Tav e informazione Analisi della rappresentazione mediatica della Tav
Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana
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1
LA RAPPRESENTAZIONE MEDIATICA
DELL’AFRICA SUBSAHARIANA
2
Alla mia Famiglia,
per la sua insostituibile sicurezza
Al Centro Studi Opifice
per avermi donato gli strumenti del Pensiero
A Elisabetta
per il suo amore e il suo sostegno incondizionato
A Tatiana
per aver affrontato con me questo viaggio
A Me
perchè un po’me lo merito
3
Ed è tempo finalmente di sostituire alla domanda kantiana
<come sono possibili giudizi sintetici a priori?>> un’altra domanda:
<<perché è necessaria la fede in tali giudizi?>> è tempo, cioè, di comprendere,
che tali giudizi debbono essere creduti veri allo scopo di conservare gli esseri
della nostra specie;per cui naturalmente potrebbero essere anche falsi giudizi!
O, detto più chiaramente, duramente e definitivamente:
giudizi sintetici a priori non dovrebbero affatto <<essere possibili>>;
non ne abbiamo alcun diritto
Friedrich W. Nietzsche
4
1 ::.. Introduzione
Lo scopo del seguente lavoro è un’analisi della
rappresentazione mediatica, con specifica attenzione al caso del
continente africano ed al suo versante subsahariano. Per
rappresentazione mediatica si intende qui l’insieme di teorie,
tecniche, modelli ma soprattutto procedure che sono sottese alla
diffusione di una determinata immagine di un evento, una
realtà sociale o geografica attraverso i mezzi di comunicazione
di massa. Nella fattispecie, i media oggetto dell’analisi sono
costituiti principalmente (ma non in esclusiva) da
quotidiani,telegiornali, riviste ed illustrazioni
propagandistiche/pubblicitarie provenienti dall’intero
panorama del mondo occidentale, ovvero il blocco geografico
europeo e statunitense. Si prenderà dunque in considerazione
lo studio sistematico dei meccanismi comunicativi (consapevoli
e indiretti) secondo tecniche e modelli generali, per poi
rivolgere l’attenzione al continente africano e più specificamente
alla zona sub-sahariana. Il fine ultimo dell’indagine sarà quello
stilare un quadro completo dell’immaginario comune di una
realtà sociale/geografica (in tal caso, quello che è comunemente
5
indicato come Terzo Mondo) e le connessioni dello stesso con la
sua rappresentazione proveniente dai mezzi di informazione.
A tal fine l’analisi dovrà procedere per gradi congiunti,
considerando una pluralità progressiva di fattori. Il primo
capitolo esaminerà le radici primarie della “costruzione
dell’immaginario”, ovvero il sedimento storico e il substrato
culturale dal quale si origina il materiale per uno o più
“discorsi” ricorrenti sull’Africa. Questa operazione avverrà
esaminando il periodo del colonialismo classico di fine ‘800 e
inizio ‘900, con riferimenti esemplificativi alla stampa europea
di carattere informativo e popolare, alle illustrazioni sui
quotidiani ed alla conseguente creazione di immagini-tipo, alle
forme di comunicazione politica e propagandistica dell’epoca.
Il secondo capitolo porrà in seguito le basi per conoscere le
ragioni odierne di una data rappresentazione e le teorie generali
di azione mediatica più specificamente proprie dei tempi
attuali; si partirà con un’analisi del fenomeno del divario
digitale, ovvero la disparità nel possesso e nella diffusione di
tecnologie tra Nord e Sud del mondo. Secondo alcuni, tale
fenomeno fungerebbe da ostacolo primo per la produzione e
diffusione di notizie dai lidi africani verso il resto della società
globale. In seguito verrà analizzato il rapporto di
interconnessione tra politica, economia ed informazione. Una
delle ipotesi più accreditate e verisimili è infatti quella secondo
cui a squilibri di rappresentazione (o più semplicemente ad un
dato carattere della stessa) corrispondano paralleli squilibri di
potere. In altri termini, i rapporti di forza geopolitici
condizionerebbero di conseguenza la costruzione (o la non-
costruzione) di una determinata immagine per ragioni di
interessi contingenti. Saranno poi evidenziati i meccanismi
inconsapevoli, le operazioni automatiche di gestione del
materiale informativo da diffondere: in altri termini,i criteri
6
classici di notiziabilità, ovvero le routines implicite ed esplicite
sottese alla selezione dei valori-notizia – quelli che nel canone
giornalistico occidentale determinano la priorità effettiva della
notizia stessa - e di creazione del cosiddetto agenda setting,
ovvero quell’ensemble di dinamiche che guidano la scelta – per
tipologia, utilità e caratteristiche- dei costituenti quotidiani da
parte di una testata informativa. Il citato ensemble non si esime
ovviamente dallo svolgere un ruolo anche in relazione al
contesto geografico preso in analisi.
Nell’intero capitolo saranno presenti riferimenti ricorrenti al
contesto africano ed alla sua presenza (o come si vedrà, assenza)
nello scenario mediatico, attraverso il ricorso a fonti primarie e
secondarie.
Il successivo capitolo sarà rivolto allo studio dei flussi: tramite
dati, cifre e statistiche si cercherà di mostrare in che percentuale
i media – si ricorda, in prevalenza quotidiani e telegiornali –
riportano notizie e contenuti inerenti alla realtà africana,
presentandone tipologia e modalità di apparizione.
Necessariamente si ritorneranno ad esaminare seppur in breve i
già citati criteri di notiziabilità che regolano presumibilmente i
suddetti flussi informativi.
Il quarto capitolo sarà invece quello più specificamente dedicato
all’immaginario collettivo sull’Africa, derivato dalla sistematica
“rappresentazione” del continente attraverso le procedure
esaminate nei precedenti capitoli, dagli elementi di cultura
popolare ormai sedimentati ed accumulati, dalle ragioni che ad
una data rappresentazione sono sottese.
Può evincersi un cospicuo numero di “discorsi” ricorrenti e
stereotipi tipici, quasi come immagini di repertorio, sull’Africa,
sull’Africano e sull’africanità in termini generali, a partire da
schemi semplificanti come quello principale secondo cui per
Africa si intende un continuum indifferenziato ed addirittura
7
approssimativo sul piano della sua collocazione geografica. Tali
discorsi tipici, come già detto, derivano in parte dalle routines e
dalle distorsioni inconsapevoli, ideologiche o tecniche, in parte
da altri fattori volontari e mirati. Queste procedure sono
ovviamente interconnesse e non sempre demarcabili con facilità.
L’ultimo capitolo avrà un carattere molto specifico ed a se
stante, in quanto esaminerà come gli stessi preconcetti e le stesse
procedure si riflettano attraverso un caso concreto di carattere
comunicativo anche se non prettamente giornalistico:
l’interpretazione dell’arte figurativa africana sulla base del testo
“I primitivi traditi” di Sally Price, che mostra in maniera
lampante come un certo immaginario acquisito possa costituire
la forma mentis per la produzione di “giudizi sintetici a priori”
su una realtà altra, e quindi sulla sua rappresentazione.
In linea di sintesi, si possono presentare le seguenti tesi:
Le notizie e le immagini che riguardano il continente, da un
punto di vista prettamente numerico, non sono numerose e
sufficientemente abbondanti.
Il divario digitale (o digital divide, la diffusione ancora
limitata di tecnologia e sorgenti d’informazione primarie ed
endogene nei paesi definiti “in “via di sviluppo”) funge
probabilmente da primo filtro, come ostacolo a priori nella
produzione e irradiazione dell’informazione in primo luogo per
opera degli stessi operatori locali. Ovviamente, tale tesi
meriterebbe ulteriori considerazione sulle ragioni
antropologiche da una parte (il perché tali popolazioni non
abbiano seguito un percorso comune ad altre realtà geografiche
nel percorso tecnologico), geopolitiche e socio economiche
dall’altra (se le condizioni di questa “mancanza” derivino dai
già menzionati fattori contingenti – ostacoli, avvenimenti storici
condizionanti - e/o rapporti di forza).
8
Quando presenti, le notizie riguardano eventi maggiormente
spettacolarizzabili (la cosiddetta capacità di intrattenimento) e
comunque rispondenti ai generici criteri di notiziabilità e
agenda setting. In questa indagine ci si atterrà alle felici
intuizioni di M.Wolf nella sua definizione di criteri relativi al
prodotto, al mezzo ed al contenuto.
Ancora, la presenza (e la conseguente tipologia) o assenza di
materiale informativo sullo scenario africano risponde ad
interessi strategici o commerciali. Strategici dal versante
geopolitico, quando la diffusione di una data immagine giova a
manovre imminenti di politica estera, o più semplicemente al
mantenimento dello status quo; commerciali dal punto di vista
della pubblicità, con l’utilizzo di categorie pre-esistenti
nell’immaginario popolare, oppure per ragioni di audience e
vendibilità dell’informazione-merce, ed infine per le
connessioni che la sfera economica nutre al giorno d’oggi con
quella politica, a dire il vero da essa soppiantata.
Il materiale che alimenta (ed è a sua volta auto-alimentato)
l’immaginario africano è di carattere umanitario, paternalistico e
dal taglio assistenziale, in ogni caso di stampo progressista. Il
carattere umanitario/paternalista si evince nel continuo
richiamo ai diritti umani in riferimento alle situazioni di guerre,
catastrofi e avvenimenti luttuosi o riprovevoli all’occhio
occidentale; le immagini di repertorio assecondano tale carattere
ed è continuo il riferimento al ruolo delle Ong e dei paesi
“sviluppati” come strumenti di assistenza per lo “sviluppo” del
continente africano. Il cosiddetto “afro-pessimismo”, ovvero
l’incapacità ritenuta intrinseca alle popolazioni locali di
assurgere ad uno status differente da quello catastrofico e di
9
eterna guerriglia, permea i discorsi giornalistici/culturali che
puntano sul ruolo europeo o statunitense. Quand’anche questa
propensione assistenzialista non sia così nettamente spiccata,
ed anzi criticata apertamente, assume in ogni caso una
prospettiva progressista, che induce a ipotizzare in ogni caso
una “via africana” alla modernità, presentata come fatto
inevitabile nelle forme e negli approdi tipici occidentali. Una
simile rappresentazione affonda le radici in una sorta di tardo-
evoluzionismo culturale ancora molto radicato, secondo cui una
medesima linea evolutiva debba essere attraversata in ogni
tempo e luogo dalle popolazioni della terra, e laddove questo
non sia avvenuto, vi devono essere state ragioni contingenti a
frenare lo “sviluppo” (es. colonialismo, ingerenza di
superpotenze in affari interni, rapporti geopolitica, guerre
civili), o addirittura ragioni antropologiche. L’africano come
fratello minore dell’umanità, eterno bambino e buon (o cattivo)
selvaggio; schemi interpretativi classici che fanno da faro ad una
catena di rappresentazioni reiterate.
In questo contesto, è perennemente rifuggita una lettura
veramente endogena dei fenomeni e degli eventi, secondo un
approccio relativista: approccio – secondo chi scrive – ben più
consono per l’analisi e la rappresentazione giornalistica
profonda di una realtà complessa come quella dell’Africa
subsahariana.
In chiusura del lavoro, sarà presente una breve somma di
conclusioni dell’analisi, con alcune prospettive e possibilità per
una rappresentazione alternativa del continente.
10
2 ::.. L’immagine coloniale
Così come accade anche per altri fenomeni storici e culturali,
anche per il caso Africano appare evidente come certe idee e
stereotipi siano frutto non esclusivo di una contingenza
temporale attuale o di meccanismi di deformazione mediatica
puramente “tecnici”, quanto piuttosto di un lungo processo di
sedimentazione nella coscienza comune, ampiamente condiviso
in maniera trasversale in tutti i settori della cultura politica e
popolare di un paese. In altri termini, la costruzione
dell’immaginario intorno ad una categoria di persone o ad una
realtà sociale/geografica avviene nel corso degli anni attraverso
una serie di fonti che in maniera reiterata alimentano
un’impalcatura di concetti.
2.1 Le premesse storiche e culturali
Si tratta ad esempio del caso del razzismo, che come ricorda
Daniele Mezzana, è “impossibile confinare sbrigativamente (…) a
una sorta di parentesi di irrazionalità nella storia dell'occidente, con
qualche precursore (Gobineau ed altri) e una "esplosione" negli anni
11
'30 e '40 del secolo scorso. 1“: abbiamo in effetti a che fare in primo
luogo con una teoria scientifica errata2, approvata e consolidata
fin dagli insospettabili pensatori dei Lumi. Marco Marsilio, nel
suo libro “Razzismo, un’origine illuminista”, descrive con
dovizia di particolari e citazioni quando questo fenomeno abbia
padri autorevoli e Gianni Scipione Rossi 3ricorda “che il
razzismo, nelle sue varie declinazioni, è un prodotto specifico della
modernità (…)Nonostante siano numerosi – a cominciare dal classico
Mosse de Il razzismo in Europa – gli studi che chiariscono come il
razzismo, con la sua subordinata antisemita, non sia purtroppo frutto
del parto estemporaneo della Germania hitleriana, questa
consapevolezza è tutt’altro che diffusa. Prevale la convinzione che –
senza l’impazzimento tedesco degli anni Trenta e Quaranta del secolo
scorso – la storia dell’uomo avrebbe continuato tranquillamente a
procedere lungo i sentieri luminosi tracciati dai philosophes e dal
positivismo, verso un mondo in cui il bene – come categoria filosofica –
è progressivamente destinato a prevalere sul male.” Per non dire
degli angoli facciali, del prognatismo, della craniometria, del
poligenismo e del determinismo biologico, che pretendeva
legare indissolubilmente la forma umana con le qualità
intellettive e morali dell’uomo. Parametri ed interpretazioni,
quelle del pregiudizio razziale, che vanno ben oltre la possibilità
di una ferrea categorizzazione negli schemi della politica o della
stretta contingenza storica.
Le riflessioni sopra esposte non possono prescindere però da
una dato basilare, ovvero l’impatto profondo che la scuola
antropologica evoluzionista ha esercitato nell’800 in tutti i livelli
del pensiero umano, da quello scientifico a quello popolare.
1 Daniele Mezzana in “Razzismo Illuminato”, http://immagineafrica.blog.tiscali.it2 Alain De Benoist e Charles Champetier, “La Nuova Destra del 2000”, in Diorama Letterario n°229-230 3 Razzismo. Il buio della ragione nel secolo dei lumi, Gianni Scipione Rossi ne “Il Riformista”, 19 ottobre 2005
12
Non è errato affermare infatti che nessuna branca
dell’antropologia culturale è riuscita a diffondersi a macchia
d’olio nelle coscienze quanto quella evoluzionista, assurta a
modus interpretandi generico, ben al di là del suo mero
carattere scientifico, per di più erroneo.
Secondo tale ottica, la “cultura umana” sarebbe unica,
sviluppata nel tempo, seguendo presso tutti i popoli della terra
la stessa sequenza di sviluppo, divisa per stadi di carattere
psichico in primo grado, e conseguentemente
scientifico/tecnologico e culturale. Dunque i vari popoli
percorrerebbero nel loro cammino evolutivo una sequenza di
stadi culturali fissi, che li dovrà condurre - in un tempo
differenziato ma inevitabile - dalla selvatichezza originaria alla
civiltà, quasi come a voler ipotizzare un “fine implicito” della
storia, il che ne sottintende una visione metafisica, messianica.
Le differenze culturali riscontrabili sarebbero dovute ai diversi
stadi raggiunti dalle società nel loro cammino di sviluppo. Le
società primitive attuali in questo scenario rappresentano uno
stadio che le società occidentali hanno attraversato in un
lontano periodo, una sorta di archivio vivente: la teoria dei
fratelli minori dell’umanità. Un ensemble di idee per nulla
dissimile a ragionamenti diffusi anche nei tempi attuali, dove la
discutibile teoria dello scontro di civiltà4 del politologo Samuel
Huntington è uno schema acquisito dall’opinione pubblica, con
l’aggravante di utilizzare parametri estremamente banalizzanti
nella definizione dello stesso concetto di civiltà, in tutto e per
tutto simili agli stereotipi evoluzionisti. In tal senso questa
corrente antropologica, benché ufficialmente abbia visto i suoi
epigoni con il termine della seconda guerra mondiale, è ancora
subdolamente diffusa e approvata dall’immaginario
comune.Per meglio chiarire come questo concetto abbia 4 Samuel Huntington, “Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”, Garzanti 2000
13
condotto agevolmente –da un punto di vista culturale- al
colonialismo, - e come nuovamente ci si trovi di fronte a
procedure affini per il neocolonialismo di stampo americano-
occidentalista - si riportano qui le parole di Fabietti5:
“La fiducia nel progresso materiale e sociale costituì il quadro
ideologico entro il quale venne organizzandosi il lavoro teorico degli
antropologi evoluzionisti. Per questi ultimi quello di progresso era un
concetto sintetico per mezzo del quale diventava possibile esprimere
contemporaneamente le idee di cumulatività e di continuità culturale.
La convinzione dell’esistenza di un progresso nella storia dell’uomo
deriva essenzialmente dalla considerazione della società industriale di
metà Ottocento come di quella società che si trovava al più alto stadio
di una evoluzione culturale di natura cumulativa. L’eccezionale
incremento produttivo di cui le società europee, e soprattutto quella
inglese, stavano sperimentando gli effetti da qualche decennio divenne
la chiave di lettura della storia passata: le leggi che governavano
l’incremento della produzione materiale ed intellettuale della società
presente dovevano essere le stesse che dapprima lentamente, poi via via
sempre più rapidamente, avevano determinato lo sviluppo delle società
passate e quindi il passaggio da uno stadio culturale inferiore ad uno
stadio superiore”.
2.2 Imperialismo e colonialismo: la comunicazione e la
propaganda
Da un punto di vista culturale, si comprende come sia
necessario che certi assiomi siano condivisi per generare delle
conseguenze effettive in sede di decisione politica. Di più, sono
necessari per motivare effettivamente le azioni agli occhi
dell’opinione pubblica. Il meccanismo della formazione del
consenso non disconosce certamente i principi della psicologia
5 Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 1991 pag.12
14
delle masse, e come avviene oggi tramite il massiccio
bombardamento mediatico, la preparazione di un evento segue
alla genesi di uno stato mentale, un humus giustificazionista per
agire in discesa.
Come afferma Simone Olla6, “Preparare l'opinione pubblica ad un
evento significa prepararla alla guerra oppure alla restrizione delle
libertà individuali oppure al cambio di moneta. In tutti i casi sarà un
processo unidirezionale rivestito da un bene superiore: il bene della
collettività. Preparare l'opinione pubblica ad uno stato mentale
significa prepararla alla paura oppure alla sicurezza oppure alla
tranquillità. Evento e stato mentale corrono su binari paralleli, si
completano e si giustificano vicendevolmente”; in questo senso le
élites governative, come si approfondirà nei capitoli successivi,
diffondono in maniera reiterata una immagine dei luoghi
conformemente alle intenzioni ed equilibri geopolitici ed alle
esigenze di politica estera. Questo è il caso in cui talune
convinzioni culturali (come quelle evoluzioniste) non siano più
in realtà totalmente approvate dalle élites, ma riprese
utilitaristicamente facendo leva sulla predominanza delle stesse
nell’immaginario delle masse.
Trasformare l’imperialismo in una causa popolare e generare
interpretazioni ricorrenti del’Africano-tipo tramite gli strumenti
di comunicazione e propaganda: questi i dettami del
colonialismo di fine XIX secolo e del primo XX secolo. Come si
avrà modo di notare nelle successive riflessioni, i paradigmi
allora creati (a loro volta abbondantemente nutriti dagli umori
evoluzionisti) si sono aggiunti alla stratificazione dell’Africa
immaginaria e sono rintracciabili ancora oggi.
6 Simone Olla, “Ecologia e sviluppo, un binomio insostenibile”, www.opifice.it
15
Secondo le informazioni riportate dal sociologo olandese Jan
Nederveen Pieterse7, durante il diciannovesimo secolo
l’orientamento generale dell’opinione pubblica europea era
ancora anticolonialista. Un’implicita idea di superiorità era ad
ogni modo diffusa, in quanto lo sfruttamento commerciale
dell’Africa - tramite l’ingerenza dei mercanti europei nelle
questioni di monopolio – veniva considerato giustificabile. Il
mutamento repentino dello scenario e delle esigenze politiche
sul finire del secolo medesimo generò però un progressivo e
rapido cambiamento su questa materia. L’esigenza di rendere
“popolari” nazionalismo ed imperialismo dette il la ad una
propaganda patriottica di massa. Una teoria comune e piuttosto
accreditata è quella dell’esigenza, da parte delle élites politiche,
di neutralizzare i nascenti conflitti di classe tramite il ricorso ad
una solidarietà nazionale, e i movimenti imperialisti erano
perfettamente utili ad un simile scopo. Non è questa la sede
adatta per analizzare, da una prospettiva prettamente storica, le
ragioni dei fenomeni che interessarono il periodo a cavallo tra
l’Ottocento e il Novecento, quanto è interessante analizzare una
emblematica carrellata di idee-tipo (ora derivate, ora
appositamente edificate) sulle realtà dell’attuale mondo
africano, diffuse nel periodo in questione attraverso gli
strumenti della letteratura, della satira e dell’humor, della
stampa, dei materiali pubblicitari, propagandistici e
iconografici.
Come riporta lo stesso Pieterse, la presenza sulla stampa dei
conflitti coloniali contribuiva al prestigio nazionale,
specialmente in contrasto con l’ascesa della stesso tipo delle
potenze europee rivali. In Francia ed in Inghilterra, ad esempio,
il primo approccio della stampa nei confronti delle guerre
coloniali si esplica attraverso due tipologie di riviste: quelle 7 J.N Pieterse, White on Black: Images of Africa and blacks in western popular culture, 1992
16
prettamente di informazione, come l”Illustrated London News”
nel paese britannico, ed altre di carattere satirico, come
“Punch”, “Judy” o “Fun”. Per la Francia citiamo “Le Rire”,
“Pêle Mêle”, “L’Assiette au Beurre”; in Germania, “Lustige
Blätter” e “Simplicissimus”.
Le prime, quelle di tipologia informativa, prediligevano l’invio
di speciali corrispondenti alle cosiddette piccole guerre. La
rappresentazione dei combattenti era sempre eroica ed
iperbolica, in modo tale che assieme all’intento di cementare la
retorica di orgoglio nazionalista, la vicenda militare venisse
percepita comunque come una forma di spettacolo, in virtù
anche della distanza geografica dei luoghi interessati. La stampa
satirica, che per ragioni economiche non ricorreva all’uso di
inviati, aveva come oggetto di rappresentazione la forma della
caricatura, spesso per mezzo di editoriali illustrati. Tra i primi
stereotipi rintracciabili, ne ritroviamo alcuni proprio attraverso
queste illustrazioni. L’immagine di fondo dell’indigeno africano
è quella di un reale nemico. La necessità di generare un nemico
metafisico, per dirla con Hannah Arendt, trova corrispondenza
anche nella sua rappresentazione estetica. In altre parti della
nostra analisi tratteremo dello stereotipo del buon selvaggio, e
della “semplicità” del negro intesa come purezza, status
incontaminato di una fase precedente di quella umanità ormai
civilizzata. E sebbene l’indigeno combatte, in accordo con
questa visione mantiene il suo alone di purezza ed acquista la
parvenza di un guerriero nobile. Con queste illustrazioni invece
l’aspetto truce e brutale del combattente rovescia
completamente il senso – da positivo a negativo – delle
medesime qualità ad esso attribuite.
Per utilizzare un’espressione dello stesso Pieterse, queste
pratiche passano sotto i meccanismi della “psicologia
dell’antagonismo”: ed è emblematico il trattamento riservato
17
alla figura del re Zulu Cetshwayo KaMpande dalla stampa
informativa e satirica britannica. Nel luglio del 1879 gli eserciti
d’oltremanica infatti sferravano l’attacco decisivo agli Zulu
dopo pesanti perdite in precedenti battaglie, per mezzo del
primo utilizzo in assoluto delle mitragliatrici Gatling nel
continente, reputate dal Giornale dell’Esercito e della Marina
“particolarmente adatte a terrorizzare un nemico barbaro o semi-
civile”. La stampa popolare ovviamente non fece menzione del
fatto. Tale popolo era fatto – fino all’avvento della guerra Zulu
– oggetto di ammirazione proprio per le doti militari, la
disciplina organizzativa e le tattiche di guerra, ma proprio
durante il conflitto la sua rappresentazione mutò a tal punto dal
mostrare un rovesciamento delle caratteristiche di marzialità e
precisione in follia degenerata ed animalesca. Il re Cetshwayo, a
capo del suo popolo dal 1873, appariva nei ritratti e nelle
stampe con sembianze “normali” e piuttosto verisimili, per poi
esser dipinto fino alla data della vittoria britannica sotto spoglie
e sembianze invasate, furiose ed animalesche.
In condizioni di normalità l’immagine classica del guerriero
africano era comunque piuttosto modesta, con armi rozze ed
arcaiche (ad esempio come la figura pubblicitaria della Liebig)
nonostante fosse già presente una certa dotazione di armi da
fuoco.
L’aggressione è crudeltà, la nudità è primitivismo, incapacità di
controllo e repressione delle pulsioni, la semplicità –dei costumi
e delle armi- è inferiorità ed affinità animalesca. Da una parte il
nudo guerriero crudele, dall’altra il soldato, disciplinato da un
esercito ed impeccabile nella sua uniforme. Uno schema
familiare anche nei tempi attuali, quello della barbarie versus la
civiltà.
Come nel caso dei sacrifici umani: a far da preludio a nuove
campagne coloniali spesso veniva utilizzato tale pretesto, con
18
tanto di illustrazioni al dettaglio sui casi specifici. Il già citato
“The Illustrated London News”, nel novembre del 1874
pubblicò una sequenza di articoli riguardanti gli Ashanti,
descrivendo con minuzia di particolari rituali sinistri tenuti da
stregoni. Immagini e disegni mostravano immagini truci di
sacrifici come una donna legata ad un palo ed in procinto di
essere aggredita da un coccodrillo.
L’abolizione dei sacrifici umani fu il pretesto dell’invasione
britannica del Benin nel 1897, secondo lo slogan “Fermiamo la
barbarie africana! Aboliamo i sacrifici umani!8”. In questo senso si
spiega il ricorso del filosofo e giurista italiano Danilo Zolo al
monito di Proudhon, poi ripreso da Carl Schmitt, “chi dice
umanità cerca di ingannarti” quale chiave di lettura per la non
lontana guerra in Kosovo nel suo caso specifico9, ma valido
come concetto generico: dichiarare una guerra “umanitaria”
significa mettere in moto un diabolico meccanismo in base al
quale l'avversario viene relegato nella categoria dei “nemici
dell'umanità” e ogni atto di aggressione nei suoi confronti
diventa non solo lecito, ma addirittura moralmente obbligatorio.
Ed è ancora in questo ordine di pensiero che si inserisce una
stampa presentata dalla rivista francese “Le Rire” nel 1896. Vi è
la rappresentazione figurata dell’Europa come una giovane
donna addormentata, minacciata da un “incubo”, demone
maschio, come rappresentazione dell’Africa.
La didascalia integrale recita: “ Come un succube, l’Africa pesa sul
riposo dell’Europa. Uno dei numerose malesseri (ma forse il più
pesante) che ora gravano sul vecchio continente. Ogni potenza europea
ha qui il suo ostacolo o vespaio “. Sorvolando sull’ utilizzo
(probabilmente un errore) del termine “succube”, all’epoca
indicativo di un demone donna uso a rapporti sessuali con 8Claudia Gualtieri, cit.op “Chinweizu – L’occidente e gli altri” da http://www.club.it/culture/culture97/claudia.gualtieri97/indice-i.html9 Chi dice umanità, Zolo, Einaudi 2000
19
uomini addormentati, è interessante cogliere la singolarità di
questa rappresentazione. Se il continente è la vecchia Europa,
perché appare sotto le sembianze di una giovane donna?
Caratteristiche umane e femminili si oppongono dunque ad un
demone maschio; l’Europa da aggressore diviene vittima di
un’Africa truce e oscura, in uno scenario di preoccupazione per
le sorti del vecchio continente, prossimo a svanire in quanto
gravato di una pesante minaccia. Ancora una volta, si verifica il
capovolgimento strumentale del mondo: incolpare la vittima.
Il fenomeno generico che sottende un tale ragionamento è una
componente frequente della modernità: ovvero lo slittamento
della ragion politica dal piano del realismo a quello della morale
e dell’antropologia. Le elitès politiche improntano la
comunicazione pubblica – per generare i già menzionati stati
mentali – sul ricatto emotivo, appellandosi a categorie morali
acquisite, come la retorica attorno ai diritti umani. Ed è persino
plausibile che la stessa classe politica abbia utilizzato in via non
strumentale queste ragioni, o in altri termini, abbia realmente
creduto di agire spesso in nome di ragioni morali. Se
l’avversario è squalificato sul piano morale (ad esempio, per la
sua vera o presunta efferatezza o crudeltà) ne consegue, anche se
non necessariamente, una implicita squalifica “razzista”, sul
piano culturale ma anche antropologico.
Ed a riprova di come un ragionamento razzista fosse pregnante
anche in maniera esplicita, al di fuori della versione edulcorata
dell’umanitarismo e della provvidenza del benefattore
coloniale, si menziona qui la reazione europea in seguito al
dispiegamento di forze extra-europee nel continente.
Ci si riferisce alla pratica del reclutamento di Africani, già noto
dal XVI secolo da parte dei portoghesi in Angola. Ma con il
colonialismo classico, francesi, britannici, tedeschi ed anche
italiani (con l’utilizzo degli ascari eritrei) ricorrevano
20
all’inserimento, nelle fila degli eserciti, di soldati di origine
etnica. Quando nel 1871 giunsero a Monaco prigionieri di
guerra francesi, un quotidiano tedesco commentò che gli
africani, i turchi, gli zuavi e zefiri presenti fra di essi non erano
altro che <<armselige Burschen>> 10(miserabili) e che sarebbero
stati crudeli come bestie selvagge se avessero vinto ma, per
fortuna, la vittoria era stata dalla parte del popolo tedesco.
L’antropologo ed etnologo tedesco Leo Frobenius, benché noto
per la sua pionieristica opera di disvelamento della pluralità
africana ad un pubblico europeo ancora chiuso nel suo universo
culturale, in un opuscolo pubblicato nel periodo della prima
guerra mondiale (1916) dimostra come la medesima immagine
animalesca fosse diffusa anche a livello scientifico. L’opuscolo
ha come titolo “Der Völkerzirkus unserer Feinde11”, ovvero “Il
circo popolare dei nostri nemici”. Oggetto dello stesso sono i
soldati non europei impiegati dai nemici della Germania. Il John
Bull dello scrittore scozzese John Arbuthnot, figura emblematica
e rappresentativa dell’Inghilterra, viene qui rappresentato in
veste di domatore di popoli, e il tono generico dell’illustrazione
mantiene la metafora del circo e dell’addestramento dei popoli;
per dirla in modo più esplicito, gli extraeuropei vengono
presentati come animali addestrati. Frobenius annuncia l’inizio
dello spettacolo, costituito da una sequenza di fotografie di
combattenti non originari del luogo. Le didascalie hanno un
tono denigratorio, come ad esempio:
<<Francesi di colore in campo in una pausa della battaglia>>;
<<Inglesi bianchi e di colore durante un ballo dietro al fronte>>.
Nel 1920, in seguito all’utilizzo di soldati africani da parte dei
Francesi al Reno, il giornalista britannico E.D.Morel - figura
dell’umanitarismo progressista e già noto per la fondazione 10J.N Pieterse, White on Black: Images of Africa and blacks in western popular culture, Yale UP, 199211A. Bonche, Combattants d’outre-mer : la parole tirailléeDa Http:// asso.univ-lyon2.fr/ara/IMAGES/Lettres/Ara54.pdf
21
dell’Associazione per la Riforma del Congo, contro le crudeltà
nel paese africano – si fece portavoce di una campagna di
protesta nel suo paese. Egli affermava che “la razza africana è la
razza sessualmente più sviluppata. Questi coscritti vengono reclutati
nelle tribù ad uno stadio primitivo di sviluppo. Naturalmente, non
hanno con se le proprie donne. Sono sessualmente completamente
disinibiti e incontrollabili”. Ancora, H.W Massingham dalle
colonne del quotidiano liberale “The Nation” puntava il dito nei
confronti delle “sfilate” di soldati alloctoni nei “venerandi templi
del patriottismo dello Stato tedesco”, e cosa ancor più significativa,
si opponeva al “potere dei soldati semiselvaggi sulla cultura e il
civismo del Reno”.
2.3 Da selvaggi a sudditi: la nuova immagine
Con il termine dei conflitti e l’assestarsi della situazione
coloniale, la rappresentazione ostinata di un “nemico” non era
più necessaria. La nuova esigenza era dettata dalla psicologia
coloniale di superiorità ed inferiorità, quale inevitabile
strumento politico di controllo, sia dell’opinione pubblica, sia
delle grandi masse locali da parte di una minoranza straniera.
Da selvaggi a sudditi politici, questo dunque l’imperativo della
nuova mitologia. Il lato ostile e cruento si tramuta in
infantilismo ed impulsività. Gli africani come tabula rasa, veri e
propri “bambini” dell’umanità, impressionabili e bisognosi del
paternalismo ed dell’istruzione occidentale. Lo scrittore belga
P.Danco afferma che “una volta che il negro viene a contatto con
l’uomo bianco, perde il proprio carattere barbaro mantenendo soltanto
le qualità infantili degli abitanti della foresta12”. Dall’infantilismo e
l’ingenuità dell’indigeno consegue la sua inoperosità e la sua
“incapacità” di “sfruttamento” delle immense risorse locali,
12 P.Danco, Ook en ideaal, Brussel
22
donde il ruolo non solo didattico ma anche produttivo
dell’Uomo Bianco, ora al pieno della sua missione civilizzatrice.
Tra i documenti di comunicazione più efficaci ed immediati
allo scopo, le notissime cartoline propagandistiche coloniali, i
cinegiornali, le scatole dei prodotti alimentari, dove
all’indolenza africana (o al meglio delle ipotesi, l’ingenua
contemplazione dei bianchi) si contrappone l’industriosità
creatrice europea.
2.3.1 L’umorismo dell’occidentalizzazione
Secondo Pieterse, il sopravvento della missione civilizzatrice, a
questo punto ormai pienamente avviata, mal si sposa con
l’effettiva realtà coloniale (piuttosto autocratico e lungi dal
divenire “scuola di democrazia”) e con altre ideologie europee,
in particolare il razzismo13.
Il fondamentale interesse del colonizzatore – sembra banale
ricordarlo – era il profitto ed il potere, e la missione
civilizzatrice, seppur magari anche condivisa ed acquisita come
convinzione non solo popolare, ma anche della classe politica, si
svelò presto inconsistente. Permaneva l’immagine di un
africano inferiore non solo per status cronologico (il bambino
dell’umanità) ma per natura, intrinsecamente (e biologicamente)
non incline al progresso e a qualunque possibilità di
comprensione e accettazione di una pratica europea. Una
stampa su “Pêle Mêle” del 1913 riporta la seguente didascalia:
“il compressore stradale e le noci di cacao: ciò che prova che i negri
sono inclini al progresso è la celebre accoglienza riservata al primo
compressore stradale a Timbuctu”. Ed ancora, su “Le Rire” nel 1900
una vignetta con la didascalia “Le buone opere della civilizzazione”
mostra uomini africani in vesti eleganti e con cilindro affiancate
13 J.N.Pieterse, La parata dei vinti in “Società Africane”, AA.VV, Zelig 2005, pag.167
23
da una scimmia nella stessa versione. Il “Punch” 12 anni più
tardi deride gli Zulu che celebrano “il buon vecchio Natale
inglese” con sacrifici umani. E via discorrendo. Lo scenario è di
un generale scherno, per dirla con Pieterse, la messa in atto di
un “umorismo dell’occidentalizzazione”, dal quale consegue il
disprezzo reale per le popolazioni locali.
La missione civilizzatrice dunque fa i conti con il razzismo di
fondo? Questa tesi non è certamente convincente, ed è anzi
fallace. E’ una forma di razzismo non meno larvata persino
l’assistenzialismo umanitario dei tempi attuali, e si può quindi
ben comprendere come lo sia in maniera violenta qualsiasi
proposito di “civilizzazione” o “democratizzazione”, che
implica necessariamente una scala di riferimento tra un termine
inferiore e superiore.
E poco importa se questa differenza sia di carattere e biologico,
in quanto i fattori, per numerose ragioni, sono spesso
interconnessi e non facilmente scindibili. Se l’Africano è rimasto
il bambino dell’umanità, le ragioni all’epoca erano
intrinsecamente – e con tutta probabilità – addotte ad una causa
naturale. Non vi è dunque nessuna contraddizione tra il
razzismo e la civilizzazione. E come già affermato, la forma di
discriminazione più larvata è anche quella che prevede un
“progresso” necessario anche per il popolo africano. La vicenda
del colonialismo contiene dunque in nuce tutti i germi degli
stereotipi comunicativi e dell’immaginario che si ritroveranno
in tempi recenti, ed è dunque materiale imprescindibile per
indagare quel sedimento storico che rende così permanenti certe
categorie di rappresentazione.
24
2.4 Immagini coloniali dall’Italia
Una mostra di immagini dal titolo “Immagini e colonie”, curata
da Enrico Castelli, docente di antropologia visuale presso
l’Università di Perugia, fornisce ulteriori elementi di analisi per
valutare la genesi del pregiudizio; del resto, lo stesso Castelli
afferma che le ragioni di una tale mostra sono da ritrovarsi
proprio nella necessità di comprensione della permanenza
(soprattutto nell’immaginario dei giovani) di determinati
stereotipi sull’Africa ancora oggi14. Afferma Castelli:
“L’immaginario è il mito. Il mito della civilizzazione passa attraverso
lo sviluppo. Il mito dello sviluppo serve a tenere in piedi l’ipotesi
assolutamente fantascientifica secondo cui noi aiutiamo il Terzo
Mondo. In realtà, è quest’ultimo a permetterci di sostenere e
conservare il nostro tenore di vita e il nostro benessere”.
La psicologia della superiorità, e della dimostrazione della stessa in
primo luogo agli occhi delle masse, si mostra in particolar modo
nella rappresentazione fascista: la rivista del Touring, dalla
tiratura in 150.000 copie e quindi sotto gli occhi di milioni di
italiani, ritrae un italiano che guarda con altezzosità un africano
che cerca di calzare scarpe femminili su un piede decisamente
troppo grande per lo scopo. Questa rappresentazione appare un
anno dopo il conflitto italo-libico, dove gli ascari eritrei hanno
combattuto ed il loro valore è stato persino riconosciuto
pubblicamente dal re; ma la concezione dell’africano a quanto
pare non ha subito modifica.
Un’altra immagine paradigmatica è quella dove la bicicletta si
trasforma in motocicletta per le truppe d’assalto italiane e la
radio portata a spalle assume una forma gigantesca; un simbolo
eclatante dell’informazione e della conoscenza portata dalle
truppe italiane.
14 E.Castelli in “L’Africa in piedi in aiuto all’Occidente”, Atti del Convegno -. Ancona 2005
25
Ed ancora, viene descritta un’immagine relativa alla guerra di
Etiopia (1935-36). Emblematica innanzitutto la postura di
soggetti. Nell’immagine il bianco occupa sempre la parte
superiore e il nero quella inferiore, quella del mendicante, del
pezzente. Il soldato prende il pane e getta il fucile, perché il suo
re, Hailé Selassié, è responsabile della sua fame. Pur essendo
invero una figura piuttosto differente, Hailé Selassié viene
rappresentato sempre con i tratti stereotipati del feroce
Saladino.
Lo schema duale di superiorità-inferiorità è accompagnato
dunque dalla demonizzazione del soggetto, retrocesso a barbaro
quando rappresenti un nemico durante il conflitto.
Vi è un’immagine che mostra un membro di una tribù
dell’Eritrea con le corna. Nell’Africa italiana di Martini, il primo
governatore civile dell’Eritrea, si rintracciano rappresentazioni
di uomini con le corna durante in una cerimonia religiosa.
Anche nel Ferrario (citato da Castelli), un volume che parla
dell’Africa e del mondo alla fine dell’Ottocento, troviamo idoli
cornuti. Quali i motivi di questa insistenza del motivo delle
corna? Evidentemente perché per l’occhio europeo le corna
sono l’attributo del diavolo e la demonizzazione dell’alterità è un
tratto fondamentale della cultura occidentale.
Il meccanismo di decontestualizzazione invece si evince
da’immagine risalente al 1800. Un disegnatore ritrae delle
donne africane che danzano. Il disegno è ripreso spesso per la
sua efficacia e qualità. L’immagine ha come obiettivo
un’esibizione di libertà e sensualità espressa dai corpi
femminili. Ma sul finire dell’Ottocento essa ha assunto un
significato ben differente. Il nuovo scopo è mostrare dei corpi
femminili nudi in un tempo in cui in Italia tale scena è consueta
esclusivamente nelle case di tolleranza, ad uso e consumo
soprattutto dei militari. L’associazione è già di per sé negativa,
26
ed una nuova didascalia ne incrementa il carattere denigratorio:
Donne abissine. Quindi non solo alcune donne prostitute, ma
tutte le donne dell’Abissinia e, per sovra-estensione, dell’Africa.
Ancora, la medesima immagine verrà corredata da questa
didascalia: “Ragazze sudabissine.”
27
3 ::.. Le ragioni attuali di una rappresentazione
3.1 Il Global Digital Divide
Si afferma da più parti che l’ostacolo primo alla diffusione di
notizie sul continente africano consista proprio nel divario
esistente tra i paesi cosiddetti in via di sviluppo e il Nord del
mondo riguardo alle tecnologie e mezzi di comunicazione di
massa. In termini specifici, la questione è quella del global digital
divide, che darebbe luogo, per usare un espressione di
Morawsky, ad un corrispettivo digital apartheid. La tesi di fondo
è che l’assenza di media realmente endogeni ed autosufficienti
nell’Africa Subsahariana funga da grande limite non solo alla
ricezione di informazione, ma anche alla sua produzione e
corrispettiva irradiazione per via internazionale. Non vi è una
vera e propria fonte informativa africana, che possa presentare
(o rappresentare) l’immagine dell’Africa secondo l’Africa.
28
3.1.1 Globalizzazione: prospettive e problemi
In realtà, con le dinamiche della globalizzazione, molti teorici
hanno espresso pareri e formulato constatazioni ottimistiche.
Sebbene – e lo si vedrà poco di seguito – la diffusione, in termini
numerici, dei mezzi tecnici e degli apparecchi sia ancora
limitata, il progressivo processo globale avrebbe già portato
numerosi frutti positivi ed altri è destinano a portarne negli
anni a venire.
Per quanto riguarda il mezzo televisivo, l’opinione prevalente è
che la sua diffusione planetaria promuova (ed abbia promosso)
un notevole incremento della competenza linguistica,
dell’informazione e della cultura generale. Tale fenomeno
andrebbe a vantaggio soprattutto dei popoli geograficamente
periferici e delle minoranze culturali in varie forme emarginate,
esattamente come il caso in questione. La ricezione televisiva in
tutto il globo darebbe vita ad una coscienza unitaria dei
problemi dell’umanità, alimentando sentimenti di solidarietà
trans-nazionale. Il dialogo interculturale che da questa ricezione
globale deriverebbe, avrebbe come effetto la creazione di una
koinè culturale mondiale, utile per ridurre i fenomeni di
speciazione ed attrito in seguito alla differenza culturale, e
dunque per creare le premesse di una naturale armonizzazione
dei conflitti. Il noto sociologo Marshall McLuhan del resto aveva
già ipotizzano una opinione pubblica mondiale, conseguenza
dell’intimità civile tra tutti gli appartenenti ad una global civil
society. Queste tesi sono condivise ed a loro modo formulate da
pensatori del calibro di Jurgen Habermas ed Ulrich Beck.
Charles Cooley, Robert E.Park, George Gallup e Harold
Lasswell formulavano inoltre, già nella prima metà del
Novecento, delle ipotesi sulle connessioni tra una
comunicazione interattiva mondiale e la partecipazione
29
democratica. Nel caso dell’Africa, questo sarebbe ancora più
degno di nota in quanto la progressiva diffusione di tecnologia
aprirebbe le porte a forme di consultazione permanente
completamente inedite: la cosiddetta instant referendum
democracy.
Vi è però chi è decisamente più cauto: per dirla con Danilo
Zolo15, i dubbi riguardano anzitutto la capacità del mezzo
televisivo come tale di favorire una comunicazione trasparente,
simmetrica e interattiva tra soggetti emittenti e soggetti
riceventi. Ma soprattutto sono inerenti alla sua idoneità a
promuovere la formazione di una sfera pubblica che sia
sottratta all’influenza delle corporations transnazionali, quasi
totalmente insediate negli Stati Uniti e tutte sotto l’egida
dell’OCSE, che monopolizzano l’emittenza televisiva: fra queste
AOL-Time Warner, Disney, Bertelsmann, Viacom, Tele
Communications Incorporated, News Corporation, Sony, Fox.
La televisione, è stata introdotta in Africa tra gli anni Sessanta e
Settanta. Come riporta Berruti, da allora poco è cambiato,
poiché i sistemi televisivi sono rimasti in larga misura sotto il
controllo statale, sebbene il vento della mondializzazione soffi
sempre più forte sotto le insegne della Bbc, di Canal Plus e della
Cnn. La dipendenza africana dai paesi occidentali è
particolarmente evidente: a livello di conoscenze e tecnologie, e
nell’importazione di programmi europei o americani.
E’ cosa nota che l’effetto e l’obbiettivo dell’attività delle
corporazioni multinazionali, le cui case madri si trovano nei più
avanzati paesi capitalistici – e in particolare negli Stati Uniti – è
di promuovere una sorta di integrazione interessata, che unisce
fra loro società dei paesi avanzati e soltanto le elitès
governative/statali dei paesi poveri.
15 Danilo Zolo, Globalizzazione, una mappa dei problemi, Laterza 2004
30
La comunicazione occidentale, pubblicitaria e non, diffonde in
tutto il mondo - e dunque anche in Africa, che tali format
importa e che a determinate fonti si riferisce – messaggi
simbolici fortemente suggestivi che esaltano il consumo, lo
spettacolo, la competizione, il successo e incrementano in
generale, le spinte all’acquisizione. Inutile sottolineare, dal
versante culturale, come questi valori siano fondamentalmente
individualistici, e contraddicano non solo l’idea sopraccitata di
una sfera pubblica globale, ma gli stessi elementi costitutivi del
sentire tradizionale africano, con gli annessi equilibri di legame
sociale. Non a caso per Robert Fortner la comunicazione
televisiva, già nello scenario occidentale, è all’origine
dell’atomizzazione sociale.
La consuetudine dei giornalisti africani è inoltre di fare un
eccessivo riferimento alle fonti ufficiali e alle agenzie di stampa
occidentali. La conseguenza è che per paradosso l’Africa finisce
per dipingere sé stessa attraverso gli occhi degli stranieri.
Ancora, i flussi comunicativi che in tal modo hanno origine
pressoché puntuale dai paesi più industrializzati, hanno verso
unidirezionale verso il resto del modo, ed effetti drastici di
riduzione proprio della complessità linguistica e culturale, di
appiattimento degli universi simbolici e di omologazione degli
stili di vita.
Si potrebbero dunque azzardare alcune affermazioni: in termini
numerici, come di seguito, i mezzi sono ancora limitati
nonostante i trends crescenti in alcune zone e le previsioni più o
meno ottimistiche. Questi pochi mezzi sono da una parte legati
a doppio filo con multinazionali, finanziatori e corporazioni
occidentali, dai quali derivano importazioni di formats e
programmi, indicazioni e direttive sulle testate e sui palinsesti, e
in generale la gestione concreta dei flussi. Dall’altra gli stessi
31
media sono gestiti da elitès (di carattere statale/post-coloniale o
privato) conniventi alle stesse corporazioni occidentali.
In questo senso pare evidente come nella sua ragion ultima il
flusso informativo sia sempre unidirezionale (dal resto del
mondo all’Africa), non vi sia un reale feedback ma una continua
ricezione a senso unico.
Ed è in questo ordine di idee che si inseriscono i pessimisti della
globalizzazione, come Ulf Hannertz, Serge Latouche e Jean
Baudrillard.
La penetrazione occidentale in Africa, attraverso mezzi e
capitali della sfera della comunicazione – e la conseguente
instaurazione in loco di televisioni, radio, testate – non avrebbe
come naturali frutti gli effetti positivi precedentemente descritti,
ovvero la genesi delle condizioni per una società globale e
multipolare dove anche l’Africa svolgerebbe la sua parte.
Secondo Hannertz16, il fenomeno più diffuso e significativo
sarebbe quello della “creolizzazione, che colpisce una grande
quantità di popolazioni indigene, culturalmente deboli o a lungo
sottoposte all’egemonia di una potenza coloniale. La cultura autoctona
viene erosa, corrotta e sopraffatta, non solo sul terreno linguistico,
dall’adozione forzata di un modello straniero, quello tecnico scientifico
industriale esportato dai paesi occidentali”. L’economista e
sociologo Serge Latouche 17inoltre afferma che “sull’onda della
penetrazione del mercato in ogni angolo della terra, l’Occidente opera
come una megamacchina tecnico-scientifica che pur essendo il prodotto
di una specifica civiltà storica non può più essere riferita ad un'unica
area geopolitica. E’un dispositivo impersonale che a tutte le latitudini,
e non solo nel cosiddetto Terzo Mondo, strappa gli uomini dalla loro
terra e dai loro legami sociali e li scaraventa nel deserto
dell’urbanizzazione metropolitana”.
16 U.Hannertz, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato, Il Mulino 199817 Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri 1992
32
Di contro alla retorica della cultura globale, vi è dunque uno dei
processi più evidenti della occidentalizzazione (dunque anche
mediatica) del mondo, e l’omogeneizzazione culturale senza
integrazione: l’antagonismo tra le cittadinanze di serie A
dell’Occidente e le aspettative di grandi masse di soggetti
appartenenti ad aree ad alto tasso demografico e lontane dallo
sviluppo tecno-scientifico propriamente inteso.
Il digital divide dunque non è solo causa di un nuovo apartheid, in
quanto permane una differenza tra le zone del mondo nella
diffusione e nel possesso di tecnologia: è a sua volta
conseguenza delle differenze e anche se ridotto non potrà
“metter fine alle tensioni interne e internazionali prodotte dalle
dissimmetrie di potere, dalle asincronie di sviluppo e dalla eterogeneità
di interessi e dei valori18”.
3.1.2 Un divario in cifre
In realtà gli ottimisti ragionano su previsioni e ipotesi positive
sulle conseguenze della globalizzazione, ma i dati concreti
danno luogo a conclusioni differenti.
Il global digital divide, che fa le veci del nuovo “muro di
Berlino” del mondo globalizzato, ha un carattere ovviamente
non solo geografico ma anche di stratificazione sociale. Nei
trenta paesi ricchi dell’OCSE, a titolo esemplificativo, dove è
distribuita meno di un quinto della popolazione mondiale, si
trova il 95 per cento delle utenze stabili di Internet, e l’Europa
sorpassa di 41 volte l’Africa, nonostante il continente abbia una
popolazione più numerosa di quasi cento milioni. Meno del 6
per cento della popolazione mondiale ha un collegamento ad
internet; quattro miliardi di persone rimangono ad oggi escluse
dall’universo cibernetico. Il 57 per cento delle utenze è coperto
18 D.Zolo, Globalizzazione, una mappa dei problemi, Laterza 2004
33
dai soli Canada e Stati Uniti, mentre Africa e Medio Oriente
raggiungono a malapena l’1 per cento. Il dato più significativo è
che questo gap digitale anziché ridursi si estende e si allarga
sempre più in parallelo con il processo di globalizzazione. Nei
paesi occidentali l’internauta medio è bianco, sui 35 anni,
diplomato o laureato, con un reddito annuo superiore ai 30.000
euro. Una polarizzazione post-moderna è dunque quella tra i
soggetti info-rich e info-poor, sia a livello nazionale che
mondiale; una tale disparità non può che essere terreno fertile
per nuovi conflitti e disuguaglianze.
Riportiamo qui delle statistiche esemplificative di queste
differenze, selezionate da Berruti19:
Figura A. La diffusione dei giornali quotidiani nel mondo
19 A.Berruti, La geografia dei media, un paesaggio diseguale, ISRAT
0
100
200
300
400
500
600
Nord A
mer
ica
Europa
Oc.
Giappone
Paesi
ara
biAsi
a
Amer
ica
L.
Africa
copieognimilleabitanti
34
Figura B. Diffusione dei televisori nel mondo
Figura C. Diffusione delle radio nel mondo
0
100
200
300
400
500
600
700
Nord A
mer
ica
Europa
Ocean
ia
Unione
Soviet
ica
Asia
Amer
ica
Latin
a
Africa
1977
2000
0200400600800
1000120014001600
Nord A
mer
ica
Europa
Asia
Amer
ica
Latin
a
Paesi
Ara
bi
Africa
radio ognimille abitanti
35
Figura D. Teledensità e diffusione dei Pc nel mondo
Area Linee telefoniche fisse
per mille abitanti
Personal computerper mille abitanti
Usa 667 585
Ue 592 267
Giappone 586 315
Paesi Arabi 132 31
America Latina 162 44
Asia e Oceania 80 15
Africa 16 9
Mondo 169 78
Figura E. Gli utenti di Internet per area geografica
Area/Paese Utenti ogni
mille abitanti
Paesi Arabi 27
Asia orientale 15
Asia meridionale 6,3
Africa Subsahariana 8
America Latina 49
Est Europa 43
Ocse 332
36
Figura F. I maggiori poli tecnologici e il best 10 dell’indice nazionale delle ICT
Aree di ricercahi-tech
Paesi rank ICT index
Silicon Valley Usa 1 Usa Boston Usa 2 Islanda Stoccolma Svezia 3 Norvegia Tel Aviv Israele 4 LussemburgoDurham Usa 5 Svezia Londra Inghilterra 6 Danimarca Helsinki Finlandia 7 Svizzera Austin Usa 8 Finlandia San Francisco Usa 9 Hong Kong Tapiei Taiwan 10 Giappone
3.1.3 I media in Africa
Uno studio mirato dello stesso Berruti, e propriamente
incentrato sull’Africa subsahariana, sembra mostrare in realtà
delle premesse più incoraggianti di quelle che lasciano
trasparire i dati riportati qui sopra. Sfatando alcune ipotesi
spesso avanzate sulla globalizzazione, si evince come il
panorama tecnologico del Terzo Mondo non sia una vera e
propria tabula rasa, ma mostri - seppur in modo fortemente
irregolare – dei segnali di crescita.
La percentuale della popolazione urbana è piuttosto limitata
(attorno al 33%) anche se il tasso di crescita è tra i più rapidi del
mondo. Si prevede una creazione di nuove metropoli, sebbene
destinate ad assumere la fisionomia di baraccopoli africane.
Ed è ovviamente nelle città che si concentrano i poli mediatici in
nuce. Nelle stesse proto-metropoli fermenta il piccolo mondo del
giornalismo africano: anche Berruti ricorda come esso (ma
l’informazione e la comunicazione mediatica tutta) abbia avuto
una pesante matrice statalista dalla quale cerca tutt’ora a stento
di liberarsi. E lo studioso chiama in causa il colonialismo: i
37
media in Africa sono stati storicamente degli strumenti delle
élites al potere, sia durante il periodo classico della
colonizzazione, sia in quello post-coloniale ed in piena Guerra
Fredda. Per tanti anni dunque i mezzi di comunicazione hanno
servito la propaganda statale e i suoi interessi, o sono stati
vettori di note campagne educative e umanitarie impugnate da
Ong.
La zona di influenza inglese è quella che cronologicamente
mostra un primato dello sviluppo e nella diffusione dei mezzi di
informazione: è per via dell’enclave inglese, a Città del Capo,
che nel 1924 in Sudafrica si ebbe l’incipit delle trasmissioni
radiofoniche, seguite venti anni dopo (1963) dalla televisione a
Nairobi in Kenya. La carta stampata modernamente intesa (in
veste di quotidiani) fece la sua comparsa alla fine del XVIII°
secolo.
In realtà, l’unico medium che abbia assunto tutt’oggi un vero
carattere di massa è la radio, per ovvie ragioni economiche ma
anche di fruibilità, per analfabeti ma più genericamente per
culture indigene dalla forte tradizione orale: esistono
trasmissioni realizzate in idiomi ancestrali in luogo delle lingue
ufficiali ereditate dal colonialismo.
La radio è diffusa in maniera capillare e sono le emittenti locali
quelle più seguite, artefici della scansione della quotidianità.
Dal versante strettamente politico le emittenti radiofoniche
possono fungere da collante per le deboli unità nazionali, utili a
integrare nelle reti statali le zone rurali, distanti dalle sedi
amministrative.
Nei paesi con i maggiori tassi di popolazione rurale, come
Burundi, Uganda, Malawi ed Etiopia, i parchi di ricevitori radio
sono cresciuti in media del 18% negli ultimi dieci anni20.
20 Cfr. World Bank, Statistical Yearbook, 1990 e 2002.
38
La liberalizzazione della radiofonia, che ha avuto inizio in Mali
nel 1992 dopo la caduta di Traoré, ha rappresentato la partenza
per una crescita esponenziale del settore; sono aumentati
praticamente in ogni paese i canali disponibili e la diffusione
degli apparecchi ricevitori: del 48% in Ghana (paese record, con
710 radio ogni mille abitanti), del 40% in Gabon, del 37% in R.D.
Congo21.
Parallelamente, vi è stato anche un incremento della
disponibilità di giornali quotidiani, specialmente in zone a tasso
elevato di crescita della complessità sociale.
Lo sbocciare della stampa privata, che si colloca
geograficamente tra gli anni Ottanta e Novanta in Benin e
Senegal, ha le sue radici nell’imprenditoria privata ma anche
nelle concessioni degli Stati: a causa del suo target
numericamente molto limitato la stampa era infatti il mezzo
informativo meno temuto dalle oligarchie al potere.
In ogni caso, eccezion fatta per Sudafrica e Nigeria, la stampa
rimane in Africa un mezzo d’informazione destinato a un
pubblico urbano. L’analfabetismo e la poca affidabilità della
viabilità stradale rendono ostica la distribuzione dei giornali.
La televisione – si è già detto – ha visto la sua introduzione negli
anni sessanta: ed è importante notare come il medium più
efficace (per penetrazione e capacità comunicativa) sia quello
distribuito nella maniera più difforme.
Si cita qui ancora Berruti:
“La copertura territoriale garantita dai ripetitori televisivi è
circoscritta alle zone urbane, se non alle sole capitali, e il divario tra i
dieci paesi che nel 1990 erano più dotati di televisori rispetto al resto
del continente, invece di erodersi, va aumentando. La televisione in
Africa non è comunque una preoccupazione primaria per i politici e
resta un oggetto di contraddizione: crea un legame sociale tra chi
21 Ivi.
39
fruisce dello stesso spettacolo, ma per la stessa ragione, essendo
impiantata in modo diseguale, separa cittadini e rurali22. “
Per ciò che concerne internet in Africa, è evidente dai dati che ci
si trovi soltanto agli inizi, con una esigua percentuale di otto
africani su mille (otto milioni in totale), anche se gli utenti sono
in crescita.
Vi sono ovviamente ostacoli strutturali, come sistemi fiscali
svantaggiosi, che considerando i computer beni di lusso ne
fanno lievitare i prezzi, ma non è un dato secondario anche la
precarietà delle linee telefoniche.
Queste basi tecniche non sono però sufficienti a spiegare in
modo esauriente il panorama dell’Africa cibernetica. Vi sono
importanti barriere culturali oltre a quelle economiche (un
salario medio è poca cosa rispetto alle esigenze di
mantenimento di una connessione privata). Prendendo in
analisi diversi elementi (host, domini, provider e larghezza di
banda) appare come la distribuzione di internet sia fortemente
polarizzata. Un nucleo ristretto di paesi detiene valori nettamente
superiori rispetto al resto del continente (Kenya, Togo, Senegal,
Ghana, Zimbabwe) e sopra di loro spicca il Sudafrica, che
concentra in sé due terzi dei naviganti, tre milioni di computer e
l’82% dei domini registrati23.
Comparando la distribuzione del cyberspazio africano ad altri
indicatori territoriali, si evince come tale settore sia forse quello
più strettamente con l’urbanizzazione.
Si citi la città di Dakar a titolo esemplificativo: nella capitale del
Senegal vive un terzo della popolazione nazionale, il 61% degli
host e il 98% degli internauti24.
22 Berruti, da A.J. Tudesq, op.cit. pag. 53 ; vd. A. Ba, Televisions, paraboles et democraties en Afrique noire, Parigi, L’Harmattan, 1996. 23 Berruti, da M. Jensen, Status delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione in Africa, in «Africa e Mediterraneo», dicembre 2002. 24 Berruti, da M.C. Diop (a cura di), Le Sénégal à l’heure de l’information, Parigi, Karthala, 2003.
40
Nonostante questo è possibile delineare un fenomeno tutto
endogeno, una sorta di risposta o vero e proprio “modello
africano” di appropriazione delle nuove tecnologie, basato
sull’accesso collettivo, attraverso luoghi pubblici quali cybercafé
e telecentre. Il fenomeno, diffuso dal più piccolo cafè fino ai
centri commerciali e di tecnologia, sembra destinato a divenire
più che una modalità transitoria, in quanto fonda
probabilmente le sue radici su categorie antropologiche prima
che sociologiche.
Il primo cybercafé è il Metissacana, che ha visto la luce nel 1997
ad opera dello stilista senegalese Oumou Sy, tra i palazzi del
Plateau, il quartiere degli affari di Dakar. Oggi i cosiddetti
telecentre in Senegal sono dodicimila e ricoprono ben un terzo
del traffico telefonico nazionale25.
3.1.4 Una via africana alla tecnologia?
La crescita dei media africani dunque non è e non è stata affatto
lineare, così come la loro, e se questo panorama è diseguale, se il
cosiddetto digital divide le tra Nord e Sud del mondo appare
difficile da colmare, in futuro potrebbe esserlo ancora di più.
Nel 2003 a Bamako si è tenuto un vertice sull’informazione,dove
circa cinquanta governi africani hanno prospettato piani
nazionali di sviluppo delle infrastrutture di comunicazione. Da
più parti è stata evidenziata la marginalità delle zone rurali
come il problema impellente da risolvere. Se però ancora una
volta molti paesi - come già promesso – apriranno la strada a
privatizzazioni al WTO, le ferree leggi dell’economia avranno
più di una remora dell’investire nelle cosiddette zone rurali.
E se anche il carattere del investimento dovesse rimanere
pubblico, sorgono però ulteriori interrogativi sul carattere 25 Berruti, da I. Pansa, Senegal on line, in «Afriche», settembre 2003.
41
culturale di una diffusione massiva di tecnologie sradicanti
negli scenari africani.
3.2 Squilibri di rappresentazione e squilibri di potere
Una teoria comune sull’approccio dei media nei confronti
dell’Africa è quella secondo cui gli squilibri di rappresentazione
sarebbero diretta conseguenza di squilibri di potere. In altri
termini, la configurazione dello scenario geopolitico, il ruolo
degli attori del Nord del pianeta e la contingenza finanziaria
mondiale sono i fattori che determinano l’immagine diffusa del
continente: all’interno dei media occidentali, essa dunque viene
appositamente distorta per rispondere ad esigenze e strategie di
politica estera e commerciale. Appare quasi scontato riportare il
principio elementare secondo cui una notizia lesiva nei
confronti degli interessi strategici di un paese (imminenti
manovre di politica estera, mantenimento di uno status quo) o
di una corporazione (aziende coinvolte nei traffici d’armi,
multinazionali petrolifere, industrie farmaceutiche, cartelli di
industria tecnologica e di infrastrutture) viene omessa o
deformata in modo da portare alla sua neutralizzazione.
3.2.1 Petrolio, armi, medicinali: cosa dicono i media
Ne “La Repubblica” del 21 giugno 2003 viene riportata la
notizia del rogo di un oleodotto in Nigeria, ponendo
l’attenzione sul fenomeno tipico del furto del petrolio che ha
innescato la tragedia: “La tragedia non è la prima del genere in
Nigeria, dove sono frequenti i casi di sabotaggio agli oleodotti per
ottenere il petrolio e rivenderlo al mercato nero”. Tesi peraltro
42
dominante nel generale panorama mediatico italiano nello
stesso periodo. Però con la sistematica omissione di un
importante dato: le entrate per il petrolio, che costituiscono
l'80% delle entrate nigeriane, solo in minima parte finiscono
nelle casse dello Stato. Come sostiene Meo Elia26, “da anni
numerosi gruppi si battono per la difesa delle loro terre,
rovinate dai liquami delle perforazioni condotte senza controlli:
lo scorso anno ci sono stati un migliaio di morti e decine di
migliaia di profughi. Le popolazioni del Delta (…) vedono la
propria ricchezza fuggire lontano, a vantaggio dei militari del
paese e delle multinazionali del petrolio”. Il furto del petrolio è
dunque certamente ai danni delle elitès governative, ma la
presentazione mediatica dell’avvenimento deforma chiaramente
le sue ragioni sociologiche in nome di interessi geopolitici
sovraordinati.
E' stato calcolato che oggi, nel mondo, sono in corso circa 640
conflitti gravi; secondo una stima di Peacelink27, a titolo
esemplificativo se ne possono evincere 37 armati per il
controllo dell'acqua, molti dei quali il potere e i mass media
preferiscono presentare come conflitti etnico/religiosi. In Africa
però secondo Paolo Giorgi “ (…) contrariamente a quanto molti
pensano, non nascono guerre civili sanguinosissime perché gli africani
hanno voglia di menar le mani: ma perché l'occidente ha sottratto e
sottrae le materie prime (basti pensare al coltan, in Congo, elemento
indispensabile per i nostri telefonini) lasciando in cambio fame,
sfruttamento, e carichi giganteschi di armi di cui si impossessano
eserciti di mercenari e dittatori locali”.
Ma attribuire la genesi dei conflitti ad un innata natura
irrazionale, violenta e/o tribale dell’Africano-tipo, oltre che
meccanismo culturalmente agevole, è uno strumento utile per la
26 'La Rivista del Clero Italiano', ottobre 200027 http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_13827.html
43
neutralizzazione ed omissione sistematica delle reali ragioni
degli squilibri, e quindi utile al mantenimento dello stato delle
cose.
Come riporta ancora Peacelink, ad esempio “molte nazioni sono
dipendenti dall'acqua fornita da fiumi che scorrono in altre nazioni
situate a monte. Israele preme militarmente per il controllo delle
risorse idriche nel bacino del Giordano in Palestina; Turchia, Siria,
Iraq e Kurdistan si contendono il Tigri e l'Eufrate; Egitto, Sudan ed
Etiopia competono per il Nilo”.
Un altro esempio viene sempre riportato da Meo Elia28:
vengono mostrate immagini di repertorio di bambini scheletriti
e ci viene detto della siccità del Corno d'Africa, che mette a
rischio la vita di otto milioni di persone nella sola Etiopia. È
stata descritta anche la guerra tra Etiopia ed Eritrea, ma non si
menziona mai che l'Etiopia nel '99 ha triplicato il suo budget
militare, passando da 140 a 367 milioni di dollari e anche
l'Eritrea è passata da 196 a 236 milioni di dollari nello stesso
periodo. E, soprattutto, nessuno dei grandi mass media fa
esplicita menzione dei fornitori d’armi (caccia bombardieri,
elicotteri da combattimento, carri armati)che alimentano tale
conflitto, nella fattispecie Parigi e Mosca: non a caso, pochissima
eco ha avuto la notizia che in sede di Consiglio di sicurezza
dell'Onu, Francia e Russia hanno impedito un embargo totale
sulla vendita di armi ai due paesi in guerra.
E per volersi attenere al solo caso italiano, si riportano qui
alcune stime di Peacelink.
Secondo un rapporto della Presidenza del consiglio, le vendite
di armamenti all'estero autorizzate dal governo italiano nel 2006
sono salite addirittura del 61%, passando da 1,36 miliardi del
2005 a 2,19 miliardi. Mentre le consegne già effettuate hanno
28 Meo Elia, su www.saveriani.bs.it
44
fruttato 970,4 milioni. Le ditte esportatrici sono Augusta (810
milioni di euro), Alenia (311), Oto Melara (283), Avio (127), Lital
(123), Selex (81,5), Aermacchi (73,4), Alcatel Alenia (71,5), Iveco
(49,6). Delle prime dieci aziende esportatrici, ben sette
appartengono a Finmeccanica di cui lo Stato è principale
azionista. In altri termini, lo Stato autorizza se stesso a vendere
armamenti all'estero.
I maggiori profitti sono però destinati alle banche,che
guadagnano sui pagamenti che dall'estero arrivano sui loro
conti. Dietro San Paolo-Imi (446,7 milioni di pagamenti
ricevuti), seguono Bnp-Parisbas (290.5), Unicredit (86,6), Bnl
(80,4), Banco di Brescia (76), Commerz Bank (74,3), Banca
Popolare Italiana (60,6), Banca Intesa (46,9). Scende da 133 a 36
Banca di Roma, che ha partecipato ai convegni organizzati dalla
«Campagna banche armate», una iniziativa lanciata nel 2000 da
Missione Oggi, Mosaico di Pace e Nigrizia che monitorizza e
cerca di sensibilizzare gli istituti bancari e di ridurre gli affari
legati al traffico d'armi.
Il business supera ovviamente la semplice gestione passiva
degli incassi. I flussi finanziari legati alle armi nel 2006 sono
saliti fino a 2,27 miliardi di euro (nel 2005 ammontavano a 1.775
milioni).
Un terzo esempio è legato all’industria farmaceutica: i mass
media riportano spesso che l'80% dei decessi legati all'aids
avviene in Africa29: 11 milioni di morti dal 1982, anno in cui è
stato registrato il primo caso nel continente; nei prossimi dieci
anni è prevista una perdita umana stimata intorno ai 40 milioni
di africani. Il reportage con cui il giornalista Mark Schoots ha
vinto il premio Pulitzer 2000 ha un titolo paradigmatico: AIDS,
the agony of Africa.30 I mass media però difficilmente
29 UnAids, fonte OMS30 http://www.villagevoice.com/
45
richiamano le stime sulla malaria, che provoca in un solo anno
tanti morti quanti l'AIDS in quindici31. In Occidente le terapie
usate contro l'AIDS hanno un costo di circa 10 mila dollari
all'anno per ogni paziente, mentre mediamente in Africa la
spesa sanitaria pro capite è di 10 dollari annui, continuamente
contratta per via degli 'aggiustamenti strutturali' imposti dal
FME alle economie dei paesi africani. Vi è inoltre l' impossibilità
per la gente comune di accedere ai medicinali, a causa del
prezzo elevato imposto dalle ditte farmaceutiche per difendere i
brevetti sui farmaci e per la scarsità di investimenti. Il prezzo
delle medicine, il cui mercato mondiale è per due terzi
concentrato in circa 20 grandi gruppi, ha un prezzo mondiale
unico,basato sulle tariffe praticate negli Usa, tra le più alte del
globo. Il terzo fatto che i grandi mass media non menzionano è
la chiusura delle ditte farmaceutiche alle ricerche sulle malattie
tropicali e alla produzione di farmaci essenziali in quanto poco
procedure poco remunerative. In questi ultimi casi, ragioni di
politica estera ed interessi commerciali anche transnazionali si
fondono in un unico nucleo, che funge da fulcro sulle versioni
presentate dai media.
3.2.2 La marginalizzazione: dai media alla realtà
Allo stesso modo, statisticamente possono essere osservate
continue strategie di marginalizzazione, in nome del principio
secondo cui l’assenza dagli schermi equivale all’inesistenza: in
uno studio di Asgede Hagos l’attenzione si rivolge ai media
statunitensi nel periodo a cavallo tra gli anni Settanta ed
Ottanta32. L’attitudine dei media americani a trascurare
sistematicamente il continente africano era consequenziale allo
31 www.msf.it32 Hagos, 2000
46
scarso interesse strategico da esso rivestito durante il periodo
della Guerra Fredda. Quand’anche esso è stato soggetto
all’attenzione pubblica, le motivazioni sono state
principalmente di ordine ideologico; un esempio su tutti è
l’interpretazione in chiave “anticomunista” di alcuni fenomeni,
come il movimento anti-apartheid in Sud Africa. Allo stesso
modo, rivolgendo l’analisi al trattamento mediatico offerto
dall’ex Unione Sovietica in un periodo tra il 1956 e il 199333, si
evince una non dissimile strategia di interpretazione dei
problemi africani come conseguenza dell’imperialismo
americano; il continente viene in ogni caso rappresentato come
incapace di crescere da solo, privo di aiuti esterni e più
specificamente del noto internazionalismo di stampo
paternalistico.
Ancora, secondo Paolo Giorgi34, tra il 2005 e il 2006 i media
italiani nel loro insieme hanno dedicato più del 95% del loro
spazio per gli Esteri alle guerre "famose", quelle con un
coinvolgimento diretto di soldati occidentali: Iraq in primis, e
poi Libano (e Medio Oriente in generale) e Afghanistan.
3.2.3 Le agenzie di stampa mondiali
Secondo statistiche accreditate e largamente condivise, una
percentuale tra l’80% e il 95% dell’informazione mondiale è in
mano a sole quattro agenzie di stampa, ovvero le americane
Associated Press e United Press International, la britannica
Reuters e la francese France Presse. Agenzie che a loro volta
gestite da cartelli industriali e finanziatori pubblici/privati
coinvolti in primo luogo nelle vicende economiche africane,
dalla vendita d’armi al possesso delle risorse petrolifere.
33 Quist-Adade, 200134 http://www.aprileonline.info/120/una-nuova-voce-dallafrica
47
La Associated Press esiste grazie al suo mercato interno, gli Stati
Uniti, che apporta circa il 94% delle entrate. Segue poi la
britannica Reuters, i cui introiti dipendono solo per il 4% dalla
vendita ai media, il resto proviene dalla vendita di informazioni
finanziarie ad aziende, banche e agenzie borsistiche. Infine
Agence France Press, anch'essa allineata alle altre agenzie, anche
se il 60% delle spese viene pagato dallo Stato francese.
Un modello simile è quello della spagnola EFE, l'italiana ANSA
e la tedesca DPA, vive grazie a contributi statali. Le loro reti
rispondono quindi anche agli interessi strategici dei rispettivi
Paesi. Appare dunque evidente come una rappresentazione
derivata da un numero così esiguo di fonti, a loro volta
imponenti e legate a doppio filo con soggetti interessati, oltre a
violare una delle norme non scritte più essenziali della libertà
d’informazione, consista soprattutto in una rappresentazione di
potere e in un riflesso della situazione geopolitica.
3.3 I criteri di notiziabilità
Riguardo al trattamento del materiale mediatico relativo al
continente africano, si possono evincere metodi e tecniche
comuni agli operatori dell’informazione, delle vere e proprie
routines professionali o meccanismi ricorrenti.
In quanto tali, sono assurti allo status di veri e propri
automatismi, dettati da modalità d’azione inconsapevoli e
canoni acquisiti dalla testata giornalistica. Utilità, fruibilità e
“vendibilità” così come un ignaro ricorso a categorie culturali
precostituite si nascondono dietro queste procedure, che sono
applicabili all’intero panorama informativo, e che acquistano
valenza anche nel contesto della selezione del materiale
sull’Africa.
48
3.3.1 L’Agenda-setting
Il criterio-guida, ovvero quello che prelude alla selezione o
all’omissione del materiale, è quello del cosiddetto “agenda
setting35”, ovvero il processo di determinazione delle notizie su
cui concentrare l’attenzione. Si tratta, in altri termini, del macro-
insieme di procedure che stabiliscono la “notiziabilità”
dell’evento, su cui torneremo in seguito.
E’ però interessante focalizzare l’attenzione sullo specifico
concetto di “Agenda Setting”: nella sociologia della
comunicazione, con questa definizione si intende sia la
creazione di una sorta di indice generico di argomenti –
soggettivo e personale per ogni singolo medium o testata- da
inserire in un dualismo tra i media e l’audience, sia la scelta
effettiva di priorità tra questi. I media deciderebbero gli
argomenti cui prestare attenzione, cui dedicare spazio in base
ad una serie di pressioni cui sono sottoposti; tali pressioni, come
si è già visto, possono derivare da contingenze politiche e
ragioni di interesse, o d’altra parte –come si evincerà nel corso
dell’analisi- da automatiche routines e distorsioni inconsapevoli.
Maggiore è l’importanza che i media dedicano alla questione,
maggiore è il riconoscimento pubblico che l’argomento
presentato riceve. Si sostiene che i temi (argomenti, eventi e
persone) più "sentiti" dalle audiences sono quelli più enfatizzati
dai media, cioè quelli a cui è dedicato maggiore spazio ed
attenzione, mentre, al contrario, i temi esclusi dai media sono
ignorati dal pubblico ed è come se non esistessero. I mass media
avrebbero dunque la capacità d'orientare l'opinione pubblica
sulla scelta degli argomenti intorno ai quali pensare. Essi,
descrivendo e precisando la realtà esterna, presentano alle 35 McCombs e Shaw, 1972
49
audiences una lista di ciò su cui bisogna avere un'opinione e per
cui vale la pena discutere. In questo senso, è ben comprensibile
come certi assunti o stereotipi possano entrare in un circolo
vizioso di auto-alimentazione e sostegno.
E’ d’altra parte vero che non è corretto attenersi ad una logica
così fermamente determinista per spiegare i meccanismi
mediatici: la creazione di opinione non è certamente
unidirezionale, perché oltre al concetto di “influenza” da parte
dei media, da una parte non bisogna sottovalutare le capacità e
le modalità di “ricezione” di questa informazione da parte
dell’audience, dall’altra si potrebbe affermare che –come riporta
Wikipedia36- che “l’evidenza empirica risultante dalle analisi di
comunicazione si è piuttosto attestata su un piano differente; i media
sono sì in grado di spostare l’attenzione del pubblico su determinati
temi, ma non sembrano in grado di poter dire alle persone cosa
pensare”.
Inoltre ricerche dimostrano come le conoscenze ed esperienze
pregresse degli individui possano ridurre l'effetto dell’agenda
setting , andando a formare quella che è l’agenda soggettiva,
ossia un meccanismo di mediazione che tende ad operare
un’ulteriore selezione sui contenuti dell’agenda mediatica sulla
base dell’esperienza diretta. Di conseguenza si può affermare
che in realtà avviene un'integrazione tra le due agende: quella
soggettiva e quella dei media. Infatti ciascun individuo, pur
ritenendo importanti i temi enfatizzati dai media, dedica
particolare attenzione ai temi che gli provocano maggior
coinvolgimento ed interesse personale.
Nonostante questi limiti strutturali, tale teoria è comunque da
considerarsi valida. Vi è inoltre da aggiungere che
probabilmente il meccanismo dell’Agenda Setting è da
considerarsi come inevitabile, in quanto per una qualunque
36 http://it.wikipedia.org/wiki/Agenda_setting
50
redazione è sicuramente impossibile esimersi –nella
presentazione degli argomenti- da fattori di influenza del
contesto socio-economico in cui opera, del background
culturale, dalla contingenza politica e in primo luogo delle
variabili di giudizio assolutamente individuali di ogni operatore
del settore. Nel caso dell’Africa, si evince come certe procedure
avvengono in maniera inconsapevole, e come altre rispondono a
meccanismi canonici della pratica giornalistica, che sono poi
l’insieme di regole di individuazione dei valori-notizia; un
insieme di pratiche che guidano e standardizzano le procedure
lavorative, necessarie per i media nel flusso pressocchè
ininterrotto di produzione. Tale esigenza si evidenzia infatti per
l’obbligo di coprire quotidianamente, con tempi e risorse
piuttosto limitati, uno stesso spazio informativo.
A titolo esemplificativo, si possono elencare determinati criteri
di negoziabilità che operano alla base delle scelte di agenda,
secondo un ipotesi di M.Wolf37:
il livello gerarchico degli attori coinvolti
l’impatto sull’interesse nazionale (o di collettivi)
il numero di persone che gli eventi coinvolgono
la possibilità di sviluppi e conseguenze dell’evento
la capacità di intrattenimento
Vi sono poi i criteri tecnici relativi al “prodotto”, come:
la brevità o la facile comprensibilità mediatica dell’evento
la novità dello stesso
37 Wolf M., 1985, Teoria delle comunicazioni di massa , Bompiani, Milano, 1985.
51
la velocità di trasmissione della notizia rispetto agli altri
media
la qualità della notizia
il bilanciamento dell’informazione
Tra i criteri inerenti al “mezzo” si annoverano:
Il buon materiale rispetto al mezzo utilizzato
Eventi o notizie con una storia narrativa completa
La frequenza dell’evento
Ancora, secondo una ricerca portata avanti dal Media Group of
Glasgow University,38 tra le aspettative degli ascoltatori e le
selezioni degli operatori dell’informazione s'instaura un circolo
vizioso che produce proprio l’effetto di questa scarsa presenza.
Tre sono i temi chiave delineati:
le decisioni prese dai "broadcasters" (su criteri commerciali)
riguardo alle preferenze dell’audience;
la disinformazione dell'audience televisiva, dovute alla
parzialità e all'incompletezza delle informazioni diffuse
sull'Africa;
la possibilità che un radicale cambiamento della qualità
delle notizie riesca a modificare il livello di attenzione che
l'audience nutre per la realtà africana.
38 http://www.gla.ac.uk/departments/sociology/units/media.htm
52
3.3.2 I criteri di notiziabilità
A dettare ritmi e contenuti dell’informazione intervengono in
ogni caso i cosiddetti criteri di “notiziabilità”, ovvero ciò che
guida la selezione delle notizie da pubblicare, ed anche in tal
caso l’Africa non costituisce eccezione ed è soggetta alla
medesima analisi prima di ottenere la sua rappresentazione
mediatica. Come riporta Luciano Ardesi39, a regolare questo
processo intervengono “complessi fattori di organizzazione del
lavoro redazionale e criteri di scelta che nulla hanno a che vedere con i
valori sociali, culturali e professionali dei singoli giornalisti”. Con
una conseguente proliferazione di distorsioni, le quali non
derivano da operazioni necessariamente volontarie, quanto
piuttosto da meccanismi automatici, di routine40.
Tali meccanismi, sottesi alla selezione dell’informazione, sono
stati oggetto di analisi da parte degli studiosi Johan Galtung e
Mari Holmboe Ruge; benché il loro studio sia ormai datato di 40
anni e a discapito dell’evoluzione della tipologia e del ruolo dei
media, si dimostra tutt’ora valido nell’applicazione delle sue
categorie. I criteri evidenziati sono dodici e come ricorda lo
stesso Ardesi, alcuni di essi sono direttamente conseguenti dalla
psicologia della percezione. Un punto a favore della
notiziabilità è relativo alla durata dell’evento, che deve accadere
in un lasso di tempo tale da permettere al media che lo tratta di
poter organizzare tecnicamente il lavoro. Tale criterio, sommato
a quello della distanza culturale - più una realtà è distante sotto
questo punto di vista, più ha necessità di offrire notizie rapide e
consumabili per avere presenza mediatica – è direttamente
applicabile al caso africano: nell’ottica progressista, i lenti
movimenti dello sviluppo (e del suo cammino occidentalizzante)
39 http://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=21640 Wolf, Teoria delle comunicazioni di massa 1985, 177-186
53
non interessano quotidiani e telegiornali. Gli eventi inoltre
devono avvenire su scala ampia, ed avere una certo quantum di
risonanza (è il caso dei consistenti –se non esclusivi- riferimenti
ad avvenimenti violenti o negativi).
3.3.3 L’affinità culturale
Un’ulteriore riflessione degna di nota è relativa al criterio (di
per se piuttosto scontato) dell’affinità culturale: le notizie
devono essere in un certo modo facilmente interpretabili
dall’audience di riferimento, prive di ambiguità e non dissimili
dall’immagine mentale pre-esistente, come scrive Daniele Mezzana
41 riprendendo una definizione di Ardesi.
Questa immagine sarebbe costruita da un variegato continuum
di attori (media e non) operanti nella realtà sociale, agenti
attualmente ma presenti da sempre e portatori di quel materiale
sempre più sedimentato e che ha contribuito a creare il corpus
di conoscenze socialmente acquisite sull’Africa, con stereotipi e
distorsioni annesse. Esploratori e missionari, scrittori, fotografi e
imprenditori tutti operanti in una piramide che arriva ai media
offrendo ad essi contenuti e categorie precostituite. Esiste
dunque una vasta serie di fonti narrative sull’Africa, materia
prima dell’immaginario diffuso e stratificato. Tale teoria pone
dunque i media al termine della catena di costruzione
dell’immagine sociale, e fa il palio con l’ipotesi che mette sotto
analisi anche il secolare ruolo delle scienze sociali e dei
ricercatori: intesi anch’essi come “fonte” di nozioni sull’Africa e
sulla sua civiltà, gli scienziati del sociale hanno col tempo
tramutato schemi scientifici in stereotipi di rappresentazioni. E’
il già citato caso dell’antropologia culturale e della teoria
evoluzionista applicata al terzo mondo: la prima è stata spesso 41 Daniele Mezzana, “un’immagine cancerogena” in Società Africane, Zelig 2005.
54
intesa come unica scienza applicabile al continente –
conseguenza implicita della stessa teoria dell’evoluzione, che
mette in una scala cronologica lo status dei popoli e come tale
ritiene una generica e indistinta civiltà africana come ben
distante dalle “tappe” evolutive alle quali possano applicarsi
ulteriori scienze sociali - , la seconda come fonte della sotto-
rappresentazione della realtà sub-sahariana, con le sue categorie
immutabili di primitivismo, animismo, atemporalità, mancanza
di storia e via discorrendo.
In realtà sarebbe più corretto sostenere che i media non si
collocano al terminale del ciclo di produzione dell’immaginario;
rappresentano certo elemento di rafforzamento e diffusione
delle precedenti fonti, ma nel contempo di rielaborazione e
creazione di nuovo materiale.
I media non costituiscono “da soli” una realtà sociale, ma si
innestano necessariamente su reti, abitudini, usi e appartenenze
pre-esistenti degli utilizzatori.
Essi possiedono il non secondario status di fonte primaria per le
realtà non direttamente attingibili; questo avviene per
qualunque sfera della rappresentazione (il paradosso moderno
secondo cui ciò che non esiste mediaticamente, non esiste realmente)
ed ancor più per il continente africano.
Il corpus di conoscenze sopra citato, costituito come si è detto
da materiale proveniente da attori sociali, fonti narrative,
istituzioni di conoscenza e infine media, è un blocco latente in
tutto il pubblico occidentale: i media dedicati all’informazione
possono dunque mettere in atto strategie atte a
risvegliare/richiamare all’ordine mentale questi schemi,
configurati come veri e propri “recettori culturali”, per utilizzare
un’espressione di Beverly G.Hawk. Si tratta dunque di una vera
e propria memoria semantica automatica, che funziona spesso
da scorciatoia interpretativa (e banalizzante) per decifrare la
55
realtà africana. Tutto questo – nel panorama dell’informazione-
merce – avviene ovviamente in un ottica di audience e
commerciabilità della notizia.
3.3.4 Altre procedure di rappresentazione
Un’ulteriore procedura generale è quella della
decontestualizzazione, ossia l’isolamento dei fatti dagli elementi
storico, socio-politici, economici e culturali che permetterebbero
un’adeguata spiegazione degli stessi, oltre a motivarne il senso
ed a facilitarne la connessione con ulteriori eventi e fenomeni.
Inevitabile inoltre sottolineare l’impostazione sensazionalistica
degli argomenti spesso trattati, con il privilegio del materiale
direttamente spettacolarizzabile come quello relativo a guerre,
rivolte, carestie, epidemie (per il contesto specifico africano,
quella delll’Aids è estremamente esemplificativa) o episodi
appartenenti alla sfera del tribalismo (cannibalismo, violazione
dei diritti umani, tradizioni popolari profondamente invise alla
logica occidentale ecc.).
A tal proposito, un interessante teoria entra nello specifico delle
relazioni tra gli eventi di carattere umanitario e le
organizzazioni non governative internazionali. Sgombrando il
campo dalle ovvie connessioni tra la canalizzazione delle
emozioni e gli scopi di mercato che possiede oggi l’azienda
giornalistica, è curioso notare come -secondo H.Ronning42-
esista una sorta di “sinergia strutturale” tra le associazioni di
questa tipologia, il verificarsi di eventi catastrofici e l’azione dei
media, nelle forme del cosiddetto “giornalismo dei disastri”. Le
emozioni del pubblico vengono fomentate (secondo scopi ora
volontari, ora routinari) tramite determinate rappresentazioni 42 H.Ronning, “Relazioni tra i media internazionali e le Ong”, Università di Cardiff (Galles) 1998
56
della realtà africana, al fine di accreditare quell’immagine
dell’Africa – tipica della scuola afro-pessimista- incapace di
trovare al suo interno le risoluzioni necessarie ai problemi.
Una tale rappresentazione ha il corollario di accrescere il
prestigio delle stesse organizzazioni , creando intorno ad esse il
consenso e spianando la strada per il proprio operato, con effetti
talvolta non secondari sulla raccolta dei fondi.
Ancora, tra gli stratagemmi narrativi maggiormente utilizzati vi
è quello della “drammatizzazione” degli eventi, ossia una
esposizione degli stessi secondo uno schema facilmente
interpretabile e il più delle volte ricondotto ad un gioco di
conflitto duale, tra individui (ad esempio leaders di fazioni
contrapposte in caso di scontri) o gruppi etnici. Emblematica è
la vicenda della contrapposizione tra Tutsi e Hutu in Ruanda,
presentata sistematicamente come esclusivo scontro etnico dai
maggiori media. Ancora nel dicembre 2006, il Corriere Della
Sera 43riporta alla memoria la guerra nei seguenti termini:
“Aprile 1994. Il Ruanda è in preda ala follia collettiva. I suoi cittadini
di etnia hutu, attizzati da bande armate di estremisti, gli
hinterahamwe, sono scatenati contro i tutsi e gli hutu moderati. Civili
armati di machete fanno a pezzi amici, compagni, conoscenti e persino
coniugi, colpevoli solo di appartenere a un gruppo razziale differente”.
A seguito di comuni indagini storiografiche è però semplice
evincere come tale divisione, ormai somatizzata dall’opinione
pubblica, abbia in realtà origini differenti, come ad esempio
sostiene l’Unicef: “La tradizionale divisione fra Tutsi e Hutu non ha
origini etniche (i due gruppi condividono lingua, religione e gerarchie
politiche), ma economiche: i Tutsi sono storicamente allevatori, gli
43 “La storia di Padre Seromba”, Massimo A.Alberizzi, dal Corriere della Sera del 15 dicembre 2006
57
Hutu agricoltori e dunque considerati socialmente inferiori. Il
passaggio da un gruppo all'altro era però possibile. semplicemente
mutando mestiere. In epoca coloniale i Tutsi diventano l'élite del paese
(…) “.
Al fine di una maggiore efficacia comunicativa, è d’uso adottare
pratiche di ipersemplificazione o riconduzione/interpretazione
degli eventi e processi secondo schemi chiari, che sono però nel
più dei casi banalizzanti o riduttivi, se non addirittura
fuorvianti. Come sostiene Daniele Mezzana44, ad esempio
qualcuno potrebbe mai attribuire –giornalisticamente parlando-
le cause dell’Olocausto alla natura violenta del popolo tedesco?
Nel caso delle popolazioni africane, preconcetti di simile
tipologia vengono frequentemente applicati. Il paradigma
tardo-evoluzionista già menzionato, secondo cui gli abitanti del
continente nero sarebbero i rappresentanti fuori tempo massimo
della preistoria dell’umanità – e come tali simili a fanciulli
incapaci di reprimere le pulsioni violente, animalesche ed
istintuali - mostra in questa procedura i suoi effetti. Come verrà
ulteriormente evidenziato, alle guerre africane, quand’anche di
carattere etnico, si associa una matrice fondamentalmente
irrazionale e primitiva.
Sarebbe impensabile ovviamente non considerare il criterio
primo di ogni medium, quello della comunicabilità, ottenibile con
svariati parametri (dalla brevità fino all’human interest passando
il coadiuvo di immagini ecc.ecc); se un fatto viene presentato
con un linguaggio chiaro e si presta ad una facile
interpretazione è più probabile che susciti attenzione nei
pubblici.
Ed in relazione alla chiarezza del linguaggio, è utile citare la
frequente ricorrenza di semplici opposizioni binarie per la
44 D.Mezzana, “Un’immagine cancerogena”, da Società Africane – Zelig 2005
58
descrizione di situazioni invero piuttosto complesse: ad
esempio l’opposizione tra primitivo e moderno.
Ancora, l’impiego della figura semantica della sineddoche (la
parte per il tutto), stratagemma tipico quando nel caso
dell’Africa un popolo specifico – o addirittura un singolo tipo
indifferenziato, l’Africano – viene elevato a rappresentante
dell’intera area, e l’eccessivo ricorso ad un lessico specifico, per
mezzo dei termini “tribale”,”primitivo”,”giungla” e numerosi
altri.
E’assodato che la società di massa sia costantemente educata a
recepire dai media messaggi non eccessivamente complessi o
strutturati; Ma il riduzionismo (perché di vero e proprio
riduzionismo – in diversi casi – si tratta) conseguente alle
procedure di semplificazione viene spesso generato da ragioni
che esulano da primo e puro scopo della comunicatività in se.
Al livellamento ed alla omogeneizzazione della comunicazione
– televisiva in primo luogo -, sia sul piano delle forme sia su
quello dei contenuti, contribuiscono notevolmente anche
considerazioni economiche. Quasi ovunque, infatti, la
televisione, oltre ad essere un mass medium è anche una
industria che deve produrre spettatori per venderli alla agenzie
pubblicitarie.
Tanto più facile è comprensibile è il livello contenutistico del
messaggio, quanti più spettatori si possono catturare nelle rete.
Il pubblico televisivo, infatti, creato dalla stessa televisione, è in
maggioranza educato a decodificare messaggi di scarsa
complessità e tematicamente non controversi. Coloro che
emettono i messaggi hanno un sistema di attesa nei confronti
del loro pubblico, decidono che c'è una gerarchia tra contenuti e
scelgono una soglia al di sotto della quale non andare. Che ha
come effetto obbligato la ripetizione sempre degli stessi concetti,
59
addirittura formulari, una forte retorica dei contenuti e anche
una standardizzazione.
60
4 ::.. I flussi informativi
A riprova dell’evidente squilibrio di rappresentazione tra
mondo subsahariano e paesi in via di sviluppo, sono utili alcune
analisi di tipo quantitativo: indagini sullo studio dei flussi
internazionali delle notizie hanno mostrato empiricamente la
scarsa presenza di informazioni provenienti dall’Africa
nell’intero panorama mediatico. Quand’anche ne si possa
evincere una presenza maggiore, tale copertura è relativamente
recente e in ogni caso strettamente connessa ad eventi
fortemente notiziabili, come guerre, emergenze umanitarie
relative ad alimentazione, catastrofi naturali o malattie, carestie
e siccità45.
Si riportano in questo capitolo – a carattere puramente
paradigmatico – alcuni dati scelti in relazione ai media
statunitensi, britannici ed in primo luogo italiani.
45 www.ucalgary.ca/UofC/faculties/SS/POLI/RUPP/taarn/article8.pdf, a cura del giornalista E.Ablorh Odjidja
61
4.1 Quantità e carattere dei flussi
L'attenzione dei media internazionali nei confronti dei paesi in
via di sviluppo in genere, e in particolare dell'Africa, ha subito
una progressiva riduzione, fino ad arrivare a un drastico 50%
nei dieci anni successivi al 1989. I risultati dello studio
sottolineano, anch’essi, che le notizie dedicate all'Africa
riguardano per la maggior parte guerre, conflitti, terrorismo e
disastri. Un terzo delle notizie che la BBC e l'ITN (notiziari
inglesi) hanno dedicato all'Africa nel 2000 è stato riservato a
questi argomenti, mentre le rimanenti notizie hanno riguardato
lo sport e altri eventi che coinvolgono l'Africa solo molto
marginalmente.
Secondo alcuni dati reperibili su internet46, in una quantum di
notizie diffuse dai network statunitensi ABC, NBC e CBS tra il
1972 e il 1989, solo una percentuale del 2,2% ha come oggetto
l’Africa. Non dissimili comparazioni possono essere effettuate
in relazione ai media italiani; come riporta Daniele Mezzana, nel
periodo compreso tra il 10 ottobre 1999 e il 31 marzo del 2000,
su 21.500 notizie trasmesse dai principali telegiornali italiani,
solo 128 riguardavano l’Africa (per una percentuale dello 0,6%)
ed ancora una volta si riferivano ad eventi violenti o
catastrofici47.
Uno dei principali telegiornali italiani (il Tg5 nella fattispecie)
dedica, in termini di media, alla cronaca nera 68 volte lo spazio
che dedica all'Africa, secondo un dato riportato da African
Societies.
Nel 2005 i telegiornali italiani hanno dedicato alle questioni
africane nel loro insieme circa 293 ore, su un totale di 2539 ore di
programmazione, ovvero l’11,6% dello spazio complessivo. Il
46 http://home.earthlink.net/~melissawall/lackofcoverage.html47 Grandi,”La (non) rappresentazione del lavoro nei telegiornali” 2000
62
tema trattato è ancora una volta in maggioranza di carattere
umanitario.48 Come ad esempio la carestia nel Niger , che
secondo i dati raccolti i dall'Osservatorio di Pavia nell'analisi
degli spazi, delle presenze e degli argomenti trattati in tv e
riportati dal settimanale Vita valeva in ogni caso “appena 19
(diciannove) minuti; gli animali domestici due ore, 16 minuti e 30
secondi; il gossip 11 ore, 35 minuti e 30 secondi. E' questo il tempo
dedicato a ciascuno dei tre argomenti dalle reti televisive italiane (Rai,
Mediaset e La7) nei mesi di luglio e agosto 2005. (…) i 19 minuti
dedicati alla carestia nel Niger hanno rappresentato in quei due mesi
dell'estate scorsa un davvero risibile, quasi impalpabile e inconsistente,
0,07% di tutto il materiale giornalistico trasmesso da Rai, Mediaset e
La7, che e' stato pari a ben 435 ore, 51 minuti e 30 secondi. Nel
dettaglio, i 19 minuti di informazione su quella tragedia sono fatti di
10 minuti trasmessi dai Tg della Rai, divisi tra i due del Tg1, altri due
minuti del Tg2 e i restanti 6 del Tg3; quindi 8 minuti da La7 e uno da
Mediaset, per l'esattezza da Canale 5. Totale appunto 19 minuti su un
numero imprecisato, ma certamente fatto di migliaia e migliaia, di
vittime della carestia.”
Ulteriori indicazioni degne di attenzione giungono da un
resoconto stilato dalla commissione parlamentare per la
vigilanza dei servizi radiotelevisivi;49 come riporta il senatore
Falomi, “i contenuti informativi delle principali testate giornalistiche
del servizio pubblico radiotelevisivo appaiono eccessivamente centrati
sulla realtà italiana e dell’Europa Continentale, lasciando pochissimo
spazio a tematiche e informazioni relative agli altri continenti; il
monitoraggio dei dati relativi al periodo che va dal 1° gennaio al 30
settembre 2005, mostra la realtà di una vera e propria cancellazione
dall'informazione televisiva pubblica delle notizie relative ad aree
estremamente importanti per il futuro quali i Balcani, la Cina, l’intero
48 A.Pozzi, Lo "sguardo dell'informazione”49
http://notes9.senato.it/W3/Lavori.nsf/0/06ADB7D844CCF49FC12570D8006AEA84?OpenDocument
63
continente africano, i paesi del Sud America, e l’India (…) l’Africa è
stata oggetto della produzione di alcuni servizi del TG1 solo in
occasione della visita dell’onorevole Rutelli in Darfour”.
Nel panorama degli ultimi 7 anni, le statistiche riportano cifre
non dissimili a quelle citate: innumerevoli sono gli esempi di
notizie e approfondimenti di questa tipologia. Nel dicembre
2006 il Tg2 dedica un solo dossier - al Kenya - ed ancora una
volta di carattere umanitario;“Babbo natale non abita a Nairobi”
è stato un reportage che fotografa la tristissima condizione
dell’infanzia costretta a scavare nelle discariche di immondizia per
sopravvivere. Sullo sfondo di tutto questo c’è l’aids che sta uccidendo i
genitori di questi bambini che per dimenticare la loro triste condizione
sniffano colla, la droga dei poveri, che provoca gravissimi danni fisici e
celebrali50.
Il 19 maggio 2006 il Tg2 dedica un breve spazio alla notizia di
un convegno su “13 milioni di bambini resi orfani dall'Aids. 30
milioni di adulti infettati dal virus Hiv. Una sfida quotidiana
per l'Africa. Bambini senza Aids, un sogno per l'Africa.”
Sembrerebbe dunque che i mass media di casa nostra si
riferiscano all’Africa solo in relazione a guerre, malattie - la
cosiddetta Africa delle emergenze – ed inoltre in riferimento a
misfatti che direttamente interessano la sfera di influenza
occidentale. Come sostiene uno studio dell’Università di Siena,
“la ripetitività lascia il campo a scelte editoriali assai discutibili,
avviando un "doppio pregiudizio" antiafricano: si parla del Continente
Nero solo quando i fatti riguardano l'Occidente (…) e vengono escluse
dalla ricostruzione tutte le fonti locali, governative e non governative.
L'Africa riesce a far notizia quando bussa alle porte di casa nostra, ma
manca ancora una reale curiosità (dei media occidentali) per quanto
accade davvero, giorno dopo giorno, in quel continente.”51
50 www.tg2.rai.it51 L'Africa sui media, Osservatorio su comunicazione e Africa; Università di Siena-Amref 2004-2005.
64
4.2 La carenza informativa secondo le Ong
Ong ed associazioni umanitarie (ma non solo) lamentano
comunque una carenza informativa anche sotto il versante dei
diritti umani e tematiche simili; in altri termini, se il carattere
della notizia in via pressoché esclusiva è di tipo umanitario (e
nello stesso tempo succulento per l’indice d’ascolto, lo si
ricorda), questa “priorità” viene ritenuta ancora insufficiente da
numerosi operatori.
In ogni caso, ben pochi sembrano necessitare un’informazione
realmente alternativa sul continente Africano, che non sarebbe
altra da quella endogena e quotidiana.
Medici Senza Frontiere 52(MS), nel suo annuale rapporto sulle
crisi umanitarie e media, nel 2006 ha analizzato 22 quotidiani,13
periodici e, ancora una volta con la collaborazione
dell'Osservatorio di Pavia, i principali telegiornali. Oggetto
dell’indagine sono state le dieci crisi umanitarie identificate da
MSF come le più ignorate dai media a livello internazionale, la
“top ten” delle crisi dimenticate – Somalia , Repubblica
Democratica del Congo, Sri Lanka, Colombia, Cecenia,
malnutrizione, Haiti, tubercolosi, Repubblica Centrafricana e
India centrale – e di altre gravi crisi meno evidenziate nel nostro
paese – Indonesia, Sudan, Ciad, Niger, Angola e malaria.
Tra i 22 quotidiani analizzati, i più attenti alle crisi umanitarie
sono risultati Avvenire, La Repubblica e Il Corriere della Sera.
Ad esempio Sono 63 gli articoli pubblicati sul Ciad, ma dei
200mila rifugiati dal vicino Darfur e dei 50mila sfollati interni
hanno parlato solo 10 pezzi. Alla malaria sono state dedicate 6
notizie (di cui ben 4 sulla morte di un italiano che ha contratto la
52 www.crisidimenticate.it
65
malattia in Congo). Significativo il confronto con l'influenza
aviaria, che ha registrato solo 116 casi e 80 morti in tutto il
mondo: a questa pandemia esclusivamente “in potenza” sono
stati dedicati ben 410 servizi dai TG.
La malnutrizione ha raccolto complessivamente 89 articoli
(inclusi 17 trafiletti e brevi). Nelle principali edizioni dei
telegiornali, sono 33 le notizie sulla malnutrizione, la maggior
parte relative ad appelli del Papa e a rapporti di istituzioni
internazionali.
All’Angola sono state dedicate in totale 3 notizie, di cui 1 sul
colera, 1 sull'uccisione di un missionario e 1 sullo sminamento.
Al Sudan ed al Darfur sono stati dedicati 255 articoli (quasi la
metà sono trafiletti e brevi) dai quotidiani e dai periodici nel
corso del 2006, ma meno della metà parla della situazione della
popolazione civile e del conflitto. 105 di questi hanno a tema il
dibattito sull’invio di una forza ONU, e 45 analizzano le
dinamiche degli aiuti italiani al paese, confermando la tendenza
da parte dei media a parlare di contesti di crisi se aventi
referenze dirette con l’Italia: è il medesimo caso del Niger, citato
dalla stampa italiana in 58 articoli, di cui ben 34 sul rapimento
dei turisti italiani. E le 97 notizie apparse in televisione a tema
Niger hanno riguardato quasi esclusivamente la vicenda dei
turisti italiani rapiti.
Al Darfur, i telegiornali dedicano solamente 12 notizie. E, di
queste, solo una parte racconta della popolazione civile vittima
della guerra.
E proprio riguardo ai telegiornali, su un totale di 78.224 notizie,
solo 8.228 (pari al 10,5%) sono state dedicate a eventi o
situazioni di crisi. Si è potuta evidenziare una maggiore
attenzione alle crisi umanitarie da parte dei telegiornali Rai
(4.943 notizie su 36.803, pari al 13,4%) rispetto a quelli Mediaset
(3.285 notizie su 41.421, pari al 7,9%), e come nel 2005 si
66
conferma la tendenza che vede il Tg3 al primo posto con il
16,2%, il Tg1 al secondo posto con il 13,4% e il Tg2 con l’11,2%.
Seguono il Tg4 con il 9,5%, il Tg5 con il 9,2% mentre Studio
Aperto resta il fanalino di coda con il 5,5%.
67
5 :. Stereotipi e discorsi tipici
5.1 I “discorsi” tipici
In campo mediatico si parla di “discorsi” tipici53, come quello
della carestia, della guerra, del tribalismo, della religione o
dell’esotismo, noti agli operatori dell’informazione e
culturalmente archiviati come qualsiasi elemento di repertorio di
testata, come immagini e suoni.
Gli stereotipi-base hanno come punto d’origine una concezione
duale dell’Africa: da una parte terra del dominio cruento della
natura, dove le forze di inondazioni, eruzioni vulcaniche e
siccità agiscono incontrastate, quasi come in una preistoria del
globo. Dall’altra come luogo di incontaminata bellezza
ambientale, corrisposta dal romantico mito del “buon
selvaggio”, caratteristica ancora attribuita a priori ai suoi
generici e indeterminati abitanti. Per riprendere una definizione
di Corbey, l’immagine è quella di un “continente allocronico”, al
di fuori dal tempo corrente dell’umanità esterna. Questa
caratteristica di autoisolamento genera una successiva serie di
pregiudizi “mistici”, rendendo l’idea di una terra impenetrabile
53 Jo Ellen Fair in “Africa’s media image”, Hawk B.G, Westport
68
ed opaca agli occhi dell’osservatore occidentale. Alla concezione
dunque di una realtà ancora “indietro” rispetto alla normale
cronologia evolutiva (“rallentata” o “frenata” da ingerenze
umanitarie, assistenziali o logiche di prevaricazione geopolitica)
si associa il forte stereotipo dell’atemporalità e dell’astoricità.
Come vedremo più avanti, questo mito riecheggia nella
pubblicità, nella critica e nelle arti figurative. L’africano è il
bambino dell’umanità, ed esprime un lato puro ormai sepolto
dai milioni di stimoli della complessa società occidentale, patria
della ragione strumentale. In se è quindi guidato da
inconsapevoli logiche irrazionali, preda di pulsioni – anche
animalesche e sessuali - e in contatto stretto con il lato più
primitivo e ancestrale dell’essenza umana. La forza della
tradizione (da cui viene esclusivamente agito) assume dunque
un carattere coercitivo e sempre uguale a se stesso. In
quest’ottica, anche i conflitti e le lotte politiche vengono per lo
più lette come espressione di forze cieche e ragioni “tribali”, con
un giudizio del tutto esule dai valori nazionalistici,ideologici e
politici. L’ afro-pessimismo vede dunque spiegata la sua matrice
in questo equivoco di fondo, ovvero l’incapacità strutturale, il
limite intrinseco della africanità.
Data per certa questa incapacità, ne deriva la legittimazione per
l’assistenza e l’ingerenza nella terra Africa e nelle dinamiche di
gestione dell’africano; questo è avvenuto in maniera esplicita
attraverso il colonialismo e l’imperialismo classici. Ma in realtà
continua ad avvenire in forme più edulcorate (e spesso
sostenute in buona fede) secondo gli schemi dell’intervento
umanitario, dell’assistenzialismo e della retorica dei diritti
umani.
69
5.2 Lo sdoganamento dell’Africa
A questo proposito è opportuna una breve chiosa su questa
chiave di lettura “progressista” della realtà sub-sahariana: nel
tentativo da una parte di sfatare gli stereotipi dell’incapacità
congenita e del primitivismo, dall’altra di dimostrarne
quantomeno una parziale reversibilità grazie all’intervento
assistenziale occidentale, si tende sempre più frequentemente a
mostrare l’immagine mediatica dell’Africa più similare alle
realtà dei paesi del Primo Mondo.
Lo speciale del Tg3 “PuntoDonna” dedica attenzione alla realtà
africana secondo il criterio dell’emancipazione femminile, tappa
anch’essa considerata ineluttabile nella storia dell’umanità in
ogni tempo e in ogni luogo, secondo il concetto dell’universalità
dei diritti umani. Così recità il palinsesto: “Parte dalle donne il
riscatto dell’Africa: dalla prima presidente della Repubblica donna del
continente eletta in Liberia, alle combattenti del Mali, al sogno di
Fatema Mernissi, la grande scrittrice maghrebina. "La salvezza
dell’Africa è nelle mani delle donne", così lo scrittore senegalese Pap
Khouma. L’Italia ha come priorità l’aiuto alle donne: un'intervista a
Margherita Boniver, sottosegretario agli Esteri e delegata ai diritti
umani in Africa.”
Un tale approccio ha l’inevitabile corollario di affermare il
pregiudizio evolutivo secondo cui le realtà sub-sahariana
ancora “lontane” dal raggiungere certi obiettivi nella condizione
femminile, si collocherebbero “al di fuori” della storia corrente,
agiti ancora da una tradizione tiranna che relega la donna in un
ruolo marginale. Non siamo dunque lontani da certi stereotipi
sopra menzionati, seppur gli intenti probabilmente
70
corrispondano alla volontà di sgombrare il campo. Manca però
ancor una volta una reale attenzione “endogena” da parte dei
media all’analisi dei contesti, secondo un approccio relativista. I
telegiornali dunque non presentano sempre l’Africa qual è,
motivandone le ragioni e –attraverso approfondimenti-
cercando di mostrare al pubblico i meccanismi interni di
tradizioni e costumi. Con una certa tipologia di servizi, si cade
dunque nella riproposizione del continente come si vorrebbe che
fosse, o come dovrebbe o dovrà essere. Il criterio di selezione si
avvicina in tal caso a quello dell’affinità.
Ancora, per il tema dello sviluppismo e del concetto di
“fratellanza” universale, ovvero la patente di abilitazione
concessa dal mondo occidentale a quello meno fortunato, è
indicativo l’approfondimento del Tg3 del 27 maggio 2006,
chiamato PrimoPiano e avente come titolo “Sorella Africa”, il
cui palinsesto recitava come di seguito: “Roma si mobilita per il
continente Nero. Italia-Africa, stesso pianeta all'insegna di questo
slogan sabato corteo e concerto a piazza del Popolo per rilanciare
l'azione a favore dello sviluppo del continente africano e per sollecitare
il nostro Governo a fare di più in questa direzione”.
Nello speciale del Tg1 “Contrasto africano", andato in onda
sulla prima rete nazionale nel novembre 2006 (all'indomani
dell'apertura della nuova sede di corrispondenza della Rai a
Nairobi, in Kenia) per voce del direttore di testata Maurizio
Ferragni l’attenzione viene posta “verso il continente africano e le
sue problematiche ed anche le sue ricchezze di costumi e tradizioni e le
sue bellezze naturali fatte di paesaggi mozzafiato”, mentre il
giornalista Franco Di Mare aggiunge significativamente un
passo sul Sudafrica, che costituisce “la speranza del continente e
dove gli investitori stranieri restano e non scappano, e dove l'economia
cresce”.
71
Vigono qui entrambe le constatazioni di un immagine
prevalentemente naturalistica e primordiale, con relative
tradizioni annesse, che fanno il palio con un contrasto con un
elemento tipicamente occidentale: il criterio di positivizzazione
agli occhi del pubblico italiano è riposto nella crescita
dell’economia e negli investitori stranieri, piuttosto che in
ragioni endogene e proprie della storia del paese africano. Lo
“sdoganamento” dell’Africa grazie al progresso e allo sviluppo
è dunque un altro degli stereotipi mediatici ricorrenti.
5.3 La modernità inevitabile
In ultimo, l’interpretazione progressista dello scenario africano
ha una lato ancora differente: quello che critica l’impostazione
assistenziale ma “legge” in ogni caso, nel destino del continente,
una evoluzione ineluttabile secondo la modernità.
Secondo Daniele Mezzana, vige nell’immaginario occidentale
un ideale errato – o quantomeno riduttivo - di “modernità”;
nell’accezione che si evince dagli stessi media, essa appare come
una sorta di import/export tra Occidente e resto del mondo in via
di sviluppo54. Una sorta di fenomeno con un centro di
irradiazione e rivolto progressivamente verso le altre zone del
globo. Il predominio occidentale non solo politico ma anche
mediatico trarrebbe dunque alimento da questa stessa
concezione, ostacolando il processo di autocostruzione della
modernità del continente Africano. Ci troviamo in ogni caso di
fronte al medesimo paradigma secondo cui non solo una
“modernità” è ineccepibile in ogni luogo della terra – “nessun
gruppo umano sembra potersi sottrarre ai processi di modernizzazione
e al compito di diventare, in qualche modo, moderno” - , ma è
costituita dalle medesime tappe che si possono riscontrare nel
54 Daniele Mezzana in “Società Africane – Zelig Editore 2005”, Pag.24
72
percorso cronologico occidentale. L’ideale progressista
presuppone infatti delle dinamiche universali, sempre uguali e
comuni che devono necessariamente fare la loro comparsa in un
dato tempo della storia di un popolo o di una realtà sociale. In
altri termini, l’emergere dell’individualismo, la “scoperta” o la
conquista dei diritti umani, la democratizzazione, lo sviluppo
tecnologico, dell’imprenditoria e della classe media,
l’emancipazione della figura femminile sarebbero tutte fermate
obbligate del corso dei tempi; la longa manus occidentale, con la
sua coercizione politica, il suo oscurantismo mediatico nei
confronti del continente africano –ma anche con la diffusione
dei propri stereotipi- farebbe dunque “da freno” alle naturali
evoluzioni dei paesi del Terzo Mondo verso una inevitabile
modernità, in tutto e per tutto simile alle forme conosciute nei
paesi occidentali. Lo stesso Mezzana riconosce che le dinamiche
esogene di importazione di modelli –sia tramite la forza bruta
dei metodi coloniali, sia attraverso il bombardamento culturale
mediatico e l’invasività della globalizzazione- hanno creato
fortissimi squilibri e danni permanenti, ma allo stesso tempo
continua a sostenere la necessità di uno sviluppo endogeno, in
grado di garantire una “modernità più stabile” e dalle forme in
tutto e per tutto simili a quelle note nei lidi del cosiddetto
mondo civilizzato.
73
6 ::.. Un caso di comunicazione: l’arte africana
Si rende necessaria una premessa introduttiva: perché parlare
dell’arte africana in questo contesto? Le ragioni che portano ad
una tale operazione sono da individuarsi nella stretta
connessione che la stessa mostra con le categorie
dell’immaginario occidentale oramai stratificate.
Gli stereotipi che sono stati evidenziati in precedenza,
alimentati e consolidati da una rappresentazione di lunghissima
data, si manifestano nella loro interezza nel giudizio che
l’osservatore occidentale attribuisce ad un prodotto di una
cultura altra.
In questo caso, una rappresentazione mediatica tipica è in grado
di generare un modus interpretandi piuttosto radicato e capace di
permeare ogni sfera della comprensione; tale fenomeno è
esemplificativo di come la comunicazione rivesta una sfera
sociale-totale, e in tal caso vada a influenzare i meccanismi del
dialogo interculturale. Ma è allo stesso tempo problematico in
74
quanto capace di attivare i già citati recettori culturali, che
impediranno così una corretta interpretazione dei fenomeni e
aumenteranno potenzialmente il rischio di fraintendimenti e
conflitti. La comprensione interculturale passa soprattutto dalla
decostruzione di un immaginario falsato, ed è dunque
importante riportare degli esempi di come questo stesso
immaginario abbia effetti deleteri sulla conoscenza reale di
quella che è la realtà africana. Nel 1989, l’antropologa
statunitense Sally Price pubblicava il suo noto saggio
“Primitive art in civilized places”, testo che forse più di ogni
altro ha affrontato con dovizia di particolari e acutezza di analisi
la tematica in questione. Tra gli obiettivi prefissi vi era quello di
dimostrare l’asimmetria reale tra il giudizio occidentale sull’arte
(e sulle modalità di percezione della storia) prodotta in loco e
quella appartenente a realtà “altre”.
6.1 La deumanizzazione
Partendo dalla definizione della concezione di “arte primitiva”,
viene delineata la “moneta corrente ideologica” della nostra
società ; evitando di impelagarsi in sterminate dissertazioni sul
concetto di “primitivo” , viene dimostrato come l’arte altra
venga primariamente deumanizzata, delegittimata e
successivamente riabilitata o promossa dal benefattore o
conoscitore occidentale. Lo sostiene anche Daniele Mezzana a
proposito degli attori sociali africani:
uno dei tipici processi mediatici, da Mezzana inteso come vera
e propria pratica professionale ricorrente, è quella della
“deumanizzazione, o eliminazione degli attori, a favore di entità e di
processi astratti e stereotipati (come avviene ad esempio imputando
75
determinati conflitti a determinate realtà razziali, tipo la <<violenza
tra neri>> 55“.
Dalle persone agli oggetti, la sostanza non è differente: la
rappresentazione è prima di tutto psico-sociologica, come una
macrocategoria che fa dell’Africano (e tutto ciò ad esso
connesso) un’entità impersonale, in un certo senso priva di
identità individuale. Così come l’Africano è agito dalla
tradizione, i suoi manufatti sono il prodotto derivativo e neutro
di essa.
6.2 I “fratelli minori” dell’Umanità
Il paradigma razzista – ampiamente abusato nei ragionamenti
mediatici esaminati - fa capolino anche nel giudizio estetico:
Hooper e Burland56 puntano l’attenzione sulle “cognizioni
meccaniche insufficienti”, così come Douglas Newton indica
nello scarso livello tecnologico raggiunto dalle società
produttrici un indizio plausibile ed un criterio certo per
identificare la tipologia di arte primitiva. Compare anche
l’infantilismo e il lato selvaggio, ancestrale e irrazionale dei
bambini della storia: altri criteri infatti seguono gli elementi
della vicinanza del prodotto artistico (una statua o una semplice
rappresentazione grafica) ai disegni dei malati, dei bambini o
delle scimmie, ad evocazioni pagane, religiose o spiritiche.
L’arte realizzata da tali persone assurge dunque al livello di
prodotto dei “fratelli minori” della Famiglia dell’Uomo, “non
abituati a reprimere le loro pulsioni naturali secondo i parametri
del comportamento civilizzato”.
55 Daniele Mezzana, Un’immagine cancerogena, da Società Africane, Zelig 200556 Hooper, J.T e Burland C.A, 1953, The Art of Primitive Peoples, Fountain Press, London
76
6.3 Il paternalismo occidentale: un prodotto universalista
Ma chi è dunque abilitato a promuovere il manufatto
etnografico a oggetto d’arte o viceversa ? Chi ha il compito di
stabilire gerarchie estetiche?
Così come il paradigma progressista ha generato
l’assistenzialismo dapprima coloniale, e in seguito umanitario –
con il corollario di una rappresentazione nei mezzi di
comunicazione di massa secondo questa inclinazione - , ecco che
nel giudizio estetico l’osservatore occidentale ha ancora una
posizione privilegiata, di carattere paternalistico.
Dalla descrizione della figura del Conoscitore57, si evince un
oscillazione tra un personaggio capace, tramite modalità
comunque coscienti ed intenzionali , di selezionare e discernere
secondo un’inclinazione innata (il buon gusto), ed una tipologia
di esperto le cui griglie concettuali sono frutto esclusivo del
processo di acculturazione della società in cui vive. Secondo
Kenneth Clarke (che si ricrederà personalmente) era addirittura
da escludere la possibilità dell’occhio come “organo educato” –
citando Franz Boas- e la pura fruizione estetica costituiva il
discriminante di un mondo in cui tutti sono potenziali
conoscitori al di la dei condizionamenti di mode, posizioni
sociali o specializzazioni. Nella grande Famiglia Umana dunque
un esplicito orizzonte di universalità fa si che l’intenditore
occidentale possa promuovere e giudicare l’arte del mondo
intero permettendosi di prescindere dal contesto culturale.
Paradossalmente, il creatore altro non è abilitato all’operazione
inversa ; se si considera che nella nostra società basta
un’etichetta a sancire il valore di un prodotto, si dimostra in
tutta la sua banalità un concetto che dovrebbe essere diffuso ma
purtroppo non lo è; l’unidirezionalità sottesa ad un tale 57 Sally Price, I Primitivi Traditi, Einaudi 1992
77
ragionamento si ripresenta dunque in ogni aspetto considerato
dall’analisi del testo. La definizione del “principio di
Universalità” prende le mosse dalla considerazione sullo
sviluppo della comunicazione e del mercato globale ; l’illusione
di un mondo alla portata di tutti ha per l’osservatore
occidentale il sapore dell’Unità, dell’Eguaglianza e della
Fraternità ; l’idea implicita della famiglia umana si evince dai
fenomeni pubblicitari,musicali o sociali quali ad esempio la
teoria del Buon Selvaggio, i manifesti della Benetton, il successo
della canzone We Are The World, la retorica delle associazioni
solidaristiche di carattere planetario o la propaganda
“umanitaria” (tra i topoi del caso è da segnalare la bambina
bionda che mostra affetto al bambino nero o il soldato che
soccorre ed aiuta bambini, civili o feriti di parte avversa).
Denominatore comune di una tale ispirazione filantropica è il
fatto che al botteghino dello spettacolo della Fratellanza Globale
siedano soltanto bigliettai occidentali, che grazie alla loro
benevolenza accordano ai loro fratelli minori la possibilità di
mostrarsi e mostrare conseguentemente anche i loro prodotti
una volta promossi allo status di oggetti d’arte. Leonard
Bernstein, forte dell’influenza di Noam Chomsky, rintraccia
questa universalità tramite la musica e la linguistica, arrivando
a formulare la teoria di una monogenesi. Anche l’arte
conseguentemente assurge al livello di “linguaggio universale”,
“fattore unificante” in quanto prodotto di sensibilità comuni a
tutti gli uomini, tendenti “naturalmente” alle stesse aspirazioni
di fondo quali il “benessere” e la “salute”(Suzan Vogel). Ritorna
dunque lo stereotipo progressista di un cammino medesimo per
ogni realtà umana della terra, in cui i fratelli maggiori hanno ora
il compito di aiutare i fratelli minori, oppure i primi hanno il
dovere di lasciar camminare i secondi sulle loro gambe, certi che
prima o poi li raggiungeranno in una modernità a dimensione
78
afro-occidentale. Si fondono dunque in un unico calderone e si
mettono sullo stesso piano dei concetti che richiederebbero
invece un’analisi endogena ed induttiva.
6.4 L’Africa come museo dell’Uomo: il dominio dell’irrazionale
Secondo Henry Moore, Paul Wingert e Ladislas Segy l’arte
primitiva sarebbe espressione di pulsioni dirette ed elementari ;
ponendo così sulla medesima scala interpretativa ogni tipologia
di produzione artistica vengono rase al suolo in un solo colpo le
diversità. Ma si tratta di un pregiudizio assai diffuso anche nella
sensibilità corrente; Judith Zilczer ha giustamente osservato che
per gli artisti e i critici occidentali “i neri africani rappresentano
l’infanzia culturale dell’umanità”. Nella nostra società gli
stimoli “essenziali” e “primordiali” sarebbero stati sepolti da
“una moltitudine di stimoli parassitari” (Wingert) ; tale
scenario,prospettato da un’affermazione che tristemente si
colloca negli anni’70, si mostra ulteriormente legittimato dalla
fallace premessa, peraltro già evidenziata, secondo cui tutti gli
uomini, per la loro natura universale, dovrebbero condividere le
stesse aspirazioni di fondo.
Il lato oscuro dell’uomo, incarnato dalla produzione del diverso,
è dunque ancora vivo nell’Africano, ed è sepolto dalla
complessità occidentale: questa la teoria che spesso viene
diffusa dai media, anche nella semplice fascinazione per i rituali
“esoterici” o “macabri” all’occhio civilizzato. Jean-Louis
Paudrat ci descrive come, secondo reminiscenze di Voltaire, la
figura del Negro sia automaticamente posta in relazione con il
Maligno, infarcita di superstizioni in stretto contatto con le
origini della storia dell’umanità. Ma tale eredità illuminista è
viva e vegeta ai tempi nostri. Le rappresentazioni primitive
parrebbero ispirate da paura ed ignoranza, e i loro limiti
79
sarebbero “sottoprodotti del lento sviluppo delle facoltà
intellettuali umane” (Erwin O.Christensen, 1955). Esemplare è il
caso dell’opera africana nota in Occidente come “testa
Brummel”, letta dallo scultore Jacob come evocazione di uno
spirito emblematico di forze occulte. Ancora, secondo Myers
“per il nero dell’africa occidentale non sussiste la nostra distinzione
tra realtà e irrealtà”. In sintesi, l’arte altra sarebbe il prodotto del
terrore di uomini succubi dell’ignoranza. Immagini di male e
morte sarebbero unicamente alla base dell’intenzione artistica.
Da notare inoltre l’insistenza sull’erotismo e le pulsioni
“primitive”,nonché l’ossessione che ogni oggetto celi la
fissazione per la sessualità ; ennesimo esempio di una
sottocultura evoluzionistica, purtroppo in gran forma ai giorni
nostri, che dipinge i popoli non occidentali come selvaggi
incivili ed al contempo “liberi” dai condizionamenti di una
società (la nostra) che li seguirebbe cronologicamente. Come tale
prospettiva sia abusata persino a livello pubblicitario ci viene
mostrato dal noto dualismo tra la presunta “genuinità del
selvaggio” e “l’artificialità del civilizzato”. La sistematica
decontestualizzazione di pratiche e usanze e l’ignoranza delle
concezioni e visioni altre smaschera un etnocentrismo radicale
che si manifesta persino nelle più semplici operazioni di
giudizio, e quanto il concetto di relativismo culturale sia astruso
dalla logica del pensiero popolare è testimoniato
dall’atteggiamento di una custode del Metropolitan Museum of
Modern Art, che descrivendo i costumi sociali della tribù Asmat
della Nuova Guinea esplicita una improponibile sequela di
stereotipi a partire dalla confusione del luogo abitato dalla
suddetta tribù con l’Africa. La pur precisa esposizione dei
dettagli etnografici coincide pedissequamente con il loro
fraintendimento.
80
6.5 Nessuna identità
Nessuna identità, nessuna collocazione sociale e storica propria.
E’questo il pregiudizio dell’anonimato dell’artista e
dell’atemporalità del suo operato ; L’ enciclopedica distinzione
occidentale di individualità e periodi stilistici si scontra con una
visione asimmetrica del creatore altro e conduce inevitabilmente
e erroneamente ad etichettare un qualsiasi scultore africano
come impersonale strumento di una tradizione tirannica e
ripetutamente uguale a se stessa, dove la personalità
individuale è del tutto assente. Tra i primi a focalizzare tale
problematica troviamo Franz Boas, che ha invitato a porre
maggior accento sulla creatività dei singoli e sui cambiamenti
storici.
6.6 Giochi di potere
Ancora interessanti riflessioni si evincono dalla definizione dei
cosiddetti “giochi di potere”; è l’occhio selettivo dell’occidentale
a promuovere gli oggetti etnografici ad opere d’arte,
decidendone le modalità di salvaguardia. Il sistema possiede le
risorse finanziarie e comunicative per accordare il valore
dell’opera, e conseguentemente ne incentiva la produzione
artistica in base alla richiesta, snaturalizzandone le ragioni
secondo il ben noto meccanismo della mercificazione dell’arte.
Nel migliore dei casi, la pregnanza artistica rimane in parte
intatta al prezzo di un’ibridazione. Le regole per impossessarsi
di tali opere sono ovviamente stabilite dagli occidentali, che
spesso ricorrono a veri e propri furti violando l’integrità sociale
e la dimensione spirituale di intere comunità ; caso esemplare è
la menzionata spedizione etnografica a Dakar del 1931, in cui la
vergognosa sottrazione dei “Kono”, importanti maschere rituali
81
della popolazione locale, ci è documentata dalle pagine di un
diario. Uno statuto degli anni ’50 regolerà in seguito l’attività
museografica, ma eluderà il problema in quanto porrà i suoi
cardini sul presunto diritto occidentale di “preservare” un
patrimonio che in altri modi andrebbe “perduto” e
sull’indennizzo economico dei proprietari, una volta introdotti
della logica di mercati interni assolutamente estranei a
determinate culture.
82
7 ::.. Conclusioni
Il lavoro ha dunque evidenziato la realtà attuale
dell’immaginario sull’Africa, analizzando i vari lati e le
tipologie che costituiscono la sua rappresentazione. Ad un
flusso di notizie quantitativamente limitato, si aggiunge il suo
carattere unidirezionale (la sua origine è quasi integralmente
collocata nel panorama occidentale) e reiterato dal punto dei
vista dei contenuti. Il carattere di questi ultimi è di stampo
umanitario e progressista, ora nelle forme di un’assistenzialismo
paternalista, ora nelle forme di numerosi stereotipi evolutivi
storicamente radicati. Quand’anche si voglia rifuggire
l’immagine di un Africa immobile, lo si fa in termini di
confronto al Primo Mondo, cronologicamente “più avanzato”.
Le ragioni di questa rappresentazione possono evincersi:
1. nel divario digitale, ovvero nella disparità di possesso di
tecnologie; tra le conseguenze del fenomeno vi è dunque
una carenza prima di produzione dell’informazione
83
endogena. Nel caso africano, le poche infrastrutture di
comunicazione hanno un solco statalista, post-coloniale o
sono legate a doppio filo con organizzazioni occidentali.
2. nello stretto legame tra informazione e potere; l’esigenza di
mantenere un dato status quo, di gestire manovre di
politica estera o l’influenza dei grandi cartelli
commerciali multinazionali è in grado di determinare
una rappresentazione conforme ad interessi corrispettivi.
3. nella reiterazione di procedure, routines e meccanismi acquisiti
da parte degli operatori dell’informazione. Essi pescano
dai criteri di notiziabilità e dai canoni della creazione
dell’agenda setting, al loro volta correlati con le esigenze
produttive ed economiche delle azienda-informazione ed
alle categorie derivate dal serbatoio di conoscenze
comuni pregresse.
7.1 Per una decostruzione dell’immaginario
Quali possono essere alcuni spunti per una vera e propria
decostruzione dell’immaginario sull’Africa, ormai così fortemente
alimentato da una rappresentazione auto-sufficiente?
7.1.1 Ridurre il divario digitale?
Come sottolinea Luciano Balbis58, tra le soluzioni spesso
richiamate vi è quella di finanziare progetti di tecnologizzazione
di aree in posizione subordinata o secondaria rispetto
all'Occidente industrializzato: prospettiva certo non nuova e
richiamata di recente da un dossier sulle reti pubbliche
nazionali. In una situazione geopolitica come quella attuale, 58 Luciano Balbis, “Te la do io la libertà” da www.opifice.it/blbs.htm
84
delineatesi in maniera estremamente evidente i rapporti di
forza, quali dunque le prospettive per le “diversità” del mondo
di poter lanciare – e far trasparire – messaggi differenti, se prive
dei medesimi canali di scambio? Quale l'agibilità mediatica – e
conseguentemente politico-culturale – di modus vivendi e
operandi “altri”, al di fuori dei mezzi che il dominante Primo
Mondo utilizza? Internet in primo luogo, ma anche tecnologia
satellitare, telefonia mobile e tutto ciò che la rivoluzione digitale
comprende sono la conditio sine qua non per la “trasmissione”
globale della diversità? Diversi paradossi sono celati dietro una
certa tipologia di ragionamento: sorge infatti il dubbio di
trovarsi di fronte all'ennesima rilettura della (vera o presunta)
filantropia liberale, secondo cui “una parte” del mondo
possiederebbe le insindacabili chiavi per la libertà “dei più”, gli
elementi neutri e pacifici a disposizione dell'umanità intera per
la propria incondizionata espressione. Dopo i diritti umani, ecco
i diritti digitali. In questo senso, un notebook tra le mani degli
aborigeni australiani può essere accolto come un segno della
generosità occidentale; o come una prosecuzione del
colonialismo secondo altri mezzi, in relazione ai punti di vista.
Ha certamente qualche fondamento l'osservazione secondo cui
la riduzione del gap digitale sia necessaria non in nome di una
ineluttabile ideologia del Progresso, che vede il ritardo dei
fratelli minori dell'umanità come lacuna da colmare, quanto
piuttosto come soluzione politica ad una oggettiva
configurazione di rapporti di forza: vale a dire che le
superpotenze, omologanti e totalizzanti per eccellenza,
traggono linfa vitale dalla stessa situazione di predominio sulla
comunicazione digitale, resa ormai unico mezzo di effettiva
trasmissione dell'informazione. E' però altrettanto vero che lo
scenario geopolitico e l'omologazione culturale vanno di pari
passo con l'ampliamento progressivo dei mercati, siano essi
85
quelli inerenti alla tecnologia, siano essi conseguenti
all'informazione-merce. E' dunque sempre lecito interrogarsi
sulle operazioni pianificate come quelle ricordate in apertura di
questo articolo, nel caso in cui vengano promosse da istituzioni
governative, cartelli commerciali ma anche da associazioni no-
profit. Certamente la globalizzazione – laddove è in fase oramai
avanzata – non necessariamente dovrà tradursi nel dominio dei
medesimi modelli e valori mercantili, ma la sua forzata
prosecuzione tramite gli oggetti della tecnologia digitale
dimostra quantomeno che la lezione di Marshall McLuhan ha
probabilmente da attendere per esser compresa; ovvero che “il
medium è il messaggio”, e non soltanto un significante neutro al
quale il popolo Maroon del Suriname o i contadini del Vietnam
potranno integralmente imprimere il segno della propria
specificità, magari trasformandola in oggetto politico. Versione
conciliante con certi intenti filantropici, ma poco attenta ai
meccanismi deformanti che il medium opera sulla percezione di
chi lo utilizza; l'estensione di se stessi quasi in senso fisico, uno
spazio e tempo appiattiti e intercambiabili, un'idea di libertà
corrispondente a quella moderna, riposta sulla quantità (di
immagini illusorie, suoni e luoghi virtuali, di informazioni -
troppe e tutte equivalenti, come su Internet – ecc. ecc.) piuttosto
che sulla qualità di un vissuto quotidiano, quest'ultimo magari
davvero fondante per la singola specificità.
E' questo il vero ruolo che dovrebbe assumere una politica
attenta agli “usi della diversità”, per riprendere una felice
espressione di Clifford Geertz; permettere alle singolarità di
dimostrarsi e comunicare secondo mezzi e modi che in primo
luogo esse stesse ritengono opportuni (sempre che lo ritengano).
Prima ancora che fornire linguaggi e oggetti “più adatti” ad
essere se stessi. Evitando gli estremi opposti, per cui pools di
antropologi scoraggiano gli indiani d'America dal dotarsi di
86
strumenti della tecnologia; se anche alcune dinamiche possono
avere radici esogene (ad esempio, nella colonizzazione
dell'immaginario) ma nel contempo mostrano autonome
decisioni endogene, è altrettanto grottesco ergersi a tutori della
libertà di una comunità altra.
Sposando però programmi di dotazione massiva di telefoni
cellulari per i Tuareg, più che un servizio alla diversità, si rende
forse un ennesimo omaggio alla società mercantile.
7.1.2 L’informazione alternativa
Vi sono poi gli operatori del settore della cosiddetta contro-
informazione, (i portali internet e le fonti alternative, il mondo
del giornalismo freelance, i network associati indipendenti ecc.)
che sperano di apportare dei correttivi sociali alle naturali (o
inevitabili perché consentite dal meccanismo) distorsioni di tale
modello, appoggiandosi fondamentalmente ai nuovi media e
formats: la rete internet infatti ha dato il via ad un proliferare
finora sconosciuto delle fonti informative, nonché dei mezzi
utilizzati per dare ad esse una forma. I portali e i blogs in tal
senso sono due tra le tante possibilità di recuperare in
pluralismo quello che viene perso con la naturale emissione di
informazioni secondo un agenda da parte dei tradizionali
media. Ovviamente, per ragioni strutturali, qualsiasi utente di
un blog o creatore/redattore di portale crea la sua propria e
soggettiva “agenda”; con il vantaggio –per i soggetti riceventi-
di poter acquisire elementi da una pluralità simbolicamente
illimitata di fonti, e soprattutto con la possibilità di
pluridirezionalità del processo comunicativo/informativo, al
contrario del tradizionale mezzo predominante della televisione
–unidirezionale per via del suo percorso privo di feedback diretto
con l’utenza, e pervasivo in quanto onnipresente nella
87
medesima forma in ogni contesto ricevente). Come sostiene
Alain De Benoist59, il nuovo contraltare generato dai nuovi
media è la perdita di “gerarchizzazione” dell’informazione,
facilmente riconoscibile quando fornita in modo chiaro e
univoco da un medium di portata mondiale come un
telegiornale di una grossa emittente, ma confusa ed equivalente
quando sovrabbondante come nei meandri di internet.
In ogni caso, gli sviluppi di internet sono forse i più auspicabili
per favore una decostruzione dell’immaginario attraverso la
diffusione di correttivi plurali.
7.1.3 Una soluzione metapolitica
Ma come sostiene Daniele Mezzana, si è da più parti
sottolineato che non appare sufficiente garantire un semplice
aumento di copertura informativa sul continente africano.
Occorre agire su più livelli. Scarsa fiducia è probabilmente da
riporsi nelle agenzie internazionali (enti e commissioni per lo
“sviluppo”, concetto di per se estraneo all’Africa, Ong,
associazioni umanitarie e via discorrendo) e negli apparati
istituzionali, che sono ora connessi strettamente con le
dinamiche della finanza mondiale, ed in quanto tali fortemente
interessate da una parte alla creazione di nuovi mercati (per loro
stessa natura lontani da un modello africano) e dall’altra alla
perpetrazione di un’immagine funzionale al consumo
(dell’informazione-merce e di tutto ciò che gravita intorno alla
categoria-Africa), ora artefici seppur involontari e in buona fede
dell’introduzione in Africa di meccanismi estranei e deleteri per
un equilibrio sociale già indebolito. Maggior rilievo deve
assumere il campo dell’associazionismo non umanitario, degli
apparati scientifici e culturali: l’azione di diffusione di versioni e 59 www.opifice.it
88
fonti alternative sul continente africano nel mondo occidentale
deve avvenire per mezzo di un continuum svariato di attori, dal
singolo soggetto attraverso le opportunità di internet, passando
per i settori dell’arte e della comunicazioni (cinema, musica,
letteratura) per poi giungere alle fonti scientificamente
propriamente dette, di carattere sociologico e antropologico.
L’azione dunque deve assumere un carattere metapolitico, ossia
innescare un processo virtuoso di riconversione degli stereotipi
sul piano culturale, lontani dai lidi della comunicazione ufficiale
(che segue le logiche aziendali), delle istituzioni, del
fallimentare associazionismo sviluppista o assistenzialista e
dell’economia strumentale.
89
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91
..:: Sommario ::..
1. Introduzione
...………………………………….……Pag.42. L’immagine coloniale
……………………………………… Pag.10
3. Le ragioni attuali di una rappresentazione
……………………………..…………Pag.27
4. I flussi informativi
……………………………………….Pag.60
5. Stereotipi e discorsi tipici
……………………………………….Pag.67
6. Un caso di comunicazione: l’arte africana
……………………………………....Pag.73
7. Conclusioni
...…………………………………... Pag.82