Tracce Benjaminiane Per Un Materialismo Del Corpo

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Tracce benjaminiane per un materialismo del corpo di Francesco Cappa Ogni opera di Benjamin, significativa o minore, si presenta come una prova che introduce ad un enigma. Nello stesso tempo si dà come un appiglio per la costruzione di una trama dipanante l’enigma che un attimo prima era invisibile. L’immagine del mosaico, amata da Benjamin, viene subito in aiuto. Nel caso delle opere benjaminiane ogni singolo scritto è insieme una tessera e il mosaico intero. Come se in ogni tessera fosse impercettibilmente rinvenibile l’intero disegno composto da tutte le tessere o, per lo meno, risulti evidente un rimando ad un senso, ad una direzione che le sorpassa e che esse stesse ripresentano al loro interno. L’asistematicità, la scrittura di Benjamin stimolano la comunità brulicante dei suoi interpreti a ricavare dal corpo dei suoi testi ogni tema e argomento che possa essere rintracciato trasversalmente, verticalmente, orizzontalmente nella mappa ipnotica che questo anomalo pensatore ha costruito nell’arco di poco più di trent’anni. Trent’anni, quelli fra il 1910 e il 1940, che per caratteristiche uniche nel XX secolo non smetterà molto presto di ammaliare e rinserrare fra le sue volute il desiderio e la curiosità di archeologi e genealogisti delle scienze dell’uomo. Tentando di mostrare alcune tracce negli scritti di Benjamin che risultino interessanti per una concezione, abbozzata certo, di un materialismo del corpo abbiamo deciso di rispettare la forma a mosaico del corpus benjaminiano. Sfruttando come centro di oscillazione e come riferimento primario il confronto di Benjamin con la figura e l’opera di Franz Kafka, crediamo si possa stabilire più facilmente un contatto non fuorviante con il tema che vorremmo mettere in luce. Il saggio che nel 1934 Benjamin dedica a Kafka ha caratteristiche particolari e oltre a rappresentare una tessera fondamentale nell’orizzonte del suo pensiero ha un potere di rispecchiamento rispetto ad alcuni temi cruciali per tutta la riflessione,

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Tracce benjaminiane per un materialismo del corpo

di Francesco Cappa

Ogni opera di Benjamin, significativa o minore, si presenta come una prova che introduce ad un enigma. Nello stesso tempo si dà come un appiglio per la costruzione di una trama dipanante l’enigma che un attimo prima era invisibile.

L’immagine del mosaico, amata da Benjamin, viene subito in aiuto. Nel caso delle opere benjaminiane ogni singolo scritto è insieme una tessera e il mosaico intero. Come se in ogni tessera fosse impercettibilmente rinvenibile l’intero disegno composto da tutte le tessere o, per lo meno, risulti evidente un rimando ad un senso, ad una direzione che le sorpassa e che esse stesse ripresentano al loro interno.

L’asistematicità, la scrittura di Benjamin stimolano la comunità brulicante dei suoi interpreti a ricavare dal corpo dei suoi testi ogni tema e argomento che possa essere rintracciato trasversalmente, verticalmente, orizzontalmente nella mappa ipnotica che questo anomalo pensatore ha costruito nell’arco di poco più di trent’anni.

Trent’anni, quelli fra il 1910 e il 1940, che per caratteristiche uniche nel XX secolo non smetterà molto presto di ammaliare e rinserrare fra le sue volute il desiderio e la curiosità di archeologi e genealogisti delle scienze dell’uomo.

Tentando di mostrare alcune tracce negli scritti di Benjamin che risultino interessanti per una concezione, abbozzata certo, di un materialismo del corpo abbiamo deciso di rispettare la forma a mosaico del corpus benjaminiano. Sfruttando come centro di oscillazione e come riferimento primario il confronto di Benjamin con la figura e l’opera di Franz Kafka, crediamo si possa stabilire più facilmente un contatto non fuorviante con il tema che vorremmo mettere in luce.

Il saggio che nel 1934 Benjamin dedica a Kafka ha caratteristiche particolari e oltre a rappresentare una tessera fondamentale nell’orizzonte del suo pensiero ha un potere di rispecchiamento rispetto ad alcuni temi cruciali per tutta la riflessione, letteraria e filosofica, di Benjamin che attraverso il linguaggio attraversa il linguaggio.

1. Aspetti del gestuale fra Benjamin e Kafka

L’importanza e la fecondità del tema del gesto, inteso come uno degli aspetti più problematici e affascinanti dell’opera kafkiana, può farsi risalire ad un interesse proprio di Kafka.

Calimani riferisce che oltre cento pagine dei diari kafkiani sono dedicate alla frequentazione di un gruppo di attori che portavano il nome di «Compagnia del dramma musicale yiddish polacco», ma che in realtà erano un gruppo di girovaghi arrivati al Café Savoy di Praga da Lemberg, l’attuale Leopoli[1]. Questo incontro con un mondo lontano, misterioso e agli occhi del giovane Kafka, molto più affascinante di quello evocato dalle sue visite in sinagoga, impressionò in profondità la fervida fantasia dello scrittore. Nonostante il livello abbastanza scadente e elementare delle rappresentazioni messe in scena dalla compagnia, Kafka veniva, ogni volta, rapito da quei drammi e da quelle commedie, in cui le melodie e i gesti acquistavano un’aura magica, che riempiva le notti di quel giovane spettatore. Kafka divenne amico del capo e primo attore della compagnia, Isaac Löwy, con il quale faceva lunghe passeggiate insieme a sua sorella Ottla, fomentando le ire del

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padre che disprezzava quell’amicizia. Löwy era uno straordinario narratore, dotato di grande capacità affabulatoria e di un temperamento passionale e idealista che, molto probabilmente, generarono un intenso desiderio di emulazione nel giovane Kafka[2].

Kafka restò dunque affascinato non solo dai testi, ma anche dalla tecnica gestuale degli attori, dalla loro spontanea abilità di calcare la scena, e la musica degli spettacoli penetrò profondamente nel suo animo risvegliando archetipi addormentati e suscitando in lui feconde tensioni fino ad allora sopite e incubi onirici. Da allora vide i suoi sogni come incubi teatrali. Semplice, irrealistico, ma con una sequenza fatta di rotture improvvise e di salti logici, il teatro yiddish si avvicinava singolarmente ai processi onirici[3].

L’attenzione particolare di Kafka per i gesti degli attori e per le loro espressioni, non è casuale; basti pensare non solo alla particolarità dei gesti dei personaggi delle sue narrazioni, ma pure alla presenza della figura dell’attore nelle sue opere, fino a giungere alla grande raffigurazione  del teatro naturale di Oklahoma, che riunisce, in un solo punto, una molteplicità di temi cari alla poetica di Kafka. Su questo stesso argomento Friedmann scrive:

Degli attori yiddish piacciono a Kafka soprattutto il linguaggio non ancora infiacchito e i gesti. Linguaggio e gesti hanno origine nel Medioevo: lo yiddish chiamato anche Mauscheln, come dialetto tedesco e i gesti come espressione di un’epoca in cui la gestualità manuale non era ancora stata addomesticata dall’etichetta dell’età borghese[4].

Queste ultime parole di Friedmann introducono le considerazioni riguardo alla posizione di Benjamin rispetto al tema del gestuale nell’opera di Kafka, che ora si verranno ad esporre. Benjamin si riferisce esplicitamente a questo tema per sottolinearne l’importanza centrale  nell’ottica in cui considera l’opera di Kafka.

Un «minimo gesto»[5] che sposta ere è il primo ponte che Benjamin getta per consentirci di varcare la soglia del mondo delle immagini kafkiane. Subito, dalle prime battute del saggio, il lettore viene trasferito in un’ottica completamente diversa da quella canonica, che cerca di ‘spiegare’ l’opera letteraria, per trovarsi immediatamente immerso in un terreno interpretativo che può  inizialmente disorientare. Nei materiali e frammenti che Benjamin ha lasciato, nel suo personale ‘dossier’ su Kafka, raccolti e ordinati da Schweppenhauser nei Gesammelte Schriften, si legge che senza trascurare il particolare divieto kafkiano che vieta ogni interpretazione della sua opera, bisogna comunque inoltrarsi a tentoni, con estrema cautela e diffidenza nel cuore dei suoi testi ‘parabolici’[6]. Benjamin invita a liberarsi dai preconcetti della critica accademica e, attraverso il commento, a rimettere in movimento, dall’interno, gli elementi essenziali che un testo contiene e che in esso vengono preservati.

Secondo Allemann, Benjamin individua l’interno del testo kafkiano proprio a partire dal valore che il gestuale acquista in esso. Per Benjamin il gesto non è solo un elemento descrittivo, che condiziona nel lettore la rappresentazione del personaggio e delle sue azioni. Benjamin pensa piuttosto alle catene associative, alle costellazioni di immagini che Kafka stimola con una determinata postura o gesticolazione, con un battere «di mani che son veri martelli a vapore»[7]. La dimensione del gestuale introduce quella prospettiva della critica che evita, e allo stesso tempo  contiene, sia l’interpretazione naturale – che designa quella psicoanalitica – sia quella soprannaturale – che coincide con quella teologica[8]. La dimensione del gestuale si pone come intermedia tra queste ultime e, sostiene Allemann, avvolge completamente il testo kafkiano e quello del saggio di Benjamin, aprendo la possibilità di una critica che entra in simbiosi con il testo, senza appiattirsi nell’imitazione della sua cifra[9]. La dimensione della gestualità è contemporaneamente il livello esegetico intermedio del testo letterario e l’unico che non applicando dogmaticamente né i

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precetti dell’interpretazione naturale né di quella soprannaturale, riesce ad addentrarsi e avvicinarsi all’essenziale dell’opera di Kafka. L’essenziale del messaggio kafkiano, come scrive Benjamin a Scholem, può essere avvicinato solo a partire dalla «funzione svolta dall’elemento scenico e gestuale dei suoi libri»[10].

Rispetto all’analisi proposta da Allemann, Rochlitz sembra seguire una linea  interpretativa del tutto differente. Egli sembra più legato a quella visione tradizionale che spezza in due il pensiero di Benjamin, tenendo come spartiacque la sua ‘conversione marxista’, che tanto influisce sulle sue riflessioni e ricerche degli anni che succedono al 1924 e al fatidico incontro con la Lacis e con Brecht. In questo senso Rochlitz può affermare, senza mezzi termini, che:

ciò che conta per Benjamin è esclusivamente la profonda compatibilità tra le convinzioni di un autore e il materialismo storico e questo gli sembrava poter valere nel caso di Kafka[11].

Il desiderio di Benjamin di rendere manifesti quegli aspetti dell’opera di Kafka che meglio si adattano al materialismo storico[12], seguendo in questo senso i precetti di Brecht, entra in contrasto con l’impossibilità di farlo nettamente, o almeno con lo stesso risultato ottenuto nel saggio su Kraus. L’istanza e i motivi squisitamente teologici, ineliminabili e ineludibili, del saggio benjaminiano danno vita ad un’interpretazione difficilmente classificabile, che trova nell’ambiguità attribuita al gesto kafkiano lo spazio privilegiato in cui le due anime del saggio possono convivere senza contraddizione.

Egli [Benjamin] fonda tutta la sua lettura sui «gesti» o «motivi», sovente oscuri, attraverso i quali si esprime il fondo di ciò che Kafka aveva da dire. Ma questa lettura è in ultima istanza teologica [...] Benjamin situa nel punto di vista teologico l’elemento del pensiero contemporaneo che ha maggiore rilevanza, precisamente [come esso appare] nelle immagini, nelle figure, nei gesti che rimangono oscuri agli autori stessi[13].

La presa di posizione di Rochlitz appena riportata parrebbe contraddire in modo palese la citazione precedente e invece adatta semplicemente l’interpretazione del saggio su Kafka a quello che lo stesso Benjamin scriverà nella sua ultima opera prima della scomparsa, quando nella prima delle tesi di filosofia della storia afferma che nella pratica critico-filosofica «vincere deve sempre il fantoccio chiamato ‘materialismo storico’». Ma aggiunge immediatamente che «esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno»[14].

Il gesto acquista, sotto questo aspetto, una portata estremamente superiore a quella che lo denota come semplice elemento del tessuto narrativo. Il gesto diventa la chiave di una visione complessa dell’opera di Kafka e, allo stesso tempo, una chiave di volta della pratica teorica di Benjamin, rispetto alla sua visione della realtà e della storia. In questa visione convivono, acrobaticamente si potrebbe dire, materialismo e teologia; che più che risolversi in una stilizzazione amorfa, priva di energie, nella distinzione creano un campo di forze in cui il pensiero possa orientarsi. Creano una figura del pensiero[15], per molti versi simile a quell’ellisse che Benjamin propone come schema di comprensione dell’opera kafkiana.

In un altro punto del saggio del ’34 su Kafka, in cui Benjamin affronta il tema del gesto nel rapporto che intrattiene con la descrizione del teatro naturale di Oklahoma, emerge più chiaramente la rilevanza di questo tema rispetto alla sua riflessione di quegli anni. Benjamin scrive:

in ogni caso il teatro naturale di Oklahoma rimanda al teatro cinese, che è un teatro mimico. Una delle funzioni più importanti di questo teatro naturale è la risoluzione dell’accadere nel gesto. E si

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può andare oltre e sostenere che tutta una serie di studi e di storie minori di Kafka entrano in piena luce solo se vengono riferite, per così dire, come documenti al «teatro naturale di Oklahoma». Poiché solo allora si può vedere con certezza che tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove. Il teatro è la sede naturale di questi esperimenti[16].

È impossibile pensare che Benjamin quando accosta i gesti degli ‘attori naturali’ e dei personaggi kafkiani alla mimica del teatro cinese, non faccia riferimento, implicitamente, al teatro di Brecht, che proprio il teatro cinese, eminentemente gestuale, rivendica come uno, se non il più importante, dei suoi precursori. Il riferimento si fa ancora più stringente e probante, se si leggono in quest’ottica le pagine più dense del commento di Benjamin all’attività teatrale di Brecht e alla portata politica e artistica della drammaturgia brechtiana.

Risultano estremamente vicine a questa linea interpretativa le poche ma intense pagine intitolate Studi per la teoria del teatro epico, nelle quali  la questione del gesto, della sua provenienza e della sua utilizzazione, occupano un posto privilegiato. Benjamin scrive:

Il teatro epico è gestuale. Si può dire, a rigore, che il gesto è il materiale e il teatro epico l’utilizzazione appropriata di questo materiale [...] i gesti sono ritrovati nella realtà. E precisamente (è questa una constatazione importante, connessa nel modo più stretto con la natura del teatro) soltanto nella realtà contemporanea[17].

Ciò che risulta ancora più interessante è il modo in cui il commento al teatro di Brecht possa essere in sintonia con il commento al teatro naturale di Oklahoma che Benjamin propone nel saggio su Kafka, poche righe più sotto rispetto a quelle già citate in precedenza.

Ogni gesto è un evento, si potrebbe quasi dire: un dramma a sé. La scena su cui questo dramma si svolge è il theatrum mundi, di cui il cielo costituisce lo sfondo.[...] Kafka apre dietro ogni gesto – come il Greco – il cielo; ma come nel Greco – che era il santo patrono degli espressionisti -, l’elemento decisivo, il centro della vicenda, rimane il gesto[18].

Il confronto tra i due brani, tratti dai due testi di Benjamin, introduce però un’ambiguità che investe la funzione, o meglio le reali potenzialità, che il gesto può avere. Il gesto kafkiano, per stessa ammissione di Benjamin, mantiene in sé un’ambiguità costitutiva, che ne rispecchia anche la natura ‘animale’. Esso pertanto può venire inteso in senso brechtiano come il gesto che è parte integrante di un dispositivo d’interruzione. «Otteniamo tanti più gesti, quanto più spesso interrompiamo un’azione»[19], scrive Benjamin. «Sono proprio il carattere ritardante dell’interruzione, il carattere episodico dell’incorniciamento che (detto tra parentesi) fanno del teatro gestuale un teatro epico»[20]. Il gesto dell’attore del teatro di Brecht è allora carico di un significato che direttamente deve essere comunicato al pubblico e direttamente lo rende attivo. Questo teatro si pone come suo compito quello della conoscenza e dell’educazione, dice Benjamin; il pubblico nell’interruzione diventa consapevole della falsità del processo di identificazione che sta al fondo del teatro borghese. Prende coscienza, grazie allo choc dell’interruzione, sia del messaggio che in quel preciso momento viene indicato dal gesto dell’attore, sia della sua condizione quale è, senza possibilità di attuare una comprensione che non implichi un reale avanzamento nel processo di autocomprensione del proprio ruolo sociale, rappresentato in quel momento all’interno del teatro.

D’altra parte il gesto di Kafka non sembra avere queste caratteristiche e Benjamin non cerca di spiegare o solo comprendere la funzione precisa di quei gesti ma egli, come Kafka, si limita a mostrarli. Vengono in mente, per certi versi, più i gesti dei personaggi di Beckett[21] che non quelli

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di Brecht. Questi gesti non lasciano presagire, oltre se stessi, la speranza materialista di una rivoluzione, piuttosto lasciano interdetti, anche se sembrano alludere alla possibilità di una speranza. Allo stesso modo le paranoiche movenze dei personaggi beckettiani insieme eludono e mettono in evidenza la loro inesorabile impossibilità a muoversi e a far mutare la loro condizione reale. L’ambiguità e l’imprecisabilità del valore di presagio di questi gesti rimanda ad una speranza di portata più vasta di quella di cui si fa carico una rivoluzione politica. Questa speranza o è quella del tempo della redenzione messianica o non è speranza, sembrano dire quei gesti. Come in Beckett, anche in Kafka il gesto sembrerebbe far parte di un processo di destituzione delle false certezze dell’individuo che testimonia con il vano slancio l’impossibilità di qualsiasi azione finalizzata. Testimonia forse di un significato perduto, ma perduto per sempre in quanto tale. Per questo il gesto non può alludervi né indicarlo più in alcun modo, la sua presenza è solo la spia debolissima di una presa di coscienza necessaria. Nonostante questo il gesto rimane e allude alla possibilità di una saggezza che può edificare e preparare ad una nuova speranza, solo se si accetta la perdita definitiva della saggezza tradizionalmente data in quanto tale. Scholem così scriveva all’amico da Gerusalemme nella lettera datata 6-8 novembre 1938: «Se riuscissi a presentare il caso-limite della saggezza – che ora Kafka effettivamente rappresenta [darstellt] – come crisi della pura trasmissibilità della verità, avresti ottenuto un risultato davvero grandioso»[22].

Così scrive Benjamin nel saggio su Kafka:

Questo gesto unisce la massima enigmaticità alla massima semplicità come un gesto animale. Si possono leggere per un buon tratto le storie animali di Kafka senza avvertire che non si tratta di uomini. Quando s’imbatte nel nome della creatura – la scimmia, il cane o la talpa –, il lettore alza gli occhi spaventato e si accorge di essere già lontanissimo dal continente dell’uomo. Ma Kafka è sempre così: egli toglie al gesto dell’uomo i sostegni tradizionali e ha così in esso un oggetto a riflessioni senza fine[23].

Risalta qui il rapporto che Benjamin stabilisce tra gli animali e il dimenticato, l’oblio: categoria fondamentale nell’opera di Kafka che ne determina la tecnica narrativa[24].«L’oblio concerne sempre il meglio. È per questo che tutti gli sforzi dell’uomo contemporaneo devono essere diretti a ritrovare il suo gesto perduto, a riprendere se stesso»[25].

In conclusione Rochlitz ritiene che Benjamin interpreti le immagini e i gesti kafkiani alla luce di ciò che questo critico definisce il «paradosso dell’estetica benjaminiana»[26]. Con questa espressione Rochlitz intende quella particolare tendenza del pensiero e della critica di Benjamin che da un lato cerca, con ogni mezzo, di demolire i presupposti di un’estetica autonoma, che perpetua se stessa come vuota estetizzazione dell’arte. Dall’altro mentre mette in evidenza la capacità dell’arte moderna di produrre immagini senza significato, cerca di attribuire proprio a quelle immagini, un significato teologico preciso, che sfugge necessariamente agli autori stessi che le hanno create. Questo paradosso si manifesta come il riflesso della visione duplice, bifronte che Benjamin adotta nella sua interpretazione dell’arte e della storia. Quella stessa visione che gli permetterà di osservare in Kafka «il fallimento di un tentativo per superare l’arte in direzione di un’autorità dottrinale ispirata dalla tradizione ebraica»[27].

Questo giudizio di Rochlitz sembra abbandonare le cautele precedentemente adottate, e, cosa ancora più rilevante, è in piena contraddizione sia con l’intento metodologico del saggio del ’34, sia con le precisazioni di Benjamin degli anni successivi che, sì, portano sempre più al centro la questione del fallimento di Kafka, ma la spiegano in tutt’altro modo.

Rochlitz qui dimentica, a nostro parere, di prendere in considerazione ciò che scrive Benjamin a Scholem a proposito delle cause di questo fallimento, nella lettera del luglio del 1934. Benjamin

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infatti spiega che in relazione agli interrogativi che emergono nel Processo, Kafka, oltre a mettere in dubbio ogni risposta dogmatica o dottrinale, proprio attraverso la sua arte cristallina e impietosa, non dà risposte. Egli piuttosto, ed è qui che fallisce, tenta di individuare, chiaramente, la struttura di quella risposta che invece di rispondere, elimina la domanda stessa. Una struttura della risposta che in qualche modo viene avvicinata – anche se non afferrata saldamente – dal modo particolare in cui Kafka  si, e ci, ripone le stesse domande della tradizione, indicando le coordinate di una nuova prospettiva di inquadramento della risposta, proprio grazie a un gesto. Che estendendone il senso diventa anche il gesto della scrittura e il gesto di quella «conversione» di cui parla Benjamin nel suo saggio, che sposta ere e scardina il continuum temporale falsificante nel quale la storia dei vincitori si culla e costruisce in anticipo il suo revisionismo.

Inoltre Benjamin scrive che proprio «il gestuale nei suoi [di Kafka] libri, contiene accenni a uno stato del mondo in cui tali domande non hanno più posto, poiché le loro risposte, lungi dal fornire le informazioni richieste, sopprimono le domande stesse»[28]. Dove la soppressione della domanda è vista come il contrario della resa e come la capacità, rischiosa, attuata con ‘l’ascia della ragione’ di spostare l’ordine discorsivo del problema. La capacità della critica letteraria-politica di creare lo spazio ulteriore di germinazione di un livello di problematizzazione dell’oggetto non più cementificato nella tradizione, uno spostamento che nasce da una cesura nata insieme al commento dell’opera d’arte, come discontinuità illuminante.

2. Verso un materialismo del corpo

Molto spesso, per quanto riguarda il pensiero di Benjamin, la varietà delle interpretazioni date e possibili, che scaturiscono dall’analisi anche di uno solo dei suoi testi, più che aumentare l’oscurità delle sue posizioni,  manifesta una ricchezza tipica della sua opera. Sempre tesa allo scandaglio della profondità delle questioni o degli autori presi in considerazione, la ricerca benjaminiana rende plausibili commenti diversi, a volte pienamente contrastanti, dello stesso topos del suo pensiero o di uno stesso scritto. Anche la questione del gesto non si esime dalla capacità di contenere in sé delle proposte interpretative contrastanti.

Se, come si è appena visto, si può privilegiare una lettura del tema del gesto che lascia poco spazio ad una visione non fortemente condizionata dalle considerazioni teologiche, c’è anche chi analizza la questione da un’ottica complementare ma opposta.

Jäger in un saggio, che useremo come sponda per le nostre considerazioni, che porta in calce il significativo titolo di Primato del gesto, esamina la questione del gestuale riferendosi all’altro polo del pensiero di Benjamin. Quello che più direttamente fa riferimento al suo peculiare approccio alla teoria del materialismo storico e agli studi di filosofia del linguaggio, che proprio durante gli anni in cui scriveva il  saggio su Kafka, venivano  rispettivamente approfonditi e ripresi.

È proprio dai rinnovati interessi per la teoria del linguaggio che Jäger prende spunto per la sua analisi. Solo due mesi dopo la pubblicazione parziale del saggio del ’34, scorrendo attentamente la cronologia delle opere di Benjamin, si trova la prima versione di una lunga rassegna-recensione intitolata Problemi di sociologia del linguaggio, commissionatagli dall’Istituto per la Ricerca Sociale di Adorno e Horkheimer, pubblicata nell’anno successivo sulla rivista organo dell’istituto.

Leggendo con attenzione questa rassegna, che dà conto delle più importanti teorie sull’evoluzione e sulle possibili origini del linguaggio, Benjamin manifesta, agli occhi di chi ha in mente la sua produzione di quel periodo e di quello successivo, una sua posizione sotto forma di simpatia, neanche troppo velata in fondo, per un autore piuttosto che un altro. Emerge inoltre dal taglio prospettico che Benjamin impone alla trattazione dell’argomento, che la sua attenzione si concentra

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sulla questione del gestuale, dell’antropologia del gesto e sul ruolo che tale questione assume all’interno di queste teorie.

Esponendo, infatti, gli elementi principali della disputa tra la teoria di Lévy-Bruhl e Leroy, Benjamin scrive: «Nella disputa tra i due studiosi c’è un punto particolarmente importante. Si tratta del problema del linguaggio gestuale. Il suo veicolo più importante è la mano; secondo Lévy-Bruhl il linguaggio della mano è il più antico che incontriamo»[29]. Leroy, spiega Benjamin, sembra avere la meglio sul suo avversario, poiché afferma energicamente che il linguaggio gestuale non essendo diffuso in tutte le culture allo stesso modo e quindi senza eccezioni, «non può servire come anello di una catena di un movimento espressivo più primitivo che porta al linguaggio»[30]. Un sostegno costruttivo alle teorie fantastiche di Lévy-Bruhl viene però dagli studi di Marr che propone, molto semplicemente, una teoria che ha tutte le caratteristiche dell’inoppugnabilità. E cioè  Marr si chiede: perché l’uomo, che non aveva ancora la facoltà di disporre di un qualsiasi linguaggio sonoro articolato, per indicare o mostrare un oggetto non doveva usare uno strumento che, per come è fatto, sembra nato apposta per assolvere nel migliore dei modi a questa funzione? Marr quindi conclude che le mani furono la lingua dell’uomo; la mimica facciale, i movimenti della mano e in alcuni casi anche quelli che interessavano tutto il corpo, erano perfettamente in grado di esaurire in se stessi i mezzi del creare linguistico[31].

Sembra quasi che Benjamin tracci un percorso, che deve corrispondere nelle linee generali a quello che lui stesso ha compiuto per orientarsi – e prendere posizione – all’interno di una problematica che in parte mette in discussione alcuni aspetti de sui studi giovanili sulla filosofia del linguaggio.

Dalla teoria di Marr, che sosteneva che il ‘maneggio’ degli strumenti doveva aver preceduto il maneggio del linguaggio, Benjamin passa agli esperimenti e alla teoria di Vygotski, che dimostra che il pensiero strumentale è indipendente dal linguaggio e dalla sua padronanza. Qui Benjamin prende in considerazione i chiari risultati ottenuti da Köhler con le sue ricerche sugli scimpanzé. Questi esperimenti e la teoria di Vygotski portano la questione un gradino più in là, dal punto di vista di Benjamin, poiché accordano al gesto una rilevanza che non ha più solo un valore genetico, ma riveste una funzione strutturale nell’evoluzione del linguaggio.

Il risultato di queste riflessioni è la fissazione del punto geometrico in cui il linguaggio ha la sua origine – dove si incontrano la coordinata dell’intelligenza e una coordinata gestuale (mano o suono)[32].

La considerazione che chiude la rassegna benjaminiana è anche quella più interessante: rivela la simpatia dell’autore per la teoria di Paget, la quale offre numerosi parallelismi con le riflessioni di Benjamin che prenderanno corpo nelle densissime pagine di Sulla facoltà mimetica.

Paget parte da una definizione sorprendente del linguaggio. Egli, scrive Benjamin, lo «intende come una gesticolazione degli strumenti linguistici, dove primario non è il suono, ma il gesto»[33]. In questa concezione il gesto chiede che la sua identità con il linguaggio venga riconosciuta. L’elemento mimico-gestuale si pone a fondamento di quello fonetico; all’inizio il suono ha solo il compito di perfezionare il significato di un gesto mimico, secondo Paget, tanto che la sua funzione primaria è solo quella di un supporto fonetico per un linguaggio gestuale ottico comprensibile in se stesso. Con il tempo il suono prese il sopravvento sul gesto solamente perché richiedeva uno sforzo fisico minore per l’attore della comunicazione. Ciò che conta però, sottolinea Benjamin, è la rivendicazione del valore originario-fondante e della complessità propria del linguaggio gestuale.

E così, secondo Paget, l’articolazione del gesto dell’apparato linguistico rientra nella grande area della mimica corporea. Il suo elemento fonetico è il veicolo di una comunicazione il cui sostrato

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originario era costituito da un gesto espressivo. Con le tesi di Paget e Jousse alla superata teoria onomatopeica, che può essere chiamata mimetica in senso stretto, si contrappone una teoria mimetica in un senso molto più ampio. È un grande arco, quello che la teoria del linguaggio percorre dalle speculazioni metafisiche di Platone fino alle testimonianze dei moderni [...] Se altri si sono limitati a tenere conto della funzione semantica del linguaggio, dimenticando il carattere di espressione che gli è immanente, le sue forze fisiognomiche, a Paget queste ultime paiono invece degne e capaci di un più ampio dispiegamento non meno delle prime[34].

Benjamin fu uno dei primi, fra i critici letterari, a mettere in evidenza l’importanza che assume il codice di gesti rinvenibile in tutta la scrittura kafkiana[35]. Ma sicuramente fu uno dei pochi che riuscì a sviluppare una teoria del gesto kafkiano che tenesse conto del potenziale semantico che un gesto riesce a mettere in agitazione, ogni volta che prende la meglio sulla narrazione effettiva di una vicenda, sostituendola e allo stesso tempo rafforzandone l’effetto.

Ma come si spiega questa particolare concentrazione sul tema del gesto?

La risposta viene dalle considerazioni e convinzioni metodologiche che spingono Benjamin a un approccio inusuale all’opera di Kafka; o meglio, inusuale se confrontato con i pericoli e i limiti della ricezione iniziale di Kafka, contro la quale Benjamin voleva erigere il suo contributo. I tentativi più imponenti di riferire l’opera dello scrittore praghese ad una teoria o a una ideologia ben precisa, furono messi in atto dalle schiere di chi sosteneva l’interpretazione teologica e da quelli che portavano in trionfo il vessillo della psicoanalisi.

Benjamin comprendeva il pericolo dell’archiviazione del caso Kafka, ridotto a esempio, da una critica didattica che ne trasformava il contributo in una chiara quanto falsificante «lezione». Proprio per questo, rileva Jäger, Benjamin moltiplica i riferimenti utilizzati all’interno del suo saggio – dalla fiaba indiana al racconto chassidico fino alla tradizione russa e tedesca – in modo da inserire il più possibile Kafka nella costellazione letteraria mondiale senza fornire al lettore la possibilità di fissarne la figura in una classificazione precodificata.

Certo Benjamin non trascura completamente la lettura teologica e psicoanalitica, delle quali si trovano ampie tracce nelle sue riflessioni critiche sull’importanza della famiglia dello scrittore, sulle figure femminili, sul fato, la legge e la redenzione[36]. Ma ne svuota la tendenza totalizzante cercando di metterle in luce attraverso i loro legami e le loro manifestazioni con il gestuale, che viene, fin dall’inizio, posto come la chiave privilegiata dell’interpretazione. Già la scelta del gesto, come motivo fondamentale che permette di dispiegare i numerosi temi contenuti nel saggio, toglie energia ad ogni tentativo di interpretare i testi attraverso categorie imposte dall’esterno; il gesto, elemento interno al «codice» kafkiano, impone un’analisi immanente dell’opera, tratto peculiare della metodologia della critica benjaminiana.

L’intento non è quello di delineare una figura fissa che si attagli a Kafka e alla sua opera; nell’immagine del gesto come matrice di capacità di trasformazione si indica già quale sarà il tentativo dell’intera critica. Si scavalca, con gli strumenti dell’interpretazione letteraria, l’esigenza di valori stabiliti, stabili. Anche in questo saggio Benjamin pone i materiali, le correnti o gli autori che sono oggetto della critica, in movimento, inserendoli sulla soglia di una trasformazione che riguarda la storia e l’arte nel suo evolversi tra continuità e discontinuità. La metamorfosi, tema eminentemente kafkiano, diventa la legge formale di un modo di fare critica. Le strutture temporali del commento vengono divelte dal loro procedere in una continuità pacificante (che porta dall’esposizione di una teoria sull’autore alla sua conferma trovata nell’opera), che non risponde alle esigenze effettive dell’arte, e di conseguenza della critica. La struttura metamorfica del lavoro critico nella sua ciclicità, che continuamente torna o si dirige verso il suo cominciamento, apre lo

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spazio di una nuova prospettiva che invece di chiudersi in un giudizio, si apre alla possibilità del suo continuo invalidamento.

Abbiamo già mostrato le considerazioni di Benjamin che vedono conservate nel gesto kafkiano le caratteristiche dell’animalità che lo caratterizza[37]. Proprio sulla significatività del passo citato più sopra, Jäger richiama l’attenzione, sostenendone la stretta connessione con la frase che chiude il saggio del ’34.

Benjamin scrive: «Uomo o cavallo, non è più così importante, purché il peso sia stato tolto di dosso»[38]. L’umanesimo «reale», di cui Benjamin si fa portavoce, qui consacra attraverso l’immagine del Desiderio di diventare un indiano kafkiano, il suo ideale. Anche la concezione dell’umanesimo entra in crisi e vive il travaglio di un passaggio, di una trasformazione; «il privilegio accordato alla figura umana è abbandonato in favore di una solidarietà tra tutte le creature»[39]. Il tema che si vuole far emergere è quello, molto importante per Benjamin, della ridiscussione del concetto di «umanità», che non deve più esprimersi attraverso la sopraffazione dell’animale, che decade a mero strumento per il soddisfacimento del desiderio di dominio dell’uomo. Benjamin approfondisce le sue ricerche e i suoi studi sul mondo delle pulsioni e delle esperienze infantili proprio con l’intenzione di ridefinire un concetto ampliato di ‘umanità’. C’era anche un motivo molto più urgente che spingeva Benjamin a rispondere ad un’esigenza di questo tipo. Gli studi esposti nella rassegna sui problemi della sociologia del linguaggio che riguardavano il linguaggio animale e quello infantile, erano diretti a criticare e contrastare la legittimità delle teorie del volkisch che stavano iniziando a diffondersi in quegli anni anche tra i detentori della cultura alta. Non bisogna mai dimenticare, a tal proposito, le parole che Benjamin scrisse a Martin Buber già nel luglio del 1916 con le quali afferma, senza remore, che il suo stile e modo di scrivere è insieme obiettivo e altamente politico[40]; e queste due tendenze vanno sempre tenute presenti anche nei suoi scritti che possono sembrare meno politici.

L’orientamento verso la creatura, verso l’affermazione della prossimità tra l’uomo e l’animale, costituisce la più decisiva e la più radicale obiezione che si possa pensare contro il razzismo: in opposizione alla gerarchizzazione biologico-genealogica dell’uomo, la de-gerachizzazione è possibile dal momento in cui l’uomo stesso prende coscienza della sua animalità e, come Kafka, include dentro il suo campo d’attenzione «tutte le creature»[41].

Partendo dal confronto fra l’articolo sulla sociologia del linguaggio e il tema del gesto nel saggio su Kafka acquistano un senso anche gli esperimenti con la mescalina, intrapresi da Benjamin proprio mentre stava mettendo ordine tra i suoi appunti su Kafka.

Jäger riporta un appunto preso durante questi esperimenti con la droga, che Benjamin iniziò il 22 maggio del ’34, nel quale si trova un riferimento esplicito alle capacità espressive e di significazione che promanano dalla posizione delle mani e dalla loro tensione, ‘durante la fase di sperimentazione’, come annota Benjamin[42]. Ritorna qui, in una sede apparentemente estranea al contesto della nostra esposizione, l’espressione «linguaggio manuale» con la sua eco. In quest’ottica anche l’esperienza della mescalina diventa leggibile come un momento dello studio di Benjamin sulle potenzialità del gesto e sulla teoria del linguaggio. Il rapporto controllato con le droghe leggere si trasforma in un esperimento mentale, in un dispositivo sperimentale grazie al quale si cerca di far emergere più vividamente la traccia di un gesto perduto, si tenta di creare un ambito privilegiato della «riflessione» – del corpo oltre che della mente – in cui il gesto possa liberare qualcosa del suo significato,  non dato nella consapevolezza quotidiana.

Gli accenni, fatti da Benjamin nel saggio su Kafka, al teatro gestuale, quelli impliciti al teatro brechtiano e al teatro naturale di Oklahoma acquistano una densità di riferimenti almeno

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raddoppiata se si tiene conto del significato che le sperimentazioni con le droghe avevano per Benjamin, già dai tempi del suo soggiorno marsigliese del 1928[43].

In che modo l’interpretazione dell’opera di Kafka si interseca con le descrizioni della posizione catatonica delle mani di Benjamin sotto l’effetto dell’hascisch, si può spiegare rifacendosi alle figure gestuali kafkiane per eccellenza: ossia agli aiutanti. Lo spiega rimandando a quei gesti incompiuti, goffi e maldestri, tipici dei due aiutanti dell’agrimensore K., nel Castello kafkiano, che con la loro presenza sempre affannosa e sempre vana, rappresentano perfettamente la reale inconsistenza di ogni aiuto che proviene e che può provenire dal Castello. Questi aiutanti incarnano un gestuale non ancora coordinato, non ancora pienamente sottomesso e condizionato dalla disciplina che comunque vige tra coloro che dipendono dal Castello. Nei loro gesti è ancora riconoscibile l’inquietudine e la smania della gesticolazione infantile. Kafka li descrive come esseri instabili e succubi di un’agitazione senza freni, in preda ad uno spasmo da drogato, sperimentatore dell’ebbrezza di una libertà della e dalla ragione, non permessa dalle categorie dell’ordine costituito.

L’interpretazione di queste figure è il segno di una rinnovata attenzione verso quella particolare esperienza dell’infanzia che, proprio in quegli stessi anni, Benjamin portava ad assumere un ruolo molto importante nella sua riconsiderazione del passato e del futuro della storia. Lo stadio e il mondo nebuloso richiamato da questa particolare infanzia, spingono ognuno a misurarsi con le possibilità di incursione di un passato lontanissimo, che può ancora riscattarsi nel presente di una rinnovata attualità[44]. Questo passato è quello imbalsamato nei corpi degli animali di Kafka, luoghi in cui si condensa al massimo la possibilità del riscatto e il diritto dell’oblio. Il gesto e la sua animalità non disciplinata lascia intravedere per un attimo la ricchezza del dimenticato, che è sempre il meglio; rende possibile, proprio grazie alla sua apparente insensatezza e vanità, riprendere ancora una volta la riflessione su ciò che è dimenticato, sul materiale che subisce la presa delle forze dell’oblio, mostrando e rintracciando i confini del terreno di emergenza di questo materiale.

Per Benjamin la catatonia delle mani (descritta negli appunti che riferiscono dei risultati degli esperimenti fatti con l’aiuto della mescalina) e la rappresentazione delle gesticolazioni degli aiutanti kafkiani, in certa misura, mettono in ordine i pezzi di una storia ormai pietrificata attraverso un’immagine vivente. Egli si apre alla considerazione dell’importanza del gesto animale come in precedenza si era aperto allo studio approfondito del gesto infantile: la continuità d’ordine tematico con la sociologia del linguaggio e il saggio su Kafka non può passare inosservata.

Oltre a mostrare questa continuità nell’arco della riflessione benjaminiana si può sostenere che la pratica teorica con la quale Benjamin si confronta fin dall’inizio degli anni Trenta, che concentra sulla rilevanza degli aspetti di significazione del gesto, può essere esaminata da un doppio punto di vista.

Considerandola da un punto di vista storico-letterario, risultano fondamentali i contatti di Benjamin con le forme teatrali di quei tempi, con il teatro d’avanguardia e con l’importanza della gestualità dei suoi attori e della funzionalità e versatilità delle mani nella loro mimica.

Dal punto di vista filosofico, che è complementare al primo, ci si imbatte nella questione spinosa, ma cruciale, delle particolari qualità che caratterizzano il materialismo benjaminiano. Si tratta nel caso specifico di ciò che potremmo definire un materialismo del corpo, che poco ha a che fare con le ipotesi e i precetti dogmatici sull’analisi della realtà del mondo esteriore, propri del marxismo ortodosso. Benjamin riprende un concetto fondamentale del marxismo, ma ne muta radicalmente l’interpretazione e le conseguenze teorico-pratiche.

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Egli parla di «spazio corporeo» quando deve rendere espliciti i riferimenti alla sua specifica concezione del materialismo e lo fa per la prima volta, in modo chiaro, nel saggio sul surrealismo. Il modo in cui Benjamin utilizza questa variante di un concetto marxista nel saggio del 1929 sul movimento surrealista,  mette in primo piano la realtà del corpo, descritta come quella più ‘interna’ alla dialettica della rivoluzione artistica e sociale. Il corpo è, in un certo senso, l’organo della rivoluzione; è il luogo privilegiato della ricezione dei fenomeni profondi che hanno determinato e possono determinare un cambiamento nella realtà.

In un passo di questo saggio Benjamin scrive:

questo spazio sarà ancora uno spazio immaginativo, e, più concretamente, spazio fisico. Poiché non c’è rimedio, è tempo di ammettere che il materialismo metafisico di osservanza vogtiana e buchariniana non può essere tradotto senz’altro nel materialismo antropologico testimoniato dall’esperienza dei surrealisti [...] Anche il collettivo è corporeo. E la physis che gli si organizza nella tecnica può essere prodotta, in tutta la sua realtà politica e oggettiva, solo in quello spazio immaginativo in cui ci introduce l’illuminazione profana. Solo se corpo e spazio immaginativo si compenetrano in essa così profondamente che tutta la tensione rivoluzionaria diventa innervazione fisica collettiva, e tutta l’innervazione fisica del collettivo diventa scarica rivoluzionaria, solo allora la realtà ha superato se stessa quanto esige il manifesto comunista[45].

Già nel libro sul Trauerspiel si possono rinvenire tracce della centralità del rapporto tra la storia e il corpo (in quel contesto si trattava specificamente del corpo torturato) nel pensiero di Benjamin. E riferendosi alle considerazioni appena riportate, contenute nel saggio sul surrealismo, si può sostenere che buona parte della teoria benjaminiana del gestuale – quindi anche nella sua applicazione all’esegesi kafkiana – sia fortemente influenzata da «movimenti corporali» come li si trova descritti e considerati nel saggio del ’29. Il suo pensiero sembra quasi prendere, si potrebbe dire, l’impronta da quei movimenti. Un movimento del pensiero che sposta nel corpo, che tenta di rinvenire le tracce di questo travalicare. Considerazioni di questo tipo portano quasi a legittimare una vicinanza di sensibilità con la poetica e certe pagine di Antonin Artaud. Nell’alveo di un materialismo del corpo possiamo trovare fra Benjamin e Artaud un’analogia nella riflessione teorica che viene rafforzata se la si spinge sotto la lente di una tensione irrisolvibile e sostanziale che oscilla fra materialismo e teologia, fra ontologia e concretezza micrologica.

In definitiva la sensibilità benjaminiana – non appiattendola troppo su quella surrealista – non è esclusivamente né di tipo letterario né di tipo filosofico. Benjamin considera decisivo per il suo particolare modo di affrontare e pensare i problemi contenuti in un’opera d’arte l’apporto proveniente da ambiti come quello che riguarda la mimica o il gestuale, la linguistica e la psicologia infantile, che possono apparire ad un critico accademico come aspetti secondari e del tutto trascurabili. Ma proprio su di essi si concentra l’attenzione benjaminiana, destituendo ogni posizione critica che fissi in un giudizio perentorio ciò che ha il diritto di stare al centro dell’attenzione della critica e ciò che è invece irrilevante.

La capacità «sismografica» di Benjamin di percepire gli impulsi che provengono direttamente dall’innervazione del corpo collettivo[46] «presenta in certa misura un’affinità oggettiva con le procedure artistiche»[47]. Una tale sensibilità, che sbaraglia ogni avvicinamento contemplativo all’opera, gli permette di impostare il suo commento partendo dall’interno del testo, da quello sprofondamento[48] che è necessario e costitutivo in ogni atto che voglia essere autenticamente critico. Questa sensibilità che monadologicamente trattiene Benjamin nella dialettica incessante dell’alternanza tra il centro e la periferia, tra la figura e il dettaglio,  gli permette anche di scoprire e ‘tastare’ quei nodi tematici in cui il flusso di questa innervazione, che viene in rilievo nelle opere d’arte, si mostra al massimo della sua intensità.

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Benjamin cerca di aprire una dimensione di ascolto interna al linguaggio attraverso la critica (sulla scorta di ciò piacerà molto al decostruzionismo). Quella stessa dimensione sulla quale insisteva Freud, nella quale le avanguardie cercavano di prendere dimora e dalla quale parlavano ad un nuovo pubblico metropolitano.

Il linguaggio del corpo, la sua materia diventa quasi come riflesso immediato uno spazio privilegiato di questa ricerca, in tempi (l’inizio del XX sec.) in cui le ragioni del corpo erano ancora chiuse in quell’astuccio culturale che Benjamin mise in luce nelle peregrinazioni del Passagenwerk, che ancora oggi non smettono di suggerirci qualcosa in più sulla realtà contemporanea. Il corpo e la sua lingua diventano o possono essere pensati come luoghi di riscatto di una verità storica e di comprensione della realtà in mutamento.

Il linguaggio per Benjamin è il luogo privilegiato dell’immagine dialettica che in sé realizza ‘come in un lampo’ il recupero di quegli strati del passato che vengono repressi dalla tradizione dei dominatori, dall’ordine percettivo positivo e dal sistema delle sue memoires. L’immagine dialettica è immediatamente anche uno strumento politico, come una cesura nel discorso e nel tempo che rende conto di un’alternativa possibile, praticabile, eccentrica rispetto alla positività dei discorsi e dei fatti. Praticabile poiché si dà come forma, come Gestalt, visibile a partire dal campo della realtà, scaturita da una prospettiva differente ma profondamente legata alle possibilità della realtà. L’immagine dialettica ridimensiona la tradizione, la rende conoscibile come qualcosa di non totalizzante e quindi di criticabile dentro un movimento dialettico fra dato e interpretazione, testo, critica e contesto. Se l’immagine dialettica per la sua critica necessita di una lingua rinnovata che esprima il latente, si può dire, con Benjamin, che il corpo è ancora uno dei suoi spazi di esistenza privilegiati.

Per questo il tema del gesto e del gestuale è importante nell’economia del pensiero di Benjamin. Il gesto kafkiano fa da leva per Benjamin, permette di creare un’immagine concreta che come una macchina metaforica interrompa il discorso del giudizio raziocinante che s’impadronisce di ogni narrazione. Questo gesto, che in Benjamin coincide con l’atto della critica, interrompe e sovverte il fluire placido della temporalità borghese e fa riemergere con violenza il diritto alla presenza di un passato obliato e getta lo sguardo su un presente e un futuro non falsificante.

La rilevanza del tema del gesto, in questa prospettiva, da un lato si lega alla concezione benjaminiana della temporalità e della storia; dall’altro si ritrova in tutta l’attenzione per il nesso corpo-linguaggio, per la sua ‘innervazione’ che rappresenta il luogo fisico-metaforico in cui le tracce del passato si conservano in modo chiaro, non disperdendo la loro potenzialità di cambiamento radicale.

[1] Cfr. R. Calimani, I destini e le avventure dell’intellettuale ebreo. 1650-1933, Milano, Mondadori, 1996, pp. 241-242.

[2] Ivi p. 244.

[3] Ivi, p. 243.

[4] F.G. Friedmann, Von Cohen zu Benjamin: zum Problem deutsch-judischer Existenz, Einsiedeln, Johannes, 1981, Da Cohen a Benjamin: essere ebrei tedeschi, Firenze, Giuntina, 1995, pp. 45-46.

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[5] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 276-277.

[6] Cfr. B. Allemann, Benjamin e la critica, «Itinerari» 1-2 (1981), p. 8.

[7] F. Kafka, Tutti i racconti, trad. it. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1994, p. 219; cfr. anche W. Benjamin, Schriften, trad. it. cit., p. 277.

[8] In perfetta concordanza con l’interpretazione di Allemann su questo argomento si può segnalare quella di S. Weigel, Body – and image – space. Re-reading Walter Benjamin, trad. inglese di G. Paul, R. McNicholl, J. Gaines, London and New York, Routledge, 1996, p. 156.

[9] Cfr. B. Allemann, Benjamin e la critica cit., pp. 9-10.

[10] W. Benjamin – G. Scholem, Teologia e Utopia. Carteggio 1933-1940, trad. it. di A. M. Marietti, Torino, Einaudi, 1987, pp. 148-149.

[11] R. Rochlitz, Le désenchantement de l’art. La philosophie de Walter Benjamin, Paris, Gallimard, 1992, p. 169. Trad. it. nostra.

[12] Va fatto notare che per esempio l’interpretazione di Wolin del saggio su Kafka afferma esattamente l’opposto: «un’opera [quella su Kafka] che non potrebbe essere immaginata più lontana dai suoi interessi marxisti; infatti è un’opera che rappresenta un chiaro ritorno agli interessi messianici che hanno dominato i suoi [di Benjamin] primi interessi» (R. Wolin, Walter Benjamin. An Aesthetic of Redemption, New York, Columbia Press University, 1982, p. 154. Trad. it. nostra).

[13] Ivi, p. 170. Trad. it. nostra.

[14] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti trad. it. cit., p. 75. Qui, attraverso le stesse  parole di Benjamin, si può notare come la teologia assuma le stesse caratteristiche dell’omino gobbo.

[15] Sul tema dello «statuto figurale» del pensiero di Benjamin e della sua interpretazione in termini di una valorizzazione di quello che Blumenberg ha definito la «semantica metaforica» si vedano le belle pagine di Ch. Buci-Glucksmann, La Raion baroque: de Baudelaire à Benjamin, Galilée, Paris 1984, trad. it. La ragione barocca. Da Baudelaire a Benjamin, Genova, Costa & Nolan, 1992, pp. 136-139.

[16] W. Benjamin, Angelus Novus, trad. it. cit., pp. 284-285.

[17] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, tr. it. di A. Marietti, Torino, Einaudi, 1976, p. 173.

[18] W. Benjamin, Angelus Novus trad. it. cit., pp. 285-286.

[19] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione trad. it. cit., p. 174.

[20] Ibidem.

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[21] Cfr. sul tema di un possibile confronto tra Benjamin, Brecht e Beckett l’articolo di J. Bruck, Beckett, Benjamin and the Modern Crisis in Communication, «New German Critique» 26 (1982), pp. 159-171.

[22] W. Benjamin – G. Scholem, Teologia e Utopia, trad. it. cit., p. 269.

[23] W. Benjamin, Angelus Novus trad. it. cit., p. 286.

[24] Cfr. R. Rochlitz, Le désenchantement de l’art cit., p. 172. Trad. it. nostra.

[25] Ibidem. Trad. it. nostra.

[26] Ivi, p. 173. Trad. it. nostra.

[27] Ibidem. Trad. it. nostra.

[28] W. Benjamin – G. Scholem, Teologia e Utopia, trad. it. cit., pp. 148-149.

[29] W. Benjamin, Critiche e recensioni. Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it. di A. Marietti Solmi, Torino, Einaudi, 1979, p. 231.

[30] Ivi, p. 232.

[31] Ivi, p. 232.

[32]Ivi, pp. 244.

[33] Ivi, p. 247.

[34] Ivi, pp. 250-251.

[35] A questo proposito va riportata l’indicazione di Allemann che precisa che già vent’anni prima della pubblicazione del saggio di Benjamin su Kafka, Oskar Walzel accennava «all’importanza della muta gesticolazione nei racconti kafkiani e aveva perfino tracciato un parallelo con l’analogo procedimento riscontrabile in Heinrich von Kleist» (B. Allemann, Benjamin e la critica cit., pp. 8-9).

[36] Cfr. L. Jäger, Primat du gestus. Réflexions sur un essai de Walter Benjamin: Franz Kafka, «Europe. Revue littéraire mensuelle», trad. fr. di P. Ivernel, 804 (1996), pp. 127-128.

[37] Cfr. sullo stesso tema, con riferimento a Benjamin, anche G. Baioni, Letteratura e ebraismo, Torino, Einaudi, 1984, p. 185.

[38] W. Benjamin, Angelus Novus, trad. it cit., p. 305.

[39] L. Jäger, Primat du gestus cit., p. 131. Trad. it. nostra.

[40] Cfr. W. Benjamin, Lettere. 1913-1940, Torino, Einaudi, 1978, p. 24.

[41] L. Jäger, Primat du gestus cit., p. 132. Trad. it. nostra.

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[42] Ibidem.

[43] Jäger fa notare che un riferimento a Kafka è già presente, se pur non particolarmente significativo, nei rapporti degli esperimenti con l’hascisch datato 15 gennaio 1928: «Nella fase ‘satanica’ mi fu porto un libro di Kafka: Betrachtung. Lessi il titolo. Ma poi libro si trasformò subito in ciò che un libro nelle mani di un poeta diventa per uno scultore forse un po’ accademico cui è stata commissionata una statua di quel poeta. Esso fu da me immediatamente integrato nella struttura plastica della mia persona e, di conseguenza, soggiogato in me in modo molto più brutale e assoluto di quanto avrebbe potuto fare la più distruttiva delle critiche. Ma fu ancora diverso: era come se fuggissi lo spirito di Kafka, e ora, nel momento in cui esso mi sfiorava, io mi tramutavo in pietra come Dafne sfiorata da Apollo si trasforma in edera» (W. Benjamin, Sull’hascisch, testimonianze di J. Selz, trad. it. e nota di G. Backhaus, Torino, Einaudi, 1980, p. 53).

[44] Sul valore che i concetti di «attualità» e «attualizzazione» assumono nel discorso benjaminiano Campi scrive: «L’attualizzazione viene concepita da Benjamin come il principio costruttivo che, mancante nello storicismo, è invece peculiare del metodo materialistico dialettico» (R. Campi, Felicità e storia. Osservazioni in margine all’utopia gnoseologica di Walter Benjamin, in R. Campi, A. Cartoni (et al.), Circolazioni del discontinuo. Proust, Battaille, Benjamin e altri, premessa di P. Bagni, Firenze, Alinea, 1992, pp. 211-212). Per alcuni interessanti spunti sul concetto benjaminiano di «costruzione» cfr. R. Luperini, Costruzione di una «costruzione»: il Baudelaire di Benjamin, il moderno, l’allegoria, «Allegoria», 3 (1989), pp. 7-35, ora anche in R. Luperini, L’allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp. 85-100.

[45] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, trad. it. cit., pp. 25-26.

[46] Riflettendo sull’accento che Jäger pone su questo aspetto della critica e della riflessione estetica benjaminiana, vengono in mente le parole, per certi versi vicine rispetto all’intenzione interpretativa  (anche se molto lontane rispetto al contesto teorico), che Formaggio utilizza nelle ultime battute del suo saggio su Picasso: «Qui come nella gran parte dell’opera più viva di Picasso, il gesto segnico è fondamentalmente metaforico, cioè essenzialmente ed icasticamente artistico [...] ‘parlano’ le opere di Picasso non per discorso, ma perché v’è una lingua intuitiva e corporea del tempo per ogni tempo» (D. Formaggio, I giorni dell’arte, Milano, Angeli, 1991, pp. 93-94).

[47] L. Jäger, Primat du gestus cit., p. 138. Trad. it. nostra.

[48] In una pagina della sua tesi di dottorato Benjamin scrive: «La grande critica non deve, infatti, come generalmente si pensa, insegnare attraverso l’esposizione storica o educare attraverso i confronti, bensì conoscere attraverso lo sprofondamento. Essa deve rendere conto della verità dell’opera, quel conto che l’arte, non meno della filosofia, richiede» (W. Benjamin, Il concetto di critica del romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, a cura di G. Agamben, trad. it. C. Colaiacomo, R. Solmi, A. Marietti Solmi, A. Moscati, G.Agamben, Torino, Einaudi, 1982, p. 174).