Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

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1 LA RAPPRESENTAZIONE MEDIATICA DELL’AFRICA SUBSAHARIANA

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Tesi di Laurea Scienze della Comunicazione

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LA RAPPRESENTAZIONE MEDIATICA

DELL’AFRICA SUBSAHARIANA

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Alla mia Famiglia,

per la sua insostituibile sicurezza

Al Centro Studi Opifice

per avermi donato gli strumenti del Pensiero

A Elisabetta

per il suo amore e il suo sostegno incondizionato

A Tatiana

per aver affrontato con me questo viaggio

A Me

perchè un po’me lo merito

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Ed è tempo finalmente di sostituire alla domanda kantiana

<come sono possibili giudizi sintetici a priori?>> un’altra domanda:

<<perché è necessaria la fede in tali giudizi?>> è tempo, cioè, di comprendere,

che tali giudizi debbono essere creduti veri allo scopo di conservare gli esseri

della nostra specie;per cui naturalmente potrebbero essere anche falsi giudizi!

O, detto più chiaramente, duramente e definitivamente:

giudizi sintetici a priori non dovrebbero affatto <<essere possibili>>;

non ne abbiamo alcun diritto

Friedrich W. Nietzsche

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1 ::.. Introduzione

Lo scopo del seguente lavoro è un’analisi della

rappresentazione mediatica, con specifica attenzione al caso del

continente africano ed al suo versante subsahariano. Per

rappresentazione mediatica si intende qui l’insieme di teorie,

tecniche, modelli ma soprattutto procedure che sono sottese alla

diffusione di una determinata immagine di un evento, una

realtà sociale o geografica attraverso i mezzi di comunicazione

di massa. Nella fattispecie, i media oggetto dell’analisi sono

costituiti principalmente (ma non in esclusiva) da

quotidiani,telegiornali, riviste ed illustrazioni

propagandistiche/pubblicitarie provenienti dall’intero

panorama del mondo occidentale, ovvero il blocco geografico

europeo e statunitense. Si prenderà dunque in considerazione

lo studio sistematico dei meccanismi comunicativi (consapevoli

e indiretti) secondo tecniche e modelli generali, per poi

rivolgere l’attenzione al continente africano e più specificamente

alla zona sub-sahariana. Il fine ultimo dell’indagine sarà quello

stilare un quadro completo dell’immaginario comune di una

realtà sociale/geografica (in tal caso, quello che è comunemente

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indicato come Terzo Mondo) e le connessioni dello stesso con la

sua rappresentazione proveniente dai mezzi di informazione.

A tal fine l’analisi dovrà procedere per gradi congiunti,

considerando una pluralità progressiva di fattori. Il primo

capitolo esaminerà le radici primarie della “costruzione

dell’immaginario”, ovvero il sedimento storico e il substrato

culturale dal quale si origina il materiale per uno o più

“discorsi” ricorrenti sull’Africa. Questa operazione avverrà

esaminando il periodo del colonialismo classico di fine ‘800 e

inizio ‘900, con riferimenti esemplificativi alla stampa europea

di carattere informativo e popolare, alle illustrazioni sui

quotidiani ed alla conseguente creazione di immagini-tipo, alle

forme di comunicazione politica e propagandistica dell’epoca.

Il secondo capitolo porrà in seguito le basi per conoscere le

ragioni odierne di una data rappresentazione e le teorie generali

di azione mediatica più specificamente proprie dei tempi

attuali; si partirà con un’analisi del fenomeno del divario

digitale, ovvero la disparità nel possesso e nella diffusione di

tecnologie tra Nord e Sud del mondo. Secondo alcuni, tale

fenomeno fungerebbe da ostacolo primo per la produzione e

diffusione di notizie dai lidi africani verso il resto della società

globale. In seguito verrà analizzato il rapporto di

interconnessione tra politica, economia ed informazione. Una

delle ipotesi più accreditate e verisimili è infatti quella secondo

cui a squilibri di rappresentazione (o più semplicemente ad un

dato carattere della stessa) corrispondano paralleli squilibri di

potere. In altri termini, i rapporti di forza geopolitici

condizionerebbero di conseguenza la costruzione (o la non-

costruzione) di una determinata immagine per ragioni di

interessi contingenti. Saranno poi evidenziati i meccanismi

inconsapevoli, le operazioni automatiche di gestione del

materiale informativo da diffondere: in altri termini,i criteri

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classici di notiziabilità, ovvero le routines implicite ed esplicite

sottese alla selezione dei valori-notizia – quelli che nel canone

giornalistico occidentale determinano la priorità effettiva della

notizia stessa - e di creazione del cosiddetto agenda setting,

ovvero quell’ensemble di dinamiche che guidano la scelta – per

tipologia, utilità e caratteristiche- dei costituenti quotidiani da

parte di una testata informativa. Il citato ensemble non si esime

ovviamente dallo svolgere un ruolo anche in relazione al

contesto geografico preso in analisi.

Nell’intero capitolo saranno presenti riferimenti ricorrenti al

contesto africano ed alla sua presenza (o come si vedrà, assenza)

nello scenario mediatico, attraverso il ricorso a fonti primarie e

secondarie.

Il successivo capitolo sarà rivolto allo studio dei flussi: tramite

dati, cifre e statistiche si cercherà di mostrare in che percentuale

i media – si ricorda, in prevalenza quotidiani e telegiornali –

riportano notizie e contenuti inerenti alla realtà africana,

presentandone tipologia e modalità di apparizione.

Necessariamente si ritorneranno ad esaminare seppur in breve i

già citati criteri di notiziabilità che regolano presumibilmente i

suddetti flussi informativi.

Il quarto capitolo sarà invece quello più specificamente dedicato

all’immaginario collettivo sull’Africa, derivato dalla sistematica

“rappresentazione” del continente attraverso le procedure

esaminate nei precedenti capitoli, dagli elementi di cultura

popolare ormai sedimentati ed accumulati, dalle ragioni che ad

una data rappresentazione sono sottese.

Può evincersi un cospicuo numero di “discorsi” ricorrenti e

stereotipi tipici, quasi come immagini di repertorio, sull’Africa,

sull’Africano e sull’africanità in termini generali, a partire da

schemi semplificanti come quello principale secondo cui per

Africa si intende un continuum indifferenziato ed addirittura

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approssimativo sul piano della sua collocazione geografica. Tali

discorsi tipici, come già detto, derivano in parte dalle routines e

dalle distorsioni inconsapevoli, ideologiche o tecniche, in parte

da altri fattori volontari e mirati. Queste procedure sono

ovviamente interconnesse e non sempre demarcabili con facilità.

L’ultimo capitolo avrà un carattere molto specifico ed a se

stante, in quanto esaminerà come gli stessi preconcetti e le stesse

procedure si riflettano attraverso un caso concreto di carattere

comunicativo anche se non prettamente giornalistico:

l’interpretazione dell’arte figurativa africana sulla base del testo

“I primitivi traditi” di Sally Price, che mostra in maniera

lampante come un certo immaginario acquisito possa costituire

la forma mentis per la produzione di “giudizi sintetici a priori”

su una realtà altra, e quindi sulla sua rappresentazione.

In linea di sintesi, si possono presentare le seguenti tesi:

Le notizie e le immagini che riguardano il continente, da un

punto di vista prettamente numerico, non sono numerose e

sufficientemente abbondanti.

Il divario digitale (o digital divide, la diffusione ancora

limitata di tecnologia e sorgenti d’informazione primarie ed

endogene nei paesi definiti “in “via di sviluppo”) funge

probabilmente da primo filtro, come ostacolo a priori nella

produzione e irradiazione dell’informazione in primo luogo per

opera degli stessi operatori locali. Ovviamente, tale tesi

meriterebbe ulteriori considerazione sulle ragioni

antropologiche da una parte (il perché tali popolazioni non

abbiano seguito un percorso comune ad altre realtà geografiche

nel percorso tecnologico), geopolitiche e socio economiche

dall’altra (se le condizioni di questa “mancanza” derivino dai

già menzionati fattori contingenti – ostacoli, avvenimenti storici

condizionanti - e/o rapporti di forza).

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Quando presenti, le notizie riguardano eventi maggiormente

spettacolarizzabili (la cosiddetta capacità di intrattenimento) e

comunque rispondenti ai generici criteri di notiziabilità e

agenda setting. In questa indagine ci si atterrà alle felici

intuizioni di M.Wolf nella sua definizione di criteri relativi al

prodotto, al mezzo ed al contenuto.

Ancora, la presenza (e la conseguente tipologia) o assenza di

materiale informativo sullo scenario africano risponde ad

interessi strategici o commerciali. Strategici dal versante

geopolitico, quando la diffusione di una data immagine giova a

manovre imminenti di politica estera, o più semplicemente al

mantenimento dello status quo; commerciali dal punto di vista

della pubblicità, con l’utilizzo di categorie pre-esistenti

nell’immaginario popolare, oppure per ragioni di audience e

vendibilità dell’informazione-merce, ed infine per le

connessioni che la sfera economica nutre al giorno d’oggi con

quella politica, a dire il vero da essa soppiantata.

Il materiale che alimenta (ed è a sua volta auto-alimentato)

l’immaginario africano è di carattere umanitario, paternalistico e

dal taglio assistenziale, in ogni caso di stampo progressista. Il

carattere umanitario/paternalista si evince nel continuo

richiamo ai diritti umani in riferimento alle situazioni di guerre,

catastrofi e avvenimenti luttuosi o riprovevoli all’occhio

occidentale; le immagini di repertorio assecondano tale carattere

ed è continuo il riferimento al ruolo delle Ong e dei paesi

“sviluppati” come strumenti di assistenza per lo “sviluppo” del

continente africano. Il cosiddetto “afro-pessimismo”, ovvero

l’incapacità ritenuta intrinseca alle popolazioni locali di

assurgere ad uno status differente da quello catastrofico e di

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eterna guerriglia, permea i discorsi giornalistici/culturali che

puntano sul ruolo europeo o statunitense. Quand’anche questa

propensione assistenzialista non sia così nettamente spiccata,

ed anzi criticata apertamente, assume in ogni caso una

prospettiva progressista, che induce a ipotizzare in ogni caso

una “via africana” alla modernità, presentata come fatto

inevitabile nelle forme e negli approdi tipici occidentali. Una

simile rappresentazione affonda le radici in una sorta di tardo-

evoluzionismo culturale ancora molto radicato, secondo cui una

medesima linea evolutiva debba essere attraversata in ogni

tempo e luogo dalle popolazioni della terra, e laddove questo

non sia avvenuto, vi devono essere state ragioni contingenti a

frenare lo “sviluppo” (es. colonialismo, ingerenza di

superpotenze in affari interni, rapporti geopolitica, guerre

civili), o addirittura ragioni antropologiche. L’africano come

fratello minore dell’umanità, eterno bambino e buon (o cattivo)

selvaggio; schemi interpretativi classici che fanno da faro ad una

catena di rappresentazioni reiterate.

In questo contesto, è perennemente rifuggita una lettura

veramente endogena dei fenomeni e degli eventi, secondo un

approccio relativista: approccio – secondo chi scrive – ben più

consono per l’analisi e la rappresentazione giornalistica

profonda di una realtà complessa come quella dell’Africa

subsahariana.

In chiusura del lavoro, sarà presente una breve somma di

conclusioni dell’analisi, con alcune prospettive e possibilità per

una rappresentazione alternativa del continente.

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2 ::.. L’immagine coloniale

Così come accade anche per altri fenomeni storici e culturali,

anche per il caso Africano appare evidente come certe idee e

stereotipi siano frutto non esclusivo di una contingenza

temporale attuale o di meccanismi di deformazione mediatica

puramente “tecnici”, quanto piuttosto di un lungo processo di

sedimentazione nella coscienza comune, ampiamente condiviso

in maniera trasversale in tutti i settori della cultura politica e

popolare di un paese. In altri termini, la costruzione

dell’immaginario intorno ad una categoria di persone o ad una

realtà sociale/geografica avviene nel corso degli anni attraverso

una serie di fonti che in maniera reiterata alimentano

un’impalcatura di concetti.

2.1 Le premesse storiche e culturali

Si tratta ad esempio del caso del razzismo, che come ricorda

Daniele Mezzana, è “impossibile confinare sbrigativamente (…) a

una sorta di parentesi di irrazionalità nella storia dell'occidente, con

qualche precursore (Gobineau ed altri) e una "esplosione" negli anni

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'30 e '40 del secolo scorso. 1“: abbiamo in effetti a che fare in primo

luogo con una teoria scientifica errata2, approvata e consolidata

fin dagli insospettabili pensatori dei Lumi. Marco Marsilio, nel

suo libro “Razzismo, un’origine illuminista”, descrive con

dovizia di particolari e citazioni quando questo fenomeno abbia

padri autorevoli e Gianni Scipione Rossi 3ricorda “che il

razzismo, nelle sue varie declinazioni, è un prodotto specifico della

modernità (…)Nonostante siano numerosi – a cominciare dal classico

Mosse de Il razzismo in Europa – gli studi che chiariscono come il

razzismo, con la sua subordinata antisemita, non sia purtroppo frutto

del parto estemporaneo della Germania hitleriana, questa

consapevolezza è tutt’altro che diffusa. Prevale la convinzione che –

senza l’impazzimento tedesco degli anni Trenta e Quaranta del secolo

scorso – la storia dell’uomo avrebbe continuato tranquillamente a

procedere lungo i sentieri luminosi tracciati dai philosophes e dal

positivismo, verso un mondo in cui il bene – come categoria filosofica –

è progressivamente destinato a prevalere sul male.” Per non dire

degli angoli facciali, del prognatismo, della craniometria, del

poligenismo e del determinismo biologico, che pretendeva

legare indissolubilmente la forma umana con le qualità

intellettive e morali dell’uomo. Parametri ed interpretazioni,

quelle del pregiudizio razziale, che vanno ben oltre la possibilità

di una ferrea categorizzazione negli schemi della politica o della

stretta contingenza storica.

Le riflessioni sopra esposte non possono prescindere però da

una dato basilare, ovvero l’impatto profondo che la scuola

antropologica evoluzionista ha esercitato nell’800 in tutti i livelli

del pensiero umano, da quello scientifico a quello popolare.

1 Daniele Mezzana in “Razzismo Illuminato”, http://immagineafrica.blog.tiscali.it2 Alain De Benoist e Charles Champetier, “La Nuova Destra del 2000”, in Diorama Letterario n°229-230 3 Razzismo. Il buio della ragione nel secolo dei lumi, Gianni Scipione Rossi ne “Il Riformista”, 19 ottobre 2005

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Non è errato affermare infatti che nessuna branca

dell’antropologia culturale è riuscita a diffondersi a macchia

d’olio nelle coscienze quanto quella evoluzionista, assurta a

modus interpretandi generico, ben al di là del suo mero

carattere scientifico, per di più erroneo.

Secondo tale ottica, la “cultura umana” sarebbe unica,

sviluppata nel tempo, seguendo presso tutti i popoli della terra

la stessa sequenza di sviluppo, divisa per stadi di carattere

psichico in primo grado, e conseguentemente

scientifico/tecnologico e culturale. Dunque i vari popoli

percorrerebbero nel loro cammino evolutivo una sequenza di

stadi culturali fissi, che li dovrà condurre - in un tempo

differenziato ma inevitabile - dalla selvatichezza originaria alla

civiltà, quasi come a voler ipotizzare un “fine implicito” della

storia, il che ne sottintende una visione metafisica, messianica.

Le differenze culturali riscontrabili sarebbero dovute ai diversi

stadi raggiunti dalle società nel loro cammino di sviluppo. Le

società primitive attuali in questo scenario rappresentano uno

stadio che le società occidentali hanno attraversato in un

lontano periodo, una sorta di archivio vivente: la teoria dei

fratelli minori dell’umanità. Un ensemble di idee per nulla

dissimile a ragionamenti diffusi anche nei tempi attuali, dove la

discutibile teoria dello scontro di civiltà4 del politologo Samuel

Huntington è uno schema acquisito dall’opinione pubblica, con

l’aggravante di utilizzare parametri estremamente banalizzanti

nella definizione dello stesso concetto di civiltà, in tutto e per

tutto simili agli stereotipi evoluzionisti. In tal senso questa

corrente antropologica, benché ufficialmente abbia visto i suoi

epigoni con il termine della seconda guerra mondiale, è ancora

subdolamente diffusa e approvata dall’immaginario

comune.Per meglio chiarire come questo concetto abbia 4 Samuel Huntington, “Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”, Garzanti 2000

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condotto agevolmente –da un punto di vista culturale- al

colonialismo, - e come nuovamente ci si trovi di fronte a

procedure affini per il neocolonialismo di stampo americano-

occidentalista - si riportano qui le parole di Fabietti5:

“La fiducia nel progresso materiale e sociale costituì il quadro

ideologico entro il quale venne organizzandosi il lavoro teorico degli

antropologi evoluzionisti. Per questi ultimi quello di progresso era un

concetto sintetico per mezzo del quale diventava possibile esprimere

contemporaneamente le idee di cumulatività e di continuità culturale.

La convinzione dell’esistenza di un progresso nella storia dell’uomo

deriva essenzialmente dalla considerazione della società industriale di

metà Ottocento come di quella società che si trovava al più alto stadio

di una evoluzione culturale di natura cumulativa. L’eccezionale

incremento produttivo di cui le società europee, e soprattutto quella

inglese, stavano sperimentando gli effetti da qualche decennio divenne

la chiave di lettura della storia passata: le leggi che governavano

l’incremento della produzione materiale ed intellettuale della società

presente dovevano essere le stesse che dapprima lentamente, poi via via

sempre più rapidamente, avevano determinato lo sviluppo delle società

passate e quindi il passaggio da uno stadio culturale inferiore ad uno

stadio superiore”.

2.2 Imperialismo e colonialismo: la comunicazione e la

propaganda

Da un punto di vista culturale, si comprende come sia

necessario che certi assiomi siano condivisi per generare delle

conseguenze effettive in sede di decisione politica. Di più, sono

necessari per motivare effettivamente le azioni agli occhi

dell’opinione pubblica. Il meccanismo della formazione del

consenso non disconosce certamente i principi della psicologia

5 Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 1991 pag.12

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delle masse, e come avviene oggi tramite il massiccio

bombardamento mediatico, la preparazione di un evento segue

alla genesi di uno stato mentale, un humus giustificazionista per

agire in discesa.

Come afferma Simone Olla6, “Preparare l'opinione pubblica ad un

evento significa prepararla alla guerra oppure alla restrizione delle

libertà individuali oppure al cambio di moneta. In tutti i casi sarà un

processo unidirezionale rivestito da un bene superiore: il bene della

collettività. Preparare l'opinione pubblica ad uno stato mentale

significa prepararla alla paura oppure alla sicurezza oppure alla

tranquillità. Evento e stato mentale corrono su binari paralleli, si

completano e si giustificano vicendevolmente”; in questo senso le

élites governative, come si approfondirà nei capitoli successivi,

diffondono in maniera reiterata una immagine dei luoghi

conformemente alle intenzioni ed equilibri geopolitici ed alle

esigenze di politica estera. Questo è il caso in cui talune

convinzioni culturali (come quelle evoluzioniste) non siano più

in realtà totalmente approvate dalle élites, ma riprese

utilitaristicamente facendo leva sulla predominanza delle stesse

nell’immaginario delle masse.

Trasformare l’imperialismo in una causa popolare e generare

interpretazioni ricorrenti del’Africano-tipo tramite gli strumenti

di comunicazione e propaganda: questi i dettami del

colonialismo di fine XIX secolo e del primo XX secolo. Come si

avrà modo di notare nelle successive riflessioni, i paradigmi

allora creati (a loro volta abbondantemente nutriti dagli umori

evoluzionisti) si sono aggiunti alla stratificazione dell’Africa

immaginaria e sono rintracciabili ancora oggi.

6 Simone Olla, “Ecologia e sviluppo, un binomio insostenibile”, www.opifice.it

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Secondo le informazioni riportate dal sociologo olandese Jan

Nederveen Pieterse7, durante il diciannovesimo secolo

l’orientamento generale dell’opinione pubblica europea era

ancora anticolonialista. Un’implicita idea di superiorità era ad

ogni modo diffusa, in quanto lo sfruttamento commerciale

dell’Africa - tramite l’ingerenza dei mercanti europei nelle

questioni di monopolio – veniva considerato giustificabile. Il

mutamento repentino dello scenario e delle esigenze politiche

sul finire del secolo medesimo generò però un progressivo e

rapido cambiamento su questa materia. L’esigenza di rendere

“popolari” nazionalismo ed imperialismo dette il la ad una

propaganda patriottica di massa. Una teoria comune e piuttosto

accreditata è quella dell’esigenza, da parte delle élites politiche,

di neutralizzare i nascenti conflitti di classe tramite il ricorso ad

una solidarietà nazionale, e i movimenti imperialisti erano

perfettamente utili ad un simile scopo. Non è questa la sede

adatta per analizzare, da una prospettiva prettamente storica, le

ragioni dei fenomeni che interessarono il periodo a cavallo tra

l’Ottocento e il Novecento, quanto è interessante analizzare una

emblematica carrellata di idee-tipo (ora derivate, ora

appositamente edificate) sulle realtà dell’attuale mondo

africano, diffuse nel periodo in questione attraverso gli

strumenti della letteratura, della satira e dell’humor, della

stampa, dei materiali pubblicitari, propagandistici e

iconografici.

Come riporta lo stesso Pieterse, la presenza sulla stampa dei

conflitti coloniali contribuiva al prestigio nazionale,

specialmente in contrasto con l’ascesa della stesso tipo delle

potenze europee rivali. In Francia ed in Inghilterra, ad esempio,

il primo approccio della stampa nei confronti delle guerre

coloniali si esplica attraverso due tipologie di riviste: quelle 7 J.N Pieterse, White on Black: Images of Africa and blacks in western popular culture, 1992

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prettamente di informazione, come l”Illustrated London News”

nel paese britannico, ed altre di carattere satirico, come

“Punch”, “Judy” o “Fun”. Per la Francia citiamo “Le Rire”,

“Pêle Mêle”, “L’Assiette au Beurre”; in Germania, “Lustige

Blätter” e “Simplicissimus”.

Le prime, quelle di tipologia informativa, prediligevano l’invio

di speciali corrispondenti alle cosiddette piccole guerre. La

rappresentazione dei combattenti era sempre eroica ed

iperbolica, in modo tale che assieme all’intento di cementare la

retorica di orgoglio nazionalista, la vicenda militare venisse

percepita comunque come una forma di spettacolo, in virtù

anche della distanza geografica dei luoghi interessati. La stampa

satirica, che per ragioni economiche non ricorreva all’uso di

inviati, aveva come oggetto di rappresentazione la forma della

caricatura, spesso per mezzo di editoriali illustrati. Tra i primi

stereotipi rintracciabili, ne ritroviamo alcuni proprio attraverso

queste illustrazioni. L’immagine di fondo dell’indigeno africano

è quella di un reale nemico. La necessità di generare un nemico

metafisico, per dirla con Hannah Arendt, trova corrispondenza

anche nella sua rappresentazione estetica. In altre parti della

nostra analisi tratteremo dello stereotipo del buon selvaggio, e

della “semplicità” del negro intesa come purezza, status

incontaminato di una fase precedente di quella umanità ormai

civilizzata. E sebbene l’indigeno combatte, in accordo con

questa visione mantiene il suo alone di purezza ed acquista la

parvenza di un guerriero nobile. Con queste illustrazioni invece

l’aspetto truce e brutale del combattente rovescia

completamente il senso – da positivo a negativo – delle

medesime qualità ad esso attribuite.

Per utilizzare un’espressione dello stesso Pieterse, queste

pratiche passano sotto i meccanismi della “psicologia

dell’antagonismo”: ed è emblematico il trattamento riservato

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alla figura del re Zulu Cetshwayo KaMpande dalla stampa

informativa e satirica britannica. Nel luglio del 1879 gli eserciti

d’oltremanica infatti sferravano l’attacco decisivo agli Zulu

dopo pesanti perdite in precedenti battaglie, per mezzo del

primo utilizzo in assoluto delle mitragliatrici Gatling nel

continente, reputate dal Giornale dell’Esercito e della Marina

“particolarmente adatte a terrorizzare un nemico barbaro o semi-

civile”. La stampa popolare ovviamente non fece menzione del

fatto. Tale popolo era fatto – fino all’avvento della guerra Zulu

– oggetto di ammirazione proprio per le doti militari, la

disciplina organizzativa e le tattiche di guerra, ma proprio

durante il conflitto la sua rappresentazione mutò a tal punto dal

mostrare un rovesciamento delle caratteristiche di marzialità e

precisione in follia degenerata ed animalesca. Il re Cetshwayo, a

capo del suo popolo dal 1873, appariva nei ritratti e nelle

stampe con sembianze “normali” e piuttosto verisimili, per poi

esser dipinto fino alla data della vittoria britannica sotto spoglie

e sembianze invasate, furiose ed animalesche.

In condizioni di normalità l’immagine classica del guerriero

africano era comunque piuttosto modesta, con armi rozze ed

arcaiche (ad esempio come la figura pubblicitaria della Liebig)

nonostante fosse già presente una certa dotazione di armi da

fuoco.

L’aggressione è crudeltà, la nudità è primitivismo, incapacità di

controllo e repressione delle pulsioni, la semplicità –dei costumi

e delle armi- è inferiorità ed affinità animalesca. Da una parte il

nudo guerriero crudele, dall’altra il soldato, disciplinato da un

esercito ed impeccabile nella sua uniforme. Uno schema

familiare anche nei tempi attuali, quello della barbarie versus la

civiltà.

Come nel caso dei sacrifici umani: a far da preludio a nuove

campagne coloniali spesso veniva utilizzato tale pretesto, con

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tanto di illustrazioni al dettaglio sui casi specifici. Il già citato

“The Illustrated London News”, nel novembre del 1874

pubblicò una sequenza di articoli riguardanti gli Ashanti,

descrivendo con minuzia di particolari rituali sinistri tenuti da

stregoni. Immagini e disegni mostravano immagini truci di

sacrifici come una donna legata ad un palo ed in procinto di

essere aggredita da un coccodrillo.

L’abolizione dei sacrifici umani fu il pretesto dell’invasione

britannica del Benin nel 1897, secondo lo slogan “Fermiamo la

barbarie africana! Aboliamo i sacrifici umani!8”. In questo senso si

spiega il ricorso del filosofo e giurista italiano Danilo Zolo al

monito di Proudhon, poi ripreso da Carl Schmitt, “chi dice

umanità cerca di ingannarti” quale chiave di lettura per la non

lontana guerra in Kosovo nel suo caso specifico9, ma valido

come concetto generico: dichiarare una guerra “umanitaria”

significa mettere in moto un diabolico meccanismo in base al

quale l'avversario viene relegato nella categoria dei “nemici

dell'umanità” e ogni atto di aggressione nei suoi confronti

diventa non solo lecito, ma addirittura moralmente obbligatorio.

Ed è ancora in questo ordine di pensiero che si inserisce una

stampa presentata dalla rivista francese “Le Rire” nel 1896. Vi è

la rappresentazione figurata dell’Europa come una giovane

donna addormentata, minacciata da un “incubo”, demone

maschio, come rappresentazione dell’Africa.

La didascalia integrale recita: “ Come un succube, l’Africa pesa sul

riposo dell’Europa. Uno dei numerose malesseri (ma forse il più

pesante) che ora gravano sul vecchio continente. Ogni potenza europea

ha qui il suo ostacolo o vespaio “. Sorvolando sull’ utilizzo

(probabilmente un errore) del termine “succube”, all’epoca

indicativo di un demone donna uso a rapporti sessuali con 8Claudia Gualtieri, cit.op “Chinweizu – L’occidente e gli altri” da http://www.club.it/culture/culture97/claudia.gualtieri97/indice-i.html9 Chi dice umanità, Zolo, Einaudi 2000

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uomini addormentati, è interessante cogliere la singolarità di

questa rappresentazione. Se il continente è la vecchia Europa,

perché appare sotto le sembianze di una giovane donna?

Caratteristiche umane e femminili si oppongono dunque ad un

demone maschio; l’Europa da aggressore diviene vittima di

un’Africa truce e oscura, in uno scenario di preoccupazione per

le sorti del vecchio continente, prossimo a svanire in quanto

gravato di una pesante minaccia. Ancora una volta, si verifica il

capovolgimento strumentale del mondo: incolpare la vittima.

Il fenomeno generico che sottende un tale ragionamento è una

componente frequente della modernità: ovvero lo slittamento

della ragion politica dal piano del realismo a quello della morale

e dell’antropologia. Le elitès politiche improntano la

comunicazione pubblica – per generare i già menzionati stati

mentali – sul ricatto emotivo, appellandosi a categorie morali

acquisite, come la retorica attorno ai diritti umani. Ed è persino

plausibile che la stessa classe politica abbia utilizzato in via non

strumentale queste ragioni, o in altri termini, abbia realmente

creduto di agire spesso in nome di ragioni morali. Se

l’avversario è squalificato sul piano morale (ad esempio, per la

sua vera o presunta efferatezza o crudeltà) ne consegue, anche se

non necessariamente, una implicita squalifica “razzista”, sul

piano culturale ma anche antropologico.

Ed a riprova di come un ragionamento razzista fosse pregnante

anche in maniera esplicita, al di fuori della versione edulcorata

dell’umanitarismo e della provvidenza del benefattore

coloniale, si menziona qui la reazione europea in seguito al

dispiegamento di forze extra-europee nel continente.

Ci si riferisce alla pratica del reclutamento di Africani, già noto

dal XVI secolo da parte dei portoghesi in Angola. Ma con il

colonialismo classico, francesi, britannici, tedeschi ed anche

italiani (con l’utilizzo degli ascari eritrei) ricorrevano

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all’inserimento, nelle fila degli eserciti, di soldati di origine

etnica. Quando nel 1871 giunsero a Monaco prigionieri di

guerra francesi, un quotidiano tedesco commentò che gli

africani, i turchi, gli zuavi e zefiri presenti fra di essi non erano

altro che <<armselige Burschen>> 10(miserabili) e che sarebbero

stati crudeli come bestie selvagge se avessero vinto ma, per

fortuna, la vittoria era stata dalla parte del popolo tedesco.

L’antropologo ed etnologo tedesco Leo Frobenius, benché noto

per la sua pionieristica opera di disvelamento della pluralità

africana ad un pubblico europeo ancora chiuso nel suo universo

culturale, in un opuscolo pubblicato nel periodo della prima

guerra mondiale (1916) dimostra come la medesima immagine

animalesca fosse diffusa anche a livello scientifico. L’opuscolo

ha come titolo “Der Völkerzirkus unserer Feinde11”, ovvero “Il

circo popolare dei nostri nemici”. Oggetto dello stesso sono i

soldati non europei impiegati dai nemici della Germania. Il John

Bull dello scrittore scozzese John Arbuthnot, figura emblematica

e rappresentativa dell’Inghilterra, viene qui rappresentato in

veste di domatore di popoli, e il tono generico dell’illustrazione

mantiene la metafora del circo e dell’addestramento dei popoli;

per dirla in modo più esplicito, gli extraeuropei vengono

presentati come animali addestrati. Frobenius annuncia l’inizio

dello spettacolo, costituito da una sequenza di fotografie di

combattenti non originari del luogo. Le didascalie hanno un

tono denigratorio, come ad esempio:

<<Francesi di colore in campo in una pausa della battaglia>>;

<<Inglesi bianchi e di colore durante un ballo dietro al fronte>>.

Nel 1920, in seguito all’utilizzo di soldati africani da parte dei

Francesi al Reno, il giornalista britannico E.D.Morel - figura

dell’umanitarismo progressista e già noto per la fondazione 10J.N Pieterse, White on Black: Images of Africa and blacks in western popular culture, Yale UP, 199211A. Bonche, Combattants d’outre-mer : la parole tirailléeDa Http:// asso.univ-lyon2.fr/ara/IMAGES/Lettres/Ara54.pdf

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dell’Associazione per la Riforma del Congo, contro le crudeltà

nel paese africano – si fece portavoce di una campagna di

protesta nel suo paese. Egli affermava che “la razza africana è la

razza sessualmente più sviluppata. Questi coscritti vengono reclutati

nelle tribù ad uno stadio primitivo di sviluppo. Naturalmente, non

hanno con se le proprie donne. Sono sessualmente completamente

disinibiti e incontrollabili”. Ancora, H.W Massingham dalle

colonne del quotidiano liberale “The Nation” puntava il dito nei

confronti delle “sfilate” di soldati alloctoni nei “venerandi templi

del patriottismo dello Stato tedesco”, e cosa ancor più significativa,

si opponeva al “potere dei soldati semiselvaggi sulla cultura e il

civismo del Reno”.

2.3 Da selvaggi a sudditi: la nuova immagine

Con il termine dei conflitti e l’assestarsi della situazione

coloniale, la rappresentazione ostinata di un “nemico” non era

più necessaria. La nuova esigenza era dettata dalla psicologia

coloniale di superiorità ed inferiorità, quale inevitabile

strumento politico di controllo, sia dell’opinione pubblica, sia

delle grandi masse locali da parte di una minoranza straniera.

Da selvaggi a sudditi politici, questo dunque l’imperativo della

nuova mitologia. Il lato ostile e cruento si tramuta in

infantilismo ed impulsività. Gli africani come tabula rasa, veri e

propri “bambini” dell’umanità, impressionabili e bisognosi del

paternalismo ed dell’istruzione occidentale. Lo scrittore belga

P.Danco afferma che “una volta che il negro viene a contatto con

l’uomo bianco, perde il proprio carattere barbaro mantenendo soltanto

le qualità infantili degli abitanti della foresta12”. Dall’infantilismo e

l’ingenuità dell’indigeno consegue la sua inoperosità e la sua

“incapacità” di “sfruttamento” delle immense risorse locali,

12 P.Danco, Ook en ideaal, Brussel

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donde il ruolo non solo didattico ma anche produttivo

dell’Uomo Bianco, ora al pieno della sua missione civilizzatrice.

Tra i documenti di comunicazione più efficaci ed immediati

allo scopo, le notissime cartoline propagandistiche coloniali, i

cinegiornali, le scatole dei prodotti alimentari, dove

all’indolenza africana (o al meglio delle ipotesi, l’ingenua

contemplazione dei bianchi) si contrappone l’industriosità

creatrice europea.

2.3.1 L’umorismo dell’occidentalizzazione

Secondo Pieterse, il sopravvento della missione civilizzatrice, a

questo punto ormai pienamente avviata, mal si sposa con

l’effettiva realtà coloniale (piuttosto autocratico e lungi dal

divenire “scuola di democrazia”) e con altre ideologie europee,

in particolare il razzismo13.

Il fondamentale interesse del colonizzatore – sembra banale

ricordarlo – era il profitto ed il potere, e la missione

civilizzatrice, seppur magari anche condivisa ed acquisita come

convinzione non solo popolare, ma anche della classe politica, si

svelò presto inconsistente. Permaneva l’immagine di un

africano inferiore non solo per status cronologico (il bambino

dell’umanità) ma per natura, intrinsecamente (e biologicamente)

non incline al progresso e a qualunque possibilità di

comprensione e accettazione di una pratica europea. Una

stampa su “Pêle Mêle” del 1913 riporta la seguente didascalia:

“il compressore stradale e le noci di cacao: ciò che prova che i negri

sono inclini al progresso è la celebre accoglienza riservata al primo

compressore stradale a Timbuctu”. Ed ancora, su “Le Rire” nel 1900

una vignetta con la didascalia “Le buone opere della civilizzazione”

mostra uomini africani in vesti eleganti e con cilindro affiancate

13 J.N.Pieterse, La parata dei vinti in “Società Africane”, AA.VV, Zelig 2005, pag.167

Page 23: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

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da una scimmia nella stessa versione. Il “Punch” 12 anni più

tardi deride gli Zulu che celebrano “il buon vecchio Natale

inglese” con sacrifici umani. E via discorrendo. Lo scenario è di

un generale scherno, per dirla con Pieterse, la messa in atto di

un “umorismo dell’occidentalizzazione”, dal quale consegue il

disprezzo reale per le popolazioni locali.

La missione civilizzatrice dunque fa i conti con il razzismo di

fondo? Questa tesi non è certamente convincente, ed è anzi

fallace. E’ una forma di razzismo non meno larvata persino

l’assistenzialismo umanitario dei tempi attuali, e si può quindi

ben comprendere come lo sia in maniera violenta qualsiasi

proposito di “civilizzazione” o “democratizzazione”, che

implica necessariamente una scala di riferimento tra un termine

inferiore e superiore.

E poco importa se questa differenza sia di carattere e biologico,

in quanto i fattori, per numerose ragioni, sono spesso

interconnessi e non facilmente scindibili. Se l’Africano è rimasto

il bambino dell’umanità, le ragioni all’epoca erano

intrinsecamente – e con tutta probabilità – addotte ad una causa

naturale. Non vi è dunque nessuna contraddizione tra il

razzismo e la civilizzazione. E come già affermato, la forma di

discriminazione più larvata è anche quella che prevede un

“progresso” necessario anche per il popolo africano. La vicenda

del colonialismo contiene dunque in nuce tutti i germi degli

stereotipi comunicativi e dell’immaginario che si ritroveranno

in tempi recenti, ed è dunque materiale imprescindibile per

indagare quel sedimento storico che rende così permanenti certe

categorie di rappresentazione.

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24

2.4 Immagini coloniali dall’Italia

Una mostra di immagini dal titolo “Immagini e colonie”, curata

da Enrico Castelli, docente di antropologia visuale presso

l’Università di Perugia, fornisce ulteriori elementi di analisi per

valutare la genesi del pregiudizio; del resto, lo stesso Castelli

afferma che le ragioni di una tale mostra sono da ritrovarsi

proprio nella necessità di comprensione della permanenza

(soprattutto nell’immaginario dei giovani) di determinati

stereotipi sull’Africa ancora oggi14. Afferma Castelli:

“L’immaginario è il mito. Il mito della civilizzazione passa attraverso

lo sviluppo. Il mito dello sviluppo serve a tenere in piedi l’ipotesi

assolutamente fantascientifica secondo cui noi aiutiamo il Terzo

Mondo. In realtà, è quest’ultimo a permetterci di sostenere e

conservare il nostro tenore di vita e il nostro benessere”.

La psicologia della superiorità, e della dimostrazione della stessa in

primo luogo agli occhi delle masse, si mostra in particolar modo

nella rappresentazione fascista: la rivista del Touring, dalla

tiratura in 150.000 copie e quindi sotto gli occhi di milioni di

italiani, ritrae un italiano che guarda con altezzosità un africano

che cerca di calzare scarpe femminili su un piede decisamente

troppo grande per lo scopo. Questa rappresentazione appare un

anno dopo il conflitto italo-libico, dove gli ascari eritrei hanno

combattuto ed il loro valore è stato persino riconosciuto

pubblicamente dal re; ma la concezione dell’africano a quanto

pare non ha subito modifica.

Un’altra immagine paradigmatica è quella dove la bicicletta si

trasforma in motocicletta per le truppe d’assalto italiane e la

radio portata a spalle assume una forma gigantesca; un simbolo

eclatante dell’informazione e della conoscenza portata dalle

truppe italiane.

14 E.Castelli in “L’Africa in piedi in aiuto all’Occidente”, Atti del Convegno -. Ancona 2005

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Ed ancora, viene descritta un’immagine relativa alla guerra di

Etiopia (1935-36). Emblematica innanzitutto la postura di

soggetti. Nell’immagine il bianco occupa sempre la parte

superiore e il nero quella inferiore, quella del mendicante, del

pezzente. Il soldato prende il pane e getta il fucile, perché il suo

re, Hailé Selassié, è responsabile della sua fame. Pur essendo

invero una figura piuttosto differente, Hailé Selassié viene

rappresentato sempre con i tratti stereotipati del feroce

Saladino.

Lo schema duale di superiorità-inferiorità è accompagnato

dunque dalla demonizzazione del soggetto, retrocesso a barbaro

quando rappresenti un nemico durante il conflitto.

Vi è un’immagine che mostra un membro di una tribù

dell’Eritrea con le corna. Nell’Africa italiana di Martini, il primo

governatore civile dell’Eritrea, si rintracciano rappresentazioni

di uomini con le corna durante in una cerimonia religiosa.

Anche nel Ferrario (citato da Castelli), un volume che parla

dell’Africa e del mondo alla fine dell’Ottocento, troviamo idoli

cornuti. Quali i motivi di questa insistenza del motivo delle

corna? Evidentemente perché per l’occhio europeo le corna

sono l’attributo del diavolo e la demonizzazione dell’alterità è un

tratto fondamentale della cultura occidentale.

Il meccanismo di decontestualizzazione invece si evince

da’immagine risalente al 1800. Un disegnatore ritrae delle

donne africane che danzano. Il disegno è ripreso spesso per la

sua efficacia e qualità. L’immagine ha come obiettivo

un’esibizione di libertà e sensualità espressa dai corpi

femminili. Ma sul finire dell’Ottocento essa ha assunto un

significato ben differente. Il nuovo scopo è mostrare dei corpi

femminili nudi in un tempo in cui in Italia tale scena è consueta

esclusivamente nelle case di tolleranza, ad uso e consumo

soprattutto dei militari. L’associazione è già di per sé negativa,

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ed una nuova didascalia ne incrementa il carattere denigratorio:

Donne abissine. Quindi non solo alcune donne prostitute, ma

tutte le donne dell’Abissinia e, per sovra-estensione, dell’Africa.

Ancora, la medesima immagine verrà corredata da questa

didascalia: “Ragazze sudabissine.”

Page 27: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

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3 ::.. Le ragioni attuali di una rappresentazione

3.1 Il Global Digital Divide

Si afferma da più parti che l’ostacolo primo alla diffusione di

notizie sul continente africano consista proprio nel divario

esistente tra i paesi cosiddetti in via di sviluppo e il Nord del

mondo riguardo alle tecnologie e mezzi di comunicazione di

massa. In termini specifici, la questione è quella del global digital

divide, che darebbe luogo, per usare un espressione di

Morawsky, ad un corrispettivo digital apartheid. La tesi di fondo

è che l’assenza di media realmente endogeni ed autosufficienti

nell’Africa Subsahariana funga da grande limite non solo alla

ricezione di informazione, ma anche alla sua produzione e

corrispettiva irradiazione per via internazionale. Non vi è una

vera e propria fonte informativa africana, che possa presentare

(o rappresentare) l’immagine dell’Africa secondo l’Africa.

Page 28: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

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3.1.1 Globalizzazione: prospettive e problemi

In realtà, con le dinamiche della globalizzazione, molti teorici

hanno espresso pareri e formulato constatazioni ottimistiche.

Sebbene – e lo si vedrà poco di seguito – la diffusione, in termini

numerici, dei mezzi tecnici e degli apparecchi sia ancora

limitata, il progressivo processo globale avrebbe già portato

numerosi frutti positivi ed altri è destinano a portarne negli

anni a venire.

Per quanto riguarda il mezzo televisivo, l’opinione prevalente è

che la sua diffusione planetaria promuova (ed abbia promosso)

un notevole incremento della competenza linguistica,

dell’informazione e della cultura generale. Tale fenomeno

andrebbe a vantaggio soprattutto dei popoli geograficamente

periferici e delle minoranze culturali in varie forme emarginate,

esattamente come il caso in questione. La ricezione televisiva in

tutto il globo darebbe vita ad una coscienza unitaria dei

problemi dell’umanità, alimentando sentimenti di solidarietà

trans-nazionale. Il dialogo interculturale che da questa ricezione

globale deriverebbe, avrebbe come effetto la creazione di una

koinè culturale mondiale, utile per ridurre i fenomeni di

speciazione ed attrito in seguito alla differenza culturale, e

dunque per creare le premesse di una naturale armonizzazione

dei conflitti. Il noto sociologo Marshall McLuhan del resto aveva

già ipotizzano una opinione pubblica mondiale, conseguenza

dell’intimità civile tra tutti gli appartenenti ad una global civil

society. Queste tesi sono condivise ed a loro modo formulate da

pensatori del calibro di Jurgen Habermas ed Ulrich Beck.

Charles Cooley, Robert E.Park, George Gallup e Harold

Lasswell formulavano inoltre, già nella prima metà del

Novecento, delle ipotesi sulle connessioni tra una

comunicazione interattiva mondiale e la partecipazione

Page 29: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

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democratica. Nel caso dell’Africa, questo sarebbe ancora più

degno di nota in quanto la progressiva diffusione di tecnologia

aprirebbe le porte a forme di consultazione permanente

completamente inedite: la cosiddetta instant referendum

democracy.

Vi è però chi è decisamente più cauto: per dirla con Danilo

Zolo15, i dubbi riguardano anzitutto la capacità del mezzo

televisivo come tale di favorire una comunicazione trasparente,

simmetrica e interattiva tra soggetti emittenti e soggetti

riceventi. Ma soprattutto sono inerenti alla sua idoneità a

promuovere la formazione di una sfera pubblica che sia

sottratta all’influenza delle corporations transnazionali, quasi

totalmente insediate negli Stati Uniti e tutte sotto l’egida

dell’OCSE, che monopolizzano l’emittenza televisiva: fra queste

AOL-Time Warner, Disney, Bertelsmann, Viacom, Tele

Communications Incorporated, News Corporation, Sony, Fox.

La televisione, è stata introdotta in Africa tra gli anni Sessanta e

Settanta. Come riporta Berruti, da allora poco è cambiato,

poiché i sistemi televisivi sono rimasti in larga misura sotto il

controllo statale, sebbene il vento della mondializzazione soffi

sempre più forte sotto le insegne della Bbc, di Canal Plus e della

Cnn. La dipendenza africana dai paesi occidentali è

particolarmente evidente: a livello di conoscenze e tecnologie, e

nell’importazione di programmi europei o americani.

E’ cosa nota che l’effetto e l’obbiettivo dell’attività delle

corporazioni multinazionali, le cui case madri si trovano nei più

avanzati paesi capitalistici – e in particolare negli Stati Uniti – è

di promuovere una sorta di integrazione interessata, che unisce

fra loro società dei paesi avanzati e soltanto le elitès

governative/statali dei paesi poveri.

15 Danilo Zolo, Globalizzazione, una mappa dei problemi, Laterza 2004

Page 30: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

30

La comunicazione occidentale, pubblicitaria e non, diffonde in

tutto il mondo - e dunque anche in Africa, che tali format

importa e che a determinate fonti si riferisce – messaggi

simbolici fortemente suggestivi che esaltano il consumo, lo

spettacolo, la competizione, il successo e incrementano in

generale, le spinte all’acquisizione. Inutile sottolineare, dal

versante culturale, come questi valori siano fondamentalmente

individualistici, e contraddicano non solo l’idea sopraccitata di

una sfera pubblica globale, ma gli stessi elementi costitutivi del

sentire tradizionale africano, con gli annessi equilibri di legame

sociale. Non a caso per Robert Fortner la comunicazione

televisiva, già nello scenario occidentale, è all’origine

dell’atomizzazione sociale.

La consuetudine dei giornalisti africani è inoltre di fare un

eccessivo riferimento alle fonti ufficiali e alle agenzie di stampa

occidentali. La conseguenza è che per paradosso l’Africa finisce

per dipingere sé stessa attraverso gli occhi degli stranieri.

Ancora, i flussi comunicativi che in tal modo hanno origine

pressoché puntuale dai paesi più industrializzati, hanno verso

unidirezionale verso il resto del modo, ed effetti drastici di

riduzione proprio della complessità linguistica e culturale, di

appiattimento degli universi simbolici e di omologazione degli

stili di vita.

Si potrebbero dunque azzardare alcune affermazioni: in termini

numerici, come di seguito, i mezzi sono ancora limitati

nonostante i trends crescenti in alcune zone e le previsioni più o

meno ottimistiche. Questi pochi mezzi sono da una parte legati

a doppio filo con multinazionali, finanziatori e corporazioni

occidentali, dai quali derivano importazioni di formats e

programmi, indicazioni e direttive sulle testate e sui palinsesti, e

in generale la gestione concreta dei flussi. Dall’altra gli stessi

Page 31: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

31

media sono gestiti da elitès (di carattere statale/post-coloniale o

privato) conniventi alle stesse corporazioni occidentali.

In questo senso pare evidente come nella sua ragion ultima il

flusso informativo sia sempre unidirezionale (dal resto del

mondo all’Africa), non vi sia un reale feedback ma una continua

ricezione a senso unico.

Ed è in questo ordine di idee che si inseriscono i pessimisti della

globalizzazione, come Ulf Hannertz, Serge Latouche e Jean

Baudrillard.

La penetrazione occidentale in Africa, attraverso mezzi e

capitali della sfera della comunicazione – e la conseguente

instaurazione in loco di televisioni, radio, testate – non avrebbe

come naturali frutti gli effetti positivi precedentemente descritti,

ovvero la genesi delle condizioni per una società globale e

multipolare dove anche l’Africa svolgerebbe la sua parte.

Secondo Hannertz16, il fenomeno più diffuso e significativo

sarebbe quello della “creolizzazione, che colpisce una grande

quantità di popolazioni indigene, culturalmente deboli o a lungo

sottoposte all’egemonia di una potenza coloniale. La cultura autoctona

viene erosa, corrotta e sopraffatta, non solo sul terreno linguistico,

dall’adozione forzata di un modello straniero, quello tecnico scientifico

industriale esportato dai paesi occidentali”. L’economista e

sociologo Serge Latouche 17inoltre afferma che “sull’onda della

penetrazione del mercato in ogni angolo della terra, l’Occidente opera

come una megamacchina tecnico-scientifica che pur essendo il prodotto

di una specifica civiltà storica non può più essere riferita ad un'unica

area geopolitica. E’un dispositivo impersonale che a tutte le latitudini,

e non solo nel cosiddetto Terzo Mondo, strappa gli uomini dalla loro

terra e dai loro legami sociali e li scaraventa nel deserto

dell’urbanizzazione metropolitana”.

16 U.Hannertz, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato, Il Mulino 199817 Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri 1992

Page 32: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

32

Di contro alla retorica della cultura globale, vi è dunque uno dei

processi più evidenti della occidentalizzazione (dunque anche

mediatica) del mondo, e l’omogeneizzazione culturale senza

integrazione: l’antagonismo tra le cittadinanze di serie A

dell’Occidente e le aspettative di grandi masse di soggetti

appartenenti ad aree ad alto tasso demografico e lontane dallo

sviluppo tecno-scientifico propriamente inteso.

Il digital divide dunque non è solo causa di un nuovo apartheid, in

quanto permane una differenza tra le zone del mondo nella

diffusione e nel possesso di tecnologia: è a sua volta

conseguenza delle differenze e anche se ridotto non potrà

“metter fine alle tensioni interne e internazionali prodotte dalle

dissimmetrie di potere, dalle asincronie di sviluppo e dalla eterogeneità

di interessi e dei valori18”.

3.1.2 Un divario in cifre

In realtà gli ottimisti ragionano su previsioni e ipotesi positive

sulle conseguenze della globalizzazione, ma i dati concreti

danno luogo a conclusioni differenti.

Il global digital divide, che fa le veci del nuovo “muro di

Berlino” del mondo globalizzato, ha un carattere ovviamente

non solo geografico ma anche di stratificazione sociale. Nei

trenta paesi ricchi dell’OCSE, a titolo esemplificativo, dove è

distribuita meno di un quinto della popolazione mondiale, si

trova il 95 per cento delle utenze stabili di Internet, e l’Europa

sorpassa di 41 volte l’Africa, nonostante il continente abbia una

popolazione più numerosa di quasi cento milioni. Meno del 6

per cento della popolazione mondiale ha un collegamento ad

internet; quattro miliardi di persone rimangono ad oggi escluse

dall’universo cibernetico. Il 57 per cento delle utenze è coperto

18 D.Zolo, Globalizzazione, una mappa dei problemi, Laterza 2004

Page 33: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

33

dai soli Canada e Stati Uniti, mentre Africa e Medio Oriente

raggiungono a malapena l’1 per cento. Il dato più significativo è

che questo gap digitale anziché ridursi si estende e si allarga

sempre più in parallelo con il processo di globalizzazione. Nei

paesi occidentali l’internauta medio è bianco, sui 35 anni,

diplomato o laureato, con un reddito annuo superiore ai 30.000

euro. Una polarizzazione post-moderna è dunque quella tra i

soggetti info-rich e info-poor, sia a livello nazionale che

mondiale; una tale disparità non può che essere terreno fertile

per nuovi conflitti e disuguaglianze.

Riportiamo qui delle statistiche esemplificative di queste

differenze, selezionate da Berruti19:

Figura A. La diffusione dei giornali quotidiani nel mondo

19 A.Berruti, La geografia dei media, un paesaggio diseguale, ISRAT

0

100

200

300

400

500

600

Nord A

mer

ica

Europa

Oc.

Giappone

Paesi

ara

biAsi

a

Amer

ica

L.

Africa

copieognimilleabitanti

Page 34: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

34

Figura B. Diffusione dei televisori nel mondo

Figura C. Diffusione delle radio nel mondo

0

100

200

300

400

500

600

700

Nord A

mer

ica

Europa

Ocean

ia

Unione

Soviet

ica

Asia

Amer

ica

Latin

a

Africa

1977

2000

0200400600800

1000120014001600

Nord A

mer

ica

Europa

Asia

Amer

ica

Latin

a

Paesi

Ara

bi

Africa

radio ognimille abitanti

Page 35: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

35

Figura D. Teledensità e diffusione dei Pc nel mondo

Area Linee telefoniche fisse

per mille abitanti

Personal computerper mille abitanti

Usa 667 585

Ue 592 267

Giappone 586 315

Paesi Arabi 132 31

America Latina 162 44

Asia e Oceania 80 15

Africa 16 9

Mondo 169 78

Figura E. Gli utenti di Internet per area geografica

Area/Paese Utenti ogni

mille abitanti

Paesi Arabi 27

Asia orientale 15

Asia meridionale 6,3

Africa Subsahariana 8

America Latina 49

Est Europa 43

Ocse 332

Page 36: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

36

Figura F. I maggiori poli tecnologici e il best 10 dell’indice nazionale delle ICT

Aree di ricercahi-tech

Paesi rank ICT index

Silicon Valley Usa 1 Usa Boston Usa 2 Islanda Stoccolma Svezia 3 Norvegia Tel Aviv Israele 4 LussemburgoDurham Usa 5 Svezia Londra Inghilterra 6 Danimarca Helsinki Finlandia 7 Svizzera Austin Usa 8 Finlandia San Francisco Usa 9 Hong Kong Tapiei Taiwan 10 Giappone

3.1.3 I media in Africa

Uno studio mirato dello stesso Berruti, e propriamente

incentrato sull’Africa subsahariana, sembra mostrare in realtà

delle premesse più incoraggianti di quelle che lasciano

trasparire i dati riportati qui sopra. Sfatando alcune ipotesi

spesso avanzate sulla globalizzazione, si evince come il

panorama tecnologico del Terzo Mondo non sia una vera e

propria tabula rasa, ma mostri - seppur in modo fortemente

irregolare – dei segnali di crescita.

La percentuale della popolazione urbana è piuttosto limitata

(attorno al 33%) anche se il tasso di crescita è tra i più rapidi del

mondo. Si prevede una creazione di nuove metropoli, sebbene

destinate ad assumere la fisionomia di baraccopoli africane.

Ed è ovviamente nelle città che si concentrano i poli mediatici in

nuce. Nelle stesse proto-metropoli fermenta il piccolo mondo del

giornalismo africano: anche Berruti ricorda come esso (ma

l’informazione e la comunicazione mediatica tutta) abbia avuto

una pesante matrice statalista dalla quale cerca tutt’ora a stento

di liberarsi. E lo studioso chiama in causa il colonialismo: i

Page 37: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

37

media in Africa sono stati storicamente degli strumenti delle

élites al potere, sia durante il periodo classico della

colonizzazione, sia in quello post-coloniale ed in piena Guerra

Fredda. Per tanti anni dunque i mezzi di comunicazione hanno

servito la propaganda statale e i suoi interessi, o sono stati

vettori di note campagne educative e umanitarie impugnate da

Ong.

La zona di influenza inglese è quella che cronologicamente

mostra un primato dello sviluppo e nella diffusione dei mezzi di

informazione: è per via dell’enclave inglese, a Città del Capo,

che nel 1924 in Sudafrica si ebbe l’incipit delle trasmissioni

radiofoniche, seguite venti anni dopo (1963) dalla televisione a

Nairobi in Kenya. La carta stampata modernamente intesa (in

veste di quotidiani) fece la sua comparsa alla fine del XVIII°

secolo.

In realtà, l’unico medium che abbia assunto tutt’oggi un vero

carattere di massa è la radio, per ovvie ragioni economiche ma

anche di fruibilità, per analfabeti ma più genericamente per

culture indigene dalla forte tradizione orale: esistono

trasmissioni realizzate in idiomi ancestrali in luogo delle lingue

ufficiali ereditate dal colonialismo.

La radio è diffusa in maniera capillare e sono le emittenti locali

quelle più seguite, artefici della scansione della quotidianità.

Dal versante strettamente politico le emittenti radiofoniche

possono fungere da collante per le deboli unità nazionali, utili a

integrare nelle reti statali le zone rurali, distanti dalle sedi

amministrative.

Nei paesi con i maggiori tassi di popolazione rurale, come

Burundi, Uganda, Malawi ed Etiopia, i parchi di ricevitori radio

sono cresciuti in media del 18% negli ultimi dieci anni20.

20 Cfr. World Bank, Statistical Yearbook, 1990 e 2002.

Page 38: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

38

La liberalizzazione della radiofonia, che ha avuto inizio in Mali

nel 1992 dopo la caduta di Traoré, ha rappresentato la partenza

per una crescita esponenziale del settore; sono aumentati

praticamente in ogni paese i canali disponibili e la diffusione

degli apparecchi ricevitori: del 48% in Ghana (paese record, con

710 radio ogni mille abitanti), del 40% in Gabon, del 37% in R.D.

Congo21.

Parallelamente, vi è stato anche un incremento della

disponibilità di giornali quotidiani, specialmente in zone a tasso

elevato di crescita della complessità sociale.

Lo sbocciare della stampa privata, che si colloca

geograficamente tra gli anni Ottanta e Novanta in Benin e

Senegal, ha le sue radici nell’imprenditoria privata ma anche

nelle concessioni degli Stati: a causa del suo target

numericamente molto limitato la stampa era infatti il mezzo

informativo meno temuto dalle oligarchie al potere.

In ogni caso, eccezion fatta per Sudafrica e Nigeria, la stampa

rimane in Africa un mezzo d’informazione destinato a un

pubblico urbano. L’analfabetismo e la poca affidabilità della

viabilità stradale rendono ostica la distribuzione dei giornali.

La televisione – si è già detto – ha visto la sua introduzione negli

anni sessanta: ed è importante notare come il medium più

efficace (per penetrazione e capacità comunicativa) sia quello

distribuito nella maniera più difforme.

Si cita qui ancora Berruti:

“La copertura territoriale garantita dai ripetitori televisivi è

circoscritta alle zone urbane, se non alle sole capitali, e il divario tra i

dieci paesi che nel 1990 erano più dotati di televisori rispetto al resto

del continente, invece di erodersi, va aumentando. La televisione in

Africa non è comunque una preoccupazione primaria per i politici e

resta un oggetto di contraddizione: crea un legame sociale tra chi

21 Ivi.

Page 39: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

39

fruisce dello stesso spettacolo, ma per la stessa ragione, essendo

impiantata in modo diseguale, separa cittadini e rurali22. “

Per ciò che concerne internet in Africa, è evidente dai dati che ci

si trovi soltanto agli inizi, con una esigua percentuale di otto

africani su mille (otto milioni in totale), anche se gli utenti sono

in crescita.

Vi sono ovviamente ostacoli strutturali, come sistemi fiscali

svantaggiosi, che considerando i computer beni di lusso ne

fanno lievitare i prezzi, ma non è un dato secondario anche la

precarietà delle linee telefoniche.

Queste basi tecniche non sono però sufficienti a spiegare in

modo esauriente il panorama dell’Africa cibernetica. Vi sono

importanti barriere culturali oltre a quelle economiche (un

salario medio è poca cosa rispetto alle esigenze di

mantenimento di una connessione privata). Prendendo in

analisi diversi elementi (host, domini, provider e larghezza di

banda) appare come la distribuzione di internet sia fortemente

polarizzata. Un nucleo ristretto di paesi detiene valori nettamente

superiori rispetto al resto del continente (Kenya, Togo, Senegal,

Ghana, Zimbabwe) e sopra di loro spicca il Sudafrica, che

concentra in sé due terzi dei naviganti, tre milioni di computer e

l’82% dei domini registrati23.

Comparando la distribuzione del cyberspazio africano ad altri

indicatori territoriali, si evince come tale settore sia forse quello

più strettamente con l’urbanizzazione.

Si citi la città di Dakar a titolo esemplificativo: nella capitale del

Senegal vive un terzo della popolazione nazionale, il 61% degli

host e il 98% degli internauti24.

22 Berruti, da A.J. Tudesq, op.cit. pag. 53 ; vd. A. Ba, Televisions, paraboles et democraties en Afrique noire, Parigi, L’Harmattan, 1996. 23 Berruti, da M. Jensen, Status delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione in Africa, in «Africa e Mediterraneo», dicembre 2002. 24 Berruti, da M.C. Diop (a cura di), Le Sénégal à l’heure de l’information, Parigi, Karthala, 2003.

Page 40: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

40

Nonostante questo è possibile delineare un fenomeno tutto

endogeno, una sorta di risposta o vero e proprio “modello

africano” di appropriazione delle nuove tecnologie, basato

sull’accesso collettivo, attraverso luoghi pubblici quali cybercafé

e telecentre. Il fenomeno, diffuso dal più piccolo cafè fino ai

centri commerciali e di tecnologia, sembra destinato a divenire

più che una modalità transitoria, in quanto fonda

probabilmente le sue radici su categorie antropologiche prima

che sociologiche.

Il primo cybercafé è il Metissacana, che ha visto la luce nel 1997

ad opera dello stilista senegalese Oumou Sy, tra i palazzi del

Plateau, il quartiere degli affari di Dakar. Oggi i cosiddetti

telecentre in Senegal sono dodicimila e ricoprono ben un terzo

del traffico telefonico nazionale25.

3.1.4 Una via africana alla tecnologia?

La crescita dei media africani dunque non è e non è stata affatto

lineare, così come la loro, e se questo panorama è diseguale, se il

cosiddetto digital divide le tra Nord e Sud del mondo appare

difficile da colmare, in futuro potrebbe esserlo ancora di più.

Nel 2003 a Bamako si è tenuto un vertice sull’informazione,dove

circa cinquanta governi africani hanno prospettato piani

nazionali di sviluppo delle infrastrutture di comunicazione. Da

più parti è stata evidenziata la marginalità delle zone rurali

come il problema impellente da risolvere. Se però ancora una

volta molti paesi - come già promesso – apriranno la strada a

privatizzazioni al WTO, le ferree leggi dell’economia avranno

più di una remora dell’investire nelle cosiddette zone rurali.

E se anche il carattere del investimento dovesse rimanere

pubblico, sorgono però ulteriori interrogativi sul carattere 25 Berruti, da I. Pansa, Senegal on line, in «Afriche», settembre 2003.

Page 41: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

41

culturale di una diffusione massiva di tecnologie sradicanti

negli scenari africani.

3.2 Squilibri di rappresentazione e squilibri di potere

Una teoria comune sull’approccio dei media nei confronti

dell’Africa è quella secondo cui gli squilibri di rappresentazione

sarebbero diretta conseguenza di squilibri di potere. In altri

termini, la configurazione dello scenario geopolitico, il ruolo

degli attori del Nord del pianeta e la contingenza finanziaria

mondiale sono i fattori che determinano l’immagine diffusa del

continente: all’interno dei media occidentali, essa dunque viene

appositamente distorta per rispondere ad esigenze e strategie di

politica estera e commerciale. Appare quasi scontato riportare il

principio elementare secondo cui una notizia lesiva nei

confronti degli interessi strategici di un paese (imminenti

manovre di politica estera, mantenimento di uno status quo) o

di una corporazione (aziende coinvolte nei traffici d’armi,

multinazionali petrolifere, industrie farmaceutiche, cartelli di

industria tecnologica e di infrastrutture) viene omessa o

deformata in modo da portare alla sua neutralizzazione.

3.2.1 Petrolio, armi, medicinali: cosa dicono i media

Ne “La Repubblica” del 21 giugno 2003 viene riportata la

notizia del rogo di un oleodotto in Nigeria, ponendo

l’attenzione sul fenomeno tipico del furto del petrolio che ha

innescato la tragedia: “La tragedia non è la prima del genere in

Nigeria, dove sono frequenti i casi di sabotaggio agli oleodotti per

ottenere il petrolio e rivenderlo al mercato nero”. Tesi peraltro

Page 42: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

42

dominante nel generale panorama mediatico italiano nello

stesso periodo. Però con la sistematica omissione di un

importante dato: le entrate per il petrolio, che costituiscono

l'80% delle entrate nigeriane, solo in minima parte finiscono

nelle casse dello Stato. Come sostiene Meo Elia26, “da anni

numerosi gruppi si battono per la difesa delle loro terre,

rovinate dai liquami delle perforazioni condotte senza controlli:

lo scorso anno ci sono stati un migliaio di morti e decine di

migliaia di profughi. Le popolazioni del Delta (…) vedono la

propria ricchezza fuggire lontano, a vantaggio dei militari del

paese e delle multinazionali del petrolio”. Il furto del petrolio è

dunque certamente ai danni delle elitès governative, ma la

presentazione mediatica dell’avvenimento deforma chiaramente

le sue ragioni sociologiche in nome di interessi geopolitici

sovraordinati.

E' stato calcolato che oggi, nel mondo, sono in corso circa 640

conflitti gravi; secondo una stima di Peacelink27, a titolo

esemplificativo se ne possono evincere 37 armati per il

controllo dell'acqua, molti dei quali il potere e i mass media

preferiscono presentare come conflitti etnico/religiosi. In Africa

però secondo Paolo Giorgi “ (…) contrariamente a quanto molti

pensano, non nascono guerre civili sanguinosissime perché gli africani

hanno voglia di menar le mani: ma perché l'occidente ha sottratto e

sottrae le materie prime (basti pensare al coltan, in Congo, elemento

indispensabile per i nostri telefonini) lasciando in cambio fame,

sfruttamento, e carichi giganteschi di armi di cui si impossessano

eserciti di mercenari e dittatori locali”.

Ma attribuire la genesi dei conflitti ad un innata natura

irrazionale, violenta e/o tribale dell’Africano-tipo, oltre che

meccanismo culturalmente agevole, è uno strumento utile per la

26 'La Rivista del Clero Italiano', ottobre 200027 http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_13827.html

Page 43: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

43

neutralizzazione ed omissione sistematica delle reali ragioni

degli squilibri, e quindi utile al mantenimento dello stato delle

cose.

Come riporta ancora Peacelink, ad esempio “molte nazioni sono

dipendenti dall'acqua fornita da fiumi che scorrono in altre nazioni

situate a monte. Israele preme militarmente per il controllo delle

risorse idriche nel bacino del Giordano in Palestina; Turchia, Siria,

Iraq e Kurdistan si contendono il Tigri e l'Eufrate; Egitto, Sudan ed

Etiopia competono per il Nilo”.

Un altro esempio viene sempre riportato da Meo Elia28:

vengono mostrate immagini di repertorio di bambini scheletriti

e ci viene detto della siccità del Corno d'Africa, che mette a

rischio la vita di otto milioni di persone nella sola Etiopia. È

stata descritta anche la guerra tra Etiopia ed Eritrea, ma non si

menziona mai che l'Etiopia nel '99 ha triplicato il suo budget

militare, passando da 140 a 367 milioni di dollari e anche

l'Eritrea è passata da 196 a 236 milioni di dollari nello stesso

periodo. E, soprattutto, nessuno dei grandi mass media fa

esplicita menzione dei fornitori d’armi (caccia bombardieri,

elicotteri da combattimento, carri armati)che alimentano tale

conflitto, nella fattispecie Parigi e Mosca: non a caso, pochissima

eco ha avuto la notizia che in sede di Consiglio di sicurezza

dell'Onu, Francia e Russia hanno impedito un embargo totale

sulla vendita di armi ai due paesi in guerra.

E per volersi attenere al solo caso italiano, si riportano qui

alcune stime di Peacelink.

Secondo un rapporto della Presidenza del consiglio, le vendite

di armamenti all'estero autorizzate dal governo italiano nel 2006

sono salite addirittura del 61%, passando da 1,36 miliardi del

2005 a 2,19 miliardi. Mentre le consegne già effettuate hanno

28 Meo Elia, su www.saveriani.bs.it

Page 44: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

44

fruttato 970,4 milioni. Le ditte esportatrici sono Augusta (810

milioni di euro), Alenia (311), Oto Melara (283), Avio (127), Lital

(123), Selex (81,5), Aermacchi (73,4), Alcatel Alenia (71,5), Iveco

(49,6). Delle prime dieci aziende esportatrici, ben sette

appartengono a Finmeccanica di cui lo Stato è principale

azionista. In altri termini, lo Stato autorizza se stesso a vendere

armamenti all'estero.

I maggiori profitti sono però destinati alle banche,che

guadagnano sui pagamenti che dall'estero arrivano sui loro

conti. Dietro San Paolo-Imi (446,7 milioni di pagamenti

ricevuti), seguono Bnp-Parisbas (290.5), Unicredit (86,6), Bnl

(80,4), Banco di Brescia (76), Commerz Bank (74,3), Banca

Popolare Italiana (60,6), Banca Intesa (46,9). Scende da 133 a 36

Banca di Roma, che ha partecipato ai convegni organizzati dalla

«Campagna banche armate», una iniziativa lanciata nel 2000 da

Missione Oggi, Mosaico di Pace e Nigrizia che monitorizza e

cerca di sensibilizzare gli istituti bancari e di ridurre gli affari

legati al traffico d'armi.

Il business supera ovviamente la semplice gestione passiva

degli incassi. I flussi finanziari legati alle armi nel 2006 sono

saliti fino a 2,27 miliardi di euro (nel 2005 ammontavano a 1.775

milioni).

Un terzo esempio è legato all’industria farmaceutica: i mass

media riportano spesso che l'80% dei decessi legati all'aids

avviene in Africa29: 11 milioni di morti dal 1982, anno in cui è

stato registrato il primo caso nel continente; nei prossimi dieci

anni è prevista una perdita umana stimata intorno ai 40 milioni

di africani. Il reportage con cui il giornalista Mark Schoots ha

vinto il premio Pulitzer 2000 ha un titolo paradigmatico: AIDS,

the agony of Africa.30 I mass media però difficilmente

29 UnAids, fonte OMS30 http://www.villagevoice.com/

Page 45: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

45

richiamano le stime sulla malaria, che provoca in un solo anno

tanti morti quanti l'AIDS in quindici31. In Occidente le terapie

usate contro l'AIDS hanno un costo di circa 10 mila dollari

all'anno per ogni paziente, mentre mediamente in Africa la

spesa sanitaria pro capite è di 10 dollari annui, continuamente

contratta per via degli 'aggiustamenti strutturali' imposti dal

FME alle economie dei paesi africani. Vi è inoltre l' impossibilità

per la gente comune di accedere ai medicinali, a causa del

prezzo elevato imposto dalle ditte farmaceutiche per difendere i

brevetti sui farmaci e per la scarsità di investimenti. Il prezzo

delle medicine, il cui mercato mondiale è per due terzi

concentrato in circa 20 grandi gruppi, ha un prezzo mondiale

unico,basato sulle tariffe praticate negli Usa, tra le più alte del

globo. Il terzo fatto che i grandi mass media non menzionano è

la chiusura delle ditte farmaceutiche alle ricerche sulle malattie

tropicali e alla produzione di farmaci essenziali in quanto poco

procedure poco remunerative. In questi ultimi casi, ragioni di

politica estera ed interessi commerciali anche transnazionali si

fondono in un unico nucleo, che funge da fulcro sulle versioni

presentate dai media.

3.2.2 La marginalizzazione: dai media alla realtà

Allo stesso modo, statisticamente possono essere osservate

continue strategie di marginalizzazione, in nome del principio

secondo cui l’assenza dagli schermi equivale all’inesistenza: in

uno studio di Asgede Hagos l’attenzione si rivolge ai media

statunitensi nel periodo a cavallo tra gli anni Settanta ed

Ottanta32. L’attitudine dei media americani a trascurare

sistematicamente il continente africano era consequenziale allo

31 www.msf.it32 Hagos, 2000

Page 46: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

46

scarso interesse strategico da esso rivestito durante il periodo

della Guerra Fredda. Quand’anche esso è stato soggetto

all’attenzione pubblica, le motivazioni sono state

principalmente di ordine ideologico; un esempio su tutti è

l’interpretazione in chiave “anticomunista” di alcuni fenomeni,

come il movimento anti-apartheid in Sud Africa. Allo stesso

modo, rivolgendo l’analisi al trattamento mediatico offerto

dall’ex Unione Sovietica in un periodo tra il 1956 e il 199333, si

evince una non dissimile strategia di interpretazione dei

problemi africani come conseguenza dell’imperialismo

americano; il continente viene in ogni caso rappresentato come

incapace di crescere da solo, privo di aiuti esterni e più

specificamente del noto internazionalismo di stampo

paternalistico.

Ancora, secondo Paolo Giorgi34, tra il 2005 e il 2006 i media

italiani nel loro insieme hanno dedicato più del 95% del loro

spazio per gli Esteri alle guerre "famose", quelle con un

coinvolgimento diretto di soldati occidentali: Iraq in primis, e

poi Libano (e Medio Oriente in generale) e Afghanistan.

3.2.3 Le agenzie di stampa mondiali

Secondo statistiche accreditate e largamente condivise, una

percentuale tra l’80% e il 95% dell’informazione mondiale è in

mano a sole quattro agenzie di stampa, ovvero le americane

Associated Press e United Press International, la britannica

Reuters e la francese France Presse. Agenzie che a loro volta

gestite da cartelli industriali e finanziatori pubblici/privati

coinvolti in primo luogo nelle vicende economiche africane,

dalla vendita d’armi al possesso delle risorse petrolifere.

33 Quist-Adade, 200134 http://www.aprileonline.info/120/una-nuova-voce-dallafrica

Page 47: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

47

La Associated Press esiste grazie al suo mercato interno, gli Stati

Uniti, che apporta circa il 94% delle entrate. Segue poi la

britannica Reuters, i cui introiti dipendono solo per il 4% dalla

vendita ai media, il resto proviene dalla vendita di informazioni

finanziarie ad aziende, banche e agenzie borsistiche. Infine

Agence France Press, anch'essa allineata alle altre agenzie, anche

se il 60% delle spese viene pagato dallo Stato francese.

Un modello simile è quello della spagnola EFE, l'italiana ANSA

e la tedesca DPA, vive grazie a contributi statali. Le loro reti

rispondono quindi anche agli interessi strategici dei rispettivi

Paesi. Appare dunque evidente come una rappresentazione

derivata da un numero così esiguo di fonti, a loro volta

imponenti e legate a doppio filo con soggetti interessati, oltre a

violare una delle norme non scritte più essenziali della libertà

d’informazione, consista soprattutto in una rappresentazione di

potere e in un riflesso della situazione geopolitica.

3.3 I criteri di notiziabilità

Riguardo al trattamento del materiale mediatico relativo al

continente africano, si possono evincere metodi e tecniche

comuni agli operatori dell’informazione, delle vere e proprie

routines professionali o meccanismi ricorrenti.

In quanto tali, sono assurti allo status di veri e propri

automatismi, dettati da modalità d’azione inconsapevoli e

canoni acquisiti dalla testata giornalistica. Utilità, fruibilità e

“vendibilità” così come un ignaro ricorso a categorie culturali

precostituite si nascondono dietro queste procedure, che sono

applicabili all’intero panorama informativo, e che acquistano

valenza anche nel contesto della selezione del materiale

sull’Africa.

Page 48: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

48

3.3.1 L’Agenda-setting

Il criterio-guida, ovvero quello che prelude alla selezione o

all’omissione del materiale, è quello del cosiddetto “agenda

setting35”, ovvero il processo di determinazione delle notizie su

cui concentrare l’attenzione. Si tratta, in altri termini, del macro-

insieme di procedure che stabiliscono la “notiziabilità”

dell’evento, su cui torneremo in seguito.

E’ però interessante focalizzare l’attenzione sullo specifico

concetto di “Agenda Setting”: nella sociologia della

comunicazione, con questa definizione si intende sia la

creazione di una sorta di indice generico di argomenti –

soggettivo e personale per ogni singolo medium o testata- da

inserire in un dualismo tra i media e l’audience, sia la scelta

effettiva di priorità tra questi. I media deciderebbero gli

argomenti cui prestare attenzione, cui dedicare spazio in base

ad una serie di pressioni cui sono sottoposti; tali pressioni, come

si è già visto, possono derivare da contingenze politiche e

ragioni di interesse, o d’altra parte –come si evincerà nel corso

dell’analisi- da automatiche routines e distorsioni inconsapevoli.

Maggiore è l’importanza che i media dedicano alla questione,

maggiore è il riconoscimento pubblico che l’argomento

presentato riceve. Si sostiene che i temi (argomenti, eventi e

persone) più "sentiti" dalle audiences sono quelli più enfatizzati

dai media, cioè quelli a cui è dedicato maggiore spazio ed

attenzione, mentre, al contrario, i temi esclusi dai media sono

ignorati dal pubblico ed è come se non esistessero. I mass media

avrebbero dunque la capacità d'orientare l'opinione pubblica

sulla scelta degli argomenti intorno ai quali pensare. Essi,

descrivendo e precisando la realtà esterna, presentano alle 35 McCombs e Shaw, 1972

Page 49: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

49

audiences una lista di ciò su cui bisogna avere un'opinione e per

cui vale la pena discutere. In questo senso, è ben comprensibile

come certi assunti o stereotipi possano entrare in un circolo

vizioso di auto-alimentazione e sostegno.

E’ d’altra parte vero che non è corretto attenersi ad una logica

così fermamente determinista per spiegare i meccanismi

mediatici: la creazione di opinione non è certamente

unidirezionale, perché oltre al concetto di “influenza” da parte

dei media, da una parte non bisogna sottovalutare le capacità e

le modalità di “ricezione” di questa informazione da parte

dell’audience, dall’altra si potrebbe affermare che –come riporta

Wikipedia36- che “l’evidenza empirica risultante dalle analisi di

comunicazione si è piuttosto attestata su un piano differente; i media

sono sì in grado di spostare l’attenzione del pubblico su determinati

temi, ma non sembrano in grado di poter dire alle persone cosa

pensare”.

Inoltre ricerche dimostrano come le conoscenze ed esperienze

pregresse degli individui possano ridurre l'effetto dell’agenda

setting , andando a formare quella che è l’agenda soggettiva,

ossia un meccanismo di mediazione che tende ad operare

un’ulteriore selezione sui contenuti dell’agenda mediatica sulla

base dell’esperienza diretta. Di conseguenza si può affermare

che in realtà avviene un'integrazione tra le due agende: quella

soggettiva e quella dei media. Infatti ciascun individuo, pur

ritenendo importanti i temi enfatizzati dai media, dedica

particolare attenzione ai temi che gli provocano maggior

coinvolgimento ed interesse personale.

Nonostante questi limiti strutturali, tale teoria è comunque da

considerarsi valida. Vi è inoltre da aggiungere che

probabilmente il meccanismo dell’Agenda Setting è da

considerarsi come inevitabile, in quanto per una qualunque

36 http://it.wikipedia.org/wiki/Agenda_setting

Page 50: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

50

redazione è sicuramente impossibile esimersi –nella

presentazione degli argomenti- da fattori di influenza del

contesto socio-economico in cui opera, del background

culturale, dalla contingenza politica e in primo luogo delle

variabili di giudizio assolutamente individuali di ogni operatore

del settore. Nel caso dell’Africa, si evince come certe procedure

avvengono in maniera inconsapevole, e come altre rispondono a

meccanismi canonici della pratica giornalistica, che sono poi

l’insieme di regole di individuazione dei valori-notizia; un

insieme di pratiche che guidano e standardizzano le procedure

lavorative, necessarie per i media nel flusso pressocchè

ininterrotto di produzione. Tale esigenza si evidenzia infatti per

l’obbligo di coprire quotidianamente, con tempi e risorse

piuttosto limitati, uno stesso spazio informativo.

A titolo esemplificativo, si possono elencare determinati criteri

di negoziabilità che operano alla base delle scelte di agenda,

secondo un ipotesi di M.Wolf37:

il livello gerarchico degli attori coinvolti

l’impatto sull’interesse nazionale (o di collettivi)

il numero di persone che gli eventi coinvolgono

la possibilità di sviluppi e conseguenze dell’evento

la capacità di intrattenimento

Vi sono poi i criteri tecnici relativi al “prodotto”, come:

la brevità o la facile comprensibilità mediatica dell’evento

la novità dello stesso

37 Wolf M., 1985, Teoria delle comunicazioni di massa , Bompiani, Milano, 1985.

Page 51: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

51

la velocità di trasmissione della notizia rispetto agli altri

media

la qualità della notizia

il bilanciamento dell’informazione

Tra i criteri inerenti al “mezzo” si annoverano:

Il buon materiale rispetto al mezzo utilizzato

Eventi o notizie con una storia narrativa completa

La frequenza dell’evento

Ancora, secondo una ricerca portata avanti dal Media Group of

Glasgow University,38 tra le aspettative degli ascoltatori e le

selezioni degli operatori dell’informazione s'instaura un circolo

vizioso che produce proprio l’effetto di questa scarsa presenza.

Tre sono i temi chiave delineati:

le decisioni prese dai "broadcasters" (su criteri commerciali)

riguardo alle preferenze dell’audience;

la disinformazione dell'audience televisiva, dovute alla

parzialità e all'incompletezza delle informazioni diffuse

sull'Africa;

la possibilità che un radicale cambiamento della qualità

delle notizie riesca a modificare il livello di attenzione che

l'audience nutre per la realtà africana.

38 http://www.gla.ac.uk/departments/sociology/units/media.htm

Page 52: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

52

3.3.2 I criteri di notiziabilità

A dettare ritmi e contenuti dell’informazione intervengono in

ogni caso i cosiddetti criteri di “notiziabilità”, ovvero ciò che

guida la selezione delle notizie da pubblicare, ed anche in tal

caso l’Africa non costituisce eccezione ed è soggetta alla

medesima analisi prima di ottenere la sua rappresentazione

mediatica. Come riporta Luciano Ardesi39, a regolare questo

processo intervengono “complessi fattori di organizzazione del

lavoro redazionale e criteri di scelta che nulla hanno a che vedere con i

valori sociali, culturali e professionali dei singoli giornalisti”. Con

una conseguente proliferazione di distorsioni, le quali non

derivano da operazioni necessariamente volontarie, quanto

piuttosto da meccanismi automatici, di routine40.

Tali meccanismi, sottesi alla selezione dell’informazione, sono

stati oggetto di analisi da parte degli studiosi Johan Galtung e

Mari Holmboe Ruge; benché il loro studio sia ormai datato di 40

anni e a discapito dell’evoluzione della tipologia e del ruolo dei

media, si dimostra tutt’ora valido nell’applicazione delle sue

categorie. I criteri evidenziati sono dodici e come ricorda lo

stesso Ardesi, alcuni di essi sono direttamente conseguenti dalla

psicologia della percezione. Un punto a favore della

notiziabilità è relativo alla durata dell’evento, che deve accadere

in un lasso di tempo tale da permettere al media che lo tratta di

poter organizzare tecnicamente il lavoro. Tale criterio, sommato

a quello della distanza culturale - più una realtà è distante sotto

questo punto di vista, più ha necessità di offrire notizie rapide e

consumabili per avere presenza mediatica – è direttamente

applicabile al caso africano: nell’ottica progressista, i lenti

movimenti dello sviluppo (e del suo cammino occidentalizzante)

39 http://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=21640 Wolf, Teoria delle comunicazioni di massa 1985, 177-186

Page 53: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

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non interessano quotidiani e telegiornali. Gli eventi inoltre

devono avvenire su scala ampia, ed avere una certo quantum di

risonanza (è il caso dei consistenti –se non esclusivi- riferimenti

ad avvenimenti violenti o negativi).

3.3.3 L’affinità culturale

Un’ulteriore riflessione degna di nota è relativa al criterio (di

per se piuttosto scontato) dell’affinità culturale: le notizie

devono essere in un certo modo facilmente interpretabili

dall’audience di riferimento, prive di ambiguità e non dissimili

dall’immagine mentale pre-esistente, come scrive Daniele Mezzana

41 riprendendo una definizione di Ardesi.

Questa immagine sarebbe costruita da un variegato continuum

di attori (media e non) operanti nella realtà sociale, agenti

attualmente ma presenti da sempre e portatori di quel materiale

sempre più sedimentato e che ha contribuito a creare il corpus

di conoscenze socialmente acquisite sull’Africa, con stereotipi e

distorsioni annesse. Esploratori e missionari, scrittori, fotografi e

imprenditori tutti operanti in una piramide che arriva ai media

offrendo ad essi contenuti e categorie precostituite. Esiste

dunque una vasta serie di fonti narrative sull’Africa, materia

prima dell’immaginario diffuso e stratificato. Tale teoria pone

dunque i media al termine della catena di costruzione

dell’immagine sociale, e fa il palio con l’ipotesi che mette sotto

analisi anche il secolare ruolo delle scienze sociali e dei

ricercatori: intesi anch’essi come “fonte” di nozioni sull’Africa e

sulla sua civiltà, gli scienziati del sociale hanno col tempo

tramutato schemi scientifici in stereotipi di rappresentazioni. E’

il già citato caso dell’antropologia culturale e della teoria

evoluzionista applicata al terzo mondo: la prima è stata spesso 41 Daniele Mezzana, “un’immagine cancerogena” in Società Africane, Zelig 2005.

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54

intesa come unica scienza applicabile al continente –

conseguenza implicita della stessa teoria dell’evoluzione, che

mette in una scala cronologica lo status dei popoli e come tale

ritiene una generica e indistinta civiltà africana come ben

distante dalle “tappe” evolutive alle quali possano applicarsi

ulteriori scienze sociali - , la seconda come fonte della sotto-

rappresentazione della realtà sub-sahariana, con le sue categorie

immutabili di primitivismo, animismo, atemporalità, mancanza

di storia e via discorrendo.

In realtà sarebbe più corretto sostenere che i media non si

collocano al terminale del ciclo di produzione dell’immaginario;

rappresentano certo elemento di rafforzamento e diffusione

delle precedenti fonti, ma nel contempo di rielaborazione e

creazione di nuovo materiale.

I media non costituiscono “da soli” una realtà sociale, ma si

innestano necessariamente su reti, abitudini, usi e appartenenze

pre-esistenti degli utilizzatori.

Essi possiedono il non secondario status di fonte primaria per le

realtà non direttamente attingibili; questo avviene per

qualunque sfera della rappresentazione (il paradosso moderno

secondo cui ciò che non esiste mediaticamente, non esiste realmente)

ed ancor più per il continente africano.

Il corpus di conoscenze sopra citato, costituito come si è detto

da materiale proveniente da attori sociali, fonti narrative,

istituzioni di conoscenza e infine media, è un blocco latente in

tutto il pubblico occidentale: i media dedicati all’informazione

possono dunque mettere in atto strategie atte a

risvegliare/richiamare all’ordine mentale questi schemi,

configurati come veri e propri “recettori culturali”, per utilizzare

un’espressione di Beverly G.Hawk. Si tratta dunque di una vera

e propria memoria semantica automatica, che funziona spesso

da scorciatoia interpretativa (e banalizzante) per decifrare la

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realtà africana. Tutto questo – nel panorama dell’informazione-

merce – avviene ovviamente in un ottica di audience e

commerciabilità della notizia.

3.3.4 Altre procedure di rappresentazione

Un’ulteriore procedura generale è quella della

decontestualizzazione, ossia l’isolamento dei fatti dagli elementi

storico, socio-politici, economici e culturali che permetterebbero

un’adeguata spiegazione degli stessi, oltre a motivarne il senso

ed a facilitarne la connessione con ulteriori eventi e fenomeni.

Inevitabile inoltre sottolineare l’impostazione sensazionalistica

degli argomenti spesso trattati, con il privilegio del materiale

direttamente spettacolarizzabile come quello relativo a guerre,

rivolte, carestie, epidemie (per il contesto specifico africano,

quella delll’Aids è estremamente esemplificativa) o episodi

appartenenti alla sfera del tribalismo (cannibalismo, violazione

dei diritti umani, tradizioni popolari profondamente invise alla

logica occidentale ecc.).

A tal proposito, un interessante teoria entra nello specifico delle

relazioni tra gli eventi di carattere umanitario e le

organizzazioni non governative internazionali. Sgombrando il

campo dalle ovvie connessioni tra la canalizzazione delle

emozioni e gli scopi di mercato che possiede oggi l’azienda

giornalistica, è curioso notare come -secondo H.Ronning42-

esista una sorta di “sinergia strutturale” tra le associazioni di

questa tipologia, il verificarsi di eventi catastrofici e l’azione dei

media, nelle forme del cosiddetto “giornalismo dei disastri”. Le

emozioni del pubblico vengono fomentate (secondo scopi ora

volontari, ora routinari) tramite determinate rappresentazioni 42 H.Ronning, “Relazioni tra i media internazionali e le Ong”, Università di Cardiff (Galles) 1998

Page 56: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

56

della realtà africana, al fine di accreditare quell’immagine

dell’Africa – tipica della scuola afro-pessimista- incapace di

trovare al suo interno le risoluzioni necessarie ai problemi.

Una tale rappresentazione ha il corollario di accrescere il

prestigio delle stesse organizzazioni , creando intorno ad esse il

consenso e spianando la strada per il proprio operato, con effetti

talvolta non secondari sulla raccolta dei fondi.

Ancora, tra gli stratagemmi narrativi maggiormente utilizzati vi

è quello della “drammatizzazione” degli eventi, ossia una

esposizione degli stessi secondo uno schema facilmente

interpretabile e il più delle volte ricondotto ad un gioco di

conflitto duale, tra individui (ad esempio leaders di fazioni

contrapposte in caso di scontri) o gruppi etnici. Emblematica è

la vicenda della contrapposizione tra Tutsi e Hutu in Ruanda,

presentata sistematicamente come esclusivo scontro etnico dai

maggiori media. Ancora nel dicembre 2006, il Corriere Della

Sera 43riporta alla memoria la guerra nei seguenti termini:

“Aprile 1994. Il Ruanda è in preda ala follia collettiva. I suoi cittadini

di etnia hutu, attizzati da bande armate di estremisti, gli

hinterahamwe, sono scatenati contro i tutsi e gli hutu moderati. Civili

armati di machete fanno a pezzi amici, compagni, conoscenti e persino

coniugi, colpevoli solo di appartenere a un gruppo razziale differente”.

A seguito di comuni indagini storiografiche è però semplice

evincere come tale divisione, ormai somatizzata dall’opinione

pubblica, abbia in realtà origini differenti, come ad esempio

sostiene l’Unicef: “La tradizionale divisione fra Tutsi e Hutu non ha

origini etniche (i due gruppi condividono lingua, religione e gerarchie

politiche), ma economiche: i Tutsi sono storicamente allevatori, gli

43 “La storia di Padre Seromba”, Massimo A.Alberizzi, dal Corriere della Sera del 15 dicembre 2006

Page 57: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

57

Hutu agricoltori e dunque considerati socialmente inferiori. Il

passaggio da un gruppo all'altro era però possibile. semplicemente

mutando mestiere. In epoca coloniale i Tutsi diventano l'élite del paese

(…) “.

Al fine di una maggiore efficacia comunicativa, è d’uso adottare

pratiche di ipersemplificazione o riconduzione/interpretazione

degli eventi e processi secondo schemi chiari, che sono però nel

più dei casi banalizzanti o riduttivi, se non addirittura

fuorvianti. Come sostiene Daniele Mezzana44, ad esempio

qualcuno potrebbe mai attribuire –giornalisticamente parlando-

le cause dell’Olocausto alla natura violenta del popolo tedesco?

Nel caso delle popolazioni africane, preconcetti di simile

tipologia vengono frequentemente applicati. Il paradigma

tardo-evoluzionista già menzionato, secondo cui gli abitanti del

continente nero sarebbero i rappresentanti fuori tempo massimo

della preistoria dell’umanità – e come tali simili a fanciulli

incapaci di reprimere le pulsioni violente, animalesche ed

istintuali - mostra in questa procedura i suoi effetti. Come verrà

ulteriormente evidenziato, alle guerre africane, quand’anche di

carattere etnico, si associa una matrice fondamentalmente

irrazionale e primitiva.

Sarebbe impensabile ovviamente non considerare il criterio

primo di ogni medium, quello della comunicabilità, ottenibile con

svariati parametri (dalla brevità fino all’human interest passando

il coadiuvo di immagini ecc.ecc); se un fatto viene presentato

con un linguaggio chiaro e si presta ad una facile

interpretazione è più probabile che susciti attenzione nei

pubblici.

Ed in relazione alla chiarezza del linguaggio, è utile citare la

frequente ricorrenza di semplici opposizioni binarie per la

44 D.Mezzana, “Un’immagine cancerogena”, da Società Africane – Zelig 2005

Page 58: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

58

descrizione di situazioni invero piuttosto complesse: ad

esempio l’opposizione tra primitivo e moderno.

Ancora, l’impiego della figura semantica della sineddoche (la

parte per il tutto), stratagemma tipico quando nel caso

dell’Africa un popolo specifico – o addirittura un singolo tipo

indifferenziato, l’Africano – viene elevato a rappresentante

dell’intera area, e l’eccessivo ricorso ad un lessico specifico, per

mezzo dei termini “tribale”,”primitivo”,”giungla” e numerosi

altri.

E’assodato che la società di massa sia costantemente educata a

recepire dai media messaggi non eccessivamente complessi o

strutturati; Ma il riduzionismo (perché di vero e proprio

riduzionismo – in diversi casi – si tratta) conseguente alle

procedure di semplificazione viene spesso generato da ragioni

che esulano da primo e puro scopo della comunicatività in se.

Al livellamento ed alla omogeneizzazione della comunicazione

– televisiva in primo luogo -, sia sul piano delle forme sia su

quello dei contenuti, contribuiscono notevolmente anche

considerazioni economiche. Quasi ovunque, infatti, la

televisione, oltre ad essere un mass medium è anche una

industria che deve produrre spettatori per venderli alla agenzie

pubblicitarie.

Tanto più facile è comprensibile è il livello contenutistico del

messaggio, quanti più spettatori si possono catturare nelle rete.

Il pubblico televisivo, infatti, creato dalla stessa televisione, è in

maggioranza educato a decodificare messaggi di scarsa

complessità e tematicamente non controversi. Coloro che

emettono i messaggi hanno un sistema di attesa nei confronti

del loro pubblico, decidono che c'è una gerarchia tra contenuti e

scelgono una soglia al di sotto della quale non andare. Che ha

come effetto obbligato la ripetizione sempre degli stessi concetti,

Page 59: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

59

addirittura formulari, una forte retorica dei contenuti e anche

una standardizzazione.

Page 60: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

60

4 ::.. I flussi informativi

A riprova dell’evidente squilibrio di rappresentazione tra

mondo subsahariano e paesi in via di sviluppo, sono utili alcune

analisi di tipo quantitativo: indagini sullo studio dei flussi

internazionali delle notizie hanno mostrato empiricamente la

scarsa presenza di informazioni provenienti dall’Africa

nell’intero panorama mediatico. Quand’anche ne si possa

evincere una presenza maggiore, tale copertura è relativamente

recente e in ogni caso strettamente connessa ad eventi

fortemente notiziabili, come guerre, emergenze umanitarie

relative ad alimentazione, catastrofi naturali o malattie, carestie

e siccità45.

Si riportano in questo capitolo – a carattere puramente

paradigmatico – alcuni dati scelti in relazione ai media

statunitensi, britannici ed in primo luogo italiani.

45 www.ucalgary.ca/UofC/faculties/SS/POLI/RUPP/taarn/article8.pdf, a cura del giornalista E.Ablorh Odjidja

Page 61: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

61

4.1 Quantità e carattere dei flussi

L'attenzione dei media internazionali nei confronti dei paesi in

via di sviluppo in genere, e in particolare dell'Africa, ha subito

una progressiva riduzione, fino ad arrivare a un drastico 50%

nei dieci anni successivi al 1989. I risultati dello studio

sottolineano, anch’essi, che le notizie dedicate all'Africa

riguardano per la maggior parte guerre, conflitti, terrorismo e

disastri. Un terzo delle notizie che la BBC e l'ITN (notiziari

inglesi) hanno dedicato all'Africa nel 2000 è stato riservato a

questi argomenti, mentre le rimanenti notizie hanno riguardato

lo sport e altri eventi che coinvolgono l'Africa solo molto

marginalmente.

Secondo alcuni dati reperibili su internet46, in una quantum di

notizie diffuse dai network statunitensi ABC, NBC e CBS tra il

1972 e il 1989, solo una percentuale del 2,2% ha come oggetto

l’Africa. Non dissimili comparazioni possono essere effettuate

in relazione ai media italiani; come riporta Daniele Mezzana, nel

periodo compreso tra il 10 ottobre 1999 e il 31 marzo del 2000,

su 21.500 notizie trasmesse dai principali telegiornali italiani,

solo 128 riguardavano l’Africa (per una percentuale dello 0,6%)

ed ancora una volta si riferivano ad eventi violenti o

catastrofici47.

Uno dei principali telegiornali italiani (il Tg5 nella fattispecie)

dedica, in termini di media, alla cronaca nera 68 volte lo spazio

che dedica all'Africa, secondo un dato riportato da African

Societies.

Nel 2005 i telegiornali italiani hanno dedicato alle questioni

africane nel loro insieme circa 293 ore, su un totale di 2539 ore di

programmazione, ovvero l’11,6% dello spazio complessivo. Il

46 http://home.earthlink.net/~melissawall/lackofcoverage.html47 Grandi,”La (non) rappresentazione del lavoro nei telegiornali” 2000

Page 62: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

62

tema trattato è ancora una volta in maggioranza di carattere

umanitario.48 Come ad esempio la carestia nel Niger , che

secondo i dati raccolti i dall'Osservatorio di Pavia nell'analisi

degli spazi, delle presenze e degli argomenti trattati in tv e

riportati dal settimanale Vita valeva in ogni caso “appena 19

(diciannove) minuti; gli animali domestici due ore, 16 minuti e 30

secondi; il gossip 11 ore, 35 minuti e 30 secondi. E' questo il tempo

dedicato a ciascuno dei tre argomenti dalle reti televisive italiane (Rai,

Mediaset e La7) nei mesi di luglio e agosto 2005. (…) i 19 minuti

dedicati alla carestia nel Niger hanno rappresentato in quei due mesi

dell'estate scorsa un davvero risibile, quasi impalpabile e inconsistente,

0,07% di tutto il materiale giornalistico trasmesso da Rai, Mediaset e

La7, che e' stato pari a ben 435 ore, 51 minuti e 30 secondi. Nel

dettaglio, i 19 minuti di informazione su quella tragedia sono fatti di

10 minuti trasmessi dai Tg della Rai, divisi tra i due del Tg1, altri due

minuti del Tg2 e i restanti 6 del Tg3; quindi 8 minuti da La7 e uno da

Mediaset, per l'esattezza da Canale 5. Totale appunto 19 minuti su un

numero imprecisato, ma certamente fatto di migliaia e migliaia, di

vittime della carestia.”

Ulteriori indicazioni degne di attenzione giungono da un

resoconto stilato dalla commissione parlamentare per la

vigilanza dei servizi radiotelevisivi;49 come riporta il senatore

Falomi, “i contenuti informativi delle principali testate giornalistiche

del servizio pubblico radiotelevisivo appaiono eccessivamente centrati

sulla realtà italiana e dell’Europa Continentale, lasciando pochissimo

spazio a tematiche e informazioni relative agli altri continenti; il

monitoraggio dei dati relativi al periodo che va dal 1° gennaio al 30

settembre 2005, mostra la realtà di una vera e propria cancellazione

dall'informazione televisiva pubblica delle notizie relative ad aree

estremamente importanti per il futuro quali i Balcani, la Cina, l’intero

48 A.Pozzi, Lo "sguardo dell'informazione”49

http://notes9.senato.it/W3/Lavori.nsf/0/06ADB7D844CCF49FC12570D8006AEA84?OpenDocument

Page 63: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

63

continente africano, i paesi del Sud America, e l’India (…) l’Africa è

stata oggetto della produzione di alcuni servizi del TG1 solo in

occasione della visita dell’onorevole Rutelli in Darfour”.

Nel panorama degli ultimi 7 anni, le statistiche riportano cifre

non dissimili a quelle citate: innumerevoli sono gli esempi di

notizie e approfondimenti di questa tipologia. Nel dicembre

2006 il Tg2 dedica un solo dossier - al Kenya - ed ancora una

volta di carattere umanitario;“Babbo natale non abita a Nairobi”

è stato un reportage che fotografa la tristissima condizione

dell’infanzia costretta a scavare nelle discariche di immondizia per

sopravvivere. Sullo sfondo di tutto questo c’è l’aids che sta uccidendo i

genitori di questi bambini che per dimenticare la loro triste condizione

sniffano colla, la droga dei poveri, che provoca gravissimi danni fisici e

celebrali50.

Il 19 maggio 2006 il Tg2 dedica un breve spazio alla notizia di

un convegno su “13 milioni di bambini resi orfani dall'Aids. 30

milioni di adulti infettati dal virus Hiv. Una sfida quotidiana

per l'Africa. Bambini senza Aids, un sogno per l'Africa.”

Sembrerebbe dunque che i mass media di casa nostra si

riferiscano all’Africa solo in relazione a guerre, malattie - la

cosiddetta Africa delle emergenze – ed inoltre in riferimento a

misfatti che direttamente interessano la sfera di influenza

occidentale. Come sostiene uno studio dell’Università di Siena,

“la ripetitività lascia il campo a scelte editoriali assai discutibili,

avviando un "doppio pregiudizio" antiafricano: si parla del Continente

Nero solo quando i fatti riguardano l'Occidente (…) e vengono escluse

dalla ricostruzione tutte le fonti locali, governative e non governative.

L'Africa riesce a far notizia quando bussa alle porte di casa nostra, ma

manca ancora una reale curiosità (dei media occidentali) per quanto

accade davvero, giorno dopo giorno, in quel continente.”51

50 www.tg2.rai.it51 L'Africa sui media, Osservatorio su comunicazione e Africa; Università di Siena-Amref 2004-2005.

Page 64: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

64

4.2 La carenza informativa secondo le Ong

Ong ed associazioni umanitarie (ma non solo) lamentano

comunque una carenza informativa anche sotto il versante dei

diritti umani e tematiche simili; in altri termini, se il carattere

della notizia in via pressoché esclusiva è di tipo umanitario (e

nello stesso tempo succulento per l’indice d’ascolto, lo si

ricorda), questa “priorità” viene ritenuta ancora insufficiente da

numerosi operatori.

In ogni caso, ben pochi sembrano necessitare un’informazione

realmente alternativa sul continente Africano, che non sarebbe

altra da quella endogena e quotidiana.

Medici Senza Frontiere 52(MS), nel suo annuale rapporto sulle

crisi umanitarie e media, nel 2006 ha analizzato 22 quotidiani,13

periodici e, ancora una volta con la collaborazione

dell'Osservatorio di Pavia, i principali telegiornali. Oggetto

dell’indagine sono state le dieci crisi umanitarie identificate da

MSF come le più ignorate dai media a livello internazionale, la

“top ten” delle crisi dimenticate – Somalia , Repubblica

Democratica del Congo, Sri Lanka, Colombia, Cecenia,

malnutrizione, Haiti, tubercolosi, Repubblica Centrafricana e

India centrale – e di altre gravi crisi meno evidenziate nel nostro

paese – Indonesia, Sudan, Ciad, Niger, Angola e malaria.

Tra i 22 quotidiani analizzati, i più attenti alle crisi umanitarie

sono risultati Avvenire, La Repubblica e Il Corriere della Sera.

Ad esempio Sono 63 gli articoli pubblicati sul Ciad, ma dei

200mila rifugiati dal vicino Darfur e dei 50mila sfollati interni

hanno parlato solo 10 pezzi. Alla malaria sono state dedicate 6

notizie (di cui ben 4 sulla morte di un italiano che ha contratto la

52 www.crisidimenticate.it

Page 65: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

65

malattia in Congo). Significativo il confronto con l'influenza

aviaria, che ha registrato solo 116 casi e 80 morti in tutto il

mondo: a questa pandemia esclusivamente “in potenza” sono

stati dedicati ben 410 servizi dai TG.

La malnutrizione ha raccolto complessivamente 89 articoli

(inclusi 17 trafiletti e brevi). Nelle principali edizioni dei

telegiornali, sono 33 le notizie sulla malnutrizione, la maggior

parte relative ad appelli del Papa e a rapporti di istituzioni

internazionali.

All’Angola sono state dedicate in totale 3 notizie, di cui 1 sul

colera, 1 sull'uccisione di un missionario e 1 sullo sminamento.

Al Sudan ed al Darfur sono stati dedicati 255 articoli (quasi la

metà sono trafiletti e brevi) dai quotidiani e dai periodici nel

corso del 2006, ma meno della metà parla della situazione della

popolazione civile e del conflitto. 105 di questi hanno a tema il

dibattito sull’invio di una forza ONU, e 45 analizzano le

dinamiche degli aiuti italiani al paese, confermando la tendenza

da parte dei media a parlare di contesti di crisi se aventi

referenze dirette con l’Italia: è il medesimo caso del Niger, citato

dalla stampa italiana in 58 articoli, di cui ben 34 sul rapimento

dei turisti italiani. E le 97 notizie apparse in televisione a tema

Niger hanno riguardato quasi esclusivamente la vicenda dei

turisti italiani rapiti.

Al Darfur, i telegiornali dedicano solamente 12 notizie. E, di

queste, solo una parte racconta della popolazione civile vittima

della guerra.

E proprio riguardo ai telegiornali, su un totale di 78.224 notizie,

solo 8.228 (pari al 10,5%) sono state dedicate a eventi o

situazioni di crisi. Si è potuta evidenziare una maggiore

attenzione alle crisi umanitarie da parte dei telegiornali Rai

(4.943 notizie su 36.803, pari al 13,4%) rispetto a quelli Mediaset

(3.285 notizie su 41.421, pari al 7,9%), e come nel 2005 si

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66

conferma la tendenza che vede il Tg3 al primo posto con il

16,2%, il Tg1 al secondo posto con il 13,4% e il Tg2 con l’11,2%.

Seguono il Tg4 con il 9,5%, il Tg5 con il 9,2% mentre Studio

Aperto resta il fanalino di coda con il 5,5%.

Page 67: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

67

5 :. Stereotipi e discorsi tipici

5.1 I “discorsi” tipici

In campo mediatico si parla di “discorsi” tipici53, come quello

della carestia, della guerra, del tribalismo, della religione o

dell’esotismo, noti agli operatori dell’informazione e

culturalmente archiviati come qualsiasi elemento di repertorio di

testata, come immagini e suoni.

Gli stereotipi-base hanno come punto d’origine una concezione

duale dell’Africa: da una parte terra del dominio cruento della

natura, dove le forze di inondazioni, eruzioni vulcaniche e

siccità agiscono incontrastate, quasi come in una preistoria del

globo. Dall’altra come luogo di incontaminata bellezza

ambientale, corrisposta dal romantico mito del “buon

selvaggio”, caratteristica ancora attribuita a priori ai suoi

generici e indeterminati abitanti. Per riprendere una definizione

di Corbey, l’immagine è quella di un “continente allocronico”, al

di fuori dal tempo corrente dell’umanità esterna. Questa

caratteristica di autoisolamento genera una successiva serie di

pregiudizi “mistici”, rendendo l’idea di una terra impenetrabile

53 Jo Ellen Fair in “Africa’s media image”, Hawk B.G, Westport

Page 68: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

68

ed opaca agli occhi dell’osservatore occidentale. Alla concezione

dunque di una realtà ancora “indietro” rispetto alla normale

cronologia evolutiva (“rallentata” o “frenata” da ingerenze

umanitarie, assistenziali o logiche di prevaricazione geopolitica)

si associa il forte stereotipo dell’atemporalità e dell’astoricità.

Come vedremo più avanti, questo mito riecheggia nella

pubblicità, nella critica e nelle arti figurative. L’africano è il

bambino dell’umanità, ed esprime un lato puro ormai sepolto

dai milioni di stimoli della complessa società occidentale, patria

della ragione strumentale. In se è quindi guidato da

inconsapevoli logiche irrazionali, preda di pulsioni – anche

animalesche e sessuali - e in contatto stretto con il lato più

primitivo e ancestrale dell’essenza umana. La forza della

tradizione (da cui viene esclusivamente agito) assume dunque

un carattere coercitivo e sempre uguale a se stesso. In

quest’ottica, anche i conflitti e le lotte politiche vengono per lo

più lette come espressione di forze cieche e ragioni “tribali”, con

un giudizio del tutto esule dai valori nazionalistici,ideologici e

politici. L’ afro-pessimismo vede dunque spiegata la sua matrice

in questo equivoco di fondo, ovvero l’incapacità strutturale, il

limite intrinseco della africanità.

Data per certa questa incapacità, ne deriva la legittimazione per

l’assistenza e l’ingerenza nella terra Africa e nelle dinamiche di

gestione dell’africano; questo è avvenuto in maniera esplicita

attraverso il colonialismo e l’imperialismo classici. Ma in realtà

continua ad avvenire in forme più edulcorate (e spesso

sostenute in buona fede) secondo gli schemi dell’intervento

umanitario, dell’assistenzialismo e della retorica dei diritti

umani.

Page 69: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

69

5.2 Lo sdoganamento dell’Africa

A questo proposito è opportuna una breve chiosa su questa

chiave di lettura “progressista” della realtà sub-sahariana: nel

tentativo da una parte di sfatare gli stereotipi dell’incapacità

congenita e del primitivismo, dall’altra di dimostrarne

quantomeno una parziale reversibilità grazie all’intervento

assistenziale occidentale, si tende sempre più frequentemente a

mostrare l’immagine mediatica dell’Africa più similare alle

realtà dei paesi del Primo Mondo.

Lo speciale del Tg3 “PuntoDonna” dedica attenzione alla realtà

africana secondo il criterio dell’emancipazione femminile, tappa

anch’essa considerata ineluttabile nella storia dell’umanità in

ogni tempo e in ogni luogo, secondo il concetto dell’universalità

dei diritti umani. Così recità il palinsesto: “Parte dalle donne il

riscatto dell’Africa: dalla prima presidente della Repubblica donna del

continente eletta in Liberia, alle combattenti del Mali, al sogno di

Fatema Mernissi, la grande scrittrice maghrebina. "La salvezza

dell’Africa è nelle mani delle donne", così lo scrittore senegalese Pap

Khouma. L’Italia ha come priorità l’aiuto alle donne: un'intervista a

Margherita Boniver, sottosegretario agli Esteri e delegata ai diritti

umani in Africa.”

Un tale approccio ha l’inevitabile corollario di affermare il

pregiudizio evolutivo secondo cui le realtà sub-sahariana

ancora “lontane” dal raggiungere certi obiettivi nella condizione

femminile, si collocherebbero “al di fuori” della storia corrente,

agiti ancora da una tradizione tiranna che relega la donna in un

ruolo marginale. Non siamo dunque lontani da certi stereotipi

sopra menzionati, seppur gli intenti probabilmente

Page 70: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

70

corrispondano alla volontà di sgombrare il campo. Manca però

ancor una volta una reale attenzione “endogena” da parte dei

media all’analisi dei contesti, secondo un approccio relativista. I

telegiornali dunque non presentano sempre l’Africa qual è,

motivandone le ragioni e –attraverso approfondimenti-

cercando di mostrare al pubblico i meccanismi interni di

tradizioni e costumi. Con una certa tipologia di servizi, si cade

dunque nella riproposizione del continente come si vorrebbe che

fosse, o come dovrebbe o dovrà essere. Il criterio di selezione si

avvicina in tal caso a quello dell’affinità.

Ancora, per il tema dello sviluppismo e del concetto di

“fratellanza” universale, ovvero la patente di abilitazione

concessa dal mondo occidentale a quello meno fortunato, è

indicativo l’approfondimento del Tg3 del 27 maggio 2006,

chiamato PrimoPiano e avente come titolo “Sorella Africa”, il

cui palinsesto recitava come di seguito: “Roma si mobilita per il

continente Nero. Italia-Africa, stesso pianeta all'insegna di questo

slogan sabato corteo e concerto a piazza del Popolo per rilanciare

l'azione a favore dello sviluppo del continente africano e per sollecitare

il nostro Governo a fare di più in questa direzione”.

Nello speciale del Tg1 “Contrasto africano", andato in onda

sulla prima rete nazionale nel novembre 2006 (all'indomani

dell'apertura della nuova sede di corrispondenza della Rai a

Nairobi, in Kenia) per voce del direttore di testata Maurizio

Ferragni l’attenzione viene posta “verso il continente africano e le

sue problematiche ed anche le sue ricchezze di costumi e tradizioni e le

sue bellezze naturali fatte di paesaggi mozzafiato”, mentre il

giornalista Franco Di Mare aggiunge significativamente un

passo sul Sudafrica, che costituisce “la speranza del continente e

dove gli investitori stranieri restano e non scappano, e dove l'economia

cresce”.

Page 71: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

71

Vigono qui entrambe le constatazioni di un immagine

prevalentemente naturalistica e primordiale, con relative

tradizioni annesse, che fanno il palio con un contrasto con un

elemento tipicamente occidentale: il criterio di positivizzazione

agli occhi del pubblico italiano è riposto nella crescita

dell’economia e negli investitori stranieri, piuttosto che in

ragioni endogene e proprie della storia del paese africano. Lo

“sdoganamento” dell’Africa grazie al progresso e allo sviluppo

è dunque un altro degli stereotipi mediatici ricorrenti.

5.3 La modernità inevitabile

In ultimo, l’interpretazione progressista dello scenario africano

ha una lato ancora differente: quello che critica l’impostazione

assistenziale ma “legge” in ogni caso, nel destino del continente,

una evoluzione ineluttabile secondo la modernità.

Secondo Daniele Mezzana, vige nell’immaginario occidentale

un ideale errato – o quantomeno riduttivo - di “modernità”;

nell’accezione che si evince dagli stessi media, essa appare come

una sorta di import/export tra Occidente e resto del mondo in via

di sviluppo54. Una sorta di fenomeno con un centro di

irradiazione e rivolto progressivamente verso le altre zone del

globo. Il predominio occidentale non solo politico ma anche

mediatico trarrebbe dunque alimento da questa stessa

concezione, ostacolando il processo di autocostruzione della

modernità del continente Africano. Ci troviamo in ogni caso di

fronte al medesimo paradigma secondo cui non solo una

“modernità” è ineccepibile in ogni luogo della terra – “nessun

gruppo umano sembra potersi sottrarre ai processi di modernizzazione

e al compito di diventare, in qualche modo, moderno” - , ma è

costituita dalle medesime tappe che si possono riscontrare nel

54 Daniele Mezzana in “Società Africane – Zelig Editore 2005”, Pag.24

Page 72: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

72

percorso cronologico occidentale. L’ideale progressista

presuppone infatti delle dinamiche universali, sempre uguali e

comuni che devono necessariamente fare la loro comparsa in un

dato tempo della storia di un popolo o di una realtà sociale. In

altri termini, l’emergere dell’individualismo, la “scoperta” o la

conquista dei diritti umani, la democratizzazione, lo sviluppo

tecnologico, dell’imprenditoria e della classe media,

l’emancipazione della figura femminile sarebbero tutte fermate

obbligate del corso dei tempi; la longa manus occidentale, con la

sua coercizione politica, il suo oscurantismo mediatico nei

confronti del continente africano –ma anche con la diffusione

dei propri stereotipi- farebbe dunque “da freno” alle naturali

evoluzioni dei paesi del Terzo Mondo verso una inevitabile

modernità, in tutto e per tutto simile alle forme conosciute nei

paesi occidentali. Lo stesso Mezzana riconosce che le dinamiche

esogene di importazione di modelli –sia tramite la forza bruta

dei metodi coloniali, sia attraverso il bombardamento culturale

mediatico e l’invasività della globalizzazione- hanno creato

fortissimi squilibri e danni permanenti, ma allo stesso tempo

continua a sostenere la necessità di uno sviluppo endogeno, in

grado di garantire una “modernità più stabile” e dalle forme in

tutto e per tutto simili a quelle note nei lidi del cosiddetto

mondo civilizzato.

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73

6 ::.. Un caso di comunicazione: l’arte africana

Si rende necessaria una premessa introduttiva: perché parlare

dell’arte africana in questo contesto? Le ragioni che portano ad

una tale operazione sono da individuarsi nella stretta

connessione che la stessa mostra con le categorie

dell’immaginario occidentale oramai stratificate.

Gli stereotipi che sono stati evidenziati in precedenza,

alimentati e consolidati da una rappresentazione di lunghissima

data, si manifestano nella loro interezza nel giudizio che

l’osservatore occidentale attribuisce ad un prodotto di una

cultura altra.

In questo caso, una rappresentazione mediatica tipica è in grado

di generare un modus interpretandi piuttosto radicato e capace di

permeare ogni sfera della comprensione; tale fenomeno è

esemplificativo di come la comunicazione rivesta una sfera

sociale-totale, e in tal caso vada a influenzare i meccanismi del

dialogo interculturale. Ma è allo stesso tempo problematico in

Page 74: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

74

quanto capace di attivare i già citati recettori culturali, che

impediranno così una corretta interpretazione dei fenomeni e

aumenteranno potenzialmente il rischio di fraintendimenti e

conflitti. La comprensione interculturale passa soprattutto dalla

decostruzione di un immaginario falsato, ed è dunque

importante riportare degli esempi di come questo stesso

immaginario abbia effetti deleteri sulla conoscenza reale di

quella che è la realtà africana. Nel 1989, l’antropologa

statunitense Sally Price pubblicava il suo noto saggio

“Primitive art in civilized places”, testo che forse più di ogni

altro ha affrontato con dovizia di particolari e acutezza di analisi

la tematica in questione. Tra gli obiettivi prefissi vi era quello di

dimostrare l’asimmetria reale tra il giudizio occidentale sull’arte

(e sulle modalità di percezione della storia) prodotta in loco e

quella appartenente a realtà “altre”.

6.1 La deumanizzazione

Partendo dalla definizione della concezione di “arte primitiva”,

viene delineata la “moneta corrente ideologica” della nostra

società ; evitando di impelagarsi in sterminate dissertazioni sul

concetto di “primitivo” , viene dimostrato come l’arte altra

venga primariamente deumanizzata, delegittimata e

successivamente riabilitata o promossa dal benefattore o

conoscitore occidentale. Lo sostiene anche Daniele Mezzana a

proposito degli attori sociali africani:

uno dei tipici processi mediatici, da Mezzana inteso come vera

e propria pratica professionale ricorrente, è quella della

“deumanizzazione, o eliminazione degli attori, a favore di entità e di

processi astratti e stereotipati (come avviene ad esempio imputando

Page 75: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

75

determinati conflitti a determinate realtà razziali, tipo la <<violenza

tra neri>> 55“.

Dalle persone agli oggetti, la sostanza non è differente: la

rappresentazione è prima di tutto psico-sociologica, come una

macrocategoria che fa dell’Africano (e tutto ciò ad esso

connesso) un’entità impersonale, in un certo senso priva di

identità individuale. Così come l’Africano è agito dalla

tradizione, i suoi manufatti sono il prodotto derivativo e neutro

di essa.

6.2 I “fratelli minori” dell’Umanità

Il paradigma razzista – ampiamente abusato nei ragionamenti

mediatici esaminati - fa capolino anche nel giudizio estetico:

Hooper e Burland56 puntano l’attenzione sulle “cognizioni

meccaniche insufficienti”, così come Douglas Newton indica

nello scarso livello tecnologico raggiunto dalle società

produttrici un indizio plausibile ed un criterio certo per

identificare la tipologia di arte primitiva. Compare anche

l’infantilismo e il lato selvaggio, ancestrale e irrazionale dei

bambini della storia: altri criteri infatti seguono gli elementi

della vicinanza del prodotto artistico (una statua o una semplice

rappresentazione grafica) ai disegni dei malati, dei bambini o

delle scimmie, ad evocazioni pagane, religiose o spiritiche.

L’arte realizzata da tali persone assurge dunque al livello di

prodotto dei “fratelli minori” della Famiglia dell’Uomo, “non

abituati a reprimere le loro pulsioni naturali secondo i parametri

del comportamento civilizzato”.

55 Daniele Mezzana, Un’immagine cancerogena, da Società Africane, Zelig 200556 Hooper, J.T e Burland C.A, 1953, The Art of Primitive Peoples, Fountain Press, London

Page 76: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

76

6.3 Il paternalismo occidentale: un prodotto universalista

Ma chi è dunque abilitato a promuovere il manufatto

etnografico a oggetto d’arte o viceversa ? Chi ha il compito di

stabilire gerarchie estetiche?

Così come il paradigma progressista ha generato

l’assistenzialismo dapprima coloniale, e in seguito umanitario –

con il corollario di una rappresentazione nei mezzi di

comunicazione di massa secondo questa inclinazione - , ecco che

nel giudizio estetico l’osservatore occidentale ha ancora una

posizione privilegiata, di carattere paternalistico.

Dalla descrizione della figura del Conoscitore57, si evince un

oscillazione tra un personaggio capace, tramite modalità

comunque coscienti ed intenzionali , di selezionare e discernere

secondo un’inclinazione innata (il buon gusto), ed una tipologia

di esperto le cui griglie concettuali sono frutto esclusivo del

processo di acculturazione della società in cui vive. Secondo

Kenneth Clarke (che si ricrederà personalmente) era addirittura

da escludere la possibilità dell’occhio come “organo educato” –

citando Franz Boas- e la pura fruizione estetica costituiva il

discriminante di un mondo in cui tutti sono potenziali

conoscitori al di la dei condizionamenti di mode, posizioni

sociali o specializzazioni. Nella grande Famiglia Umana dunque

un esplicito orizzonte di universalità fa si che l’intenditore

occidentale possa promuovere e giudicare l’arte del mondo

intero permettendosi di prescindere dal contesto culturale.

Paradossalmente, il creatore altro non è abilitato all’operazione

inversa ; se si considera che nella nostra società basta

un’etichetta a sancire il valore di un prodotto, si dimostra in

tutta la sua banalità un concetto che dovrebbe essere diffuso ma

purtroppo non lo è; l’unidirezionalità sottesa ad un tale 57 Sally Price, I Primitivi Traditi, Einaudi 1992

Page 77: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

77

ragionamento si ripresenta dunque in ogni aspetto considerato

dall’analisi del testo. La definizione del “principio di

Universalità” prende le mosse dalla considerazione sullo

sviluppo della comunicazione e del mercato globale ; l’illusione

di un mondo alla portata di tutti ha per l’osservatore

occidentale il sapore dell’Unità, dell’Eguaglianza e della

Fraternità ; l’idea implicita della famiglia umana si evince dai

fenomeni pubblicitari,musicali o sociali quali ad esempio la

teoria del Buon Selvaggio, i manifesti della Benetton, il successo

della canzone We Are The World, la retorica delle associazioni

solidaristiche di carattere planetario o la propaganda

“umanitaria” (tra i topoi del caso è da segnalare la bambina

bionda che mostra affetto al bambino nero o il soldato che

soccorre ed aiuta bambini, civili o feriti di parte avversa).

Denominatore comune di una tale ispirazione filantropica è il

fatto che al botteghino dello spettacolo della Fratellanza Globale

siedano soltanto bigliettai occidentali, che grazie alla loro

benevolenza accordano ai loro fratelli minori la possibilità di

mostrarsi e mostrare conseguentemente anche i loro prodotti

una volta promossi allo status di oggetti d’arte. Leonard

Bernstein, forte dell’influenza di Noam Chomsky, rintraccia

questa universalità tramite la musica e la linguistica, arrivando

a formulare la teoria di una monogenesi. Anche l’arte

conseguentemente assurge al livello di “linguaggio universale”,

“fattore unificante” in quanto prodotto di sensibilità comuni a

tutti gli uomini, tendenti “naturalmente” alle stesse aspirazioni

di fondo quali il “benessere” e la “salute”(Suzan Vogel). Ritorna

dunque lo stereotipo progressista di un cammino medesimo per

ogni realtà umana della terra, in cui i fratelli maggiori hanno ora

il compito di aiutare i fratelli minori, oppure i primi hanno il

dovere di lasciar camminare i secondi sulle loro gambe, certi che

prima o poi li raggiungeranno in una modernità a dimensione

Page 78: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

78

afro-occidentale. Si fondono dunque in un unico calderone e si

mettono sullo stesso piano dei concetti che richiederebbero

invece un’analisi endogena ed induttiva.

6.4 L’Africa come museo dell’Uomo: il dominio dell’irrazionale

Secondo Henry Moore, Paul Wingert e Ladislas Segy l’arte

primitiva sarebbe espressione di pulsioni dirette ed elementari ;

ponendo così sulla medesima scala interpretativa ogni tipologia

di produzione artistica vengono rase al suolo in un solo colpo le

diversità. Ma si tratta di un pregiudizio assai diffuso anche nella

sensibilità corrente; Judith Zilczer ha giustamente osservato che

per gli artisti e i critici occidentali “i neri africani rappresentano

l’infanzia culturale dell’umanità”. Nella nostra società gli

stimoli “essenziali” e “primordiali” sarebbero stati sepolti da

“una moltitudine di stimoli parassitari” (Wingert) ; tale

scenario,prospettato da un’affermazione che tristemente si

colloca negli anni’70, si mostra ulteriormente legittimato dalla

fallace premessa, peraltro già evidenziata, secondo cui tutti gli

uomini, per la loro natura universale, dovrebbero condividere le

stesse aspirazioni di fondo.

Il lato oscuro dell’uomo, incarnato dalla produzione del diverso,

è dunque ancora vivo nell’Africano, ed è sepolto dalla

complessità occidentale: questa la teoria che spesso viene

diffusa dai media, anche nella semplice fascinazione per i rituali

“esoterici” o “macabri” all’occhio civilizzato. Jean-Louis

Paudrat ci descrive come, secondo reminiscenze di Voltaire, la

figura del Negro sia automaticamente posta in relazione con il

Maligno, infarcita di superstizioni in stretto contatto con le

origini della storia dell’umanità. Ma tale eredità illuminista è

viva e vegeta ai tempi nostri. Le rappresentazioni primitive

parrebbero ispirate da paura ed ignoranza, e i loro limiti

Page 79: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

79

sarebbero “sottoprodotti del lento sviluppo delle facoltà

intellettuali umane” (Erwin O.Christensen, 1955). Esemplare è il

caso dell’opera africana nota in Occidente come “testa

Brummel”, letta dallo scultore Jacob come evocazione di uno

spirito emblematico di forze occulte. Ancora, secondo Myers

“per il nero dell’africa occidentale non sussiste la nostra distinzione

tra realtà e irrealtà”. In sintesi, l’arte altra sarebbe il prodotto del

terrore di uomini succubi dell’ignoranza. Immagini di male e

morte sarebbero unicamente alla base dell’intenzione artistica.

Da notare inoltre l’insistenza sull’erotismo e le pulsioni

“primitive”,nonché l’ossessione che ogni oggetto celi la

fissazione per la sessualità ; ennesimo esempio di una

sottocultura evoluzionistica, purtroppo in gran forma ai giorni

nostri, che dipinge i popoli non occidentali come selvaggi

incivili ed al contempo “liberi” dai condizionamenti di una

società (la nostra) che li seguirebbe cronologicamente. Come tale

prospettiva sia abusata persino a livello pubblicitario ci viene

mostrato dal noto dualismo tra la presunta “genuinità del

selvaggio” e “l’artificialità del civilizzato”. La sistematica

decontestualizzazione di pratiche e usanze e l’ignoranza delle

concezioni e visioni altre smaschera un etnocentrismo radicale

che si manifesta persino nelle più semplici operazioni di

giudizio, e quanto il concetto di relativismo culturale sia astruso

dalla logica del pensiero popolare è testimoniato

dall’atteggiamento di una custode del Metropolitan Museum of

Modern Art, che descrivendo i costumi sociali della tribù Asmat

della Nuova Guinea esplicita una improponibile sequela di

stereotipi a partire dalla confusione del luogo abitato dalla

suddetta tribù con l’Africa. La pur precisa esposizione dei

dettagli etnografici coincide pedissequamente con il loro

fraintendimento.

Page 80: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

80

6.5 Nessuna identità

Nessuna identità, nessuna collocazione sociale e storica propria.

E’questo il pregiudizio dell’anonimato dell’artista e

dell’atemporalità del suo operato ; L’ enciclopedica distinzione

occidentale di individualità e periodi stilistici si scontra con una

visione asimmetrica del creatore altro e conduce inevitabilmente

e erroneamente ad etichettare un qualsiasi scultore africano

come impersonale strumento di una tradizione tirannica e

ripetutamente uguale a se stessa, dove la personalità

individuale è del tutto assente. Tra i primi a focalizzare tale

problematica troviamo Franz Boas, che ha invitato a porre

maggior accento sulla creatività dei singoli e sui cambiamenti

storici.

6.6 Giochi di potere

Ancora interessanti riflessioni si evincono dalla definizione dei

cosiddetti “giochi di potere”; è l’occhio selettivo dell’occidentale

a promuovere gli oggetti etnografici ad opere d’arte,

decidendone le modalità di salvaguardia. Il sistema possiede le

risorse finanziarie e comunicative per accordare il valore

dell’opera, e conseguentemente ne incentiva la produzione

artistica in base alla richiesta, snaturalizzandone le ragioni

secondo il ben noto meccanismo della mercificazione dell’arte.

Nel migliore dei casi, la pregnanza artistica rimane in parte

intatta al prezzo di un’ibridazione. Le regole per impossessarsi

di tali opere sono ovviamente stabilite dagli occidentali, che

spesso ricorrono a veri e propri furti violando l’integrità sociale

e la dimensione spirituale di intere comunità ; caso esemplare è

la menzionata spedizione etnografica a Dakar del 1931, in cui la

vergognosa sottrazione dei “Kono”, importanti maschere rituali

Page 81: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

81

della popolazione locale, ci è documentata dalle pagine di un

diario. Uno statuto degli anni ’50 regolerà in seguito l’attività

museografica, ma eluderà il problema in quanto porrà i suoi

cardini sul presunto diritto occidentale di “preservare” un

patrimonio che in altri modi andrebbe “perduto” e

sull’indennizzo economico dei proprietari, una volta introdotti

della logica di mercati interni assolutamente estranei a

determinate culture.

Page 82: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

82

7 ::.. Conclusioni

Il lavoro ha dunque evidenziato la realtà attuale

dell’immaginario sull’Africa, analizzando i vari lati e le

tipologie che costituiscono la sua rappresentazione. Ad un

flusso di notizie quantitativamente limitato, si aggiunge il suo

carattere unidirezionale (la sua origine è quasi integralmente

collocata nel panorama occidentale) e reiterato dal punto dei

vista dei contenuti. Il carattere di questi ultimi è di stampo

umanitario e progressista, ora nelle forme di un’assistenzialismo

paternalista, ora nelle forme di numerosi stereotipi evolutivi

storicamente radicati. Quand’anche si voglia rifuggire

l’immagine di un Africa immobile, lo si fa in termini di

confronto al Primo Mondo, cronologicamente “più avanzato”.

Le ragioni di questa rappresentazione possono evincersi:

1. nel divario digitale, ovvero nella disparità di possesso di

tecnologie; tra le conseguenze del fenomeno vi è dunque

una carenza prima di produzione dell’informazione

Page 83: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

83

endogena. Nel caso africano, le poche infrastrutture di

comunicazione hanno un solco statalista, post-coloniale o

sono legate a doppio filo con organizzazioni occidentali.

2. nello stretto legame tra informazione e potere; l’esigenza di

mantenere un dato status quo, di gestire manovre di

politica estera o l’influenza dei grandi cartelli

commerciali multinazionali è in grado di determinare

una rappresentazione conforme ad interessi corrispettivi.

3. nella reiterazione di procedure, routines e meccanismi acquisiti

da parte degli operatori dell’informazione. Essi pescano

dai criteri di notiziabilità e dai canoni della creazione

dell’agenda setting, al loro volta correlati con le esigenze

produttive ed economiche delle azienda-informazione ed

alle categorie derivate dal serbatoio di conoscenze

comuni pregresse.

7.1 Per una decostruzione dell’immaginario

Quali possono essere alcuni spunti per una vera e propria

decostruzione dell’immaginario sull’Africa, ormai così fortemente

alimentato da una rappresentazione auto-sufficiente?

7.1.1 Ridurre il divario digitale?

Come sottolinea Luciano Balbis58, tra le soluzioni spesso

richiamate vi è quella di finanziare progetti di tecnologizzazione

di aree in posizione subordinata o secondaria rispetto

all'Occidente industrializzato: prospettiva certo non nuova e

richiamata di recente da un dossier sulle reti pubbliche

nazionali. In una situazione geopolitica come quella attuale, 58 Luciano Balbis, “Te la do io la libertà” da www.opifice.it/blbs.htm

Page 84: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

84

delineatesi in maniera estremamente evidente i rapporti di

forza, quali dunque le prospettive per le “diversità” del mondo

di poter lanciare – e far trasparire – messaggi differenti, se prive

dei medesimi canali di scambio? Quale l'agibilità mediatica – e

conseguentemente politico-culturale – di modus vivendi e

operandi “altri”, al di fuori dei mezzi che il dominante Primo

Mondo utilizza? Internet in primo luogo, ma anche tecnologia

satellitare, telefonia mobile e tutto ciò che la rivoluzione digitale

comprende sono la conditio sine qua non per la “trasmissione”

globale della diversità? Diversi paradossi sono celati dietro una

certa tipologia di ragionamento: sorge infatti il dubbio di

trovarsi di fronte all'ennesima rilettura della (vera o presunta)

filantropia liberale, secondo cui “una parte” del mondo

possiederebbe le insindacabili chiavi per la libertà “dei più”, gli

elementi neutri e pacifici a disposizione dell'umanità intera per

la propria incondizionata espressione. Dopo i diritti umani, ecco

i diritti digitali. In questo senso, un notebook tra le mani degli

aborigeni australiani può essere accolto come un segno della

generosità occidentale; o come una prosecuzione del

colonialismo secondo altri mezzi, in relazione ai punti di vista.

Ha certamente qualche fondamento l'osservazione secondo cui

la riduzione del gap digitale sia necessaria non in nome di una

ineluttabile ideologia del Progresso, che vede il ritardo dei

fratelli minori dell'umanità come lacuna da colmare, quanto

piuttosto come soluzione politica ad una oggettiva

configurazione di rapporti di forza: vale a dire che le

superpotenze, omologanti e totalizzanti per eccellenza,

traggono linfa vitale dalla stessa situazione di predominio sulla

comunicazione digitale, resa ormai unico mezzo di effettiva

trasmissione dell'informazione. E' però altrettanto vero che lo

scenario geopolitico e l'omologazione culturale vanno di pari

passo con l'ampliamento progressivo dei mercati, siano essi

Page 85: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

85

quelli inerenti alla tecnologia, siano essi conseguenti

all'informazione-merce. E' dunque sempre lecito interrogarsi

sulle operazioni pianificate come quelle ricordate in apertura di

questo articolo, nel caso in cui vengano promosse da istituzioni

governative, cartelli commerciali ma anche da associazioni no-

profit. Certamente la globalizzazione – laddove è in fase oramai

avanzata – non necessariamente dovrà tradursi nel dominio dei

medesimi modelli e valori mercantili, ma la sua forzata

prosecuzione tramite gli oggetti della tecnologia digitale

dimostra quantomeno che la lezione di Marshall McLuhan ha

probabilmente da attendere per esser compresa; ovvero che “il

medium è il messaggio”, e non soltanto un significante neutro al

quale il popolo Maroon del Suriname o i contadini del Vietnam

potranno integralmente imprimere il segno della propria

specificità, magari trasformandola in oggetto politico. Versione

conciliante con certi intenti filantropici, ma poco attenta ai

meccanismi deformanti che il medium opera sulla percezione di

chi lo utilizza; l'estensione di se stessi quasi in senso fisico, uno

spazio e tempo appiattiti e intercambiabili, un'idea di libertà

corrispondente a quella moderna, riposta sulla quantità (di

immagini illusorie, suoni e luoghi virtuali, di informazioni -

troppe e tutte equivalenti, come su Internet – ecc. ecc.) piuttosto

che sulla qualità di un vissuto quotidiano, quest'ultimo magari

davvero fondante per la singola specificità.

E' questo il vero ruolo che dovrebbe assumere una politica

attenta agli “usi della diversità”, per riprendere una felice

espressione di Clifford Geertz; permettere alle singolarità di

dimostrarsi e comunicare secondo mezzi e modi che in primo

luogo esse stesse ritengono opportuni (sempre che lo ritengano).

Prima ancora che fornire linguaggi e oggetti “più adatti” ad

essere se stessi. Evitando gli estremi opposti, per cui pools di

antropologi scoraggiano gli indiani d'America dal dotarsi di

Page 86: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

86

strumenti della tecnologia; se anche alcune dinamiche possono

avere radici esogene (ad esempio, nella colonizzazione

dell'immaginario) ma nel contempo mostrano autonome

decisioni endogene, è altrettanto grottesco ergersi a tutori della

libertà di una comunità altra.

Sposando però programmi di dotazione massiva di telefoni

cellulari per i Tuareg, più che un servizio alla diversità, si rende

forse un ennesimo omaggio alla società mercantile.

7.1.2 L’informazione alternativa

Vi sono poi gli operatori del settore della cosiddetta contro-

informazione, (i portali internet e le fonti alternative, il mondo

del giornalismo freelance, i network associati indipendenti ecc.)

che sperano di apportare dei correttivi sociali alle naturali (o

inevitabili perché consentite dal meccanismo) distorsioni di tale

modello, appoggiandosi fondamentalmente ai nuovi media e

formats: la rete internet infatti ha dato il via ad un proliferare

finora sconosciuto delle fonti informative, nonché dei mezzi

utilizzati per dare ad esse una forma. I portali e i blogs in tal

senso sono due tra le tante possibilità di recuperare in

pluralismo quello che viene perso con la naturale emissione di

informazioni secondo un agenda da parte dei tradizionali

media. Ovviamente, per ragioni strutturali, qualsiasi utente di

un blog o creatore/redattore di portale crea la sua propria e

soggettiva “agenda”; con il vantaggio –per i soggetti riceventi-

di poter acquisire elementi da una pluralità simbolicamente

illimitata di fonti, e soprattutto con la possibilità di

pluridirezionalità del processo comunicativo/informativo, al

contrario del tradizionale mezzo predominante della televisione

–unidirezionale per via del suo percorso privo di feedback diretto

con l’utenza, e pervasivo in quanto onnipresente nella

Page 87: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

87

medesima forma in ogni contesto ricevente). Come sostiene

Alain De Benoist59, il nuovo contraltare generato dai nuovi

media è la perdita di “gerarchizzazione” dell’informazione,

facilmente riconoscibile quando fornita in modo chiaro e

univoco da un medium di portata mondiale come un

telegiornale di una grossa emittente, ma confusa ed equivalente

quando sovrabbondante come nei meandri di internet.

In ogni caso, gli sviluppi di internet sono forse i più auspicabili

per favore una decostruzione dell’immaginario attraverso la

diffusione di correttivi plurali.

7.1.3 Una soluzione metapolitica

Ma come sostiene Daniele Mezzana, si è da più parti

sottolineato che non appare sufficiente garantire un semplice

aumento di copertura informativa sul continente africano.

Occorre agire su più livelli. Scarsa fiducia è probabilmente da

riporsi nelle agenzie internazionali (enti e commissioni per lo

“sviluppo”, concetto di per se estraneo all’Africa, Ong,

associazioni umanitarie e via discorrendo) e negli apparati

istituzionali, che sono ora connessi strettamente con le

dinamiche della finanza mondiale, ed in quanto tali fortemente

interessate da una parte alla creazione di nuovi mercati (per loro

stessa natura lontani da un modello africano) e dall’altra alla

perpetrazione di un’immagine funzionale al consumo

(dell’informazione-merce e di tutto ciò che gravita intorno alla

categoria-Africa), ora artefici seppur involontari e in buona fede

dell’introduzione in Africa di meccanismi estranei e deleteri per

un equilibrio sociale già indebolito. Maggior rilievo deve

assumere il campo dell’associazionismo non umanitario, degli

apparati scientifici e culturali: l’azione di diffusione di versioni e 59 www.opifice.it

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88

fonti alternative sul continente africano nel mondo occidentale

deve avvenire per mezzo di un continuum svariato di attori, dal

singolo soggetto attraverso le opportunità di internet, passando

per i settori dell’arte e della comunicazioni (cinema, musica,

letteratura) per poi giungere alle fonti scientificamente

propriamente dette, di carattere sociologico e antropologico.

L’azione dunque deve assumere un carattere metapolitico, ossia

innescare un processo virtuoso di riconversione degli stereotipi

sul piano culturale, lontani dai lidi della comunicazione ufficiale

(che segue le logiche aziendali), delle istituzioni, del

fallimentare associazionismo sviluppista o assistenzialista e

dell’economia strumentale.

Page 89: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

89

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Page 91: Tesi - La Rappresentazione Mediatica Dell'Africa Subsahariana

91

..:: Sommario ::..

1. Introduzione

...………………………………….……Pag.42. L’immagine coloniale

……………………………………… Pag.10

3. Le ragioni attuali di una rappresentazione

……………………………..…………Pag.27

4. I flussi informativi

……………………………………….Pag.60

5. Stereotipi e discorsi tipici

……………………………………….Pag.67

6. Un caso di comunicazione: l’arte africana

……………………………………....Pag.73

7. Conclusioni

...…………………………………... Pag.82