrebbe ravvisarsi la necessità di limitare l’assunzione della qualità di testimone assistito alle dichiarazioni rese immediatamente ricollegabili all’altrui responsabilità (nel senso di manifestare il coinvolgimento del terzo nel fatto reato oggetto della narrazione.

LA TESTIMONIANZA NEL MEDESIMO PROCESSO

Art. 210 c. 6 cpp: in un procedimento separato possono essere assunti imputati di reati connessi o collegati che abbiano reso in precedenza dichiarazioni sulla responsabilità di altri. A TALI PERSONE A’ DATO L’AVVERTIMENTO EX. ART. 64 C. 3 LETTERA C) E SE SI AVVALGONO DELLA FACOLTA’ DI NON RISP. ASSUMONO L’UFFICIO DI TESTIMONE. Tutti i coimputati che non lo siano nel medesimo reato devono essere informati degli obblighi testimoniali connessi all’eventuale scelta di rendere dichiarazioni era alios.

GARANZIE DELL’IMPUTATO-TESTIMONE:

Sono fondamentalmente due:

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1) 1) assistenza di un difensore autorizzato a presenziare all’assunzione della testimonianza formulando richieste/osservazioni/riserev a tutela dell’assistito (esclusa la partecipazione attiva all’esame con formulazioni di domande perché non si tratta dell’imputato) 2) diritto del teste assistito dall’astenersi dal deporre su certi temi. Distinguendo due casi (sempre in art. 197 bis c. 4 e 5 parte prima): coimputato teste DOPO PRONUNCIA DI SENT. IRREVOCABILE (che non potrà essere obbligato a deporre SU FATTI PER I QUALI E’ STATA PRONUNCIATA IN GIUDIZIO LA SENTENZA DI CONDANNA NEI SUOI CONFRONTI SE NEL PROCEDIMENTO AVEVA NEGATO LA SUA RESPONSABILITA’ O NON AVEVA RESO DICHIARAZIONI) pronunciata in giudizio (quindi non nel caso di applicazione della pena su richiesta parti anche se in seguito Trib. D’ Imperia ha ritenuto non manifestatamene infondata la questione nel 2005 con ordinanza, poi ritenuta infondata dalla Corte nel 2007). In ogni caso le dichiarazioni restano INULIZZABILI CONTRO CHI LE HA RESE IN SEDE DI REVISIONE E DI GIUD. CIV/AMM:; PRIMA DELLA SENTENZA DEFINITIVA (ex art. 64) invece NON POTRA’ ESSERE OBBLIGATO A DEPORRE SU FATTI CHE CONCERNONO LA PROPRIA RESP. IN ORDINE AL REATO PER CUI SI PROCEDE NEI SUOI CONFRONTI E COMUNQUE LE DICHIARAZIONI NON POTRANNO ESSERE USATE CONTRO LA PERSONA CHE LE HA RESE NEL PROCEDIMENTO A SUO CARICO. E’ un privilegio contro l’autoincriminazione che nel primo teste la Camera aveva lasciato indefinito per la difficoltà di distinguere tra fatto proprio e altrui nel medesimo reato, problema ora non più ponibile perché qui si parla di reati diversi ma connessi/collegati.

NON SI PARLA DI INCAPACITA’ A TESTIMONIARE, MA DI UNA GARANZIA del soggetto che può astenersi dal rispondere su determinati fatti (se c’è imposizione: inutilizzabilità): tutto ciò che avrò dichiarato liberamente non sarà utilizzabile nei suoi confronti ma sarà valutabile in chiave probatoria nei confronti dell’altro soggetto. Si tratta quindi di un’inutilizzabilità relativa (ex art. 197 bis commi 4 5 parte prima) che bisogna conciliare con la previsione ex. art. 64 che l0imputato deve essere avvertito che le dichiarazioni potranno sempre essere usate nei suoi confronti: L’AMBITO OPERATIVO E’ DIVERSO, IL PRIMO CASO (INUTILIZZABILITA’ RELATIVA) RIGUARDA L’IMPUTATO IN QUANTO ASSUNTO COME TESTE SU UN REATO CONNESSO/COLLEGATO, IL SECONDO LO STESSO SOGGETTO E’ INTERROGATO NELLA SUA SPECIFICA VESTE DI IMPUTATO. Non è comunque un’immunità del dichiarante che resta sempre condannabile sulla base di diverse prove. Si conserva il diritto di tacere sui fatti concernenti la propria responsabilità.

CRITERI DI VALUTAZIONE DEL TESTIMONE

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SONO CONTENUTI NELL’ART. 192 C. 3 CPP., indipendentemente che l’imputato abbia deposto come abbia deposto come teste prima o dopo la sentenza irrevocabile. LE DICHIARAZIONI SARANNO VALUTATE UNITAMENTE AGLI ELEMENTI DI PROVA CHE NE CONFERMINO L’ATTENDIBILITA’, il che sta a significare che la qualità di testimone assunta dall’imputato non aggiunge nulla (sul piano dei criteri legali) al valore delle sue dichiarazioni. Non è comunque escluso che il giudice possa orientare la sua valutazione di attendibilità anche in funzione alla circostanza che la dichiarazione sia stata resa o no in veste di teste. Non sarebbe stato necessario fissare questo criterio, il giudice dovrebbe anche in un sistema accusatorio limitarsi a valutare secondo il criterio della colpevolezza provata oltre ogni ragionevole dubbio e poi usando regole di logica, scienza e esperienza (non cristallizzabili nelle formule legali). L’unico soggetto tale da essere per meritevolezza assimilato al testimone normale è l’imputato irrevocabilmente assolto per non aver commesso il fatto. Con sentenza 381 del 2006 la Corte Cost. ha dichiarato illegittimo l’art. 197 bis c. 3 e 6 nella parte in cui prevedono l’assistenza di un difensore e l’applicazione dell’art. 192 c. 3 anche per le dichiarazioni rese dalla persona nei cui confronti è poi stata pronunciata sentenza irrevocabile si assoluzione per non aver commesso il fatto.

LEGGE PECORELLA (MODIFICHE AL CPP IN MATERIA DI INAPPELLABILITA’ DELLE SNETENZE DI PROSCIOGLIMENTO), L. 46 2006

Introduce 4 innovazioni:

1) soppressione dell’appello da parte dell’imputato e del PM avverso sentenza di proscioglimento salvo sopraggiungano nuove prove decisive (parte dichiarata incostituzionale con sentenza 26 del 2007), art- 593 cpp; 2) regola del giudizio della colpevolezza “al di la di ogni ragionevole dubbio” come presupposto della condanna (art. 533 cpp); 3) estensione dei motivi di ricorso in cassazione sotto il profilo della mancata assunzione di una prova e del vizio di motivazione; 4) vincolo alla richiesta di archiviazione derivante dalla pronuncia della Cassazione che accerti insussistenza degli indizi nei provvedimenti cautelari.

IMPUGNAZIONI: PRINCIPI COSTI. E NEL PATTO INTERNAZIONALE SUI DIR. CIVILI E POLITICI + ANOMALIE NEL COD. VIGENTE

Fonti:

- art. 111 Cost. c. 7 (ricorso in Cassazione per violazione di legge) contro ogni sentenza e provvedimento sulla libertà personale;

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- art. 14 c. 5 del Patto internazionale sui dir. civili e politici (entrato in vigore in Italia il 15 dic. 1978) che dispone che ogni soggetto condannato per un reato abbia diritto a che accertamento e condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità alla legge.

Dalla cost. è escluso che in cassazione arrivi ciò che riguarda la ricostruzione del fatto (passaggio da prova a fatto da provare) e questo è un livello minimo di garanzia che il legislatore può superare (estendendo il controllo anche a questioni di fatto).

La seconda disposizione (parla di “riesame della colpevolezza” che non può restrittivamente intendersi come previsione di qualsiasi mezzo di impugnazione circoscritto a pochi motivi): non pare eccesso di garantismo riconoscere all’imputato la possibilità di contestare almeno una volta in fatto e in diritto la sentenza che lo dichiara colpevole.

Il cod. prima della legge Pecorella mostrava una contraddizione: era garantista perché assicurava all’imputato condannato in primo grado appello + ric. in Cassaz. anche esteso a questioni di fatto “risultanti dal testo del provvedimento impugnato” ma appariva in contrasto con il Patto internazionale perché concedeva all’imputato già assolto in primo grado e poi condannato in appello solo il ricorso in Cassaz. che non può ritenersi un riesame come previsto dalla norma pattizia.

E’ una restrizione irragionevole alle possibilità di denunciare l’ingiustizia della decisione dovendo il vizio risultare dal testo impugnato. Venivano quindi con questa formula sottratti al ricorso in cassazione due errori molto gravi e documentabili solo raffrontando atti del processo: mancata valutazione di prove e travisamento della prova (che non è un errore sull’inferenza induttiva ossia passaggio da prove a proposizione da provare ma l’infedele formulazione delle premesse probatorie in cui il giudice conferisce alle prove un contenuto diverso da quello che risulta dagli atti). La Cassaz. era investita del controllo sulla motivazione (iter argomentativo) ma le era precluso il sindacato sulla corrispondenza tra le premesse probatorie e il materiale legittimamente acquisito in processo. Di qui la scissione tra giustizia della decisione (fedeltà agli atti processuali) e correttezza della giustificazione (quindi possibile aversi una motivazione pienamente logica e incensurabile in ricorso e una decisione ingiusta contraddetta dalla prove).

TEMA FEDELTA’ AGLI ATTI: corrispondenza atti e premesse probatorie;

TEMA DELL’INFERENZA IDUTTIVA: passaggio prove-proposizione da provare: significato delle prove. Era inammissibile il ricorso sul primo tema, consentito sul secondo.

L’esclusione del travisamento/omissione nella valutazione di una prova dai motivi di ricorso in Cassazione poteva essere tollerabile per il condannato in primo grado ma senza ragione per il condannato in appello. Soluzioni possibili:

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1) Radicale: sopprimere l’appello avverso sentenze di proscioglimento che non trova tutela in Cost./Patto int. 2) Complessa: trasformare l’appello contro sentenze assolutorie in una fase puramente rescindente, destinata ad aprire per il giudice di secondo grado l’alternativa tra il rigetto dell’impugnazione e il suo accoglimento (in questo caso la sentenza sarebbe annullata e gli atti restituiti ad un giudice di primo grado per la rinnovazione del giudizio. 3) Di minor impatto nel sistema: un distinto regime di ricorso nei confronti della sentenza di condanna pronunciata in sede d’appello con possibilità per l’imputato di denunciare ogni vizio di motivazione (che risulti o no dal provv. impugnato).

INAPPELLABILITA’ DEL PROSCIOGLIMENTO: SENT. COST. 26 DEL 2007

La Legge Pecorella è disorganica e la nuova disciplina dell’inappellabilità del proscioglimento si sarebbe dovuta inserire in un quadro di generale riforma delle impugnazioni (magari toccando il tema della durata). Oltre ad assicurare all’imputato il diritto della “doppia conforme” sulla colpevolezza occorreva inserire queste misure:

1) ristrutturazione dell’appello secondo logica dell’azione impugnativa (deducibilità di ogni errore di fatto/diritto, il giudice pronuncia direttamente sui motivi addotti dalla parte e non sui punti della decisione cui si riferiscono i motivi). Il giud. d’appello potrà verificare la fondatezza dei motivi (senza decidere ex novo si punti) 2) restrizione dei motivi di ricorso per l’imputato in casi di conferma della condanna in prima istanza (questioni di fatto già oggetto di doppia conforme non nuovamente devolute a Cassazione), es. solo gravi visi o profili di legittimità. La legge Pecorella ha invece cumulato inappellabilità sent. di proscioglimento + estensione dei motivi di ricorso (sono due scelte che dovevano essere alternative); 3) adeguata tutela per interessi della persona danneggiata costituitasi parte civile in proc. pen. (rivedendo in particolare la norma che impone la sospensione del processo civile fino alla pronuncia della sent. pen. quando l’azione sia proposta in sede civile dopo la costituzione di parte nel proc. pen. o dopo la sent. penale di primo grado. L’INAPPELLAB. DELLA SENT. DI PROSCIOGLIMENTO DOVREBBE CORRISPONDERE AL DIR. DEL DANNEGGIATO DI TRASFERIRE LA PROPRIA AZIONE DAVANTI AL GIUDICE CIVILE, SENZA SUBIRE LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO IN QUELLA SEDE.

Nessuna norma cost. però vietava di sopprimere l’appello avverso le sentenze di proscioglimento in primo grado. Invece la corte cost. ha dichiarato ILLEGITTIMO L’ART. UNO DELLA LEGGE

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PECORELLA NELLA PARTE IN CUI ESCLUDE CHE IL PM POSSA APPELLARE CONTRO LE SENTENZE DI PROSCIOGLIMENTO. In questo modo si torno all’anomalia di partenza cui potrebbe sopperire l’estensione dei motivi di ricorso ad ogni vizio della motivazione.

LA CORTE SOSTIENE CI SIA VIOLAZIONE DEL PRINC. DI PARITA’ TRA LE PARTI 8oltre che contraddizione rispetto al potere del PM di appellare condanne)

Parità che non significa necessaria omologazione/simmetria assoluta di poteri e facoltà (ci sono fisiologiche differenze correlate alle diverse posizioni, condizioni operative e interessi). Le menomazioni del potere d’impugnazione della pubblica accusa devono però comunque rappresentare ai fini della parità come principio delle soluzioni normative sorrette da giustificazioni RAGIONEVOLI in termini ai ADEGUATEZZA E PROPORZIONALITA’. In realtà la scelta non era irragionevole (ruoli diversi tutelati diversamente con disparità di rimedi all’errore: appello e ricorso in cassazione per condanna, appello limitato alla sopravvenienza di prove decisive e ricorso in cado q proscioglimento).. La disparità era ragionevole perché funzionale all’esigenza di garantire all’imputato pieno diritto di riesame (ex. Art. 14 Patto Intern.). Il PM non sarebbe rimasto inerme: ipotesi eccezionali d’appello + estensione motivi di ricorso per denunciare anche i vizi della decisione risultanti dal raffronto con atti processuali (rimanendo così insindacabile solo la credibilità dei testimoni effettuata dal giudice di merito perché questa necessita la rinnovazione della prova strutturalmente esclusa in cassazione).

LA CORTE HA RITENUTO IRRAGIONEVOLE LA RIMOZIONE DEL POTERE DA’APPELLO DEL PM IN QUANTO GENERALIZZATA E UNILATERALE.

- GENERALIZZATA: non riferita solo a talune categorie di reati, comprende anche procedimenti relativi ai reati di peggior gravità e che coinvolgono primari valori costituzionali. Contestazione: si potrebbe allora considerare illegittima una selezione del regime di appellabilità per categorie di reati (opinione sostenuta anche dal presidente Corte Costituzionale Antonio Baldassarre, intervista al Messaggero 2007). L’idea di un regime speciale per reati più gravi e di maggior allarme sociale che lasci la possibilità di condanna in appello contro il quale l’imputato disporrebbe del solo ricorso è inaccettabile e lesiva del princ. di uguaglianza.

- UNILATERALE: non trova specifica contropartita in diverse modalità di svolgimento del processo (come avviene ad es. nel rito abbreviato), rimozioni prevista nel medesimo rito ordinario. Contropartita come speculare sacrificio dell’imputato di fronte alla perdita del potere del PM. Contestazione: avrebbe senso se gli interessi in gioco fossero equipollenti (se PM davanti ad assoluzione avesse posizione omogenee quella dell’imputato davanti alla condanna e la stessa corte ha negato tale equipollenza. PER CORTE IL POTERE DI IMPUGNAZIONE DEL PM HA MARGINI DI CEDEVOLEZZA PIU’ AMPI A FRONTE DI ESIGENZE CONTRAPPOSTE.

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LA CORTE OSSERVA CHE IL RIESAME SANCITO DALLA NORMA PATTIZIA, COME IL RIESAME AD OPERA DI UN TRIBUNALE SUPERIORE, NON DEBBA NECESSARIAMENTE COINCIDERE CON UN GIUDIZIO DI MERITO. L’obiettivo perseguito sarebbe quello di assicurare un’istanza davanti ala quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio con la conseguenza che il riesame di merito interverrà solo ove tali errori siano accertati. E’ assolutamente inaccettabile perché iil ricorso non potrebbe ridursi ai soli visi di motivazione risultanti dal testo del provvedimento impugnato (la condanna pronunciata dal giudice d’appello sarebbe insindacabile). LA NORMA PATTIZIA CHIEDE UN “ACCERTAMENTO DELLA COLPEVOLEZZA” che non è compatibile con l’assenza di un rimedio contro i gravi errori di mancata valutazione/travisamento prove. Le scelte sono inconciliabili perché non si tratterebbe veramente di un riesame, solo una seconda decisione. Per la corte la contropartita non poteva essere nemmeno l’ampliamento dei motivi di ricorso per cassazione: questo è sancito a favore di entrambi le parti e poi il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito consentito per l’appello. Quel ricordo che non sarebbe comunque sufficiente a compensare la perdita del PM sarebbe invece sufficiente in versione anche ristretta “pre Legge Pecorella” a garantire all’imputato il riesame della propria colpevolezza.

LA COSA FONDAMENTALE NELLAA SENTENZE DI ILLEGITTIMITA’ DELLA CORTE E’ LA RAGIONEVOLEZZA (la parità non è sufficiente perché non essendo parità di poteri e in materia di impugnazioni non la si contraddirebbe con una diversa modulazione dell’appello per imputato e PM). L’IRRAGIONEVOLEZZA SAREBBE IL MODO DEL LEGISLATORE DI CONCRETIZZARE LA MAGGIORE CEDEVOLEZZA DEL POTERE DI IMPUGNAZIONE DEL PM: e’ un sindacato molto ampio, non fondato solo sulla manifesta irragionevolezza, che restringe gli spazi della discrezionalità del legislatore ordinario. IRRAGIONEVOLI DIVENTANO DI FATTO LE SCELTE CHE NON COINCIDONO CON QUELLE DELLA CORTE. Si potrebbe prospettare anche se la Corte non lo dice, che l’unica soluzione ragionevole in questi termini sia la modulazione dell’appello in un giudizio rescindente. Si rischia però di passar4e dalla sovranità della Costituzione alla sovranità della Corte Costituzionale, come successo già nel 1992 quando nuovamente in nome del PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA, venne bloccato per quasi un decennio ogni tentativo di uniformare il processo penale alla regola del contraddittorio e si dovette superare il problema costituzionalizzando la regola.

COLPEVOLE OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO

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E’ un criterio generale di valutazione della prova (art. 533 cpp). La regola era implicita nel sistema come conseguenza dell’onere probatorio gravante sull’accusa. Generale perché non riguarda una particolare tipologia di prova ma la colpevolezza e quindi LA RICOSTRUZIONE DEL FATTO NEL SUO COMPLESSO. Questo criterio si riferisce unicamente QUAESTIO FACTI (perché oggetto di prova secondo l’uso sono solo i fatti), cioè non soggiace ad esso anche la qualificazione giuridica del fatto (anche se è elemento costitutivo della colpevolezza). Il cuore della formula è IL RAGIONEVOLE DUBBIO: è un concetto elementare ma non poi così tanto. Nell’ordinamento inglese (caratterizzato da processi con giuria) la giurisprudenza considera il concetto primitivo e indefinibile, scongiurando chiarimenti . Le due componenti del concetto sono: DUBBIO che se presente sulla colpevolezza dell’imputato (tema del procedimento) risolve il processo con l’assoluzione. Provare imparzialmente o incompiutamente equivale e non provare. Se togliessimo la parola “ragionevole” ovvero dubbio avanzabile da una persona razionale, renderemmo lo scopo del procedimento impossibile. Quale che sia la prova è sempre possibile mettere in dubbio e contestare le conclusioni. LO SCHEMA DELL’IMPLICAZIONE (se A allora B dove non è possibile affermare A e negare B senza contraddirsi) è inapplicabile ai rapporti tra le prove e il contenuta della decisione. La colpevolezza non può discendere per deduzione solo in modo inconfutabile per ogni persona razionale ogni processo si chiuderebbe con un’assoluzione.. Allora ecco che interviene RAGIONEVOLE: non si intende logico ma razionale. C’è una differenza analoga a quella tra INDUZIONE (esiste un grado più o meno alto di probabilità che se sono vere le premesse sia vera anche la conclusione) E DEDUZIONE (quando è impossibile che la conclusione sia falsa se sono vere le premesse). E’ un concetto vago ma adeguato perché mai si avrà l’assoluta certezza. Esiste una soglia non determinabile con precisione oltre la quale non sarebbe ragionevole il dubbio. Fondato/grave abbasserebbe la soglia del dubbio necessario alla condanna; minimo o ipotetico la abbasserebbe: al massimo plausibile. Idealmente il criterio dovrebbe essere la certezza ma non è mai raggiungibile. Ragionevole dubbio svolge una doppia funzione: garantire all’imputato il rischio di una condanna ingiusta (no condanna con anche solo una prova che smentisca quelle favorevoli all’accusa) WITTGENSTEIN: oltre ogni rag. dubbio vuol dire che si è giunti a un punto indeterminabile a priori in cui la vanga del dubbio incontra lo strato duro della roccia (le prove) e si è piegata. La prima funzione è già intrinseca nel termine “provare” – verificare.

La seconda funzione è quella di sottolineare che SE LA COLPEVOLEZZA E’ SUFFRAGATA DA UN SOLIDO E COERENTE QUADRO PROBATORIO L’ONESTA AMMISSIONE DELLA FALLIBILITA’ DEGLI ACCERTAMENTI NON DEVE IMPEDIRE LA CONDANNA. Ci consente quindi di considerare provata una proposizione ache quando in senso puramente logico si potrebbe dubitare di essa. Esistono due modelli di prova: quelle oltre ogni rag. dubbio (tipiche delle

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inferenze induttive che equivale nel processo alla prova piena) e la prova come dimostrazione matematica (tipica delle inferenze deduttive). Non ci sarebbe spazio per altro tipo connotato da livello probatorio più basso.

REGOLA O PRINCIPIO?

Di norma è considerata regola ma riprendendo la distinzione Dworkiniana capiamo che una proposizione strutturata come regola potrebbe anche sostanzialmente funzionare come principio: in questo caso infatti avviene. LA FORMA E’ QUELLA DI UNA REGOLA (il giudice che registra la permanenza del rag. debbio è tenuto categoricamente a tenere un certo comportamento) MA DI FATTO OPERA COME PRINCIPIO (perché la verifica della ragionevolezza del dubbio viene a dipendere da complessi giudizi di valore al di là della regola e che rendono molto elastica la valutazione del giudice). La formula nasce dall’impossibilità di quantificare il grado di probabilità per avere la pronuncia di condanna, manca un limite preciso. Inutile dibattere sul grado di probabilità necessario per una legge scientifica che provi un fatto.

PROVE E PROPOSIZIONI DA PROVARE, DALLE MISURE CAUTELARI ALL’APPLICAZIONE DELLA PENA

Per arrivare a decisione: passaggio da prova alla proposizione da provare (o tema probatorio). Il tema è quasi sempre un fatto del passato (non cade sotto la diretta percezione del giudice) e il meccanismo di passaggio sarà INDUTTIVO, CONNOTATO DA SOTTODETERMINAZIONE DELLA POPOSIZIONE DA PROVARE RISPETTO ALL’EVIDENZA DISPONIBILE. La prova oltre ogni ragionevole dubbio è un criterio prudenziale. Si userà lo stesso schema si userà per ogni tema fattuale anche incidentalmente affrontato: provare sarà sempre l’accertamento di un proposizione come vera con induzione.

MISURE CAUTELARI: LA PROPOSIZIONE DA PROVARE E’ LA PROBABILE COLPEVOLEZZA (fumus boni iuris mentre sul versante delle esigenze cautelari la proposizione sarà il periculum libertatis). LE PROVE SARANNO I MATERIALI RACCOLTI NELLE IND. PREL. I gravi indizi non sono prove non perché sul tema da provare relativo alle misure cautelari si prescinda dalle prove ma perché essi rappresentano sul terreno cautelare l’equivalente della colpevolezza da provare. Nella sequenza probatoria non saranno collocati sul versante delle prove (premessa) ma su quello del fatto da provare (probabile colpevolezza). I GRAVI INDIZI EX ART. 273 CPP NON SONO CIO’ CHE PROVA MA CIO’ CHE OGGETTO DI PROVA. Nei provv. cautelari e’ la probabile colpevolezza a essere provata oltre ogni ragionevole dubbio. LA REGOLA

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DI GIUDIZIO RESTA LA STESSA (così come il senso di “provare”) MA VARIA L’OGGETTO SU CUI VERTE LA PROVA.

VIZIO DI MOTIVAZIONE

Con Legge Pecorella sono estesi i motivi di ricorso in Cassazione con due modifiche al testo originale dell’art 606 c 1 cpp lettera d) e e) che sono così riformulati:

“LA MANCATA ASSUNZIONE DI UNA PROVA DECISIVA QUANDO LA PARTE NE HA FATTO RICHIESTA ANCHE NEL CORSO DELL’ISTRUZIONE DIBATT.”

“MANCANZA, CONTARDDITTORIETA’ O MANIFESTA ILLOGICITA’ DELLA MOTIVAZIONE QUANDO IL VIZIO RISULTA DAL TESTO DEL PROVV. IMPUGNATO O DA ALTRI ATTI DEL PROCESSO SPECIFICAMENTE INDICATI NEI MOTIVI DI GRAVAME”

Quindi: ammesso ricorso anche quando la prova decisiva sia tardivamente richiesta dalla parte nell’istruzione dibattimentale (soluzione corretta per le prove che la parte fosse in impossibilità di indicare tempestivamente ma non altrettanto per quelle tardivamente chieste a causa di negligenza e per le quali cade il diritto di ammissione se non ex art. 507 “assolutamente necessarie”)

Il rischio: moltiplicazione delle richieste probatorie durante l’istruzione dibattimentale sapendo che in caso di diniego è possibile con il ricorso annullare la sentenza per mancata assunzione di prova decisiva; il giudice potrebbe assecondare le richieste più tardive o di dubbio fondamento. Cosa vuol dire prova decisiva? Anche la sopravvenuta decisività di una prova è rilevante? Non è chiaro, tutto dipende dall’interpretazione.

La seconda innovazione aggiunge alla mancata o manifestamente illogica motivazione il caso di “contraddittorietà, specificando che il vizio può derivare non solo dal testo del provv. impugnato ma anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame. Gravame qui è usato come sinonimo di impugnazione. In origine la legge censurata dal Quirinale diceva “se manca o è contraddittoria o manifestamente illogica la motivazione” e non c’era alcun riferimento alla clausola su dove debba risultare il vizio. Viene rimessa per esibire rispetto al Capo dello Stato ma aggiungendo che il vizio può risultare anche da “altri atti del processo” e nulla cambia nella sostanza riguardo alla prima stesura (per il Pres. lamentava la trasformazione della Cassazione in giud. di merito). I risultati sono totalmente equivalenti (sopprimere la clausola su dove debba risultare il vizio o rimetterla ma inserendoci altri atti del processo). Gli atti devono essere indicati nei motivi di ricorso ( ma era implicito perché l’indicazione deve essere specifica e su ragioni di fatto/diritto che sorreggono ogni richiesta).

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QUINDI ORA SONO CENSURABILI IN SEDE DI RICORSO ANCHE LA MANCATA VALUTAZIONE E IL TRAVISAMENTO DELLE PROVE.

Mancanza e manifesta illogicità sono riferite alla sentenza (coerenza del discorso giustificativo) ma la contraddittorietà riguarda il contrasto tra il discorso giustificativo e il materiale acquisito nel processo (quindi travisamento o mancata valutazione delle prove). Se ci si riferisse solo al testo la manifesta illogicità assorbirebbe la contraddittorietà . Occorre provare sia la mancata acquisizione/travisamento sia che il contrasto tra atti del processo e premesse probatorie sia tale da incidere sul percorso argomentativo e le conclusioni.

LA CONDANNA E’ MERITEVOLE DI ANNULLAMENTO IN QUANTO IL RICORRENTE DIMOSTRI CHE LA PROVA NON VALUTATA O TRAVISATA INTRODUCE UN RAGIONEVOLE DUBBIO DULLA COLPEVOLEZZA.

PER LE MISURE CAUTELARI: LA PROPOSIZIONE DA PROVARE E’ LA PRESENZA DI GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA (probabilità di colpevolezza). Vizio di motivazione quindi quando il materiale probatorio travisato/non valutato mostri inconsistenza indizi assunti come gravi. Il controllo della cassazione continua vertere sulla motivazione non direttamente sulla colpevolezza ma essendo ora possibile il raffronto con gli atti del processo non si può più ritenere valida la motivazione di una condanna quando sopravviva il ragionevole dubbio sulla colpevolezza; non si può più negare con la Legge Pecorella alla Cassazione il potere di verificare il conflitto tra atti probatori e affermazione di colpevolezza (sarebbe un’abrogazione in via interpretativa delle modifiche in art. 606 cpp lettera e)).

IL VIZIO DI MOTIVAZIONE RISULTANTE DAGLI ATTI DEL PROCESSO

Con il ritorno al regime dell’appellabilità (con sentenza 26 del 2007) e quindi di condanna disposta dal giudice di secondo grado sembra che questo sia l’unico modo per garantire in forma seppur non piena il diritto al riesame previsto dall’art. 14 del Patto internazionale sui dir. civili e politici. L’indirizzo della giurisprudenza rispetto al nuovo art. 606 lett. e) cpp è stato restrittivo. Teso ad arginare il rischio di inflazione dei ricorsi (i dicta della Suprema Corte non sono sanzionabili se non in sede di controllo di legittimità cost.).

Per ora la giurisprudenza segue due diverse linee interpretative:

1) due sentenze della sesta sezione riconoscono che per effetto della nuova legge il controllo di legittimità si estende anche alla mancata valutazione e al travisamento di prove ma, prendendo spunto da “atti di processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, dettano 4 condizioni a cui deve uniformarsi il ricorrente se lamenta un vizio di motivazione risultante dagli atti di proc.: a) identificare l’atto processuale cui si fa riferimento; b)

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individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dalla sentenza impugnata; c) dare prova delle verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché dell’effettiva esistenza dell’atto processuale cu cui tale prova si fonda. d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette in modo decisivo la tenuta logica e interna coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità nell’impianto argomentativo.

I punti a) e b) sono già deducibili dalla norma. Il punto c) è più complicato: la seconda parte (effettiva esistenza dell’atto processuale) è chiara, c’è un onere sull’individuazione e la rappresentazione da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli stessi. La prima parte (prova della verità dell’elemento fattuale o dato probatorio invocato) non è chiara, sembra un ulteriore onere (effettiva presenza negli atti del processo? Si ricadrebbe nell’onere di documentazione nella seconda parte). Il punto d) deve essere spiegato: cosa vuol dire “profili di radicale incompatibilità”? Per sentenze non è sufficiente che gli atti siano semplicemente contrastanti con accertamenti e valutazioni o con la ricostruzione complessiva finale dei fatti né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta dal giudicante. Ogni giudizio infatti è un’analisi più o meno ampia di elementi di segno non univoco. OCCORRE INVECE CHE GLI ATTI DEL PROCESSO SU CUI SI FA LEVA PER SOSTENERE L’ESISTENZA DEL VIZIO DELLA MOTIVAZIONE SIANO AUTONOMAMENTE DOTATI DI FORZA ESLICATIVA/DIMOSTRATIVA TALE CHE LA LORO RAPPRESENTAZIONE DISARTICOLI L’INTERO RAGIONAMENTO E DETERMINI RADICALI INCOMPATIBILITA’ (che vanificano o rendono manifestamente incongrua o contradd. la motivazione).

Quindi abbiamo più gradi di contrasto tra dati probatori/conclusioni. Per il vizio di motivazione non basta il semplice conflitto con singole valutazione del giudice e nemmeno che da tali atti scaturisca la ricostruzione dei fatti più attendibile di quella del giudice. Il vizio c’è solo se il contrasto è radicale. Indirizzo analogo è quello della giurisprudenza che ritiene lo standard molto severo prendendo lo sputno da “manifesta illogicità”. Questo indirizzo non può valere anche in rapporto al contrasto tra atti di processo e motivazione. Il riferimento non è più l’illogicità ma alla contraddittorietà che c’è tra le premesse probatorie (tra prove e atti del processo). Il semplice divario non è sufficiente per annullamento ma occorre che la contraddite. Si ripercuota sullo sviluppo argomentativo della decisione. Per quanto riguarda le sent. Di condanna a disarticolare l’intero discorso è sufficiente che le prove ignorate o travisate mettano ragionevolmente in dubbio la colpevolezza. L’onere

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grava sul ricorrente. Le sentenze in esame affermano che al giudice di legittimità è preclusa la pura/semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o autonoma adozione di nuovi parametri di ricostruzione/valutazione fatti: queste operazioni trasformerebbero la corte nell’ennesimo giudice di fatto e non più un controllore delle motivazioni dei provv. dei giudici di merito (su razionalità e capacità di rappresentare e spiegare l’iter del giudice per giungere alla decisione).

Quindi per Cassazione: CONTROLLO SU LOGICITA’ MOTIVAZIONE = AMMISSIBILE; RILETTURA E REINTEPRETAZIONE DATI PROBATORI = VIETATE. E’ una sfida impossibile: se la logicità dell’interpretazione riguarda le inferenze induttive e non solo osservanza regole logiche e formali il suo controllo implica necessariamente ola rilettura e la reinterpretazione delle prove. L’inferenza induttiva è l’interpretazione delle evidenze probatorie.

Mancata valutazione o travisamento prova: ora che il vizio di motivazione può risultare dagli atti del processo è perfettamente ragionevole che il ricorrente possa prospettare diversi e più plausibili parametri di valutazione dei fatti. I motivi proposti limitano il campo dei parametri che la corte potrebbe adottare ma se il ricorrente li propone non può esimersi da vagliarne la fondatezza. IL CONTROLLO SULLA CORRETTEZZA DELLA MOTIVAZIONE IN FATTO IMPLICA SEMPRE LA RILETTURA DEI DATI PROBATORI.

L’INDIRIZZO DELLA QUINTA SEZIONDE E LA RATIFICA DELL’ORDINE PREESISTENTE

2) il secondo indirizzo e più radicale indirizzo espresso da alcune sentenze della quinta sezione che di fatto negano portata innovativa alle modifiche introdotte dalla lettera e) dell’art. 606 cpp.

“Altri atti del processo” non apre l’accesso agli atti probatori ma allude solo al potere della corte di confrontare i motivi di appello e le memorie e le richieste difensive con l’esame che ne ha compiuto il giudice di merito. Sarebbe quindi una ratifica all’indirizzo già espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel precedente regime: per evitare conseguenze inique conseguenti al controllo rigidamente limitato al testo del provvedimento le Sezioni Unite (2003) si erano orientato a ammettere per via indiretta il sindacato della mancata valutazione/travisamento prove quando il vizio fosse documentabile “senza necessità di accedere agli atti probatori” ma solo prendendo in “esame il testo della sentenza impugnata e confrontandola con quella di primo grado e gli apporti difensivi nel giudizio d’appello”. La differenza degli orientamenti sta però nel fatto che nel cosa delle Sezioni Unite fosse teso ad espandere il controllo mentre ora ha funzione opposta di restringerlo nei limiti antecedenti la novella. AFFERMARE IL DIVIETO DI ACCESSO AGLI ATTI PROBATORI ANCHE DOPO LA RIFORMA PECORELLA RAPPRESENTA UN’ARBITRARIA FORZATURA DELLA FORMULAZIONE LEGISLATIVA in nome di un’idea applicabile al vecchio teste dell’art. 606 cpp. Ora invece proprio quell’articolo da all’interpretazione predetta una smentita nel momento in cui precisa che il vizio di

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motivazione può risultare NON SOLO DAL TESTO IMPUGNATO ma anche DAGLI ALTRI ATTI DEL PROCESSO. Dopo rilievi presidente Ciampi viene approvata la versione definitiva che è ancora più esplicita di quella precedente che si limitava alla soppressione della clausola “quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato”. Gli altri atti del processo sono sicuramente quelli probatori (anche) e non è possibile arrivare ad altra conclusione: estrometterli dagli atti processuali equivale alla parziale abrogazione del dettato codicistico. Qualcuno potrebbe sostenere che questa versione allargata di sindacato contrasta con le finzioni di legittimità della terza istanza così come delineate dall’art. 111 c. 7 cost. (“RICORSO IN CASSAZIONE PER VIOLAZIONE DI LEGGE”), ma la Cost. prevede il ricorso in Cassazione per violazione di legge come livello minimo di garanzia (il legislatore può superarlo estendo il ricorso alla Cassazione per questioni di fatto). Anche sostenendo che il ricorso dovesse essere limitato a motivi di merito non sarebbe comunque incostituzionale l’art. 606 lett. e) cpp. : la legge stessa pretende che il giudice valuti le prove legittimamente acquisite e le riassuma fedelmente nella sentenza e l’unico modo per verificarlo è l’accesso agli atti processuali. L’idea restrittiva deriva dal fatto che si vuole evitare metamorfosi del giudizio di legittimità in un duplicato dell’appello e proteggere la Cassazione da un’inflazione di ricorsi pretestuosi.

GIUDIZIO D’APPELLO: VERTE SUI PUNTI DELLA DECISIONE (cui si riferiscono i motivi)

GIUDIZIO DI LEGITTIMITA’: VERTE SUI MOTIVI ADDOTTI DALLA PARTE

PRINCIPIO DELL’AUTOSUFFICIENZA DEL RICORSO: ribadito dalla corte Suprema (aprile 2006) riguarda all’art. 606 cpp lett. e), quando il vizio di motivazione consiste in un travisamento o mancata valutazione della prova anche il contenuto di questa dovrà essere riportato a pena inammissibilità nell’atto di ricorso unitamente alle ragioni che lo rendono incompatibile con la decisione assunta. Solo in presenza di queste condizioni la Cassazione verificherà che quanto si assume in ricorso corrisponda alla realtà degli atti processuali. IL RICORRENTE HA L’ONERE DI DENUNCIARE COMPIUTAMENTE/ANALITICAMENTE LE RAGIONI CHE GIUSTIFICANO L’ANNULLAMENTO, peritando sarà inammissibile il ricorso in cui non emergono le ragioni per cui il provv. del giudice dovrebbe essere annullato.

RAPPORTO PRINC. AUTOSUFF. RICORSO E ACCESSO AGLI ATTI: NON C’E’ DIVIETO DI ACCESSO AGLI ATTI CHE RISULTA INVECE NECESSARIO PER ACCERTARE LA FONDATEZZA EFFETTIVA DEL RICORSO IMPERNIATO SULLA MANCATA/TRAVISATA VALUTAZIONE DELLA PROVA. Se il vizio di motivazione non è ben documentato (quindi atto di ricorso incompleto) si ha la semplice inutilità dell’accesso (è vano perché la cassazione non ha il potere di rilevare d’ufficio i vizi non dedotti).

Il vizio di motivazione è spesso interessato da un fenomeno di conversione da questioni di fatto in questioni di diritto: non è tanto la Corte di Cassaz. a convertirsi in giudice di merito ma piuttosto il fatto a convertirsi in diritto attraverso i criteri legali di valutazione offrendosi al sindacato di legittimità (es. la regola di giudizio sulla prova della colpevolezza al di la di ogni rag. dubbio).

LA PRONUNCIA DELLA CASSAZIONE SULL’INSUSSISTENZA DEI GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA E IL VINCOLO DI RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

Ultima innovazione della Legge Pecorella è l’art. 405 cpp con aggiunta del comma 1 bis:

“IL PM AL TERMINE DELLE INDAGINI FORMULA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE QUANDO LA CORTE DI CASSAZIONE SI SIA PRONUNCIATA IN ORDINE

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ALL’INSUSSISTENZA DI GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA (art. 273 cpp) E NON SIANO ACQUISITI SUCCESSIVAMENTE ULTERIORI ELEMENTI A CARICO DELLA PERSONA DOTTOPOSTA ALLE INDAGINI”. Sarebbe contraddittorio concludere un’indagine con un rinvio a giudizio se nel giudizio prognostico sulle probabilità di condanna fossero mancanti i gravi indizi.

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E’ sbagliato però l’automatismo che vuole basare sulla pronuncia della Cassazione sull’inesistenza dei gravi indizi la richiesta di archiviazione. IL PARAMETRO DI VERIFICA DEGLI INDIZI AI FINI DEL RINVIO A GIUDIZIO NON COINCIDE NECESSARIAMENTE CON QUELLO DELLE MISURE CAUTELARI.

Per rinvio a giudizio: prognosi di probabilità della condanna e tiene conto di ciò che si può ritenere ragionevolmente acquisibile nella fase successiva.

Per misure cautelari: si focalizza solo sul presente e gli elementi in possesso dell’accusa.

Lo standard di accertamento anche è diverso, presumibilmente più gravi dovranno essere gli indizi per limitare la libertà personale.

Inoltre potrebbe essere che il PM grazie al potere selettivo che gli è riconosciuto possa non produrre a sostegno della richiesta di misura cautelare tutto il materiale accusatorio: non si capisce allora perché gli elementi non esibiti debbano essere irrilevanti per il rinvio a giudizio solo perché preesistenti e non acquisiti successivamente all’intervento della Cassazione.

Infine la decisione della Cassazione RIGUARDA LA QUESTIONE CAUTELARE e sono su quel tema ha efficacia vincolante. Potrebbe al massimo rappresentare un precedente autorevole che il PM dovrebbe tenere in considerazione ma dal quale non si scaturisce obbligo legale a concludere in un determinato senso. DIVENTANDO LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE UN ORDINE DI ARCHIVIAZIONE IL LEGISLATORE IMPONE UN’EQUAZIONE ABUSIVA TRA DIVERSI TEMI DECISORI E VIOLA PRINCIPI ELEMENTARI COME LA DIVISIONE DELLE COMPETENZE E LA TITOLARITA’ DELL’AZIONE PENALE. I giudici di legittimità potrebbero attenuare il rigore del vaglio sui gravi indizi di colpevolezza per evitare i riflessi della loro decisione sull’esito delle indagini.

I LIMITI ALL’ARCHIVIAZIONE VINCOLATA E LE SANZIONI PER L’INOSSERVANZA EX ART. 405 COMMA 1 BIS CPP:

- La risposta del GIP a fronte della richiesta di archiviazione avanzata dal PM: il GIP conserva il potere di indicare al PM ulteriori indagini (come conferma il dictum della Cassazione che non impedisce l’es. dell’azione penale su base ulteriori elementi emersi nel prosieguo delle indagini).

- Il vincolo in art. 405 cpp vale anche per il GIP? Il giudice potrebbe dissentire dalla richiesta di archiviazione solo segnalando nuove indagini oppure imponendo la formulazione dell’imputazione su base di elementi acquisiti dopo intervento della Cassazione? Sul piano sostanziale la pronuncia del giudice di legittimità costituisce un autorevole precedente e in via interpretativa non si potrebbe estendere al giudice il vincolo formale in favore dell’archiviazione (testualmente previsto solo per PM) perché l’art. 405 c. 1 bis cpp è una norma che deroga ai limiti del giudicato e alla ripartizione delle competenze, quindi in suscettibile di interpretazione analogica. IL GIUDICE RIMANE QUINDI PIENAMENTE ARBITRO DELLA DECISIONE SULLA RICHIESTA DEL PM A CUI PUO’ RISPONDERE CON ARCHIVIAZIONE/INDICAZIONE DI NUOVE INDAGINI/ORDINE DI FORMULARE L’IMPUTAZIONE (art. 409 cpp). La norma (da relazione al disegno di legge) era risposta all’esigenza di porre rimedio alla prassi giudiziaria in base alla quale il PM formula ugualmente la richiesta di rinvio disattendendo completamente la pronuncia della Suprema Corte. Se questa è la ratio non c’è necessità di estenderla anche al giudice per le indagini preliminari.

- Se il PM ignora il precetto ex art. 405 cpp ed esercita l’azione penale si delinea sicuramente una responsabilità disciplinare. Ci sono anche sanzioni processuali? L’azione penale probabilmente è da intendersi come validamente esercitata. La Cassazione non è una condizione negativa di procedibilità (è l’equivalente logico dell’assenza di gravi indizi) come lo è ad es. l’assenza della

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querela. E’ comunque azione validamente esercitata e tale da giustificare sentenza di merito. Probabilmente l’epilogo sarà la sentenza si non luogo a procedere o assoluzione ma non ci sarebbe impedimento per condanna se lo giustificassero le prove legittimamente acquisite in dibattimento. QUINDI LA PRONUNCIA DI INSUSSISTENZA DI GRAVI INDIZI NON E’ SICURAMENTE UN ORDINE DI ARCHIVIAZIONE. Non porta alla nullità generale per inosservanza delle disposizioni concernenti l’attività del PM nell’esercizio dell’azione penale.

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- Se la Cassazione conferma la presenza di gravi indizi di colp. il PM sarà vincolato a presentare richiesta di rinvio a giudizio, in assenza di mutamenti del quadro probatorio dovuto alle successive indagini? Il PM non sarà vincolato: la decisione della Cassazione è un autorevole precedente ma nulla più e l’art. 405 c. 1 bis è eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica e pertanto non estendibile oltre i tassativi limiti previsti.

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