Storia dell'Africa
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UNISU
UNIVERSITA’ TELEMATICA NICCOLÒ CUSANO
DISPENSA
CORSO DI STORIA ED ISTITUZIONI DELL’AFRICA
A.A. 2011-2012
PROF.SSA MARIA EGIZIA GATTAMORTA / PROF. STEFANO SILVIO DRAGANI
1
agg. 30.06.2012PROGRAMMA
Cattedra di Storia ed Istituzioni dell’AfricaProf.ssa Maria Egizia Gattamorta
Corso Mografico: Prof. Stefano Silvio Dragani1° Modulo Le indipendenze africane
Prima decolonizzazione e seconda decolonizzazioneNeopatrimonialismo e personal ruleInstabilità politica e regimi autoritariCrisi, conflitto e crollo dello Stato
2° modulo Dall’Organizzazione per l’Unità Africana all’Unione Africana
L’OUA negli anni ’60-‘70L’OUA negli anni ’80-‘901999-2002 nasce l’Unione Africana: caratteri distintiviNEPADAfrican Standby Force
3° Modulo L’Africa nella politica internazionale
I rapporti Unione Africana-Unione EuropeaI rapporti Africa-Cina I rapporti Africa-IndiaI rapporti Africa-GiapponeI rapporti Africa-IranI rapporti Africa-TurchiaI rapporti Africa-USA I rapporti Africa-Regno UnitoI rapporti Africa-FranciaI rapporti Africa-America LatinaI rapporti Africa-RussiaI rapporti Africa-Israele
4° Modulo Le sfide alla sicurezza e alla stabilità dell’Africa Corso Monografico a cura del Prof. Stefano Silvio Dragani
La Corruzione in AfricaIl Traffico di stupefacenti in AfricaIl Terrorismo in AfricaIl fenomeno della pirateria nel Golfo di Guinea e al largo delle coste somale
5° Modulo Trend e prospettiveSviluppo del settore petroliferoGood governance come fattore chiave per lo sviluppo e la sicurezza in AfricaA quando una “Primavera Africana?”
*Parte consegnata in data 30 giugno (da portare a partire da esami di 13 luglio) *Parti finali che saranno
pubblicate a breve *E’ obbligatoria la visione di almeno 1 Tavola Rotonda (al momento si trovano quella sulla
pirateria, sulla fame e carestia in Africa, sulla Libia)
2
L’Africa indipendente
3
Africa – luglio 2011
4
Union du Maghreb Arabe (UMA)
Paesi Membri
5
Economic Community of West African States (ECOWAS in inglese)
Communauté Economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO in francese)
Paesi Membri
6
Intergovernamental Authority on Development (IGAD)
Paesi Membri
NB:
1) L’Eritrea (ammessa nel 1993 e sospesa nel 2007) ha fatto domanda
di reintegro nel luglio 2011 ma al gennaio 2012 attende ancora risposta
2) L’indipendenza del Sud Sudan (luglio 2011) ha comportato
l’ammissione formale del neonato stato africano all’IGAD nel Summit
Straordinario di Addis Abeba del 25 Novembre 2011
7
East African Community (EAC)
Paesi Membri
8
South African Development Community (SADC)
Paesi Membri
9
Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA)
Paesi Membri
10
Communauté Economique des Etats de l'Afrique Centrale (CEEAC in fr)
Economic Community of Central African States (ECCAS in ingl)
Paesi Membri
Angola
Burundi
Cameroun
Repubblica Centrafricana
Congo
Repubblica Democratica del Congo
Gabon
Guinea Equatoriale
Sao Tomé e Principe
Tchad
11
Community of Sahel-Saharan States (CEN-SAD)
(Communauté des Etats Sahélo-Sahariens in francese)
Paesi Membri
Egitto, Libia, Marocco, Tunisia
Benin, Burkina Faso, Tchad,Cote d’Ivoire, Gambia,Ghana, Liberia,
Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Guinea Bissau, Togo
Repubblica Centrafricana
Djibouti, Eritrea, Somalia, Sudan
12
Diagramma delle diverse organizzazioni africane
e
“partecipazione incrociata” dei paesi
13
Primo modulo
LE INDIPENDENZE AFRICANE
� Prima decolonizzazione e seconda decolonizzazione
� Neopatrimonialismo e personal rule
� Instabilità politica e regimi autoritari
� Crisi, conflitto e crollo dello Stato
Testi consigliati per la seguente parte: -capitolo IV del volume “Il leone e il cacciatore-Storia dell’Africa sub-sahariana” di Anna Maria Gentili – Ed Carocci
-capitolo X del volume “Africa: la storia ritrovata”, di Giampaolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi– Ed Carocci
-Capitoli II e III del volume “L’Africa” di Giovanni Carbone - Ed. il Mulino
- oppure un capitolo specifico di un qualsiasi testo delle scuole superiori
14
LEZIONE N. 1 -2 “PRIMA DECOLONIZZAZIONE E SECONDA DECOLONIZZAZIONE”
La decolonizzazione e l’indipendenza dei territori africani ed asiatici sono considerati eventi
rivoluzionari del XX secolo, avvenimenti di portata mondiale che moltiplicano il numero degli
soggetti nell’ambito di fora internazionali e comportano nuovi bilanciamenti nell’assunzione di
decisioni di portata mondiale. Tali processi avviano un percorso innovativo, in cui i nuovi soggetti
sperimenteranno diverse forme di governo, vivranno forme politiche instabili, registreranno
l’emergere di regimi militari o forme autoritarie individuali. In tale sede sarà approfondita la parte
relativa agli Stati sub-sahariani nonché la fragilità delle loro istituzioni. Il cammino intrapreso, in
alcuni casi fu travagliato e sanguinoso, di certo forgiò gli animi delle leadership locali più o meno
pronte ad affrontare la delicata fase di “sganciamento” dalle potenze coloniali.
L’utopia che diventa realtà
La decolonizzazione è una realtà complessa e globale: si sviluppa quasi simultaneamente laddove
c’era stato un potere coloniale (sia in Africa che in Asia), è incoraggiata dai mutamenti indotti dal
termine della II Guerra Mondiale, ha dei caratteri propri delle varie aree in cui avviene, è un
fenomeno che supera di gran lunga i progetti di autonomia ipotizzati dalle grandi potenze coloniali
del tempo. Come notato da Giampaolo Calchi Novati, “per i nazionalisti dei paesi afroasiatici, il
termine stesso di ‘decolonizzazione’ è inadeguato, in quanto il processo di liberazione non è solo il
distacco da un mondo considerato come un ‘prius’, ma è una restaurazione nazionale che stabilisce
per quanto possibile una continuità con la propria storia: una rivoluzione in senso proprio”. Il
fatto che il passaggio all’indipendenza avvenga in tempi più o meno rapidi comporta la mancanza di
preparazione adeguata della classe politica, l’uso dell’anticolonialismo come “collante” dell’unità
nazionale, lo scontro tra quanti avevano goduto dei privilegi dell’epoca coloniale e chi voleva
valorizzare una gestione più moderna.
La decolonizzazione investì le regioni africane in diverse fasi. Per prima decolonizzazione si
intende quella delle aree occidentali e centrali francofone dei primi anni ’60 nonché quella delle
aree anglofone; per seconda decolonizzazione si intende quella che riguarda le ex colonie
portoghesi (Guinea Bissau, Capo Verde, Mozambico e Angola). Negli anni a seguire si realizzano i
processi di distacco rimanenti (Zimbabwe, Namibia, Eritrea e da ultimo lo scorso luglio 2011 il Sud
Sudan).
15
Di seguito una tabella esemplificativa delle indipendenze degli Stati africani.
ANNO PAESE1951 Libia1956 Sudan
MaroccoTunisia
1957 Ghana1958 Guinea1960 Cameroun
TogoMaliSenegalMadagascarRepubblica Democratica del Congo (ex Zaire)Somalia Benin (Dahomey)NigerBurkina Faso (Alto Volta)Cote d’IvoireChadRepubblica CentrafricanaCongo BrazzavilleGabonNigeriaMauritania Mali
1961 Sierra LeoneTanganika
1962 Rwanda BurundiAlgeriaUganda
1963 ZanzibarKenya
1964 MalawiZambia
1965 Gambia1966 Botswana
Lesotho1968 Mauritius
SwazilandGuinea Equatoriale
1974 Guinea Bissau1975 Mozambico
Capo VerdeComoreAngolaSeychelles
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1977 Djibouti1980 Zimbabwe1990 Namibia1993 Eritrea2011 Sud Sudan
Secondo Giovanni Carbone , “nonostante le trasformazioni istituzionali e la formale acquisizione
della piena sovranità, l’indipendenza dei paesi africani fu fin da principio un processo incompleto”.
Lo storico ritiene infatti che continuò sotto varie forme l’ingerenza dei grandi attori internazionali:
in alcuni casi vi fu la piena partecipazione ad organizzazioni delle ex potenze coloniali come il
Commonwealth o la comunità della francofonia, oppure vi fu la presenza di contingenti militari; in
altri casi si registrò l’intromissione o l’influenza delle istituzioni finanziarie internazionali.
Analizziamo nel dettaglio tre casi collegati a tre potenze coloniali distinte: Kenya, Congo Belga,
Senegal. Ognuno di essi presenta delle particolarità ed è legato a uomini-simbolo della storia
africana dell’ultimo cinquantennio.
Nel Kenya la decolonizzazione assunse dei toni drammatici, poiché parallelamente al partito Kenya
African Union fondato dal leader nazionalista Yomo Kenyatta1, si sviluppò il movimento dei Mau-
Mau che voleva ottenere l’indipendenza e riprendere la terra data ai bianchi, attraverso l’utilizzo di
metodi violenti. La repressione inglese fu molto forte nel periodo 1952-1955 e comportò anche
l’arresto di Kenyatta. Nel 1960 venne creata la Kenya African National Union (KANU), formazione
che vinse le elezioni del febbraio 1961. Il Kenya ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel
dicembre del 1963.
Il Congo Belga non era stato preparato dall’amministrazione belga all’indipendenza e non era
pronto per tale cambiamento che si rivelò traumatico. Come notato da Anna Maria Gentili, “il
sistema coloniale belga , autocratico e paternalista, aveva seguito nel dopoguerra una politica di
poche e scarse riforme rivolte a forme di condivisione del potere con gli africani urbanizzati ai
livelli più bassi dell’amministrazione: solo nel 1957, in seguito ai disordini provocati dagli effetti di
una gravissima recessione a Léopoldville (Kinshasa) si cominciò a considerare l’eventualità
dell’indipendenza. (…) dal 1950 esisteva un partito, l’Association des Bakongo pour le mantien de
de l’Unité et l’expansion et la défense de la langue kikongo (ABAKO), nata come associazione
culturale della popolazione bakongo, guidata da Joseph Kasavubu. L’agitazione a favore
dell’indipendenza si sviluppò in tutte le province anche come conseguenza, nel 1958, di quanto
stava avvenendo nel vicino Congo Brazzaville che si avvicinava alla piena autonomia sia pure nel
1 Vedi nota biografica di Yomo Kenyatta
17
quadro della Comunità francese”. In tale anno Patrice Lumumba2 fondò il Mouvement National
Congolais (MNC), un movimento nazionale contro ogni forma tribale e separatista . E’ Lumumba
che grazie al contatto con altri partiti africani porta il Congo al di fuori dei suoi confini e lo collega
con “il movimento d’emancipazione che sta scuotendo tutta l’Africa”. Nel 1959 si formarono altri
gruppi politici che però rimanevano radicati al territorio come ad es. la Confederation des
associations du Katanga (CONAKAT). Durante le elezioni del 1960 il Movimento di Lumumba
ottenne il maggior numero di seggi alla Camera ed al Senato. Inseguito ad una rapida successione di
avvenimenti, il governo di Bruxelles decise di accordare l’indipendenza allo Zaire per il 30 giugno
1960: Bruxelles tentò prima di affidare l’esecutivo a Joseph Kasavubu, poi di fronte a problemi di
maggioranza, scelse Patrice Lumumba. In base a quanto definito, Kasavubu fu nominato Presidente
della Repubblica e Patrice Lumumba divenne Primo Ministro. In qualità di Premier, Lumumba
decretò l’africanizzazione dell’esercito e raddoppiò la paga dei soldati. Il Belgio rispose a tale
mossa inviando le sue truppe nel Katanga per proteggere i connazionali e supportare la secessione
di tale regione.
L’equilibrio si spezzò rapidamente: il 4 settembre 1960, il Presidente Joseph Kasavubu annunciò la
revoca del mandato a Lumumba e ai ministri nazionalisti. Il giorno dopo, Joseph Ileo venne
nominato nuovo Primo Ministro. Fu un momento molto drammatico per il Paese.
Un insieme di fattori aveva portato a tale situazione di massima tensione, tra di essi
l’ammutinamento della Forza Pubblica congolese contro le autorità belghe ma soprattutto la
secessione del Katanga, l’11 settembre 1960. La Gentili evidenzia che “le grandi imprese minerarie
ed in particolare l’Union Minère appoggiarono la secessione. Su richiesta del governo legittimo
intervennero le Nazioni Unite, che tuttavia agirono con un’ambigua neutralità che finì per tornare
a vantaggio della distruzione della legittimità costituzionale e per consegnare il paese ad un capo
militare, Mobutu, che si presentava come garante del mantenimento degli interessi occidentali” .
Lumumba, convinto di rimanere in carica grazie al sostegno del governo e del parlamento, revocò a
sua volta il presidente Kasavubu. Lumumba venne arrestato il 10 ottobre 1960 ma con l’aiuto di
alcuni colleghi formò un governo clandestino diretto da Antoine Gizenga. Tentata la fuga il 27
novembre, Lumumba venne scoperto dopo qualche giorno, arrestato nuovamente il 2 dicembre
(benché avesse chiesto protezione ai soldati ghanesi del contingente ONU), mandato a Leopoldville
e poi al campo militare Hardy de Thysville. Il giovane leader venne fucilato il 17 gennaio 1961,
durante un trasferimento nella regione del Katanga, con la complicità delle autorità locali e dei
mercenari belgi.
2 Vedi nota biografica di Patrice Lumumba
18
Il Katanga venne riconquistato con l’intervento dei Caschi blu delle Nazioni Unite alla fine del
1961, ma fu una vittoria effimera poiché riprese la guerra di secessione fino al 14 dicembre del
1963.
Tra il 1962 ed il 1964 il Congo visse una situazione di rivolta continua che si tramutò in guerra
civile. Solo con il golpe del Gen. Mobutu il 24 novembre 1965 si pose fine a tale fase di disordini.
Il Senegal ed il Sudan Francese (attuale Mali) si unirono nella federazione del Mali nel gennaio del
1959 (in una prima fase aderirono anche l’Alto Volta e il Dahomey, che si ritirarono però nel mese
di marzo). Tale federazione -presieduta da Leopold Sedar Senghor3 e da Modibo Keita4- ottenne
l’indipendenza nel 1960, ma a causa di divergenze politiche tra Senghor e Keita nonché per
l’ostilità mostrata da alcuni paesi dell’area occidentale (Costa d’Avorio in particolare), si sfaldò
nell’estate dello stesso anno.
Per quanto concerne la fase della cosiddetta “seconda decolonizzazione” essa, si riferisce in
particolare all’indipendenza delle colonie portoghesi (Guinea Bissau, Mozambico, Capo Verde ed
Angola). Tale momento storico è collegato alla fase discendente e poi alla caduta del regime
militare portoghese di Antonio Oliveira Salazar (aprile 1974).
Anche in questo caso lo sganciamento dalla madrepatria fu improvviso, non preparato
adeguatamente. Ciò da un lato comportò la fuga dei coloni portoghesi e dall’altro le scelte avventate
di alcune formazioni che arrivarono al potere e lo gestirono in modo esclusivo, senza alcuna forma
di concertazione, ispirandosi unicamente ai principi del socialismo scientifico.
Come nota Giovanni Carbone, nel caso del Frente de Libertaçao de Moçambique (FRELIMO)
mozambicano, esso “si pose in un rapporto antagonistico non solo con le opposizioni politiche
interne, totalmente bandite, ma anche o con tutti quei gruppi o quelle categorie sociali che
identificava come ‘nemici della rivoluzione’. I primi a pagare le conseguenze dell’impeto
modernizzatore del FRELIMO furono la minoranza bianca, i piccoli commercianti, i capi
tradizionali, le chiese e, in parte e benché maggioritaria, la stessa popolazione contadina. La
trasformazione profonda della società mozambicana aveva i suoi punti focali nelle
nazionalizzazioni e nella mobilitazione sociale (…) Un ruolo centrale venne assegnato ad
un’industria pubblica pesantemente sovvenzionata, mentre tutte le attività agricole dovevano
svolgere una funzione di sostegno. Terra, industrie e scuole –incluse quelle di origine missionaria –
erano state nazionalizzate subito dopo l’indipendenza (…) L’insieme di queste politiche suscitò
un’immediata reazione a livello regionale e una, più graduale ma non meno dirompente, a livello
3 Vedi nota biografica di Leopold Sedar Senghor 4 Vedi nota biografica di Modibo Keita
19
interno. La combinazione di queste reazioni avrebbe generato e sostenuto un conflitto civile più che
decennale. L’emergere della ‘minaccia comunista’ sulla porta di casa spinse i regimi razzisti della
Rhodesia del sud (oggi Zimbabwe) e, a partire dai primi anni ’80, del Sud Africa a sponsorizzare
un movimento di guerriglia in territorio mozambicano (…) Armati e finanziati oltre confine, i
ribelli della Resistençia Naçional Moçambicana (RENAMO) iniziarono ad operare in territorio
mozambicano dalla seconda metà degli anni ’70, con operazioni volte a sabotare le infrastrutture
economiche del Mozambico e a minarne la coesione sociale e stabilità politica ”
Parlando degli anni della decolonizzazione, non si può fare a meno di ricordare i grandi
“Protagonisti africani” degli anni ‘60-‘70, che ebbero una visione politica e combatterono per essa
fino a perdere in alcuni casi la propria vita.
Le aspettative dell’indipendenza vennero elaborate da alcuni giovani leader e vennero proposte
come vere e proprie strategie di sviluppo. In tal senso devono essere lette la negritudine di Léopold
Sedhar Senghor, l’umanesimo di Kenneth Kaunda 5, l’ujamaa di Julius Nyerere6, il mobutismo di
Mobutu Sese Seko7. Tali linee privilegiavano, a seconda dei casi locali, o l’iniziativa privata o la
comunità tradizionale o l’economia pianificata.
Negli anni ’60 Kaunda, Senghor e Nyerere furono i promotori di una “via africana al socialismo”;
negli anni ’70 fu invece la volta di Samora Machel8 e Agostino Neto9 che proposero di tornare al
marxismo leninismo per superare le difficoltà che si ponevano per lo sviluppo socio-economico dei
singoli Stati.
In modo antitetico a tali tesi si svilupparono negli stessi anni sistemi ad impronta capitalista in
Kenya, Nigeria, Cote d’Ivoire, Cameroon, Gabon e Malawi. In tali Paesi venne promossa la libera
iniziativa e si diede vita ad un capitalismo di Stato.
5 Vedi nota biografica di Kenneth Kaunda6 Vedi nota biografica di Julius Nyerere7 Vedi nota biografica di Mobutu Sese Seko8 Vedi nota biografica di Samora Machel9 Vedi nota biografica di Agostinho Neto
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BREVI NOTE BIOGRAFICHE
Yomo Kenyatta (1889-1978), protagonista della scena politica kenyota del XX secolo. Figlio di
un contadino di etnia kikuyu, ricevette l’educazione di base in una scuola missionaria e completò gli
studi universitari a Londra, grazie al sostegno della Kikuyu Central Association (KCA). Nel suo
percorso accademico ebbe l’opportunità di studiare a Mosca per un anno e di seguire antropologia
sociale con Bronislaw Malinowsi alla London School of Economics. Nel 1945 collaborò
all’organizzazione del V Congresso Panafricano a Manchester, assieme a Kwame Nkrumah (figura
politica di spicco del Ghana) . Tornato in Kenya, nel 1946 assunse la leadership della Kenya Africa
Union (KAU). Tra il 1948 ed il 1951 fece un viaggio all’interno del paese, illustrando la sua
posizione rispetto alla restituzione delle terre date ai coloni bianchi ed alla conquista
dell’indipendenza entro 3 anni. Nel 1951 ebbe inizio la rivolta dei Mau Mau, movimento radicale
anticoloniale. Nell’ottobre 1952 venne decretato nel paese lo stato di emergenza e Kenyatta fu
arrestato con l’accusa di essere un membro dell’organizzazione dei Mau Mau. Al termine del
processo, nell’aprile del 1953, Kenyatta fu punito con 7 anni di prigione di lavori forzati. Lo stato di
emergenza venne tolto nel 1960 e dopo le numerose petizioni popolari Kenyatta venne rilasciato
nell’agosto del 1961. Nelle elezioni del 1963, il partito del KANU (Kenya Africa National Union,
che promuoveva uno stato unitario per il Kenya) guidato da Kenyatta sconfisse il KADU (Kenya
Africa Democratic Union, che promuoveva uno Stato etnico-federale). Nel giugno del 1963,
Kenyatta divenne primo Ministro e nel dicembre dello stesso anno proclamò l’indipendenza
nazionale; nel 1964 assunse l’incarico di Presidente, incarico che mantenne fino alla sua morte
nell’agosto del 1978.
21
Patrice Lumumba (1925-1961). è considerato un simbolo della politica congolese. Dopo aver
ottenuto l’educazione primaria in una scuola cattolica di missionari e in una scuola tenuta da
protestanti svedesi perfezionò la sua formazione a livello personale. Lavorò in una società
mineraria nel Sud Kivu fino al 1945 e come giornalista a Leopoldville (ora Kinshasa) e
Stanleyville (attuale Kisangani).
Tali lavori gli permisero di comprendere l’immensa ricchezza dell’ex Zaire sotto il punto di vista
minerario, ricchezza che l’amministrazione coloniale aveva nascosto alla popolazione locale.
Nel 1955 Lumumba creò l’Association du Personnel Indigène de la Colonie (APIC) ; nel
1956 venne incarcerato per un anno. Uscito dal carcere riprese l’attività politica. Nell’ottobre
del 1958 fondò il Mouvement National Congolais (MNC, vicino alle correnti cattoliche e
social-democratiche belghe) e nel dicembre partecipò alla Conferenza Panafricana di Accra
dove conobbe Kwame Nkrumah. Note le parole pronunciate in tale occasione “Malgrado le
frontiere che ci separano, abbiamo la stessa coscienza, le stesse preoccupazioni di fare del
continente africano un continente libero , felice, sgombro dal dominio coloniale. Siamo felici
di constatare che questa Conferenza si è fissata come obiettivo: la lotta contro i fattori interni
ed esterni che costituiscono un ostacolo all’emancipazione del nostro paese e
all’unificazione dell’Africa. Tra questi fattori, si trova il colonialismo, l’imperialismo, il
tribalismo e il separatismo religioso che tutti, costituiscono un ostacolo serio al fiorire di
una società africana armoniosa e fraterna".
Nel 1959 il MNC assieme ad altre formazioni indipendentiste organizzò una riunione a Stanleyville.
Dalla sommossa che ne seguì, Lumumba fu arrestato e nel gennaio del 1960 condannato a 6 mesi di
prigione ma liberato dopo qualche giorno, grazie all’organizzazione di un incontro promosso dal
governo belga con le formazioni indipendentiste. Salito al potere, dopo l’indipendenza del Congo vi
rimase fino al settembre del 1960. I drammatici avvenimenti che seguirono tra ottobre e dicembre,
portarono al suo assassinio nel gennaio del 1961. I numerosi studi fatti in questo cinquantennio,
hanno evidenziato il ruolo belga nell’uccisione del giovane leader congolese nonché l’intenzione
della CIA di eliminare colui che avrebbe potuto portare il Congo sulla via del comunismo.
Uomo di grande carisma, definito da Jean Claude Willame il “profeta disarmato”, Lumumba fu un
nazionalista che sottolineava l’importanza dello Stato-nazione.
Leopold Sedar Senghor (1906-2001), poeta e politico senegalese, considerato l’ideologo
della “negritudine”, Presidente della Repubblica dal 1960 al 1980. Dopo aver svolto gli studi
primari e secondari in patria, ottenne una borsa di studio che gli permise di seguire il percorso
universitario in Francia. Qui si laureò nel 1935 ed iniziò a lavorare come insegnante negli istituti
22
liceali. Durante la 2° guerra mondiale combatté con l’esercito francese, venne fatto prigioniero dai
tedeschi nel giugno del 1940 a La Charité sur Loire e rilasciato nel 1942 per motivi di salute. Nel
1946 divenne deputato dell’Assemblea francese come rappresentante del Senegal, nel 1948 fondò il
Bloc Démocratique Sénégalais con cui vinse le elezioni nel 1951 come deputato d’Oltre-mare.
A fine anni ‘50-inizio anni ’60, Senghor fu un forte sostenitore del federalismo degli stati africani,
ex colonie francesi. Nel gennaio del 1960 spinse per la costituzione della Federazione del Mali, che
raggruppava Senegal, Sudan francese (odierno Mali), Dahomey (attuale Benin) ed Alto Volta
(attuale Burkina Faso). Questi ultimi due paesi si ritirarono a distanza di un mese. Senghor guidò la
federazione come Presidente dell’Assemblea Federale e Modibo Keita come Presidente del
Governo ma le divergenze su alcuni temi portarono ben presto allo scioglimento della Federazione.
Il Senegal proclamò l’indipendenza nell’agosto del 1960 ed il Sudan Francese nel settembre
successivo.
Senghor restò al massimo vertice delle istituzioni senegalesi fino al 1980, scampando anche ad un
attentato nel marzo del 1967. Durante il ventennio al potere garantì un sistema multipartitico e fu
garante della democrazia.
Ritiratosi a vita privata al termine del 5° mandato presidenziale, morì in Francia nel dicembre 2001.
Come detto inizialmente, Senghor è considerato - assieme al poeta martinicano Aimé Césaire -uno
dei massimi esponenti della “negritudine”. Tale concetto promuove la riscoperta nonché la
riappropriazione della cultura africana, rivendicando con orgoglio la propria differenza. Secondo le
parole dello stesso Senghor, “La negritudine è un fatto obiettivo:una cultura. É l’insieme dei valori
economici e politici; intellettuali e morali, artistici e sociali, non solo dei popoli d’Africa nera, ma
anche delle minorità nere d’America, vedi anche d’Asia e d’Oceania”.
Felix Houphouet Boigny (1905- 1993) non è un semplice leader carismatico: è un uomo di
grande realismo politico, senza alcuna debolezza per ideologie vaghe. La posizione della Côte
d’Ivoire – paese considerato il gioiello dell’Africa Occidentale - è legata alla sfida che Houphouet
Boigny lancia alla sinistra nazionalista agli inizi degli anni ’60. Secondo lo statista ivoriano, solo
un’economia di mercato avrebbe assicurato lo sviluppo delle economie africane; solo un rapporto di
dipendenza con la metropoli avrebbe garantito un quadro politico-economico solido e capace di
garantire sicurezza ad entità statali ancora deboli e arretrate.
Nato a Yamoussoukro nel 1905 da una famiglia di notabili tribali, Houphouet Boigny frequenta la
scuola missionaria nella città natale, poi la scuola normale di William Ponty a Goree (in Senegal,
destinata a formare le istitutori, medici e quadri dell’Africa occidentale francese). Nel 1925 ottiene
23
il diploma della scuola di medicina di Dakar ed esercita la professione di medico fino al 1940.
Come capo tribale esercita funzioni amministrative con la qualifica di chef de canton.
Nel 1944 fonda il Syndacat Agricole Africain (associazione che riunisce i piantatori africani con
almeno 2 ettari di caffè o 3 ettari di cacao), riunendo 20.000 aderenti in poco tempo.
Livello di istruzione non comune per i suoi tempi, posizione di preminenza tribale, rapporto con
l’amministrazione francese, attività di piantatore: sono elementi che segneranno l’attività di
Houphouet Boigny e che gli conferiranno una ricchezza di esperienze e di rapporti sociali
determinanti. Houphouet Boigny conosce il mondo rurale e allo stesso tempo comprende e
influenza il mondo tribale.
Nel 1945 il governo francese decide di far partecipare le sue colonie all’assemblea costituente ed
organizza l’elezione di 2 deputati in Cote d’Ivoire (uno dei coloni e l’altro dei locali). Houphouet
Boigny è eletto nel novembre 1945 ed è poi nominato membro della Commissione dei territori
d’oltre mare.
Con la costituzione della IV Repubblica è rieletto deputato, sempre membro della Commissione dei
territori d’oltre mare e membro della Commissione del regolamento e del suffragio universale.
Nel 1946 fonda il Parti Democratique de la Côte d’Ivoire- con l’aiuto dei gruppi di studio comunisti
di Abidjan, ereditando e sviluppando a livello politico i problemi affrontati dal Syndicat Agricole a
livello corporativo (le loro consapevolezze, le loro debolezze, le loro rivendicazioni). La lotta
politica ivoriana non nasce, in tal modo, grazie ad un’elite urbana ma investe interessi e gruppi
estesi a livello di base sul territorio. Dopo il Congrès de Bamako (18 ottobre 1946), il PDCI diviene
una sezione territoriale di un nuovo partito interafricano: il Rassemblement Démocratique Africain
(RDA). Houphouet Boigny giustifica l’alleanza con il partito comunista perché unico modo per far
ascoltare la propria voce.
Tra il 1947 ed il 1959 Houphouet Boigny assume diversi incarichi ufficiali nell’esecutivo francese.
Nel 1960 dopo l’accesso all’indipendenza degli stati francofoni, Houphouet Boigny diventa
Presidente della Côte d’Ivoire. Con tale ruolo, inizia a promuovere dei cambiamenti nella struttura
nazionale: trasforma il ruolo dell’Assemblea nazionale e propone una nuova carta costituzionale. Il
suo atteggiamento nei confronti degli oppositori è fermo e non esita ad escludere dalla scena
politica né i comunisti, né i franco-massoni, né i rappresentanti dell’ideologia marxista-leninista.
In particolare, Houphouët-Boigny è determinato a schiacciare il Front Populaire Ivoirien creato da
Laurent Gbagbo e Francis Wodié del Parti ivoirien des Travailleurs.
La sua politica volta al liberalismo, alla modernizzazione delle infrastrutture, alla facilitazione
degli investimenti stranieri permette una crescita sostanziosa del PIL e una prosperità economica
senza precedenti né paragoni nell’area tra gli anni ‘60 e ‘80. Si parla di “miracolo ivoriano” ma in
24
realtà è una crescita totalmente dipendente dall’esterno e non comporta un vero sviluppo locale. Le
prime manifestazioni di malcontento iniziano alla fine di anni ’80 e Houphouet Boigny non esita ad
utilizzare l’uso della forza.
Alla sua morte, nel 1993 si genera una fase di drammatica instabilità che vede protagonisti Laurent
Gbagbo, Alassane Dramane Ouattara, Henri Konan Bedié e Robert Guei.
Interessante notare la posizione di Houphouet Boigny rispetto alla politica continentale: pur non
essendo contrario in assoluto all’idea dell’unità, si è mostrato da sempre contrario alla proposta
lanciata da Kwame Nkrumah circa la creazione degli Stati Uniti d’Africa ed ha appoggiato l’idea di
una cooperazione mirata.
Per le scelte politiche nette e per l’allineamento costante rispetto alle posizioni di Parigi, Houphouet
Boigny è stato considerato nell’ultimo cinquantennio “l’uomo della Francia in Africa”.
Modibo Keita (1915- 1971), esponente politico del Mali, fu Presidente della Repubblica dal
1960 al 1968. Fu uno dei teorici del socialismo africano e uno dei promotori del panafricanismo.
Kenneth Kaunda (1924, vivente), esponente politico dello Zambia, Presidente della
Repubblica dal 1964 al 1991. Ideatore del cosiddetto “umanesimo zambiano” (teoria che combinava
il socialismo sovietico con i principi tipici della cultura africana); negli anni ’70 ha promosso una
politica di forte sviluppo scolastico nazionale; si è schierato a sostegno dei movimenti di liberazione
nazionale dell’Africa australe negli anni ’70-80; è stato un convinto sostenitore del Movimento dei
Non-Allineati.
Julius Nyerere (1922-1999), economista e politico del Tanganika e poi della Tanzania,
Presidente dal 1964 al 1985. Fondatore del Tanganyka African National Union (TANU) nel 1954, fu
sostenitore dell’indipendenza del Tanganyka e più tardi dell’unione con l’isola di Zanzibar. Fu
nominato Presidente della neonata Tanzania e promosse un progetto di sviluppo di stampo
socialista, caratterizzato da un processo di collettivizzazione del sistema agricolo nazionale, detto
“ujamaa”, cioè “famiglia estesa, comunità”. Obiettivo di tale scelta era quello di valorizzare le
risorse nazionali (sia naturali che umane). L’ujamaa si configurò come un “socialismo rurale” ed
una “strategia di sviluppo dal basso”.
Nyerere fu un sostenitore del panafricanismo e tra i fondatori dell’OUA nel maggio 1963. Assicurò
il sostegno logistico a molti partiti di liberazione nazionale, quali l’African National Congress-ANC
ed il Pan Africanist Congress (PAC) sudafricani, il Frente de Libertaçao de Moçambique-FRELIMO
25
mozambicano, lo Zimbabwe African National Liberation Army-ZANLA di Robert Mugabe. Tra le
sue attività a fine incarico, si ricorda la mediazione nel conflitto del Burundi nel 1996.
Mobutu Sese Seko (1930-1997), esponente politico della Repubblica Democratica del Congo,
Capo dello Stato dal 1965 al 1997. Personaggio controverso, instaurò un regime autoritario,
promosse una politica di ruberie e corruzione che portarono il paese al collasso economico. Alla sua
morte, la sua fortuna venne calcolata pari ad un valore compreso tra i 5 ed i 6 miliardi di US$ e
lasciò un debito pubblico equivalente a 13 miliardi di US$. Inizialmente sostenuto dagli Stati Uniti
(in chiave anti-sovietica) e dai partner occidentali (in particolare la Francia), negli ultimi anni le sue
scelte suscitarono forti critiche anche a livello internazionale.
Nel 1967 fondò il Mouvement Populaire de la Révolution che gli permise di monopolizzare il
potere. Il suo compito era quello di diffondere le idee del Presidente-fondatore, conosciute come
“mobutismo”. Tale dottrina si basava su tre punti: nazionalismo (volto all’indipendenza economica,
si sviluppò attraverso un programma di africanizzazione), rivoluzione (ripudio di capitalismo e
comunismo, “né destra né sinistra”), autenticità (ritorno alla cultura tradizionale).
Costretto ad aprire al multipartitismo nel 1990 nella speranza di mantenere saldo il controllo, fu
abbattuto dalle forze di Laurent Desire Kabila, supportate dalle truppe rwandesi e ugandesi (maggio
1997). Morì in esilio in Marocco nel 1997.
Samora Machel (1933-1986), politico mozambicano, Presidente dal giugno 1975 all’ottobre
1986. Da giovane simpatizzò con le teorie marxiste e nel 1962 entrò nel Frente de Libertaçao de
Moçambique–FRELIMO. A partire dal 1969 divenne comandante in capo dell’esercito del
FRELIMO. Salito alle massime cariche del potere nel 1975, promosse la nazionalizzazione delle
piantagioni, fece costruire scuole ed ospedali. Assicurò il suo sostegno ai movimenti rivoluzionari
in Zimbabwe e Sud Africa. Morì in circostanze sospette in un incidente aereo il 19 ottobre 1986, al
ritorno in patria da una conferenza internazionale cui aveva partecipato in Zambia. Secondo recenti
studi la sua morte sarebbe stata pianificata dai servizi segreti sudafricani e sovietici.
Agostinho Neto (1922-1979), poeta e politico angolano, Presidente dal 1975 al 1979. Eletto
Presidente del Movimento Popular de Libertaçao de Angola-MPLA nel 1962, promosse intensi
contatti all’estero con la finalità di ottenere un sostegno alla sua guerra contro la potenza coloniale
portoghese. Divenuto Presidente dell’Angola, promosse una politica di avvicinamento all’Unione
Sovietica, ai paesi del blocco orientale e a Cuba. Con il passare del tempo instaurò una dittatura sul
modello marxista-leninista, represse ogni forma di contestazione e limitò la libertà d’espressione.
26
Punì violentemente gli autori di un tentato golpe nel maggio del 1977. Morì a Mosca dove si era
recato per cure mediche.
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LEZIONE N. 3
“NEOPATRIMONIALISMO E PERSONAL RULE”
Nel momento in cui gli africani ottennero il controllo delle istituzioni, pochi di loro possedevano
risorse di particolare entità. I regimi coloniali non avevano coinvolto i locali nei processi di
accumulazione delle ricchezze, anzi li avevano esclusi relegandoli in un secondo piano rispetto agli
imprenditori francesi o inglesi. Come nota Giovanni Carbone “l’accesso diretto o indiretto alle
risorse statali e al settore pubblico divenne per molti un obiettivo prioritario e scarsamente
surrogabile (…) La mancanza di mezzi propri delle elite politiche e, più in generale, la povertà del
contesto sociale in cui esse si trovavano a operare contribuirono dunque a promuovere una risoluta
corsa all’accaparramento e una diffusa personalizzazione nell’uso delle risorse statali. Lo stato
divenne pertanto un fulcro quasi imprescindibile per le aspirazioni di migliorare il proprio status
sociale e benessere economico. Le classi politiche dominanti dei paesi africani emersero non tanto
a partire da una posizione di preminenza nella sfera delle attività economiche, ma
fondamentalmente attraverso l’esercizio del potere politico”.In tale contesto le regole normalmente
utilizzabili per il funzionamento delle istituzioni nonché delle burocrazie furono distorte da logiche
patrimoniali. Il termine “neopatrimonialismo” indica proprio una gestione arbitraria della cosa
pubblica, una combinazione di istituzioni moderne e logiche patrimoniali. Nell’ambito della politica
e dell’amministrazione prevalsero gli elementi personali e privati su quelli informali e pubblici.
Carbone nota che “se la distorsione del regolare funzionamento delle strutture statali a vantaggio
di esigenze private non è naturalmente una prerogativa esclusiva dei paesi africani, il ricorrente
riferimento all’esistenza di veri e propri regimi neopatrimoniali sottolinea il grado di penetrazione
e prevalenza che tali pratiche hanno rapidamente acquisito nella quasi totalità del continente”.
Ogni paese ha impresso un carattere proprio all’uso arbitrario e personale della cosa pubblica. Si
possono fare gli esempi di Idi Amin in Uganda, Mobutu nello Zaire, Babangida in Nigeria. In alcuni
casi, tali pratiche hanno portato proprio alla distruzione delle strutture statali. Ci sono però anche gli
esempi della Costa d’Avorio in cui Houphouet Boigny pur applicando tali pratiche ha permesso
comunque di rafforzare le istituzioni statali, o casi come quello del Botswana in cui tale metodo è
stato per lo più controllato. A parte quelle che possono essere sfumature, quella che può essere
definita una “sindrome” è comune a tutti i paesi africani. Gli studiosi hanno dato diversi nomi al
fenomeno: Richard Joseph ha parlato di “politica delle prebende”, altri parlano di
“informalizzazione della politica”, altri di “politica del ventre”.
I leader hanno un “pesonal rule”, sono al di sopra della legge, possono usufruire delle risorse
secondo loro piacimento e sono legittimati da reti clientelari e legami personali.
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Emerge il “Presidente” che supera la figura del capo del governo. Interessante la distinzione fatta
dagli studiosi Jackson e Rosberg che hanno creato proprio delle tipologie, distinguendo tra:
a) il Presidente-Principe (ad es. Leopold Sedar Senghor in Senegal o Kenneth Kaunda in
Zambia che manipolano i loro gruppi clientelari, però si pongono al di sopra delle parti)
b) il Presidente-Profeta (ad es. Kwame Nkrumah in Ghana, Julius Nyere in Tanzania che hanno
un carisma proprio che gli permette di avere un disegno preciso del paese oltre che del
continente e lo trasmettono alle comunità)
c) il Presidente-Autocrate (ad es. Houphouet Boigny in Costa d’Avorio, Omar Bongo in
Gabon, Mobutu in Zaire sono come un re assoluto, che non accetta altri poteri),
d) il Presidente-Tiranno (ad es. Idi Amin Dada in Uganda, Jean Bedel Bokassa in Repubblica
Centrafricana, in cui il capo ricorre alle violenze più efferate e promuove abusi consapevoli)
In tale quadro, si pone in modo difficile il “dopo”, il modo con cui il leader sopravvive a se stesso.
Infatti il capo ha creato incertezze e ha tolto chiarezza sulla successione. Da qui la frequenza di
epurazioni, golpe, lotte intestine tra gruppi. Un dato fornito da Carbone chiarisce il quadro: “dei
101 leader sub sahariani che tra il 1960 ed il 1999 sono stati estromessi attraverso golpe militari o
con altre modalità extralegali, circa i due terzi hanno finito per essere esiliati, imprigionati o
uccisi”.
I processi di appropriazione della cosa pubblica possono anche essere stati diversi da paese a paese,
ma in comune ci sono stati trasferimenti da conti pubblici a privati in banche svizzere,
l’assegnazione di appalti, il pagamento di tangenti. In alcuni casi si è creata una spirale, un circolo
vizioso: il leader e il suo entourage accaparravano di diritti ma tale fenomeno si riproponeva alla
base su scala ridotta. Poliziotti, infermieri chiedevano soldi in cambio di prestazioni di favore. La
corruzione è diventata prassi abituale, accettata e generalizzata ad ogni aspetto della vita. Seppur
criticata, la corruzione ha ricoperto un ruolo centrale permeando tutte le attività economiche delle
società locali. Seppure si approfondirà il tema della corruzione successivamente, in tale sede è
importante sottolineare alcuni aspetti del fenomeno, storici ed antropologici. Il noto studioso
francese Jean Pierre Olivier de Sardan ha individuato alcune “dinamiche della corruzione”,
obbligazioni sociali che creano delle relazioni e aspettative: esse riguardano il ruolo degli
intermediari o meglio di contatti utili per portare avanti una pratica amministrativa; l’uso di un
“petit cadeaux” inteso come forma di obbligo morale; il dovere di solidarietà al proprio gruppo di
appartenenza. Carbone nota che “l’individuo che si sottrae a questi “doveri”- ricevere e ascoltare
le richieste di chi arriva dal villaggio, presenziare e contribuire al ritrovo degli ex compagni di
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collegio, pagare il biglietto al segretario di una sezione rurale del partito- viene sottoposto a forti
pressioni da parte del gruppo. E nel caso perseveri nell’ignorare ciò che ci si attende da lui, la sua
reputazione può essere compromessa (...) corruzione e clientelismo finiscono in questo modo per
essere intimamente collegati. Coloro che sono nella posizione di poter estrarre o controllare
determinate risorse statali sono i primi ad avere modo di ridistribuirne una parte attraverso la
costruzione di reti clientelari ”. Si crea una piramide in cui c’è il capo, l’uomo forte al vertice più
alto e poi si sviluppano in modo informale delle alleanze. Il cliente assicura sostegno per avere un
bene futuro o per beneficiare di eventi che ruotano intorno al vertice della struttura. Carbone è
molto attento nel segnalare che “la capacità effettiva delle reti clientelari, come meccanismi
redistributivi che trasferiscono gradualmente risorse dalle elite ai clienti appartenenti ai livelli più
bassi , resta una questione controversa”. Alcuni studiosi (come Chabal e Daloz) sono del parere
che “le pressioni sociali tendono a imporre una significativa redistribuzione delle risorse di cui i
leader tengono il controllo”, mentre altri (come Van De Walle) sostengono che “il coinvolgimento
dei gradini inferiori della scala sociale nelle clientele è per lo più simbolico, poiché di fatto a esse
non viene elargito nulla”.
Gli effetti sulle ricchezze pubbliche dei sistemi neopatrimoniali e clientelari sono devastanti: si
creano nuove burocrazie, aziende parastatali, la maggior parte degli impieghi formali sono nel
settore pubblico. Inoltre le ricchezze (minerarie, ad esempio) vengono nazionalizzate, messe a
“gestione africana” (vd caso Zaire, Nigeria). Altro aspetto della “predazione” delle economie è
quello dei trasferimenti di risorse dai settori rurali a quelli industriali (vd Ghana).
Gli apparati statali crescono a dismisura ed il risultato è che l’indebitamento pubblico raggiunge
livelli impensati, mettendo a rischio i sistemi economici e rendendoli più esposti verso
l’indebitamento estero.
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LEZIONE N. 4“INSTABILITÀ POLITICA E REGIMI AUTORITARI”
Nell’Africa degli anni ’70 chi resta fuori dal potere non gode minimamente del servizio pubblico.
Tutte le risorse vengono parcellizzate per ricompensare le reti del leader. I gruppi si contrappongono
in un gioco a somma zero: chi vince prende tutto ed esclude il perdente.
Carbone nota che in tale fase storica “la politicizzazione delle diversità etniche e la polarizzazione
dello scontro politico si combinarono nei paesi africani con l’assenza di precedenti esperienze
democratiche, la debolezza della società civile, l’elevata e diffusa povertà, la sproporzione tra le
aspettative di intervento statale e le effettive capacità di risposta delle nuove istituzioni. Il risultato
fu, per la quasi totalità dei paesi africani, il rapido abbandono dei regimi formalmente democratici
che erano stati frettolosamente istituiti dalle potenze coloniali al momento delle indipendenze. La
preservazione delle istituzioni multipartitiche fu l’eccezione anziché la regola (…) Con poche
eccezioni, i regimi multipartitici vennero sistematicamente eliminati e sostituiti con regimi a partito
unico o con regimi militari”.
Prima di tutto si assiste alla destrutturazione delle istituzioni partecipative ed alla centralizzazione
del potere nelle mani di poche persone. Chi dissente, o è costretto all’esilio o è ucciso. Si realizza il
“sistema a partito unico”, in cui il partito risente per lo più dell’influsso della dottrina socialista.
Di fatto però non si eliminano le difficoltà vissute sul terreno e quindi il risultato fino a metà degli
anni ’90 è quello di periodi di grande instabilità.
L’instabilità si caratterizza o attraverso le guerre civili (basti pensare al Katanga in Congo o al
tentativo di secessione del Biafra in Nigeria) o attraverso i colpi di stato militari (vd Nigeria) .
Il golpe militare comporta una manovra breve, fatta da un corpo speciale, che va a sostituire il
gruppo al potere. Le forze armate divengono protagoniste della storia africana: i militari che
sembravano esclusi al momento delle indipendenze a distanza di pochi anni diventano “arbitri” tra
le parti in conflitto.
Anna Maria Gentili nota che in Dahomey l’esercito intervenne in tale ruolo tra il 1963 ed il 1965; in
Congo Brazzaville nel 1963 (per favorire un nuovo regime civile), in Alto Volta nel 1966 (per
prendere il potere direttamente). “Se all’inizio degli anni ’60 l’intervento militare in politica si
caratterizza ancora come intervento equilibratore, reggenza temporanea, alla metà degli anni ’60 i
colpi di Stato militari prendono connotati decisamente politici. Proprio dal 1966 gli interventi
militari in politica dilagano come l’epidemia di una malattia infettiva”. Solo 12 Stati africani (su
54) non hanno mai avuto l’interruzione del potere civile per intervento dei militari.
Carbone segnala 47 casi di golpe ed un numero ingente di atti destabilizzanti sventati dai governi in
carica tra il 1958 e la fine degli anni ’70; 17 golpe avvengono tra il 1966 ed il 1970. La regione
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occidentale risente particolarmente di tale fenomeno. Lentamente, solo negli anni ’90 riprende
un’alternanza al potere regolata dal voto (anche se non sempre “free and fair”).
E’ importante notare che -dopo la fase del golpe- per lo più i regimi militari sono stati propensi ad
operare come i regimi civili che li avevano preceduti. La maggior parte ha adottato
un’organizzazione di partito unico in cui è emerso un “singolo protagonista”. Inoltre hanno
adottato l’uso del clientelismo come meccanismo per raccogliere il supporto politico e l’uso della
coercizione per controllare o eliminare l’opposizione. Grande è stato poi l’impegno per migliorare il
proprio status economico. Il Generale Sani Abacha al potere in Nigeria dal 1993 al 1998 si è
appropriato di una cifra pari a 6 miliardi di US$ .
E’ paradossale il fatto che in Africa sub sahariana si siano sviluppate due tendenze antitetiche: da
un lato –come si può vedere nella tabella in basso- il potere è stato longevo ed è tramandato in
alcuni casi di padre in figlio (vd famiglia Bongo in Gabon, Eyadema in Togo), dall’altro c’è stato un
frequente cambiamento di governanti attraverso dei golpe militari.
Longevità dei leader africani al potere
Paese Presidente Partito di appartenenzaCamerun Ahmadou Ahidjo
Presidente del Cameroun dal 1960 al 1982
Primo Ministro dal 1958 al 1959
Union Nationale Camerounaise
(UNC)
Costa d’Avorio Houphouët-Boigny
Presidente dal 1960 al 1993
Syndicat agricole africain (SAA)
Rassemblement démocratique
africain (RDA)
Parti démocratique de Côte d’Ivoire
(PDCI)Gabon Omar Bongo
Presidente dal 1967 al 2009
Vice Presidente dal 1966 al 1967
Parti Démocratique Gabonaise
(PDG)
Gambia Dawda Jawara
Primo Ministro dal 1962 al 1970
Presidente dal 1970 al 1994
People Progressive Party (PPP)
Guinea Ahmed Sékou Touré
Presidente dal 1958 al 1984
Rassemblement Démocratique
Africain (RDA)
Lesotho Leabua Jonathan
Primo Ministro dal 1965 al 1986
Basotho National Party (BNP)
Malawi Hastings Kamuzu Banda
Presidente dal 1966 al l994
Primo Ministro dal 1964 al 1966
Malwi Congress Party (MCP)
Mali Moussa Traoré Union Déocratique du Peuple
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Presidente dal 1968 al 1991 Malien (UDPM)Senegal Leopold Sédar Senghor
Presidente dal 1960 al 1980
Section Francaise de
l’Internationale Ouvrièr (SFIO)
Bloc démocratique Sénégalais
(BDS)
Bloc Populaire Sénégalais (BPS)
Union progressiste sénégalaise
(UPS)
Parti Socialiste (PS)
Somalia Siyad Barre
Presidente dal 1969 al 1991
Somali Revolutionary Socialist
Party (SRSP)
Tanzania Julius Nyerere
Presidente della Tanzania dal 1964 al 1985
Presidente del Tanganyka dal 1962 al 1964
Primo Ministro del Tanganyka dal 1961 al
1962
Chama cha Mapinduzi
Tanganyka African national Union
(TANU)
Togo Gnassingbé Eyadéma
Presidente dal 1967 al 2005
Rassemblement du Peuple Togolais
(RPT)
Zaire Mobutu Sese Seko
Presidente dal 1965 al 1997
Mouvement Populaire de la
Révolution (MPR)
Zambia Kenneth Kaunda
Presidente dal 1964 al 1991
United National Independence Party
(UNIP)
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LEZIONE N. 5-6“CRISI, CONFLITTO E CROLLO DELLO STATO”
Gli anni ’90 fanno registrare una diffusione dei conflitti in Africa, nonostante il fatto che le due
superpotenze USA-URSS non utilizzino più il continente in modo indiretto attraverso delle “guerre
per procura”, che siano venute a termine le guerre di liberazione nazionale nella regione australe e
che il Sudafrica gestisca pacificamente i primi anni della fine dell’apartheid.
Giovanni Carbone nota che “l’allargamento del conflitto è avvenuto prevalentemente lungo due
direttrici: quella del contagio tra i piccoli paesi della costa dell’Africa occidentale e quella che ha
attraversato il cuore stesso del continente -il Congo Kinshasa (ex Zaire) – partendo dall’Angola
per arrivare al Sudan, due paesi già alle prese con conflitti pluridecennali”.
Ma quale tipo di conflitto si intende? Il riferimento è alla guerra civile, vale a dire “un conflitto
armato che vede da una parte le autorità di uno stato formalmente sovrano e dall’altra attori non
statuali (per lo più movimenti ribelli o partiti politici, ma anche formazioni emerse dall’esercito)
che a esse si oppongono, facendo un uso organizzato della violenza, con l’obiettivo di modificare
qualche aspetto dello status quo sociale, politico o economico, inclusa una possibile alterazione dei
conflitti territoriali”
Gli Stati a cui fa riferimento lo studioso italiano sono Liberia, Sierra Leone, Repubblica
Democratica del Congo, Sudan ed Angola.
In tale sede si esamineranno i conflitti di Liberia (1989-1996) e Sierra Leone (1991-2002) perché
collegati strettamente e le due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003, quest’ultima conosciuta
come la “guerra mondiale africana”, per l’intervento di più soggetti nelle operazioni belliche).
a) Liberia – Guerra civile (1989-1996)
In Liberia, la guerra civile (1989-1996) iniziò con l’insurrezione del National Patriotic Front of
Liberia (NPFL) di Charles Taylor contro il malgoverno del Presidente Samuel Doe, poi degenerò e
si trasformò in una guerra tra potenti leader ribelli. Nell’ultima fase i combattimenti non solo
mirarono ad avere un ricambio di potere ma furono orientati al controllo delle risorse locali. Il
conflitto fu sanguinoso e violento, caratterizzato da arresti arbitrari, torture e violenze inaudite.
Alcuni studiosi vi distinguono 4 fasi : Dicembre 1989-Dicembre 1990; Ottobre 1992-Luglio 1993;
Settembre 1994-Agosto 1995; Aprile-Giugno 1996.
La prima fase (Dicembre 1989-Dicembre 1990) è quella dell’offensiva portata dagli uomini del
NPFL -attraverso le linee di confine della Costa d’Avorio- nella Contea di Nimba e dell’intervento
delle Forze Armate Liberiane nello scontro. Le operazioni belliche provocarono oltre 160.000
rifugiati in Guinea e Costa d’Avorio, nonché 135.000 sfollati all’interno della Liberia stessa. In tale
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periodo ci fu una frattura all’interno del NPFL e la creazione dell’Independent National Patriotic
Front (INPFL) promosso da Prince Johnson (leader ribelle, un tempo alleato di Taylor). Nell’agosto
1990 le forze dell’ECOWAS Cease Fire Monitoring Group (ECOMOG) arrivarono a Monrovia e ne
presero il controllo, separarono le fazioni e fecero firmare un cessate il fuoco a Bamako (novembre
1990) che , pur tra mille difficoltà, venne mantenuto per due anni. La neutralità di ECOMOG fu da
subito compromessa: grazie al suo aiuto, l’INPFL catturò ed uccise il Presidente Samuel Doe (il
Sergente Maggiore che aveva preso il potere con un golpe contro l’ex Presidente Tolbert nel 1980 e
per 9 anni aveva governato il Paese in modo autoritario nonché brutale, assieme ad una ristretta
cerchia di uomini a lui fedeli).
ECOMOG creò una zona neutrale e contribuì ad un instaurare un Governo di Transizione che
escludeva i capi delle formazioni ribelli o i loro rappresentanti ed era totalmente dipendente dal
Gruppo di Monitoraggio ECOWAS per la sua sopravvivenza. Il NPLF di Charles Taylor si rifiutò di
riconoscere tale esecutivo e stabilì il suo quartier generale a Gbarnga (capitale della Contea di
Bong).
La seconda tappa (Ottobre 1992-Luglio 1993) comprende il lancio inaspettato di un’azione contro
Monrovia da parte del NPLF (chiamata “Operation Octopus”), la fuga di 200.000 persone dalla
capitale, il collasso della fazione dell’INPFL guidata da Prince Johnson, il nuovo intervento di
ECOMOG, il consolidamento delle posizioni dello United Liberation Movement of Liberia for
Democracy (ULIMO, formazione creata da rifugiati liberiani Mandingo in Sierra Leone nel 1991).
Nel 1993 l’ECOWAS richiese un supporto più sostanzioso alle Nazioni Unite, visto il proliferare di
formazioni ribelli e la difficoltà nel gestire un controllo efficace su di esse.
Il terzo momento (Settembre 1994-Agosto 1995) si riferisce all’inizio dell’offensiva di alcune
formazioni (Liberian Peace Council-LPC, Lola Defence Force-LDF, un sottogruppo dell’ULIMO e
le stesse Forze Armate Liberiane) contro Gbaranga, la roccaforte del NPLF.
Sul fronte diplomatico l’ECOWAS, presieduto in quell’anno da Gerry Rawlings (Presidente del
Ghana) dimostrò un certo pragmatismo, abbandonò l’idea di un governo civile di transizione,
favorendo il coinvolgimento di Taylor e dei leader delle fazioni principali nel Consiglio di Stato.
Nel settembre del 1994 gli Accordi di Akosombo scoraggiarono la formazione di nuovi gruppi sul
terreno; nell’agosto dell’anno successivo gli Accordi di Abuja promossero un nuovo Governo di
Transizione cui prese parte anche Charles Taylor.
Nel novembre 1995 venne firmato un ennesimo accordo di cessate il fuoco ma la situazione rimase
tesa e di fatto il processo di pace tardò a portare risultati concreti.
L’ultima fase del conflitto (Aprile- Giugno 1996) concerne l’assalto da parte degli uomini di Taylor
e di Kromah (leader di una fazione dell’ULIMO, l’ULIMO-K) contro Monrovia. Nel maggio 1996
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le parti firmarono un nuovo cessate-il-fuoco e ECOMOG spiegò i suoi uomini nella capitale,
riprendendo dopo qualche mese il controllo di alcune aree di periferia della capitale. Nell’agosto
venne firmato il secondo Accordo di Abuja e ECOWAS minacciò di portare davanti ad un Tribunale
di Guerra quanti lo avessero violato, imponendo sanzioni mirate.
Il lavoro di disarmo e smobilitazione si rivelò molto ostico. Le elezioni si tennero nel luglio 1997:
Charles Taylor si assicurò la vittoria con il 75% delle preferenze e divenne ufficialmente il Capo
dello Stato il 2 agosto 1997.
La guerra civile liberiana, che ha comportato la morte di oltre 300.000 persone nonché il problema
gravoso di oltre 1 milione di rifugiati nelle aree limitrofe, è stata una delle più cruenti dell’area
occidentale africana. Inizialmente le truppe di Charles Taylor furono percepite con favore dalla
comunità locale, vessata dal regime imposto per 9 anni da Samuel Doe. Ben presto però la
popolazione si rese conto dei metodi altrettanto crudeli e dei loschi commerci ( vendita di armi in
cambio di pietre preziose, in particolare dei cosiddetti “diamanti insanguinati della Sierra Leone”)
promossi da Taylor e dai suoi seguaci.
b) Sierra Leone – Guerra civile (1991-2002)
c) Le due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003)
IN VIA DI DEFINIZIONE
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Secondo Modulo
DALL’ORGANIZZAZIONE PER L’UNITÀ AFRICANA (OUA)
ALL’UNIONE AFRICANA (UA)
� L’OUA negli anni ’60-‘70
� L’OUA negli anni ’80-‘90
� 1999-2002 nasce l’Unione Africana: caratteri distintivi
� NEPAD
� African Standby Force
Testi Consigliati per la seguente parte:“L’Africa sud-sahariana nella politica internazionale”, di Arrigo Pallotti e Mario Zamponi, Ed Le Monnier (2010) - capitolo II, V, XIV, XV, XVIII
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LEZIONE N. 7-8“L’OUA NEGLI ANNI ’60-‘70”
L’OUA negli anni ‘60 (PPT 7)
L’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) nacque con la firma da parte di 32 Stati africani della
Carta di Addis Abeba il 25 maggio 1963, con gli obiettivi di:
- promuovere l’unità e la solidarietà degli Stati Africani
- coordinare ed intensificare la cooperazione tra gli Stati e gli sforzi per ottenere una vita migliore
per i popoli africani
- difendere la loro sovranità, la loro integrità territoriale e indipendenza
- sradicare tutte le forme di colonialismo dall’Africa
- promuovere la cooperazione internazionale, avendo il dovuto riguardo per la Carta delle
Nazioni Unite e la Dichiarazione dei Diritti Umani.
La sua creazione fu accompagnata da grande ottimismo e speranza, sostituite però ben presto dalla
disillusione in seguito al confronto con le prime crisi continentali.
Nonostante le numerose debolezze, l’organizzazione panafricana ha avuto un ruolo significativo -
quantomeno come forum di dibattito e come arena di confronto– per un quarantennio.
Sin dalle prime fasi del vertice di Addis Abeba fu chiara la contrapposizione tra chi voleva
un’organizzazione continentale forte dotata di ampi poteri e chi era restio a cedere la sovranità
nazionale: nella fase dei lavori si cercò un compromesso politico che soddisfacesse entrambe le
parti.
Due sono stati i principi più discussi dell’organizzazione: quello di non interferenza10 e quello
dell’intangibilità delle frontiere11 .
Secondo la carta costitutiva, l’OUA si basava su una struttura precisa composta da:
- l’Assemblea di Capi di Stato e di Governo (supremo organo dell’Organizzazione)
- il Consiglio dei Ministri (composto dai Ministri degli Esteri o da quelli designati dai singoli
governi, con il compito di preparare i lavori dell’Assemblea)
- il Segretariato Generale (composto da un Segretario Generale nominato dall’Assemblea e dal
suo staff)
- la Commissione di Mediazione, Conciliazione ed Arbitrato (con il compito di promuovere la
risoluzione pacifica delle controversie tra i membri; mai funzionante nella pratica perché non
consultata in alcuna occasione da uno Stato africano).
10 Il principio di non interferenza ha permesso ai membri dell’OUA di non schierarsi apertamente contro dittatori sanguinari e di non scendere in guerra per mettere fine a violenze efferate11 Il principio di intangibilità delle frontiere ha comportato l’accettazione delle linee di confine esistenti al momento dell’indipendenza, nonostante ci fosse una corrente revisionista favorevole alla rettifica delle frontiere; principio giustificabile con l’intenzione dei padri fondatori di dare stabilità ed assicurare la pace nel continente.
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Come notato da Norman Padelford, “le istituzioni dell’OUA erano concepite per promuovere la
cooperazione, non per imporla, e per spronare alla collaborazione, non per punire chi vi si
opponeva”.
Le prime sfide negli anni ’60 contro cui si confrontò l’Organizzazione e che evidenziarono tutte le
sue debolezze, furono:
a) la crisi del Congo (1963-1964)
b) la secessione del Biafra (maggio 1967- gennaio 1970)
c) la Unilateral Declaration of Independence della Rhodesia (novembre 1965)
a) La crisi del Congo (1963-1964)
Il Congo aveva ottenuto l’indipendenza dal Belgio nel 1960 ma i primi eventi avevano dimostrato le
difficoltà nel percorrere un percorso di normalizzazione nazionale (vd. uccisione del Primo Ministro
Lumumba e sponsorizzazione belga della secessione della provincia mineraria del Katanga)
Dal 1963 il Congo si confrontò con una nuova crisi. Le forze leali al defunto Premier Lumumba si
riunirono nella formazione del Conseil National de Liberation (CNL) e lanciarono un attacco al
governo del Primo Ministro Cyrille Aduola. Quest’ultimo si dimise a causa dell’incapacità del suo
governo a gestire la situazione e Moise Tshombe fu nominato Primo Ministro nel luglio 1964. Per
reprimere le crisi, Tshombe si affrettò a chiamare mercenari della Rhodesia e del Sud Africa,
nonché a richiedere l’aiuto militare a USA e Belgio.
Tale nomina provocò uno shock all’interno dell’OUA non solo perché Tshombe era ritenuto
colpevole o comunque coinvolto nell’assassinio di Lumumba ma anche perché aveva provocato
una escalation della crisi, coinvolgendo anche truppe mercenarie straniere. Seguì una guerra civile,
in cui il CNL fu sostenuto da URSS e Cina mentre il governo congolese fu supportato dagli stati
Uniti. L’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo del 1964 nominò una commissione guidata dal
Presidente kenyota Yomo Kenyatta per riconciliare le due parti, ma tale iniziativa non ebbe esito
positivo. Ugualmente l’OUA tentò con poca fortuna di ottenere il ritiro dei mercenari, formare un
nuovo governo provvisorio e di organizzare le elezioni.
L’OUA mostrò la sua impotenza e palesò le sue divisioni rispetto al giudizio su Tshombe e rispetto
al possibile invio di una forza militare africana nel paese.
b) la secessione del Biafra (maggio 1967- gennaio 1970)
Nel gennaio del 1966 alcuni ufficiali Igbo organizzarono un golpe, venne ucciso il Primo Ministro
Tafawa Balewa e salì al potere il Generale Aguiyi-Ironsi (leader degli Igbo che avevano organizzato
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il colpo di stato). Nel Luglio dello stesso anno una nuova operazione di ufficiali del Nord comportò
l’eliminazione di Aguiyi e l’ascesa del Generale Gowon. Il governatore militare dell’Eastern
Nigeria, il ten. Col. Odumegwu Ojuku dichiarò l’indipendenza della regione e la creazione dello
Stato del Biafra (maggio 1967). Nella sanguinosa guerra che seguì tra il governo federale e il
Biafra morirono circa 1 milione di persone. Tale conflitto rappresentò una questione delicata per
l’OUA perché contrapponeva il principio dell’inviolabilità dei confini e il diritto
all’autodeterminazione dei popoli. L’OUA si dimostrò molto cauta perchè voleva evitare nuove
secessioni e cercò di convincere gli stati membri a supportare il governo centrale nigeriano e isolare
gli unici 4 stati che avevano manifestato il sostegno al soggetto secessionista. Durante l’incontro di
Kinshasa del settembre del 1967, l’Assemblea dei Capi di Stato decise di inviare in Nigeria una
missione consultiva, guidata dall’Imperatore Haile Selassie. La delegazione che si recò in Nigeria
nel novembre 1967 fu accolta in modo brusco da Gen. Gowon, che escluse ogni compito di
mediazione. La linea scelta dall’ OUA, ribadendo l’essenzialità del mantenimento dell’unità del
paese, suscitò critiche da parte del governo del Biafra. La mediazione venne tentata nei primi mesi
del 1968 dal Commonwealth ma si concluse ancora una volta con un fallimento. Tra aprile e
maggio 1968, il Biafra venne riconosciuto da Gabon, Costa d’Avorio, Tanzania, Zambia
adducendo delle motivazioni umanitarie. In realtà c’era l’interesse recondito della Francia che
influiva su due grandi partner africani per spaccare ed indebolire la forza del gigante nigeriano. Nel
settembre 1968 l’Assemblea dell’OUA di Algeri sancì l’appoggio al Gen Gowon e condannò la
scelta secessionista.
Nel gennaio 1970 il Biafra si arrese.
Con l’invio della missione consultiva, l’esperienza del Biafra dimostrò che l’OUA interferiva negli
affari interni di un suo paese membro. Cosa ancor più grave fu che l’OUA si era dimostrata palese
sostenitrice del governo federale e così facendo aveva rinunciato alla sua imparzialità.
c) la Unilateral Declaration of Independence della Rhodesia (novembre 1965)
La crisi della Rhodesia non scoppiò improvvisamente nell’autunno del 1965, c’erano stati dei
sintomi evidenti di malcontento negli anni precedenti. La richiesta di indipendenza dei coloni era
iniziata nel momento della dissoluzione della Federazione della Rhodesia e del Nyasaland (marzo
1963) ed era basata sulla costituzione del 1961 che garantiva ai bianchi l’auto-governo di fatto.
Concretamente, tale richiesta si scontrava contro le intenzioni del premier britannico, Harold
Wilson, che non voleva concedere l’indipendenza alle colonie in cui c’era una minoranza bianca al
potere, a meno non ci fosse una “majority rule”. Il partito del Rhodesian Front di Ian Smith si
oppose a tale linea con la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza, ricordando il contributo dato
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nei conflitti mondiali. La Comunità internazionale criticò tale atteggiamento e le Nazioni Unite
autorizzarono le sanzioni.
L’OUA mostrò tuta la sua costernazione e organizzò un Meeting straordinario del Consiglio dei
Ministri per discutere la faccenda. In tale occasione, il Consiglio “minacciò di interrompere tutte le
relazioni con il Regno Unito se esso non avesse represso la ribellione e restaurato la legge e
l’ordine entro il 15 dicembre 1965”. Né il Regno Unito né la Rhodesia rispettarono tale ultimatum e
i membri dell’OUA si divisero su cosa fare. Solo 9 stati implementarono la risoluzione del
Consiglio (tra cui Ghana, Tanzania, Algeria, Mali e Guinea Conakry). In tale frangente, Nyerere e
Nkrumah , che avevano visioni diverse rispetto all’OUA, fecero fronte comune contro Londra ma
tale riavvicinamento fu di breve durata dal momento che Nkrumah venne eliminato dal potere con
un golpe il 24 febbraio 1966 e a distanza di pochi giorni il paese riprese i rapporti diplomatici con il
partner europeo.
Il tema dell’UDI di Ian Smith fu al centro dei lavori anche nell’incontro OUA di Addis Abeba nel
1966 , ma ancora una volta la richiesta di Nyerere ai suoi colleghi per condannare la posizione di
Londra non ottenne il risultato auspicato.
In tale questione sono da puntualizzare alcuni elementi. Prima di tutto la posizione dell’OUA
rispetto all’UDI ha contribuito all’isolamento del regime di Ian Smith ma non è stata risolutivo, in
secondo luogo è stata palese l’indecisione dei paesi membri dell’Organizzazione se rompere o meno
i rapporti con Londra e ciò ha palesato le sue debolezze. Discutibile appare anche la validità legale
del Consiglio dei Ministri in quanto il Consiglio non aveva il potere di vietare o meno un
comportamento degli Stati membri.
L’OUA negli anni ’70 (PPT 8)
Superate le crisi degli anni ’60, l’OUA incontra nuove sfide sul suo cammino nel decennio
successivo. E’ in questo periodo che nasce la questione del Sahara Occidentale (che porterà al ritiro
del Marocco dall’OUA nel 1984), nonchè il contrasto tra Tanzania e Uganda, ma soprattutto è in
questa fase che l’Organizzazione fornisce il suo sostegno alle lotte di liberazione nazionale (in
particolare nella regione australe).
Per quanto attiene i rapporti tra Tanzania e Uganda, il golpe di Idi Amin nel gennaio del 1971
contro il Presidente Milton Obote non venne ben accolto dal Presidente tanzano Nyerere. le
relazioni non migliorarono quando nel 1972 un gruppo di ugandesi (che aveva ottenuto asilo in
Tanzania) tentò di invadere il paese natale. Per rappresaglia, l’aviazione del governo di Kampala
bombardò due cittadine del paese confinante e solo un intervento di mediazione di Siad Barre
permise la firma di un accordo di pace tra le due parti nell’ottobre del 1972.
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A distanza di 6 anni si ricrearono nuove condizioni conflittuali, quando Idi Amin ordinò l’invasione
della striscia del Kagera Salient . Dapprima la Tanzania difese l’area poi contrattaccò sul territorio
nemico. Preoccupata dall’allargamento del conflitto (la Libia era intervenuta a fianco dell’Uganda),
l’OUA tentò invano una mediazione prima tramite i buoni uffici del Presidente sudanese Nimeiri,
poi attraverso una commissione specifica. Nyerere chiese un’aperta condanna da parte dell’OUA
dell’invasione sul Kagera Salient, condanna che però non arrivò. La guerra continuò fino al 10
aprile del 1979 quando Kampala fu conquistata e Idi Amin fu costretto all’esilio.
Quanto accaduto aveva dimostrato ancora una volta l’impotenza dell’Organizzazione nel
mediare tra le parti o comunque nell’esprimere una ferma condanna rispetto all’invasione di
un paese membro.
Per quanto concerne il sostegno alle guerre di liberazione nazionale, nell’aprile del 1969 si era
svolta un Conferenza in Zambia in cui i partner dell’area orientale e centrale avevano adottato il
cosiddetto “Manifesto di Lusaka”. In tale documento i leader optavano per una transizione pacifica
e, solo qualora non fosse riuscita, l’appoggio alla lotta armata. Il documento venne ampliamente
dibattuto nell’Assemblea dei Capi di Stato del 1969 e del 1970.
In tale frangente c’era grande incertezza rispetto al comportamento da tenere con il Sud Africa. I
presidenti Houphouet Boigny (della Costa d’Avorio) e Banda (del Malawi) proposero un dialogo
con Pretoria ma a tale ipotesi si oppose fermamente la Tanzania. All’interno dell’OUA prevalse
quest’ultima linea e si escluse la possibilità “di una base per un dialogo significativo con il regime
razzista del Sud Africa”.
Nel 1974, di fronte al tentativo del Presidente sudafricano Vorster di coinvolgere Zambia , Tanzania,
Mozambico e Botswana per una soluzione negoziale per l’indipendenza della Rhodesia, l’OUA
dimostrò la sua volontà di mediazione tra Ian Smith ed i partiti nazionalisti locali. Solo nel caso in
cui fosse fallito il dialogo, sarebbe stata ripresa la lotta armata dalle formazioni locali ed il pieno
sostegno ad essa da parte dell’Organizzazione.
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LEZIONE N. 9-10“L’OUA NEGLI ANNI ’80-‘90”
IN VIA DI DEFINIZIONE
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LEZIONE N.11-12“1999-2002 NASCE L’UNIONE AFRICANA: CARATTERI DISTINTIVI”
L’Unione Africana (UA) è l’organizzazione panafricana, nata sulle ceneri dell’Organizzazione per
l’Unità Africana (OUA, la struttura fortemente voluta dall’Imperatore etiopico Hailé Selassié ed
inaugurata ad Addis Abeba il 25 maggio 1963).
Spesso sottovalutato dagli osservatori esterni, il movimento panafricano ha avuto una
rivitalizzazione alla fine degli anni ’90 grazie all’impegno del Colonnello Gheddafi e del Presidente
Bouteflika. Diversi i motivi a sostegno di tale interesse: il leader libico sentiva l’esigenza di
“sdoganare” la Giamahirya araba libica e riproporla nei fora internazionali, mentre il leader algerino
aveva urgenza di attirare investimenti stranieri per rilanciare l’economia nazionale.
Diverse sono state le tappe che hanno sancito la nuova struttura, destinata a correggere le
imperfezioni della precedente OUA. In occasione del 1mo vertice straordinario di Sirte (settembre
1999) fu proposto dalla Libia di lanciare gli “Stati Uniti d’Africa”; al 36mo Summit di Lomè (Togo,
luglio 2000) una parte di Stati membri si astenne dalla firma perché convinta della necessità di una
fase di passaggio graduale verso una struttura federale e perché timorosa che una tale iniziativa
potesse indebolire la propria sovranità nazionale o la capacità di agire indipendentemente; al 2°
vertice di Sirte (marzo 2001) venne adottato il trattato di creazione dell’Unione Africana; solo in
occasione del vertice di Lusaka (Zambia, luglio 2001) venne dato il via definitivo al progetto su
modello europeo.
Il lungo iter per arrivare all’UA ed i problemi sottesi nel processo, si possono comprendere
soffermandosi sull’iniziale denominazione –“Stati Uniti d’Africa”- che avrebbe espresso la volontà
di pervenire in breve tempo all’ambizioso progetto di un “solo Governo guida”. Tale idea era
contrastata dai governi moderati (guidati da Sud Africa e Nigeria), che ne riscontravano
l’irrealizzabilità immediata sia per problemi interni al continente sia per dinamiche specifiche degli
stati membri. Solo un approccio più modesto e concreto durante il 2° vertice di Sirte (partendo dalla
riorganizzazione funzionale dell’apparato dell’OUA) permise nel 2001 una convergenza di intenti.
Il varo ufficiale della nuova organizzazione panafricana venne sancito a Durban (Sud Africa) nel
luglio 2002.
L’UA è l’organizzazione per la promozione dell’integrazione socio-economica del continente. Essa
si basa su una visione comune di un’Africa unita e forte, sulla necessità di costruire una partnership
tra i governi e tutti i segmenti della società civile, per rafforzare la solidarietà e la coesione tra i
popoli africani. In tale ottica, la promozione della pace, della sicurezza e della stabilità del
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continente sono considerati come prerequisiti per l’implementazione dell’agenda dell’Unione, ai
fini dello sviluppo e dell’integrazione locale
La struttura dell’Unione è articolata e complessa. Come risulta dalla sua Carta fondamentale e/o da
integrazioni successive, l’UA è formata da:
-l’Assemblea, composta dai Capi di Stato e di Governo e considerata organo supremo dell’Unione.
Tra i suoi compiti si distinguono: la determinazione delle politiche comuni dell’Unione, lo
stabilimento delle priorità e l’adozione del programma annuale; il monitoraggio
dell’implementazione delle politiche e delle decisioni dell’Unione; l’accelerazione dell’integrazione
politica e socio-economica del continente; la decisione di intervento in uno stato membro su
richiesta del medesimo per restaurare la pace e la sicurezza; la nomina del Presidente della
Commissione, il suo/la sua/i suoi vice Presidenti, i Commissari nonché la determinazione delle loro
funzioni ed i termini dell’incarico;
- il Consiglio Esecutivo, composto dai Ministri o da autorità designate dai governi degli stati
membri. Esso coordina e prende decisioni sulle politiche nelle aree di interesse comune degli stati
membri; è responsabile nei confronti dell’Assemblea. Tra i suoi compiti si segnalano: la
preparazione delle sessioni dell’Assemblea; il coordinamento e l’armonizzazione delle politiche,
delle attività e delle iniziative dell’Unione; la promozione della cooperazione e del coordinamento
con le Comunità Economiche Regionali, la Banca Africana di Sviluppo ed altre istituzioni africane;
- il Parlamento Panafricano, è stato inaugurato nel marzo 2004 a Midrand (Johannesburg, Sud
Africa). Ogni Stato membro dell’UA ha 5 deputati eletti o nominati dai propri Parlamenti nazionali.
Tra le varie attività espletate, si ricorda: il lavoro per l’armonizzazione ed il coordinamento delle
leggi degli stati membri; la possibilità di fare raccomandazioni finalizzate a contribuire al
raggiungimento degli obiettivi dell’OUA e della Comunità Economica Africana; l’incoraggiamento
della “good governance”, l’ “accountability” e la trasparenza;
- la Corte Africana di Giustizia, è l’organo incaricato delle questioni civili, in particolare con
riferimento alla protezione dei diritti umani ed al consolidamento del buon governo in Africa. Essa
si è fusa con la Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei Popoli ed ora è conosciuta come “Corte
Africana di Giustizia e dei Diritti Umani”. Tra le sue funzioni si ricordano quella della preparazione
di documentazione, studi e ricerche sulle questioni dei diritti umani in Africa nonché quella
dell’interpretazione delle norme della Carta istitutiva dell’Unione;
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- la Commissione, costituisce il segretariato dell’Unione Africana ed ha un ruolo centrale. Essa
rappresenta l’Unione e ne difende gli interessi; prepara i piani strategici e gli studi per il Consiglio
Esecutivo; elabora, coordina, promuove e armonizza programmi e politiche con le Comunità
Economiche Regionali (RECs). La sua azione è guidata dal rispetto per la diversità ed il lavoro di
gruppo; dalla trasparenza e dall’accountability; dall’integrità ed imparzialità; dall’efficienza e dalla
professionalità; dall’informazione e dallo scambio di conoscenze. Essa è composta da 1 Presidente,
1 Vice-Presidente, 8 Commissari ed 1 Staff di supporto.
I Commissari sono responsabili di 8 portafogli riguardanti i temi: Pace e Sicurezza; Affari Politici;
Infrastrutture ed Energia; Affari Sociali; Risorse Umane, Scienza e Tecnologia; Commercio ed
Industria; Economia Rurale ed Agricoltura; Affari Economici;
- il Comitato dei Rappresentanti Permanenti, incaricato di preparare il lavoro del Consiglio
Esecutivo. Tra le sue funzioni si ricordano: la preparazione di regole di procedura e la loro
sottomissione al Consiglio Esecutivo; le raccomandazioni nelle aree di comune interesse dei
membri, particolarmente su questioni nell’agenda del Consiglio Esecutivo;
- 7 Commissioni Tecniche Speciali, responsabili della preparazione di progetti e programmi
dell’Unione nonché della loro sottoposizione al Consiglio Esecutivo. Esse concentrano la loro
attenzione sull’economia rurale e le questioni agricole; sugli affari monetari e finanziari; sul
commercio, le dogane e le questioni migratorie; sull’industria, la scienza e la tecnologia, l’energia,
le risorse naturali e l’ambiente; sul trasporto, le comunicazioni ed il turismo; sulla sanità, il lavoro e
gli affari sociali; sull’educazione, la cultura e le risorse umane;
- il Consiglio per la Pace e la Sicurezza, composto da 15 membri. Esso è considerato uno strumento
per prevenire, gestire e risolvere i conflitti. Al fine di assumere le sue responsabilità per lo
schieramento delle forze di pace e le missioni di intervento rapido così da garantire l’assistenza nei
casi di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’Umanità. Il suddetto Consiglio potrebbe
consultare un Panel di Saggi che comprende 5 illustri personalità africane, incaricate di dare il loro
parere su questioni particolarmente difficili da risolvere;
-3 istituzioni finanziarie promosse per facilitare il commercio all’interno del continente:
la Banca Africana degli Investimento,
il Fondo Monetario Africano,
la Banca Centrale Africana;
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- il Consiglio Economico, Sociale e Culturale, considerato il veicolo per costruire una forte
partnership tra i governi e tutti i segmenti della società civile africana. Lo statuto lo definisce come
“un organo consultivo dell’UA composto da diversi gruppi sociali e professionali”. Tra i suoi
compiti si ricordano: la promozione di un dialogo continuo tra tutti i segmenti dei popoli africani su
questioni riguardanti l’Africa ed il suo futuro; una forte partnership tra i governi e tutti i segmenti
della società civile (donne, giovani, diaspora, sindacati, settori privati)
- la Commissione sulla Legge internazionale, incaricata -tra l’altro- di intraprendere azioni correlate
alla codifica ed al progressivo sviluppo del diritto internazionale nel continente africano, con
particolare attenzione alle leggi dell’Unione; assistere nella revisione dei trattati esistenti, assistere
nell’identificazione delle aree in cui sono richiesti nuovi trattati e preparare delle bozze apposite;
condurre studi su questioni legali di interesse dell’Unione e dei suoi Stati membri;
- il Consiglio Consultivo sulla Corruzione, ha il compito –tra l’altro- di sviluppare e promuovere
l’adozione di codici di condotta dei funzionari pubblici; promuovere ed incoraggiare l’adozione e
l’applicazione di misure anticorruzione nel continente; preparare la documentazione sulla natura e
lo scopo della corruzione e gli illeciti ad essa correlati in Africa; sviluppare metodologie per
analizzare la natura e la misura della corruzione in Africa, disseminare l’informazione e
sensibilizzare il pubblico sugli effetti negativi della corruzione e dei reati ad essa collegati; dare
indicazioni ai governi su come affrontare tale fenomeno e quanto ad esso collegato nelle
giurisdizioni nazionali.
Bandiera dell’Unione Africana
Dopo la presentazione della struttura nel suo insieme, è importante dire che sono gli incontri annuali
dei Capi di Stato e di Governo ad attirare maggiormente l’attenzione internazionale sull’Unione
Africana. Tali eventi sono organizzati solitamente nel mese di gennaio e nel mese di luglio; negli
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incontri di gennaio si sceglie la presidenza di turno annuale, anche se la candidatura di un paese è
precedente e si bilancia con logiche regionali. Nonostante i Summit focalizzino l’attenzione su un
tema preciso, sono sempre le questioni contingenti ad avere il sopravvento (terrorismo, emergenza
siccità in Corno d’Africa, crisi locali). Si ricordano:
-il 18mo Summit UA “ Promuovere il commercio intra-africano ” (Addis Abeba, 23-30 gennaio
2012), nel cui ambito è stato nominato il Presidente del Benin Thomas Yayi Boni come
Presidente di turno annuale. Durante gli incontri non è stato raggiunto l’accordo per la nomina
del nuovo Presidente della Commissione e si è quindi deciso di prolungare il mandato
dell’attuale Presidente Jean Ping fino all’incontro ufficiale di luglio 2012. Non è stata infatti ben
accolta la proposta della nomina di Nkosazana Dlamini-Zuma (Ministro degli Interni del Sud
Africa). Secondo alcuni Stati membri ciò avrebbe eccessivamente favorito il Sud Africa e gli
avrebbe fornito una buona “rampa di lancio” per ottenere un posto al Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite. D’altra parte lo stesso Sud Africa si è opposto alla conferma di Jean Ping,
in quanto ritenuto eccessivamente debole nei confronti delle varie crisi e rivolte che si sono
registrate nell’ultimo anno nel continente. Interessante notare che durante l’apertura dei lavori, il
Presidente della National Committee of the Chinese People's Political Consultative Conference,
Jia Qinglin, ha portato il saluto del Presidente Hu Jintao. Nel messaggio è stata ribadita da parte
di Pechino “la volontà di continuare a lavorare a fianco dell’Africa per costruire -sulla base dei
risultati raggiunti- la partnership strategica Cina Africa e portarla ad un livello più alto”.
XVIII Summit dell’Unione Africana (gennaio 2012)
- il 16mo Summit UA “ Verso una più grande unità ed integrazione attraverso valori condivisi ”
(Addis Abeba, 24-31 gennaio 2011), in cui nell’agenda dei lavori è stata data grande attenzione
alle crisi somala, ivoriana e sudanese; gli eventi del Nord Africa sono stati trattati nei diversi
incontri ma non ne è stato fatto riferimento nella dichiarazione finale per volontà del Presidente
della Commissione, Jean Ping. Molto criticato da alcune organizzazioni non governative è stato
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il passaggio della presidenza di turno alla Guinea Equatoriale di Teodoro Obiang Nguema, Stato
africano in cui vengono sistematicamente effettuate violazioni dei diritti umani. La scelta è stata
tuttavia giustificata con esigenze di rotazione regionale;
- il 15mo Summit UA “ Salute materno-infantile e sviluppo in Africa ” (Kampala, 19-27 luglio
2010). Grande attenzione è stata rivolta al tema della sicurezza, al conflitto somalo, alla
questione sudanese, alla food security ed alle infrastrutture. I partecipanti hanno concordato
nell’invio di altri 2000 peacekeepers in Somalia per fornire un rinforzo all’African Union
Mission in Somalia (AMISOM). Il Presidente ugandese Museveni (reduce dal duplice attacco
terroristico a Kampala l’11 luglio, rivendicato da combattenti collegati ad Al Shabab, in cui
erano morte 74 persone ed una decina erano rimaste ferite) si è detto convinto che il terrorismo
può e deve essere vinto ma che è essenziale un’azione congiunta da parte dei partner africani.
Sono state criticate fortemente le azioni terroristiche nel Corno d’Africa e nella zona sahelo-
sahariana;
- il 13mo Summit UA “ Investire nell’Agricoltura per la crescita economica e la sicurezza
alimentare ” (Sirte, 24 giugno-3 luglio 2009), nel cui ambito è stato deciso di trasformare la
Commissione dell’Unione Africana in Autorità come primo passaggio in vista dell’integrazione
regionale. Durante gli incontri, i Capi di Stato hanno adottato una risoluzione in cui hanno
ribadito di non essere disposti a collaborare con la Corte di Giustizia Internazionale nel caso del
mandato di arresto nei confronti del Presidente sudanese El Beshir ;
13mo Summit UA (Sirte, 2009)
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- l’8° Summit “ Scienza, tecnologia e ricerca scientifica per lo sviluppo ” (Addis Abeba, 22-30
gennaio 2007). In tale occasione è stato eletto John Kufuor del Ghana come Presidente di
turno annuale, essendo stata scartata l’offerta sudanese, considerata “ingombrante” per il
dramma darfuriano. Il Sudan ha mal sopportato tale decisione, attribuendo a pressioni
esterne la scelta dei partner. Sono stati nominati 5 saggi per coadiuvare il Consiglio per la
Pace e la Sicurezza. Sul fronte somalo è stata ben accolta la proposta del Presidente somalo
Yusuf di organizzare una Conferenza di riconciliazione nazionale, ma si è registrata una
scarsa disponibilità da parte dei paesi africani all’invio di propri uomini a sostegno
dell’African Union Mission in Somalia (AMISOM)
Fatta questa breve presentazione sull’UA, quali sono i caratteri distintivi rispetto all’OUA?
In una pubblicazione del 2010 di Mario Zamponi e Arrigo Pallotti, i due studiosi italiani notano che:
“continuità e discontinuità con l’esperienza storica dell’OUA emergono neel Constitutive Act dell’UA. La continuità è rappresentata dal riferimento ai principi dell’uguaglianza sovrana tra gli Stati membri, del rispetto dei confini ereditati dal colonialismo e della non interferenza negli affari interni di un paese, che fin dal 1963 hanno costituito i pilastri della diplomazia africana. La discontinuità più forte è rappresentata dal ruolo attribuito all’UA nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nella promozione del rispetto dei diritti umani e del consolidamento delle pratiche democratiche in Africa. ( ) L’articolo 30 del Constitutive Act prevede che ‘i governi che acquisiranno il potere tramite mezzi incostituzionali non potranno partecipare alle attività dell’Unione’. Inoltre all’UA è stato conferito il ‘diritto di intervenire in un paese membro […] nel caso si verifichino circostanze particolarmente gravi, vale a dire: crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e una grave minaccia all’ordine legittimo per ripristinare la pace e la stabilità’ (…) Continuità e discontinuità rispetto all’esperienza passata delle relazioni tra i paesi africani sono inevitabilmente emerse anche nel funzionamento dell’UA. L’UA ha infatti incontrato forti ostacoli nella promozione della democrazia all’interno dei Paesi membri, in particolare a causa delle spaccature politiche tra gli stessi governi africani sulle azioni da intraprendere nel contesto delle crisi che di volta in volta sono scoppiate e delle resistenze che gli attori direttamente coinvolti hanno opposto all’intervento della diplomazia africana. Mentre la sospensione di un paese dalle attività dell’UA nel caso di un colpo di stato è diventato un provvedimento di routine, la posizione dell’UA nei casi di Zimbabwe e Sudan ha esposto l’organizzazione a forti critiche”.
In relazione alle altre differenze chiave tra le due strutture, si può ricordare che l’UA è concepita
come una unione di popoli piuttosto che di leader africani e che anche le donne (che non avevano
avuto un minimo ruolo durante i 39 anni di esistenza dell’ OUA) hanno una posizione riconosciuta.
L’inserimento di principi come la democrazia, l’uguaglianza di genere, la good governance e lo
stato di diritto appaiono come elementi innovatori e rivoluzionari.
Sfortunatamente, a 10 anni di distanza dal varo dell’UA, si può dire che anche la nuova struttura ha
mostrato le debolezze della vecchia: problemi di corruzione, problemi di gestionedelle vicende
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interne con una logica di “due pesi e due misure” (si ricordi come è stata trattata la crisi ivoriana e
come invece è stata trattata lacrisi libica, come al Presidente Gbagbo si sia ingiunto immediatame di
lasciare il potere e come invece il leader libico –grande sostenitore finanziario dell’UA- sia stato
giustificato fino all’ultimo momento e sostenuto nel suo attaccamento al potere), problemi di
protezione palese di alcuni leader e non di altri (Omar el Beshir e Robert Mugabe sono considerati
personaggi illustri, baluardi contro le ingerenze critiche degli occidentalia), problemi di
protagonismo e lotta per il potere (si pensi alla nomina rinviata del Presidente della Commissione
nel gennaio 2012, in seguito alla posizione contrapposta del gabonese Jean Ping e della sudafricana
Nkosazana Dlamini-Zuma)
Interessante notare la stretta collaborazione tra l’Unione Africana e le Regional Economic
Communities, vale a dire le organizzazioni regionali africane
Il sito dell’Unione Africana cita:
• la CEN SAD - Community of Sahel-Saharan States
• la COMESA - Common Market for Eastern and Southern Africa
• l’EAC - East African Community
• l’ECCAS - Economic Community of Central African States (conosciuta in francese come
CEEAC, Communauté Économique des États de l'Afrique Centrale)
• l’ECOWAS - Economic Community Of West African States (conosciuta in francese come
CEDEAO, Communauté Économique Des États de l'Afrique de l'Ouest)
• l’IGAD - Intergovernmental Authorithy on Development
• la SADC - Southern African Development Community
• l’AMU – Arab Maghreb Union (conosciuta in francese come UMA, Union du Maghreb
Arabe)
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CEN SAD
La Community of Sahel-Saharan States è stata fortemente voluta dal leader libico Muammar
Gheddafi ed è stata fondata a Tripoli il 4 febbraio 1998, con la partecipazione di Burkina Faso,
Chad, Libia, Mali, Niger, Sudan). Nel corso degli anni hanno aderito anche Repubblica
Centrafricana, Eritrea, Djibouti, Gambia, Senegal, Egitto, Marocco, Nigeria, Somalia, Tunisia,
Benin, Togo, Cote d’Ivoire, Guinea Bissau, Liberia, Ghana, Sierra Leone, Comore, Guinea, Kenya,
Mauritania, Sao Tomé e Principe.
Mappa area CEN SAD
Tra i suoi obiettivi si ricordano:
-lo stabilimento di una unione economica globale, basata sull’implementazione di un piano di
sviluppo della comunità che è complementare ai singoli piani di sviluppo nazionali degli stati
membri e che comprende vari settori: agricoltura, industria, energia, sanità, cultura;
-la rimozione di tutte le restrizioni che ostacolano l’integrazione degli stati membri attraverso
l’adozione di misure necessarie che assicurino: a) il libero movimento di persone, capitali ed
interessi, b) il diritto di stabilimento, ownership ed esercizio di un’attività economica; c) il libero
commercio e movimento di beni, merci e servizi;
- la promozione del commercio all’estero attraverso una politica di in investimenti negli stati
membri;
- la garanzia di diritti, vantaggi e obbligazioni ai cittadini dei paesi firmatari, in conformità con le
previsioni delle rispettive costituzioni
- l’armonizzazione di sistemi educativi, pedagogici, scientifici e cultrali dei vari cicli di educazione.
Lo statuto prevede i seguenti organi della Comunità:
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-la Conferenza dei Capi di Stato
- il Consiglio Esecutivo
- il Segretariato Generale
- la Banca per lo sviluppo ed il Commercio
- il Consiglio economico, sociale e culturale
Chiaramente la scomparsa di Gheddafi dalla scena africana ha fortemente condizionato nell’ultimo
anno le attività della CEN SAD.
Nella riunione di Rabat del Consiglio Esecutivo nel giugno 2012, il Marocco ha cercato di ereditare
la guida dell’Organizzazione e di rilanciarla, consolidando i legami di amicizia e solidarietà con gli
altri partners (si ricorda che il Marocco ha un profilo particolare nelle organizzazioni regionali: è
uscito dall’Unione Africana alcuni anni or sono, mentre fa ancora parte dell’Unione del Maghreb
Arabo anche se proprio i suoi contrasti con l’Algeria hanno impedito lo sviluppo dell’iniziativa
maghrebina negli ultimi 20 anni). Durante gli incontri, i partecipanti dei paesi aderenti alla CEN
SAD hanno ribadito l’impegno nella lotta contro il terrorismo, la criminalità transfrontaliera (in
particolare, traffico di armi e droga) ed i movimenti separatisti. E’stato proposto di creare un
Consiglio di sicurezza dell’organizzazione ma non è stato chairito come saranno reperiti i fondi.
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COMESA
Logo del COMESA
L’idea di una Common Market for Eastern and Southern Africa risale a metà degli anni ’60. Tappa
essenziale è stata l’adozione della Dichiarazione di Intenti e di Impegni per lo Stabilimento di
un’Area Peferenziale di Commercio, in occasione della Conferenza di Lusaka il 21 dicembre 1981.
Motivo della fondazione di quest’Area preferenziale era quello di trarre vantaggio da un mercato
più grande, di condividere l’eredità comune ed il destino della regione, di permettere una più ampia
cooeprazione economico-sociale, con l’obiettivo di creare una comunità economica. La
trasformazione dell’Area in un Mercato Comune si è avuta in occasione della firma di un Trattato il
5 novembre 1993 a Kampala (Uganda), ratificato nel 1994 a Lilongwe (Mali).
Della COMESA essa fanno parte: Burundi, Comore, Repubblica democratica del Congo, Djibouti,
Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Libia, Seichelles, Madagascar, Malawi, Mauritius, Rwanda, Sudan,
Swaziland, Uganda, Zambia, Zimbabwe
La struttura prevede:
- l’Auotrità del COMESA, composta dai Capi di Stato e di Governo;
- il Consiglio dei Ministri;
- la Corte di Giustizia;
- il Comitato dei Governatori delle Banche Centrali;
- il Comitato intergovernativo;
- dodici Comitati tecnici;
- il Comitato Consultivo della Comunità d'Affari e di altri Gruppi;
- il Segretariato diretto da un Segretario Generale , nominato dall'Autorità per un periodo di cinque
anni;
- la Banca per il Commercio e lo Sviluppo del COMESA (a Nairobi, Kenya)
- la cd. “Stanza di Compensazione” del COMESA (a Harare, Zimbabwe)
- l'Associazione delle Banche Commerciali del COMESA (ad Harare, Zimbabwe)
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- l’Istituto Conciario del COMESA (in Etiopia)
- la Società di Riassicurazione
- la Federazione di associazioni nazionali di donne nel mondo degli affari nell’Africa orientale e
meridionale
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EAC
Mappa dei paesi membri dell’EAC
L’East African Community è l’organizzazione intergovernativa che mira ad ampliare ed
approfondire la cooperazione nei settori politico, economico e sociale tra gli stati membri dell’area
orientale e con le altre comunità regionali. Essa comprende Kenya, Uganda, Tanzania (i tre membri
iniziali), Burundi e Rwanda (che hanno aderito nel 2007) .
La Comunità à stata varata con la firma del Trattato istitutivo il 30 novembre 1999.
Essa comprende i seguenti organi:
- il Summit dei Capi di Stato e di Governo, le cui decisioni sono prese per consenso. Esso discute le
questioni che gli vengono sottomesse dal Consiglio e qualsiasi altro affare di cui possa essere
interessata la Comunità. Tra le sue funzioni, si ricordano quelle che riguardano le indicazioni della
linea generale da seguire; l’esame dei rapporti che gli sono sottoposti; la revisione dello stato della
sicurezza, della pace e della good governance all’interno dell’EAC;
- il Congiglio dei Ministri, si riunisce due volte all’anno; tra le funzioni assegnatigli si ricordano
quelle dell’implementazione delle decisioni e delle direttive del Summit, della presa in
considerazione del budget dell’EAC, dello studio delle misure che devono essere prese da ogni
partner per promuovere il raggiungimento degli obiettivi dell’EAC;
- la Commissione di Coordinamento, tra le cui funzioni si ricorda quella della sottomissione di volta
in volta di rapporti e raccomandazioni al Consiglio, sia su propria iniziativa sia su richiesta del
Consiglio, nell’ambito dell’implementazione del Trattato; del ricevimento e dell’esame dei rapporti
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da parte delle Commissioni settoriali; della richiesta ad qualsiasi Commissione settoriale di fare
delle investigazioni su temi specifici;
- le Commissioni settoriali sono responsabili per la preparazione di un programma di
implementazione generale e lo stabilimento delle priorità rispetto al proprio settore; monitorano e
revisionano l’implementazione dei programmi dell’EAC; sottomettono rapporti e raccomandazioni
alla Commissione di Coordinamento di propria iniziativa e su richiesta della Commissione di
Coordinamento;
- la Corte di Giustizia, la cui più grande responsabilità è assicurare l’aderenza alla legge
nell’interpretazione ed applicazione di ogni norma nell’ambito del Trattato;
- l’Assemblea Legislativa, tra le sue funzioni annovera quelle del dibattito e approvazione del
budget dell’EAC, dell’esame dei rapporti annuali sulle attività della Comunità, della discussione di
tutte le questioni pertinenti all’EAC, del collegamento con i Parlamenti nazionali degli Stati membri
su questioni collegate all’EAC;
- il Segretariato è il principale ufficio esecutivo, è designato dal Summit e ha un incarico di durata
quinquennale. Esso si compone di un Segretario Generale, alcuni vice Segretari Generali (il cui
numero è determinato dal Consiglio dei Minstri) ed un Consigliere della Comunità
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ECCAS
Logo della ECCAS
Il Trattato istitutivo della Economic Community of Central African States (ECCAS anche
conosciuto come CEEAC nell’acronimo francese) è stato firmato nel 1983 a Libreville, ma tra il
1992 ed il 1998 l’organizzazione non è stata funzionante a causa di problemi dei suoi membri
(mancati pagamenti delle proprie quote).
Fanno parte della ECCAS: Angola, Burundi, Cameroun, Repubblica Centrafricana, Congo
Brazzaville, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Sao Tome & Principe
eTchad.
L’obiettivo dell’Organizzazione è la promozione ed il rafforzamento di una cooeprazione armoniosa
ed uno sviluppo dinamico ed equilibrato nei settori economico-sociale, in particolare nell’industria,
nei trasporti e nelle telecomunicazioni, nell’energia, nell’agricoltura, nelle risorse naturali, nel
turismo, nell’insegnamento, nella scienza e nella tecnologia.
Le istituzioni previste dal Trattato fondamentale sono:
- la Conferenza dei Capi di Stato e di governo, organo supremo che definisce la politica
generale e le grandi linee della Comunità, orientando ed armonizzando le politiche dei vari stati
membri;
- il Consiglio dei Ministri, incaricato di formulare raccomandazioni riguardo alle azioni che
devono essere promosse per raggiungere gli obiettivi della Comunità;
- la Corte di Giustizia (non ancora operativa), incaricata di assicurare il rispetto del diritto
nell’interpretazione del Trattato istitutivo della Comunità e decidere delle controversie di cui
può essere informata;
- il Segretariato Generale, principale organo esecutivo che stabilisce annualmente il programma
d’azione della Comunità, prepara ed esegue le decisioni e le direttive della Conferenza ed i
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regolamenti del Consiglio, assicura la promozione dei programmi di sviluppo e i progetti
comunitari;
- la Commissione Consultiva che studia ed istruisce – sotto la responsabilità del Congilio dei
Ministri- le questioni ed i progetti che gli vengono sottoposti
- Comitati Tecnici Specializzati creati in settori specifici.
L’ECCAS è il focal point del NEPAD (New Partnership for Africa’s Development, programma
dell’UA adottato in Zambia nel luglio 2001 che si propone di promuovere la “rinascita” del
continente nel 21mo secolo sulla base dei concetti di “ownership” e “partnership”) nell’Africa
centrale. In tale quadro, l’ECCAS ha istituito un Coordinamento regionale di messa in opera e dei
seguiti di tale partenariato per lo sviluppo dell’Africa nella regione centrale del continente.
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ECOWAS
Mappa degli Stati membri dell’ECOWAS
L’Economic Community Of West African States (ECOWAS anche conosciuta come CEDEAO
nell’acronimo francese) è l’organizzazione della regione occidentale africana, fondata nel 1975.
L’obiettivo è quello di promuovere l’integrazione economica in tutti campi dell’attività economica,
in particolare dell’industria, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell’energia, dell’agricoltura,
delle risorse naturali, del commercio, delle questioni monetarie e finanziarie, delle problematiche
sociali e culturali.
Ne fanno parte 15 Stati: Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Cote d'Ivoire, Gambia, Ghana, Guinea,
Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo.
Secondo quanto stabilito, la sua struttura prevede:
- la Commissione (precedentemente conosciuta come Segretariato);
- il Parlamento, considerato un forum per il dialogo, la consultazione ed il consenso per i
rappresentanti dei popoli dell’Africa occidentale al fine di promuovere una vera integrazione. Si
Compone di 115 seggi;
- la Corte di Giustizia;
- la Banca per gli Investimenti e lo Sviluppo.
L’ECOWAS è considerata una delle comunità regionali più sviluppate. Negli ultimi anni si è
dimostrata molto energica nel rispetto dell’apllicazione del diritto e dei principi democratici in Stati
che vivevano pericolose crisi interne come Togo, Cote d’Ivoire e Guinea Conackry. Non sempre i
suoi interventi o le sue misure hanno portato i risultati auspicati.
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IGAD
Mappa dei paesi membri IGAD
L’Intergovernmental Authority on Development (IGAD) è stata creata nel 1996 come superamento
dell’Intergovernmental Authority on Drought and Development (IGADD) varata nel 1986. Tale
struttura era stata promossa da Djibouti, Kenya, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan e Uganda per
reagire alla siccità ed altri disastri anturali della regione orientale. L’Eritrea aveva aderito a tale
gruppo nel 1993. L’ammodernamento dell’Organizzazione ha portato ad un’espansione della
cooeprazione regionale ed a una nuova struttura.
L’IGAD è composta da diversi organi:
- l’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo, che fissa le politiche che devono essere
implementate;
-il Consiglio dei Ministri, che aiuta ad approvare i programmi di lavoro ed il budget annuale;
- la Commissione degli Ambasciatori, che si riunisce quando c’è bisogno di fornire dei suggerimenti
al Segretario Esecutivo;
- il Segretariato che aiuta ad implementare progetti e programmi che sono stati approvati.
Le ostilità mai celtate tra Etiopia e Eritrea nonché quelle tra Sudan e Sud Sudan hanno spesso
ostacolato più volte i lavori dell’Autorità. Da ricordare anche che l’IGAD ha più volte tentato
-senza successo- di mediare tra le parti somale in conflitto.
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SADC
Mappa dei paesi membri della SADCLa Southern African Development Community (SADC) è nata nell’aprile 1980 a Lusaka come
raggruppamento di 9 stati con il nome di Southern African Development Coordination Conference
(SADCC).Inizialmente il suo scopo era quello di coordinare progetti di sviluppo per ridurre la
dipendenza economica dal Sud Africa negli anni dell’apartheid. I membri fondatori erano: Angola,
Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambique, Swaziland, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.
Il passaggio e la trasformazione da Conferenza a Comunità dello Sviluppo si registra nell’agosto
1992, a Windhoek (Namibia).
Attualmente aderiscono alla SADC: Angola, Botswana, Repubblica Democratica del Congo,
Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia,Seychelles, Sud Africa, Swaziland,
Tanzania, Zambia e Zimbabwe.
La SADC, che ha il quartier generale a Gaborone (Botswana), è una delle organizzazioni regionali
africane più funzionanti.
La SADC si propone di promuovere –attraverso sistemi produttivi efficienti- una crescita
economica sostenibile ed equa, nonchè uno sviluppo socio economico, una cooperazione ed
integrazione più profonde; good governance, pace e sicurezza durevoli nel tempo così che la
regione possa risultare un player competitivo e forte nell’economia mondiale oltre che nel
panorama delle relazioni internazionali.
La SADC prevede per il suo funzionamento 8 organi:
- il Summit annuale dei Capi di Stato e di Governo, incaricato della direzione politica e del
controllo delle funzioni della Comunità;
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-la Troika formata dal Presidente in carica, dal futuro Presidente e dal Presidente uscente, con
l’obiettivo di dare continuità alle linee politiche adottate;
- il Consiglio dei Ministri, organo che si riunisce 4 volte all’anno, comoposto dai Ministri degli
Esteri e di Pianificazione Economica. Esso è incaricato di sorvegliare sul funzionamento della
SADC;
- il Tribunale, che giudica delle eventuali dispute ed assicura il rispetto de trattato istitutivo;
- l’Organo addetto alla Politica, alla Difesa ed alla Cooperazione nell’ambito della sicurezza;
- il Segretariato, istituzione esecutiva, responsabile dell’amministrazione dei programme e della
pianificazione
- i Comitati Nazionali, formati dalle parti del governo, settore privato e società civile. La loro
funzione è quella di fornire spunti per le politiche e strategie, nonchè sorvegliare l’esecuzione dei
programmi;
- il Comitato dei Funzionari di alto livello, incaricato di fornire assistenza tecnica al Consiglio dei
Ministri.
Nell’ambito di tale organizzazione si distingue il ruolo di traino del Sud Africa, che ha mediato –
con più o meno successo- e continua a mediare per le crisi in Madagascar e Zimbabwe.
In particolare nei confronti dello Zimbabwe, si è registrato un cambio di metodo nel passaggio di
funzioni dal Presidente Thabo Mbeki (accusato di essere troppo morbido nei confronti di Robert
Mugabe e della linea adottata dallo ZANU PF) a quella del Preside Jacob Zuma.
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AMU/UMA
Mappa dei paesi facenti parte dell’AMU
“Yazirat al Magrib” è l’espressione araba che significa “Isola dell’Occidente”, la regione dove
“tramonta il sole”. Essa comprende da ovest ad est : Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia e Libia.
Tali Stati, seppur profondamente diversi l’uno dall’altro, hanno un substrato comune, identificabile
nella sovrapposizione dell’elemento arabo su quello berbero, nella lingua comune nonché nel fatto
che le loro società poggiano su economie molto simili. Questi elementi -oltre a quello del fattore
religioso comune - hanno determinato , specie dopo il periodo coloniale, una spinta all’integrazione
regionale.
Nonostatnte i numerosi punti in comune, solo dopo anni di esperimenti, il 17 febbraio 1989 è stato
firmato a Marrakech (Marocco) il Trattato Istitutivo dell’Unione del Maghreb Arabo, primo vero
tentativo della sponda sud del Mediterrano di emulare la costruzione comunitaria, per raggiungere
una piena integrazione economica e politica.
La struttura prevede:
- il Consiglio Presidenziale, considerato l’organo supremo, composto dai Capi di Stato.Le sue
decisioni sono assunte all’unanimità;
- il Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri, che prepara i summit ufficiali;
- il Consiglio Consultivo, composto da 10 membri di ciascun stato;
- il Comitato per la Sorveglianza delle misure d’integrazione;
- il Segretariato generale;
- la Corte di Giustizia.
Problemi interni degli stati membri (golpe in Mauritania, le pretese egemoniche del Col Gheddafi) e
le ostilità tra Algeria e Marocco hanno frenato per anni lo sviluppo dell’Unione. Una breve fase di
rilancio si è avuta negli anni 2002-2003, favorita da quello che è stato chiamato “lo sdoganamento
libico” e la sospensione delle sanzioni ONU nei confronti di Tripoli; dal nuovo corso algerino
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inaugurato dal presidente Bouteflika con il varo della politica di Riconciliazione nazionale algerina;
dalla successione al trono alaouita di Re Mohammed VI.
Secondo quanto stabilito dal Trattato istitutivo, l’Unione sipropone:
- il consolidamento dei rapporti fraterni che legano gli Stati membri ed i loro popoli; la
realizzazione del progresso e del benessere delle comunità nonché la difesa dei loro diritti;
- la realizzazione progressiva della libera circolazione di beni eservizi, di merci e di capitali tra gli
Stati aderenti;
- l’adozione di una politica comune in tutti i settori. Nel reparto economico, tale linea mira ad
assicuare lo sviluppo industriale, agricolo e commerciale degli Stati membri.
Nonostante gli sforzi, non si sono registrati risultati concreti in questi 23 anni e l’Unione resta
ancora una pura utopia.
Le rivolte nordafricane e la cd “primavera araba” del 2010 hanno ulteriormente bloccato le attività
dell’Unione.
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LEZIONE N.13
“NEPAD”
“Ownership” e “partnership”: sono questi i principi che guidano la New Partnership for Africa’s
Development, il progetto lanciato nel 2001 in ambito africano con l’obiettivo di promuovere la
“rinascita africana”. Presentata come “un framework strategico dell’Unione Africana per lo
sviluppo socio economico, è al tempo stesso sia una visione che una struttura politica per l’Africa
del XXI secolo”. La NEPAD si è posta sin dalle prime fasi come un intervento radicalmente nuovo,
promosso dagli stessi leader africani per affrontare sfide poste dall’economia globale e dalle stesse
debolezze intrinseche al continente: povertà, sottosviluppo, fame, corruzione, deficit
infrastrutturale.
La NEPAD eredita i frutti delle discussioni degli anni ’90 e soprattutto gode di un anno particolare
ricco di dibattiti di alto livello e fortunate concomitanze. Come nota infatti Prince Mashele, nel
1999 il Presidente algerino Abdelaziz Bouteflika fu nominato a capo della Presidenza dell’OUA;
nello stesso anno il Presidente nigeriano Olusegun Obasanjo fu designato come responsabile del
G77 (organizzazione nata nel giugno del 1964, originariamente con 77 paesi membri in via di
sviluppo); sempre nel 1999 il Presidente sudafricano Thabo Mbeki svolse la funzione di guida del
Movimento dei non allineati. A seguito della richiesta a Bouteflika e Mbeki di sviluppare delle
strategie di risposta per le sfide continentali, venne presentato il Millennium African Recovery
Programme (MAP) , programma a cui contribuì -seppure in tono minore- anche Obasanjo.
Parallelamente, il Presidente senegalese Abdoulaye Wade lavorò all’Omega Plan, piano focalizzato
sullo sviluppo e sulle insufficienti infrastrutture africane.
La NEPAD, inizialmente chiamata New African Initiative, nasce come fusione dei due suddetti
documenti. Presentata al summit di Lusaka nel luglio 2001, venne perfezionata ed adottata
nell’ottobre 2001 al 37mo summit OUA di Abuja .
La documentazione originale è divisa in una parte introduttiva che fotografa la realtà e le condizioni
in cui vivono gli africani ed in un programma di azione vero e proprio.
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La NEPAD richiama ad un capovolgimento di questa situazione anomala, cambiando la relazione
che ne è alla base. I padri della NEPAD sono convinti dell’opportunità storica per mettere fine al
flagello del sottosviluppo che colpisce il continente. Sulla base della consapevolezza del ruolo che
può svolgere l’Africa nel mondo, grazie all’immensità delle sue risorse (minerarie, ecologiche,
culturali) viene fatto espresso invito a tutti i popoli africani di prendere coscienza della propria forza
e responsabilità per favorire la “rinascita africana”. Gli autori chiedono “a tutte le genti di
accettare la sfida di attivarsi a supporto dell’iniziativa, mettendo a tutti i livelli, strutture per
l’organizzazione, la mobilitazione e l’azione pratica”.
Per quanto riguarda il Programma d’Azione, esso specifica che la “NEPAD è prevista come una
visione di lungo periodo di un programma di sviluppo guidato dagli africani e di loro proprietà”.
Gli obiettivi di lungo termine enunciati nel framework dell’iniziativa, possono così riassumersi:
sradicamento della povertà, posizionamento dell’Africa sul sentiero della crescita sostenibile e dello
sviluppo, arresto della marginalizzazione del continente, promozione del ruolo della donna in tutte
le attività.
Per quanto attiene gli scopi specifici (“goals”), nel documento sono individuati:
- il dimezzamento della povertà entro il 2015;
- il dimezzamento della quota delle persone che vivono in estrema povertà tra il 1990 ed il
2015;
- l’iscrizione di tutti i bambini alla scuola primaria entro il 2015;
- l’avanzamento verso l’uguaglianza di genere ed il rafforzamento del ruolo/responsabilità
delle donne, eliminando le disparità di genere nell’iscrizione alla scuola primaria e
secondaria entro il 2005;
- la riduzione dei tassi di mortalità infantile e dei bambini di 2/3 tra il 1990 ed il 2015;
- la riduzione dei tassi di mortalità materna di ¾ tra il 1990 ed il 2015;
- l’assicurazione dell’accesso dei servizi sanitari per la natalità entro il 2015 a tutti coloro che
ne hanno bisogno;
- l’implementazione di strategie nazionali per lo sviluppo sostenibile entro il 2005, come
l’inversione della perdita delle risorse ambientali entro il 2015.
La strategia è volta a raggiungere 4 risultati.
- crescita economica, sviluppo ed incremento dell’occupazione;
- riduzione della povertà e dell’ineguaglianza;
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- diversificazione delle attività produttive, accresciuta competitività internazionale,
ampliamento delle esportazioni;
- accresciuta integrazione africana.
Nel documento si specifica che l’Africa non raggiungerà gli International Development Goals e il
7% di crescita annuale del PIL se non sarà fatto qualcosa di nuovo e di radicale.
Il Programma identifica delle condizioni per lo sviluppo sostenibile, collegate ad iniziative di Pace,
Sicurezza, Democrazia e Governance Politica (che si propongono di promuovere condizioni di
lungo termine per lo sviluppo e la sicurezza) e ad un’iniziativa economica e della cd. “corporate
governance” (che si propone di dare priorità alla capacity-building dello Stato, essenziale nel
promuovere la crescita economica, lo sviluppo e l’implementazione dei programmi di riduzione
della povertà).
Il documento analizza quindi le priorità settoriali che devono guidare gli interventi:
- infrastrutture
- tecnologie dell’ informazione e della comunicazione (ICT)
- energia
- trasporto
- acqua e impianti fognari
- riduzione della povertà
- educazione
- fuga dei cervelli
- sanità
- agricoltura
- ambiente
- cultura
- piattaforme di scienza e tecnologia
Punto fondamentale del documento della NEPAD è quello in cui si sottolinea la necessità che gli
africani negozino “una nuova relazione con i partner dello sviluppo” (intesi come paesi
industrializzati e organizzazioni multilaterali). Saranno, quindi, mantenute le partnership precedenti
(sono citate in tal senso la Nuova Agenda delle Nazioni Unite per lo Sviluppo in Africa negli anni
’90; il Piano d’Azione del Summit Africa-Europa; la Partnership strategica con l’Africa della Banca
Mondiale; i cd. Poverty Reduction Strategy Papers-PRSPs, del Fondo Monetario Internazionale;
l’Agenda per l’Azione del Giappone; l’Atto di Crescita ed Opportunità per l’Africa / African
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Growth Opportunity Act-AGOA degli Stati Uniti; il Global Compact dell’Economic Commission
for Africa delle Nazioni Unite) ma ad esse viene dato nuovo respiro e nuova profondità. Il
documento è chiaro: “L’appello è per una nuova relazione che prenda come punto di partenza i
programmi del paese. La nuova relazione dovrebbe disporre obiettivi di performance e standard
mutualmente concordati, sia per i donatori che per i beneficiari. Molti casi dimostrano
chiaramente che il fallimento dei progetti non è causato solo da una debole performance dei
beneficiari, ma anche da cattivi consigli forniti dai donatori”.
Se questa è la struttura della NEPAD, è importante mettere in luce i principi che la guidano. Essi
sono riassumibili in:
- ownership, intesa quale presa di coscienza e di responsabilità dei popoli africani;
- partnership con gli attori/donatori stranieri;
- partnership tra i protagonisti africani;
- ancoraggio dello sviluppo del continente alle risorse locali;
- accelerazione dell’integrazione regionale e continentale;
- promozione della competitività;
- promozione del cambiamento del rapporto con il mondo occidentale sviluppato;
- good governance come requisito base per la pace, la sicurezza, lo sviluppo politico e socio-
economico sostenibili.
Ciò sta ad indicare che gli africani propongono un piano basato sul riconoscimento delle proprie
responsabilità, su una diversa logica di partnership, sulla volontà di cambiare rapporto con il mondo
sviluppato, sulla consapevolezza che solo un sistema di buon governo può essere la base per la
pace, la sicurezza, lo sviluppo politico e socio-economico sostenibili nel tempo.
E’ chiaro che un programma così ambizioso ha bisogno di alcuni partner, disposti a finanziare
determinate iniziative ed accompagnare la rinascita continentale. Tra i partner della NEPAD si
segnalano:
-la UN Economic Commission for Africa (UNECA)
-l‘African Development Bank (ADB)
- la Development Bank of Southern Africa (DBSA)
- l’Investment Climate Facility (ICF)
- l’Office of the UN Special Adviser on Africa (OSAA)
- l’Institute for Security Studies (ISS, noto centro di ricerca sudafricano fondato nel 1991 che
promuove ricerche ed analisi nel settore della Human Security)
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- il World Food Programme (WFP)
- la Food and Agriculture Organization (FAO)
- l’AfricaFertilizer.org (forum telematico globale creato per promuovere uno scambio di
informazioni su vari aspetti dei fertilizzanti, sulla fertilità del suolo e le questioni agricole che hanno
un impatto sull’Africa; l’obiettivo è quello di utilizzare le informazioni per promuovere la cd.
“rivoluzione verde” di cui hanno bisogno centinaia di milioni di piccoli coltivatori)
- il Council on Health Research for Development (COHRED, organizzazione non governativa, il
cui obiettivo principale è quello di rafforzare la ricerca per la sanità ed i sistemi di innovazione, con
una particolare attenzione sui paesi a basso/medio reddito)
- la Global Alliance for Improved Nutrition
- il Forum for Agricultural Research for Africa (FARA, organizzazione sotto cui si riuniscono
molteplici soggetti specializzati nel settore agricolo, che promuove ricerca e sviluppo)
- il Department of International Development del governo del Regno Unito
- l’Africa Renewal Online (sito promosso dalla sezione africana del Dipartimento di Pubblica
Informazione delle Nazioni Unite, che propone aggiornamenti ed analisi circa le questioni con cui si
confronta il continente)
- lo United Nations Development Programme (UNDP)
Dal quadro presentato sopra, emerge chiaramente che le aree del NEPAD riguardano:
- l’agricoltura e la sicurezza alimentare
- il cambiamento climatico ed il management delle risorse
- l’integrazione regionale e le infrastrutture
- lo sviluppo umano
- la governance economica e la cd “Corporate governance”
- questioni trasversali (Genere, ICT, etc…)
Ma come ha lavorato concretamente in questi anni la NEPAD? Per quanto attiene i programmi
lanciati nel suo ambito, si ricordano:
- il Comprehensive Africa Agriculture Development Programme (CAADP), per lanciare una
“rivoluzione verde” nel settore agricolo
- il Programma Scienza e Tecnologia
- il Pan African Infrastructure Development Fund (PAIDF) per finanziare grandi progetti
infrastrutturali
- il NEPAD E-School Programme, lanciato nel 2003 per assicurare nell’arco di 10 anni computer e
accesso ad internet alle scuole primarie e secondarie
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L’Agenzia NEPAD
Nel corso degli anni, i responsabili africani hanno cercato di apportare alcuni cambiamenti nel
rapporto tra NEPAD e Unione Africana, che permettessero un funzionamento più efficace. In
occasione della 14ma Assemblea dell’Unione Africa ad Addis Abeba (febbraio 2010) è stato deciso
di integrare la NEPAD all’interno dell’organizzazione continentale nonché di sostituire il
Segretariato della NEPAD con una vera e propria Agenzia (NEPAD Planning and Coordinating
Agency, NPCA). Obiettivo di tale scelta è stato quello di facilitare e coordinare l’implementazione
dei programmi continentali e regionali, i singoli progetti, oltre che mobilitare più concretamente
risorse e partners
La struttura della suddetta Agenzia prevede l’ufficio del Chief Executive Officer (CEO) e di 5
Direzioni (Direzione per la Strategia e Pianificazione; Direzione per lo Sviluppo del Programma;
Direzione per il Coordinamento e l’implementazione del Programma; Direzione per la
Comunicazione, la Partnership, la Mobilitazione delle Risorse; Direzione per i cd “Corporate
Services” che supportano concretamente il funzionamento della struttura)
La NPCA è chiamata a fare un lavoro di sensibilizzazione del basso-medio ceto sociale così da
ottenere un supporto di base alla NEPAD; a lavorare attivamente con i diversi finanziatori nello
sviluppo delle iniziative, ad ottimizzare le risorse, a rafforzare le partnership esistenti e crearne delle
nuove.
All’iniziale euforia sono seguite le prime difficoltà, dovute al reperimento di fondi (64 miliardi di
US$ all’anno), alla capacità di identificare progetti validi, al coinvolgimento della società civile e
alla presentazione/visibilità del programma.
I supporter, tra cui Wiseman Nkuhlu (presidente del comitato pilota della NEPAD e consigliere
economico dell’ex Presidente sudafricano Thabo Mbeki nel 2000-2004) hanno fatto notare
inizialmente che i risultati non si sarebbero potuti vedere subito ma sul lungo periodo.
Il sociologo sudafricano Jimi Adésinà ha dichiarato che la “NEPAD è un documento guidato da una
lettura squisitamente sudafricana delle sfide di sviluppo che l’Africa deve affrontare” ed ha messo
in luce il ruolo svolto dall’ex Presidente sudafricano Thabo Mbeki.
Alcuni critici hanno identificato la NEPAD come un qualcosa di vecchio messo in un nuovo
contenitore, vale a dire una sostanza già conosciuta organizzata con sembianze nuove.
L’analista economica Dot Keet (South Africa's Alternative information and development centre e
Centre for Southern African Studies all’ Università di Western Cape) ha riscontrato due debolezze
fondamentali nella NEPAD: c’è una grande insistenza sull’importanza di creare un contesto adatto
agli investimenti stranieri, a cui però non corrisponde una riflessione adeguata sui meccanismi da
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attivare per proteggere le popolazioni locali da conseguenze negative derivanti da operazioni
finanziarie straniere; c’è una grande valorizzazione della liberalizzazione del commercio, ma non si
pensa che essa ha causato deindustrializzazione, declino economico e crisi sociale africana.
Oltre a questi punti di vista specifici più o meno a sostegno della NEPAD, si può dire che le critiche
si sono incentrate su uno scetticismo da parte della società civile e su una sua mancanza di
partecipazione nella fase iniziale; sulle critiche per la mancanza di fondi; sui giudizi negativi di
alcuni leader per lo sperpero di risorse; sulla mancata visibilità dell’iniziativa e problemi del sito a
fornire informazioni in modo puntuale.
African Peer Review Mechanism (APRM)
Una delle principali iniziative intraprese nell’ambito della NEPAD è stata la creazione dell’ African
Peer Review Mechanism (APRM), programma adottato su base volontaria dai vari membri
dell’Unione Africa, per promuovere e rafforzare alti standard di governance, fortemente voluto
come meccanismo di automonitoraggio.
L’APRM riconosce che il controllo esterno, se esercitato da altri paesi africani in un’ottica di
reciprocità, può dare impulso positivo ed indurre le classi dirigenti ad un comportamento virtuoso.
Il sistema è complesso e ben congeniato, con obiettivi chiari ed inequivocabili: aiutare i paesi
membri a migliorare la propria governance.
L’APRM è guidato dall’APRM Forum costituito dai Capi di Stato e di Governo dei paesi che
volontariamente si sono sottoposti al sistema.
Il Forum è supportato da un Panel di illustri personalità, da un Segretariato tecnico, da un Team
addetto alla Revisione del paese sottoposto all’esame.
Il processo di APRM prende in considerazione quattro aree:
- democrazia e good governance politica
- gestione economica
- corporate governance
- sviluppo socio-economico.
Viene prodotto inizialmente un rapporto nazionale di autovalutazione ed un programma di azione
che si basa su un questionario che prende in considerazione i 4 temi suddetti; i documenti sono
trasmessi al Segretariato tecnico; il Team di esperti visita il Paese di riferimento ed incontra alcuni
stakeholder nazionali per verificare il consenso nazionale sul rapporto di autovalutazione,
confrontandosi con diversi interlocutori. Viene quindi preparata una relazione trasmessa al Forum,
insieme al documento di autovalutazione.
72
A livello nazionale, vi sono poi Focal Point (stabiliti subito dopo che il Paese aderisce al
Meccanismo, responsabili per la gestione del processo e per aggiornare i Capi dello stato circa i
progressi nazionali nelle materie oggetto di esame); una Commissione Nazionale (incaricata di
indicare una linea di direzione per l’implementazione dell’APRM); un Segretariato Nazionale
dell’APRM (che fornisce supporto tecnico-amministrativo alla Commissione Nazionale); Istituzioni
di ricerca tecnica (che assumono la responsabilità per eseguire il questionario APRM).
Al momento hanno aderito all’APRM 31 Stati (tra cui Angola, Cameroon, Egitto,Etiopia, Gabon,
Liberia Mali, Malawi , Mozambico, Nigeria, Rwanda, Senegal, Sudan, Sud Africa, Tanzania, Togo,
Uganda, Zambia).
Tra il gennaio 2006 ed il gennaio 2011, 14 stati si sono sottoposti al controllo (tra cui: Ghana,
Kenya, Sud Africa, Uganda, Mali, Mozambico)
Pur non mancando difficoltà nell’applicazione dell’APRM, tuttavia è positivo il fatto che alcuni
governi abbiano accettato di sottoporsi a tale meccanismo, incentivati soprattutto dalla possibilità di
avere un’immagine esterna rispettabile, funzionale all’ottenimento di maggiori aiuti internazionali.
73
LEZIONE N. 14“AFRICAN STANDBY FORCE”
La prevenzione, la gestione, la risoluzione dei conflitti, il post-conflict management sono alcuni dei
principi cui si è ispirata l’Unione Africana (UA) per organizzare la sua ristrutturazione interna dopo
il 2001. Tali elementi sono stati infatti ritenuti fondamentali per trainare lo sviluppo e la “rinascita”
del continente nel nuovo millennio.
Somalia, Sudan, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo e Angola sono stati tragici
insegnamenti dell’ultimo trentennio che hanno evidenziato alcuni dati: le debolezze intrinseche
africane e le velleità del periodo post indipendenza; il peso continuo nelle singole dinamiche
nazionali di ingerenze esterne (sia occidentali che regionali); la porosità e fluidità dei confini;
l’incapacità di reagire con i propri mezzi a scontri violenti tra gruppi, tramutatisi spesso in
sanguinose guerre civili e pulizie etniche. A ciò si aggiunga che la presenza di missioni ONU in
territorio africano (vd la Mission des Nations Unies pour le Referendoum dans le Sahara
Occidentale-MINURSO, Mission de l' Organisation des Nations Unies en République démocratique
du Congo-MONUC, United Nations Mission in Ethiopia and Eritrea -UNMEE) non ha fornito del
resto un serio contributo al ristabilimento della pace, sia per debolezza del mandato, sia per la
composizione delle truppe (accusate di collusione con potentati locali e di violenze fisiche sulla
popolazione locale), arrecando spesso profondi danni al ristabilimento del dialogo tra le parti
belligeranti.
Per tali motivi si è sentita la necessità di prospettare delle strutture da utilizzare come “argine”, con
una capacità di “drenaggio”, impedendo il più possibile il ripetersi di atti di ferocia indiscriminata.
E’ su tali premesse che negli ultimi anni sono state proposte diverse iniziative all’interno e a
supporto dell’UA, quali la creazione di un responsabile per la Pace e la Sicurezza all’interno della
Commissione (organo trainante dell’organizzazione panafricana), il varo di un Consiglio per la
Pace e la Sicurezza coadiuvato da un Comitato dei Saggi (di recente creazione quest’ultimo), un
Comitato degli Stati Maggiori Africani Riuniti, la promozione di una mirata Architettura di pace e
sicurezza Africana (APSA), il lancio di una Forza Panafricana in attesa (African Standby Force
con la dizione inglese, e Force Africaine en Attente nella corrispettiva versione francese).
In tale sede interessa soffermarsi su quest’ultima iniziativa, African Standby Force, il cosiddetto
gruppo continentale di “peacekeepers permanenti”, che potrebbero essere chiamati ad agire
rapidamente (a seconda dei casi entro 30 o 14 giorni dall’avviso) per arginare crisi e violenze,
prevista inizialmente per il 2010.
Per quanto riguarda la dimensione, si parla di circa 25.000 uomini, suddivisi in cinque brigate
regionali (EASBRIG-East Africa Standby Brigade, SADCBRIG – Southern Africa Stanby Brigade,
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NASBRIG-North Africa Regional Standby Brigade, ECOBRIG- Ecowas Standby
Brigade/WESTBRIG, CASBRIG Central Africa Stanby Brigade), più o meno corrispondenti alle
cinque maggiori comunità economiche regionali. Ognuna di esse sarebbe quindi chiamata a fornire
un numero di soldati, di poliziotti e di personale civile specializzato, pronti ad operare in teatri
particolarmente difficili, in cui si sonno sviluppate dinamiche conflittuali.
Per quanto concerne i compiti sono stati individuati sei possibili scenari: 1. avviso militare
UA/regionale per una missione politica; 2.missione di osservazione regionale ambito UA/regionale
schierata con una missione delle Nazioni Unite; 3.missione di osservazione autonoma
UA/regionale; 4. forza di mantenimento della pace dell’UA/regionale in virtù del capitolo VI delle
Nazioni Unite e missioni di dispiegamento preventivo (e consolidamento della pace); 5.forza di
mantenimento della pace dell’UA per missioni di mantenimento della pace multidimensionali
complesse; 6.intervento dell’UA in caso di genocidio o in situazioni in cui la Comunità
Internazionale non interviene rapidamente.
Per i primi quattro scenari si prevede un dispiegamento entro 30 giorni dal mandato UA, per la
quinta missione un dispiegamento integrale della Forza entro 90 giorni con la componente militare
pronta entro 30 giorni, mentre per l’ultimo scenario si ipotizza un dispiegamento degli uomini entro
14 giorni.
Ad oggi tutto il progetto è in fieri e l’unico avanzamento in quella che si potrebbe chiamare una
“lungimirante iniziativa” è stata la nomina del Generale Sekouba Konaté come “High
Representative of the African Union for the Operationalization of the African Standby Force” nel
dicembre 2010. L’incarico è stato dato al noto Generale della Guinea Conakry in un momento
cruciale della formazione della Forza speciale, in cui sono state già affrontate le prime due tappe per
la formazione delle brigate e per l’adozione dei documenti di base ma resta l’ultima parte da
completare. Per il periodo 2011-2015 è stato previsto il coordinamento dei vari soggetti, la
mobilitazione del supporto politico/finanziario/logistico per rendere operativa l’ASF.
Sin dal 2006-2007 sono emerse numerose perplessità ad un primo esame del progetto. E’ stato
chiaro da subito che non c’era la minima omogeneità di standard tra le truppe, né era ipoteticamente
raggiungibile nel breve periodo, la qual cosa avrebbe potuto richiedere grandi sforzi (in termini di
costi, di organizzazione e di operatività nel breve periodo) per la creazione effettiva di una forza
multinazionale; l’ipotesi del sesto scenario (intervento in caso di genocidio) richiedeva e richiede
una expertise molto dettagliata e particolare, di differente levatura e preparazione rispetto a quella
utile negli altri casi; il Marocco era ed è ancora al di fuori dall’iniziativa (non facendo parte
dell’Unione Africana a causa del riconoscimento concesso dall’Organizzazione alla Saharaui Arab
Democratic Republic); alcuni Paesi-membri sovrapponevano e sovrappongono la loro
75
partecipazione a due brigate (vedasi il caso dell’Angola e della Repubblica Democratica del Congo
entrambi nella CASBRIG e SADCBRIG); l’Egitto, pur non facendo parte dell’Unione del Maghreb
Arabo ha partecipato in questi anni alla brigata dell’Africa del Nord; non tutte le brigate hanno
potuto disporre di centri di eccellenza qualificati e già funzionanti come nel caso dalla SADCBRIG
(che ha potuto utilizzare il segretariato della SADC a Gaborone). Altra incertezza ha poi riguardato
il numero dei componenti della forza, insufficienti rispetto alla tipologia del territorio africano, la
porosità dei suoi confini e la sua geografia.
Non indifferente è stata e resta la questione dei costi, non essendo chiaro chi dovrebbe sopportare
l’intero onere (i singoli paesi, l’Unione Africana o un fondo ad hoc dei Paesi Occidentali).
Per quanto riguarda l’obiettivo finale, dietro l’iniziativa che riguarda un’ambiziosa operazione
militare c’è la reale volontà politica di tutto il continente. Non è chiaro tuttavia se l’Africa – o
meglio l’Unione Africana- sia pronta ad agire con uguali pesi e misure in tutte le sue aree. In tal
senso gli avvenimenti del 2011 (la logica “dei due pesi e delle due misure” applicata dall’UA nei
confronti delle crisi libica e ivoriana) negherebbero tale possibilità.
76
Terzo ModuloL’AFRICA NELLA POLITICA INTERNAZIONALE
� I rapporti Unione Africana-Unione Europea
� I rapporti Africa-Cina
� I rapporti Africa-India
� I rapporti Africa-Giappone
� I rapporti Africa-Iran
� I rapporti Africa-Turchia
� I rapporti Africa-USA
� I rapporti Africa-Regno Unito
� I rapporti Africa-Francia
� I rapporti Africa-America Latina
� I rapporti Africa-Russia
� I rapporti Africa-Israele
77
LEZIONE N. 15-16“I RAPPORTI AFRICA-UNIONE EUROPEA”
Il rapporto Africa-Europa si presenta come un quadro frammentato, caratterizzato da una vicinanza
geografica, da complesse relazioni bilaterali post-coloniali e da interessi commerciali non sempre
convergenti.
Da un lato un continente frazionato dalla geografia (l’area a nord e quella sub-sahariana
rappresentano due mondi completamente diversi) e dalla storia (la presenza straniera ha inciso
notevolmente sulla divisione dei confini naturali) che con difficoltà ha costruito un percorso
unitario dalle ceneri delle indipendenze; dall’altro una potenza economica mondiale, che si è
costruita a partire da un decennio dal termine della seconda guerra mondiale, coagulando le forze
inizialmente di sei paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Lussemburgo, Belgio, Paesi Bassi),
ampliandosi nei decenni successivi a nord e a sud, quindi ad est dopo un quarantennio, sempre più
costretta a guardare oltre il Mediterraneo per garantire la sua sicurezza e il suo benessere.
Gli articoli 131-136 del trattato istitutivo della CEE nel 1957 sono alla base dei rapporti tra le due
entità. In particolare l’art. 131 recita:
“Gli Stati membri convengono di associare alla Comunità i paesi e i territori non europei che mantengono con il Belgio, la Francia, l’Italia e i paesi Bassi delle relazioni particolari. Questi paesi e territori, qui di seguito chiamati “paesi e territori”, sono enumerati nell’elenco che costituisce l’allegato IV del presente Trattato.Scopo dell’Associazione è di promuovere lo sviluppo economico e sociale dei paesi e territori e l’instaurazione di strette relazioni economiche tra essi e la comunità nel suo insieme.Conformemente ai principi enunciati nel preambolo del presente Trattato, l’associazione deve in primo luogo permettere di favorire gli interessi degli abitanti di questi paesi e territori e la loro prosperità in modo da condurli allo sviluppo economico, sociale e culturale che essi attendono”.
Facendo un percorso a ritroso nel tempo, una prima divisione sommaria e semplificatrice permette
di identificare i canali attraverso cui si è sviluppato il legame Africa-Europa:
- per quanto concerne i rapporti con i paesi nordafricani, il rapporto privilegiato strettamente
bilaterale è stato “messo a sistema” negli anni ’90 con la creazione del gruppo 5+5 (Francia, Italia,
Malta, Portogallo, Spagna per la parte europea e Algeria, Libia, Mauritania, Marocco, Tunisia per
la parte africana) ma soprattutto con il varo del processo partenariale di Barcellona (novembre
1995), finalizzato alla costruzione di un’area euro-mediterranea, comprensiva per quanto riguarda
l’oggetto del presente studio dei paesi maghrebini del nord Africa oltre che di quelli della sponda
orientale del Mashreq. La proposta francese dell’Unione per il Mediterraneo (luglio 2008) più che
78
facilitare ha ostacolato nei fatti il processo di raccordo tra le due sponde. L’acuirsi della crisi
mediorientale (2009-2011) nonchè la “primavera araba” del 2011 hanno comportato nell’ultimo
anno il congelamento delle iniziative Europa-Nord Africa.
- per quanto attiene i paesi sub-sahariani, l’Europa ha creato con essi un rapporto ad hoc.
Dapprima con la convenzione di Yaoundè (20 luglio 1963) aperta a 18 ex colonie cui venivano
offerte condizioni privilegiate; successivamente attraverso le quattro convenzioni di Lomé (1975,
1980, 1985, 1990) , e l’Accordo di Cotonou ( giugno 2000). Nel 1975 tutti i paesi africani vengono
inclusi nel gruppo degli ACP (Africa, Caraibi e Pacifico);
- per quanto riguarda il Sud Africa (considerato il colosso della regione australe ed un
protagonista indiscusso della scena continentale), l’Europa ha avuto un rapporto parallelo con tale
attore, concretizzatosi con il Trade and Development Agreement (firmato nel 1999 ed entrato in
vigore nel 2004), poi sfociato nella EU-South Africa Strategy nel 2007.
All’andamento tortuoso del rapporto con i paesi africani ha certamente contribuito la caduta del
muro di Berlino ed il crollo dell’impero sovietico con i suoi satelliti. Considerati un tempo dei
territori di retrovia, in cui si confrontavano indirettamente le forze del mondo occidentale e quelle
del blocco comunista orientale, nel periodo successivo al termine della Guerra Fredda i paesi
africani hanno perso valore aggiunto e sono stati abbandonati al loro destino. Il nuovo millennio,
con gli attentati alle Torri Gemelle, con l’economia globalizzata, la crisi dei rapporti tra mondo
occidentale e mondo islamico, li ha riportati drammaticamente alla ribalta. La “primavera araba”
del 2011 ha obbligato i partner europei a rivedere vecchie alleanze e a riflettere sui supporti dati ai
leader al potere negli ultimi 30 anni.
L’Africa oggi è un continente con cui l’Europa deve necessariamente costruire un percorso
congiunto, sia per motivi di sicurezza, sia per motivi strettamente economici, sia per esigenze
industriali.
A livello concettuale le relazioni sono variate nel tempo e si sono diversificate. Non si parla solo in
un’ottica di cooperazione allo sviluppo e di commercio: ora si lavora su un rapporto partenariale
con obblighi e responsabilità reciproche. Viene meno così il vecchio paternalismo dell’Europa
verso l’Africa.
Quello che è diventato chiaro è che non si può pensare a mantenere una posizione centrale europea
senza considerare le esigenze dell’Africa (da considerare un importante partner economico, ricco
di risorse energetiche, con cui vincere sfide globali), ma che d’altra parte non si può garantire lo
sviluppo di questo continente senza garantire il rispetto della legge, dei diritti umani e dei principi
che attengono alla good governance.
79
I vertice euro-africano (Il Cairo, 3-4 aprile 2000)
Il 2000 è stato indubbiamente l’anno di passaggio fondamentale nell’evoluzione dei rapporti
Africa-Europa, non tanto per riscontri concreti immediati quanto per il tipo di discorsi che si sono
iniziati a fare in quel periodo e per le dinamiche che si sono innescate a livello governativo e non.
In quello che è definito “black continent”, nel 2000 si fa strada il concetto di ownership, vale a dire
la presa di coscienza africana delle responsabilità locali, si pensa ormai al passaggio dall’OUA ad
una nuova struttura su modello della costruzione europea, capace di superare gli errori del passato
e di valorizzare i singoli apporti regionali, si raccolgono i frutti del vertice di Sirte del 1999
(fortemente voluto da Gheddafi) che punta alla costruzione degli Stati Uniti d’Africa.
Parallelamente nello stesso periodo, l’Europa si consolida e porta a frutto –faticosamente- i
processi per l’ampliamento ad est.
Al Cairo, il 3-4 aprile 2000 si incontrano per la prima volta i leaders di 52 paesi a sud del
Mediterraneo e quelli di 15 Stati membri europei. Gli argomenti da discutere sono numerosi, il
summit è di grande rilevanza mediatica ma al termine dei lavori appare come una kermesse per le
esternazioni dei soliti protagonisti e ancora una volta sono predominanti i vincoli dei legami
bilaterali.
Molto probabilmente l’evento soffre della mancanza di volontà di affrontare frontalmente i
problemi e dell’eccessivo tentativo di blandire il leader libico Gheddafi, tornato come protagonista
attivo sulla scena internazionale dopo lo sdoganamento dell’Aprile 1999. Il presidente della
Commissione europea, Romano Prodi, insiste nel dire che “il dialogo con la grande Giamahiria
libica deve essere più di un confronto” ed i leader europei inseguono il Colonnello per far
includere le compagnie petrolifere dei loro paesi nell’assegnazione delle commesse relative al
petrolio e gas libici.
Di fatto non si affrontano in modo risolutivo i veri nodi del rapporto, quali il peso del debito, la
debolezza degli investimenti esteri nel continente africano, rinviando a sedi appropriate la
discussione di tali tematiche.
I due documenti finali prodotti al termine dei lavori (Dichiarazione e Piano d’Azione) sono
retorici, fanno una foto della realtà ma non hanno la forza di proiettare lo sguardo verso il futuro e
se lo fanno vengono traditi dalle scelte politiche e da fattori contingenti degli anni a venire (il
riferimento è indubbiamente al terremoto prodotto nelle relazioni internazionali dall’11 settembre
2001).
Per quanto riguarda la Dichiarazione , si articola in una introduzione e 5 parti inerenti alla:
- cooperazione e integrazione economiche a livello regionale;
- integrazione dell’Africa nell’economia mondiale;
80
- diritti dell’uomo, principi e istituzioni democratici, buon governo e stato di diritto;
- consolidamento della pace, prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti;
- questioni relative allo sviluppo.
Il Piano d’Azione si sviluppa con un preambolo seguito da 6 capitoli:
- questioni economiche;
- integrazione dell’Africa nell’economia mondiale;
- diritti dell’uomo, principi ed istituzioni democratici, buon governo e stato di diritto;
- consolidamento della pace, prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti;
- questioni relative allo sviluppo
- meccanismo dei seguiti.
La retorica regna sovrana, laddove le parti si impegnano ad esempio “a rafforzare il sostegno al
processo di cooperazione e integrazioni regionali in Africa”, oppure “a favorire i programmi di
integrazione volti ad aumentare l’efficienza mediante l’eliminazione degli ostacoli agli scambi,
agli investimenti ed ai pagamenti transfrontalieri nonché a conseguire uno spazio economico
armonizzato” (punto 2. Piano d’Azione).
Si cerca di dare una nuova dimensione strategica alla partnership tra Africa e Europa in uno spirito
di uguaglianza, rispetto e cooperazione ma le intenzioni formali si arenano di fronte ai primi
ostacoli. Segno più evidente è lo slittamento dell’incontro dei capi di stato e di governo dal 2003 al
2007.
Obiettivi lodevoli quelli cui si fa riferimento ma non concreti. A chi attribuire la responsabilità di
ciò? Certamente ad entrambe le parti. I leader europei accusano il malfunzionamento dei sistemi
africani e puntano il dito sulla corruzione endemica senza pensare che essi stessi sono spesso
chiamati in causa in questo gioco alla dispersione delle risorse, a loro volta gli omologhi africani
continuano a chiedere soldi imputando i malesseri continentali agli effetti di catastrofi naturali o a
vecchi sfruttamenti, non pensando invece alla responsabilità della classe dirigente nella sottrazione
dei fondi pubblici destinati alla spesa sociale.
II vertice euro-africano (Lisbona 8-9 dicembre 2007)
L’incontro di Lisbona (8-9 dicembre 2007) rappresenta sia un punto di arrivo che di avvio. Di
arrivo poiché si situa all’interno di un percorso e ne è la tappa finale, di avvio perché inaugura
veramente una nuova era nei rapporti Europa-Africa.
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Gli anni che separano la conferenza portoghese da quella egiziana dell’aprile 2000 sono stati densi
di avvenimenti per entrambi i protagonisti: nel 2001 c’è stato il varo del Nepad (New Partnership
for African Development); nel 2002 i leader africani hanno inaugurato l’Unione Africana, le
organizzazioni regionali hanno acquistato una loro identità e un ruolo specifico nella mediazione di
alcuni conflitti regionali (in particolare l’ECOWAS); il Summit G8 di Kananaskis ha adottato
l’Africa Action Plan; nel febbraio 2004 è stata lanciata la Commissione Blair per l’Africa, che ha
prodotto un documento e lo ha reso noto nel marzo 2005; il G8 di Gleneagles del luglio 2005 ha
confermato l’impegno per il continente africano, garantendo la duplicazione dell’aiuto per il 2010,
la cancellazione del debito di 18 paesi più poveri nel mondo (di cui buona parte sono africani) ed
identificando l’African Partnership Forum come soggetto responsabile per monitorare il rispetto
degli impegni assunti; l’UE ha adottato nel dicembre 2005 una strategia specifica per l’Africa nel
maggio 2006 c’è stato il 6° meeting EU-Africa Ministerial Troika a Vienna e ad Addis Abeba
nell’ottobre successivo il meeting delle due Commissioni per monitorare l’evoluzione del processo
in atto. Tutte queste sono tappe determinanti per passare ad un vero rapporto tra partners di uguale
spessore, per superare una “logica top-down” (dall’alto verso il basso) e concordare ad una cd.
“joint strategy” (strategia congiunta).
Il vertice di Lisbona è una pietra miliare, un momento storico da cui si dipana un processo che
richiede trasparenza ed impegno da entrambe le parti, una nuova logica per affrontare sfide
transfrontaliere.
Per la prima volta si incontrano protagonisti di pari livello; l’Africa viene tratta come un
interlocutore unico e si presenta come tale; si fissano 8 settori tematici su cui lavorare
congiuntamente (pace e sicurezza; governance democratica e human rights; commercio,
integrazione regionale e infrastrutture; Millennium Development Goals; energia; climate change;
migrazione, mobilità, occupazione; scienza, società dell’informazione e spazio), al di là del solito
tema “aid and development”; viene presentato un Action Plan 2008-2010 con azioni prioritarie per
ogni singola area; vengono coinvolti anche attori non statali (attori economici del settore privato,
società civile, fondazioni, associazioni e agenzie specifiche, istituti di ricerca, uffici tecnici), con
un ruolo propositivo.
Gli africani si impegnano a superare la logica del vittimismo e della colpevolizzazione, a
identificare seriamente bisogni e a predisporre le forze in campo, lasciano alle spalle un
atteggiamento passivo e si pongono come partner reattivo e propulsivo; gli europei passano da una
logica di aiuto a pioggia ad un “lavoro con”.
Entrambe le parti sono consapevoli delle esperienze passate e consce della necessità di un nuovo
approccio programmatico, richiesto dalle sfide del mondo globalizzato.
82
Oltre a questo approccio programmatico e alla consapevolezza, emerge chiaramente la volontà di
una shared vision (vale a dire una visione condivisa).
Il punto 4 della Joint Strategy è chiaro al riguardo:
“The purpose of this Joint Strategy is to take the Africa-EU relationship to a new, strategic level with a strengthened political partnership and enhanced cooperation at all levels. The partnership will be based on a Euro-African consensus on values, common interests and common strategic objectives. This partnership should strive to bridge the development divide between Africa and Europe through the strengthening of economic cooperation and the promotion of sustainable development in both continents, living side by side in peace, security, prosperity, solidarity and human dignity”.
Quello che ruota all’esterno –la polemica relativa a Mugabe e Bashir, l’atteggiamento di rifiuto di
Gordon Brown nei confronti di Mugabe, gli annunci clamorosi di Gheddafi- ha poca importanza.
Per la prima volta si mette su carta un impegno ad andare oltre le barriere storiche, a dare un nuovo
impulso ad una relazione da sempre difficile, a rafforzare il dialogo ed indirizzarlo su un percorso
preciso. L’impegno preso comporta la volontà di fare fronte insieme a rischi comuni (terrorismo,
criminalità organizzata, traffico di esseri umani, pandemie), a raggiungere “common goals” (quali
sviluppo, stabilità e sicurezza), ad agire congiuntamente in molteplici settori (dall’ICT allo spazio,
dai diritti umani al cambiamento climatico).
L’Europa del XXImo secolo si pone in una prospettiva diversa rispetto all’Africa, consapevole
della presenza di altri players attivi nel continente (USA, Cina, Giappone, India, Malaysia,
Indonesia, Turchia), memore del fatto di essere ancora un protagonista degli interscambi
commerciali, certa di poter fornire un contributo originale nella formazione, convinta di poter
superare la logica di donor-ricevente e di poter intraprendere un percorso caratterizzato da sfide,
interessi e benefici futuri condivisibili.
III vertice euro-africano (Tripoli, 29-30 novembre 2010)
Il vertice di Tripoli (29-30 novembre 2010), focalizzato sul tema “Investimenti, crescita economica
e creazione di posti di lavoro”, porta alla luce le divergenze profonde tra i partner europei ed
africani, su temi importanti quali gli Accordi di Partneriato Economico (APE) ed il cambiamento
climatico. Anche se vengono prodotti due documenti ufficiali- una Dichiarazione Comune e un
Piano d’Azione 2011-2013- è palese l’ambiguità dei discorsi, l’incomprensione tra le parti, la
minaccia sempre pronta da parte di Gheddafi di trovare nuovi interlocutori al posto dell’Unione
Europea.
Nonostante il fatto che vengano ribaditi la determinazione dei presenti a cogliere nuove
opportunità e l’impegno per portare avanti il lavoro avviato nel 2000 al vertice del Cairo e
83
proseguito nel 2007 a Lisbona, manca la volontà di portare a compimento determinati progetti e di
fatto manca la determinazione per far avanzare un dialogo concreto. Il riferimento agli sforzi
concertati per mettere fino al conflitto in Somalia o alla cooperazione Unione Europea-Unione
Africana in ambito G20 ed Nazioni Unite sono pure formalità che rispondono ad un’esigenza degli
organizzatori, ma non di certo ai problemi concreti tra i due gruppi.
Lo stesso escamotage utilizzato per l’assenza di Omar El Bashir nei due giorni del Summit
(ritenuta inopportuna per il mandato d’arresto della Corte Internazionale di Giustizia, per crimini
di guerra e contro l’umanità in Darfur), e la sua successiva partecipazione alla riunione del
Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana alla fine dei lavori con gli europei, indica il
tentativo dei leader africani di continuare un loro percorso parallelo e di voler continuare a
proteggere -oltre l’evidenza- uomini simbolo per la storia africana (come ad es. El Bashir o
Mugabe) ma colpevoli di atti violenti e genocidi ari.
I problemi concreti, come ad es. il confronto franco sulle politiche migratorie o il lavoro per i
giovani, restano marginali; altri ancora come il traffico di stupefacenti non vengono neppure messi
sul tavolo delle discussioni. Si preferisce piuttosto condannare “qualsiasi cambiamento
incostituzionale di governo” ma non fare riferimento a questioni concrete.
Di fatto, al Summit prevalgono le pretese retoriche di Gheddafi (spesso confuse e disordinate, non
sempre condivise dagli altri partner africani come il Botswana) e non le linee di accorti “artigiani”
quale potrebbe dirsi Jean Ping (presidente della Commissione dell’Unione Africana, attento
diplomatico e uomo estremamente pragmatico), secondo il quale “nell’era della connessione
inestricabile delle economie nazionali, l’Africa resta determinata a consolidare con l’Europa
un’alleanza strategica”
Il bilancio del Summit è ambiguo, di certo insufficiente per affrontare le sfide che si pongono di
fronte ad Unione Africana ed Unione Europea nel settore lavoro, investimenti, economia e
sicurezza.
Più della Dichiarazione, risulta di qualche interesse il Piano d’Azione 2011-2013. Riconoscendo le
interdipendenze tra le due aree ed il lavoro promosso nel 2007 con la EU-Africa Joint Strategy, il
Piano focalizza l’attenzione sul funzionamento delle seguenti partnership:
- Pace e sicurezza
- Governance democratica e diritti umani
- Integrazione regionale, commercio e infrastrutture
- Millennium Development Goals (MDGs)
- Energia
- Cambiamento climatico e Ambiente
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- Migrazione, Mobilità ed Impiego
- Scienza, Società dell’Informazione e Spazio
Per quanto attiene le Politiche Migratorie vengono fatte affermazioni classiche ma poco
sostanziali, quali ad es.
“The Africa-EU Partnership on Migration, Mobility and Employment aims to provide
comprehensive responses to migration and employment challenges, in the interest of all
partners, and with a particular focus on creating more and better jobs for Africa, on
facilitating mobility and free movement of people in Africa and the EU, on better
managing legal migration between the two continents, on addressing the root causes of
migration and refugee flows, on the conditions of and access to employment, on the fair
treatment of all migrants under applicable international law, on finding concrete
solutions to problems posed by irregular migration flows and trafficking of human
beings and to ensure that migration and mobility work for development. All these
orientations should be addressed in a balanced and comprehensive way. These
objectives were already set out in the Action plan 2008-2010 and will continue to steer
this Partnership, also in the Action plan 2011-2013.(…)
(…) The new action plan will have two main strands: (1) enhancing dialogue, and (2)
identifying and implementing concrete actions, both of them encompassing the inter-
regional continental and intercontinental dimension of the partnership. The major
challenge for the period 2011-2013 will be to further strengthen and enrich the
political and policy dialogue on migration, mobility and employment as well as tertiary
education issues between the two continents, whilst encompassing dialogues and
cooperation taking place on national and regional levels.(…)
(…) In the area of employment, the dialogue will focus on strategies and initiatives
targeting job creation and sustainable and inclusive growth, acknowledging the role of
relevant stakeholders,including social partners and the private sector. Furthermore, the
dialogue will focus on the questions related to the implementation of the Ouagadougou
Action Plan and the global 'Decent Work Agenda' with special emphasis on the
creation of more, more productive and better jobs in Africa and the link to social
protection as well as to the informal and social economy.
Per ciò che concerne le iniziative specifiche e le attività, si rinvia a 12 proposte (tra cui:
un’iniziativa sul traffico umano, un osservatorio sulla migrazione, un’iniziativa sul mercato
del lavoro non meglio specificata, fora regionali e sub-regionali sul lavoro, un’Università
85
panafricana) attribuendo ad un gruppo di lavoro congiunto di monitorare l’implementazione
dell’Action Plan e valutare i risultati raggiunti.
I cambiamenti avvenuti nell’area nord africana nel 2011 inevitabilmente “indirizzeranno e forse
faciliteranno” i lavori del prossimo Summit EU-Unione Africana previsto per il 2013 in Belgio.
Tuttavia, in tale frangente, l’Europa sarà chiamata a mostrare lungimiranza politica e anche ad
accettare cambiamenti politici poco convincenti (il riferimento è ai risultati delle elezioni egiziane
e tunisine), che potrebbero creare sconcerto o mettere a rischio rapporti bilaterali preferenziali
consolidati nel tempo.
86
LEZIONE N. 17-18-19-20
LEZIONE N. 17I RAPPORTI AFRICA-CINA (1/4)Negli ultimi anni si sono moltiplicati i contatti politici e commerciali tra il continente africano e gli
attori del’estremo oriente asiatico. Cina, India, Giappone in poco tempo hanno acquisito uno “status
preferenziale” nei rapporti con i singoli paesi e con l’intera regione nel suo insieme, in nome di una
rafforzata cooperazione Sud-Sud e di un concreto sviluppo di interessi reciproci. Ad essi si
potrebbero aggiungere anche Malaysia, Indonesia, Corea del Nord e Corea del Sud che hanno
promosso approcci ugualmente significativi anche se di minor rilievo.
Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non sono più controparti indiscutibili con cui promuovere
affari e sperimentare nuovi partenariati. I legami sempre più frequenti e qualificati con nuovi i
interlocutori dell’estremo oriente aprono oggi un ventaglio di possibilità per l’Africa, chiamata a
decidere in prima persona per il proprio futuro, a selezionare partners con cui fare affari e gettare le
basi per uno sviluppo sostenibile nel tempo.
Come si qualificano le relazioni con i players orientali? Ci sono delle differenze di approccio nelle
varie linee politiche messe in atto? Quanto può essere pericoloso il “drago cinese”? Pechino è il
protagonista capace di gestire il nuovo “scramble for Africa” del XXI secolo oppure questa è una
diceria malevola, basata sulle supposizioni di esperti eccessivamente pessimisti? Le possibilità
offerte al black continent da India e Giappone possono essere più costruttive sul lungo periodo?
Scopo delle prossime lezioni è quello di analizzare brevemente il contesto delle relazioni afro-
asiatiche ed evidenziare gli elementi salienti della suddetta cooperazione.
Cina -Africa: una reale win-win situation?
Mentre la dirigenza di Pechino promuove con insistenza la tesi di una win-win situation tra paesi in
via di sviluppo, sono in molti gli esperti che cercano di allertare le leadership africane circa il reale
rischio proveniente dall’estremo oriente circa una rinnovata forma di imperialismo nel XXI secolo.
Effettivamente sono sempre più evidenti i segnali di una costante influenza -o meglio, di una
crescente interferenza- della Cina nelle questioni locali. In cambio di cash, prestiti a basso tasso di
interesse o donazioni, il “drago” si assicura l’acquisizione di risorse energetiche essenziali per il suo
sviluppo industriale. In realtà il petrolio è solo uno dei fattori di interesse: rame, carbone, gas,
legno, alluminio, ferro, metalli preziosi sono ulteriori risorse indispensabili per proiettare in modo
vincente il competitor asiatico nell’economia globalizzata.
In quale modo è possibile spiegare e comprendere questo connubio? Dietro di esso si nasconde una
precisa strategia? Quali i protagonisti dello slancio di Pechino?
87
Diversi sono i fattori che accomunano i 54 partner africani ed il player orientale, fattori che
possono leggersi nel passato, nel presente e nel futuro e che concorrono a delineare un quadro ben
definito:
- esperienze coloniali che hanno indubbiamente forgiato una sensibilità comune;
- reciproco disinteresse mostrato in particolare da alcuni governanti circa il rispetto della
democrazia;
- incontro tra domanda africana e offerta cinese (il vasto spazio africano rappresenta per la
quantità e la tipologia, un mercato attraente per prodotti cinesi a basso costo e di bassa
qualità);
- necessità economiche convergenti: l’elemento energetico, disponibile in grandi quantità in
Sudan, Angola, Gabon e Nigeria rende questi paesi particolarmente attraenti agli occhi di
Pechino, o meglio delle compagnie petrolifere come la China National Petroleum
Corporation (CNPC);
- volontà di far pesare il numero dei paesi in via di sviluppo nei grandi fora internazionali, di
sottolineare le loro esigenze e affermare i loro diritti, permettendo l’affermazione di un
nuovo ordine internazionale.
Fondamentali per varare programmi appaiono gli scambi di visita ufficiali di alte personalità dello
Stato (presidente e premier, responsabili dei dicasteri degli esteri, della difesa, degli affari
economici, della cooperazione) o, dei leader dei partiti al governo.
In tal senso è interessante notare che dal 1963 al settembre 2004, 92 esponenti cinesi hanno svolto
149 missioni in Africa; 459 personalità africane di 51 Stati hanno svolto 609 visite in Cina.
Da parte cinese sono stati determinanti alcuni passaggi storici: il periplo di Chou En Lai in 10 Stati
africani (dicembre 1963/gennaio 1964); la visita del Presidente Jang Ze Min in 6 Stati (maggio
1996); la visita del Presidente Hu Jintao in Egitto, Gabon e Algeria (29 gennaio-4 febbraio 2004), la
missione del Premier Wen Jabao in Egitto, Ghana, Congo, Angola, Uganda, Tanzania, Sud Africa
(18-24 giugno 2006). Tappe formali, a cui sono seguiti momenti d’incontro sostanziali con firma di
accordi di cooperazione (come ad es. la visita del vice Premier, Zeng Peijang, in Angola in
occasione della quale sono stati firmati 9 accordi di cooperazione il 24-26 febbraio 2005).
Non a caso è ormai istituzionalizzata a inizio anno la prima tappa all’estero del Ministro degli Esteri
cinesi nel continente africano, proprio ad indicare l’importanza riconosciuta al continente
dall’amministrazione cinese.
88
Per maggior chiarezza può essere utile un quadro dettagliato di alcune delle visite più significative
dal 2006 considerato l’Anno della Cina in Africa ad oggi:
2006 “Anno della Cina in Africa”
-Visita del Ministro Esteri Li Zhaoxing in Capo Verde, Senegal, Liberia, Mali, Nigeria, Libia (15-22 gennaio 2006)
-Visita del Presidente Hu Jintao in Marocco, Nigeria, Kenya (24-29 aprile 2006)
-Premier Wen Jabao in Egitto, Ghana, Congo, Angola, Uganda, Tanzania, Sud Africa (18-24 giugno 2006)
2007
-Visita del Ministro Esteri Li Zhaoxing in Benin, Guinea Equatoriale, Guinea Bissau, Ciad, Repubblica Centrafricana,
Eritrea e Botswana (gennaio 2007)
- Visita del Presidente Hu Jintao in Cameroon, Liberia, Sudan, Zambia, Namibia, Sud Africa, Mozambico, Seychelles
(febbraio 2007)
2008
- Ministro Esteri Yang Jeichi ha effettuato tour diplomatico (7-11 gennaio 2008) con la visita in Sud Africa, RDC,
Burundi ed Etiopia
2009
-Visita del Ministro del Commercio Chen Deming in Kenya, Zambia, Angola (12-19 gennaio)
-Visita del Ministro Esteri Yang Jiechi in Malawi (13-21 gennaio) in Uganda, Rwanda, Malawi, Sud Africa
- Visita del Presidente Hu Jintao in Mali, Senegal, Tanzania e Mauritius (10-17 Febbraio)
2010
-Visita del Ministro degli Esteri Yang Jeichi in Kenya, Nigeria Sierra Leone, Algeria e Marocco (5-14 gennaio)
2011
- Visita del Ministro degli Esteri Yang Jeichi in Zimbabwe, Gabon, Chad , Guinea e Togo (9-16 febbraio)
Come anticipato precedentemente, sono molteplici gli interessi della Cina in Africa e quindi viene
svolta un’azione incisiva a largo raggio. Politica ed economia si supportano vicendevolmente per
rendere effettiva la tanto decantata cooperazione sud-sud.
Qualora si volessero identificare nel dettaglio i protagonisti dell’azione cinese in Africa, si può fare
una prima distinzione tra attori governativi e non governativi.
Dal punto di vista istituzionale, è stata significativa la strategia promossa negli ultimi anni dal
binomio Ju Hintao e Wen Jabao, coadiuvato dai vari ministri degli esteri Yang Jiechi e del
commercio Chen Deming.
Se questi sono i responsabili politici cinesi, i veri artigiani e responsabili del rafforzamento delle
relazioni sino-africane sono indubbiamente i tecnici delle direzioni competenti presso il Ministero
degli Esteri cinese, l’ex Direttrice Xu Jinghu, l’ex Direttore del Dipartimento Africa Zhang Ming e
l’attuale Direttore del Dipartimento Africa Lu Shaye.
89
In tale excursus non si può poi dimenticare il supporto fornito dall’Università di Pechino e da alcuni
think thank specializzati nelle relazioni internazionali. In tal senso è fondamentale il ruolo di He
Wenping, Direttrice del Dipartimento Studi Africani all’Accademia delle Scienze Sociali di
Pechino.
Altro protagonista di rilievo il Partito Comunista Cinese, in particolare il suo ufficio di affari
internazionali. La lotta per l’indipendenza è stata un collante valido per gettare le basi per
un’amicizia duratura e costruttiva.
C’è poi la parte imprenditoriale: quella delle compagnie di Stato (China National Petroleum
Corporation - CNPC, China Petrochemical Corporation SINOPEC, China State Construction
Engineering Corporation - CSCEC, China National Machinery and Equipment Corporation
-CNMEC) e degli imprenditori privati che si sono affermati recentemente.
Quale la strategia nel corso degli anni della collaborazione sino-africana e -soprattutto- in cosa
consiste?
Si possono distinguere alcuni momenti fondamentali, che si sono evoluti con l’andare del tempo.
Negli anni ’60 c’è stato soprattutto un interesse politico da parte di Pechino, animato dal supporto ai
movimenti per la liberazione contro il padrone coloniale occidentale; negli anni ’80 c’è stata una
trasformazione, spinta dall’interesse economico in virtù della nascente forza industriale cinese; nel
decennio successivo, in virtù dell’inserimento di Pechino in mercati abbandonati dalle potenze
occidentali, c’è stato l’ancoraggio al continente africano con l’aggancio ai paesi petroliferi; a partire
dal 2000 è iniziata la 4a fase, caratterizzata dalla diretta concorrenza ai giganti economici
occidentali e dalla presenza capillare e multiforme nel continente africano.
Gli scambi commerciali, segnale evidente di un rafforzamento delle relazioni tra attori
internazionali e più che altro di una convergenza di interessi sono passati da 817 milioni di dollari
nel 1979 a 10 miliardi di dollari nel 2000, giungendo a 127 miliardi di dollari nel 2010.
Relazioni Cina-Africa in Cifre – Commercio (1950-2010)
- Nel 2005, applicazione della “tariffa 0” per 190 prodotti esportati da 28 paesi- Creazione di una Camera di Commercio a Pechino- Scambi commerciali in $1950…………………………………………………………………...12 milioni di $1979………………………………………………………..…..……….817 milioni $2000………………………………………………………..….………..10 miliardi $2002……………………………………………………………………..12 miliardi $2004………………………………………………………….……….....29,5 miliardi $2005 ………………………………………………………….…………39, 6 miliardi $2006………………………………………………………………..……55 miliardi $
2007……………………………………………………………..………72,6 miliardi $ 2008……………………………………………………….…..……..….106, 8 miliardi $ 2010……………..……………………………………………….……….127 miliardi $
90
Per quanto riguarda gli investimenti diretti cinesi in Africa12, vero indicatore di una politica di lungo
respiro e prospettiva, la quota risulta deludente, considerata rispetto a quanto investito ad esempio
in USA nello stesso periodo.
Secondo dati UNCTAD, alla fine del 2005 il totale degli IDE cinesi in Africa era di 1,3 miliardi di
dollari e secondo fonti del Ministero del Commercio Estero cinese nel 2007 gli IDE sarebbero stati
pari a 6,64 miliardi di dollari tra il 2000 ed il 2007.
Cifra questa che induce a qualche perplessità rispetto all’azione diplomatica pressante dell’ultimo
ventennio.
12 Vedasi: “ASIAN FOREIGN DIRECT INVESTMENT IN AFRICA: Towards a New Era of Cooperation among Developing Countries”, http://www.unctad.org/Templates/Webflyer.asp?intItemID=1397&docID=8120
91
LEZIONE N. 18
I RAPPORTI AFRICA-CINA (2/4)Quali sono i partner strategici di Pechino? Quale la condizione di base per cui si possa sviluppare
la win win situation? Come si è struttura la cooperazione sino Africana?
Nella dialettica Cina-Africa, le controparti sono logicamente i vari capi di stato africano, conosciuti
per il loro attaccamento al potere, particolarmente noti per gestire dei regimi dispotici; leader
criticati per le modalità con cui vengono affrontate le crisi interne; ribelli nei confronti dei legami
francofoni o -all’opposto- fedeli alleati di Parigi .
In tale contesto spiccano alcuni partners africani “strategici”: Sudan, Angola, Zimbabwe
Sud Africa, Nigeria sono divenuti ormai interlocutori privilegiati con cui promuovere affari e con
cui “fare blocco” alle Nazioni Unite.
Nel 2008, l’interscambio con l’Angola è aumentato del 79,3% rispetto al 2007 e si è attestato su
25,3 miliardi di dollari; con il Sud Africa si è registrato un aumento del 26,9 % rispetto all’anno
precedente con un valore pari a 17,8 miliardi $; con la Nigeria si sono raggiunti 7,2 miliardi $ (+
43,3% rispetto a 2007 ) mentre con il Sudan il valore delle merci scambiate è stato di 8,1 miliardi $
(+ 43,3% rispetto a 2007).
Per il Sudan, lo special envoy Amb Liu Gujin, ha seguito con attenzione sia il processo del Darfur,
sia l’indipendenza del Sud Sudan e attualmente è molto attento a seguire la risoluzione della disputa
petrolifera tra le due regioni.
Il riconoscimento di una sola Cina è elemento fondante della collaborazione, anche se tale principio
si sta ammorbidendo nell’ottica di “inglobare” gli ultimi partners restii e isolare definitivamente
l’isola ribelle, riconosciuta al momento da soli 23 paesi a livello mondiale.
Al momento sono considerati al di fuori dei rapporti privilegiati quattro paesi che continuano ad
avere relazioni con Taiwan:
- Gambia
- Swaziland
- Burkina Faso
- Sao Tomè
92
I leader cinesi hanno pensato ad un’architettura particolare, quella di un forum Cina-Africa
(FORUM ON CHINA-AFRICA COOPERATION - FOCAC ), un grande contenitore in cui si
gestiscono le molteplici tematiche d’interesse, una piattaforma per promuovere una consultazione
collettiva, rafforzare il dialogo e sviluppare meccanismi di cooperazione.
Secondo gli ideatori cinesi, i principi fondamentali sono la cooperazione pragmatica, l’uguaglianza
e il mutuo beneficio.
Si sono già svolti 4 Forum:
1° Forum Cina-Africa (10-12 ottobre 2000)
2° Forum Cina-Africa (15-16 dicembre 2003)
3° Forum Cina-Africa (3-5 novembre 2006).
4° Forum Cina-Africa (8-9 novembre 2009)
5° Forum Cina-Africa (previsto per 2012)
Il 3° Forum in particolare ha avuto un grandissimo rilievo e ha sancito definitivamente un’alleanza
sul lungo periodo tra Pechino e i partecipanti africani. L’invito e la grande adesione di presidenti e
capi del governo ha permesso di dare massima ufficialità all’incontro, configurandolo come il 1°
Summit sino-africano.
La Dichiarazione finale ed il Piano d’Azione (2007-2009) adottati al termine dei lavori, hanno
sancito una win-win situation, concretizzata dalla stipula di importanti contratti commerciali per un
valore globale di quasi 2 miliardi di dollari e nell’impegno assunto per raddoppiare il volume degli
scambi commerciali e accrescerli fino a 100 miliardi di dollari nel 2010 (obiettivo già superato nel
2008)
Impegni assunti in occasione del 3° Forum Cina-Africa (3-5 novembre 2006)
• 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali•2 miliardi di dollari in crediti all’esportazione•Fondo di 5 miliardi di dollari per impresi cinesi che investono nel continente•Costruzione di un Centro Congressuale per UA•Cancellazione dei debiti dei Paesi HIPC tra quelli che riconoscono “una sola Cina”•250+190 beni esonerati da ogni tipo di tassa esportazione•Creazione di 5 zone di cooperazione economica e commerciale in Africa•Raddoppio Borse di studio per studenti africani (dai 2000 a 4000 studenti africani in Cina)•Impegno per Training di 15000 professionisti•Invio di 100 senior esperti in ambito agricolo•Costruzione di 30 ospedali e 30 centri di prevenzione e cura della malaria•Costruzione di 100 scuole rurali in Africa
93
•Impegno per portare scambi commerciali a 100 miliardi dollari nel 2010•Cancellazione del debito dei paesi HIPC (Heavily Indebted Poor Countries) e LPD (Least Developed Countries)
Di grande importanza per l’evoluzione dei programmi promossi in ambito FOCAC, è stato il
documento “China-Africa Policy Paper” (12 gennaio 2006) che ha fissato le linee guida della
collaborazione nel XXI secolo.
Per quanto attiene il 4° Forum, dedicato al tema: “Deepening the new type of China-Africa
Strategic Partnership for sustainable development”, ha fornito l’occasione formale per “rinnovare
l’amicizia” delle due parti, per dimostrare che tutti gli impegni assunti nell’ultimo vertice del
novembre 2006 sono stati rispettati, per esaltare i dati della win win situation, tuttavia sono emersi
anche dei fattori interessanti da prendere in considerazione in un’ottica di lungo periodo.
La Dichiarazione finale ed il Piano d’Azione 2010-2012 indicano un percorso preciso, a cui tener
fede nonostante la crisi economico-finanziaria globale.
Politica, economia, cooperazione allo sviluppo, scambi culturali: ogni settore è monitorato con
attenzione. La Cina continua a sostenere finanziariamente il continente.
Tale supporto si traduce in alcune misure specifiche:
- prestito di 10 miliardi di dollari a un basso tasso d’interesse,
- training per 20.000 addetti in diversi settori
- costruzione di 50 scuole di amicizia,
- la concessione di un rilevante numero di borse di studio (5.500 entro il 2012)
- cancellazione dei debiti maturati entro la fine del 2009,
- fondo di un miliardo di dollari destinato a concedere prestiti alle piccole e medie imprese
locali,
- eliminazione graduale dei diritti di dogana sul 95% delle importazioni provenienti dai paesi
africani meno avanzati.
L’impegno congiunto nel documento viene assicurato nella richiesta per un equo bilanciamento del
G20, nel supporto di riforme che rendano le Nazioni Unite più efficienti e le istituzioni finanziarie
internazionali maggiormente inclusive. Il raggiungimento dei Millennium Development Goals
(MDGs), la tutela dell’ambiente, la lotta al cambiamento climatico, lo sforzo per il progresso della
scienza e della tecnologia sono altrettanti capitoli su cui esercitare un coordinamento delle
posizioni.
94
Nel caso della protezione dell’ecosistema e della biodiversità, se è apprezzabile l’impegno
innovativo - sfortunatamente - esso risulta tuttavia formale, poiché sono ben note le responsabilità
delle industrie cinesi, accusate da organizzazioni non governative ambientaliste di provocare
l’inquinamento delle falde idriche africane (attraverso lo scarico di sostanze nocive nelle acque) o di
promuovere un disboscamento selvaggio.
Quali gli elementi negativi della collaborazione?
La presenza cinese infatti comporta non solo “cash” e aiuti per la cooperazione ma anche divisione
e sbilanciamento interno.
In tal senso si può parlare di problemi arrecati alla sopravvivenza delle piccole industrie locali
africane e vendita dei prodotti africani, messe in serio pericolo dall’ immissione sul mercato locale
di prodotti a basso costo e molto spesso scadenti.
C’è poi il rischio di una disoccupazione locale africana in aumento a causa della presenza di
lavoratori cinesi portati dalla madre patria (operai regolari e irregolari, a volte anche fuoriusciti
dalle prigioni).
Non si possono inoltre ignorare i problemi legati all’inquinamento ambientale, causati da una
deforestazione selvaggia (in Gabon, Repubblica Democratica del Congo e Ghana), oppure dalla
produzione industriale incurante dell’emissione di gas nocivi. Anche per il settore ittico la forzata
razzia delle risorse potrebbe arrecare gravi danni all’ecosistema africano in un prossimo futuro.
Infine l’impatto maggiore dell’attivismo cinese si traduce troppo spesso in creazione di rendite tra le
classi dirigenti africane, favorendo la pratica della corruzione per non parlare della scarsa
trasparenza nella gestione di contratti miliardari che finisce per incentivare pratiche che allontanano
i paesi africani dalla good governance.
ELEMENTI NEGATIVI DELLA COLLABORAZIONE SINO-AFRICANA
•Sopravvivenza delle piccole industrie locali africane e vendita dei prodotti africani
•Disoccupazione locale africana in aumento a causa di presenza lavoratori cinesi
•Problemi inquinamento ambientale
•Rendite a classi dirigenti corrotte
•Scarsa trasparenza negli affari
Alla luce di questi elementi, la Cina rappresenta un’opportunità per la rinascita africana
oppure è la riproposizione di nuovo “padrone“ interessato a depredare le ricchezze africane?
95
L’esperienza induce a credere che la realtà sia nel mezzo e che non possa essere demonizzata
l’azione cinese come anche non possa essere considerata esclusivamente arricchente per il
continente africano.
Trattare con la Cina oggi può considerarsi un ottimo affare per molti governi africani ma è
importante un atteggiamento critico e responsabile, capace di porre dei freni all’insistenza e di
rispondere negativamente ad eventuali diktat di Pechino. Il secondo passo è poi quello dell’utilizzo
proficuo delle risorse, così che da creare un ciclo virtuoso economico-finanziario. Alla luce del
contesto specifico, sulla base dei dati forniti da prestigiose ONG specializzate su cattiva gestione
dei fondi e corruzione, tale step appare ancor più di difficile realizzazione rispetto al precedente.
Recentemente l’Africa ha iniziato a far sentire i suoi dubbi ed il suo malcontento, non più attraverso
lo sciopero nelle miniere (come accaduto in Zambia) o attraverso la voce dei sindacati del settore
tessile(vedasi caso specifico in Sud Africa) .
I dubbi sono espressi ad alto livello. In tal senso si può ricordare l’affermazione di René N’Guetta
Kouassi (capo del dipartimento affari economici dell’Unione Africana) fatta nel settembre 2009
secondo cui “Africa must not jump blindly from one type of neo-colonialism into Chinese-style neo-
colonialism”. Tale atteggiamento è in pieno contrasto con l’entusiasmo e la cieca fiducia che
serpeggiavano in occasione del varo del I FOCAC nel 2000. Non è di poco conto questa
consapevolezza, poiché negli anni passati è apparso un atteggiamento remissivo dall’interno.
L’Africa è stata reattiva, non attiva. L’Africa ha risposto alle avances cinesi, applaudendo
all’intraprendenza orientale e svendendo parallelamente le proprie risorse naturali.
96
LEZIONE N. 19-20
“I RAPPORTI AFRICA-CINA” (3/4 e 4/4)
IN VIA DI DEFINIZIONE
97
LEZIONE N. 21-22
“I RAPPORTI AFRICA-INDIA”
Un nuovo partner si delinea, silenzioso ma efficace, sulla scena africana: l’India. Non solo dunque
all’orizzonte le richieste e le offerte di Stati Uniti, Cina, Europa, Giappone, Russia ma anche le
proposte da parte del colosso asiatico subcontinentale.
Diverse le direttrici su cui si sono strutturate le relazioni: l’Indian Ocean Rim Association for
Regional Cooperation (IOR-ARC), l’inziativa India-Brasile-Sud Africa (IBSA), il Forum India-
Africa.
Quale l’origine di questo rapporto “apparentemente” nuovo? Come si sta sviluppando? A difesa nei
confronti di chi? A vantaggio di chi? Potrebbe essere questo il vero binomio per innescare
meccanismi virtuosi volti ad una crescita del continente africano, veritiera e sostenibile nel tempo?
I primi segnali possono essere certamente riconosciuti nei legami creati in occasione della
Conferenza di Bandung, arricchiti poi dal sostegno fornito da Nuova Delhi ai movimenti di
liberazione e alla lotta contro l’apartheid del regime bianco di Città del Capo e Pretoria.
E’ tuttavia con gli anni ’90, con l’affermazione di una forte industria nazionale indiana bisognosa di
energia, petrolio e gas che si sono rafforzate le interdipendenze. Non solo. Sarebbe ingiusto non
riconoscere il ruolo di una potenza coloniale in comune che ha tessuto un simile background e
quello della diaspora asiatica, la presenza di una numerosa comunità nelle isole e nei Paesi africani
bagnati dall’Oceano Indiano. Tanzania, Kenya, Mozambico, Sud Africa e Madagascar
rappresentano un terreno in cui sono miscelate culture e tradizioni indo-africane.
98
E’ proprio su questo humus culturale che si basa l’Indian Ocean Rim Association for Regional
Cooperation. Promossa nel 1990 dal ministro degli Esteri sud africano Pik Botha e poi supportata
dal presidente Mandela nel ‘94- ‘95, l’idea venne fatta propria dai governanti indiani sia perché
dopo il crollo dell’Unione Sovietica sentivano necessario un ricollocamento del Paese nel nascente
mondo multipolare, sia perché vedevano crescere una rivalità con il Pakistan all’interno del South
Asian Association for Regional Cooperation (SAARC), sia perché dovevano rispondere al rifiuto di
partecipazione all’Asia Pacific Economic Cooperation Group (APEC). Dove promuovere
collaborazioni se non nell’Oceano Indiano, considerato il back yard e al tempo stesso lo spazio
vitale per esternare le proprie potenzialità ed espandere il proprio mercato? Tra i primi membri
sostenitori nel 1995 si distinsero Kenya, Mauritius, Sud Africa.
Ad essi poi se ne aggiunsero altri fino ad arrivare all’attuale numero di 19 Stati aderenti
all’iniziativa13. L’iniziativa è stata lanciata formalmente nel marzo 1997.
Seppur meritevole come progetto, sfortunatamente nel tempo si è andato affievolendo l’interesse
iniziale e ad oggi non sembrano riscontrarsi risultati eclatanti. Diverse esigenze esterne si sono
sovrapposte negli anni, come ad esempio l’impegno di Mbeki per progetti continentali e regionali,
quali il varo dell’Unione Africana, della New Partnership for African Development, il
rafforzamento della Southern African Development Community (SADC). A ciò si aggiunga, come
notato dal noto studioso Alex Vines in un articolo pubblicato dalla Chatam House nell’aprile 2008,
l’assenza di un marcato coordinamento tra il Working Group ed i capi delle singole missioni
diplomatiche, la mancanza di uno staff tecnico capace di imprimere un processo dinamico nel
Segretariato Generale, la scarsa programmazione di meeting regionali annuali.
L’eterogeneità dei partecipanti non ha favorito il raggiungimento di obiettivi comuni, tuttavia
proprio nella molteplicità degli attori (dal Bangladesh all’Iran, dall’Australia all’Oman) deve essere
vista al tempo stesso la ricchezza del processo in atto.
Più ristretto di numero e più concreto il Forum IBSA. L’incontro del G8 di Evian nel 2003 ha dato il
via ad una cooperazione triangolare tra India-Brasile e Sud Africa. A Brasilia nel giugno 2003
l’incontro dei ministri degli Esteri ha sancito l’avvio di una collaborazione sud-sud tra attori
rilevanti. E’ chiara la convergenza di interessi: l’India sembra orientata a confrontarsi con potenze
continentali forti, con leader impegnati a 360° quali Thabo Mbeki e Jacob Zuma (per il Sud Africa),
Luis Inacio e Delma Youssef (per il Brasile) da Silva, ma ancor più appare interessata a lavorare
congiuntamente su progetti di alta tecnologia industriale; il Brasile si propone di rafforzare la sua
13 Attualmente fanno parte dell’Organizzazione: Australia, Bangladesh, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia,Iran, Kenya, Madagascar, Malaysia, Mauritius, Mozambico, Oman, Singapore, Seychelles, Sud Africa, SriLanka, Tanzania, Thailandia, Yemen.
99
immagine al di là dell’America Latina e di sperimentare nuove linee politiche commerciali; il Sud
Africa cerca un partner alternativo alla Cina, potenza con cui inizia a ravvisare i primi attriti.
L’obiettivo comune è quello dell’impegno per la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite e per l’ampliamento del G8 a nuovi partners (in particolare Brasile, Cina, India, Messico e
Sud Africa). Fare fronte comune nella più grande organizzazione mondiale ed entrare tra le grandi
potenze economiche del pianeta sono le due direttrici per rispondere alle sfide della globalizzazione
e non sopperire dinnanzi ad esse. Altra esigenza evidente risulta quella di implementare il
commercio trilaterale,
Ad oggi si sono svolti 5 summit IBSA (settembre 2006 a Brasilia, ottobre 2007 a Pretoria, ottobre
2008 a New Delhi, aprile 2010 a Brasilia, ottobre 2011 a Pretoria).
La cooperazione riguarda il settore agricolo, commerciale14, educativo, energetico, scientifico e
tecnologico, commerciale e dei trasporti. E’ al vaglio l’ampliamento al reparto sanitario e a quello
della difesa.
II IBSA Summit nel 2007 V IBSA Summit 2011
Canale preferenziale è indubbiamente il Forum India-Africa. Il primo India-Africa Forum Summit
(IAFS) si è svolto l’8-9 aprile 2008 a New Delhi. Ad esso hanno partecipato 14 capi di Stato
africani, tra cui quelli di Etiopia, Ghana, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Sud
Africa, Tanzania, Uganda, oltre a vice presidenti ed esponenti governativi di alto rango.
In occasione del Summit sono stati adottati due documenti: la Dichiarazione di Delhi ed il
Framework per la Cooperazione. Se la Dichiarazione rappresentava un atto politico di grande
lucidità in cui si registravano posizioni comuni per la riforma delle Nazioni Unite (elemento chiave
e sempre presente), per la difesa dell’ambiente, per l’approccio alle scelte promosse in ambito WTO
nonché per un impegno comune contro il terrorismo internazionale, il Framework disegnava invece 14 Si specifica che il commercio trilaterale è passato da 2,6 mlrd di US$ nel 2002 a 11,9 mlrd di US$ nel 2009
100
nuovi spazi per un lavoro congiunto tra pari con grande lungimiranza e prospettiva d’insieme. Sette
erano i capitoli su cui veniva rilanciata un’azione sinergica: cooperazione economica (nei settori
dell’Agricoltura, del Commercio, degli Investimenti, delle Piccole e Medie Imprese), cooperazione
politica (indirizzata alla pace e alla sicurezza, al ruolo della società civile e a quello della good
governance), Scienza e Tecnologia (rivolta per lo più all’Information and Communication
Technology-ICT), cooperazione nello sviluppo sociale (diretta a educazione, acqua e sanità, cultura
e sport, sradicamento della povertà), Turismo, Infrastrutture, Media e Comunicazione.
All’insegna del pragmatismo e della concretezza, il primo ministro indiano Manmohan Singh
nell’occasione del I Forum annunciò un regime di preferenze tariffarie (Duty Free Tariff Preference
Scheme) per le esportazioni di 50 Paesi meno sviluppati (di cui 34 africani) ed il raddoppiamento
del volume dei crediti dai 2,15 miliardi di dollari a 5,4 miliardi di dollari nel quinquennio
successivo.
L’obiettivo del Forum era quello di raddoppiare nel giro di pochi anni gli scambi commerciali, che
nel 2008 si attestavano sui 30 miliardi di dollari15.
Il II India Africa Forum Summit (II IAFS) si è svolto il 24-25 maggio 2011. L’evento, focalizzato
sul tema “Per un partenariato rafforzato: una visione condivisa”, si è svolto ad Addis Abeba. Nella
dichiarazione finale le parti hanno riaffermato “il loro impegno per il multilateralismo ed il
rafforzamento della struttura democratica delle Nazioni Unite per accrescere la partecipazione dei
paesi in via di sviluppo al processo decisionale” ed hanno anche insistito per il rafforzamento
Africa-India nell’ambito del G77; hanno sottolineato l’importanza cruciale di una riforma urgente e
globale delle Nazioni Unite; hanno condannato il terrorismo sotto ogni forma e manifestazione;
hanno riconosciuto l’importanza di focalizzare le forze sulla minaccia posta dalla pirateria al largo
delle coste somale ed hanno chiamato alla cooperazione tutti gli Stati; hanno sottolineato la volontà
di andare oltre i legami bilaterali e rafforzare i partenariati anche a livello di Unione Africana e
organizzazioni regionali; hanno stabilito che il III IAF Summit si svolgerà in India nel 2014.
15 Si ricorda che il commercio bilaterale India Africa è passato da 25 mlrd di US $ nel 2006-2007 a 53,3 mlrd di US$ nel 2010-2011 secondo quanto dichiarato da Rajiv Kumar (Segretario Generale della Federation of Indian Chambers of Commerce and Industry (Ficci) all’ India-Africa Business Partnership Summit del 12-13 ottobre 2011 a Hyederabad. In particolare, le esportazioni indiane verso l’Africa sono passate da 10,3 mlrd di US$ nel 2006-2007 a 21,1, mlrd di US$ nel 2010-2011 ; le importazioni indiane dall’Africa sono passate da 14,7 mlrd US$ nel 2006-2007 a 32,2 mlrd US$ nel 2010-2011. L’obiettivo è quello di raddoppiare i 53 mlrd US$ nei prossimi 5 anni.
101
I IFSA Summit 2008 II IFSA Summit 2011
Tecnologia e farmaci indiani a basso costo contro petrolio africano potrebbero essere le monete
dello scambio. Perché questa collaborazione? Quale il motivo ultimo? Certamente l’acquisizione di
risorse petrolifere non è da poco, tuttavia l’avvicinamento ed il coinvolgimento del black continent,
dall’esterno sembra essere in funzione anti-Cina (nonostante le dichiarazioni ufficiali del premier
indiano). La collaborazione con il governo di New Delhi sembra maggiormente costruttiva e basata
sul rispetto delle regole democratiche, ormai salde e rafforzate nel tempo. Potrebbe essere questa la
vera alleanza utile per mettere in moto sul lungo periodo un processo virtuoso essenziale per il
continente africano.
102
LEZIONE N. 23“I RAPPORTI AFRICA-GIAPPONE”
Oltre a Cina e India, anche il Giappone ha promosso dei contatti forti con il continente africano,
promuovendo la Tokyo International Conference on African Development nel 1993.
Tale organizzazione punta in particolare sul concetto di “aiuto allo sviluppo” e per tale motivo si
avvale del supporto di altri co-organizzatori e partners. La filosofia infatti è quella di mobilitare il
supporto internazionale per iniziative africane di “sviluppo”. Non aiuti a pioggia, in questo caso, ma
responsabilizzazione degli africani, facendo leva sui principi di ownership e partnership.
Tra i co-organizzatori si trovano l’Ufficio dello Special Adviser per l’Africa del Segretario
Generale, lo United Nations Development Programme (UNDP) e la World Bank; tra i partners
invece l’Unione Africana, il New Partnership for African Development, lo United Nations Industrial
Development Organization (UNIDO), la United Nations Coonference on Trade and Development
(UNCTAD), alcuni donors internazionali, la West Africa Rice Development Association
(WARDA), il TICAD Civil Society Forum.
Si sono già svolti quattro incontri ufficiali:
•TICAD I (5-6 Ottobre 1993)•TICAD II (19-20 Ottobre 1998)•TICAD III ( 27-28 Settembre 2003)•TICAD IV (28-30 Maggio 2008).
La Tokyo Declaration on African Development, adottata in occasione dell’incontro iniziale del 1993
rappresenta il testo base di tutta l’architettura. Essa prevede l’impegno dei partecipanti (distinti tra
membri TICAD e paesi africani) a favorire le riforme politiche ed economiche nel continente, a
promuovere la cooperazione regionale e l’integrazione. Il ruolo del settore privato viene considerato
vitale per un “sustainable development”, pertanto viene incoraggiata l’attività imprenditoriale e
preso l’impegno da parte africana per rendere più agevole il sistema amministrativo, legale e
finanziario.
103
Degna di attenzione la messa a disposizione dell’ esperienza asiatica dell’ultimo trentennio. In tal
senso vengono evidenziati nel punto 23 della Dichiarazione alcuni policy factors che hanno favorito
una buona performance, in particolare:
- l’applicazione razionale di politiche macroeconomiche e il mantenimento della stabilità
politica;
- la promozione della produzione agricola attraverso la ricerca tecnologica e le innovazioni,
come solide basi per lo sviluppo socio-economico;
- l’investimento di lungo termine nell’educazione e lo sviluppo delle risorse umane come
priorità della strategia di sviluppo;
- politiche di mercato ed export-led per avanzare ed adattare i modi di produzione per
aumentare e opportunità per il commercio e la crescita economica;
- le misure per stimolare il risparmio e la formazione di capitale
- il rafforzamento del settore privato come meccanismo di crescita e sviluppo;
- l’implementazione rapida della riforma terriera.
Altro documento essenziale è l’Agenda for Action del 1998 che, nell’ottica di favorire la riduzione
della povertà e l’inserimento del black continent nell’economia globale, individua obiettivi
condivisi e segna delle linee d’azioni comuni dei partecipanti all’iniziativa. Coordinamento
rafforzato, cooperazione regionale ed integrazione, cooperazione sud-sud sono ritenuti approcci
essenziali per ottimizzare i flussi dell’Aiuto pubblico allo sviluppo messi a disposizione dei partners
africani.
In questo testo vengono considerate due tematiche essenziali: la prima riguarda il ruolo delle donne
ed il loro contributo per combattere la povertà; la seconda sottolinea l’importanza del management
ambientale. Desertificazione, degradazione del terreno, deforestazione, biodiversità sono ritenuti
elementi imprescindibili per uno sviluppo sostenibile nel tempo.
Interessante l’ancoraggio al NEPAD che si è registrato nel terzo incontro, un modo per venire
incontro pragmaticamente alle nuove esigenze per il rilancio dell’Africa (promosso tra il 2001 ed il
2002 con il varo della nuova struttura dell’organizzazione panafricana e con il progetto New
Partenrship for African Development).
Dal quarto incontro di Yokoama (28-30 maggio 2008) focalizzato sul tema “Toward a vibrant
Africa: a continent of hope and opportunity” sono scaturiti:
•il Piano d’Azione di Yokoama
•la Dichiarazione di Yokoama
104
In questa sede sono state riconosciute tre aree prioritarie interconnesse: spingere la crescita
economica, assicurare la Human Security , indirizzare le tematiche ambientali ed il Climate Change.
Preso atto che sviluppo e pace procedono parallelamente, i partecipanti hanno auspicato un’equa
spartizione dei dividendi della pace ed hanno posto grande enfasi su meccanismi quali l’African
Peace and Security Architecture (APSA) e l’African Peer Review Mechanism (APRM), considerati
elementi sostanziali dell’impegno africano per una rinascita economica, sociale e politica.
Tra gli impegni assunti, si ricordano:
• la duplicazione dell’ aiuto pubblico da 900 milioni dollari a 1,8 miliardi dollari entro il 2012
•la garanzia per la concessione di 10 miliardi di dollari per promuovere una crescita economica
collegata alla tutela ambientale
•il Meccanismo dei Seguiti di Yokoama, volto a monitorare l’implementazione delle iniziative e
l’impatto sullo sviluppo africano
•la promessa di dare visibilità ai programmi per l’Africa in occasione del vertice G8 (Hokkaido
Toyako, 7-9 luglio 2008).
Per quanto concerne la struttura, la TICAD ha al suo interno diversi organismi che permettono di
perseguire le finalità preposte:
•Asia-Africa Trade and Investment Conference (AATIC)
•Asia-Africa Investment &Technology Promotion Centre (AAITPC)
•Africa-Asia Business Forum (AABF)
•Afrasia Business Council
•Africa-Asia SME Network (TECHNONET Africa)
•TICAD Exchange Network
•TICAD-Africa IT Initiative
La caratteristica più evidente della TICAD è quella della concretezza. In tal senso sono numerosi i
progetti su cui si sta lavorando in questo momento, tra cui: l’iniziativa per valorizzare il ruolo delle
donne coltivatrici in Nigeria (con UNDP, UNIFEM e alcune ONG nigeriane); l’avvio della messa in
produzione del NERICA (“new rice for Africa”) che attraverso la collaborazione di esperti e
produttori ha permesso di creare un tipo speciale di riso nutriente e facilmente coltivabile con le
temperature africane; i progetti per affrontare il digital divide in Cameroon, volti a facilitare agli
studenti dell’Università di Yaoundé l’accesso ad Internet.
105
COMPARAZIONE AZIONE ATTORI ESTERNI ESTREMO ORIENTE
Alla luce di quanto emerso, è chiaro che ci sono dei differenti approcci di Cina, India e Giappone.
La Cina è senza dubbio il player più aggressivo, capace però di dare segnali concreti (costruzione di
infrastrutture ed edifici) in breve tempo. Nonostante i vantaggi evidenti, sul lungo periodo potrebbe
rivelarsi dannoso per gli africani aver ceduto oggi alle avances di Pechino.
I più sensibili alla minaccia incombente sono i ceti operai, le minoranze di cui si soffocano i diritti,
le opposizioni più o meno deboli. Non per nulla, alcuni gruppi ribelli armati, esclusi dal potere (e
quindi dalla spartizione delle risorse) hanno già rivendicato i loro diritti. Ad esempio, la ripresa
delle ostilità nel nord del Kivu, secondo quanto rilasciato in un’intervista rilasciata dal Generale
Nkunda nel novembre 2008, sarebbe stata dovuta proprio alla firma di un accordo da parte del
Presidente Kabila con i responsabili cinesi. L’intesa nel dettaglio ha stabilito lo sfruttamento delle
risorse minerarie locali in cambio di un lauto pagamento: 10 milioni di tonnellate di rame svenduti a
9 miliardi di dollari, logicamente a vantaggio dell’elite al potere e non delle popolazioni bisognose
della regione. Questo potrebbe essere solo un input all’azione di altri gruppi sovversivi presenti in
ognuna delle cinque regioni africane.
Se ad oggi è stata attore esterno non direttamente coinvolto, la Cina potrebbe risentirne a breve. Il
rapimento di alcuni tecnici in Nigeria ed in Etiopia è un segnale che indica la possibilità di pagare
in prima persona il pegno per una politica spregiudicata. Allearsi e supportare a livello interno ed
internazionale regimi dispotici, potrebbe quindi non rendere più il risultato auspicato.
L’India è probabilmente in grado di offrire un partenariato vincente: le basi si chiamano tecnologia,
chimica e farmaceutica ma soprattutto regole ed esempio di democrazia.
Anche il Giappone, che ha scelto un’altra linea portata avanti con altri soggetti, può garantire un
supporto concreto per lo sviluppo del continente ma richiede un impegno preciso, non solo
elargizione di risorse minerarie.
Negli ultimi due casi non si parla solo di relazioni commerciali si parla di costruire insieme
qualcosa e di porsi delle regole.
Tutto è ora nelle mani degli stessi africani, che sono chiamati a decidere se sfruttare il momento
conveniente per il continente o meno. Solo loro, chiamati ad interloquire da pari a pari con una
pluralità di interlocutori (occidentali e orientali) potranno rinviare ogni decisione e subire
passivamente quello che appare più conveniente oggi oppure optare per un impegno che richiede
sforzi (aggiustamento delle proprie economie, trasparenza, good governance, lotta alla corruzione,
106
management razionale delle risorse) ma che porterà uno sviluppo sostanziale alle prossime
generazioni.
Solo dopo aver preso questa decisione si potrà parlare di rinascita o di “scramble africano del XXI
secolo”.
107
LEZIONE N. 24-25“I RAPPORTI AFRICA-IRAN”
Un nuovo partner intraprendente e dinamico si profila sulla scena africana: l’Iran. Il tipo di rapporto
che il governo di Teheran si propone di instaurare con i 54 Stati del continente è mirato, poiché
intende “palesemente” raggiungere diversi obiettivi:
1) stabilire la sua influenza politica e compattare un asse antioccidentale;
2) approfondire i legami con gli attori che possono assicurare uranio per alimentare le sue centrali
nucleari;
3) promuovere i suoi interessi economici e rafforzare una rete di relazioni che gli permetta di
“bypassare” le sanzioni delle Nazioni Unite oltre alle critiche di alcuni potenti player occidentali;
4) esportare la “rivoluzione islamica” attraverso le organizzazioni islamiche iraniane o centri
culturali attivi nella propaganda sciita;
5) stabilire una presenza fisica (per terra o per mare) in aree posizionate in punti strategici (come ad
esempio all’ingresso del Mar Rosso);
6) creare dei “corridoi” navali o terrestri che possano essere utilizzati per fare contrabbando di armi
e supportare gruppi terroristi.
Per tali motivi, negli ultimi anni sono state interessanti le sinergie con Nigeria, Sudan, Uganda e
Zimbabwe, ma anche quelle con Algeria, Mauritania, Mali, Senegal, Cote d’Ivoire, Kenya, Eritrea e
Djibouti.
In tutti i suddetti casi, è stata utilizzata la strategia del soft power, vale a dire una miscela fatta di
cultura, diplomazia, economia e difesa proposta costantemente in occasione di visite ministeriali.
Di seguito gli sviluppi recenti con alcuni paesi-chiave di questo rapporto Iran-Africa, quali Sudan,
Kenya, Eritrea, Nigeria e Zimbabwe.
108
Per quanto concerne il caso del Sudan, esso è ritenuto un partner fondamentale da Teheran per la
sua posizione geografica a “cerniera” tra il mondo arabo, quello dell’Africa Nera ed il Nord Africa.
Alla base del legame, c’è un “collante” profondo che si rifà a questioni politico-securitarie e
ideologiche-religiose da quando l’attuale Presidente sudanese Omar Al Bashir prese il potere nel
1989. Di fatto, l’operazione venne influenzata dalla rivoluzione iraniana del 1979 ed un suo grande
sostenitore fu Hassan el Turabi che voleva stabilire un modello sunnita sulla base della rivoluzione
sciita iraniana e voleva porsi come un “Khomeini regionale”. Nonostante la rottura che si è generata
tra Al Bahir e Al Turabi negli anni ‘90, il contatto con la leadership di Teheran è continuato, come
evidente dalle visite in Sudan del Presidente Akhbar Hashemi Rafsanjani con una delegazione di
150 persone nel 1991, del Presidente Mohammad Khatami nell’ottobre 2004, del Ministro della
Difesa Mostafa Mohammed Najjar nel marzo 2008, del Presidente del Parlamento Ali Larijani nel
marzo 2009, del Presidente Ahmadinejad nel settembre 2011.
La caratteristica peculiare del Sudan è quella di essere un’area di transito per l’invio di armi
destinate ai combattenti della Striscia di Gaza (in particolare Hamas) ed ad alcune organizzazioni
radicali in Nord Africa.
Il Presidente Ahmadinejad (sinistra) accolto dal Presidente Bashir (destra) a Khartoum (settembre 2011)
Tale collegamento è stato denunciato negli anni passati in diverse occasioni dal Presidente egiziano
Hosni Mubarak e da alcuni uomini del suo establishment, in quanto percepito come una
cospirazione contro il proprio Stato ed un modo per sfruttare la causa palestinese a proprio
vantaggio.
Per ciò che riguarda il Kenya, l’elezione di Ahmadinejad nel 2005 e la riconferma nel 2009 ha
portato un avvicinamento tra le due parti come dimostrato dalla visita del Premier Odinga a Teheran
nell’aprile 2008, nel maggio 2009 e nel marzo 2011, contraccambiata dalla missione del Presidente
iraniano a Nairobi nel febbraio 2009. In questo caso coincide da un lato l’interesse del partner
africano di approfittare dell’esperienza nucleare del player del Golfo e di trovare risorse alternative
109
di energia per la domanda di elettricità, dall’altro la volontà di Teheran di rafforzare intese per
rompere l’isolamento internazionale a cui è soggetto ormai da anni.
Il Premier Odinga (sinistra) accolto dal Presidente Ahmadinejad (destra) a Teheran (marzo 2011)Oltre agli interessi energetici (l’Iran nel 2009 forniva circa 80.000 barili di petrolio al giorno al
Kenya) è importante ricordare che tra i due Paesi vi è un profondo legame culturale-religioso,
abitando in Kenya circa 500.000 di fedeli sciiti (su un totale di 4 milioni di credenti islamici, che
corrispondono al 10% della popolazione che è di circa 43 milioni di abitanti).
Il legame con l’Eritrea deve essere letto sotto una duplice lente: la sinergia con il Presidente
Afewerki (un punto di riferimento “contro l’egemonia dell’Occidente”) ed il collegamento con il
Mar Rosso. Durante una visita del leader eritreo a Teheran nel Maggio 2008 sono stati firmati
accordi di cooperazione tra i due paesi per implementare il commercio e gli investimenti. In tale
occasione, la presenza dei due ministri degli esteri ha suggellato l’impegno “a lavorare
congiuntamente per raggiungere la sicurezza e la stabilità nel Corno d’Africa”
Il Presidente Afewerki (sinistra) accolto dal Presidente Ahmadinejad (destra) in Iran nel maggio 2008
Molto forti appaiono anche i legami con la Nigeria. Risale al gennaio 2005 la visita di Khatami in
Nigeria e la firma di un Memorandum con l’allora Presidente Obasanjo. In tale occasione la Export
Development Bank iraniana accordò 38 milioni di US$ al Ministero dell’Energia e dell’Acciaio. In
tal caso il partner africano cerca un interlocutore che gli permetta di superare il deficit di elettricità e
110
la controparte è interessata nel proporre l’energia nucleare come modo economico per superare tale
difficoltà.
Interessante la forma di “intesa attenta” da parte della Nigeria, emersa in diverse occasioni. In uno
studio per l’American Enterprise Institute del 2010, la studiosa Charlie Szrom nota che -nonostante
siano state negate delle collaborazioni nell’ambito nucleare tra il 2005 ed il 2008- nell’ottobre 2008
l’ex Ministro della Scienza Grace Ekpiwhre ha riconosciuto l’esistenza di un accordo che avrebbe
coinvolto l’Iran per fornire tecnologia nucleare civile alla Nigeria; a distanza di un mese il Direttore
della Nigerian Atomic Energy annunciò che la Nigeria non avrebbe usato espatriati nello sviluppo
del suo programma nucleare e chiarì che la collaborazione con il partner del Golfo sarebbe stata
solo finalizzata a scopi civili. Altro caso è quello del voto della Nigeria a favore delle sanzioni del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro l’Iran nel giugno 2010, sostenendo che non “era
comprensibile la mancata cooperazione dell’Iran con l’Agenzia dell’Energia Atomica se i suoi
obiettivi erano pacifici”.
Nell’ambito dell’incontro dei paesi D8- Developing Eight Countries (Bangladesh, Egitto, Indonesia,
Iran, Malesia, Nigeria, Pakistan,Turchia), Ahmadinejad si è recato nel luglio 2010 in Nigeria. In tale
occasione si è appellato agli islamici locali, cercando di valorizzare i legami culturali-religiosi
I due partner sono legati da un Trattato di commercio preferenziale firmato nel 2006, una Road
Mapper la cooperazione economica stipulata nel 2007 ed una successiva normativa bancaria
comune mirata ad agevolare le transazioni.
Incontro D8 in Nigeria (luglio 2010)
Paradigmatico è poi il caso dello Zimbabwe: vendita-acquisto di uranio e posizione di difesa nei
confronti delle sanzioni internazionali, sono i due fattori che dal 2005 hanno contribuito a creare
l’asse Harare-Teheran.
Robert Mugabe e Mahmud Ahmadinejad in questi 7 anni hanno sviluppato un blocco comune,
intorno all’idea della Cooperazione Sud-Sud.
Le loro forze ed i loro interessi sono complementari: il leader dello Zimbabwe African National
Union –Patriotric Front (ZANU-PF) si trova nella condizione di dove sfruttare le vaste riserve di
uranio del distretto di Kanyemba (160 miglia a nord di Harare, circa 450.000 tonnellate di minerale
111
di uranio) per rispondere alla drammatica crisi economica in atto nel paese, il leader dell’Alliance of
Builders of Islamic Iran ha la possibilità di pagare in petrolio la materia prima per far lavorare il
reattore di Isfahan e sviluppare il progetto nucleare a scopo civile.
Attorno a questo “nucleo duro” si sono sviluppati poi interessi commerciali: nei settori
dell’agricoltura, dell’industria manifatturiera, della tecnologia, del tessile, del turismo, delle
infrastrutture dei trasporti.
La sintonia tra i due partner in questi anni è stata completa perché ha avuto come collante un
nemico comune, vale a dire il blocco occidentale, in particolare USA e Regno Unito.
Numerose le visite di alto livello a testimoniare l’amicizia reciproca: nel novembre 2006 Mugabe ha
visitato Teheran; il 3-4 Settembre 2007 una delegazione dello Zimbabwe ha partecipato alla
sessione ministeriale dei diritti umani del Movimento dei Non allineati a Teheran; il 25 settembre
2007 si è svolto l’incontro Mugabe-Ahmadinejad in margine ai lavori dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite in cui i due leader hanno chiaramente parlato del “bisogno dell’unità dei paesi
in via di sviluppo contro il neocolonialismo americano e britannico”; nel gennaio 2010 il numero
due dell’Ambasciata iraniana in Zimbabwe, Javad Dehghan, ha dichiarato l’ampliamento delle
relazioni già esistenti in tutte le aree della cooperazione ed ha offerto assistenza umanitaria per
“rafforzare le relazioni fraterne tra le due nazioni”; il 10 marzo 2010 sono stati annunciati piani di
collaborazione nel settore energetico in occasione dell’incontro a Teheran tra Didymus Mustasa
(Ministro di Stato per gli affari presidenziali dello Zimbabwe) e Masoud Mir Kazemi (Ministro
iraniano del petrolio); il 22-23 aprile 2010 il Presidente Ahmadinejad si è recato ad Harare per l’
inaugurazione della 51ma esizione della Zimbabwe International Trade Fair (ZITF) di Bulawayo; il
17-20 maggio 2010 il Presidente Mugabe ha partecipato al 14mo summit G15 a Teheran
confermando apertamente il supporto di Harare per il programma nucleare iraniano;
Il presidente Mugabe (sinistra) riceve il Presidente Ahmadinejad(destra) ad Harare (aprile 2010)L’approccio seguito da Mugabe si sviluppa intorno alla Far East Policy (vale a dire il tentativo di
cercare collaborazioni ad est con Cina, Corea del Nord ed Iran per cercare uno sdoganamento
112
internazionale e garantirsi la sopravvivenza economica), la linea di Ahmadinejad ruota intorno alla
retorica della lotta contro il “satana occidentale”.
Tali politiche hanno un peso rilevante a livello formale ma si scontrano con le opposizioni interne.
In occasione della visita di Ahmadinejad in Zimbabwe dell’aprile 2010, il Primo Ministro
Tsvangirai (esponente del partito Movement for Democratic Change-MDC) e i responsabili del suo
partito si sono rifiutati di accogliere all’arrivo il leader e la sua delegazione. Il movimento ha
parlato di “scandalo politico colossale” che avrebbe potuto aumentare la tensione all’interno del
paese, danneggiandolo ulteriormente nella sua immagine esterna.
I responsabili del MDC hanno attaccato chiaramente il leader iraniano rispetto al tema dei diritti
umani ed hanno affermato chiaramente che “invitare l’uomo forte iraniano ad un forum degli
investimenti è come invitare le mosche a curare la malaria”.
Per dimostrare la serietà del suo impegno, il Presidente Mahmoud Ahmadinejad ha promosso il 14-
15 settembre 2010 a Teheran l’organizzazione del Forum Iran-Africa, mezzo necessario per
istituzionalizzare i rapporti, per razionalizzarli e ordinarli in una struttura ben precisa. All’evento
hanno partecipato una quarantina di capi di stato e di governo africani, convinti di poter valorizzare
le risorse nazionali grazie all’aiuto di progetti infrastrutturali e finanziamenti messi a disposizione
dal generoso partner iraniano, criticato e demonizzato dall’Occidente.
Molto apprezzati sono stati in tale occasione i discorsi di Abodulaye Wade (allora presidente del
Senegal) e di Bingu Wa Mutharika (allora capo dello Stato del Malawi e Presidente di turno
dell’Unione Africana, defunto nell’aprile 2012). I due leader hanno sottolineato la loro disponibilità
a rafforzare questo nuovo capitolo della cooperazione sud-sud, mentre Ahmadinejad ha evidenziato
la grande comunanza di valori e la speranza per un futuro migliore, ricordando che “non ci sono
limiti all’espansione di una mutua cooperazione al massimo livello”.
Forum Iran-Africa (Teheran, 14-15 settembre 2010)
113
Sono numerosi gli esperti che notano una forza dirompente del binomio che potrebbe incrinare o
mettere a serio rischio vecchie alleanze, con gli Stati Uniti, o con i partners europei (Regno Unito o
Francia). Il timore è che partner come il Senegal, l’Uganda e la Mauritania stiano percorrendo “un
doppio binario”, allettante ma ricco di insidie.
Posti di fronte ad una scelta, i partner africani chi sceglierebbero tra Washington e Teheran? Pur
notando il carattere rivoluzionario del nuovo “asse”, l’apprezzata rivista “The Economist” in un
articolo del 2010 ebbe a notare che i paesi africani difficilmente avrebbero messo a repentaglio i
saldi legami con l’Occidente.
Nonostante i vantaggi diretti che potrebbero avere i detentori del potere ed i gruppi a loro vicini,
essi stessi si rendono conto dei rischi in cui possono incorrere proseguendo con uno di quelli che è
definito “Stato canaglia”. A ciò si deve aggiungere, l’emergere lento di una coscienza critica delle
opposizioni africane come anche delle organizzazioni non governative che avvertono i pericoli di
certe scelte, potenzialmente capaci di mettere a repentaglio l’immagine del proprio paese a livello
internazionale.
Interessante sottolineare piuttosto che, proprio sul terreno africano, potrebbero contrapporsi le
ambizioni iraniane ed israeliane. Tel Aviv teme molto le strette relazioni di Teheran con Khartoum
ed Asmara, in quanto paesi che potrebbero minacciare la sua sicurezza o attraverso l’invio di armi
ad Hamas o il supporto di operazioni terroristiche. La visita del Ministro degli Esteri Lieberman in
Africa nel settembre 2009 è stata funzionale ad arginare l’attività del “nemico” ed a rafforzare i
saldi legami con alcuni partner africani (Etiopia, Ghana, Kenya, Nigeria ed Uganda).
114
LEZIONE N. 26“I RAPPORTI AFRICA-TURCHIA”
Le relazioni Turchia-Africa devono essere lette alla luce del “ri-orientamento” della politica estera
operato dal governo di Ankara nell’ultimo decennio (in virtù della mancata risposta positiva da
parte delle istituzioni di Bruxelles circa l’ingresso nell’Unione Europea) e della “ricerca di un
nuovo ruolo” all’interno della politica globale. L’artefice del cambio deve essere considerato Ahmet
Davutoglu (dal 2002 al 2009 in qualità di consulente del Primo Ministro e dal 2009 come Ministro
degli Esteri), che ha saputo leggere le sfide del nuovo secolo e valutare le possibili sinergie con i
diversi attori internazionali.
Lo studioso Mehmet Ozkan ha individuato 3 fasi del rapporto Turchia Africa: la 1° fase si sviluppa
dalle relazioni che l’Impero Ottomano ha con il continente lungo tutto il IXX secolo fino allo
stabilimento della Repubblica Turca del 1923 e si presenta molto articolata e dinamica; la 2° fase si
svolge dal 1923 al 1998 e registra un calo nei rapporti multi-bilaterali; la 3° fase va dal 1998 ai
nostri giorni e si qualifica come il periodo del “revival” delle relazioni, partito dall’adozione da
parte della Turchia del documento “Opening up to Africa Policy”.
In realtà, all’interno di questo “revival” sarebbe preferibile distinguere tra il rilancio degli anni
1998-2005 e la vera e propria “offensiva” dal 2005 in poi. E’ infatti nel 2007 che si organizza il
primo Turkey-Africa Trade Summit, nel 2008 che viene lanciato il Turkey-Africa Summit , si
moltiplicano gli scambi di visite di alto livello ed il ruolo di mediazione della Turchia nella crisi del
Darfur si distingue in modo evidente.
La partecipazione africana al 1° Turkey-Africa Summit (Istanbul, 18-21 Agosto 2008), non di
massimo rango, né omogenea (dall’Africa sono arrivati solo 6 Capi di Stato, 5 Vice Capi di Stato,
6 Primi Ministri, per il resto Ministri e ali funzionari ministeriali) indica che gli invitati del black
continent non avevano ben compreso inizialmente la finalità dell’evento né tantomeno le intenzioni
del partner ospitante, essendo anche attratti da altre partnership proposte con vigore dagli attori
dell’estremo oriente.
L’incontro dell’agosto 2008, focalizzato sul tema “Solidarity and Partnership for a Common
Future”, si è concluso con l’adozione della “Istanbul Declaration” e del “Turkey Africa Partnership
Framework Document”. In quest’ultimo documento i partner si sono impegnati ad approfondire:
- la cooperazione intergovernativa;
- il commercio e l’investimento;
- l’agricoltura, l’agrobusiness, lo sviluppo rurale, il management delle risorse idriche e
l’attività delle Piccole e Medie Imprese;
- la sanità;
115
- la pace e la sicurezza
- l’infrastruttura, l’energia ed il trasporto;
- la cultura, il turismo e l’educazione;
Per assicurare l’implementazione dei programmi e delle politiche concordate dalla Turchia ed i
partner africani presenti, è stato concordato un meccanismo dei seguiti che prevede di organizzare
un Summit ogni 5 anni, di pianificare una Ministerial Review Conference tra un Summit e l’altro,
di svolgere dei meeting di Senior Officials di revisione ed implementazione dei programmi, nonché
incontri settoriali Ministeriali e di alti funzionari. Il prossimo Summit si svolgerà in Africa nel 2013.
Come da programma, il 16 dicembre 2011 si è svolta ad Istanbul la Turkey-Africa Partnership
Ministerial Review Conference , preceduta il giorno prima da un High Level Preparatory Meeting.
In tale occasione, il Ministro Davutoğlu ha confermato l’intenzione di “Creare una cintura di
stabilità, sicurezza e prosperità attorno alla Turchia” ed ha garantito il pieno impegno del suo
Paese affinché ciò avvenga.
Nel proporre tale iniziativa, la Turchia ha cercato di valorizzare alcuni punti di forza che le sono
propri, come ad esempio il fatto di non aver avuto una presenza coloniale in Africa; il fatto di essere
posizionata in un punto favorevole d’incrocio tra Europa, Africa e Asia, molto vantaggioso per i
commerci internazionali; il fatto di avere in comune con alcuni partner africani la religione islamica
(fattore identitario, questo, assolutamente determinante).
L’obiettivo è quello di dinamizzare i rapporti commerciali e di moltiplicare il valore degli scambi
che ad oggi, è di molto inferiore rispetto a quello con Cina e India.
Dalla seguente tabella si deduce che l’interscambio è passato da 3,5 miliardi di US$ nel 1997, a
15,7 miliardi di US$ nel 2010. Il “salto quantitativo” è avvenuto nel 2006 (12 miliardi di US$ nel
2006), in concomitanza con l’ottenimento da parte della Turchia dello status di Osservatore
nell’ambito dell’Unione Africana, con il lancio del 2005 come “Anno dell’Africa”, con le visite del
Presidente Erdogan in Sud Africa ed Etiopia.
Commercio bilaterale Turchia-Africa (1997-2010) cifre espresse in milioni US$
Export di
Turchia
1997 2000 2002 2004 2006 2008 2009 2010
1.234 1.373 1.697 2.968 4.566 9.062 10.179 9.3Import di
Turchia
1997 2000 2002 2004 2006 2008 2009 2010
2.197 2.714 2.696 4.820 7.405 7.770 5.700 6.4Fonte: http://www.dtm.gov.tr
Nel 2010, i mercati più interessanti per le esportazioni turche sono stati: l’Egitto ( 2,2 miliardi di US
$), la Libia (1,9 miliardi di US $), l’Algeria (1,3 miliardi di US$), la Tunisia (713 milioni di US$), il
116
Marocco (624 milioni di US$) ed il Sud Africa (369 milioni di US $). Le vendite si sono
concentrate su macchinari e prodotti plastici.
Sempre nello stesso anno, i mercati più attraenti per la Turchia ai fini delle importazioni sono stati
l’Algeria ( 2,2 miliardi di US$), l’Egitto (926 milioni di US$), il Sud Africa (889 milioni di US$), la
Nigeria (602 milioni di US$) e la Libia (425 milioni di US$). Per lo più la Turchia ha importato
minerali, pietre preziose, metalli, cacao, ferro e acciaio.
E’ evidente la convergenza di interessi: nell’ottica di Ankara aprire nuovi mercati a sud del
Mediterraneo significa ridurre la dipendenza dai partner europei (che negli ultimi 2-3 anni hanno
vissuto una profonda crisi economico-finanziaria); dal punto di vista degli Africani significa avere
un nuovo interlocutore, poter contare su un “paladino” islamico nel cuore ma laico nelle forme, che
ha registrato tassi di crescita tra il 6% ed il 9% nell’ultimo decennio.
Centrale si è dimostrato il ruolo della TUSKON Turkish Confederation of Businessmen and
Industrialists (vale a dire la Confindustria locale) che ha promosso incontri tra industriali e missioni
di imprenditori turchi interessati ad operare nella regione africana. In un numero della rivista
“Nigrizia” di dicembre 2011, è stata riportata la posizione di Rizanur Meral (presidente della
TUSKON) secondo il quale “sono molti gli imprenditori turchi che pensano all'Africa come
‘ancora di salvataggio’ ”. Per la Confindustria turca, quello sub-sahariano è il mercato in più rapida
crescita nei prossimi 10 anni. Sempre “Nigrizia” ha ricordato che “Le imprese turche sono
impegnate, in particolare, nelle infrastrutture e in campo edilizio. In Nigeria, la Eser Construction,
oltre a realizzare strade nello stato di Osun (nella regione sud), è stata chiamata a migliorare le
ferrovie del paese con un progetto di 230 milioni di dollari. Sono sempre imprenditori turchi quelli
che stanno costruendo l'ospedale di Abuja. E la Nigerian-Turkish Nile University (Ntun) della
capitale è figlia di un progetto turco-nigeriano”.
Le visite di alto livello hanno evidenziato il crescente interesse di Ankara nei confronti del cd. black
continent. Oltre a quella precedentemente accennata del 2005 del Premier Erdogan in Sud Africa ed
Etiopia, è opportuno ricordare le sue missioni in Sudan (2006), in Somalia, Etiopia, Egitto, Tunisia,
Libia e Sud Africa (2011). A ciò si aggiungano quelle del Presidente Abdullah Gul in visita in
Egitto, Tanzania e Kenya (2009), in Cameroun e Repubblica Democratica del Congo (2010).
Anche l’apertura di nuove rappresentanze diplomatiche è un segno molto importante: negli ultimi 4
anni sono state aperte 15 nuove ambasciate turche nel continente (in Ghana, Cameroon, Cote
d’Ivoire, Angola, Mali, Madagascar, Uganda, Niger, Chad, Tanzania, Mozambico, Guinea, Burkina
Faso, Mauritania e Zambia), con annesse le strutture della cooperazione.
117
La disponibilità mostrata dalla Turchia nella mediazione per il Darfur merita una riflessione a
parte. Molti studiosi hanno parlato di una “passive quiet diplomacy” utilizzata nei confronti di
Khartoum, intendendo per passive quiet diplomacy un modo di discutere i problemi con gli altri
partner attraverso un approccio pacifico e di ascolto. In realtà i leader di Ankara hanno applicato il
principio del rispetto della sovranità (in linea con la politica dell’Unione Africana adottata per la
regione occidentale sudanese dal 2003 ad oggi), e -pur rigettando l’applicazione del termine
“genocidio” (poco conveniente rispetto a passate azioni perpetrate dall’Impero Ottomano e dai
Giovani Turchi nei confronti del popolo armeno)- hanno espresso in modo franco le loro
osservazioni al Presidente El Bashir “in incontri a porte chiuse”.
Da un lato gli interessi politici e gli imperativi economici con il mondo arabo e con l’Africa, hanno
indotto il Premier Erdogan ed il Ministro degli Esteri Davutoglu a non prendere una posizione forte
e di contrasto con Khartoum, dall’altro, il desiderio di ritagliarsi un ruolo da giocatore esterno ha
comportato una “critica privata”, facente leva sui rapporti economici e sugli aiuti elargiti negli
ultimi anni.
Seppur lodevole nella finalità, la Turchia ha sbagliato a non fornire un’adeguata informazione ai
media internazionali e a non dare una spiegazione delle sue intenzioni alla società civile. In tale
contesto si deve anche ricordare che la Turchia ha co-presieduto con l’Egitto l’“International
Donor’s Conference for the Reconstruction and Development of Darfur” il 21 Marzo 2010 al Cairo.
Altro “teatro operativo africano” che ha visto la Turchia particolarmente attiva, è stato quello della
Somalia: dal 21 al 23 maggio 2010 Istanbul ha infatti ospitato una conferenza atta a fornire un forte
supporto al Processo di Pace di Djibouti ed al Governo di transizione di Mogadiscio; nell’ambito
dell’OIC- Organization of Islamic Cooperation ha inoltre promosso un meeting d’emergenza
nell’agosto 2011 per discutere degli aiuti alla Somalia, colpita dalla siccità e dalla carestia,
raccogliendo 201 milioni di US$.
Quanto fatto ad oggi è indubbiamente significativo ma se la Turchia vorrà approfondire i legami
con il continente africano, oltre al canale commerciale dovrà lavorare anche nel settore culturale. A
tal fine, potrebbe rivelarsi utile all’esecutivo di Ankara promuovere un avvicinamento delle società;
far conoscere meglio le rispettive lingue, storie e culture; favorire scambi di studenti universitari e
sostenere incontri tra studiosi delle due aree. Ciò significherebbe fare un salto qualitativo e
permetterebbe un inserimento a pieno titolo tra i numerosi interlocutori che si presentano, oggi,
nella regione sahariana.
LEZIONE N. 27-28“I RAPPORTI AFRICA-USA”
118
I rapporti Africa-USA hanno subito un’evoluzione nell’ultimo trentennio: se durante la guerra
Fredda il “black continent” era considerato uno scacchiere in cui gli USA si confrontavano
indirettamente con l’Unione Sovietica, dopo la caduta del Muro di Berlino c’è stato un progressivo
disinteresse con la riduzione degli aiuti e della presenza americana.
L’esperienza somala (fine 1992-inizio 1994) fu vissuta dagli Stati Uniti come un grave errore, che
rafforzò la convinzione del necessario allontanamento da una regione intesa come “potenziale fonte
di problemi”. La diplomazia di Wahington non fece nulla per bloccare il genocidio in Rwanda e la
disponibilità di Bill Clinton si limitò ad organizzare una conferenza sull’Africa alla Casa Bianca il
26-27 giugno 1994, nonché a mandare Jesse Jackson come inviato speciale nella regione
occidentale africana per cercare una soluzione alla crisi della Sierra Leone nel maggio 2000.
Durante gli anni della Presidenza Clinton (1993-2001), la linea adottata in Africa fu soprattutto
quella del multilateralismo; vennero messe in luce questioni chiave relative allo sviluppo
(degradazione ambientale, rischi per la salute pubblica); aumentò il ruolo e l’influenza di
organizzazioni non governative attive in Africa (ad es. Global Coalition for Africa, African-
American Institute, Carter Center, Africare); venne promosso il disegno di legge dell’African
Growth Opportunity Act (AGOA), poi trasformato in legge nel maggio 2000, secondo la logica del
“trade not aid”.
Il cambio di tendenza della politica americana sarebbe avvenuto a distanza di poco tempo, non per
programmazione mirata o disegno politico specifico ma per “forzatura” della storia.
A pochi mesi dalle elezioni presidenziali, il candidato repubblicano George Bush aveva infatti
espresso la mancanza di interesse nei confronti dell’Africa da parte del suo partito: di fatto, il
continente era nella parte bassa della lista delle priorità degli USA. Fu solo l’11 settembre 2001 a
modificare velocemente tale percezione: la frattura con il mondo arabo comportò un’attenzione
verso aree alternative produttrici di petrolio; la minaccia del terrorismo globale ed il suo network
indusse a rivedere la presenza ed i programmi militari americani nelle regioni del Sud del mondo,
dove carenze strutturali (povertà, debole governance, corruzione, scarso controllo del territorio da
parte del potere centrale) venivano percepite come una potenziale minaccia, in quanto terreno fertile
per lo sviluppo di organizzazioni radicali islamiche.
Commercio, ricerca di nuove fonti petrolifere e lotta al terrorismo hanno guidato di fatto la politica
americana in Africa nell’ultimo decennio.
Sulla base di tale assunto, di seguito verrà fatta una breve presentazione dell’AGOA, di alcune
iniziative militari americane in Africa ed infine di AFRICOM.
119
L’AGOA mira a facilitare l’accesso negli Stati Uniti di determinati prodotti africani (ad oggi circa
7000) – a condizione che non danneggino la produzione nazionale- a tariffa zero o a tariffa ridotta,
provenienti da un preciso numero di paesi africani, eleggibili secondo standard ben precisi.
L’eleggibilità di un paese beneficiario dipende dal fatto che esso abbia fatto o stia facendo progressi
verso lo stabilimento di un’economia di mercato ed il pluralismo politico; che abbia fatto degli
sforzi per combattere la corruzione; che abbia promosso politiche per ridurre la povertà, rendere
accessibile le cure sanitarie e le opportunità educative ai suoi cittadini; che non sia coinvolto in
azioni che mettono in pericolo la sicurezza americana ed i suoi interessi di politica estera; che non
sia implicato in violazioni di diritti umani e non assicuri supporto al terrorismo. La lista annuale dei
paesi coinvolti nell’iniziativa dipende dalle condizioni politiche locali: alcuni Stati sono stati
rimossi per brevi periodi (vd Guinea, Madagascar, Niger nel 2009 a seguito di rivolgimenti interni)
e poi reinseriti dopo aver avviato un processo di normalizzazione politica interna.
Al 2012 risultano beneficiari dell’AGOA:
Angola Ghana NigeriaBenin Guinea RwandaBotswana Guinea Bissau Sao TOmé e PrincipeBurkina Faso Kenya SenegalBurundi Lesotho SeychellesCameroon Liberia Sierra Leone Capo Verde Madagascar Sud AfricaChad Malawi SwazilandComore Mali TanzaniaCongo Mauritius TogoDjibouti Mauritania UgandaEtiopia Mozambico ZambiaGabon NamibiaGambia NigerFonte: www.agoa.info
Da un rapido esame della tabella è evidente che: 1) in tale lista non rientrano i paesi del Nord Africa
con cui gli Stati Uniti perseguono un altro tipo di rapporto e fanno rientrare in una diversa categoria
(quella dei MENA Middle East and North African Countries); 2) non sono inseriti Stati come
Eritrea, Sudan e Zimbabwe nei confronti delle cui leadership al potere permangono perplessità, se
non contrasti (più o meno palesi).
Inizialmente l’AGOA era prevista fino al 2008, poi nel 2004 il Congresso americano decise di
prorogarla al 2015.
Le importazioni americane in seguito al varo dell’AGOA si sono diversificate. Tra i prodotti
significativi acquistati risultano: gioielli, frutta e noci, succhi di frutta, prodotti in pelle, prodotti
plastici, pasta di cacao.
120
Nel 2010 i paesi maggiormente beneficiari dell’AGOA sono risultati in primis Nigeria, Angola,
Sud Africa, Congo e Chad, quindi Gabon, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Kenya,
Cameroon e Mauritius.
A parte l’AGOA, un quadro più generale dei rapporti commerciali USA-Africa sub-sahariana
permette di dire che le esportazioni americane (per lo più macchinari e motoveicoli) sono passate da
14,29 miliardi di US$ nel 2007 a 17,06 miliardi di US$ nel 2010; le importazioni dall’Africa
(petrolio, gas, platino, diamanti, cacao) sono passate da 67,35 miliardi di US$ nel 2007 a 65,01
miliardi US$ nel 2010 (di cui 44 miliardi di US$ nell’ambito dell’AGOA).
Commercio bilaterale USA-Africa sub-sahariana (miliardi US$)
Export/Import 2007 2008 2009 2010US exports 14,29 18,47 15,15 17,06US Imports 67,35 86,05 46,90 65,01Fonte: US Department of Commerce
Nella lista dei paesi africani acquirenti di prodotti made in USA si distinguono Sud Africa (41,6%),
Nigeria (29,8%) , Angola (9,5%), Ghana (7,3%), Etiopia (5,6%), Benin (3,4%) , Kenya (2,7%) ;
nella lista dei paesi fornitori si segnalano Nigeria (46,9%), Angola (18,4%), Sud Africa (12,6%),
Gabon (3,4%).
Per quanto concerne le iniziative militari americane in Africa si segnalano:
Area orientale:
- l’East African Counter-Terrorism Initiative (EACTI), stabilito nel giugno 2003 come programma
del Dipartimento di Stato, provvede a fornire agli stati-chiave dell’area orientale africana la
formazione militare per rafforzare la sicurezza sulle coste, le linee di frontiera terrestri, gli
aeroporti;
- la Combined Joint Task Force, Horn of Africa (CJTF-HOA) è una task force che combina
assistenza alla sicurezza con programmi umanitari che mirano a combattere il terrorismo, a ridurre
le condizioni che portano al terrorismo, a convincere le popolazioni a dare un supporto nella guerra
al terrorismo.
Area Occidentale:
- la Pan-Sahel Initiative (PSI) promossa tra il novembre 2002 ed il marzo 2004 con un budget di
oltre 7,75 milioni di US$ (alcune fonti parlano di 8,4 milioni di US$), si proponeva dir assicurare
assistenza a Chad, Niger, Mali e Mauritania nella formazione del personale militare, al fine di
121
migliorare la sicurezza nelle loro aree di confine ed impedire movimenti/collegamenti di gruppi
terroristi nelle aree nazionali.
- la Trans-Sahel Counter-Terrorism Initiative (TSCTI) - nata inizialmente con un budget di 16
milioni di US$ nel 2005, con l’obiettivo di portare tale quota a 30 milioni di US$ nel 2006 e a 100
milioni di US$ all’anno fino al 2011- l’iniziativa era finalizzata a sconfiggere organizzazioni
terroriste, rafforzare e istituzionalizzare la cooperazione tra le forze regionali; promuovere la
governance democratica, discreditare l’ideologia terrorista e rafforzare i legami bilaterali militari
con gli Stati Uniti. La TSCTI ampliava l’ottica delle’area seguita dalla PSI, coinvolgendo
Mauritania, Mali, Chad, Niger, Nigeria Senegal, Marocco, Algeria e Tunisia.
La creazione di AFRICOM, il comando militare americano che focalizza la sua attenzione su tutto
il continente (ad eccezione dell’Egitto che rientra sotto lo US CENTCOM-Central Command) ha
aperto un nuovo capitolo focalizzato sulla sicurezza nella collaborazione USA-Africa.
Lo US Africa Command AFRICOM è stato attivato il 1° ottobre 2007 ed è divenuto operativo il 1°
ottobre 2008. E’ stato comandato dal Gen William E. Kip Ward dal 1° ottobre 2007 al 9 marzo
2011; dal 9 marzo 2011 è diretto dal Gen Carter F Ham .
Secondo quanto riportato dalla documentazione di AFRICOM, l’intento è duplice: 1) proteggere il
territorio americano, i cittadini statunitensi all’estero e gli interessi nazionali dalle minacce
transnazionali che emanano dal continente africano; 2) attraverso un impegno sostenuto, permettere
ai partner africani di creare un ambiente della sicurezza che promuova stabilità, favorisca la
governance, incoraggi lo sviluppo.
Le attività, i piani e le operazioni di AFRICOM sono centrate su due principi guida che riconoscono
che: 1) un continente africano sicuro e stabile è nell’interesse nazionale americano; 2) sul lungo
periodo saranno gli africani stessi i più abili a cogliere le sfide per la loro sicurezza.
I compiti più importanti di AFRICOM sono:
- dissuadere o sconfiggere Al Qaeda e qualsiasi altra organizzazione estremista che opera in Africa;
- rafforzare le capacità di difesa degli stati-chiave africani e dei partner regionali. Attraverso
l’impegno costante e mirato, aiutare gli africani a costruire istituzioni di difesa e forze militari che
siano capaci, durevoli, subordinate all’autorità civile, rispettose della legge, impegnate a garantire il
benessere dei cittadini. Accrescere la capacità degli stati-chiave nel contribuire alle attività militari
regionali ed internazionali, finalizzate a preservare la pace e a combattere le minacce transnazionali
alla sicurezza;
- assicurare l’accesso americano all’Africa ed attraverso il suo territorio, a supporto delle richieste
globali;
122
- essere preparati, come parte di un approccio governativo nel suo insieme, ad aiutare a proteggere
gli stati africani dalle atrocità di massa. La qual cosa comporta che il modo migliore per far ciò sia
l’impegno intenso e prolungato con i militari africani;
- qualora ricevute istruzioni, assicurare il supporto militare agli sforzi di assistenza umanitaria.
La localizzazione di AFRICOM ha comportato un acceso dibattito tra i partner africani, che si sono
rifiutati di ospitare la struttura. Per tale motivo, al momento la sede è a Stoccarda (Germania).
Gli avvenimenti degli ultimi anni (la pirateria al largo delle coste somale, la presenza di Al Shabab
in Somalia, di Boko Haram in Nigeria, di Al Qaeda nel Maghreb Islamico in un’area che copre
parte dello spazio maghrebino e parte dello spazio saheliano, il terrore seminato dal Lord’s
Resistance Army nella regione centrale africana) hanno evidenziato i rischi che corre l’Africa,
tagliata da un’asse est a ovest in cui si raccordano formazioni terroriste collegate all’islam radicale e
al Al Qaeda, che vogliono islamizzare forzosamente le aree in cui operano e sovvertire l’ordine
istituzionale. Non è un rischio fine a se stesso, in quanto il territorio può essere utilizzato come base
per l’organizzazione di attentati nell’area al di là del Mediterraneo (vale a dire l’Europa) ed oltre
Oceano (cioè negli Stati Uniti).
Non è più solo la Somalia il “black hole” africano: Nigeria, Mali e Nord Africa vivono drammatiche
fasi storiche che potrebbero facilmente degenerare, provocando un effetto domino di instabilità.
Proprio per questo motivo, l’amministrazione di Barack Obama si muove con estrema cautela in
Africa perché è consapevole della sua importanza per la sicurezza e la prosperità della comunità
internazionale, per gli Stati Uniti in particolare. Good governance, lotta alla corruzione, sviluppo
economico, valorizzazione delle risorse umane sono tasselli attraverso cui è possibile formare
l’Africa del XXI secolo. In occasione della sua visita in Ghana nel luglio 2009, il Presidente
americano ha sottolineato con forza che “L’Africa non ha bisogno di uomini forti ma di istituzioni
forti”, e proprio sulla base di tale convinzione si sta adoperando per promuovere un rafforzamento
della capacità istituzionale africana.
123
LEZIONE N. 29“I RAPPORTI AFRICA-REGNO UNITO”
Il Regno Unito è stato un attore determinante per la storia africana degli ultimi due secoli.
Nell’applicazione del suo sistema coloniale, basato sull’“indirect rule”, il Regno Unito ha
dimostrato grande spirito pragmatico ed adattamento alle realtà locali. Questo approccio ha segnato
profondamente tutte le vicende politiche delle colonie britanniche negli anni successivi alle
indipendenze ed è poi stato alla base delle nuove forme di collaborazione tra le parti.
Per comprendere gli elementi caratteristici del rapporto Regno Unito-Africa nell’ultimo
cinquantennio è interessante tornare indietro nel tempo e capire quale è la logica alle sue radici. In
tal senso può essere utile riflettere su quanto scritto dalla storica Anna Maria Gentili sulla fase
coloniale:
“L’indirect rule derivava da una concezione del tutto opposta all’ideale universalista; non partiva dalla premessa che fosse possibile e si dovesse dovunque operare per la necessaria ed ineluttabile evoluzione di tutte le società verso un’omogenea civilizzazione. Metteva invece in primo piano il primato e l’esclusività della diversità culturale, di razza, lingua e istituzioni sociali. La dominazione britannica distingueva perciò nettamente tra governo coloniale e la costruzione di ‘native administrations’ in ciascun territorio che funzionassero per mezzo di istituzioni tradizionali. (…) Compito del governo coloniale doveva essere di promuovere azioni e programmi di benessere economico e sociale, per mezzo appunto dell’uso delle consuetudini, garantite dalla gestione dei capi legittimamente considerati tradizionali.La nozione di ‘native administration’ contemplava una notevole misura di libertà d’azione per le autorità indigene, riconosciute e rimodellate secondo le suddivisioni amministrative e le funzioni che il governo coloniale centrale ed i ‘district commissionerrs’, i funzionari locali ritenevano potessero rispondere all’esigenza di massimizzare risparmio di fondi ed efficienza amministrativa.La colonizzazione britannica in molte parti del mondo aveva costruito un diversificato corpus di esperienze, sicchè lo status delle dipendenze britanniche più che dalla teoria legale dipendeva dalla stratificazione di rapporti, negoziati, trattati e dalle circostanze storiche della loro incorporazione in colonie e protettorati. La tradizionale elasticità del costituzionalismo britannico lasciava dunque spazio a diverse forme di governo nelle dipendenze (…)”
Spartizione dell’Africa, con indicazione dei territori facenti parte a vario titolo dell’impero britannico (1885-1914)
124
Pragmatismo ed adattamento sono dunque le caratteristiche dell’asse verticale che si sviluppa dal
Sud Africa all’Egitto, in cui si trovano colonie, mandati e protettorati, aree sulle quali si sviluppano
diverse forme di controllo da parte del Regno Unito. Ma pragmatismo e adattamento si prolungano
nel tempo e divengono gli elementi peculiari del rapporto tra Londra e le capitali africane anche
dopo le indipendenze.
Secondo James Mayall, a partire dal momento in cui si ritira dalle colonie africane, il Regno Unito
adotta un approccio per trasformare le eredità imperiali “da responsabilità a risorse vantaggiose”,
sentendo il bisogno di creare una rete di “relazioni speciali” anche se di più basso profilo rispetto
alle precedenti.
Nel corso degli anni ‘70, i governi di Londra operano con le loro ex colonie attraverso rapporti
bilaterali privilegiati ed attraverso il Commonwealth, pur nella consapevolezza negli anni ’80-’90
che l’Africa rappresenta una fonte di problemi piuttosto che un’opportunità.
Finita la fase della Guerra Fredda, gli esecutivi conservatori del Regno Unito (guidati da Margaret
Thatcher e John Major) seguono con particolare attenzione le vicende europee e su di esse
proiettano (in modo vigile) forze e risorse. Ciò comporta inevitabilmente la riduzione degli aiuti a
favore del continente africano (a tal riguardo, Paul Williams parla di una riduzione del 18% per il
budget africano tra il 1994 ed il 1997) e la chiusura di sedi diplomatiche in Africa.
E’ solo con il governo laburista di Tony Blair (dal maggio 1997 al giugno 2007) che i temi africani
rientrano nell’agenda britannica. La creazione nel febbraio 2004 di una Commissione ad hoc, voluta
dallo stesso Primo ministro britannico, quale organo tecnico consultivo a supporto del Piano
d’azione per l’Africa del G8 nonché delle iniziative varate in ambito europeo, induce in quegli anni
a ben sperare per la promozione di nuove politiche a favore del continente.
La “Commission Blair” presenta il Rapporto finale “Our Common Interest” nel marzo 2005. Il
documento è frutto del lavoro di 17 Commissari (tra cui spiccano illustri personalità della Nigeria,
dell’Uganda, del Ghana, del Sud Africa, della Tanzania, della Cote d’Ivoire, dell’Etiopia e del
Botswana) che hanno partecipato a tre incontri ufficiali e a numerose conferenze settoriali con
esponenti del mondo della finanza e della società civile africana. L’obiettivo è quello di promuovere
nuove idee per lo sviluppo ed implementare gli impegni assunti con l’Africa.
Commission for Africa (2005)
125
Seppur nato in un’atmosfera di grande euforia, il Rapporto presenta numerose zone d’ombra. Nel
documento c’è la percezione di un cambiamento in atto nel continente, c’è il richiamo alla
responsabilità locale ed a una migliore governance, c’è l’ampliamento di impegno finanziario da
parte dei Paesi ricchi, ma viene fatta semplicemente una foto della realtà africana al 2005 e viene
riconosciuta la disponibilità dei Paesi ricchi ad aumentare le risorse destinate in assistenza allo
sviluppo (con una variazione dall’ 0,25 allo 0,7 % del Pil).
All’epoca della sua pubblicazione, molti critici notarono che il Rapporto della Commissione Blair
era semplicemente un tentativo di realismo politico di un leader che voleva riguadagnare consensi
all’interno del partito laburista dopo la guerra in Iraq e che voleva dare un segnale “di divisione di
sfere di competenza” all’Amministrazione americana (secondo tale ipotesi, il Grande Medio Oriente
sarebbe preso sotto l’ala protettrice di Washington, mentre l’Africa passerebbe sotto la copertura di
Londra), ma di fatto non apportava un qualcosa di nuovo e vantaggioso per lo sviluppo del
continente.
Nel settembre 2010, la Commissione ha pubblicato un secondo Rapporto “Still Our Common
Interest”in cui sono stati esaminati i risultati degli ultimi 5 anni, sono state identificate le sfide e le
opportunità future per il continente africano e sono state fatte nuove raccomandazioni. Nonostante i
progressi registrati in diversi settori per il raggiungimento dei Millennium Development Goals, è
stata messa in luce la grave debolezza della riforma nel reparto commerciale.
Parlando della relazione in essere tra la Gran Bretagna e l’Africa, non si può dimenticare il ruolo del
Commonwealth. Tale associazione volontaria di 54 paesi (19 facenti parte dell’Africa, 8 dell’Asia, 3
delle Americhe, 10 dei Caraibi, 3 dell’Europa ed 11 del Pacifico) in cui vivono 2 miliardi di
persone, è presentata come una struttura in cui i membri “si supportano vicendevolmente e
lavorano insieme verso gli obiettivi condivisi della democrazia e dello sviluppo”.
Logo del Commonwealth
Il lavoro dell’associazione volontaria è finalizzato a costruire istituzioni democratiche forti nei paesi
membri; a consolidare le politiche ed i sistemi che supportano la crescita economica degli aderenti;
a contribuire allo sviluppo di società in cui gli individui abbiano accesso ad un alto livello di
educazione, senza alcun riguardo al genere, all’età, allo status economico o all’etnia; a promuovere
e supportare lo sviluppo economico-sociale all’interno dei paesi membri, specialmente i più piccoli
e meno sviluppati; a prevenire e risolvere i conflitti; a supportare lo sviluppo dei sistemi sanitari
126
nazionali; a favorire lo sviluppo umano; a sostenere lo stato di diritto; a garantire il rispetto dei
diritti umani.
Tra le azioni prioritarie dell’organizzazione si ricordano: l’incoraggiamento all’adozione di
normative a tutela dei diritti umani; l’assistenza -attraverso la formazione del personale- alle
commissioni nazionali che operano per la tutela dei diritti umani e l’aiuto alle agenzie attive nel
medesimo settore; la creazione di un network di soggetti (governativi e non) che promuovano la
condivisione dell’informazione relativa a programmi per la tutela dei diritti umani.
Sostanzialmente si può dire che il Regno Unito nell’ultimo ventennio ha promosso la pace nel
continente (inviando truppe nazionali in operazioni sotto bandiera ONU, provvedendo alla
formazione di personale di polizia ed all’addestramento delle truppe africane) ma lo ha fatto con
budget limitati ed in modo selettivo (è rimasto, ad esempio, estraneo al genocidio rwandese perché
il paese era al di fuori della sua sfera di influenza); ha sostenuto la “good governance” e la
prosperità economica (supportando ad esempio il New Partnership for Africa’s Development-
NEPAD, lanciato dagli stessi africani nel 2001); ha incoraggiato la democrazia, promuovendo paesi
come la Nigeria e la Sierra Leone e colpendo invece – attraverso sanzioni- paesi come lo Zimbabwe
(con cui ha un rapporto difficile da lungo tempo) in cui non è garantito il rispetto dei diritti
dell’uomo e prevale un regime dispotico.
I governi laburisti sono stati più attivi rispetto a quelli conservatori nel proporre un ventaglio di
azioni per l’Africa, ma è anche vero che proprio durante la loro guida sono aumentate le vendite di
armi al continente.
Il ritorno ad un governo conservatore guidato da David Cameron (dal maggio 2010) ha registrato un
atteggiamento volitivo nella politica africana: basti pensare alla presa di posizione nei confronti
della Libia a partire dal febbraio 2011, nonché alla missione ufficiale del luglio 2011 in Sud Africa
volta a rilanciare il messaggio che il commercio -e non l’aiuto- è la chiave della prosperità africana.
Di fatto si percepisce la volontà ed il bisogno da parte del governo britannico in carica di
impegnarsi nel continente, sia perché qui si trovano economie che stanno crescendo del 5% ed in
cui si può investire, sia perché l’Africa sta divenendo un interlocutore prezioso per il rifornimento
di fonti energetiche, sia perché quest’area è ormai divenuta l’ultima frontiera vicina all’Europa in
cui si sta combattendo la battaglia contro il terrorismo internazionale di matrice islamica.
127
LEZIONE N. 30-31“I RAPPORTI AFRICA-FRANCIA”
Quando si parla del rapporto tra i grandi protagonisti internazionali e l’Africa - nonostante la
comparsa sulla scena internazionale di dinamici player asiatici- il punto di riferimento, resta sempre
la Francia. Tale attore è stato indiscutibilmente protagonista attivo della storia africana degli ultimi
200 anni: dalla fase coloniale(assieme al Regno Unito ed in misura minore alla Germania, al
Portogallo e più tardi all’Italia) ad oggi.
Di fatto la Francia ha influenzato notevolmente la storia degli Stati Africani attraverso:
1) l’adozione nel periodo coloniale di un sistema fondato sul principio dell’assimilation con la
creazione di due macroaree (la federazione dell’Africa Occidentale Francese –AOF che
raggruppava le 8 colonie della Mauritania, del Senegal, del Sudan francese divenuto Mali,
Guinea, Cote d’Ivoire, Niger, Alto Volta divenuto Burkina Faso, Dahomey divenuto Benin; e la
federazione dell’Africa Equatoriale Francese-AEF che riuniva Gabon, Medio Congo divenuto
poi Congo Brazzaville, Oubangui-Chari divenuto poi Repubblica Centrafricana, Tchad) più il
Madagascar;
2) il comportamento avuto tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 nella fase della
decolonizzazione;
3) la ricerca forzosa di un “rapporto condizionante” dal 1955-1960 in poi.
Pur tralasciando la fase coloniale del XIX secolo, prima di proseguire nell’approfondimento dei rapporti Francia-Africa è importante capire i delicati anni di passaggio compresi tra il 1956-1960.A tal fine appare illuminante quanto scritto da due noti africanisti, Calchi Novati e Valsecchi, nel volume intitolato “Africa: la storia ritrovata” del 2005:
“La Francia tentò, senza molto successo, di facilitare l’accesso all’indipendenza dei suoi possedimenti dell’Africa nera architettando un’istituzione che ripetesse i compiti assolti dal Commonwealth per i possedimenti inglesi. La Comunità franco-africana ideata da De Gaulle nel 1958 per l’ultimo passaggio della decolonizzazione fu poco più di una finzione ed ebbe comunque vita breve (…) Tutto il tormentato processo di decolonizzazione dell’AOF e AEF è stato un dosaggio non sempre limpido fra la concessione dell’autonomia ai territori africani e il mantenimento di una qualche forma di controllo da parte di Parigi.Già nel corso della guerra il generale De Gaulle, alla ricerca come capo delle Francia libera di alleati contro la Germania e i collaborazionisti di Vichy, promise alle colonie africane il passaggio dall’assimilazione all’associazione (Conferenza di Brazzaville, 1944)(…) Nel 1956, fu varata una legge-quadro che istituiva nell’AOF, nell’AEF e nel Madagascar governi autonomi.(…)Le divisioni statuite dalla legge del 1956 trovarono una sanzione nell’esito del referendum costituzionale indetto nel 1958 al via della Quinta Repubblica fondata da De Gaulle (…). Il referendum del 1958 in teoria permetteva di scegliere fra l’indipendenza immediata ed una forma di autonomia condizionata entro l’istituenda Comunità franco-africana, rimandando ancora l’emancipazione piena dei territori africani. Solo la Guinea votò in massa per l’indipendenza. Il capo del suo governo, Sekou Touré, un sindacalista con propensioni per il marxismo, disse con fierezza a De Gaulle durante la sua visita a Conakry che il popolo della
128
Guinea preferiva la libertà nella penuria alla ricchezza nella servitù. (…) Il passaggio all’indipendenza fu brusco perché il governo francese accettò il verdetto ma interruppe dall’oggi al domani tutte le relazioni con la Guinea indipendente, ritirando i tecnici e revocando ogni forma di assistenza. L’esempio della Guinea doveva essere penalizzato affinché nessuno avesse l’ardire di imitarlo. Con l’eccezione della Guinea, il responso del referendum diede ragione alla Francia: ci furono forzature, forse qua e là i risultati furono aggiustati o distorti (qualche sospetto fu espresso a proposito del voto del Niger) ma nel complesso il ‘sì’ vinse con facilità. I governi in carica – un ceto politico ben inserito nelle logiche di potere interne alle società locali che svolgeva mansioni burocratiche sotto l’ala della Francia preparandosi alla transizione – disponevano di sufficiente forza persuasiva per far passare le consegne di voto, loro e di Parigi.Per l’indipendenza dell’Africa francese era solo questione di anni o addirittura di mesi”
E’ in questi anni che nasce la necessità per alcuni politici africani di mantenere i rapporti privilegiati
con la Francia anche dopo l’indipendenza, parallelamente al bisogno di Parigi di garantirsi fonti di
approvvigionamento privilegiate. Da questo momento, la Francia è costretta ad inventarsi un nuovo
modo per conservare il suo controllo sull’area a Nord ed sud del Sahara.
Si possono distinguere quattro pilastri del complesso rapporto Francia-Africa nell’ultimo
cinquantennio:
1) la “françe-afrique”;
2) i summit Africa-Francia;
3) l’Organizzazione della Francofonia;
4) la linea adottata dagli ultimi 4 Presidente in carica all’Eliseo.
1) Il termine françe-afrique (coniato dal Presidente ivoriano Houphouet Boigny nel 1955 e molto
utilizzato negli anni ’90 per denunciare le degenerazioni e gli scandali della V Repubblica francese)
indica il carattere occulto delle relazioni Francia-Africa, una sorta di diplomazia sotterranea, un
sistema caratterizzato da pratiche di sostegno a dittature e golpe militari (da parte francese) ma
anche da storni di fondi pubblici e finanziamenti a partiti politici francesi (da parte africana).
L’obiettivo è quello di creare un legame capace di mantenere i vantaggi reciproci.
L’uomo chiave a cui De Gaulle lascia manovra libera nelle questioni africane è Jacques Foccart,
personaggio occulto per alcuni versi, potentissimo responsabile della “cellula africana dell’Eliseo” e
profondo conoscitore del mondo africano. E’ Foccart, il “Monsieur Afrique” che avvia e perpetua
questo nuovo sistema in cui sussiste una dipendenza di fatto dei paesi africani in una prima fase dal
1960 al 1974, poi in una seconda fase dal 1986 al 1997.
129
Jacques Foccart, “Monsieur Afrique”
La françe-afrique permette alla Francia di avere sempre l’accesso alle materie prime del continente;
di mantenere un “ruolo di potenza mondiale”, di avere un flusso di finanziamenti illeciti per i suoi
partiti, derivante da trasferimenti poco chiari e corruzione nei paesi africani.
Seppur in diverso modo, tutti gli Stati dell’area francofona (dal nord al centro africa) sono
interessati dal suddetto fenomeno:, Algeria, Marocco, Tunisia, Mauritania, Niger, Mali, Benin,
Togo, Cote d’Ivoire, Gabon, Congo Brazzaville, Cameroun, Repubblica Centrafricana.
Nascosta dalla tutela“dell’interesse di stato”, nel corso degli anni si è creata una rete di personaggi
occulti, uomini d’affari, rappresentanti militari, tra cui si possono ricordare Maurice Robert
(direttore del Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage-SDECE in Africa),
Robert Bourgi (avvocato franco-libanese), Patrick Balkany (deputato francese dell'Union pour un
mouvement populaire, sindaco di Levallois-Perret, amico del Presidente Sarkozy), Yvon Omnès (ex-
ambassadeur de France à Yaoundé), Francis Lott ( ex-ambasciatore francese in Cote d’Ivoire), Jean
Guion (ex consigliere di francois Mitterrand e grande amico del Presidente burkinabè Blaise
Compaoré), Charles Debbasch (già professore di diritto divenuto consigliere della famiglia
Eyadema in Togo), Georges Ouegnin (anziano direttore del protocollo della presidenza ivoriana,
ben introdotto in Congo Brazzaville ed alla presidenza della Banca Africana di Sviluppo)
130
Patrick Balkany Robert Bourgi
Non estranei alla logica della françe-afrique, anzi ad essa strettamente collegati, sono gli accordi di
cooperazione militare tra i diversi partner africani e la Francia, spesso completati da clausole
segrete.
Nonostante sia stato definito un capitolo chiuso diverse volte, la rete d’influenza nelle vecchie
colonie permane nell’ombra ancora oggi, perché legato alle ambizioni della “Francia imperiale”,
una Francia il cui profilo mondiale è legato al nucleare, al seggio permanente al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, alla posizione in Europa ed alla sua capacità di essere uno degli
estremi dell’asse che domina l’Unione (“asse franco-tedesco”), alla sua influenza in Africa.
2) I Summit Africa-Francia hanno permesso di istituzionalizzare i rapporti tra le parti, dare loro
dignità formale ed offrire un nuovo quadro di dialogo tra la Francia e l’Africa francofona.
Significativa la definizione che diede del 1mo Summit nel 1973, il Ministro degli Affari Esteri
Michel Jobert: “La cooperazione franco-africana, così sovente messa sotto caricatura, costituisce
certamente un elemento di progresso e stabilità nel mondo attuale”
Di seguito la lista degli incontri:
I Summit, Parigi (novembre 1973), focalizzato sul tema della riforma della cooperazione
II Summit, Bangui (marzo 1975), focalizzato sul tema del dialogo Nord-Sud
III Summit, Parigi (maggio 1976), focalizzato sul tema dello sviluppo
IV Summit, Dakar (Aprile 1977), focalizzato sul tema dei crescenti pericoli per l’Africa
V Summit, Parigi (maggio 1978), focalizzato sul tema della sicurezza e dello sviluppo
VI Summit, Kigali (maggio 1979), focalizzato sul tema delle relazioni euro-africane
VII Summit, Nizza (maggio 1980), focalizzato sui temi dell’economia, dello sviluppo e della
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cooperazione
VIII Summit, Parigi (novembre 1981), focalizzato sui temi della solidarietà e dello sviluppo
IX Summit, Kinshasa (ottobre 1982), focalizzato sul tema del dialogo Nord-Sud rispetto alla crisi mondiale
X Summit, Vittel (ottobre 1983), focalizzato sul tema dell’integrità del Chad e la sicurezza alimentare in Africa
XI Summit, Bujumbura (dicembre 1984), focalizzato sui temi dell’autosufficienza alimentare e lo sviluppo coordinato
XII Summit, Parigi (1985), focalizzato sui temi delle difficoltà economiche dell’Africa e dell’indebitamento crescente
XIII Summit, Lomè (novembre 1986), focalizzato sui temi dello sviluppo, dell’apartheid, del Tchad e della sicurezza
XIV Summit, Antibes (dicembre 1987), focalizzato sui temi delle materie prime, del debito e della regione australe africana
XV Summit, Casablanca (dicembre 1988), focalizzato sui temi della distensione est-ovest, del debito e dei conflitti regionali
XVI Summit, La Baule (giugno 1990), focalizzato sul tema delle sfide con cui si sarebbe confrontata l’Africa nel corso dell’ultimo decennio del XXmo secolo.
Storica la precisazione del Presidente Mitterrand durante tale incontro: “Noi non vogliamo più intervenire negli affari interni. Per noi questa forma di sottile colonialismo che consisterebbe nel fare una lezione continua agli stati africani e ai loro dirigenti, è una forma di colonialismo perverso. Sarebbe come credere che ci sono dei popoli superiori, che dispongono della verità e altri che non sono più capaci, quando invece conosco gli sforzi di tanti dirigenti che amano i loro popoli, e che intendono servirli, anche se non allo stesso modo di quanto si svolge sulle rive della Senna o del Tamigi”.
In tale occasione si decise di legare l’aiuto allo sviluppo all’apertura democratica. In tal modo si costrinsero i dittatori africani a modificare i loro paradigmi e a non fare dell’aiuto della Francia un’assicurazione perenne per il mantenimento del regime.
XVII Summit, Libreville (ottobre 1992), focalizzato sul tema della solidarietà, intesa quale esigenza maggiore per uscire dalla crisi
XVIII Summit, Biarritz (novembre 1994), focalizzato sul tema di una solidarietà accresciuta per uno sforzo in favour della crescita e dello sviluppo
XIX Summit, Ouagadougou (dicembre 1996), focalizzato sul tema del buon governo e dello sviluppo
XX Summit, Parigi (novembre 1998), focalizzato sulla sicurezza in Africa
XXI Summit, Yaoundè (gennaio 2001), focalizzato sul tema del confronto dell’Africa con le sfide della mondializzazione
XXII Summit, Parigi (febbraio 1973), focalizzato sul tema di un nuovo partenariato Africa-Francia
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XXIII Summit, Bamako (3-4 dicembre 2005), focalizzato sul tema della gioventù africana
XXIV Summit, Cannes (15-16 febbraio 2007) focalizzato sul tema dell’Africa e l’equilibrio del mondo
XXV Summit, Nizza (31 maggio -1 giugno 2010), focalizzato su alcuni temi politici (quelli dell’Africa nella governance mondiale, del rafforzamento della pace e della sicurezza, del clima e dello sviluppo) e su alcuni temi economici (tra cui quelli delle modalità attraverso cui facilitare l’accesso delle imprese ai finanziamenti, dell’individuazione delle risorse per l’Africa del futuro, della mobilitazione dei migranti per la creazione di imprese e investimenti nel continente africano)
XXV Summit Africa-Francia (Nizza, 2010)
L’organizzazione dell’evento di Nizza è stata finalizzata – a detta del Presidente Sarkozy- alla
rifondazione delle relazioni franco-africane. Il responsabile dell’Eliseo ha inoltre espresso la
volontà di costruire un rapporto “senza complessi” e “volto al futuro”. Tra i vari impegni presi nel
2010 da Parigi, spicca quello della lotta al terrorismo e di un contributo di 300 milioni di euro nel
periodo 2010-2012 per formare 12.000 soldati africani attivi nelle forze di mantenimento della pace,
nonché quello della promozione del ruolo dell’Africa durante le presidenze francesi del G8 e del
G20.
Alcuni osservatori hanno parlato di una “nuova strategia francese” verso il continente, altri hanno
sottolineato la chiara consapevolezza della Francia di essere ormai uno tra i tanti interlocutori
dell’Africa
Secondo quanto fissato nella dichiarazione finale del Summit di Nizza, il prossimo incontro si
dovrebbe tenere in Egitto nel 2013.
3) l’Organizzazione della Francofonia (OIF) è l’istituzione fondata sulla lingua francese e sui valori
comuni delle genti che la condividono (oltre 1 miliardo di persone, tra quanti vivono in paesi
francofoni e coloro che conoscono la lingua). L’organizzazione, fondata nel 1970 sulla base del
trattato di Niamey, è composta da 56 paesi membri e da 19 paesi osservatori.
133
La struttura istituzionale dell’OIF prevede un Segretario Generale (dal 2003 è in carica Abdou
Diouf, già Presidente del Senegal); un organo consultivo rappresentato dall’Assemblea
Parlamentare della francofonia; un organo politico che prende decisioni, la Conferenza di Capi di
Stato e di Governo (meglio conosciuta come Summit dei Capi di Stato e di governo, che si riunisce
ogni 2 anni); un organo che dà continuità ai Summit, la Conferenza ministeriale della francofonia
(cui partecipano i Ministri degli Esteri o della francofonia), il Consiglio Permanente della
francofonia incaricato di preparare il lavoro dei Summit e di seguire la fase successiva della messa
in opera delle decisioni prese.
Gli obiettivi dell’OIF, fissati nel 1997 e rivisitati nel 2005 sono:
- instaurazione e sviluppo della democrazia
- prevenzione, gestione e regolamento dei conflitti, sostegno allo Stato di diritto ed ai diritti
dell’uomo;
- avvicinamento delle popolazioni attraverso una mutua conoscenza
- rafforzamento della solidarietà dei popoli attraverso azioni della cooperazione in vista della
promozione dell’educazione e della formazione
A latere degli obiettivi, in occasione del Summit di Ouagadougou del 2004 è stato adottato un piano
decennale che fissa alcune missioni, quali: la promozione della lingua francese e la diversità
culturale e linguistica; la promozione della pace, della democrazia e dei diritti dell’uomo;
l’appoggio all’educazione, alla formazione, all’insegnamento superiore e la ricerca; lo sviluppo
della cooperazione a servizio dello sviluppo sostenibile
Il XIV Summit si svolgerà nell’ottobre 2012 a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo)
Manifesto del IX summit della francofonia (Kinshasa 2012)
4) La linea adottata dagli ultimi 4 Presidenti in carica all’Eliseo è l’ultimo elemento per
comprendere l’evoluzione della politica africana della Francia degli ultimi anni.
Francois Mitterrand (in carica al vertice dello Stato dal 1981 al 1995) ha avuto dei rapporti con il
continente“poco chiari”, definiti addirittura “ambigui” da taluni esperti. Inizialmente apprezzato in
134
quanto socialista e portatore di una nuova visione nei confronti della regione a nord ed a sud del
Sahara, è stato proprio sotto la sua presidenza (e quindi con il suo “placet”, oltre che con la
complicità del presidente ivoriano Houphouet Boigny e del togolese Eyadema) che nel 1987 è stato
assassinato Thomas Sankara (presidente dell’Alto Volta, divenuto Burkina Faso). Cosa ancor più
grave e difficilmente perdonabile, è stato sotto la sua presidenza che si è svolto il genocidio
rwandese nel 1994 senza alcuna sua forma di mediazione tra il presidente assassinato Juvenal
Habyarimana ed il Fronte Patriottico Rwandese (allora guidato dall’attuale Presidente ruandese Paul
Kagame). A suo merito viene però ricordata la messa in moto del processo di democratizzazione
dell’Africa. Determinante in tal senso è stato il Summit Africa-Francia a La Baule del 20 giugno
1990 in cui Mitterrand ha condizionato l’aiuto allo sviluppo all’apertura politica dei vari regimi.
Uomo che ha suscitato inizialmente grandi speranze, ha deluso i suoi sostenitori facendo spesso
ricorso alle pratiche tipiche della françe-afrique.
Il Presidente Mitterrand al XVI Summit Africa-Francia (La Baule, giugno 1990)
Jacques Chirac (in carica all’Eliseo dal 1995 al 2007), detto anche “Chirac l’Africano”, ha
sviluppato dei rapporti eccessivamente personali con gli omologhi africani e paternalistici. Durante
gli anni del suo potere, le truppe francesi sono intervenute diverse volte in Africa (ad es. in Chad, in
Repubblica Centrafricana, in Repubblica Democratica del Congo), ma l’intervento più significativo
è stato quello in Cote d’Ivoire. La grave crisi politica scoppiata nel settembre 2002 in quello che un
tempo era considerato il “gioiello dell’Africa occidentale”, ha spinto la Francia a mandare le sue
truppe per tutelare i connazionali ed i cittadini europei presenti. I rapporti tra Chirac e l’allora
Presidente ivoriano Gbagbo non sono stati mai buoni. Diverse le ragioni al riguardo: l’appartenenza
a campi politici opposti, ma soprattutto i tentativi di Gbagbo di aprire il mercato nazionale ad altri
attori stranieri.
Chirac è stato indubbiamente un grande conoscitore del continente, un uomo che ha traghettato le
relazioni franco-africane nel delicato periodo successivo alla guerra fredda ma soprattutto è stato
colui che ha tentato di difendere in modo estremo gli interessi nazionali francesi in Africa.
135
Il Presidente francese Chirac con i Presidenti Blaise Compaoré, Omar Bongo, Paul Biya et Denis Sassou
Nicholas Sarkozy (Presidente francese dal 2007 al 2012) ha fatto pensare ad un cambiamento dei rapporti Africa-Francia ma solo in una primissima fase. Il discorso fatto a Dakar a fine luglio 2007, in occasione di una visita ufficiale all’Università Cheikh-Anta-Diop ha deluso ed indignato la maggior parte degli africani. L’uomo che nella fase pre-elettorale aveva parlato “della necessità di voltare pagina definitivamente dei segreti e delle ambiguità con i partner africani, del bisogno di sbarazzarsi di reti di altri tempi, di emissari che non hanno altro mandato se non quello che si inventano loro stessi” si è presentato in Senegal utilizzando stereotipi e pregiudizi. Esemplificativi alcuni passaggi del famoso discorso:
“ L’Africa ha la sua parte di responsabilità nella propria infelicità (…) La colonizzazione non è responsabile di tutte le difficoltà attuali dell’Africa. Non è responsabile delle guerre sanguinose che gli africani si combattono tra di loro. Non è responsabile dei genocidi. Non è responsabile dei dittatori (…) Per il meglio come per il peggio, la colonizzazione ha trasformato l’uomo africano e l’uomo europeo (…) Sono venuto per dirvi che in voi, giovani d’Africa, ci sono due eredità, due saggezze, due tradizioni che si sono combattute a lungo: quelle dell’Africa e dell’Europa (…) Il dramma dell’Africa deriva dal fatto che l’uomo africano non è entrato nella storia (…) Il problema dell’Africa è che vive troppo il presente nella nostalgia di un paradiso perduto dell’infanzia (…) In questo immaginario dove ogni cosa rincomincia ogni giorno, non c’è spazio né per l’avventura umana né per l’idea del progresso(…) Il problema dell’Africa è di restare fedele a se stessa senza restare immobile (…) La realtà dell’Africa è una demografia troppo forte per una crescita economica troppo debole (…) La realtà dell’Africa è una grande dispersione di energia, di coraggio, di talenti e di intelligenza. La realtà dell’Africa è che è un grande continente che ha tutto per riuscire e che non riesce perché non arriva a liberarsi dei suoi miti (..) Solo voi, giovani d’Africa, potete concretizzare la Rinascita di cui l’Africa ha bisogno perché voi soli ne avete la forza. Vi sono venuto a proporre questa Rinascita (…) Giovani d’Africa, voi volete la democrazia, la libertà, la giustizia, il diritto? Tocca a voi decidere. La Francia non deciderà al vostro posto.”
Nel discorso emerge una visione paternalistica tipica del XIX secolo, un’Europa forte che aspira
alla libertà e alla giustizia contrapposta ad un continente africano che resta ancorato ad un’età
primordiale e mitica.
La Presidenza Sarkozy solo formalmente ha parlato di “rottura con il passato” ma concretamente ha
mantenuto le caratteristiche del sistema della françe-afrique.
Sintomatica di tale linea anche la missione in Repubblica Democratica del Congo, Congo
Brazzaville e Niger nel maggio 2009: dove la volontà di “portare nuove idee” , attraverso una
136
“cooperazione pratica” ha invece nascosto lo sviluppo di grandi interessi economici (sfruttamento
del deposito di uranio di Imouraren in Niger da parte della compagnia francese AREVA).
Per quanti esempi si possano portare, l’operazione più eclatante dell’applicazione di vecchi schemi
è quella registrata con la Libia dove -dopo una piena intesa tra gli anni 2007 e 2009- Parigi ha
sostenuto l’operazione per eliminare Gheddafi nel 2011, ha supportato in modo mirato un cambio di
potere e ha facilitato la presenza delle proprie imprese. L’operazione non ha tuttavia considerato gli
effetti devastanti in primis sulla stessa Libia (guerra civile) e poi sulla regione limitrofa (il ritorno in
Mali dei mercenari toureg assoldati fino al 2011 da Gheddafi) , provocando in tal modo una
pericolosa crisi destabilizzante per l’intera area del Sahel.
Il Presidente Sarkozy ed il leader Gheddafi (dicembre 2007)
L’elezione del Presidente Francois Hollande nel maggio 2012 ha creato molte speranze nelle forze
all’opposizione nei singoli paesi africani e molte paure tra le elite al potere. Di fatto, Hollande, non
ha una grande conoscenza dell’Africa (ad esclusione di brevi esperienze in Algeria e Somalia) e
quindi non è legato a vecchie logiche. Si presenta come “un enigma” per gli interlocutori africani,
ma soprattutto come un leader le cui decisioni potrebbero pesare significativamente per quanto
riguarda le vicende nordafricane e quelle saheliane dei prossimi mesi. Induce a ben sperare il fatto
che abbia scelto collaboratori preparati per occuparsi della regione africana: Kofy Yamgnane (uomo
politico franco-togolese), Thomas Melonio (già quadro dell’Agenzia francese di Sviluppo), Kader
Arif (esperto di sviluppo), Pierre Shapira (conoscitore delle tematiche israeliane e dei rapporti tra i
paesi ACP e l’Unione Europea), Puria Amirshai (Segretario nazionale del Partito Socialista per la
cooperazione, la francofonia e lo sviluppo).
Il 2012 metterà subito a dura prova la sensibilità alle questioni africane di Hollande: gli sviluppi in
Nord Africa ad un anno di distanza dalla primavera araba, la crisi in Sahel, l’instabilità nelle regioni
137
orientali congolesi inevitabilmente comporteranno scelte delicate da parte del nuovo Presidente
francese.
In questa fase storica, la Francia è chiamata a razionalizzare e rimodellare la sua presenza in Africa,
ponendo nuove basi per lo sviluppo di relazioni bilaterali reciprocamente vantaggiose, dando il
massimo valore alle aspirazioni democratiche dei popoli della regione, partecipando alla formazione
delle forze militari nazionali e coadiuvandole nel contrasto alla lotta contro il terrorismo.
138
LEZIONE N. 32“I RAPPORTI AFRICA-AMERICA LATINA”
Una convergenza di interessi ed una salda cooperazione Sud-Sud in molteplici campi nonché la
volontà di approfondire il legame naturale tra Africa e Sud America: sono questi gli elementi
qualificanti i vertici Africa-South America (ASA).
Ad oggi si sono svolti già due Summit – il primo ad Abuja il 26-27 novembre 2006, il secondo a
Isla Margarita (Venezuela) nei giorni 26 e 27 settembre 2009- ed il 3° vertice è in programma a
Malabo nel maggio 2012.
In occasione del primo Summit di Abuja, i Capi di stato e di governo di 12 paesi sudamericani
(Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Guyana, Paraguay, Peru, Suriname, Uruguay
e Venezuela) e di 53 paesi africani, hanno adottato due documenti: una Dichiarazione Finale ed un
Piano d’Azione. Le parti si sono impegnate a promuovere iniziative congiunte nei settori della pace
e della sicurezza, della democrazia, dell’agricoltura e dell’agro-business, del management idrico,
del commercio e degli investimenti, della tecnologia, dell’energia e del turismo, della scienza, della
sanità, dell’educazione, dell’ambiente, delle questioni di genere, dello sviluppo istituzionale a
contrastare la povertà.
La novità del vertice è stata quella di aver istituzionalizzato e razionalizzato i rapporti Africa –Sud
America, di aver tracciato un percorso preciso ed aperto canali di dialogo tra leader protagonisti
(Lula Sa Silva, Chavez, Gheddafi, Obasanjo) delle rispettive aree e promotori di alleanze inedite,
atte a rispondere alle sfide della globalizzazione.
Il secondo vertice ASA si è svolto a Isla Margarita (Venezuela) nel settembre 2009. L’evento ha
fornito l’occasione per revisionare il lavoro compiuto dagli 8 gruppi di lavoro costituiti in occasione
del primo Summit di Abuja (commercio, investimenti e turismo; infrastrutture, trasporti, settore
minerario ed energia; pace e sicurezza; agricoltura e ambiente; educazione e cultura; affari sociali e
sport; scienza, tecnologia e comunicazioni, institution-building e public administration) e per varare
ulteriori iniziative.
Il Presidente Hugo Chavez –che ha accolto con grandi onori gli omologhi Luis Inacio Lula Da
Silva, Cristina de Kirchner, Rafael Correa, Evo Morales, Michelle Bachelet, Muammar Gheddafi,
Abdoulaziz Bouteflika, Robert Mugabe,Teodoro Obiang Nguema, Jacob Zuma – ha proposto di
elevare gli 8 gruppi di lavoro a commissioni ministeriali, di fare del BANCOSUD (banca bi-
regionale, con 20 miliardi di capitale iniziale, incaricata di finanziare i progetti nei due continenti)
139
una struttura di finanziamento, di creare una corporazione mineraria capace di valorizzare lo
sviluppo dei popoli sudamericani ed africani.
I partecipanti all’evento si sono detti a favore di un nuovo sistema finanziario, fondato su istituzioni
regionali e su una logica di sviluppo.
Nella Dichiarazione finale, i Capi di Stato e di Governo hanno insistito sull’importanza di rafforzare
l’alleanza Sud-Sud, sia per resistere alle crisi finanziarie sia per esprimente una voce più forte a
livello internazionale.
Di seguito alcuni passi particolarmente significativi della Dichiarazione suddetta:
“CONDENAMOS el terrorismo en todas sus formas y manifestaciones y rechazamos cualquier relación entre el terrorismo y una cultura, etnia, religión o pueblos en específico. Hacemos énfasis en la importancia de combatir el terrorismo por medio de la cooperación internacional activa y eficiente en el marco de las organizaciones regionales pertinentes y las Naciones Unidas, basados en el respeto de los objetivos y principios de la Carta de las Naciones Unidas y de conformidad estricta con los principios del Derecho Internacional y los derechos humanos. TAMBIÉN COMPARTIMOS la convicción de que recurrir al pago de rescate por terrorismo deberá ser condenado y tipificado como delito. (…)
RECONOCEMOS que la crisis financiera y económica actual es estructural. Por ende, nos comprometemos a fomentar los cambios que sean necesarios con el fin de permitir el stablecimiento de una nueva arquitectura financiera internacional, que se base en un proceso democrático de toma de decisiones, incluyendo una participación equilibrada de todas las artes concernientes y tomando en cuenta los puntos de vista y las perspectivas de los países en desarrollo. Además destacamos la necesidad de evitar que las pérdidas producto de dichas crisis sean transferidas a los países en desarrollo, por medio de la implementación de diversos mecanismos de protección financiera. Concordamos en que, con el propósito de acelerar la creación de la nueva arquitectura financiera internacional propuesta, es necesario fortalecer los sistemas regionales, a través de la promoción de instituciones financieras y monetarias favorecedoras desde una visión de solidaridad, cooperación, desarrollo regional endógeno y de la formación de sociedades más democráticas, justas e igualitarias en el marco del respeto a la independencia y soberanía nacionales.(...)
ACORDAMOS consolidar nuestros esfuerzos para el intercambio de experiencias en lo referente al desarrollo y uso universal de fuentes de energía y ahorro de energía por parte de los gobiernos y los pueblos de ambas regiones, en particular, fuentes de energía limpias, renovables y alternativas, con miras a extender su difusión y utilización sustentable, así como a alcanzar la máxima eficiencia en sus usos, de conformidad con los aspectos económicos, sociales y ambientales pertinentes, lo que contribuiría a la transformación económica y social de los países de América del Sur y África. Considerando la posibilidad del uso de combustibles fósiles en el futuro, ambas regiones cooperarán en temas relacionados con la producción y uso sostenible de combustibles fósiles en especial petróleo y gas. (...)
140
NOS COMPROMETEMOS a aumentar la cooperación energética entre América del Sur y África con el fin de contribuir con el crecimiento industrial, el desarrollo de infraestructura de energía, el intercambio y la transferencia de tecnologías, la reducción de los costos de transacción y la capacitación de recursos humanos, con el propósito de lograr la meta estratégica de seguridad e integración energética. (…)
AUNAREMOS esfuerzos para emprender iniciativas de cooperación e intercambio de experiencias orientadas a la construcción de las capacidades científicas, tecnológicas e institucionales de los sistemas nacionales de CTI (ciencia, tecnología e innovación) y a la formulación e implementación de políticas para el desarrollo sustentable y el progreso social de ambas regiones, con miras a fomentar la integración y el acercamiento de las comunidades científicas suramericanas y africanas que promuevan la generación, transferencia y apropiación social del conocimiento científico y técnico. A este respecto, y con el fin de promover la inclusión social, nos comprometemos a fomentar el uso de tecnologías de la información y la comunicación (TIC), así como otras tecnologías, con miras a facilitar oportunidades de educación, salud y mejores condiciones de vida para la población. (…)
RECONOCEMOS la incidencia del analfabetismo como factor de exclusión social en el desarrollo de nuestros países. Por ende, acordamos consolidar esfuerzos, desde una perspectiva de igualdad
social y de género, para contribuir con la erradicación de este flagelo, a través del intercambio y la promoción de prácticas exitosas en el campo de la enseñanza de la lectura y escritura con miras a alcanzar las Metas de Desarrollo del Milenio. (...)
MANTENEMOS el compromiso de intercambiar expertos y desarrollar proyectos conjuntos de investigación sobre la contribución de la Diáspora Africana a la cultura de los pueblos de América del Sur, y apoyamos el avance en los arreglos para la 2ª Cumbre de la Diáspora de la Unión Africana, que se realizará en el futuro próximo. (…)”
Durante il 2° Summit ASA a Isla Margarita, il leader libico ha proposto la creazione di una NATO
del SUD (OSAN), intesa non come azione terrorista, bensì come mezzo per colmare il vuoto di
presenza negli organismi internazionali. Gheddafi ha dichiarato “Noi dobbiamo creare una NATO
per il Sud. Non è un’azione bellicista. Noi abbiamo i nostri diritti (…) L’America del Nord è legata
in tutti i settori all’Europa, quando invece c’è un vuoto nell’Atlantico del Sud. Noi dobbiamo creare
un’alleanza per poter garantire un’azione storica e strategica che permetta di colmare questo
vuoto”.
A latere di tale proposta, ambiziosa ma poco concreta e non inserita nella dichiarazione finale, il
rappresentante nordafricano ha criticato il sistema delle Nazioni Unite e ha biasimato le potenze
141
militari che hanno posto le mine terrestri nei paesi in via di sviluppo nel Sud del mondo, impedendo
l’utilizzazione delle mine terrestri a scopo difensivo da parte dei paesi poveri.
Jean Ping (Presidente della Commissione dell’Unione Africana), riconoscendo il valore storico
dell’incontro, ha sottolineato “il bisogno di andare al di là della retorica, perchè è in gioco la
credibilità della cooperazione Sud-Sud”.
In realtà, visto dall’esterno, il 2° ASA è stato un esercizio che ha sottolineato i temi sensibili del
momento e non uno sforzo per dare un contributo qualitativo alla discussione in corso a livello
internazionale. A parte le proposte concrete, riguardanti la creazione di PETROSUD
(multinazionale del petrolio che avrebbe dovuto garantire a tutti i partner l’accesso alla preziosa
risorsa energetica), TeleSUD (emittente televisiva, mezzo essenziale per favorire una vera
integrazione tra le parti), l’Università del SUD (per garantire la formazione di milioni di giovani
delle due regioni del sud del mondo) ed il suddetto BANCOSUD, l’incontro venezuelano è stato per
buona parte pura eloquenza.
Molto probabilmente è la stessa iniziativa a porsi più come una crociata contro i grandi attori
internazionali (protagonisti- nel bene e nel male- della storia africana e sudamericana) che come un
progetto da costruire tra le due aree sul lungo periodo
Gheddafi e Chavez non sono stati capaci di sganciarsi dal loro atteggiamento critico verso il mondo
occidentale, che hanno demonizzato e utilizzato come mezzo per giustificare la loro guida assoluta.
Anche in occasione del vertice, il leader venezuelano ha firmato 8 accordi energetici con alcuni
paesi sudafricani (tra cui Mauritania, Africa del Sud, Sudan, Capo Verde, Guinea Equatoriale, Sierra
Leone e Niger), con l’obiettivo di porre l’oro nero come “ elemento collante” del Sud del mondo.
Molti analisti hanno messo in evidenza che il 2° Summit ASA ha fatto intravedere le due linee che
si profilano all’orizzonte della politica sudamericana: da un lato quella del Presidente venezuelano
che spinge alla contrapposizione con l’imperialismo occidentale dall’altro quella dell’ex Presidente
brasiliano Lula Da Silva, fautore dell’incremento degli scambi commerciali tra i due continenti.
Di fatto il Brasile–in particolare negli anni di presidenza Lula da Silva (gennaio 2003-
gennaio2011)- ha promosso la concretezza della “diplomazia del business” e ha visto crescere il suo
commercio con i partner africani da 6 miliardi di dollari nel 2002 a 36 miliardi di dollari nel 2008.
Va da sé che è importante diversificare i partners e gli investimenti per muoversi all’interno
dell’economia globalizzata, ma serve anche un progetto politico per coagulare forze e proporre
alternative all’ordine mondiale.
142
Il 3° Summit ASA che si svolgerà a Malabo nel maggio 2012 fornirà l’occasione di verificare se i
leader sudamericani e africani riescono effettivamente a proporre un progetto sul lungo periodo.
Sin da ora è possibile dire che i toni delle discussioni saranno diversi e che parteciperanno –almeno
per la parte nordafricana – paesi che hanno subito il profondo cambiamento della “primavera araba”
del 2010.
L’assenza di Gheddafi –che fortemente nell’ultimo decennio ha proposto l’Africa come un blocco
unito - non passerà inosservata, sia perché dovrebbero venire meno posizioni esacerbate nei
confronti del mondo occidentale, sia perché cadranno inevitabilmente i “finanziamenti a
pioggia”che in questo anni la Giamahiriya libica aveva lautamente promesso ed elargito all’interno
del continente.
D’altro canto, la probabile assenza di Chavez (malato gravemente da mesi) come anche la
partecipazione di nuovi leader del Brasile e della Colombia meno interessati alla tematica o
comunque più attenti alle dinamiche nazionali, avranno inevitabilmente il loro peso nel corso dei
lavori.
143
LEZIONE N. 33“I RAPPORTI AFRICA-RUSSIA”
Il rapporto tra la Russia ed il continente africano ha radici profonde nel tempo, anche se non si è
sviluppato con un andamento regolare.
Lo studioso Vladimir Shubin (vice direttore dell’Institute for African Studies, Russian Academy of
Sciences) nota che sebbene la Russia non abbia mai avuto legami coloniali in Africa, si è registrata
sin dal Medio Evo una forte interazione tra l’ex superpotenza mondiale e l’area sahariana. I
movimenti di commercianti, marinai e pellegrini hanno facilitato i contatti, trainando le relazioni
ufficiali tra la Russia zarista ed i vari protagonisti del black continent.. Da qui l’apertura dei
consolati al Cairo ed ad Alessandria della Russia zarista alla fine del XVIII secolo e lo stabilimento
di relazioni diplomatiche con l’Etiopia ed il Transvaal nel 1898. Contatti si sono registrati anche
dopo la rivoluzione del 1917 e dopo la formazione dell’URSS.
Legami molto più stretti si sono sviluppati dopo il 1950, nel momento in cui iniziava a serpeggiare
la voglia di indipendenza nella vasta area a sud del Mediterraneo. Un sostegno mirato, quello del
Cremlino, finalizzato a supportare la lotta contro l’imperialismo, ad esportare il verbo socialista ed
ad utilizzare la regione africana per un confronto indiretto con gli Stati Uniti. Da qui il sostegno alle
lotte di liberazione, il training e la formazione di esponenti africani del Sud Africa, dell’Angola, di
Capo Verde e del Mozambico.
Il crollo del Muro di Berlino ed il collasso del sistema sovietico hanno comportato inevitabilmente
delle ripercussioni a livello bilaterale. Nella sua fase iniziale di gestione del potere, Boris Yeltsin si
è svincolato da impegni gravosi e si è liberato di quella che era stata percepita nel trentennio
precedente come “un’assistenza obbligata”.
Shubin ritiene che per i primi anni ’90, l’Africa sia stata percepita come un black hole e sottolinea
come i media sovietici abbiano assecondato la volontà del Cremlino, contribuendo a dare una
immagine negativa del continente e mettendo in risalto le sue debolezze.
E’ solo con la fine degli anni ’90 e con i primi anni del XXI secolo, per necessità di nuove fonti
energetiche ma anche in virtù di una revisione della politica estera della Federazione, che Mosca si
è riaffacciata nell’area. Secondo lo studioso russo, dal Concept of the Foreign Policy of the Russian
Federation (firmato da Vladimir Putin nel giugno del 2000) emerge che pur non essendo l’Africa
una priorità per l’attore orientale europeo, un decennio fa si è delineata una chiara volontà di
promuovere l’interazione e la disponibilità ad assistere il partner africano nella risoluzione dei
conflitti locali.
L’intenzione di Mosca è stata confermata durante la visita di Igor Ivanov in Libia (luglio 2001),
Egitto (novembre 2001) e Sud Africa (dicembre 2001).
144
Storiche e significative sono state ritenute le visite de 2006 fatte dal Presidente Putin in Algeria
(marzo), Sud Africa e Marocco (settembre), in quanto compiute per la prima volta da un leader
post-sovietico nel continente africano. In ognuna delle tappe si sono riscontrati elementi di novità e
di salvaguardia della tradizione. Ad Algeri sono stati stipulati accordi volti ad ottenere una fornitura
russa di armi sofisticate ed attrezzature militari per un ammontare di circa 7.5 miliardi di dollari ed
è stato cancellato il debito contratto dall’Algeria con l’Unione Sovietica tra il 1965 ed il 1985, pari a
4.7 miliardi di dollari; in questo caso l’elemento innovativo è stato dato dalla conclusione di 14
contratti in materia di energia, volti all’esplorazione delle riserve di gas e petrolio nord africano,
nonché alla loro valorizzazione.
La visita in Sud Africa è stata motivata da importanti impegni di tipo politico, ma ancor più
economico. Accomunati dal lavoro congiunto negli anni dell’apartheid, dalla formazione politica
offerta dall’Unione Sovietica agli esponenti dell’African National Congress-ANC di Nelson
Mandela, i due paesi hanno superato più o meno brillantemente l’impatto successivo alla caduta del
comunismo e al crollo del sistema di segregazione razziale. Entrambi sono ora impegnati nel
rafforzamento delle istituzioni democratiche e nella ridefinizione della propria identità post-
sovietica, ma sono anche sostenitori di posizioni “originali”, non modulate sul pensiero americano:
basti pensare alle vicende relative al nucleare, della ricerca e dell’uso di medicinali anti-retrovirali,
del sostegno più o meno mascherato a Rogue States o Stati con cui la comunità occidentale ha
interrotto o “congelato” ogni tipo di rapporto diplomatico (Iran, Sudan e Zimbabwe).
Diversi i temi in agenda per gli incontri a Città del Capo: un esame delle relazioni politiche ed
economiche e l’impegno per la loro necessaria implementazione (gli scambi commerciali sono di
gran lunga inferiori al potenziale tra i due paesi, come testimoniato dall’interscambio nei primi dieci
mesi del 2005 che ha registrato un flusso di importazioni dalla Russia per un valore complessivo di
18 milioni di dollari e di esportazioni sudafricane per circa 106 milioni di dollari); il follow-up del
Summit G8 per quanto riguarda il Piano per l’Africa; l’uso pacifico del nucleare; gli sviluppi
regionali in ambito SADC; i processi di risoluzione pacifica dei conflitti ed i contributi di soggetti
esterni, la riforma delle Nazioni Unite.
A latere degli impegni istituzionali, la firma di Accordi significativi, chiari indicatori di una
crescente collaborazione tra i due partners, tra cui si segnalano: un trattato di amicizia e
partenariato, intese nell’ambito della sanità, della protezione dei diritti della proprietà intellettuale,
nell’ambito della cooperazione aero-spaziale per fini pacifici3, accordi per l’estrazione in Sud
Africa di manganese ed alluminio ad opera di compagnie russe, nonché per l’assistenza tecnica
necessaria allo sviluppo di una capacità nucleare sudafricana entro il 2010.
145
Certamente, per gli operatori economici, il documento più interessante è stato quello concluso tra
l’azienda sudafricana di estrazione e lavorazione di diamanti, De Beers, ed il colosso russo Alrosa.
In base alle intese raggiunte, la compagnia africana si è impegnata ad acquistare dal partner europeo
diamanti grezzi per un valore di 500 milioni di euro nel 2006, 420 milioni nel 2007 e 340 milioni
nel 2008.
La missione a Casablanca è stata orientata al pragmatismo. In tale occasione le due parti si sono
impegnate a rafforzare le relazioni bilaterali e la cooperazione nel settore del gas e dell’elettricità.
Determinante è stato l’annuncio della compagnia russa Atomstroiexport, dato la settimana prima
degli incontri di alto livello, che “avrebbe potuto fare” un’offerta di appalto per costruire il primo
impianto nucleare in Marocco (evento che si è verificato nell’arco di pochi mesi). Durante questa
tappa sono stati conclusi inoltre numerosi accordi nel settore della pesca, della giustizia, del
turismo, della comunicazione, della sanità e del settore bancario. Le suddette intese hanno avuto un
duplice obiettivo: bilanciare le relazioni russo-algerine e garantire le basi per accrescere
l’interscambio commerciale (passato da 400 milioni di dollari nel 2001 a 1 miliardo di dollari nel
2005). Molto importante è stato considerato il ruolo del Business Council russo-marocchino
costituito nel giugno precedente in occasione della visita a Mosca del Ministro degli Affari Esteri
marocchino Mohamed Benaissa.
Di grande rilievo è stato il tour del Presidente Medvedev in Egitto, Nigeria, Namibia ed Angola
(23-26 giugno 2009). In questo frangente, il segnale chiaro è stato dato dalla delegazione di 400
imprenditori che ha accompagnato il responsabile del Cremlino. Due sono stati i temi al centro delle
discussioni: la vendita di armi da parte di Mosca e la vendita di gas-petrolio da parte degli attori
africani. La tappa del Cairo ha permesso di riproporre il ruolo di Mosca in Medio Oriente e di
firmare degli Accordi di Partenariato strategico, ma soprattutto ha identificato l’Egitto come base in
Nord Africa per la vendita di armi; la visita ad Abuja è stata funzionale ad un accordo di
cooperazione, che ha garantito l’accesso di Gazprom alle riserve di metano nel Delta del Niger e gli
ha permesso di creare la società Nigaz assieme alla Nigerian National Petroleum Corporation; la
missione in Namibia è stata finalizzata allo sfruttamento dei giacimento di uranio locale; la trasferta
a Luanda è stata funzionale alla firma di 6 accordi di cooperazione, nonché ad ottenere il
coinvolgimento di imprese russe nella produzione di greggio in cambio ad un impegno di Mosca
per la modernizzazione di industrie tessili e del settore delle telecomunicazioni del partner africano
Visite ufficiali degli esponenti politici russi in Africa
2000……………………Vassily Sredin (Vice Ministro Esteri) visita il Sud Africa2001……………………Igor Ivanov (Ministro Esteri) visita Libia, Egitto e Sud Africa2002……………………Mikhail Kasyanov (Premier) partecipa all’Earth Summit a Johannesburg. 2006……………………Vladimir Putin (Presidente) in Algeria (marzo), Sud Africa (Settembre) e Marocco
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…………………………(settembre)2009……………………Dmitri Medvedev (Presidente) visita Egitto, Nigeria, Namibia e AngolaFonte: Stampa internazionale
Per comprendere la valenza dei rapporti bilaterali può essere utile una lettura speculare delle visite
dei leader africani in Russia. In questo caso è importante ricordare che molti dei dirigenti locali
hanno ricevuto la formazione a Mosca e non hanno mai interrotto il contatto con le istituzioni che
hanno garantito loro assistenza durante gli anni delle lotte per la liberazione.
Visite ufficiali di leader africani in Russia1997…………………………………..Mubarak compie una visita ufficiale a Mosca 1998 e 2006………………………......Eduardo Dos Santos compie una visita ufficiale a Mosca1998…………………………………..Sam Nujoma compie una visita ufficiale a Mosca1998…………………………………..Tabo Mbeki compie una visita ufficiale a Mosca2001………………………………….Omar Bongo compie una visita ufficiale a Mosca2001………………………………….Olusegun Obasanjo compie una visita ufficiale a Mosca2001………………………………….Melese Zenawi compie una visita ufficiale a Mosca2008………………………………….Abdelaziz Bouteflika compie una visita ufficiale a Mosca2010…………………………………Hifikepunye Pohamba compie una visita ufficiale a Mosca2010 e 2011………………………….Jacob Zuma compie una visita ufficiale a MoscaFonte: Stampa internazionale
Un studio del maggio 2011 preparato da Habiba Ben Barka per l’African Development Group Bank
mette in evidenza che l’importanza della Russia come partner commerciale con i paesi africani è
abbastanza minima se comparata con i rapporti gestiti da Unione Europea, Cina, India, Brasile e
Stati Uniti. Il commercio tra Russia e Africa ha infatti raggiunto 7,3 miliardi di US $ nel 2008
(sebbene abbia registrato un aumento vertiginoso nel giro di pochi anni visto che nel 1994 si era
raggiunto un livello di 740 milioni di US$).
La Russia è indubbiamente molto interessata a sviluppare collaborazioni con l’Africa nel settore
delle risorse naturali ma, come notato da Vladimir Shubin in un articolo del 2010, “a differenza di
Cina e India l’importazione di minerali non è una questione di vita o di morte per la sua economia,
quanto piuttosto una questione di convenienza. Molti minerali sono disponibili in Russia ma le
condizioni per l’esplorazione e l’uso stanno diventando sempre più difficili, perché si trovano in
aree remote come la Siberia e l’estrema area orientale che hanno un clima molto rigido. Il risultato
è che il 35% dei depositi minerali russi (incluso manganese, cromo, bauxite, zinco e stagno) stanno
perdendo la loro redditività commerciale”
Per tale motivo non sorprende che siano presenti nell’area sahariana importanti multinazionali come
Lukoil, Gazprom, Norilsk Nickel, Alrosa, Rusal e Severstal per investire in Algeria, Angola,
Botswana, Côte d’Ivoire, Egitto, Gabon, Guinea, Namibia, Nigeria e South Africa.
147
Investimenti più importanti di compagnie russe in africaInvestitore Paese Settore industriale Valore annoNorilskNickel
South Africa Gold miningandprocessing
US$1.16billion
2004
NorilskNickel
Botswana Nickel miningandprocessing
US$2.5billion
2007
Sintez South Africa, Namibia,Angola
Oil, gas,diamonds andcopperexploration
US$10-50million
2006
Lukoil Côte d’Ivoire,Ghana Oil US$900million
2010
Rusal Nigeria Aluminum US$250million
Severstal Liberia Iron ore US$40million
2008
Gazprom Algeria Natural gasexploration
US$4.7billionandUS$7.5billion
2006
Alrosa Angola,Namibia,DRC
Diamondmining, andhydroelectricity
US$300-400million
1992
Rosatom Egypt Nuclear power US$1.8 billion 2010Fonte: "Russia’s Economic Engagement with Africa” - Africa Economic Brief, May, 2011
Altra sfera particolare dei rapporti economici Russia-Africa è quella del commercio di armi. E’ cosa
nota il coinvolgimento russo nell’equipaggiamento di varie forze armate continentali. Negli anni
’90 la situazione è cambiata perché –a causa della crisi economica - Mosca non ha più potuto fare
credito ai suoi partner in via di sviluppo ed ha richiesto il pagamento in contanti per gli acquisti.
Ciò ha comportato una perdita naturale di clienti, che si sono rivolti alle potenze occidentali. Shubin
nota che “negli anni recenti la situazione ha registrato un cambiamento e che dovrebbe essere
sottolineato che il governo russo ha rafforzato il controllo sugli affari delle armi e osservato
sanzioni e limitazioni imposte dalle Nazioni Unite”. E’ doveroso dire che tale posizione di pieno
rispetto per l’embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza è stata più volte contestata da alcune
organizzazioni non governative che hanno invece accusato Mosca di continuare a vendere armi in
aree di guerra, ben consapevole delle violazioni dei diritti umani in aree specifiche (vedi caso
Darfur e rifornimento armi garantito all’esecutivo di Khartoum e Janaweed)
Molto importante è poi la cooperazione nel settore educativo. Grazie alle borse di studio in Russia,
migliaia di studenti africani posso lasciare i loro paesi ed assicurarsi un’esperienza all’estero.
148
Seppure non sia ancora chiaro se la scelta di Mosca di tornare sulla scena africana dipenda più dalla
necessità di riaffermare la propria visione di un approccio multipolare alla politica internazionale,
dal bisogno di mantenersi un ruolo di mediatore affidabile o da esigenze economiche, diversi
analisti concordano nel dire che il rinnovato interesse della Russia per l’Africa scaturisce
dall’esigenza di contrapporsi a Pechino nello spazio sahariano. Se è pur vero che al momento ci
sono spazi di operatività diversi, in un prossimo futuro il partner asiatico potrebbe avventurarsi in
settori che non le sono propri (come ad esempio la tecnologia avanzata o le telecomunicazioni).
149
LEZIONE N. 34“RAPPORTI AFRICA-ISRAELE”
I rapporti tra Israele ed il continente africano sono stati altalenanti dagli anni ’50 ad oggi, ma
sempre ispirati al pragmatismo.
Si distinguono 4 fasi: la prima corrisponde agli anni 1957-1973, la seconda al periodo1973-1990; la
terza 1990-2009; la quarta da 2009 ad oggi.
Nella prima fase, definibile “di inaugurazione”, 1957-1973, Israele sostiene i paesi africani che
lottano per la propria indipendenza e si posiziona al 2° posto a livello mondiale per il trasferimento
di expertise ai paesi in via di sviluppo. Nel 1957 viene aperta l’ambasciata in Ghana e viene dato
l’avvio alla presenza ufficiale nella regione.
Israele ed il continente hanno diversi punti in comune: la lotta per veder riconosciuto un proprio
spazio e per veder tutelati i propri diritti, l’essere vittime della Storia coloniale e dell’olocausto, il
lavoro su un terreno difficile.
La guerra dei 6 giorni nel 1967 e quella dello Yom Kippur nell’ottobre 1973 provocano una frattura
diplomatica con la maggior parte del continente. Israele viene percepita come una potenza
conquistatrice, che si scontra con gli interessi del mondo arabo. Lo choc petrolifero del 1973 porta
inevitabilmente i paesi africani ad accrescere la loro dipendenza dai paesi produttori e ad
interrompere i rapporti con l’esecutivo di Gerusalemme.
In tale frangente, solamente il Malawi, il Lesotho, lo Swaziland mantengono inalterati i contatti con
Israele.
Da questo momento inizia la seconda fase, che si può definire di “chiusura” che , seppur con
sfumature diverse, si sarebbe sviluppata nel quarantennio successivo.
Il silenzio politico degli anni 1973-1990 non impedisce tuttavia lo sviluppo di scambi commerciali
che triplicano e si dimostrano molto fiorenti soprattutto con Nigeria, Kenya, Zaire, l’Etiopia,
Tanzania e Côte-d’Ivoire, né tanto meno intacca l’assistenza militare da parte di Israele.
Per quanto concerne i rapporti commerciali, da poco più di 30 milioni di US$ nel 1973, le
esportazioni israeliane in Africa passano a più di 75 milioni di US$ nel 1979.
Il grande lavoro di “raccordo silenzioso” viene fatto da incaricati d’affari israeliani presenti nelle
capitali di alcuni paesi africani sotto la copertura di ambasciate europee. Lo studioso Léon César
Codo nota che l’incaricato di interessi israeliano collocato ad Abidjan (con responsabilità per Cote
d’Ivoire e Gabon) lavora sotto la copertura dell’ambasciata del Belgio fino al 1986; l’incaricato
posizionato a Nairobi usufruisce della copertura della rappresentanza diplomatica della Danimarca,
l’inviato a Accra (con responsabilità per Ghana e Togo) utilizza la copertura dell’Ambasciata
svizzera. Con il passare degli anni, alcuni responsabili di imprese israeliane operanti in Africa
150
svolgono addirittura funzioni di raccordo con Gerusalemme, sostituendo di fatto le figure mancanti
dei diplomatici.
In riferimento alla vendita di armi, alla fine degli anni ’70, circa il 35% dei trasferimenti di armi
israeliane si realizzano in Africa. Come riconosciuto dal professore Naomi Chazan (emerito di
scienze politiche e studi Africani all’Università ebraica di Gerusalemme), “Gli agenti del MOSSAD,
gli emissari militari ed un piccolo gruppo di uomini d’affari sostituivano i diplomatici in quanto
interlocutori privilegiati dei dirigenti africani e (principalmente) dei partiti dell’opposizione”. In
Côte d’Ivoire, Liberia, Zaire, Togo e Gabon dei specialisti della sicurezza affiancano i responsabili
del settore sicurezza ai vertici dello Stato.
In tale arco temporale non si può sottovalutare il significato simbolico del 1978, l’anno della svolta
con gli accordi di Camp David ed il riavvicinamento tra Egitto e Israele. Da tale data vengono
ristabilite le relazioni diplomatiche ufficiali con lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo)
nel 1982 , con la Liberia nel 1983, con la Côte d’Ivoire ed il Cameroun nel 1986, con il Togo nel
1987. All’inizio degli anni ‘90 (dopo la condanna dell’apartheid da parte di Israele nel 1987) anche
altri attori africani riprendono i contatti con l’esecutivo israeliano come ad es. il Kenya, la Guinea e
la Repubblica Centrafricana.
Tra il 1990 ed il 2009 si assiste alla terza fase, quella di un lento riavvicinamento delle parti.
A livello continentale gli scambi commerciali passano da 430 milioni di US$ nel 1990 a più di 2
miliardi di US$ nel 2008. Gli affari si sviluppano in molteplici settori, quali: l’agricoltura,
l’idraulica, la vendita di metalli preziosi, le tecnologie della comunicazione.
La visita del Ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, in Etiopia, Kenya, Ghana, Nigeria
e Uganda dal 2 al 10 settembre 2009 ha segnato il “grande ritorno” nell’area a sud del Sahara ed ha
aperto indiscutibilmente la quarta fase del rapporto Israele-Africa.
Accompagnato da una delegazione di uomini d’affari operanti nel settore agricolo, industriale,
infrastrutturale, chimico, della comunicazione e della sicurezza nonché da alti funzionari del
Ministero degli Esteri, del Ministero delle Finanze, della Difesa e del Consiglio Nazionale di
Sicurezza, Lieberman ha puntato a rafforzare e a valorizzare i rapporti con i partner africani anche
in vista di nuove aperture nella politica estera nazionale.
Nell’ambito della tappa etiopica, durante l’incontro con il Premier Meles Zenawi, Lieberman ha
riconosciuto il valore della comunità etiopica in Israele, considerata come un “ponte” tra i due Stati.
Importante è stata l’occasione dell’inaugurazione del Progetto d’Eccellenza nel settore agricolo di
Butajira, che vede anche la partecipazione di USAID.
In Kenya, Lierberman ha avuto colloqui con il Presidente Mwai Kibaki, il Premier Raila Odinga, il
Ministro dell’Acqua Charity Kaluki Ngilu ed il Ministro degli Esteri Moses Wetangula.
151
Particolarmente significativa è stata la firma di un accordo volto ad accrescere la cooperazione
bilaterale nel management delle risorse idriche e l’introduzione di nuovi metodi di irrigazione. Sono
stati inoltre siglati accordi nel reparto della sanità, dell’educazione, dell’energia, dei servizi di
emergenza.
Per quanto concerne la sicurezza, i due partner hanno concordato l’importanza della collaborazione
nell’anti-terrorismo, per altro già sperimentata da fine anni ‘90.
In Ghana, Lieberman si è incontrato con il Presidente Atta Mills, il capo della Diplomazia Alhaji
Muhammad Mumuni ed il Ministro dell'Agricoltura Kwesi Ahwoi. In tale sosta è stato firmato un
accordo relativo alla pesca grazie al quale Israele si è impegnato ad aiutare il Ghana ad aumentare la
produzione ittica, sia in vista del consumo interno che per l’esportazione. Sono stati inoltre firmati
accordi volti a permettere una maggiore cooperazione nell’agricoltura, nell’educazione, nella
medicina, nel management dell’acqua e nel commercio.
Grande apprezzamento è stato rivolto da Lieberman per la partecipazione di soldati del Ghana nella
missione UNIFIL in Libano.
In Nigeria, il Ministro degli Esteri israeliano si è incontrato con l’omologo, con il responsabile della
Difesa e con i più alti vertici istituzionali. Oltre alla firma di molteplici accordi commerciali, è stato
siglato un memorandum con l’organizzazione regionale ECOWAS-Economic Community of
Western Africa States che ha sede ad Abuja. Le due parti si sono impegnate a lavorare
congiuntamente per ridurre la povertà e per preservare l’ambiente.
In Uganda, Lieberman ha avuto modo di parlare con il Presidente Museveni e con il capo della
diplomazia. La presenza all’inaugurazione di un evento economico ha voluto sottolineare
l’importanza che Gerusalemme attribuisce al paese, sia per i grandi traguardi imprenditoriali
raggiunti nell’ultimo decennio, sia in quanto piattaforma per il commercio con l’area centrale
africana.
In un’ottica di reciprocità, per quanto concerne le visite di Capi di Stato o di Governo in Israele,
sono indubbiamente da segnalare quelle del Presidente ugandese Museveni e del Premier kenyota
Raila Odinga nel novembre 2011 e quelle del Presidente sud Sudanese Salva Kiir nel dicembre
2011.
Da tali missioni e dai colloqui avuti con Netanyahu emerge chiaramente l’obiettivo degli attori
africani di attrarre nuovi investitori nel settore petrolifero, di rafforzare il settore della sicurezza
nazionale e di lottare contro il terrorismo radicale islamico.
Nell’area centro-orientale africana si sente fortemente la minaccia del terrorismo, degli attacchi
promossi dal movimento somalo degli Shabab e si teme il suo collegamento con Al Qaeda. Ciò ha
152
accelerato un avvicinamento di interessi con Israele ed ha indotto a promuovere una “coalizione
contro il fondamentalismo” nell’Africa Orientale.
Uganda e Kenya avvertono particolarmente il pericolo, per via di posizioni assunte negli ultimi anni
e per il contributo fornito nella lotta internazionale al terrorismo. L’Uganda partecipa infatti con
5000 uomini alla missione AMISOM-African Union Mission in Somalia (operazione dell’Unione
Africana promossa nel 2007 che ha l’obiettivo di stabilizzare la situazione nel paese martoriato da
oltre un ventennio di guerra) ed il Kenya –che nell’ultimo decennio si è particolarmente adoperato
per mediare tra i vari clan somali- dall’ottobre 2011 ha addirittura lanciato l’ “Operazione Linda
Nchi” ufficialmente per respingere le incursioni dei terroristi nelle aree a confine ma anche per
supportare il governo federale di transizione di Mogadiscio contro gli Shabab.
Nel quadro dei rapporti privilegiati di Israele con l’Africa sub sahariana non può passare inosservata
la stretta collaborazione con il Sud Sudan. Lo storico supporto garantito agli uomini del Sudan
People’s Liberation Movement (SPLM) dagli anni ’80 si è formalizzato dopo l’indipendenza dal
Sudan settentrionale sancita nel luglio 2011. Non meraviglia quindi, che tra le prime visite
all’estero, il Presidente Salva Kiir abbia proprio voluto inserire la tappa israeliana . Tra i temi in
agenda trattati nell’incontro del 20 dicembre 2011, particolare attenzione è stata data
all’immigrazione clandestina africana verso Israele ed alle tecniche più moderne da usufruire per
valorizzare il management dell’acqua.
Seppure non ci siano ancora state missioni ufficiali dei vertici istituzionali, è bene ricordare che
sono stati già avviati dei contatti tra la Nigeria ed Israele per promuovere una collaborazione dei
servizi di intelligence e lavorare congiuntamente per sradicare il movimento radicale di Boko
Haram, considerato la sfida più pericolosa per la sicurezza nigeriana ed un fattore capace di mettere
seriamente in pericolo la stabilità dell’area occidentale africana.
153
Quarto ModuloLE SFIDE ALLA SICUREZZA ED ALLA STABILITA’ DELL’AFRICA
(Corso Monografico a cura del Prof. Stefano Silvio Dragani)
� La Corruzione in Africa
� Il traffico di stupefacenti in Africa
� Il terrorismo in Africa
� Il fenomeno della pirateria nel Golfo di Guinea e al largo delle coste somale
154
LEZIONE N. 35-36“LA CORRUZIONE IN AFRICA”
La corruzione è connessa direttamente alla sfera politica, in quanto è il frutto di sistemi politici
disfunzionali, così come il prodotto di particolari circostanze che vanno ricercate nella storia di un
paese ma ha effetti dirompenti sullo sviluppo economico e sociale di un paese. Fino agli anni ’90 vi
è stato un manifesto disinteresse da parte della teoria e dei policy makers. Addirittura negli anni ’60
la corruzione veniva vista come un male minore, che aveva la funzione di oliare i meccanismi
inceppati del mercato, a causa di sistemi statalisti dominati da burocrazie inefficienti. Tale punto di
vista era radicato anche nel mondo della ricerca, se si pensa che autori del calibro di Samuel
Huntington, famoso per la tesi sullo “scontro delle civiltà”, sosteneva che la corruzione poteva
avere un ruolo positivo sullo sviluppo.
Dopo una lunga maturazione della teoria, la svolta viene espressa ufficialmente nel 1996, con il
discorso di Wolfensohn (Presidente della Banca Mondiale) tenuto durante la riunione annuale tra
Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, che ha messo la lotta alla corruzione e la
good governance come elementi chiave dello sviluppo, svolta recepita dalla maggior parte delle
agenzie allo sviluppo nazionali e multilaterali. Alcuni studi econometrici hanno addirittura
quantificato la correlazione tra corruzione e la crescita economica: ad esempio, secondo lo studio
“The Effects of Corruption on Growth, Investment, and Government Expenditure” dell’economista
Paolo Mauro, pubblicato nel 1996, la diminuzione del tasso di corruzione del 23,8%
determinerebbe un aumento del PIL dello 0,5%. Considerando i livelli di corruzione in Africa, a
fronte di PIL modesti, è probabile che questa correlazione sarebbe maggiore nel suddetto
continente.
Secondo il nuovo paradigma, la corruzione ha un impatto negativo sulla crescita economica per
diversi motivi:
1. la politica economica è poco efficace in quanto i decision makers corrotti varano misure
non nell’interesse del paese, ma di gruppi particolari;
2. gli investimenti pubblici vengono decisi, non sulla base di valutazioni economiche che
mirano a quantificare in termini di accrescimento del reddito della comunità nazionale
(analisi costi-benefici), ma piuttosto dietro richiesta degli esecutori dei lavori, dietro
tangenti; inoltre nella fase esecutiva dei lavori i costi vengono incrementati artificialmente e
i proventi suddivisi tra corrotti e corruttori a tutto danno della comunità nazionale e
dell’erario;
3. la corruzione comporta una grave distorsione dei meccanismi di competizione sui vari
mercati dei beni, servizi e nel mercato del lavoro.
155
Tutti questi elementi negativi sono purtroppo presenti nel continente africano. In stati deboli e con
apparati non sufficientemente preparati tecnicamente, o dove i parlamenti non sono in grado di
esercitare le loro funzioni di controllo, l’arbitrio di pochi diventa la regola. Soprattutto nel passato
si sono avvantaggiate dello stato di debolezza locale molte multinazionali straniere; emblematico il
caso de gruppo Fireston, che negli anni 60-70 è riuscita a monopolizzare il mercato dei pneumatici
in Kenya grazie alle tariffe protettive ottenute a colpi di tangenti dal governo keniota. Oggi questo
ruolo delle multinazionali occidentali nell’alimentare la corruzione , si è ridotto per effetto delle
normative OCSE che pongono dei limiti all’azione con sanzioni anche gravi alle grandi imprese
occidentali. In compenso i nuovi attori in Africa, come i cinesi, gli indiani, i malesi ed i brasiliani,
svincolati i dalle regole OCSE, hanno alimentato la corruzione soprattutto nel settore e estrattivo
con accordi segreti con le grandi compagnie petrolifere statali africane, controllate spesso dai poteri
politici locali. Se si guarda all’esperienza recente su come sono stati utilizzati i proventi petroliferi
non c’è da essere ottimisti per il futuro. Di fatto, lo Stato e le compagnie petrolifere governative
vengono utilizzate dalle elite locali come strumento di arricchimento privato.
In Angola, ad esempio tra il 1997 e il 2002 si sono volatilizzati dal budget proventi petroliferi per
circa $ 4,2 mld, cifra pari alla spesa sociale del governo angolano e dei donatori internazionali, per
lo stesso periodo; questo è accaduto in uno Stato dove quasi la metà dei bambini risulta essere
malnutrita.
In Nigeria, la cleptocrazia dilagante ha saputo avvantaggiarsi della rendita petrolifera in maniera
evidente. Soltanto per fare un esempio delle dimensioni delle sottrazioni all’erario, il Generale Sani
Abacha, decimo presidente del paese, si è appropriato di ingenti fondi pubblici e soltanto
recentemente, in seguito ad un’azione legale del nuovo governo per recuperarne almeno una parte,
sono stati scoperti fondi a suo nome o a parenti stretti, pari a $1,48 mld distribuiti in varie banche in
Svizzera, Liechtenstein e Lussemburgo, che si aggiungono a $ 1 mld consegnato volontariamente
dalla famiglia Abacha.
Secondo un rapporto della Commissione dell’Unione Europea il patrimonio depositato presso le
banche all’estero, frutto di sottrazione all’erario di paesi africani, è pari a più della metà dell’intero
debito estero dell’Africa.
Oltre alla cosiddetta grande corruzione, il continente africano è afflitto dalla corruzione diffusa o
piccola corruzione, che comporta anch’essa costi enormi alle economie di quei paesi. Si prenda
come esempio il sistema di prelievi illegali attraverso posti di blocco sulle grandi vie di
comunicazioni africane che incrementano costi e tempi nei trasporti stradali. Tra Bangui e Douala,
156
ad esempio, un viaggio di 1.600 km per il quale occorrerebbero circa tre giorni, arriva a durare fino
a 7/10 giorni per i posti di blocco locali.
Tra Abidjan e Ouagadougou, circa 100 km di strada, i posti di blocco sono circa 65 con pagamenti
richiesti che variano tra i 1000 ed i 5000 FCFA.
Sulla Trans Sahelian Highway tra Ouagadougou e Niamey, 529 km di strada, i pagamenti richiesti si
aggirano intorno ai 150 $ per camion a pieno carico, mentre sulla rotabile tra Bangui e Douala il
costo dei posti di blocco raggiunge i 580 $.
Non sorprende, per citare un caso significativo, che spedire un’automobile dal Giappone ad
Abidjan, il costo comprensivo di assicurazione è di 1.500 $, mentre si sale a 5000 $ se la spedizione
avviene tra Addis Abeba e Abidjan
La piccola corruzione diffusa tra la polizia ed i bassi gradi della burocrazia finisce inoltre per
avere un costo maggiore sui soggetti deboli: le tangenti richieste dalla burocrazia rappresentano un
costo proporzionalmente maggiore sulle piccole imprese, mentre la piccola corruzione legata alla
fornitura di servizi pubblici costituisce una sorta di tassazione illegittima che pesa soprattutto sui
poveri. La corruzione legata all’evasione fiscale riduce la capacità di spesa dello stato e riduce la
qualità e quantità dei servizi, mentre le distorsione del sistema giudiziario finisce per danneggiare
soprattutto chi ha meno strumenti di pressione.
Il panorama africano è molto differenziato per la capacità di combattere la corruzione. Si riportano
qui di seguito alcuni dati in una tabella che indicano, con relativa graduatoria (esame di 178 paesi),
il livello di corruzione in alcuni paesi così come risultano dal Transparency Corruption Perception
Index 2010.
Livelli di corruzione in Africa
Meno corrotti Più corrottiBotswana (33) Guinea Equatoriale (168)Mauritius (39) Angola (168)
Capo Verde (45) Burundi (170)Seycelles (49) Chad (171)Sudafrica (54) Sudan (172)Namibia (56) Somalia (178)
povertà;
istituzioni deboli
mancanza a livello istituzionale di un sistema di check and balance e la debolezza e di un
sistema giudiziario realmente indipendente;
scarsa libertà dei media e debolezza della società civile;
157
mancanza di reali competizioni elettorali (alternanza delle coalizioni al potere);
apparati dello Stato inefficienti.
Gran parte degli osservatori concordano su tutti questi punti, anche se vi è un certo dibattito su
alcuni di essi, come su quello della povertà. La povertà indubbiamente crea un incentivo alla
corruzione; basti pensare ai bassi salari dei funzionari e la necessità di integrarli con altri sistemi.
I mercati in paesi africani (scarsità di domanda) offrono meno possibilità alle imprese, che soffrono
comunque di scarsità di capitale e manodopera specializzata e quindi per ottenere profitti
ragionevoli utilizzano il metodo della corruzione per ottenere appalti a prezzi gonfiati.
Le famiglie ricorrono alla corruzione per ottenere servizi scarsi di prima necessità, come ad
esempio le medicine alle quali non avrebbero accesso in altra maniera, subendo così una sorta di
prelievo fiscale surrettizio che non va nelle casse dello stato ma nelle tasche dei burocrati. In linea
generale, in condizioni di povertà, la gente è concentrata sulla sopravvivenza di ogni giorno e non
ha l’energia o gli strumenti culturali per poter contrastare il fenomeno e chiedere una maggiore
responsabilità a chi governa la cosiddetta accountability. Alcuni critici fanno notare tuttavia che la
correlazione tra povertà e corruzione non sia così stretta, visto che paesi relativamente poveri come
il Botswana, Capo Verde, le Seychelles o Mauritius e lo stesso Sud Africa, risultano dagli indici
internazionali molto meno corrotti di paesi avanzati come ad esempio l’Italia che si pone al 67esimo
posto nell’indice di Transparency International.
Altro punto controverso è quello della repressione; quando la corruzione è sistemica e diffusa in
tutti i gangli sociali, secondo molti osservatori, la repressione ottiene scarsi risultati. Inoltre in molti
paesi africani la lotta alla corruzione diventa uno strumento di lotta politica: ogni colpo di stato
viene giustificato come unico mezzo per porre fine ad un regime corrotto, e dopo la presa del potere
con il pretesto della corruzione viene eliminata tutta la classe dirigente precedente.
Nei paesi democratici come la Nigeria, la lotta alla corruzione si è intrecciata sovente con la lotta
politica ed è servita ad indebolire fazioni scomode al potere, anche se a ben vedere, qualche
risultato positivo è stato ottenuto. Al contrario, l’esempio dell’azione di Rawlings in Ghana (che
peraltro conduceva un’azione in buona fede, con l’intento di risanare la società del suo paese), con
la sua violenta repressione del fenomeno (più di 700 esecuzioni), non ha raggiunto importanti e-
soprattutto - durevoli risultati.
Secondo Daniel Kaufmann, che ha lavorato per lunghi anni alla Banca Mondiale su questi temi, la
corruzione non è un problema etico, ma di organizzazione del sistema:
“A fallacy promoted by some in the field of anticorruption, and at times also by the international
community, is that one "fights corruption by fighting corruption"—through yet another
158
anticorruption campaign, the creation of more "commissions" and ethics agencies, and the
incessant drafting of new laws, decrees, and codes of conduct. Overall, such initiatives appear to
have little impact, and are often politically expedient ways of reacting to pressures to do something
about corruption, substituting for the need for fundamental and systemic governance reforms”.
In buona sostanza per Kaufmann, per combattere la corruzione si richiede la costruzione di un
diverso rapporto tra governanti e governati. Un rapporto che non deve essere costituito dalla
subordinazione dei cittadini sotto l’autorità, ma piuttosto dal controllo dei primi sulla seconda.
Gli sforzi della comunità dei donatori in Africa per ridurre i livelli di corruzione sono stati
molteplici, ma i risultati non sempre adeguati alle risorse devolute. Le regole e le norme che
definiscono illegale la corruzione esistono in tutti i paesi africani, ma nella quotidianità vengono
sostituite da un codice non scritto, al quale è difficile sottrarsi. Si tratta di norme di condotta tacite,
che regolano l’interazione tra individui (autorità e cittadini) e che rendono il fenomeno endemico e
sistematico. Questa situazione ha suscitato spesso l’interrogativo se esistano delle specificità
africane di ordine storico o culturale rispetto alla corruzione. Studi antropologici sulla corruzione in
Africa sono stati relativamente scarsi in termini quantitativi, ma significativi e approfonditi. Un
esame sintetico della letteratura in materia, svela stimolanti osservazioni: la corruzione in Africa
viene vista da alcuni come eredità delle società tradizionali nelle quali il rispetto per l’autorità
veniva associato con la pratica dei doni (senso di gratitudine per dei servizi ottenuti e forma
legittima di interazione sociale). Se la corresponsione di doni verso l’autorità tribale non era
percepita come fenomeno eticamente condannabile, la situazione cambia con le amministrazioni
coloniali. Queste infatti spesso si servivano dei capi tradizionali come interfaccia con le
popolazioni. I capi si avvantaggiavano materialmente della loro posizione, con una crescente
rapacità, visto il venir meno dei loro doveri di mantenimento di una certa stabilità sociale, garantita
comunque dalla repressione coloniale. La corruzione viene vista in questa ottica come effetto della
interazione, nel corso del tempo, di pratiche tradizionali, sistema di potere coloniale e processo di
modernizzazione, quindi come processo di “ibridizzazione” o combinazione di elementi diversi che
si rafforzano reciprocamente. Questo processo ha poi avuto un’influenza diretta nei nuovi stati post-
coloniali, per cui i nuovi regimi autoctoni hanno sviluppato una concezione neo-patrimonialistica
dello Stato (le autorità e le elite si appropriano delle risorse pubbliche; una parte viene dirottata nei
patrimoni privati, un’altra viene distribuita selettivamente tra i “clienti) che ha portato la corruzione
a raggiungere livelli patologici.
159
Il seguente grafico della Banca Mondiale, che riporta i dati sulla capacità di controllo della
corruzione dei 10 paesi africani con più elevato PIL, più Botswana e Mauritius, mette in evidenza
alcuni elementi utili rispetto al tema della corruzione.
Sulla base di tale grafico si possono fare due considerazioni. La prima è che i paesi virtuosi non
hanno nulla da invidiare al resto del mondo, come appare chiaro dalla barra che rappresenta la
media mondiale per paesi in quella fascia di reddito, riportata sotto l’indice nazionale. La seconda
considerazione è che i paesi che si propongono con una cattiva prestazione in Africa, sono molto al
di sotto dell’indice medio di paesi a parità di reddito.
Negli ultimi anni tuttavia la situazione sembra in qualche modo migliorare, anche per la crescente
consapevolezza, non soltanto delle elites africane più illuminate consapevoli che la corruzione crea
danni immensi ai paesi africani, ma soprattutto per la reazione della gente comune che non sembra
più disposta a considerare la corruzione come un male inevitabile a cui rassegnarsi. Ad esempio in
Nigeria, considerato uno dei più corrotti paesi del mondo, anche a causa della sua ricchezza
160
petrolifera e di gas naturale, ha mostrato che anche in un ambiente estremamente difficile, è
possibile reagire a condizioni di estremo degrado. Questo paese è riuscito a passare dal 132° posto
su 133 paesi nell’indice di corruzione (CPI) di Transparency International del 2003, al 121° posto
su 180 paesi nel 2008. I progressi, se non rivoluzionari, ma certamente significativi, sono stati il
frutto dell’impegno di Nuhu Ribadu presidente dell’ Executive Chairman Economic and Financial
Crimes Commission (EFCC). Nel corso del suo mandato l’EFCC ha indagato con successo
banchieri, governatori dello Stato federale, senatori e prominenti figure politiche, funzionari di
polizia e ministri. Per svolgere al meglio il suo compito la Commissione ha condotto migliaia di
inchieste ed effettuato 270 arresti, tra i quali uno dei suoi superiori, l’allora Inspector-General della
polizia nigeriana. Anche dopo la sua rimozione, avvenuta nel 2006 l’EFCC ha continuato ad
esercitare una discreta pressione sul potere politico e finanziario e Nuhu Ribadu è senz’altro
considerato un vero e proprio eroe popolare.
Il tasso di corruzione nelle economie petrolifere ed estrattive come prima fonte di reddito, risulta
comunque essere mediamente più elevato. In questi paesi le immense risorse finanziarie non
vengono utilizzate per investimenti produttivi, ma distribuite tra le elites del paese che alimentano
clientelismo per il consenso tra gruppi ristretti. In genere l’accountability media delle classi
dirigenti e molto bassa, con una evidente sottrazione delle risorse dal sistema economico destinabili
per la spesa sociale; e una selezione degli investimenti totalmente disfunzionali.
Dal punto di vista politico, la rendita prodotta dallo sfruttamento delle materie prime, secondo molti
studiosi, tende a preservare regimi totalitari che gestiscono tali risorse in maniera poco trasparente.
Le ineguaglianze sociali e geografiche tendono ad aumentare, così come i livelli di corruzione. In
queste circostanze, il rischio di conflitti interni diventa significativo con effetti che possono andare
da rivolte e guerre civili a violenza endemica, come sta avvenendo in Nigeria.
Allo scopo di migliorare la gestione delle risorse estrattive a vantaggio dei paesi produttori, sulla
base dei principi della trasparenza e della responsabilità finanziaria, è stata lanciata nel 2002 per
iniziativa del Governo britannico e con il successivo appoggio della Banca Mondiale nel 2003,
l’Extractive Industries Transparency Initiative (EITI). L’EITI, coinvolge nella gestione delle risorse
le società private, i governi, gli organismi internazionali e le agenzie per l’aiuto allo sviluppo, le
ONG e la società civile, con la creazione di un comitato che produce un programma di lavoro,
tenendo conto di tutti gli interessi coinvolti. Il miglioramento della governance relativa all’industria
estrattiva dovrebbe portare in ultima analisi ad una maggiore diversificazione delle economie
coinvolte e innescare processi di sviluppo sostenibili a tutto vantaggio delle popolazioni locali. Fino
ad oggi hanno aderito all’iniziativa 23 paesi dei quali 15 sono africani: Angola, Cameroon, Chad,
Congo Kinshasa, Congo Brazzaville, Guinea Equatoriale, Gabon, Ghana, Guinea, Mali, Mauritania,
161
Niger, Nigeria, Sao Tome and Principe e Sierra Leone. Si tratta di un esercizio molto complesso che
richiede un lungo rodaggio per produrre i suoi effetti positivi, ma che fin da adesso mostra le
potenzialità future, soprattutto da un punto di vista finanziario. Il primo report EITI sulla Nigeria,
rilasciato all’inizio del 2006, ha riscontrato entrate per il governo in royalties e tasse, per un valore
annuale di $ 15 mld: una cifra molto elevata se la si compara al flusso degli aiuti allo sviluppo, che
per tutta l’Africa, per lo stesso periodo, è stato di $ 4,7 mld.
La gestione dell’EITI non risulta facile per numerosi motivi come ad esempio la debolezza delle
organizzazioni della società civile, la pervasività sociale dei regimi totalitari e la capacità delle elite
al potere di sottrarsi alla condizionalità dei donatori per via della loro indipendenza finanziaria e di
nuovi alleati come i cinesi.
Di seguito, alcuni esempi.
Nel 2000 il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e il governo angolano avevano firmato l’
accordo Staff Monitored Program (SMP) per realizzare tutta una serie di riforme economiche ed
istituzionali tra le quali il cosiddetto Oil Diagnostic, per monitorare i proventi petroliferi. Fino ad
allora la prassi angolana nella gestione finanziaria era stata assolutamente discutibile con ingenti
fondi dirottati per l’acquisto illegale di armi o spregiudicate operazioni finanziarie. I tentativi
successivi al 2000 per ridare un po’ di trasparenza alle procedure sono falliti per la resistenza del
governo angolano. Un rapporto estremamente critico del FMI sull’andamento delle riforme nel
paese, aveva poi di fatto portato alla rottura dei rapporti tra l’Angola e l’organismo internazionale.
Nel frattempo l’incremento del prezzo del petrolio e la concessione da parte della Cina di una linea
di credito di $2 mld. (portati successivamente a $9,5 mld) in cambio di importanti contratti nel
settore energetico e minerario, hanno consentito al paese africano di mantenere una posizione ferma
nei confronti del FMI, rivendicando il diritto di gestire la riforma economica con programmi
esclusivamente nazionali. Soltanto recentemente il FMI ha, con un secondo rapporto, molto più
edulcorato del primo, assunto un atteggiamento conciliatorio con il governo angolano, di fatto una
palese marcia indietro, per riprendere le relazioni interrotte.
Altro caso significativo è quello del Chad. La necessità di trovare uno sbocco sull’oceano atlantico
dell’importante produzione dei giacimenti di Doba nel sud del Chad richiedeva la costruzione di un
pipeline lungo 1078 kilometri per un costo di $4,2 mld.. Il consorzio per realizzare l’opera era
formato dai governi chadiano e camerunense e dalla Banca Mondiale come finanziatore e garante
dell’operazione e da tre multinazionali petrolifere, la Exxon (40%), Petronas (35%) e Chevron
(25%) per la sua realizzazione tecnica. La Banca Mondiale ha posto condizioni stringenti per la sua
partecipazione, in particolare sulla trasparenza sui proventi petroliferi e la loro destinazione ad
investimenti in infrastrutture economiche e sociali. Le condizioni dell’organismo internazionale
162
sono state incorporate in una legge specifica approvata dal governo chadiano, che prevedeva la
costituzione di un comitato di controllo (il College de Control) di nove membri, con rappresentanti
anche della società civile, la creazione di un fondo per le generazioni future e indicazioni sulla
spesa, che di fatto lasciava alla discrezionalità del governo soltanto il 5% degli introiti petroliferi.
L’operazione era stata giudicata da molti osservatori positiva e molto al di sopra degli standard
africani, anche per le sue preoccupazioni di tipo ambientale nella realizzazione del oleodotto e per
un equo risarcimento delle comunità danneggiata nel corso della realizzazione dell’opera. L’intero
impianto, attento alla gestione ed alla trasparenza, tuttavia doveva incontrare presto serie difficoltà a
causa della cattiva implementazione della legge da parte dello stesso Governo chadiano. Il College
de Control in particolare ha visto la sua capacità operativa limitata da sottofinanziamento, ha subito
talvolta minacce, ed ha potuto contare su di uno scarso flusso di informazioni. Nel momento in cui
il petrolio ha iniziato a fluire nel Pipeline, il governo chadiano ha provveduto a cambiare le regole
del gioco incrementando da 5 al 30 % le spese discrezionali del governo. Il fondo per le future
generazioni è stato eliminato e dei fondi destinati a progetti infrastrutturali, gran parte è stata
destinata alla costruzione di strade, settore in cui il livello di corruzione è molto elevato, mentre
soltanto il 5,1% sono stati destinati all’istruzione e il 3,3% alla sanità. Lo scontro tra la Banca
Mondiale appoggiata dagli Stati Uniti ed il Governo Deby ha spinto quest’ultimo a minacciare
addirittura la chiusura dell’oleodotto e la possibilità di un ingresso massiccio dei cinesi in
sostituzione delle multinazionali occidentali. Infine si è giunti ad un accordo che di fatto sanzionava
tutte le richieste del governo chadiano. Se da un punto di vista della politica energetica e di politica
industriale il progetto costituisce un successo, con grande soddisfazione delle multinazionali
occidentali coinvolte, in primis la Exxon, anche grazie alla scoperta di nuovi giacimenti nell’area,
dal punto di vista di un management corretto e di una logica di sviluppo economico del Chad, i
risultati sembrano essere dunque del tutto negativi.
Interessante è anche quanto accaduto a Sao Tome and Principe dove, in previsione dell’inizio dello
sfruttamento di giacimenti off-shore si era affidato l’incarico di adattare i meccanismi EITI a Jeffrey
Sachs. In fase di implementazione è tuttavia prevalso l’interesse delle oligarchie corrotte locali e dei
$100 mil emessi dalle compagnie petrolifere per i diritti di prospezioni off-shore, ne sono restati da
utilizzar in piena trasparenza soltanto $15 mil..
Questi casi dimostrano sostanzialmente che, pur utili, gli interventi esterni risultano poco efficaci se
non si rafforza la consapevolezza da parte della leadership africana che soltanto attraverso una
migliore gestione delle risorse finanziarie ed una seria lotta contro la corruzione è difficile
immaginare la possibilità di uno sviluppo sostenibile in quei paesi. Tale consapevolezza può essere
163
senz’altro rafforzata dall’azione dei cittadini, volta a reclamare un sistema diverso, attraverso la
capacità di fare sentire le proprie istanze.
164
LEZIONE N. 37-38“IL TRAFFICO DI STUPEFACENTI IN AFRICA”
Da alcuni anni l’Africa sta diventando un crocevia significativo del traffico internazionale di
stupefacenti, in particolare della cocaina proveniente dall’America Latina. Le ragioni dello sviluppo
di nuove rotte attraverso l’Africa dipendono da diversi fattori, sia endogeni che esogeni alla realtà
africana. La preoccupazione delle autorità nazionali, delle organizzazioni regionali e della comunità
internazionale è crescente poiché le conseguenze dello sviluppo di questi traffici si riflettono su
un’ampia gamma di questioni: politiche, economiche, sanitarie e di sicurezza pubblica. La droga è
ormai un problema in Africa e rappresenta un ulteriore ostacolo allo sviluppo del continente. Lo
affermano diversi organismi internazionali incaricati della lotta al traffico di stupefacenti. Già nel
2001, un rapporto dell'Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla criminalità (UNODC) affermava
che "grazie alla loro esperienza nel campo del contrabbando di hashish e di eroina, i cartelli della
droga dell'Africa occidentale cercano nuovi contatti in America Latina per estendere il traffico di
cocaina a tutta la regione dell'Africa sud-sahariana". Si tratta di una svolta fondamentale nella
strategia del narcotraffico mondiale che vede l'Africa diventare una delle aree "perno" per la
distribuzione di droghe in tutto il mondo. Fino ai primi anni '90 del secolo scorso, l'Africa era tenuta
ai margini delle rotte della droga. La svolta avviene nel 1993, quando vengono sequestrati in
Nigeria, 300 kg di eroina provenienti dalla Thailandia. È il segnale di un cambiamento che vede la
trasformazione di tanti contrabbandieri africani (per lo più nigeriani), da semplici trasportatori per
conto terzi in membri di gang capeggiate da africani, in grado di trattare da pari a pari con analoghe
organizzazioni di altri continenti. La presenza di queste organizzazioni criminali, il forte
inurbamento, la diffusione di una cultura edonistica sono tutti fattori che hanno creato le premesse
per un mercato africano della droga.
L'Africa quindi non è più solo un luogo di transito degli stupefacenti ma anche un terreno "vergine"
per lo spaccio della droga.
L'eroina in Africa
Secondo dati ONU, nel 2004 si è registrato un primo forte incremento del sequestro di eroina del
60% rispetto all'anno precedente. In particolare, l'eroina che passa per l'Africa è destinata in primo
luogo ai mercati europei e secondariamente a quello del Nord America.
165
L'ammontare totale degli oppiacei sequestrati in Africa rimane tuttavia ancora modesto (0,3% del
totale dei sequestri a livello mondiale). Per quel che concerne l'uso di oppiacei in Africa, si nota un
aumento del loro consumo. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite la crescita del consumo di
eroina deriva dal fatto che sono utilizzati come luoghi di transito dai narcotrafficanti, i quali però
non disdegnano di creare un mercato locale.
In Sudafrica, uno dei pochi Paesi africani che dispone di dati affidabili, fino ai primi anni del nuovo
millennio la richiesta di cure per abuso di eroina rappresentava solo l'1% del totale delle richieste di
cura per dipendenza da sostanze stupefacenti. Nel 2005 questa percentuale era gia' salita al 7%.
In tale contesto, si registra a un forte incremento dell'uso di eroina in alcuni Paesi come il
Mozambico, lo Zambia, il Kenya, la Tanzania e la Costa d'Avorio, mentre in altri l'aumento sarebbe
stato più contenuto (Sudafrica, Madagascar, Ghana, Liberia e Senegal).
Gli outsider nigeriani e i legami con il Tagikistan.
Recenti studi del 2010-2011 hanno evidenziato che nella complessa mappa della "distribuzione dei
traffici tra gruppi autoctoni" emergono i sodalizi nigeriani, stanziati da tempo in Tagikistan, la cui
attività appare funzionale alle penetrazione nel mercato cinese. Appare altresì evidente che le
strategie si stanno evolvendo con una regionalizzazione sempre più marcata dei traffici e con la
sempre minore presenza di gruppi autonomi basati su antichi vincoli familiari che stanno, seppure
lentamente, lasciando il posto ad organizzazioni più strutturate e forti.
Il dato più preoccupante è però quello della cocaina che transita dall'Africa in direzione
principalmente dell'Europa e, secondariamente, dell'America settentrionale.
L'importanza dell'Africa, e in particolare del West Africa, vista come uno dei punti di transito della
cocaina verso i ricchi mercati occidentali è stata dimostrato dal livello dei sequestri registrati negli
ultimi anni. I sequestri di cocaina nell'intera Africa sono infatti aumentati di tre volte tra il 2003 e il
166
2004, mentre nello stesso periodo, i sequestri in Africa occidentale e centrale sono aumentati di sei
volte.
Tuttavia, secondo gli attuali dati disponibili, dal 2008 la stessa West Africa ha segnalato un
significativo declino passando dai 98 kg del 2002 alle 4.6 tonnellate del 2007 fino ad arrivare alle
2.3 tonnellate del 2008.
Ma i sequestri di cocaina in Africa rappresentano solo l'1% del totale mondiale Anche in questo
caso però questo dato è viziato dalla debolezza delle forze di polizia locali incapaci di intercettare la
maggior parte dei flussi di cocaina provenienti dal Sud America.
Nel 2004, ad esempio, il 50% dei sequestri di cocaina nel continente sono avvenuti in Africa
occidentale e centrale. La zona di passaggio più utilizzata dai trafficanti di cocaina è quella del
Golfo di Guinea, da dove la sostanza stupefacente è trasportata in Europa in piccole quantità dai
cosiddetti "muli", persone che si prendono il rischio di ingerire ovuli di cocaina con la speranza di
passare i controlli doganali negli aeroporti di destinazione. Negli ultimi anni anche nell'Africa
orientale è aumentato il quantitativo di cocaina sequestrata, indicando una tendenza ad utilizzare in
misura crescente quest'area come punto di transito per la cocaina destinata all'Europa e all'Asia.
I trafficanti di cocaina tendono a servirsi dell'Africa come punto di transito per due motivi. Il primo
deriva dal miglioramento dei sistemi di sorveglianza dispiegata dalle autorità locali e da quelle
statunitensi nell'area caraibica e centro americana , tradizionale rotta utilizzata dai trafficanti. Negli
ultimi anni sono sorte basi di sorveglianza statunitensi dalle Ande alle isole caraibiche. Anche le
autorità olandesi hanno intensificato la sorveglianza con pattugliatori aerei basati nelle isole di
Curaçao e Saint Martin.
Il secondo fattore è legato alla diminuzione del consumo di cocaina che si è registrato negli Stati
Uniti a fronte di un aumento della domanda in Europa. Se in Nord America vi è il più alto numero
di consumatori mondiali, la tendenza è quella della diminuzione della domanda. L'Africa è quindi
167
una comoda e sicura rotta per i raggiungere un mercato in crescita. Come effetto collaterale inoltre
si è creato un mercato africano che sta registrando negli ultimi anni dei preoccupanti aumenti.
La cocaina nell'Africa occidentale
Il paese tradizionalmente interessato dal narcotraffico è la Nigeria. Qui infatti nel 1993 è stato
registrato il primo significativo sequestro di cocaina in Africa e le organizzazioni criminali
nigeriane sono oramai inserite a piano titolo nel sistema criminale globale e transnazionale.
L'affermazione delle mafie nigeriane deriva anche dall'appartenenza della Nigeria del
Commonwealth, che ha permesso di avviare strette relazioni commerciali con il subcontinente
indiano, produttore di oppio ed eroina e con il mondo anglosassone consumatore.
Alla fine degli anni '80, infatti, si registra un incremento importante nel ruolo di centro strategico e
nel 1992 i ritrovamenti di cocaina nell'aeroporto di Lagos sono così rilevanti che le autorità
nigeriane sospendono i voli diretti con Rio de Janeiro.
Da allora i trafficanti nigeriani sono considerati i principali vettori della droga,, una vera e propria
industria al servizio del commercio dell'eroina e della coca. Essi sono presenti in tutti i punti chiave
della produzione e del traffico delle droghe. Grazie ai connazionali residenti all'estero, hanno
formato clan criminali paragonabili a quelli colombiani, turchi e cinesi.
Uno dei Paesi dell'Africa occidentale dei quali si hanno statistiche affidabili sull'incremento del
traffico di cocaina è il Ghana. Secondo i dati diffusi dalle autorità locali, tra il 2003 e il 2004 i
sequestri di cocaina sono aumentati di 40 volte passando da 15 a 617 chili. La maggior parte della
cocaina sarebbe stata destinata al mercato britannico.
Si tratta di un dato significativo se si pensa che in termini percentuali, i sequestri di cocaina sono
aumentati del 18% a livello mondiale e del 4.000% in Ghana dal 2003 al 2004.
Nello stesso periodo in Africa i sequestri di cocaina sono aumentati di 3 volte passando dalle 1,1
tonnellate alle 3,6 tonnellate. Negli anni successi sono emersi altri fatti che dimostrano come il
Ghana sia diventato un importante punto di passaggio della cocaina nell'Africa occidentale. Nel
novembre 2005 la polizia del Ghana ha sequestrato 588 chili nel corso di una perquisizione di
un'abitazione a East Lagon.(Accra) Nell'aprile 2006 sono stati scoperti a bordo della nave MV
Benjamin che aveva attraccato nel porto di Tema ben 2.310 chili di cocaina La Guinea Bissau è un
altro dei Paesi divenuti punto di transito della cocaina dall'America Latina all'Europa come
dimostrato nel 2007 dalla scoperta di 674 chilogrammi di cocaina e all'arresto di alcuni
narcotrafficanti sudamericani.
168
Africa Orientale: una situazione preoccupante
In Africa Orientale il Kenya è il principale punto di transito della cocaina. Nel solo 2004 sono stati
sequestrati 1,1 tonnellate di cocaina tra la capitale Nairobi e il centro costiero di Malindi. Oltre al
Kenya i Paesi dell'Africa Orientale interessati dal narcotraffico sono Etiopia, Botswana, Zambia e
Sudafrica. In questo ultimo Paese secondo il South African Instute of International Affairs (SAIIA),
vi sono 500mila persone che fanno uso di cocaina mentre un terzo degli adolescenti fa utilizzo di
stupefacenti. Secondo il centro studi sudafricani, nel Paese operano 300 organizzazioni criminali
internazionali coinvolte nel narcotraffico.
I Paesi della regione sono ormai diventati non solo una zona di transito ma anche un nuovo mercato
per gli stupefacenti e in particolare per la cocaina. Nello Zambia, ad esempio, l'80% della cocaina
che giunge nel Paese viene trasferita in Europa e il restante 20% viene consumato localmente.
L'Interpol ha lanciato l'allarme sul crescente consumo di stupefacenti in Africa.
Le condizioni climatiche della maggior parte dell'Africa sono favorevoli alla coltivazione di
cannabis. Si tratta di una coltivazione che permette un alto profitto all'agricoltore e necessita di un
lavoro meno intensivo rispetto alle altre. Intere famiglie di agricoltori possono così vivere in modo
decente e permettersi di comprare cibo e medicinali e di inviare i loro figli a scuola. La cannabis è
coltivata in Africa principalmente per il mercato locale, ma negli ultimi anni si è notato un aumento
dei traffici di cannabis originati dall'Africa sub-sahariana. Le maggiori coltivazioni di cannabis si
trovano nelle Comore, in Etiopia, Kenya, Madagascar, Tanzania e Uganda. In Kenya, la
coltivazione di cannabis ha un'antica tradizione ma negli ultimi anni è diventata prima una
produzione limitata al mercato locale, per poi trasformarsi in una vera impresa commerciale illecita
estesa alla dimensione internazionale. La cannabis è coltivata nella regione occidentale e in quella
del Monte Kenya, dove secondo alcuni rapporti vi sono circa 1.500 ettari coltivati a cannabis. Le
coltivazioni di droga sono nascoste tra quelle tradizionali destinate all'alimentazione, ma vi sono
anche coltivazioni più piccole in alcune aree protette della riserva naturale nazionale. Anche le
regioni costiere sono diventate produttrici di cannabis. Qui infatti si sono installati diversi
agricoltori provenienti dall'entroterra che vi hanno trovato aree fertili e poco sorvegliate dalla
polizia, e un mercato costituito dalla popolazione locale, dai turisti e dai residenti stranieri che
prediligono le coste del Paese.
Per quanto riguarda l'oppio, in passato sono state segnalate alcune coltivazioni in Kenya e lungo le
coste del Madagascar. Per quel che riguarda la produzione locale di droghe sintetiche, l'Africa
orientale è un punto di transito del methaqualone (Mandrax) proveniente dall'India e destinato al
mercato sudafricano.
169
Negli ultimi anni la riduzione del Mandrax proveniente dall'India ha generato una produzione locale
di questa sostanza. Sono stati infatti scoperti laboratori chimici clandestini utilizzati per la
fabbricazione di questa droga sintetica in alcuni Paesi dell'Africa orientale e meridionale.Nei casi
dei laboratori scoperti in Kenya e Tanzania si trattava solo di piccoli centri dove la polvere di
Mandrax ancora proveniente dall'India viene trasformata in compresse, ma in altri casi ci si è trovati
di fronte a vere e proprie officine per la fabbricazione del Mandrax, con precursori chimici la cui
provenienza è rimasta sconosciuta. A questo proposito le sostanze che destano più preoccupazioni
sono le efedrine, pseudo-efedrine, l'anidride acetica e l'acido N-acetilantranilico (utilizzato nella
fabbricazione del Mandrax) e il pergamenato di potassio. La più famosa coltivazione di pianta
stupefacente locale è il khat, che è comunque una produzione legale in diversi Paesi dell'Africa
orientale. Il khat è coltivato soprattutto in Etiopia e Kenya e, in misura meno estesa, in Tanzania,
Comore e nella parte settentrionale del Madagascar. Viene esportato nei principali mercati dell'area
(Gibuti, Eritrea, Somalia, Somalia e Yemen), oltre che in Europa e nell'America settentrionale.
L'uso di khat continua ad espandersi nel Corno d'Africa e gioca un ruolo chiave nella continua
instabilità della Somalia, dove si calcola che la popolazione spende ogni anno 64 milioni di dollari
all'anno per acquistare il khat. Si tratta di una somma quasi doppia al totale degli aiuti internazionali
donati al Paese. Il khat non solo contribuisce a sconvolgere la società, creando persone affette dalla
dipendenza di stupefanti, ma ha anche un ruolo nel diffondere nel Paese le armi leggere, spesso
scambiate in cambio di una partita di droga. Tutti elementi che permettono di nascondere i traffici di
droga. Il Kenya ha il più grande porto commerciale della regione, Mombasa, che serve la maggior
parte dei Paesi privi di accesso diretto al mare, mentre l'aeroporto di Nairobi è uno dei più trafficati
dell'area. Le reti del narcotraffico utilizzano anche i porti di Dar-es-Salaam (in Tanzania), Gibuti,
Durban (in Sudafrica) e Maputo (in Mozambico) e stanno espandendo le loro attività anche in
Etiopia, Mauritius, Tanzania e Uganda. Questi ultimi Paesi sono usati come punti di transito per la
droga inviata in Kenya, Sudafrica e Africa occidentale e da queste aree in Europa e Nord-America.
La maggior parte delle sostanze stupefacenti arriva nella regione via mare, nascosta nei carichi dei
container trasportati dalle navi mercantili che solcano l'Oceano Indiano. In alcuni casi le navi dei
narcotrafficanti si incontrano in alto mare con battelli più piccoli, che riportano a terra il carico
illecito. Grandi quantità di eroina arriva così nella regione ma si fa ricorso anche a corrieri, uomini e
donne, che arrivano con voli commerciali, e agli invii per posta.
Tra i Paesi dell'Africa orientale interessati dal traffico e dal consumo di sostanze stupefacenti vi è
l'Uganda. Secondo un recente rapporto dell'UNODC, "l'Uganda è diventata il Paese leader nel
traffico e nel consumo di droga rispetto al resto degli Stati dell'Africa orientale". Tra le droghe
presenti nel mercato illecito ugandese vi sono la cannabis, l'eroina, la cocaina e il mandrax, oltre al
170
khat. Secondo l'agenzia anticrimine dell'ONU, l'aumento del consumo di sostanze stupefacenti è
dovuto ai "due decenni di conflitti armati e di mancanza di legge che hanno gravemente
danneggiato l'infrastruttura delle forze dell'ordine".
Il rapporto osserva che le condizioni climatiche di tutto il territorio ugandese sono favorevoli alla
coltivazione di cannabis: "La coltivazione illecita della pianta è, però, rilevante in aree remote
delle regioni meridionale, occidentale, centrale, orientale e nord-orientale. Le dimensioni esatte
delle coltivazioni di cannabis non sono conosciute, ma si è notato un aumento della produzione di
cannabis soprattutto per l'esportazione". L'aeroporto di Entebbe è infine utilizzato come punto di
transito per l'invio di eroina e di mandrax dall'Estremo Oriente al Sudafrica.
CHI GESTISCE IL MERCATO INTERNAZIONALE DI COCAINA ?
In tale contesto, appare significativo evidenziare che a gestire il mercato risultano al vertice
principalmente le organizzazioni colombiane che stringono alleanze con quelle europee. A questi
sodalizi si aggiungono gruppi di origine caraibica (domenicani e jamaicani in particolare) noncheé
quelli del West Africa, presenti in maniera trasversale in Francia, Svizzera, Italia, Germania,
Olanda e Portogallo. Tra questi ultimi spiccano i sodalizi nigeriani ,che , soprattutto in Olanda,
gestiscono un proprio mercato che riforniscono attraverso corrieri aerei in partenza dalle Antille ,
dal Suriname, dal Peru' dalla Repubblica domenicana e dal Messico. I nord africani sono invece
presenti maggiormente nei Paesi mediterranei (Spagna, Francia e Italia)e in Olanda.
ll Sahel nuova frontiera del narcotraffico?
Dalle coste dell'Africa occidentale le organizzazioni di narcotrafficanti si stanno progressivamente
espandendo ai Paesi del Sahel, il cui ruolo strategico di cerniera tra l'Atlantico e il Maghreb, e
quindi il Mediterraneo, è apprezzato anche dai trafficanti di esseri umani e, probabilmente, dal
terrorismo internazionale. Anche il Burkina Faso non sfugge al fenomeno. All'inizio di aprile 2007,
49 chilogrammi di cocaina, per un valore di 10 milioni di dollari, erano stati intercettati dalla polizia
del Burkina Faso al confine con il Mali, quest'ultimo importante punto di transito per il traffico
degli esseri umani. Paesi come il Mali e il Niger sono da millenni attraversati da vie carovaniere,
che sono ora riconvertite per un uso criminale: traffico di esseri umani ma anche di armi, droga e
sigarette di contrabbando. Secondo l'ente anticrimine dell'ONU, i trafficanti importano la droga
nelle città costiere come Conakry, in Guinea, Dakar, in Senegal, e Lomé, in Togo, e poi la
trasportano nelle città dell'interno come Bamako, in Mali, e Ouagadougou, in Burkina Faso. Da
queste località la cocaina prosegue il suo viaggio fino all'Europa.
171
Secondo il responsabile del Comitato contro i traffici illeciti di droga in Burkina Faso, occorre
coordinare gli sforzi tra le polizie degli Stati dell'area. "Vi è un bisogno urgente di riunire tutti gli
enti nazionali antidroga della regione per trovare il modo di cooperare tra di loro per cercare di
fermare le reti di criminali" ha detto sottolineano come la scarsa cooperazione transfrontaliera tra i
Paesi del Sahel e la mancanza di mezzi delle polizie locali costituiscono problemi aggiuntivi per
un'efficace azione di contrasto alle reti criminali.
Il mercato della cannabis
Mentre l'Africa è per ora solo un luogo di transito e un mercato residuale per droghe come cocaina
ed eroina, la principale produzione locale di sostanze stupefacenti è rappresentata dalla cannabis. La
coltura della cannabis è stata introdotta in Africa orientale dai mercanti arabi, persiani e indiani, nel
12esimo secolo. Da lì si è diffusa prima in Africa australe nel 15esimo secolo, poi in Congo e
Angola nel 19esimo secolo. Solo però dopo la seconda guerra mondiale la cannabis raggiunge
l'Africa occidentale, portata dei soldati nigeriani e ghanesi che combatterono con le truppe
britanniche in Birmania (attuale Myanmar), dove avevano preso l'abitudine di fumare la marijuana.
Questo fatto spiega perché nei Paesi dove la cannabis è conosciuta da più tempo, è utilizzata nella
medicina tradizionale, mentre in Africa occidentale è usata per scopi "ricreativi". Fino agli anni '80
però la produzione africana di cannabis rimase limitata. A partire da quegli anni si è però notato un
incremento notevole della superficie coltivata a cannabis per fini commerciali.
La produzione di questa sostanza si divide in tre categorie: l'erba di cannabis (fiori e foglie), resina
o hashish (secrezioni emesse dalla pianta durante la fase di fioritura) e olio di hashish, il meno
172
utilizzato. Secondo il World Drug Report 2006 l'erba di cannabis è coltivata, per lo più illegalmente,
in 176 Paesi in tutto il mondo. L'Africa rappresenta il 27% della produzione mondiale e i principali
produttori sono Marocco (3.700 tonnellate), Sudafrica (2.200 tonnellate) e Nigeria (2mila
tonnellate).
Per quel che concerne l'hashish il principale produttore mondiale è il Marocco che rifornisce i
mercati nordafricani ed europei. Grazie all'impegno delle autorità marocchine negli ultimi anni si è
avuta una diminuzione della produzione locale di cannabis, cui corrisponde un aumento della
produzione in altri Paesi, dall'Asia occidentale (Afghanistan, Pakistan) all'Albania.
L'UNODC riconosce che dal 2003 il governo di Rabat ha condotto una campagna per stimare la
produzione di resina di cannabis nel Paese, in cooperazione con l'Agenzia anticrimine delle Nazioni
Unite. Secondo l'indagine effettuata nel 2003, la produzione di cannabis è stata di 3.060 tonnellate,
coltivata su 134mila ettari di terra nella regione del Rif (nord del Paese) da 96.600 famiglie di
contadini. L'indagine condotta nel 2004 ha registrato una diminuzione del 10% delle terre coltivate
a cannabis passati a 120.500 ettari con una produzione stimate di 2.760 tonnellate. Nel 2005 si è
notata una ulteriore diminuzione del 37% portando la superficie coltivata a cannabis a 72.500 ettari
mentre la produzione è diminuita a 1.070 tonnellate. Per quanto riguarda i sequestri di cannabis,
negli ultimi anni 12-15 anni si è registrato un aumento della percentuale mondiale dei sequestri nel
continente africano di questa sostanza. Mentre nel 1990 il 16% del totale mondiale dei sequestri di
cannabis avveniva in Africa, nel 2002 questo dato era salito al 20% per giungere il 31% nel 2004.
L'aumento dei sequestri di cannabis in Africa è determinato soprattutto dall'aumento dei controlli di
polizia e doganali effettuati dalla Nigeria e dal Sudafrica. Il principale mercato di consumo della
cannabis è l'Europa occidentale, e l'80% della cannabis consumata in Europa proviene dal Marocco,
passando per la Spagna e l'Olanda e da qui distribuita negli altri Paesi. Il terzo mercato mondiale di
consumo è rappresentato dai Paesi del Nord Africa, dove la cannabis proviene principalmente dal
Marocco. Parte della cannabis prodotta in Afghanistan e Pakistan inoltre va ad alimentare il mercato
dei Paesi dell'Africa orientale. Per quel che concerne le problematiche sociali legate al consumo
della cannabis, occorre ricordare che questa sostanza è la droga più diffusa ed usata a livello
mondiale. Si stima che nel 2004 ne abbiamo fatto uso 162 milioni di persone, pari al 3,9% della
popolazione mondiale tra i 15 e i 64 anni. In termini relativi (la percentuale di abitanti che fa uso di
cannabis rispetto ad altre sostanze stupefacenti) la cannabis è prevalentemente utilizzata in Oceania,
seguita da America del Nord e Africa. Dal 1992 in Africa inoltre si è notata una tendenza
all'aumento del suo consumo, in particolare in Algeria, Nigeria e Zambia.
È probabile che la tendenza all'uso di questa droga sia sottostimata in diversi Paesi dell'Africa che
non hanno una capacità di raccolta di dati adeguati per seguire il fenomeno. Secondo dati parziali si
173
è notato negli ultimi anni un forte incremento dell'abuso di cannabis nell'Africa occidentale, in
quella orientale e in Nord Africa, in linea con la tendenza a livello globale di un'ulteriore espansione
del consumo di questa sostanza.
174
Droghe sintetiche
La produzione di droghe sintetiche è limitata in Africa, con l'eccezione del Sudafrica dove la
fabbricazione di metamfetamine e methaqualone è aumentata negli ultimi anni. I dati sulla scoperta
di laboratori clandestini confermano questa tendenza.
Si è infatti passato dalla scoperta e lo smantellamento di un laboratorio all'anno nel periodo 1995-
1999, ai 17 nel periodo 2000-2003, fino ai 28 smantellati nel solo 2004. Un altro dato che dimostra
l'incremento dell'uso di droga sintetiche in Sudafrica è quello dell'aumento dei sequestri di ecstasy:
nel 2004 si è avuto un incremento del 385% dei sequestri rispetto all'anno precedente.
Le droghe sintetiche inoltre facevano parte del programma di guerra segreta chimica e biologica
messa a punto dal regime dell'apartheid. Secondo le testimonianze raccolta durante il processo nei
confronti del responsabile del dottor Wouter Basson (definito "Dottor Morte" dalla stampa locale),
nell'ambito del cosiddetto "Project Coast" tra il 1992 e il 1993 i laboratori collegati ai servizi segreti
sudafricani avevano prodotto più di 900 chili di cristalli di ecstasy (pari a 73 milioni di pillole).
Alla luce di quanto sopra e’ possibile affermare che l'Africa non è più solo un punto di passaggio
della droga proveniente dall'America Latina e dall'Asia verso l'Europa e l'America Settentrionale,
ma è ormai diventata un mercato ancora forse "residuale", ma comunque non trascurabile per le reti
di narcotrafficanti.
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LEZIONE N. 39-40“IL TERRORISMO IN AFRICA”
Negli ultimi anni, l’Africa è diventata il teatro di azioni terroristiche di gruppi collegati alla jihad
internazionale e di formazioni autoctone che mirano all’islamizzazione forzosa delle aree in cui
operano.
In tale sezione verranno esaminati Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), Boko Haram, il Lord’s
Resistance Army, il caso somalo e Al Shabab, infine il fenomeno dei Mungiki.
a) AL QAEDA NEL MAGHREB ISLAMICO -AQMI Al Qaeda nel Maghreb Islamico-AQMI è l’attuale protagonista della campagna estremista che
continua a minacciare il Nord Africa. Ormai del tutto “commissariato” da Al Qaeda, il gruppo è
attualmente operativo nella regione berbera della Cabilia, nell'Algeria meridionale e, in misura
sempre più crescente, nel Sahel. E’ questa la nuova frontiera del regno di Al Qaeda: una sorta di
zona franca, estesa dall’Oceano Atlantico fino al Corno d’Africa, che passa per la Mauritania, Mali,
Niger, Burkina Faso, Ciad e Sudan. E’ la sponda meridionale del Sahara, tra le aree più povere al
mondo. Negli ultimi anni le infiltrazioni terroristiche in questa fascia sub-sahariana sono aumentate
esponenzialmente,complice la posizione strategica di cui il Sahel gode e la presenza di importanti
criticità come la porosità dei confini, le violenze settaria e l’instabilità politica. Oltre quattromila
chilometri di deserto separano il Mali dall’Algeria e dalla Mauritania, frontiere volatili e indifese,
dove tra i beduini in costante movimento possono trovare un rifugio sicuro gli operativi di Al
Qaeda. Proprio qui la “multinazionale del terrore” sta costruendo il suo avvenire: il Sahel è una
regione smisuratamente vasta e dimenticata dove è ideale indottrinare i combattenti jihadisti,
addestrarli all’uso di armi ed esplosivi, ospitare miliziani in fuga e progettare gli attentati da mettere
a segno contro l’Occidente. In questa terra di nessuno, “sancta sanctorum” di tutte le attività illecite
dell’Africa sub-sahariana, sono segnalati diversi campi d’addestramento: nelle zone isolate e remote
nel Mali settentrionale, sul massiccio del Tibetsi, lungo il confine del Chad con la Libia, ma anche
nella regione della Azaouagh, lungo il confine tra i Niger e l’Algeria.
Attività di addestramento quindi, ma anche di reclutamento: le bande fondamentaliste cercano
nuovi adepti lungo le rotte dell’immigrazione clandestina, soprattutto tra nigeriani e nigerini.
A garantire il denaro per equipaggiamenti ed armi è l’industria dei sequestri. A tal proposito, la
cronistoria del solo 2009 delinea una realtà certamente non rassicurante. L’anno si è aperto con il
rapimento, poi rivendicato da AQMI, di quattro turisti occidentali nella zona frontaliera tra il Mali e
il Niger. Tre di loro saranno liberati, mentre il cittadino britannico Edwin Dyer verrà barbaramente
ucciso il giugno successivo a fronte del rifiuto londinese di liberare il terrorista giordano
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AbuQatada, detenuto nelle carceri inglesi. Il 29 novembre 2009 vengono rapiti tre volontari
spagnolidell’ONG ‘Barcelona Acciò Solidària’, Albert Vilalta, Alicia Gomez e Roque Pascual.
Sequestrati dauomini armati in Mauritania, precisamente tra Nouadibou e Nouakchott, per il loro
rilascio sarebbe stato chiesto un riscatto di 5 milioni di dollari, unitamente alla liberazione di alcuni
detenuti jihadisti. Solo qualche giorno prima era stato rapito il cittadino francese Pierre Camatte a
Ménaka, nella parte orientale del Mali, poi rilasciato dopo tre lunghi mesi di prigionia.
Alla fine di dicembre 2009 AQMI rivendica un altro rapimento, quello dei due italiani, Sergio
Cicala e la moglie Filomen Kabouree, originaria del Burkina Faso, sequestrati assieme al loro
autista ivoriano nella Mauritania orientale, al confine con il Mali. La responsabilità è stata
rivendicata da Slah Abu Mohammed, presunto portavoce del gruppo, che in un messaggio diffuso
dalla tv satellitare Al Arabya considera il rapimento “una risposta ai crimini compiuti dall’Italia in
Afghanistan e in Iraq”.
E’ un meccanismo, quello dei sequestri, che fa leva sul coinvolgimento dei gruppi criminali locali.
La dinamica prevede che il rapimento dei turisti occidentali sia affidato alle bande armate
autoctone, che vendono poi gli ostaggi agli operativi di AQMI nel Sahel. A volte capita anche che il
sequestro sia opera di gruppi fondamentalisti locali che con la loro azione vogliono accreditarsi
presso l’organizzazione madre AQMI. Altre fonti di entrate riguardano anche il traffico di droga,
armi ed esseri umani: gli estremisti islamici si servono dei trafficanti locali, esperti conoscitori del
territorio, che guidano le varie rotte transahariane degli illeciti. Un connubio pericoloso, così come
emerge da varie risultanze processuali nonché da recenti arresti.
Nel dicembre 2009 le autorità del Ghana hanno fermato Oumar Issa, Harouna Touré e Idriss
Abelrahman, fondamentalisti originari del Mali accusati di finanziare AQMI attraverso il canale
della droga. Presumibilmente connessi ai cartelli del narcotraffico sudamericano, garantivano il
trasporto della cocaina destinata all’Europa al di là del deserto nordafricano. Un processo di
convergenza tra terrorismo e criminalità internazionale che ha dentro di sé i germi di una potenza
distruttiva, e che ha già manifestato la sua pericolosità in diversi scenari mondiali.
Una vera e propria sfida alla sicurezza insomma, con implicazioni sia locali che interregionali: non
a caso quando si parla del Sahel, lo si addita sempre più spesso come il “nuovo fronte” nella lotta al
terrorismo.
Già nel 2002 l’amministrazione Bush aveva lanciato la Pan Sahel Initiative, impulso alla
cooperazione militare intergovernativa con lo scopo precipuo di proteggere i confini e rafforzare la
stabilità regionale nel nord ovest africano, a cui ha fatto seguito la Trans-Saharian Counter
Terrorism Initiative, pianificata come una continuazione del precedente progetto.
177
Che cos'è Al Qaeda nel Maghreb Islamico?
AQMI affonda le proprie radici nella guerra civile algerina, scoppiata nel 1991-1992 a seguito
dell'annullamento da parte dell'esercito algerino del secondo turno delle elezioni che avevano visto
il Fronte islamico di salvezza affermarsi e prepararsi al governo del Paese. I militanti islamisti,
organizzatisi in vari gruppi (di cui il Gruppo Islamico Armato-GIA era il più noto), lanciarono in
risposta al golpe militare una vera e propria insurrezione, affondando l'Algeria in una guerra civile
costata più di 150.000 vittime e terminata, gradualmente, solo pochi anni fa. Nel 1996 una fazione
del Gia guidata da Hassan Hattab, in dissenso con le tattiche del gruppo che vedevano un numero
altissimo di civili massacrati, decise di abbandonare l'organizzazione per fondare il Gruppo Salafita
per la Predicazione e il Combattimento (GSPC). Il GSPC si riproponeva di attaccare i militari e lo
stato algerino, senza prendere di mira la popolazione civile bensì cercandone il consenso e il
sostegno; tuttavia, ben presto il GSPC tornò sui propri passi, ricominciando a colpire anche civili.
In questo periodo, la guerra civile algerina cominciò la sua lenta diminuzione d'intensità, finendo
con la progressiva marginalizzazione del GSPC nell'Est del Paese, da dove il gruppo si limitava
ormai a lanciare le proprie imboscate contro l'esercito, mentre nel Sud un gruppo guidato da
Abderrazak El-Para trovava sostentamento tramite il contrabbando e il rapimento di turisti stranieri.
Il GSPC, ormai incapace di alimentare un conflitto a più alta intensità, ripiegò così in una nicchia
strategica dove le forze armate algerine erano incapaci di porre fine una volta per tutte
all'insurrezione islamista. In questo contesto di stallo strategico da entrambe le parti, nel 2006 il
GSPC ha ottenuto da Ayman al-Zawahiri la “benedizione” che ha permesso al gruppo di fregiarsi
degli obiettivi strategici e del nome di Al-Qaeda. Nasce così AQMI, che già fra la fine del 2006 e la
prima metà del 2007 si lancia in alcuni fra gli attentati più violenti degli ultimi anni: dapprima, nel
dicembre del 2006, vengono attaccati due autobus carichi di lavoratori e ingegneri stranieri all'opera
nel Paese; ad aprile 2007 due autobombe esplodono nel cuore di Algeri, vicino ad edifici
governativi. In modo simile, a dicembre dello stesso anno 17 lavoratori delle Nazioni Unite
vengono uccisi. Nel frattempo, il numero di imboscate aumenta, mentre attentati e rapimenti di
occidentali vengono registrati in Mauritania, Tunisia, Mali e Niger.
Propaganda e realtà
La ridefinizione del gruppo come succursale locale di Al-Qaeda ha chiaramente allertato numerosi
osservatori e governi occidentali, suscitando il timore che il Nord Africa e, in particolare, le aree di
difficile pattugliamento e sorveglianza del Sahel e del Sahara possano diventare una nuova base di
espansione del terrorismo islamista . In quest'ottica, dopo l'11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno
adottato due iniziative di cooperazione militare con i governi locali: la Pan-Sahel Initiative, lanciata
178
subito dopo l'11 settembre 2001 e che coinvolgeva i governi di Mali, Mauritania, Niger e Ciad;
successivamente, la Trans-Sahara Counter-Terrorism Initiative, ha sostituito il programma
precedente con un budget più ampio e con la partecipazione di ben 10 stati dell'area. Che
Washington abbia finanziato due programmi di cooperazione anti-terrorismo non è sorprendente,
visto che tutti i Paesi dell'area hanno in vari modi “sfruttato” la minaccia di Al-Qaeda per ottenere
sostegno militare e finanziario proprio dagli Usa. Molti analisti e rappresentanti governativi hanno
avuto gioco facile ad enfatizzare il collegamento con Osama Bin Laden negli Stati Uniti, dove la
sensibilità per il tema è per ovvi motivi molto alta. Tuttavia, è importante notare come l'affiliazione
dell'ex GSPC ad Al-Qaeda non abbia mai comportato altro che un'associazione nominale ed
ideologica fra le due organizzazioni. Non è mai stato provato alcun legame operativo o finanziario,
nonostante una parte della stampa abbia ipotizzato una relazione di questo tipo. AQMI ha adottato
un “brand” di successo, tentando così di rilanciare le proprie sorti, attirare nuovi adepti, ampliare il
proprio raggio d'azione ed innovare le proprie tattiche. Non è un caso che dal 2006 AQMI sia di
nuovo tornato sulle prime pagine dei giornali, minacciando i governi di tutta la regione e adottando
intensivamente la tattica degli attentati suicidi, precedentemente poco usata dal GSPC. La
regionalizzazione della minaccia terroristica è pertanto diventata una minaccia per la stabilità del
Nord Africa; tuttavia, ad un attento scrutinio anche questo rischio appare ampiamente
sopravvalutato. AQMI continua ancor oggi ad essere un'organizzazione principalmente algerina sia
nell'organico che nella propria tattica. Il numero di attentati registrati della regione è, infatti,
nettamente più basso di quelli avvenuti in Algeria; inoltre, a parte la Mauritania e di recente il Mali,
gli altri stati dell'area sono stati toccati solo marginalmente dalle attività terroristiche di questo
gruppo. Le stesse fila di AQMI sono ancora prevalentemente rinforzate da algerini, in un'ennesima
indicazione che il processo di internazionalizzazione dell'organizzazione è probabilmente ancora
lontano dall'essere completo. AQMI è ancora ampiamente incentrato sulle strutture dell'ex GSPC.
La natura profondamente “algerina” del gruppo fa sì che i rischi per l'Europa siano inevitabilmente
limitati, almeno al momento.
Si è parlato spesso di rischi per gli investitori stranieri nell'area, a seguito di una serie di comunicati
rilasciati da AQMI, in cui si annunciava l'allargamento degli obiettivi alla presenza occidentale in
Nord Africa. Eppure, a distanza di anni i danni causati alle imprese straniere nella regione sono
rimasti contenuti a pochi episodi; mentre le compagnie petrolifere e l'infrastruttura per l'estrazione e
il trasporto degli idrocarburi in Algeria è ancora immune da attacchi.
Allo stesso modo, la paura che AQMI potesse estendere le proprie operazioni in Europa, sfruttando
le reti di maghrebini emigrati in Francia, Germania e Italia non solo per ottenere del sostegno
finanziario, ma anche per compiere degli attentati nel cuore del Vecchio Continente, è rimasta finora
179
sulla carta: sebbene i servizi di sicurezza europei siano stati efficienti nello smantellare varie cellule
legate ad AQMI, non c'è stata traccia finora di piani mirati a colpire l'Europa.
Rischi reali e minacce immaginarie
Sottovalutare la minaccia terroristica in Nord Africa sarebbe profondamente sbagliato: finché
esisteranno diversi fattori oggettivi capaci di alimentare un diffuso senso di insoddisfazione e
delegittimazione delle istituzioni politiche esistenti nell'area, il rischio posto dal terrorismo islamista
come unica alternativa allo status quo rimarrà concreto. AQMI è un'organizzazione terroristica che
ha già dimostrato negli anni di poter concepire e realizzare attentati di fattura relativamente
complessa, colpendo fin nel cuore di Algeri; pertanto, non è possibile sminuire la minaccia posta da
questo gruppo, né è possibile escludere a priori un allargamento delle attività al resto della regione o
anche in Europa in futuro. Tuttavia, è importante anche saper distinguere la propaganda dalla realtà.
AQMI è pur sempre un'organizzazione che conta poche centinaia di militanti, divisi in vari comandi
sub-regionali; la decisione di affiliarsi ad Al-Qaeda va interpretata come un tentativo di uscire da un
angolo strategico in cui era stata costretta dalla graduale diminuzione d'intensità della guerra civile
algerina. Autori come Jeremy Keenan, un antropologo britannico che ha vissuto per anni nella
regione, sostengono persino che AQMI sia una creatura dell'elite militare algerina che da anni
controlla la scena politica nazionale da dietro le quinte, interessata a manipolare la minaccia
terroristica locale per riconquistare credibilità internazionale dopo la guerra civile, attirare
l'attenzione degli Stati Uniti, tenere il Paese in una condizione di perenne mobilitazione e trarre i
benefici di questa situazione. Benché manchino riscontri fattuali incontestabili per sostenere tale
tesi, è interessante notare come i governi locali abbiano spesso enfatizzato i rischi per la sicurezza,
così da ottenere una serie di vantaggi finanziari e militari nello scenario globale post-2001. In
questo contesto, si è detto che AQMI fosse finanziato da Bin Laden, che fosse diventata
un'organizzazione regionale capace di destabilizzare l'area e pronta a colpire in Europa; questi
rischi, benché reali, sono stati amplificati e, pertanto, meritano di essere ridimensionati quando si
guarda alla stabilità politica di questa regione.
b) BOKO HARAM
Seppur emerso nel 2002 il gruppo conosciuto anche come Jama’atul Ahl-Sunnati Lil Dawa’ati wal
Jihad ed identificato con il nome di Talebani Nigeriani, solo recentemente è stato percepito come
un vero pericolo nazionale, nei cui confronti è necessario predisporre una strategia mirata di lungo
periodo.
180
La setta, che crede negli insegnamenti del Corano e nella Sunna (detti e insegnamenti del Profeta
Maometto) e rifiuta l’educazione nonché i valori occidentali, ha come obiettivo l’imposizione di
una islamizzazione forzosa della Nigeria.
Pur avendo perso il leader fondatore, Ustaz Mohammed Yusuf , nel luglio 2009 e pur non avendo
una strutturazione precisa, il movimento ha intensificato recentemente le operazioni contro obiettivi
sia civili che militari ed ha ampliato il suo raggio d’azione espandendo progressivamente il proprio
teatro di azione da nord-est verso ovest e sud.
Il fenomeno Boko Haram, al di là delle questioni dottrinali islamiche e del radicalismo religioso,
può essere compreso pienamente soltanto se collocato all’interno di un contesto nel quale le lotte di
potere intestine al mondo musulmano nigeriano, lo scontro tra cristiani e musulmani e la frattura tra
nord e sud della Nigeria, l’azione e le caratteristiche del jihahdismo internazionale nel Sahel si
intersecano e sovrappongono a vicenda.
Boko Haram si è sviluppato negli Stati di Borno e Yobe, territori abitati dall’etnia musulmana
Kamuri, un popolo che riconosce come potere legittimo lo “Sheshu” (Emirato) di Borno, istituzione
la cui importanza è seconda soltanto al Sultanato di Sokoto, massima autorità spirituale per i 70
milioni di musulmani nigeriani. Sia il Sultanato che lo Sheshu non sono autorità politico
amministrative giuridicamente previste dallo Stato Federale Nigeriano, bensì strutture religiose
residuali del tempo della penetrazione islamica in Africa occidentale. Pur non avendo poteri
effettivi, entrambe le istituzioni esercitano una forte influenza culturale, e sociale, in un’area
dominata dall’Islam e dove vige la sharia.
Il Sultanato di Sokoto è controllato dall’etnia Hausa-Fulani, gruppo maggioritario nel nord del
paese. Attualmente lo Sheshu è governato della dinastia el-Kameni, mentre il Sultanato di Sokoto è
guidato da Muhammadou Saad Abubakar, della dinastia dei dan Fodio di etnia Fusani. Entrambe le
dinastie al potere, come spesso accade in Africa, sono espressione di determinati clan che
gestiscono poteri, risorse e privilegi a discapito di altri clan a cui questa prerogativa viene impedita
od assai limitata.
Boko Haram ha trovato grande seguito proprio tra i clan Kamuri esclusi dalla gestione del potere,
espandendo la propria influenza anche verso i clan Fulani. Le uccisioni del fratello dello Sheshu di
Borno il 1° giugno del 2011 e del religioso wahabita Ibrahim Birkuti una settimana più tardi,
testimoniano l’atteggiamento della setta verso sia l’Islam istituzionale sia i critici indipendenti.
Entrambi gli omicidi sono stati commessi da un commando in motocicletta.
181
L’obbiettivo finale di Boko Haram appare, quindi, soppiantare lo Sheshu di Borno come autorità
religiosa e politica dell’area e porsi come interlocutore islamico concorrente al Sultanato di Sokoto
e creare una leadership alternativa per i musulmani nigeriani.
La Nigeria, nonostante la divisione amministrativa che ha garantito l’effettività della Sharia nel
settentrione del paese, continua a soffrire di una profonda spaccatura economica e sociale tra il sud,
cattolico ed arricchito dagli ingenti introiti petroliferi e gasiferi, ed il nord, musulmano e
poverissimo. In questo contesto il contrasto tra musulmani e cattolici si aggrava a causa della lotta
sociale per la redistribuzione delle ricchezze. Gli episodi più cruenti avvengono negli Stati centrali
della federazione, aree di contatto e convivenza difficile tra le due confessioni e le molteplici etnie.
In quelle aree si vengono a scontrare i pastori musulmani in transumanza verso sud ed i contadini
cattolici che temono per lo stato delle propri raccolti, dando vita a lotte per i diritti di proprietà sulla
terra. Nel 2010 nella sola città di Jos, nel Plateau, ci sono state diverse settimane di scontri tra
cattolici e musulmani per un totale di 470 morti. A Natale una bomba esplosa durante le
celebrazioni della Natività causò 80 vittime. Il 7 maggio del 2011, in contemporanea con l’attacco a
Maiduguri, c’è stata un’esplosione ed uno scontro a fuoco presso il villaggio cristiano di Tafawa-
Balewa nello Stato di Bauchi. Boko Haram ha rivendicato tutti gli attentati ed è stata in prima linea
in tutti gli scontri a fuoco cavalcando così l’onda dello scontento popolare islamico verso i presunti
oppressori cattolici. L’elezione del Presidente cattolico Jonathan, avvenuta soprattutto grazie ai voti
del sud del paese, ha alimentato ulteriormente la retorica aggressiva della setta di Maiduguri, pronta
a far esplodere altri ordigni il giorno dell’insediamento presidenziale e soprattutto il giorno della
celebrazione dei 50 anni di indipendenza nazionale durante la parata d’onore nella capitale Abuja.
L’instabilità nigeriana e l’incremento delle attività di Boko Haram potrebbero rappresentare
un vasto mercato di opportunità per Al-Qaeda nel Maghreb Islamico?
Il braccio saheliano di al-Qaeda ha consolidato la propria strategia di sostegno e supporto logistico
a tutte le guerriglie insurrezionali anti-governative del Mali, della Mauritania, del Ciad e del Niger
spesso rappresentate da gruppi etnici minoritari o da minoranze discriminate come i Tuareg. In
questo senso AQMI assume i tratti di una sorta di “Internazionale della Guerriglia” priva di una
guida religiosa uniforme e di una gerarchia rigida. La questione religiosa si manifesta, dunque,
come la più classica delle coperture ideologiche. Pur mantenendo frequenti contatti con
l’estremismo arabico-mediorientale, AQMI si distingue per i metodi di finanziamento prossimi al
sistema criminale, quali la “zakat” (tassazione prevista dal diritto islamico per scopi caritatevoli o
connessi al sostegno di una causa ritenuta giusta) sui traffici di diamanti, armi ed esseri umani ed i
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riscatti per prigionieri spesso stranieri. Per quanto riguarda Boko Haram, le convergenze con AQMI
sono molteplici. Innanzitutto il leader fondatore della setta di Maiduguri, Muhammad Yussuf, era un
nigeriano Kumuri addestrato in Yemen e che aveva militato nei gruppi del Sahel. Inoltre i clan
Kumuri che sostengono Boko Haram sono presenti anche in Niger ed in Ciad, lungo i porosi confini
dell’Africa occidentale e presso la regione dell’omonimo lago. Questi clan sono ampiamente
coinvolti nelle guerriglie dei rispettivi Stati di appartenenza e soprattutto potrebbero facilitare i
contatti tra Boko Haram ed AQMI. Un simile avvicinamento può essere testimoniato da i primi
segni di cambiamento di tattica operativa da parte della setta di Maiduguri: l’attentato suicida è un
“marchio di fabbrica” del jihahdismo internazionale, così come i rapimenti. Infatti il 13 maggio
2011 due impiegati industriali europei sono stati rapiti nella città di Birnin Kebbi, nello Stato del
Kebbi, da un commando in motocicletta appartenente a Boko Haram. Si trattava di due operai che
lavoravano ad Abuja, in un’area geografica mai colpita e fuori dai target dei guerriglieri del Mend
(Movement for Emancipation of Niger Delta).
I vantaggi di un’eventuale espansione alla Nigeria dell’influenza di AQMI sono legati alla ricchezza
dell’economia locale, ed alle opportunità offerte dal mercato nero di Abuja, il più grande crocevia di
traffici illegali della regione, al bacino di 70 milioni di musulmani che abitano il nord del paese ed
alla possibilità di destabilizzare lo Stato fulcro dell’Ecowas e del sistema di sicurezza e
cooperazione economica dell’Africa occidentale.
Se le rivoluzioni del mondo arabo ed i lenti tentativi di equilibrare il Maghreb dopo la caduta dei
faraoni e l’attuale Guerra Civile Libica sembravano aver ridimensionato il ruolo del
fondamentalismo islamico nel mondo africano, la duttilità operativa dell’AQMI e l’ingresso in teatri
di conflitti interetnici come quelli sub-sahariani e saheliani dimostrano, al contrario, come la
minaccia qaedista sia integra ed operante. La pacificazione del Maghreb passa necessariamente dal
controllo e dall’opposizione a quanto potrebbe svilupparsi in Nigeria, sia perché eventuali
movimenti di resistenza ai nuovi regimi africani mediterranei potrebbero usufruire di una vasta e
difficilmente monitorabile retrovia, sia perché una escalation del conflitto in uno dei maggiori paesi
produttori di petrolio al mondo causerebbe contraccolpi economici che costringerebbero la
comunità internazionale ad ulteriori consultazioni ed interventi.
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C) LA FRAGILITA’ DELLA SOMALIA E LA NASCITA DI UN TERRENO
FERTILE PER LO SVILUPPO DI MATRICI TERRORISTICHE.
Recentemente l’illustre africanista Calchi Novati ha voluto in un breve ma significativo intervento
evidenziare alcune cause alla base della grave fragilità somala che consentono di meglio
comprendere non solo l’evoluzione storica , ma anche , se non soprattutto, la crescita e lo sviluppo
del fenomeno delle Corti Islamiche e del movimento militante e multiclanico noto come al-
Shabaab. All’origine della fragilità dello stato somalo, egli afferma, c’è il mancato trapianto degli
istituti dello Stato di tipo europeo-occidentale. La dedizione un po’ approssimata dell’Italia negli
anni dell’amministrazione fiduciaria (Afis) non ha rimediato a carenze che derivano dalla geografia,
dalla cultura e dalla storia. Ioan M. Lewis, lo studioso più accreditato di Somalia ha rivalutato
quell’impasto di omogeneità, consultazione e anarchia con la nozione di “democrazia pastorale”. Lo
stesso Lewis aveva scrutato soprattutto la realtà del nord, il territorio e il popolo dell’ex-Somaliland
britannico, ma certe strutture sono valide anche per il sud, l’ex-Somalia italiana. Le due Somalie,
del resto, si sono unificate al momento dell’indipendenza nel 1960. Il sistema parlamentare
trasmesso attraverso l’Afis (Amministrazione fiduciaria) ha retto per meno di un decennio. Sia
durante il semi-monopolio della Lega dei giovani somali che, dal 1969 in poi, durante il regime
militar-rivoluzionario di Siyad Barre il “potere” si è sempre dovuto misurare con la frammentazione
clanica senza contraddire, ma anzi presupponendolo come improbabile panacea, il mito del
pansomalismo. Con il progressivo deperimento del programma d’urto per cambiare dal profondo la
società, Siyad Barre non esitò a mettere l’amministrazione, l’esercito e quel poco di economia
formalizzata al servizio del clan suo e dei suoi, straripando ovunque con abusi e prelievi. Proprio
quello che l’ordinamento somalo non è disposto ad accettare. Lo Stato può assolvere funzioni di
regia e rappresentanza ma deve rispettare le prerogative dei clan nei loro ambiti rispettivi. La guerra
contro il regime negli anni ’80 fu combattuta da milizie su base clanica e alla sconfitta finale di
Siyad nel 1991 seguì senza soluzione di continuità una specie di guerra civile di tutti contro tutti. Lo
Stato aveva perduto il suo prestigio. Il tessuto della società era uscito sconvolto dalla guerra per lo
spostamento di popolazioni dalla boscaglia alla città e da un territorio all’altro mescolando e
confondendo sistemi di governo, modelli d’economia e codici valoriali. Il vecchio mosaico non si è
più ricomposto. Il potere era in mano ai detentori delle armi (i warlords) esautorando di fatto gli
anziani (gli elders). Un esempio quasi di scuola di “Stato fallito”. Solo nel nord, più compatto
culturalmente e con una più chiara predisposizione al commercio esterno per la vicinanza della
penisola arabica, c’è stata un’aggregazione di appartenenza e interesse in grado di promuovere un
governo relativamente stabile, che a livello regionale gode del patrocinio discreto dell’Etiopia senza
184
avere uno status ufficiale sul piano internazionale. Per la parte di Somalia che fa riferimento a
Mogadiscio sono stati creati per vie diplomatico-negoziali 14 o 15 governi che non sono mai riusciti
a controllare nulla.
L’ultimo, denominato Transitional Federal Government (Tfg), per indicare la sua provvisorietà e il
tentativo di razionalizzare in qualche modo l’autonomia dei clan, dopo un lungo stand-by all’ombra
dell’Etiopia è stato letteralmente trasportato nella capitale sui tanks di Addis Abeba alla fine del
2006. Nelle pieghe delle giurisdizioni a macchia di leopardo dei “signori della guerra” il solo fattore
di unitarietà è apparso, in un paese in pieno revivalismo religioso, il movimento conosciuto come
l’Unione delle Corti islamiche (UIC). Prima di formare una propria milizia e di conquistare la
capitale a metà del 2006, le Corti hanno agito per un decennio come un’autorità locale di basso
profilo impartendo la giustizia e provvedendo ai bisogni primari della popolazione. La concezione
dell’islam che prevale in Somalia rifugge (o rifuggiva) dall’integralismo; in compenso l’islam offre
una base “nazionale” al posto del settarismo clanico. L’avanzata del fondamentalismo per il tramite
dell’UIC si presentò al governo etiopico come l’occasione attesa per passare alla controffensiva. Il
presidente etiopico Meles Zenawi aveva qualche buon motivo per temere i rischi di quella presenza
ai confini dell’Etiopia (non solo per le sorti dell’Ogaden) e nel contempo voleva rendersi utile alla
war on terror di Bush nel teatro del Corno. Un governo sostenuto dal “nemico storico” della
Somalia divenne il bersaglio ideale per una resistenza generalizzata. Neppure la protezione dei
militari etiopici ha dato un minimo di consistenza al Tfg: il presidente Ahmed Abdullahi Yusuf,
alleato di Meles, si è dimesso e dal 2008 le forze armate etiopiche si sono ritirate. Il nuovo
presidente somalo è Sheikh Sharif Ahmed, alto esponente dell’UIC consegnatosi nel gennaio 2007
alle autorità del Kenya e affermatosi col tempo come il leader riconosciuto degli islamisti
“moderati”. I “duri” delle Corti continuarono a opporsi al dialogo puntando a una soluzione militare
secondo un’agenda di belligeranza e destabilizzazione a vasto raggio. Il perno del jiahdismo è
costituito dal movimento militante e multiclanico noto come al-Shabaab, a cui si attribuiscono
omicidi, rapimenti e attentati contro professionisti somali, operatori umanitari e religiosi cristiani in
un contesto che divulga la “cultura del martirio”. Sheikh ha perso ogni influenza sulle formazioni
che spadroneggiano in pressoché tutte le regioni centro-meridionali. Il potere del presidente non è
sicuro nemmeno a Mogadiscio. Il governo del Puntland si comporta come un’entità a sé e mantiene
collegamenti ambigui con la pirateria al largo delle sue coste. Gli estremisti sono appoggiati
dall’Eritrea che sfoga così il suo risentimento contro l’Etiopia per la mancata applicazione degli
impegni assunti dopo la guerra del 1998-2000. Con i parametri dello Stato convenzionale, la
Somalia non esiste più. La benevolenza con cui la popolazione aveva accettato l’attività delle Corti
islamiche –rule of law e welfare – è un lontano ricordo perché tutto è degenerato nella violenza. La
185
mancanza di un’autorità è una “colpa” se non previene le infiltrazioni delle reti terroristiche e i
traffici illeciti. Sia la politica d’attacco dell’Etiopia che i raids punitivi delle forze americane di
stanza a Gibuti non hanno risolto la crisi e forse l’hanno istigata per gli ovvi contraccolpi di queste
interferenze. La catena delle responsabilità è lunga e si riproduce nella reciproca incomprensione.
L’Unione africana ha distaccato una forza sul terreno composta in prevalenza da soldati ugandesi
più un reparto del Burundi mentre gli altri Stati che avevano offerto truppe non hanno mantenuto la
parola. Le Ong occidental hanno praticamente lasciato il territorio somalo per ragioni di sicurezza e
anche le agenzie dell’Onu sono sempre sul punto di gettare la spugna.
La crisi somala contaminerà l’intero Corno d’Africa?
Secondo la autorevole opinione di Padre Giulio Albanese, grande conoscitore delle vicende
africane, la recente cronaca del Corno d’Africa stava facendo emergere nuovi indicatori
estremamente preoccupanti. La dice lunga, egli afferma, la scesa in campo degli americani che
avrebbero deciso di utilizzare nel territorio somalo alcuni droni che avrebbero recentemente ucciso
almeno 25 civili e ferito altre decine di persone nel settore meridionale dell’ex colonia italiana. Ma
anche i francesi non starebbero alla finestra avendo deciso di fornire supporto logistico
all’operazione militare keniana in territorio somalo. È questo in effetti il dato “politico-militare” più
rilevante. Una strategia, quella messa a punto dal governo di Nairobi, che vorrebbe spazzare via gli
al-Shabaab, responsabili di morte e distruzione in Somalia. E se da una parte l’operazione militare
keniana pare studiata a tavolino, si acuisce il rischio di un’ulteriore escalation di rappresaglie da
parte degli estremisti islamici. L’iniziativa di Nairobi ha comunque irritato anche il governo
federale di transizione del presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, il quale ha ribadito la
sua opposizione alla presenza di truppe keniane sul proprio suolo. Lo stesso concetto è stato
espresso a chiare lettere dal primo ministro Ali Mohamed Abdiweli, il quale ha ricordato che gli
accordi pregressi con il vicino erano di ben altro tenore. Secondo il premier di Mogadiscio, le forze
armate di Nairobi avrebbero dovuto fornire, solo un’assistenza tecnico logistica per l’addestramento
dell’esercito, mentre ora i militari keniani sarebbero diventati una vera forza occupante. Tuttavia,
quando, il 16 ottobre 2011, le truppe keniane hanno cominciato a varcare il confine con la Somalia,
era chiaro alla maggioranza degli osservatori che non si sarebbe trattato di un semplice diversivo. Si
trattava piuttosto di una chiara risposta a recenti sequestri e uccisioni perpetrati dagli al-Shabaab sul
territorio keniano, con l’obiettivo, inoltre, di garantire l’incolumità dei profughi somali che in questi
mesi si sono insediati sul territorio keniano, in seguito di una carestia senza precedenti. A questo
punto viene spontaneo chiedersi se questa ennesima iniziativa militare, che pare coinvolgere sempre
più nazioni straniere, possa davvero servire al bene della regione, considerando l’ostracismo del
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governo federale di transizione somalo. E cosa dire del fatto che in questi anni tutti gli eserciti
stranieri che hanno usato la mano forte contro le forze ribelli (gli ultimi sonno stati i militari di
Addis Abeba) hanno fallito? Da rilevare, inoltre, che nell’arco degli ultimi quindici giorni gli
estremisti somali hanno intensificato le loro azioni contro il Kenya, come peraltro già avvenuto in
passato con l’Uganda. Basti pensare al raid contro un bus nel Nordest, che ha causato, il 27 ottobre
2011, la morte di tutte le persone a bordo del mezzo. Si è trattato del terzo attentato sul territorio
keniano in meno di una settimana, dopo quelli compiuti a Nairobi con quattro morti. Sebbene gli al-
Shabaab non godano di ampio sostegno della popolazione somala, riescono di fatto a fare il bello e
cattivo tempo, approfittando delle divisioni interne al Paese. In effetti, la Somalia appare sempre più
parcellizzata in piccoli feudi sotto il controllo dei clan tradizionali e di un manipolo di agguerriti
“signori della guerra”, molte volte in lite tra loro. Intanto il governo di Nairobi ha già annunciato
che il prossimo passo sarà marciare verso Chisimaio. Una cosa è certa, la confusione regna sovrana,
non solo per la spregiudicatezza degli al Shabaab, ma anche per la curiosa strategia del presidente
Sheikh Sharif Sheikh Ahmed che, alla prova dei fatti, pare voglia mantenere lo “status quo”. Basti
pensare che in questi giorni avrebbe chiesto allo stato maggiore dei peeacekeeper dell’Unione
Africana di non attaccare alcuni quartieri di Mogadiscio in cui sono asserragliati gli estremisti
islamici. Qualcuno comincia addirittura a pensare che stia facendo il doppio gioco per i suoi
trascorsi nelle Corti islamiche. La “ciliegina sulla torta”, si fa per dire, l’hanno messa gli eritrei che,
secondo fonti non confermate, avrebbero fornito armi e munizioni agli al-Shabaab.
In tale contesto Padre Giulio Albanese sposa le tesi dell’ex inviato speciale italiano in Somalia
Mario Raffaelli secondo cui un intervento armato in questo momento potrebbe ottenere l’effetto
opposto, ovvero quello di rinsaldare il consenso della popolazione attorno agli Shabaab, che invece
era notevolmente diminuita negli ultimi tempi. E dire che una ricetta per uscire dalla crisi era stata
suggerita, in più circostanze, proprio da Raffaelli secondo cui la Comunità internazionale doveva
farsi interprete di un’iniziativa negoziale in cui la discriminazione nelle trattative non doveva essere
fra islamici “radicali” e “moderati”, ma tra chi rivendica un’agenda somala e chi persegue, invece,
altri interessi, poco importa se di matrice mediorientale o addirittura legati ad Al Qaeda,
interferendo nelle vicende somale. Solo in questo modo si sarebbero potute smascherare le
contraddizioni interne agli al Shabaab che costituiscono un’esigua minoranza rispetto ai milioni di
somali costretti a patire le loro angherie. Purtroppo ora le cose sembrano complicarsi ulteriormente
e la sensazione è d’essere giunti ad un vicolo cieco.
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D) LORD’S RESISTANCE ARMY – CENNI
Una strage ignorata dal mondo e dai media, causata dal gruppo militare ugandese Lord’s Resistance
Army “Oggi pubblichiamo una non-notizia”. Così nel febbraio 2009 l'agenzia Fides riferiva il
bilancio dei massacri compiuti nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo da Natale al
febbraio 2009: oltre 900 morti. I massacri sono compiuti dall'armata dell'Esercito di Resistenza del
Signore (LRA) un gruppo ugandese cresciuto rapendo bambini e facendoli diventare soldati, guidati
dal fanatico Joseph Kony, di cui la Corte penale internazionale ha chiesto l'arresto per crimini
contro l'umanità. Da tempo l'LRA agisce non solo nel nord Uganda (dove si è costituito alla fine del
1986), ma anche in Congo, Sud Sudan e persino nella Repubblica Centrafricana. Una strage
ignorata anche dai media, quella perpetrata dall'LRA nell'Est del Congo. “Il mondo non se n'è
accorto” denuncia l'agenzia Fides “nonostante i puntuali rapporti pubblicati dalla stampa
missionaria”. Recentemente, ottobre 2011, Andrea Onori ha scritto che le brutalità e le violenze
contro i civili congolesi da parte dei Lord’s Resistance Army(LRA ) sembrano non avere mai fine.
Da anni, come detto, le agenzie internazionali per i diritti umani lanciano messaggi e richieste di
aiuto per frenare il noto gruppo ribelle ugandese che opera nella Repubblica democratica del Congo
(RDC), Sud del Sudan e Repubblica Centrafricana (CAR). Dalla loro nascita sfornano rifugiati e
morte. Ogni anno, con i frequenti attacchi diretti alle popolazioni, l’LRA costringe migliaia di
congolesi ad abbandonare le proprie abitazioni. Negli ultimi tempi, sono continuamente presi di
mira i villaggi del distretto di Dungu nel territorio di Haut-Uele ed altri territori e villaggi
circostanti. Dal settembre del 2007 la LRA ha ucciso quasi 3mila persone, rapito 755 bambini e
1.427 adulti. L’ Esercito di Resistenza del Signore (o Lord’s Resistance Army), costituito nel 1986, è
un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana. Il gruppo è guidato da Joseph Kony, che si
proclama il “portavoce” di Dio e medium dello Spirito Santo. Il gruppo afferma di voler istituire
uno Stato teocratico sulla base dei Dieci Comandamenti e della tradizione. L’LRA ed i suoi dirigenti
sono stati accusati dal Tribunale Penale Internazionale di aver attuato numerose violazioni dei diritti
umani, compresi omicidi, rapimenti, mutilazioni, riduzione in schiavitù sessuale di donne e
bambini, e il costringere i bambini a partecipare alle ostilità. Dall’agosto 2009, sono aumentate le
incursioni costringendo i profughi, già rifugiati in un territorio “potenzialmente sicuro”, di scappare
in continuazione. La popolazione si sposta per non ricevere attacchi diretti e improvvisi dell’LRA,
ostacolando la fornitura di aiuti tanto necessari per tutta la popolazione. In tale contesto, nell’ottobre
2011, la Francia, ha dichiarato che unitamente a, Unione Africana (UA) e Nazioni Unite stavano
riflettendo su come migliorare la lotta contro LRA. Fin dal dicembre 2010 anche gli Usa hanno
modificato la propria strategia. In particolare il Presidente Barack Obama, ha recentemente
annunciato di voler aiutare le truppe ugandesi contro i ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore
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E) IL TRIBUNALE DELL’AJA METTE IN LUCE L’INQUIETANTE FENOMENO DEI
MUNGIKI. UNA GANG TERRORISTICO CRIMINALE KENIOTA
Il 27 novembre 2011 Christopher Goffard, giornalista statunitense lancia sui media americani
l’allarme rappresentato dai Mungiki. Il nome significa “moltitudine” e potrebbe essere definito tra i
sodalizi più pericolosi al mondo. Un esercito -afferma sempre Goffard- in grado di terrorizzare il
Kenya. L’organizzazione è avvolta nel mito e nella speculazione e si stima che sia costituita da
almeno 100.000 persone.
In particolare, i Mungiki possono essere definiti come una setta politico-religiosa, segreta, con
spiccate propensioni al crimine anche efferato. Essi appartengono altresì ai kikuyu, principale
gruppo etnico keniota. Il sodalizio appare per la prima volta sulla scena politico-sociale all’inizio
degli anni ’80 proponendosi come portatore di un ritorno alle tradizioni anche ancestrali
(“Stripping women wearing miniskirts and trousers in public- Forcibly imposing female
circumcision -Raiding police stations to free their own members who were under police custody”).
I Mungiki, inoltre, appaiono disdegnare ogni forma di occidentalizzazione e tutti gli effetti del
colonialismo, nonché sembrano promuovere una ideologia caratterizzata da una retorica
rivoluzionaria.
Nei primi anni ’80 i Mungiki si propongono come milizia tesa a difendere i contadini kikuyo contro
i Masai e le forze governative, cercando di riproporre le “gesta” dei combattenti Mau Mau,
anch’essi di etnia kikuyo, che lottarono strenuamente negli anni ’50 contro le forze dell’Impero
coloniale britannico.
La rivolta dei Mau Mau – il Presidente Jomo Kenyatta con un leader dei “ribelli”
Negli anni ’90, dalle zone rurali, i Mungiki migrano nella capitale Nairobi , acquisendo in breve
tempo il controllo dei matatu (taxi privati) . Tale situazione determina la possibilità per la setta di
realizzare una organizzazione costituita da cellule composte ciascuna da 50 membri divisi in cinque
nuclei. L’organizzazione, grazie alla realizzata solida base economica, decide di ampliare il proprio
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raggio d’azione dedicandosi ai seguenti settori: smaltimento dei rifiuti;edilizia;racket e violenze a
sfondo etnico.
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LEZIONE N .41-42“IL FENOMENO DELLA PIRATERIA NEL GOLFO DI GUINEA E AL LARGO DELLE COSTE SOMALE”
Il fenomeno della pirateria
La crescita del fenomeno della pirateria negli ultimi anni evidenzia la crisi degli Stati e
dell'emergere di forze non statuali in grado di condizionare gli equilibri geo-politici, insieme alle
rotte commerciali marittime.
Il 2008 è stato un anno da record per la pirateria: 293 navi attaccate, 49 sequestrate,
889 membri di equipaggio presi in ostaggio e 21 uccisi.
Dal 1991, anno in cui venne creato l’IMB, l’Ufficio Marittimo Internazionale
nell’ambito della Commercial Crime Services (CCS), divisione speciale della Camera
di Commercio Internazionale, mai si erano registrati tanti attacchi. La fine della
Guerra Fredda ha ridotto i pattugliamenti delle marine e questo ha contribuito a dare
impulso alla pirateria moderna in un contesto che vede aumentato anche il volume del
commercio internazionale e dei traffici marittimi in particolare.
La mappa della pirateria
L’aumento esponenziale dei casi di pirateria è dovuto principalmente alla situazione in
Somalia e nel Golfo di Aden, dove sono state sequestrate nel 2008 42 navi e 815
membri degli equipaggi. Nella classifica dei Paesi con le acque più pericolose al
mondo, dopo la Somalia c’è la Nigeria, con quaranta abbordaggi registrati, cinque
sequestri e 29 marinai presi in ostaggio. Al settimo posto si colloca invece lo Stretto
di Malacca, fino a tre anni orsono considerato il luogo più insidioso del pianeta.
Durante la presentazione del rapporto annuale , il direttore dell’International Maritime
Bureau Pottengal Mukundan ha sottolineato come la pirateria nel 2008 abbia fatto un
salto di qualità. In particolare:
� i pirati evidenziano un più elevato livello di preparazione e dispongono di
migliori armamenti;
� alcune frange della pirateria hanno attivato collegamenti con la criminalità
organizzata;
� gli attacchi sono sempre più audaci e ambiziosi.
Ne è un caso evidente il recente sequestro della superpetroliera ‘Sirius Star ’, battente
bandiera liberiana , ma di proprietà saudita , presa dai predoni somali il 15 novembre
scorso al largo del Kenya e rilasciata solo il 9 gennaio 2009 . Nelle stive della
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superpetroliera erano stipati due milioni di barili di greggio per un valore di almeno
100 milioni di dollari .
Dal Golfo di Aden al Capo di Buona Speranza
I premi assicurativi per le navi da carico che intendono passare attraverso il Golfo di Aden
sono aumentati di ben dieci volte nel corso degli ultimi anni. Alcune flotte mercantili hanno
recentemente modificato le rotte e, per evitare il Golfo di Aden, passano per il Sud Africa,
doppiando il Capo di Buona Speranza (anche se questo comporta almeno 4 – 5 giorni in più di
navigazione). Questa fuga dal Mar Rosso sta producendo serie ripercussioni sul Canale di Suez ,
già alla prese con la crisi economico finanziaria mondiale. Per far fronte alla situazione nel 2008 i
ministri di 27 nazioni europee hanno approvato dei piani per una missione navale nel Corno
d’Africa per reprimere duramente il fenomeno della pirateria, che sta danneggiando anche il
programma alimentare mondiale (Pam), allestito dalle Nazioni Unite per fornire di aiuti umanitari la
Somalia. La filibusta del nuovo millennio, in sintesi, agisce in maniera diversa dalle scorrerie di una
delinquenza spietata che assaliva le proprie vittime con azioni feroci. Oggi la pirateria insegue per
lo “più bottini miliardari, estorce interi carichi ai mercantili, sorprendendoli con motoscafi veloci,
muniti di radar”.
La pirateria nel Golfo di Aden
Il 12 ottobre 2008 sul quotidiano “The East African” di Nairobi , l’ analista ugandese Charles
Onyango Obbo, nell’esaminare le cause alla base della esplosione del fenomeno della pirateria nel
Golfo di Aden, affermava che “senza un’economia funzionante e con una quantità infinita di
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persone impossibilitate a trovare lavoro, la pirateria diventa l’unica fonte di sopravvivenza per
alcuni somali”;
“la soluzione alla pirateria in Somalia non s’incontra in alto mare. Essa sta all’interno del
paese. La presenza delle forze etiopi in Somalia ha fatto crescere il risentimento nazionalista,
sviluppando l’estremismo e la continuazione del conflitto. Se gli etiopi se ne andranno, il governo
di transizione collasserà e gli islamisti ritorneranno al potere. Essi sono l’unica forza in grado di
gestire il ritorno dell’ordine in Somalia e possono soffocare la pirateria. Per gli interessi dei paesi
dell’Africa orientale c’è una sola possibile soluzione: che i mullah ritornino a Mogadiscio”
Il fenomeno della pirateria ha assunto dimensioni preoccupanti anche perché attraverso il Golfo di
Aden e le altre aree lungo la costa somala passa il 14% del trasporto mondiale di merci ed il 30% di
quello di petrolio. La minaccia alla sicurezza della navigazione nel Golfo di Aden , sta rendendo,
come detto, estremamente difficoltoso anche l’intervento del PAM (Programma Alimentare
Mondiale - WFP) atteso che il novanta percento degli aiuti alimentari arriva in Somalia via mare e
la pirateria marittima scoraggia i proprietari delle navi ad intraprendere nuovi viaggi.
In tale quadro l’11 dicembre 2008, a Nairobi, si è svolta una conferenza internazionale dedicata al
fenomeno della pirateria nel Golfo di Aden organizzata dalle Nazioni Unite.
In merito: l’inviato speciale pro-tempore delle Nazioni Unite in Somalia, Ahmedou Ould Abdallah,
introducendo i lavori del vertice ha evidenziato che il problema della pirateria è legato fortemente
all’assenza di pace e stabilità in Somalia; il portavoce della sezione keniana dell’Associazione dei
marittimi dell’Africa orientale, Andrew Mwangura, ha affermato che “non solo la pirateria non
poteva essere risolta con una soluzione militare, ma anche che era necessario indagare le cause
sociali ed economiche di questo fenomeno atteso che i pirati non possono essere definiti come
criminali”.
Modus operandi dei pirati del Golfo di Aden
Dall’analisi dei dati pubblicamente disponibili, è possibile affermare che i pirati:
- utilizzano piccole imbarcazioni, dotate di potenti motori fuoribordo, estremamente
maneggevoli;
- si servono, sempre più frequentemente, di una ‘’nave madre’’, per lo più pescherecci, al fine
di ampliare il proprio raggio d’azione;
- impiegano apparati di comunicazione e rilevazione satellitari;
- esercitano una attenta e continua vigilanza nelle acque del Golfo di Aden mediante
l’impiego dei citati natanti veloci;
193
- sfruttano, nelle azioni di attacco, il fattore sorpresa e sono addestrati nel compiere gli
‘’arrembaggi’’ in tempi estremamente contenuti;
- non esercitano particolari vessazioni nei confronti dei membri degli equipaggi sequestrati.
Origine dei pirati.
I pirati provengono, in larga massima, dalle regioni somale del Puntland .
In tale contesto,aveva suscitato molte polemiche la notizia che quattro dei sei presunti pirati
arrestati dalla Francia dopo il sequestro, in aprile2008, della nave da crociera di lusso, le Ponant -
finito con la liberazione degli ostaggi -, appartenessero al clan Majarteen: il clan che controlla il
Puntland e da cui proveniva il presidente pro-tempore somalo Abdullah Yusuf Ahmed.
194
La pirateria nel Golfo di Guinea
Secondo il Piracy Report 2008 dell’International Maritime Bureau, le acque della Nigeria
sono state classificate le più pericolose dopo quelle somale. Nel periodo in esame,
sono stati infatti registrati quaranta abbordaggi, cinque sequestri e 29 membri di
equipaggio presi in ostaggio.
In merito:
le Nazioni Unite cercano di affrontare la grave minaccia attraverso un approccio
regionale evidenziando alla comunità internazionale la necessità di aiutare l’Africa
Occidentale a rendere quelle acque sicure e supportando, attraverso la divisione
sicurezza IMO, numerosi stati del West Africa;
gli Usa ed alcuni Paesi europei stanno fornendo direttamente assistenza tecnica
alle strutture di controllo marittimo di Ghana, Nigeria e Liberia non solo al fine di
garantire le rotte del trasporto di gas e petrolio ma anche allo scopo di arginare il
crescente traffico marittimo di stupefacenti provenienti dall’America Latina,
transitante nel West Africa e diretto ad alimentare il mercato europeo;
il fenomeno del Mend nigeriano certamente non appare estraneo al problema della pirateria
anche per ragioni di politica interna . La situazione nel Delta del Niger, teatro operativo dei
movimenti antagonisti nigeriani, sembra oggi sospesa, tra un governo federale non privo di
contraddizioni e una galassia di gruppi ribelli che stenta a trovare una autorevole leadership. 16
Modus operandi dei pirati del Golfo di Guinea
Dall’analisi dei dati pubblicamente disponibili, è possibile affermare che i pirati:
utilizzano piccole-medie imbarcazioni, dotate di potenti motori fuoribordo, estremamente
maneggevoli;
16 Nigeria's MEND: A Different Militant Movement March 19, 2009 www.stratfor.com
195
si servono, sempre più frequentemente, di una ‘’nave madre’’, al fine di ampliare il proprio
raggio d’azione;
impiegano apparati di comunicazione e rilevazione satellitari;
esercitano una attenta e continua vigilanza nelle acque della regione del Delta del fiume
Niger mediante l’impiego dei citati natanti veloci;
sfruttano, nelle azioni di attacco, il fattore sorpresa e sono addestrati nel compiere gli
‘’arrembaggi’’ in tempi estremamente contenuti.
I rischi per la comunità internazionale
La pirateria non è certamente un fenomeno nuovo, ma è stato a lungo sottostimato dalla
comunità internazionale che solo recentemente è corsa ai ripari nel tentativo di
arginare l’attuale escalation. Basti pensare che l’Unione europea ha ufficialmente
inclusa la pirateria tra le minacce emergenti solo nel dicembre 2008, in occasione della
presentazione del Rapporto sull’attuazione della Strategia di sicurezza europea.
La pirateria è oggi dettagliatamente codificata dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 agli
articoli 100 ss. che riproducono, salvo alcune varianti, gli art. 14 ss. della Convenzione di Ginevra
del 1958. Ai sensi dell’art. 15 di Ginevra e 101 di Montego Bay si definisce pirateria:
1) Ogni atto di violenza illegittimo di detenzione e ogni depredazione commessi dall’equipaggio o
dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, a scopo personale, e a danno:
in alto mare, di un’altra nave, altro aeromobile, o di persone o beni a bordo di questi;
196
b) in luoghi non sottoposti alla giurisdizione di uno Stato, d’una nave, o di un aeromobile, o di
persone o beni.
2) La partecipazione volontaria all’impiego di una nave o di un aeromobile, svolta con piena
conoscenza dei fatti che conferiscono a detta nave o detto aeromobile l’attributo di pirata.
3) L’istigazione a commettere gli atti definiti ai numeri 1 e 2 come anche la facilitazione
intenzionale degli stessi.
Analisi dei rischi
In tale contesto, numerosi analisti internazionali affermano che i rischi associati alla pirateria
sono notevoli ed hanno almeno una duplice natura:
- economico-commerciale:l’area che va dalle coste nordorientali della Somalia fino al Canale
di Suez, passando per il Golfo di Aden e lo stretto di Bab-al-Mandab, riveste una rilevanza
strategica per l’economia mondiale. La recrudescenza della pirateria in questo settore ha avuto
molti effetti negativi, tra cui il sensibile calo del traffico nel Canale di Suez e l’aumento dei
premi assicurativi;
- di sicurezza: interna, atteso che la pirateria arricchisce i signori della guerra locali e
rinfocola le loro continue lotte intestine e internazionale per i suoi possibili legami con il
terrorismo.
-In sintesi, la pirateria nel Golfo di Aden , avendo assunto le caratteristiche di una minaccia
globale, necessita di una risposta altrettanto globale e potrà essere “estirpata” solo a
lungo termine con la fine del caos in Somalia e contrastata nel breve-medio periodo
attraverso sforzi congiunti della comunità internazionale che attualmente si stanno
concentrando prevalentemente in due direzioni, una operativa e l’altra giuridica.
197
Quinto ModuloTREND E PROSPETTIVE
� Sviluppo del settore petrolifero
� Good governance come fattore chiave per lo sviluppo e la sicurezza in Africa
� A quando una “Primavera Africana?”
198
LEZIONE N. 43-44“SVILUPPO DEL SETTORE PETROLIFERO”
Tra il 1990 ed il 2004 la produzione petrolifera del continente africano è aumentata del 40%
passando da 7 milioni a 10 milioni di barili al giorno (m b/g). Attualmente secondo i dati dell’ U.S.
Geological Survey (USGS) l’Africa contribuisce a livello mondiale per il 12% della produzione
petrolifera, altre fonti parlano invece di un contributo pari al 10%. Gli esperti di settore concordano
comunque nel prevedere un aumento di tale quota fino al 15% verso il 2020.
Tali dati fanno sì che l’Africa sia più che mai al centro degli interessi dei grandi player mondiali, (in
particolare USA, Cina e India) interessati a promuovere il loro sviluppo industriale.
Il continente deve essere preso in considerazione tenendo conto che in vi sono due aree geopolitiche
nettamente distinte: l’Africa del Nord che rientra nello scacchiere del Grande Medio Oriente,
(regione soggetta alle note tensioni globali, difficilmente controllabili) e l’Africa sub-sahariana con
fattori di rischio del tutto diversi e certamente più limitati, se si escludono alcuni paesi “di frontiera”
come il Sudan e la Somalia. In linea di massima il rischio politico maggiore nell’Africa a sud del
Sahara è costituito da possibili conflitti interni determinati da una ineguale distribuzione dei
proventi dell’industria estrattiva. Si tratta di un fattore di rischio che se non del tutto ineliminabile,
può essere ridotto con una maggiore trasparenza finanziaria, con lo sviluppo di una maggiore
rappresentatività democratica e con una migliore governance attenta agli aspetti ambientali e
sociali.
L’Africa sub-sahariana sta assumendo un’ importante funzione di alternativa come fornitore di
materie prime energetiche favorendo così una strategia di diversificazione rilevante, soprattutto in
considerazione delle crescenti tensioni nella regione mediorientale.
Quali i motivi che spingono oggi verso il petrolio africano? In buona sostanza l’interesse delle
grandi compagnie petrolifere multinazionali, nell’Africa sub-sahariana è determinato dai seguenti
fattori
1. apertura degli stati produttori africani al mercato e assenza di minaccia negli ultimi anni di
possibili nazionalizzazioni nel settore (questa situazione favorisce l’entrata di nuovi attori
come le cosiddette compagnie indipendenti, sia americane che asiatiche);
2. sistema di regimi contrattuali e fiscali favorevoli che rendono più remunerativo e meno
rischiose le attività di esplorazioni e prospezioni;
199
3. presenza di nuove tecnologie di prospezione e sfruttamento che consentono di utilizzare
risorse fino ad ora inesplorate perché troppo profonde e situate off-shore;
4. collocazione geografica favorevole per i trasporti marittimi soprattutto dal Golfo di Guinea e
Angola;
5. qualità del petrolio a basso contenuto di zolfo;
6. natura dei giacimenti, che -essendo off-shore- consentono una maggiore protezione da
eventuali attacchi terroristici.
L’Angola e la Nigeria sono ormai i due produttori africani leader, davanti all’Algeria ed in teoria
alla Libia (la cui produzione nel 2011 è stata fortemente danneggiata a causa della rivolte che hanno
portato alla caduta del regime di Gheddafi). L’Angola nel 2009 è divenuta il primo produttore con
una quota di 2 milioni barili al giorno (b/g); la Nigeria con una produzione di 1,9 milioni di b/g ha
visto la sua produzione calare nell’ultimo biennio.
Oltre ai suddetti Paesi, hanno una produzione di tutto rispetto la Guinea Equatoriale che dal 2004
produce 360.000 b/g; il Sudan che ha una produzione di 470.000-490.000 b/g (cifra che ha risentito
negativamente dell’indipendenza del Sud nel luglio 2011 e del mancato accordo petrolifero
successivo tra Nord e Sud), il Congo Brazzaville che estrae 240.000 b/g ed il Gabon che si attesta
sui 235000 b/g. Le recenti scoperte di giacimenti in Ghana e Uganda permetteranno nel breve
periodo di considerare anche il contributo di tali paesi nel panorama africano. Al fine di difendere in
modo ottimale i propri interessi e coordinare le proprie politiche, i partner africani hanno creato nel
1986 l’Association des Pays Producteurs Africains (APPA) .
Ma quali sono le tre linee seguite da USA, Cina e India per la spartizione delle risorse energetiche
africane?
Nigeria, Angola e paesi del Golfo di Guinea rappresentano i cardini della strategia americana per
l’accaparramento delle risorse energetiche africane. La sicurezza energetica è parte integrante della
sicurezza nazionale, essa deve essere quindi perseguita con pragmatismo e con ogni strumento utile
(compreso quello militare).
Diverse le affermazioni fornite dai responsabili politici statunitensi nell’ultimo ventennio, sia essi
democratici che repubblicani.
Se fu il Presidente Carter che nel 1980 preventivò l’uso di “any means necessaries, including
military force” (la cosiddetta “Dottrina Carter”) per assicurare il flusso del petrolio del Golfo
Persico, il Presidente Clinton qualche anno più tardi fece eco con “our nation cannot afford to rely
on any single region for our energy supplies”. Fu tuttavia solo con l’Amministrazione repubblicana
200
che la “Dottrina Carter” venne estesa all’Africa. Il Vice Presidente Richard Chaney nel National
Energy Policy report nel maggio 2001 puntualizzò che“African oil tends to be of high quality and
low in sulphur, giving it a growing market share for refining Centres on the East Coast of the US”.
Indubbia nell’obiettivo appare anche la dichiarazione dell’Assistente Segretario di Stato per l’Africa
Walter Kansteiner fatta nel luglio 2002 , in occasione di una visita in Nigeria , secondo cui “ the
African oil is of strategic national interest to us and it will increase and become more important to
us as we go forward”. Se a ciò si aggiungono gli incontri del Presidente Bush a New York
nell’agosto dello stesso anno con i Capi di Stato di 10 paesi africani produttori di petrolio (tra cui
quelli di Cameroon, Guinea Equatoriale, Chad, Congo Brazzaville, Sao Tome & Principe), le
missioni del Segretario di Stato Colin Powell nel settembre 2002 in Angola e Gabon, nonché i più
recenti viaggi di Condoleezza Rice e di Jendayi E. Frazer nei Paesi del Golfo di Guinea , si può
facilmente comprendere che negli ultimi mandati sono stati moltiplicati gli sforzi per ancorare la
presenza di compagnie americane in alcuni paesi del continente, il tutto con l’obiettivo di creare le
basi per una partnership di lungo periodo.
Indubbiamente l’11 settembre ha favorito tale indirizzo, rafforzando un fenomeno che aveva già
creato le sue basi con le crisi petrolifere degli anni ’70-‘80.
Nel 2015, secondo numerosi esperti, il 25% del petrolio necessario alle industrie americane,
potrebbe pervenire proprio dal black continent. Infatti da un lato va aumentando la richiesta
energetica americana, dall’altro prosegue la ricerca per la diversificazione geografica delle risorse e
parallelamente quella per lo sviluppo di nuovi fonti alternative. L’Africa sembra rispondere
completamente a queste esigenze.
ExxonMobil, ChevronTexaco, Devron, Ameralda Hess, Marathon, Unocal sono sempre più presenti
con nuove tecniche di esplorazione e con accordi privati per la sicurezza, convinti dei vantaggi
forniti dalla qualità del prodotto locale (petrolio leggero, come ad es. il Bonny light), della relativa
vicinanza geografica (un supertanker proveniente dal Golfo di Guinea può raggiungere New York in
una settimana) e ancor più dei vantaggi offerti nella spartizione dei proventi da parte dei governi (in
alcuni casi fino al 15% del guadagno totale).
La loro azione si scontra tuttavia con potentati locali e una forte corruzione, operata sia da parte di
funzionari governativi, sia da parte di privati. Come segnalato nei report annuali pubblicati da
Transparency International, diversi paesi africani sono coinvolti da questo fenomeno che detrae
dalle tesorerie statali almeno $140 miliardi ogni anno ed impedisce un sano sviluppo economico.
Come ovviare a tale problema? Ponendo numerose condizionalità politiche ed economiche in
accordi bilaterali e multilaterali, premendo per una maggiore trasparenza e accountability,
201
incentivando il rispetto della legge e la santità dei contratti, trainando con iniziative multilaterali i
paesi più meritevoli .
Per quanto attiene alla Cina, l’acquisto del petrolio africano rientra in una logica più ampia dei
rapporti bilaterali, rapporti che si sono evoluti da fine degli anni ’50 ai giorni nostri.
Da Mao a Hu Jintao il cammino si è sviluppato e trasformato, cercando di far convergere le
esigenze di Pechino con quelle dei paesi africani, le prime, volte ad un pieno riconoscimento
internazionale ed all’esportazione degli ideali rivoluzionari, le seconde mirate inizialmente al
sostegno per l’indipendenza e, successivamente, all’aiuto economico.
Le numerose missioni diplomatiche/ministeriali annuali si concretizzano in Accordi commerciali di
alto livello ed in commesse notevoli per quanto riguarda l’inserimento delle compagnie petrolifere
di stato (China National Petroleum Corporation-CNPC, China National Offshore Oil Corporation-
CNOOC, China Petroleum and Chemical Coproration – SINOPEC) , valide per nuove
esplorazioni, trivellazioni, produzioni e sfruttamento delle risorse africane.
Quali i paesi particolarmente “curati” da Pechino? Certamente si distinguono Angola, Sudan,
Algeria, Nigeria, Congo ma non vengono disdegnati i rapporti con Etiopia, Guinea Equatoriale,
Namibia.
- Angola: è il partner petrolifero per eccellenza. Su oltre 7 mil b/g di petrolio totali che la Cina
ha importato nel 2005, ha preso circa 760.000 b/g dalla sola Africa, di cui 456.000 b/g
dall’Angola. Pechino è percepito come un alleato fidato che colma i vuoti delle istituzioni
internazionali e come un partner pronto a inserirsi rapidamente in gare internazionali. In
occasione dell’acquisizione dei diritti sul “Blocco 18”, la Cina è subentrata in fase finale di
trattative all’India, inizialmente prevista come acquirente favorito per acquisire la quota del
50% della Shell (valore di US $ 620 milioni).
- Sudan: è il partner più controverso, il rapporto più complesso che attira le critiche
internazionali. Nessuno può dire con certezza quanto la Cina abbia investito in Sudan negli
ultimi anni. Alcune voci fanno riferimento ad una cifra pari a US$20 mlrd, cui vanno
aggiunti prestiti e donazioni. Alcuni dati indicativi: nel 1996 la CNPC è entrata a far parte
della Greater Nile Petroleum Operating Company; nel 1998 la CNPC ha preso parte alla
costruzione del pipeline di 1500 km dai campi di Hegling e Unity al Mar Rosso; la stessa
compagnia sta costruendo con la China Petroleum Engineering Construction Group un
terminale di US$215 mil a Port Sudan;
- Nigeria: tra le numerose iniziative congiunte si segnalano la firma nel 2005 tra la CNOOC e
la Nigerian National Petroleum Corporation-NNPC di un contratto di US $800 milioni per
attribuire alla Cina 30.000 b/g, l’acquisto nel 2006 da parte della CNOOC del 45% del
202
campo AKPO per oltre US$2 milioni, l’impegno cinese preso in occasione della visita
ufficiale del Pesidente Hu Jintao (aprile 2006) di investire US$4 milioni nel settore
petrolifero;
- Algeria: numerosi sono gli accordi stipulati negli ultimi anni tra i due partner. Tra i più
rilevanti si ricordano quello dell’ottobre 2002 con cui la SINOPEC ha investito con la
Sonatrach algerina US $525 milioni per sviluppare l’esplorazione e la messa in produzione
del campo petrolifero di Zarzaitine (da completarsi nel 2008); quello relativo alla
costruzione di una raffineria vicino Adrar nel luglio 2003; quello del dicembre 2003 tra
CNPC e Sonatrach con cui la compagnia cinese si è impegnata ad investire US$31 milioni
nei successivi tre anni per la prospezione di alcune aree algerine ricche di gas e petrolio.
Per quello che concerne l’India, in particolare la Oil and Natural Gas Corporation (ONGC) e il
TATA Group si sono distinte per il dinamismo dimostrato e per la validità dei progetti avviati nel
settore petrolifero africano. La ONGC Videsh Ltd, (OVL) -divisione che si occupa di esplorazione e
investimenti per la ONGC- ha effettuato la prima operazione importante nel 2003 in Sudan,
sostituendosi alla Talisman (compagnia canadese obbligata a ritirarsi dall’area a causa di pressioni
di alcune ONG nazionali, contrarie ad investimenti in un paese non rispettoso della tutela dei diritti
umani).
Nel gennaio 2005, la GNOPC ha prodotto 320.000 b/g. prontamente immessi sul mercato grazie ad
una pipeline che collega i giacimenti più ricchi del paese a Port Sudan.
Un’operazione commerciale condotta dalla OVL, particolarmente discussa, è stata quella relativa
all’acquisto del 45% dell’interesse nell’OML 130 (Oil Mining Lease), l’area offshore del Delta del
Niger in cui si trova il giacimento petrolifero AKPO (a 200 km dalla costa- ha riserve stimate pari a
600 milioni di barili di petrolio). Inizialmente la compagnia indiana si era impegnata per acquistare
una partecipazione del valore di US$ 2,3 miliardi di tale giacimento, poi si è ritirata, ufficialmente a
causa di un mancato nulla osta dato dall’esecutivo di Nuova Delhi per motivi legati al “rischio
dell’operazione”. Abilmente, in fase finale, si è re-inserita la CNOOC che in tal modo ha effettuato
la prima acquisizione di rilievo nel continente.
Tale operazione ha indotto a pensare ad “accordi sotterranei” tra i due partner asiatici, che
potrebbero aver predisposto una strategia precisa,volta ad affermare la presenza asiatica nel
continente.
203
LEZIONE N. 45-46“GOOD GOVERNANCE COME FATTORE CHIAVE PER LO SVILUPPO E LA SICUREZZA IN AFRICA”
Dagli anni ’90 la “governance” è considerata un fattore chiave per lo sviluppo sostenibile del
continente africano. Tale convinzione è particolarmente forte tra le democrazie occidentali e gli
organismi internazionali che sono impegnati dalla fine del secondo conflitto mondiale nelle
politiche di sviluppo. L’importanza della “governance” come elemento chiave per produrre
sviluppo sostenibile e stabilità politica, non è tuttavia unanimemente accettato a livello
internazionale, soprattutto quando vengono considerati nel concetto di “governance”, i rapporti
politici e sociali tra governanti e governati. In questi casi, soprattutto quando il concetto di “good
governance” viene inteso nel suo senso più ampio, e comprende anche lo sviluppo di istituzioni
democratiche e il rispetto dei diritti umani, questo viene criticato apertamente da alcune potenze
emergenti (come la Cina) e dalle autocrazie africane che non accettano cambiamenti radicali nei
loro paesi. Le difficoltà che incontra una “good governance” ad affermarsi nel continente africano
non sono tuttavia il frutto dell’opposizione teorica di chi non crede in essa; si tratta piuttosto del
fatto che quell’insieme di regole e di principi stentano a radicarsi in ambienti poco adatti al loro
sviluppo.
Ma cosa si intende per governance? Come si misura? C’è un modo per migliorarla? Come si pone
rispetto alla democrazia e alla sicurezza?
Formulare una definizione precisa e definitiva di “governance” non sembra cosa semplice, data la
fluidità insita nel termine e la forte generalità del concetto stesso.
La definizione più neutrale del termine “governance” è quella spesso formulata dalla Banca
Mondiale che definisce la governance come la “maniera in cui il potere è esercitato nel gestire le
risorse sociali ed economiche per lo sviluppo”. Tale definizione, così come è formulata nella sua
generalità, è neutrale da un punto di vista ideologico, in quanto non qualifica gli strumenti per
raggiungere il fine, vale a dire lo sviluppo (economico e sociale), ma chiarisce soltanto qual è
l'obiettivo da raggiungere attraverso una “good governance” e quali sono i meccanismi con i quali il
potere politico gestisce le risorse. Non è un caso che la stessa Banca Mondiale, ampliando la prima
generica definizione di governance, in qualche modo politicamente neutrale, per specificare meglio
le policy necessarie per raggiungere una buona governance economica e sociale, finisce per darne
una qualificazione più precisa e quindi per certi versi fortemente ideologica.
Così la Banca Mondiale ritiene che la governance di un paese per poter essere efficace necessita di:
“an efficient public service, an independent judical system and legal framework to enforce
contracts, the accountable administration of public funds, an independent public auditor
204
responsible to a representative legislature, respect for the law and human rights at all levels of
government, a pluralistic institutional structure and a free press”. La Banca mondiale non soltanto
incoraggia i governi nazionali a creare un quadro legale e istituzionale caratterizzato da
responsabilità, trasparenza, informazione, predicibilità e competenza nella gestione delle politiche
pubbliche e dello sviluppo economico, ma collega queste azioni allo sviluppo democratico e al
rispetto dei diritti umani.
La United Nation Development Program (UNDP), nella sua definizione di Governance va più in là
della stessa Banca Mondiale nel conferire uno stretto legame tra aspetti economici e politici,
definendo nel documento “To Strengthen Governance through National Capacity Building. A
Strategy Paper for Sub-Saharan Africa” (1995) la governance come “a framework of public
management based on the rule of law, a fair and efficient system of justice, and broad popular
involvement in the process of governing and being governed. This requires establishing
mechanisms to sustain the system, to empower and give them real ownership of the process.”
Questa impostazione riflette il pensiero prevalente delle Organizzazioni Internazionali con
competenze di aiuto allo sviluppo e della maggioranza dei donatori, USA, Unione Europea e suoi
paesi membri, nonché Giappone, per i quali la buona governance viene intesa non soltanto in
termini di maggiore efficienza complessiva del sistema politico-amministrativo, ma collegata
direttamente allo sviluppo democratico come elemento sussidiario alla capacità istituzionale del
sistema di ottenere risultati visibili in termini di sviluppo economico e sociale. Secondo questa
dottrina la distinzione tra buona governance e sviluppo democratico non sussiste o è lasciata
all’ambiguità, in quanto si ritiene che le due cose siano direttamente e strettamente interdipendenti.
Qualche divergenza di opinione sorge soltanto nello stabilire se è il processo democratico a
determinare lo sviluppo di un’economia di mercato efficiente o viceversa, se lo sviluppo di un
sistema di mercato e della conseguente prosperità, facilitino l'affermazione della democrazia. Un
quesito che si risolve nella maggior parte dei casi con la conclusione che i due aspetti si rafforzino
vicendevolmente.
Democrazia e good governance richiedono regimi basati sul modello liberal-democratico che
protegge i diritti civili e politici, supportati da apparti amministrativi non corrotti e responsabili. Un
sistema politico siffatto è l'unico funzionale per creare le condizioni per economie di mercato libere
competitive. La prevalenza di democrazie liberali a livello globale e la prosperità così generata,
contribuirebbe infine ad un mondo più sicuro dove pochi sarebbero incentivati ad usare lo
strumento militare per affermarsi.
Date queste premesse, necessarie per sottolineare alcune implicazioni che la definizione di
governance può comportare, si può tentare una sintesi dei significati prevalenti che viene dato al
205
termine. Per restare alle formulazioni più autorevoli, la governance fa riferimento al “complesso di
tradizioni ed istituzioni attraverso le quali l’autorità è esercitata in un paese”. Prevalentemente
questa non è intesa in senso autoritario e gerarchico, ma piuttosto come interazione di diversi
elementi.
In termini sintetici e cercando di evitare un’ impostazione “ideologica” possiamo dunque definire la
governance come “la capacità di un sistema di darsi delle regole condivise che consentano buone
politiche economiche, responsabilità delle classi dirigenti, lotta alla corruzione per consentire un
sistema di correttezza nella competizione tra aziende ed individui che premi i migliori, stabilità
politica, rispetto della legge”.
Per un ulteriore approfondimento del tema, di seguito saranno analizzati i rapporti tra governance e
sviluppo economico in Africa, governance e democrazia, governance e sicurezza.
Governance e sviluppo economico in AfricaSuccessivamente alla seconda guerra mondiale ed in misura ancora maggiore, nel periodo post-
coloniale intorno agli anni ’60, una delle maggiori questioni di politica economica internazionale
era rappresentata dal problema dello sviluppo dei paesi dell’Asia e dell’Africa senza il quale il
sistema economico internazionale sarebbe stato condannato ad una situazione di perenne dualismo
economico: da una parte i paesi avanzati, allora definiti industrializzati, dall’altra la gran massa di
paesi sottosviluppati.
Ingenti risorse finanziarie ed intellettuali vennero destinate dai paesi occidentali, i paesi ricchi,
insieme ad i grandi organismi internazionali, per innescare i processi più consoni al decollo
economico dei paesi africani ed asiatici, ma con scarso successo. Da un punto di vista dottrinale
inizialmente si cercò di adattare le principali teorie dello sviluppo alle realtà dei cosiddetti “paesi in
via di sviluppo” (PVS). I diversi fattori chiave individuati come determinanti dello sviluppo erano
in estrema sintesi i seguenti:
� Mutamento in agricoltura (incremento di produttività)
� Incremento del tasso di accumulazione del capitale
� Espansione del commercio mondiale
� Rivoluzione tecnologica
� Affermazione progressiva del laissez faire
� Fattori istituzionali e culturali
Nel corso degli anni ’70 e l’inizio degli anni ‘80 si opera una vera e propria frattura tra l’andamento
economico della maggior parte dei paesi asiatici e di quelli africani: Questi ultimi, che godevano di
206
redditi medi in gran parte superiori a quelli asiatici negli anni ’60, riscontrano un vero e proprio
declino, mentre gran parte delle economie dell’estremo oriente, ma anche dell’Asia meridionale
iniziano un percorso di crescita sostenuta. Uno di motivi principali allora individuati per spiegare
questi diversi percorsi fu già allora la netta differenza di capacità istituzionale tra i paesi dell’Africa
e dell’Asia
Di questi, alla luce degli sviluppi successivi, si può constatare che forse il principale fattore era
l’ultimo, vale a dire quello dei fattori istituzionale e culturali in senso lato, comprendente la capacità
di gestire i processi sociali ed economici in maniera efficiente, quello che oggi noi definiremmo di
governante. Da un punto di vista pratico, il fattore governance allora venne tuttavia trascurato.
La profonda crisi degli anni ’80 in tutta l’Africa sub-sahariana con un crescente debito estero e un
declino economico generalizzato portò all’imposizione da parte dei grandi organismi internazionale
Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale delle politiche di Aggiustamento Strutturale -
Structural Adjustment Policy (SAP). Queste politiche,mirate sostanzialmente a ridurre
l’indebitamento dei paesi africani attraverso una riduzione della spesa pubblica, implicavano anche
il ritorno al mercato ed apertura verso l’estero ed il commercio internazionale delle economie del
continente. Tuttavia le riforme richieste erano spesso dolorose da un punto di vista sociale,con
effetti negativi sullo sviluppo umano (tagli nel sistema educativo, sanitario etc.) L’idea era che la
riduzione dell’intervento pubblico in economia non si sarebbe tradotta in una diminuzione dei
servizi pubblici offerti, in virtù dell’aumento dell’azione dei soggetti privati, che soddisfano i
bisogni della collettività attraverso l’organizzazione e la gestione del mercato o del quasi-mercato.
Un’impostazione corretta in strutture socio-economiche sviluppate, ma discutibile nel contesto
africano. Se i SAP hanno avuto successo in alcuni casi specifici, determinando un incremento del
PIL ed un’ inversione di tendenza del declino economico africano, hanno anche messo in evidenza
che l’anello mancante delle teorie dello sviluppo tradizionali andava proprio ricercato nel concetto
di buona governance.
I paesi africani infatti hanno iniziato a sperimentare l’effetto positivo dell’introduzione di regole di
buona politica economica per migliorare l’efficienza dei sistemi. Parallelamente negli anni ‘90 la
stessa Banca Mondiale e la più vasta comunità di accademici esperti e professionisti impegnati
negli aiuti allo sviluppo, si sono resi conto che le riforme potevano avere successo se queste, non
erano imposte esternamente, ma il frutto di un’azione endogena africana condotta dalle nuove classi
dirigenti. Per questi motivi l’attenzione si è spostata dagli aspetti puramente economici a quelli
politici ed istituzionali e quindi la governance ha iniziato ad essere percepita come uno degli
elementi distintivi e come fattore fondamentale di sviluppo nella dottrina prevalente. Dagli anni
’90 sia i grandi organismi internazionali che i paesi europei e gli Stati Uniti hanno destinato
207
crescenti risorse verso i progetti finalizzati al miglioramento della governance in tutti i molteplici
aspetti che questo comporta nei paesi africani. Spesso gli aiuti vengono condizionati al
raggiungimenti di risultati positivi e alle performance che gli stati beneficiari raggiungono in
termini di capacità istituzionale,lotta alla corruzione, rispetto della legge e dei diritti umani.
Un elemento rilevante - e che sicuramente ha un carattere strategico per il concreto raggiungimento
di risultati positivi nei paesi africani è che alcuni aspetti delle politiche inizialmente imposte
dall’esterno, iniziano ad essere percepite in Africa in maniera positiva da un consistente numero di
leaders politici africani. Questa evoluzione positiva è il frutto di un percorso genuinamente africano
che a partire dalla fine degli anni ’80, ha visto crescere la consapevolezza, che soltanto una classe
dirigente africana responsabile e impegnata alla lotta contro la povertà ed a favore dello sviluppo
economico, possa fare la differenza.
I fattori che hanno determinalo questa evoluzione positiva sembrano essere i seguenti: la fine della
Guerra fredda con il progressivo disinteresse delle grandi potenze per l’Africa, manifestatosi anche
con una netta diminuzione degli aiuti internazionali, ha determinato un processo creativo in Africa
con una reazione da parte della parte delle più illuminate elites del continente. Le nuove leadership,
preoccupate di un progressiva marginalizzazione del continente africano, si rendevano conto che era
necessario lanciare un nuovo impulso innovativo basato sulla ownership africana, nella
consapevolezza che i problemi africani dovevano trovare soluzioni africane. L’atto fondante di
questo nuovo approccio è stata la risoluzione del luglio 2001 che ha dato l’avvio alla New
Partnership for Africa's Development (NEPAD), frutto di un’iniziativa congiunta dell’ex Presidente
del Sudafrica Thabo Mbeki, dell’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo, e del Presidente
algerino Abdelaziz Bouteflika; insieme al Presidente del Senegal Abdoulaye Wade. I principi
fondamentali sui quali si basa questo nuovo organismo sono essenzialmente, l’economia di mercato,
la buona governance, istituzioni democratiche, rispetto dei diritti umani e risoluzione pacifica dei
conflitti, principi percepiti come fattori chiave per lo sviluppo economico-sociale del continente.
Coerentemente, nel luglio 2002 a Durban in Sudafrica, nell’ambito della NEPAD, viene approvata
la Declaration on Democracy, Political, Economic and Corporate Governance che impegna gli
Stati partecipanti a sottoporsi, previa ratifica degli accordi sottoscritti, ad un meccanismo mirato al
monitoraggio per l’effettiva applicazione dei principi sottoscritti, il cosiddetto African Peer Review
Mechanism (APRM).
L’incontro di Durban ha una portata storica in quanto, non solo pone dei limiti al principio di
sovranità assoluta e di non-interferenza negli affari interni per i sottoscrittori degli accordi, ma
enuncia principi che non sono così unanimemente accettati a livello globale, se si escludono i paesi
208
avanzati occidentali, come libertà individuali e democrazia. Sul piano teorico e dei principi una
parte consistente dei leader africani si pone quindi su posizioni vicine a quelle occidentali.
L’ APRM riconosce in buona sostanza che il controllo esterno, meglio se esercitato da altri paesi
Africani in un’ottica di reciprocità, può dare un impulso positivo e forzare in qualche modo delle
classi dirigenti ad un comportamento virtuoso che comunque ha dei costi in termini di interessi
personali e di parte.
Governance e democrazia
Come si è già accennato nel paragrafo introduttivo sulla definizione di Governance, la differenza tra
politiche di promozione della Governance e dello sviluppo della democrazia spesso tendono a
sovrapporsi.
Questa impostazione, diffusa a livello politico, da un punto di vista concettuale è del tutto arbitraria.
Il fatto che vi sia una stretta correlazione tra i due processi, non significa che si possano identificare
unitariamente.
Una doverosa distinzione va fatta al contrario sia per una pura questione teorica, ma soprattutto per
le implicazioni operative. Ciò è particolarmente importante in Africa dove le condizioni in termini
di livello dei redditi e struttura sociale sono molto diverse da quelle dei paesi europei.
Paul Collier, professore di economia ad Oxford e massimo esperto di Governance nei paesi a basso
reddito ed in particolare nei paesi africani, afferma che sebbene una governance disfunzionale
costituisce la ragione principale per la quale molti paesi non riescano ad uscire dal circolo vizioso
della povertà, la distinzione tra governi autocratici e democratici non è direttamente correlata tra
cattiva e buona governance. In altri termini egli afferma che vi sono regimi autocratici che possono
vantare ottime performance in materia di governance economica e di capacità istituzionale, mentre
vi sono molti esempi di paesi democratici, che a causa di politiche populistiche e clientelari
riducono molto la capacità del sistema di gestire in maniera efficiente l’economia di mercato. Per
Collier un’autocrazia illuminata ha maggiori probabilità di migliorare la governance economica di
un paese di quanto possa fare una democrazia disfunzionale:
“Dysfunctional governance is central to why some countries remain poor. Since 1991 Europe has
attempted to improve governance by promoting democratisation. Yet the distinction between
democratic and autocratic regimes does not relate closely to that between good and bad
governance. Whereas some autocratic regimes are plundering tyrannies, others are delivering
prosperity. Similarly, while some democratic regimes are disciplined by accountability, others are
mired in populism and patronage. Democracies only work well under certain conditions. A good
autocracy may be better able to put these foundations in place than a dysfunctional democracy. The
209
path to a well-functioning democracy may not start from dysfunctional democracy, but from benign
autocracy”.
Se non esiste una correlazione diretta tra regime politico e sviluppo, la maggior parte degli
economisti è tuttavia concorde nell’affermare che lo sviluppo democratico tende a migliorare una
più equa distribuzione del reddito.
L’altro effetto positivo dei regimi democratici, oltre alle maggiori capacità di distribuire la ricchezza
prodotta, è la duttilità del sistema di fronte a gravi crisi economiche. La democrazia consente infatti
di negoziare la nuova distribuzione di responsabilità tra le parti coinvolte (sindacati, imprenditori,
burocrati), necessaria per superare la crisi stessa.
Per quanto concerne l’Africa, un elemento certamente positivo è costituito dal fatto che gli Stati
africani collettivamente, sia nell’ambito del NEPAD che in quello dell’Unione Africana, hanno
acquisito come propri principi in una logica di ownership, quelli relativi al rispetto dei diritti umani,
all’importanza dello sviluppo della società civile, e della lotta contro la corruzione. Se i ripetuti
richiami in tutti i documenti politici sottoscritti dalla maggior parte dei paesi africani al principio
della democrazia non corrispondono in molti casi a pratiche coerenti, tuttavia il solo fatto che
teoricamente si indichi autonomamente l’importanza di certi principi, in qualche modo distingue il
continente africano da altre aree mondiali dove tali principi non sono presi in considerazione
nemmeno in termini teorici (come ad esempio in Cina).
Governance e sicurezza
Tradizionalmente la Sicurezza era concepita come una garanzia degli stati nazionali da aggressioni
esterne, nonché del regime politico al potere dall’eversione interna. Se si guarda all’Africa, lo
statuto dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1963 aveva messo i piedi una struttura
normativa che principalmente andava incontro a queste esigenze, ponendo come principio chiave la
sovranità degli Stati membri e l’inviolabilità ed immodificabili delle frontiere. Le gravi crisi e
l’instabilità che hanno colpito l’Africa in questo mezzo secolo, che ha visto concentrati in questo
continente un altissimo tasso di conflitti e crisi umanitarie prodotte dall’uomo, e la constatazione
che si trattava prevalentemente di crisi interne, hanno portato alla formulazioni nuove dottrine che
vedono nell’elevata militarizzazione una delle cause primarie dell’instabilità africana. Una delle
conseguenze più evidenti di questa nuova prospettiva, è che l’instabilità interna agli stati viene
percepita come la più grave minaccia e di conseguenza si ritiene che la garanzia della sicurezza
debba essere destinata alla società nel suo complesso ed agli individui che ne fanno parte e non allo
Stato e ai regimi che lo rappresentano.
210
L’idea che la sicurezza in Africa debba avere sempre più come riferimento gli individui piuttosto
che gli Stati è ormai un paradigma emergente in un’ottica di stabilizzazione globale.
Nell’esaminare le problematiche riferibili allo stretto rapporto tra governance e sicurezza, che
come si è visto coinvolgono la gestione complessiva dei rapporti politico-sociali, esistono ambiti
più specifici al fattore sicurezza che richiedono interventi mirati sugli apparati dello stato, sempre in
un’ottica di miglioramento della governance. Ci si riferisce in particolare alla riforma dei sistemi di
sicurezza nota nel’acronimo in inglese come SSR ovvero Security System Reform.
Com’è noto in gran parte dei paesi dell’Africa sub-sahariana gli apparati di sicurezza interna e le
forze di polizia soffrono di carenze strutturali sia di tipo quantitativo che qualitativo. La costante
presenza sul territorio in funzione di controllo è spesso carente o insufficiente. Alla scarsa presenza
sul terreno si aggiungono le carenze qualitative e la poca chiarezza della mission delle forze di
polizia. Spesso il reclutamento viene effettuato su basi etniche o clientelari. La fedeltà delle forze di
polizia è quindi rivolta verso le elites dominanti e il livello di impegno nel garantire la sicurezza del
singolo cittadino appare scarsa. Nei casi più gravi le forze di polizia rappresentano la minaccia
primaria verso i cittadini in aree di crisi o dove le attività dell’opposizione sono considerate una
minaccia per il regime al potere. Anche quando non sussistono motivi di carattere politico che
determinino lo scarso impegno delle forze di polizia nel garantire in maniera neutrale la sicurezza
dei cittadini, l’insufficiente preparazione professionale e la diffusa corruzione, fanno sì che le forze
di sicurezza non vengano considerate un soggetto a cui i cittadini si possano rivolgere per garantire
la propria incolumità o sfuggire ai soprusi della malavita organizzata.
Questa situazione determina uno scollamento tra popolazione ed istituzioni e vuoti nel controllo del
territorio, che in alcuni casi vengono riempiti da milizie di varia natura: da milizie collegata alla
malavita organizzata, corpi armati privati assoldati dalle multinazionali occidentali, o nelle aree di
crisi da milizie ideologizzate con possibili connessioni con il terrorismo internazionale.
Un esempio specifico può fornire la misura di questo fenomeno. In Nigeria la carenza delle forze di
polizia, soprattutto nel sud petrolifero, ha lasciato spazio a forti milizie private: le milizie del Delta
del Niger, oltre ad essere coinvolte in varie tipologie di traffici illegali, da quello delle armi a quello
della droga, forniscono i propri servizi a politici locali, un fenomeno inquietante che contribuisce ad
incrementare il caos generale. In questo contesto le compagnie petrolifere occidentali, così come le
classi abbienti nigeriane, fanno un esteso uso di corpi di polizia privati, che si sovrappongono così
agli apparati di sicurezza statali, sempre più inefficienti e screditati. Se si guarda alla più vasta area
dei paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea, la debolezza delle forze di polizia favoriscono
traffici illegali di materie prime, soprattutto preziosi e coltan, così come quello degli esseri umani,
della droga, con conseguenze immaginabili sul livello di sicurezza delle comunità locali. L‘illegalità
211
diffusa, la debolezza delle istituzioni statali, l’elevata corruzione delle forze di polizia e la
delegittimazione dei governi costituiscono terreno fertile per l’inserimento di gruppi terroristici.
Dunque il pericolo di una contaminazione ideologica e di una radicalizzazione politica in paesi con
grandi porzioni o significative di abitati o minoranze consistenti di religione musulmana, dietro la
spinta del diffuso malessere sociale, esistono. Già oggi molte organizzazioni islamiche si
sostituiscono alle carenti strutture statali in molti paesi dell’area fornendo assistenza sociale ai
diseredati e sicurezza ai cittadini in aree dove gli apparati di polizia governativi, o perché
insufficienti, o perché corrotti dalla malavita organizzata, non espletano le funzioni proprie.
In questo contesto, la professionalizzazione delle forze di sicurezza dei paesi dell’Africa sub-
sahariana, non soltanto da un punto di vista tecnico, ma soprattutto dal punto di vista del controllo
democratico, è divenuta una priorità dei paesi donatori occidentali.
Proprio attraverso la riforma dei sistemi di sicurezza (SSR), operando sulla governance degli
apparati, si può cercare di ridurre la portata destabilizzante di una situazione che in alcuni paesi
rischia di determinare il fallimento degli Stati. Più specificamente attraverso la SSR si intende
incrementare la capacità degli Stati africani di far fronte alla vasta gamma dei bisogni relativi alla
sicurezza dei cittadini e della società in maniera coerente con le norme democratiche, solidi principi
di governance e rispetto dello stato di diritto.
I principali centri di monitoraggio della governance
Da quando si è affermata l'idea che la Governance costituisca un fattore fondamentale di sviluppo
economico-sociale tra i grandi organismi internazionali e i paesi donatori occidentali, sono stati
indirizzati grandi sforzi per monitorare le performance di ciascun paese in questo ambito.
La prima organizzazione a dedicarsi in maniera sistematica in questo esercizio è stata la Banca
Mondiale con i Worldwide Governance Indicators , un sistema di rilevazione completo che copre i
vari aspetti della governance e tutti i paesi. Altri sistemi di rilevazione hanno una copertura
internazionale, ma esaminano soltanto alcune componenti della Governance, come il Corruption
Perceptions Index, di Transparency International o l'Human Development Report dell'UNDP, o
ancora il Freedom House Index progettati per misurare componenti specifiche di buona
governance (rispettivamente corruzione, lo sviluppo umano e il rispetto per i diritti e le libertà
civili).
Per quanto riguarda gli indici focalizzati sul continente africano la Commissione Economica per
l'Africa delle Nazioni Unite (UNECA) ha fino ad ora pubblicato due apporti: l'African Governance
Report I (AGR I) e l'African Governance Report II (AGRII) il primo nel 2005 su 27 paesi africani
212
ed il secondo su trentacinque paesi nel 2009. E' intenzione dell'UNECA continuare il monitoraggio
pubblicando un rapporto ogni due anni.
Ugualmente biennale è il rapporto preparato sotto la responsabilità di Robert I. Rotberg and Rachel
M. Gisselquist, “Strengthening African Governance, Index of African Governance - Results and
rankings” , preparato nell'ambito del Programma: “Intrastate Conflict and Conflict Resolution”
della Kennedy School of Government, dell'Harvard University e del World Peace Foundation.
Quest'ultimo progetto di ricerca si è andato a sovrapporre con l'Ibrahim African Index of African
Governance, basato anch'esso sugli studi di Rotberg e Gisselquist. Gli indici del 2007 e del 2008
sono stati infatti realizzati congiuntamente dalla Ibrhaim Foundation e dalla Kennedy School of
Government dell'Università di Harvard. Tuttavia dalla fine del 2008 le due istituzioni hanno cessato
di collaborare nonostante che ancora l'ultimo rapporto di Harvard, quello del 2009 sia stato
finanziato generosamente dalla Ibrahim Foundation, sostituita come partner, nel corso del 2009
dalla World Peace Foundation di Cambridge in Massachusetts.
L'ultima serie di indagini sulla governance in Africa sono il frutto del lavoro dell'Afrobarometro,
condotte nel corso del 2008 ed uscite nel maggio 2009, sullo stato di diciannove paesi africani.
L'Afrobarometro, finanziato da varie agenzie di cooperazione allo sviluppo occidentali, ha come
principali istituzioni di riferimento il Center for Democratic Development (CDD-Ghana), l'Institute
for Democracy in Sud Africa (IDASA) e l’Institut de Recherche Empirique en Economie
Politique( IREEP del Benin). Queste sono supportate dall’americana Michigan State University
(MSU), Department of Political Science e dal Democracy in Africa Research Unit del Centre for
Social Science Research dell'Università di Cape Town in Sud Africa.
In ultimo, con funzioni direttamente operative, di grande interesse sono le analisi ed il monitoraggio
su ventinove paesi africani che hanno aderito al Meccanismo africano di valutazione (APRM),
insieme ai rapporti di riesame prodotti dai paesi coinvolti nelle fasi più avanzate del meccanismo
che tuttavia sono al momento soltanto sette.
In tale sede, è interessante approfondire le caratteristiche degli indici africani di Harvard e della
Mo Ibrahim Foundation, nonché l’African Governance Report della United Nations Economic
Commission for Africa
Gli indici africani di Harvard e della Mo Ibrahim Foundation
Il rapporto del 2009 preparato sotto la responsabilità di Robert I. Rotberg and Rachel M.
Gisselquist, “Strengthening African Governance, Index of African Governance - Results and
213
rankings” , preparato nell'ambito del Programma: Intrastate Conflict and Conflict Resolution della
Kennedy School of Government, dell'Harvard University e del World Peace Foundation risulta
essere molto simile a quello del 2010 della Ibrahim Foundation
Questo progetto di ricerca, cosi come anticipato, si è andato a sovrapporre all'Ibrahim African
Indexes of African Governance, basati anch'essi sugli studi di Rotberg e Gisselquist. Gli indici del
2007 e del 2008 sono stati infatti realizzati congiuntamente dalla Ibrahim Foundation e dalla
Kennedy School of Government dell'Università di Harvard. Tuttavia dalla fine del 2008 le due
istituzioni hanno cessato di collaborare, nonostante che ancora l'ultimo rapporto di Harvard, quello
del 2009 sia stato finanziato generosamente dalla Ibrahim Foundation, sostituita come partner, nel
corso del 2009 dalla World Peace Foundation di Cambridge in Massachusetts.
L’Indice di Harvard parte dal presupposto di misurare la capacità dei governi di fornire beni e
servizi ai cittadini ed esamina in maniera quantitativa i risultati. L’esercizio è eminentemente
statistico e prende in considerazione molte più variabili degli altri indici. A differenza di questi, il
metodo usato prevede di dare molto meno peso all’analisi qualitativa derivante dal giudizio e la
percezione degli esperti, considerati dal team del Kennedy Centre passibili di soggettività. Altra
differenza sta nel numero delle variabili prese in esame che è molto elevato e le aree di indagine che
comprende 5 categorie: Safety and Security; Rule of Law, Transparency, and Corruption;
Participation and Human Rights; Sustainable Economic Opportunity; and Human Development. Lo
scopo dell’analisi è operativa, proprio grazie al dettaglio con cui vengono esaminati i vari aspetti
della Governane le cui categorie vengono suddivise in sub-categorie come viene riassunto nella
tabella riportata qui di seguito.
Se si guarda ad esempio alla categoria più strettamente economica, la Sustainable Economic
Opportunity; non si esaminano la qualità regolatorie, ma direttamente gli effetti che la gestione
economica del paese può avere sulla popolazione, vale a dire gli indicatori economici, il livello
delle infrastrutture, mentre per lo sviluppo umano si esaminano i classici indicatori sociali sulla
sanità, istruzione e tassi di povertà e distribuzione del reddito. E’ evidente che questo metodo può
funzionare soltanto in quanto l’indice prende in esame i paesi del continente africano e non tutto il
mondo, come quello della Banca Mondiale. Un indice mondiale di questo tipo non farebbe che
correlare la ricchezza di un paese con la sua capacità di Governance.
I paesi analizzati sono quelli africani compresi quelli dell’Africa del Nord per un totale di 53.
214
215
Fonte: Robert I. Rotberg and Rachel M. Gisselquist, Strengthening African Governance, Index of African Governance - Results and rankings , A Project of The Program on Intrastate Conflict and Conflict Resolution, The Kennedy School of Government, Harvard University & The World Peace Foundation, 2009
216
Fonte: Robert I. Rotberg and Rachel M. Gisselquist, Strengthening African Governance Index of African Governance - Results and rankings , A Project of The Program on Intrastate Conflict and Conflict Resolution at The Kennedy School of Government, Harvard University & The World Peace Foundation, 2009
217
Nel complesso i dati di Harvard confermano la suddivisione tra paesi virtuosi e quelli con
situazione estremamente deteriorata, già citata esaminando i dati della Banca Mondiale. Questo è
un elemento importante in quanto nonostante le critiche sugli indici della governance diffusi in vari
ambienti, è evidente che pur usando metodologie radicalmente diverse il giudizio sui paesi non
cambia di molto, come si evince dalla tabella.
La Mo Ibrahim Foundation, fondata dal multimiliardario e magnate delle telecomunicazioni,
l’anglo-sudanese Mo Ibrahim, dichiara di puntare sul sostegno della capacità di leadership in Africa,
fattore chiave per migliorare la situazione economico-sociale del continente. Il principio su cui si
basa l’attività della fondazione è che senza buona governance non è possibili raggiungere risultati
significativi e sostenibili. Secondo la stessa Fondazione la raccolta di dati sulla governance in
Africa a cura della stessa è la più completa in termini qualitativi e quantitativi. L’indice, così come
quello di Harvard, dal quale questo deriva, misura sostanzialmente la capacita da parte dei governi
africani e dagli attori non statali di fornire beni e servizi pubblici ai cittadini utilizzando indicatori
relativi a quattro principali categorie: Sicurezza e Stato di diritto, Partecipazione dei cittadini e
diritti umani, Opportunità economiche sostenibili e Sviluppo umano come indicatore succedaneo
della qualità dei risultati ottenuti da una buona governance. Rispetto all’indice di Harvard questo
riduce dunque a quattro le categorie.
L’esercizio è supportato da istituzioni africane e attualmente realizzato in partnership con
Afrobarometer, il Centre for Democratic Development (CDD), Ghana, l’American University in
Cairo (AUC, Egitto), il Council for the Development of Social Science Research in Africa
(CODESRIA, Senegal), e l’Institut de Recherche Empirique en Economie Politique (IREEP,
Benin) .
I dati statistici sono presi da 24 istituzioni diverse e ponderati dagli analisti della fondazione, tanto
da far definire l’indice elaborato da quest’ultima: l’indice di tutti gli indici. Questi comprendono
tutti i paesi dell’Africa sub-sahariana più l’Africa del Nord. Poiché la Ibrahim Foundation è
un’istituzione privata non ha nessuna remora a pubblicare una graduatoria chiara ed
immediatamente leggibili che riportiamo qui di seguito.
218
2010 Ibrahim Index of African GovernanceScored 0-100 where 100=best
1Mauritius 83,0 19 Mali 52,9 37 Nigeria 43,3
2Seychelles 78,5 20 Mozambique 52,1 38 Liberia 43,2
3Botswana 75,9 21 Burkina Faso 51,9 39 Togo 42,6
4Cape Verde 75,5 22 Malawi 51,7 40 Niger 42,3
5South Africa 71,5 23 Libya 51,5 41 Congo 42,06Namibia 67,3 24 Uganda 50,8 42 Angola 39,3
7Ghana 64,6 25 Swaziland 50,8 43 Guinea-Bissau 39,1
8Tunisia 62,1 26 Kenya 50,5 44 Côte d'Ivoire 36,8
9Egypt 60,5 27 Gabon 50,1 45 Guinea 35,6
10Lesotho 60,1 28 Madagascar 48,7 46 Equatorial Guinea 34,7
11São Tomé and Príncipe 58,2 29 Comoros 48,5 47 Sudan 32,9
12Benin 56,6 30 Djibouti 48,5 48 Central African Republic 32,713Morocco 56,6 31 Rwanda 47,2 49 Zimbabwe 32,7
14Senegal 56,3 32 Sierra Leone 46,0 50 Eritrea 31,8
15Algeria 55,2 33 Burundi 44,7 51 Congo, Democratic Rep. 31,1
16Tanzania 55,0 34 Cameroon 44,2 52 Chad 28,8
17Zambia 54,9 35 Ethiopia 43,5 53 Somalia 7,9
18Gambia 53,0 36 Mauritania 43,4
Fonte: Ibrahim Foundation, http://www.moibrahimfoundation.org/
Paesi virtuosi e situazioni degenerate come Eritrea, Repubblica Democratica del Congo e Somalia
confermano sostanzialmente il quadro della Banca Mondiale.
Emerge ugualmente dall’indice la profonda diversità di condizione tra i vari paesi africani: come
commenta Collier :dei 53 paesi esaminati:
“Although all share the same continent, from the perspective of governance, the best (the five
countries with scores over 70) are on a different planet from the worst (the 12 countries under 40).
There is nothing ‘African’ about poor governance, were the standards of the best to become general
Africa would be a well-governed region. And the best can become the general: governance is not
frozen”.
Per quanto riguarda l’analisi dinamica dei dati il trend complessivo sembra stagnante, mentre vi
sono grandi variazioni per tipologia e paesi. Dal lato negativo abbiamo paesi africani, dove la
Safety and Rule of Law ha riscontato un declino particolarmente significativo, rispetto al 2005.
Questo in netto contrasto con un netto incremento dei progressi in campo economico e sviluppo
umano e sanitario. Mediamente i cittadini africani appaiono meno poveri di 5 anni fa ma meno
sicuri. Grandi progressi sono stati fatti anche sulla condizione femminile, anche se per ora si tratta
soprattutto di miglioramenti riscontrabili nella legislazione e non ancora supportati da indagini sulle
condizioni effettive.
219
Per quanto riguarda i dati aggregati sulla governance tra il 2005 ed oggi secondo la fondazione è
nettamente migliorata la situazione in Angola, Liberia, e Togo, mentre è peggiorata in Eritrea e
Madagascar.
Un dato interessante che riporta soltanto la fondazione è la media per area geografica africana che
assegna il seguente punteggio: Africa del Sud in posizione migliore con 57 punti, seguita
dall’Africa del Nord con 55 punti e l’Africa Occidentale con 50 punti. Sotto la media continentale,
che è di 49 punti, l’Africa orientale con 45 punti e l’Africa centrale con 38 punti.
L’African Governance Report della United Nations Economic Commission for Africa L'African Governance Report della Commissione Economica per l'Africa delle Nazioni Unite
(UNECA) a differenza delle fonti sulla Governance fin qui esaminate, conferisce un peso molto
minore agli indici internazionali ed alla metodologia statistica, ma si basa soprattutto su survey e
opinioni di esperti africani. Come la Banca Mondiale evita di fornire un ranking aggregato per la
situazione generale di Governance, pur mettendo a confronto di volta in volta i paesi esaminati su
singole voci:
1. Political Governance - Governance politica
2. Economic Governance and Public Financial Management Governance economica e gestione
delle finanze pubbliche
3. Private-Sector Development and Corporate Governance in Africa - Sviluppo del settore
privato e la Corporate Governance in Africa
4. Institutional Checks and Balances - Controlli ed equilibri istituzionali
5. Effectiveness and Accountability of the Executive Efficacia e responsabilità dell’esecutivo
6. Human Rights and the Rule of Law - Diritti umani e Stato di diritto
7. Corruption in Africa – Corruzione in Africa
8. Building Institutional Capacity for Governance Costruire la capacità istituzionale per
migliorare la governance
Questi aspetti della Governance vengono esaminati utilizzando uno strumento analitico qualitativo
composto da tre componenti per ciascun paese: 1.uno studio paese basato sulle opinioni di 70-140
esperti. Questi vengono selezionati in modo tale da assicurare una larga rappresentatività dal punto
di vista della fascia di età, credo religioso ed appartenenza etnica, orientamento politico, status
sociale, genere e istruzione. Il panel così composto rappresenta sia il settore privato che quello
220
pubblico; 2.un survey nazionale basato su nuclei famigliari (da 1300 a 3000 questionari)
rappresentati dai vari settori sociali; 3.un'analisi finale tenendo conto anche di fonti primarie e
secondarie.
Lo scopo di questo sforzo è eminentemente operativo: valutare i progressi e regressi della
Governance in Africa per proporre interventi di policy correttive.
Fino ad ora sono stati pubblicati due rapporti: l'African Governance Report I (AGR I) e l'African
Governance Report II (AGRII) il primo nel 2005 su 27 paesi africani ed il secondo su trentacinque
paesi nel 2009. E' intenzione dell'UNECA di continuare il monitoraggio pubblicando un rapporto
ogni due anni.
Rispetto alle analisi esaminate precedentemente l'UNECA arriva a conclusioni leggermente più
positive rilevando un leggero miglioramento della Governance in Africa. . L'indice aggregato per
tutti gli indicatori ha mostrato un modesto progresso del 2% rispetto alle rilevazioni del 2005. Gli
indicatori principali per il livello di rappresentanza politica e dell'indipendenza della società civile
non ha segnato nessun progresso, mentre un leggero miglioramento è stato riscontrato per quanto
riguarda i media e la libertà di stampa. Ugualmente qualche lieve progresso è stato osservato nel
campo del rispetto dei diritti umani, dello stato di diritto, della capacità istituzionale dell'esecutivo e
del potere giudiziario. Più pronunciate sono state le performance nell'area economica, come ad
esempio la capacità regolatoria in campo economico e fiscale. Piuttosto negativo è il trend in
materia di corruzione.
Riflessioni
La Governance in un paese è la capacità di un sistema di darsi delle regole condivise che producano
buone politiche economiche, responsabilità delle classi dirigenti, lotta alla corruzione per consentire
un sistema di correttezza nella competizione tra aziende ed individui che premi i migliori, e che al
contempo assicuri stabilità politica e rispetto della legge. Generalmente questo insieme di
caratteristiche si associano ad un regime democratico liberale, che assicura meglio di altri sistemi,
una distribuzione del reddito non troppo iniqua e una forte rappresentanza popolare. Nelle
democrazie occidentali queste caratteristiche si sono affermate in un lungo processo storico durato
secoli e sono profondamente radicate nei paesi nordici europei ed in quelli anglo-sassoni. E’
evidente che la constatazione da parte dei paesi donatori, avvenuta intorno agli anni ‘90 che la
governance potesse essere l’anello mancante alle teorie di sviluppo per determinare un processo di
crescita anche nei paesi in via di sviluppo o in quelli poveri, non poteva avere effetti immediati e
miracolosi. Anche perché i principi e le regole della governance, difficilmente possono essere
trapiantati in tempi brevi, in paesi come quelli africani dove, ad esempio, fino a poco tempo fa, il
221
diritto di proprietà della terra era sconosciuto o dove i poteri tribali sono molto forti. Una parte
significativa di leader e di tecnocrati africani, alcuni di essi educati nelle migliori università
occidentali, hanno abbracciato con entusiasmo l’idea che la buona governance sia un fattore chiave
dello sviluppo sostenibile. Tale processo di diffusione in Africa dei principi e delle regole della
governance è stato relativamente rapido come testimoniano i contenuti di molte intese africane dal
NEPAD alle varie dichiarazioni in ambito Unione Africana. Ancor più significativo è stato l’avvio
di intese operative come l’African Peer Review Mechanism (APRM) che attraverso un meccanismo
di controllo tra pari, vale a dire tra governi africani, si cerca di incentivare il rispetto delle regole ed
i principi della good governance, senza interferenze delle democrazie occidentali.
L’esame dei principali strumenti internazionali ed africani di monitoraggio della governance in
Africa, induce a tre ordini di considerazioni:
1. le condizioni di partenza e le tradizioni del continente non sono molto incoraggianti;
2.l’analisi dinamica degli ultimi 10 anni mostra miglioramenti lenti e talvolta un andamento
non lineare, con brusche cadute di alcuni paesi, ma con grandi progressi di altri. Alcuni di
questi progressi sono poi particolarmente significativi, come è il caso del Rwanda che è
stato giudicato recentemente il paese che ha mostrato un tasso di riforme delle
regolamentazioni per il settore privato tra i migliori del mondo;
3.se il panorama generale mostra, accanto a situazioni fortemente degenerate, indicatori in
linea con la media mondiale a parità di reddito pro-capite, alcuni paesi africani, come
Mauritius, il Botswana, Capo Verde o lo stesso Sud Africa possono già vantare indicatori in
materia di governance talvolta migliori dei paesi avanzati con reddito pro-capite nettamente
superiore.
Queste considerazioni ci portano a concludere che dopo soltanto 10 anni che le leadership africane
hanno abbracciato il paradigma della buona governance, i risultati, se non entusiasmanti, possono
essere considerati incoraggianti. Anche perché il progresso in questo campo è necessariamente
lungo e lento, in considerazione delle molteplici variabili sociali che esso necessariamente implica.
La posizione critica espressa dai cinesi, supportata da alcune autocrazie africane, che la governance
ed in particolar modo le sue implicazioni politiche a favore della democrazia e del rispetto dei diritti
umani, sono una forma di interferenza negli affari africani, non sembra veritiera, ma piuttosto
strumentale. Ormai sono infatti molti i governi africani che anche in nome della ownwership stanno
lavorando seriamente per produrre cambiamenti sostanziali per i loro paesi.
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LEZIONE N. 47-48“A QUANDO UNA ‘PRIMAVERA AFRICANA?’ ”
La ventata di cambiamento che si è verificata in Nord Africa all’inizio del 2011, le rivolte promosse
dal basso che hanno fatto deviare -più o meno pacificamente- il percorso stabilito dai regimi al
potere in Egitto e Tunisia e che invece con la violenza hanno sovvertito il regime libico, inducono a
chiedersi se sia possibile “trasportare” tali esperienze anche nella vasta area a sud del Sahara. E’
lecito ipotizzare una “primavera africana” anche nella regione a Sud del Sahara? Ci sono le
condizioni adatte?In quali paesi? Quanti anni sono necessari per un cambiamento di sistema? C’è
un elemento particolare per riprodurre l’“effetto della Primavera Araba”?
Prima di tutto è importante dire che al di sotto della fascia sahariana mancano dei fattori strutturali
essenziali per un cambiamento di potere e c’è di fatto qualcosa che lo ostacola. In primis non c’è un
alto tasso di alfabetizzazione delle classi giovanili, come invece accade nella regione settentrionale
del continente; non c’è, o è comunque limitato, l’accesso ad internet; non c’è, o è comunque in
nuce, una classe media sviluppata. Se tutto ciò è assente, c’è invece un alto numero di etnie-
ammesso che tale termine possa continuare ad usarsi, cosa invece negata dall’antropologia
moderna- che detta le regole del gioco politico nazionale.
Le folle che hanno animato le proteste di Tunisi e del Cairo erano composte da studenti e
universitari che richiedevano un lavoro o comunque un cambiamento delle regole nel mondo
lavorativo; da giovani donne che rivendicavano un ruolo differente nella società. I diversi gruppi
reclamavano la libertà di scegliere rappresentanti nazionali, al di fuori di liste blindate in cui c’èra
-solo apparentemente - una pluralità di formazioni ma in cui -di fatto- un partito unico dominava la
scena politica.
Questi ragazzi erano padroni dei mezzi informatici e utilizzavano twitter e facebook per
organizzare i loro incontri e raduni di piazza, dimostrandosi padroni delle tecnologie dell’era
globale.
A gennaio-febbraio nelle piazze e strade di Tunisia ed Egitto sono scesi commercianti o titolari di
imprese familiari che denunciavano le difficoltà legate al loro quotidiano, si sono dati fuoco in
preda alla disperazione per non poter continuare la propria attività.
In tal senso si può ricordare che uno dei primi segnali che ha innescato la rivolta contro il regime di
Ben Ali è stato quello di Mohammed Bouazizi, il 26enne che il 17 dicembre 2010 si è dato fuoco a
Sidi Bouzid. Il suo gesto è esemplare perché con un atto estremo questo venditore ambulante ha
espresso l’inquietudine e la rabbia di tutta una generazione di maghrebini. Da qui è partito il via alle
rivolte decisive di gennaio che hanno portato alla fuoriuscita di Ben Ali dal contesto locale. E’ la
fascia di età compresa tra i 20 ed i 30 anni, quella che si confronta con una situazione economica
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disastrosa, con una disoccupazione crescente (ufficialmente in Tunisia si parla di un tasso di
disoccupazione pari al 14%, con valori più alti al di fuori della capitale e delle aree turistiche) e con
il carovita sempre più pressante.
Nei paesi del Sud del Sahara c’è un fattore da non sottovalutare: la presenza di centinaia di gruppi
etnici, non presenti nella fascia nordafricana (nel caso libico si parla di tribù ma è un caso a parte
che si è rivelato determinante nella rivolta contro il regime del Colonnello Gheddafi e che
rappresenterà una vera e propria sfida per la ricostruzione del paese).
Tali fattori (assenza nell’area sub-sahariana di un alto tasso di alfabetizzazione, assenza di un
diffuso accesso ad internet, mancanza di una classe media sviluppata, presenza di un numero
eccessivo di etnie) sono elementi che rendono difficile realizzare nel breve periodo “una primavera
africana”.
Qui, pur essendoci una grande voglia di cambiamento e stanchezza per i regimi che sono stati
ancorati al potere nelle ultime 2-3 decadi, le forze di opposizione non sanno contrapporsi in modo
compatto al partito dominante. La forte tensione cede il posto alla rassegnazione, le marce per
richiedere un cambio pacifico vengono fermate con la forza da una polizia centrale che non esita ad
utilizzare maniere forti (bastoni e manganelli, gas lacrimogeni) in piazza ed a servirsi di metodi
violenti in carcere nei confronti dei manifestanti arrestati.
Ci sono stati comunque segnali interessanti tra febbraio e luglio 2011, in particolare in Benin,
Burkina Faso, Senegal, Cameroun, Uganda e Malawi.
In Benin si sono svolte delle manifestazioni a Cotonou per protestare contro le modalità in cui era
stata gestita la fase prima del voto presidenziale (le consultazioni si sarebbero dovute svolgere il 27
febbraio, sono state rinviate una prima volta al 6 marzo ed infine si sono tenute il 13 marzo).
L’opposizione ha contestato la vittoria di Boni Yayi che avrebbe ottenuto il 53,13% delle preferenze
ma nulla è riuscita a fare per dimostrare le irregolarità del voto. Nulla hanno potuto fare anche le
formazioni minori nelle elezioni legislative del 30 aprile, ottenendo solo 30 dei 83 seggi del
Parlamento nazionale.
Più delicato è stato il caso del Burkina Faso. Il 20 febbraio è morto a Koudougou il giovane
studente Justin Zongo in seguito alle percosse in un commissariato locale. Le motivazioni di quanto
accaduto sono rimaste poco chiare. I giovani hanno manifestato in alcune città di provincia
(Koudougou, Poa, Koupéla, Ouahigouya, Pouytenga); si sono chiuse scuole e università; diversi
attivisti sono stati fermati dalle forze dell’ordine. Chrysogone Zougmoré, présidente del
Mouvement Burkinabe des Droits de l'Homme et des Peuples (organizzazione non governativa per
la tutela dei diritti dell’uomo) è stato chiamato a testimoniare il 10 marzo in una gendarmeria della
capitale perché ritenuto responsabile di aver incoraggiato le manifestazioni
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Il 14 aprile è stato poi il turno dei militari che si sono ammutinati nella capitale Ouagadougou e
sono usciti dalle caserme nell’est del Paese esprimendo la loro insoddisfazione nei confronti del
Presidente Blaise Compaoré e del trattamento riservato loro. Questa, secondo la stampa locale, è
stata una delle crisi più gravi registrate dall’avvento al potere di Compaoré (1987).
Nel caso del Senegal, la protesta nelle strade di Dakar si è fatta sentire il 23 ed il 27 giugno scorsi.
La popolazione ha espresso il suo malcontento nei confronti di un progetto di legge elettorale che
nelle consultazioni del febbraio 2012 agevolerebbe il Presidente Abdoulaye Wade ed il suo
entourage (in particolare il figlio Karim Wade, considerato il “delfino” pronto per l’incarico di vice
Presidenza) e per la mancata erogazione di energia elettrica per oltre 72 ore. Partiti
dell’opposizione, associazioni della società civile e gruppi di giovani hanno denunciato la deriva del
potere e sono riusciti a far ritirare almeno momentaneamente il progetto. La nascita del “ Movimento
23 giugno” ha rappresentato il punto più alto della protesta. La disponibilità al dialogo mostrata dal
Presidente in carica nei primi giorni di luglio, dopo il discorso ufficiale del 14 luglio è stata
giudicata piuttosto una sfida nei confronti dell’opposizione e di quanti intendono manifestare il loro
malessere. Wade ha dimostrato di porsi al di sopra delle istituzioni, di avere la massima fiducia in se
stesso e nella sua vittoria il prossimo anno. I temi più caldi -quali la disoccupazione, il rialzo dei
prezzi dei generi alimentari, i problemi di energia - non sono stati affrontati in modo appropriato. La
promessa di creare un “Alto consiglio per l’impiego e la formazione” non ha placato gli animi e non
ha soddisfatto i bisogni urgenti del popolo.
E’ evidente che nei tre casi suddetti – Benin, Burkina Faso e Senegal- non c’è stata una pressione di
movimenti radicali islamici a coadiuvare le proteste, però di esse deve essere compreso il senso
profondo, il malessere che attraversa l’Africa nelle sue varie regioni, da Nord a Sud.
Spostandoci dall’area occidentale verso altre regioni, è interessante considerare i casi di Cameroun,
Uganda e Malawi.
Nel caso del Cameroun, negli ultimi mesi si è assistito ad un tentativo di contestazione dal basso,
represso velocemente-e facilmente- dal potere centrale. Lo scorso febbraio l’opposizione ed alcune
organizzazioni non governative hanno organizzato una manifestazione a Douala contro il Presidente
Paul Biya (al potere da 29 anni), in occasione della commemorazione della rivolta del febbraio
2008. Ciò ha provocato subito l’intervento della Polizia e l’arresto di alcune decine di manifestanti.
Anche i tentativi di denuncia delle elezioni presidenziali (9 ottobre 2011) fatti dall’opposizione non
hanno avuto esito positivo: il voto -seppur fatto in un ambiente caotico, in cui sono state riscontrate
numerose irregolarità -ha riconfermato Paul Biya alla guida del Paese per un ennesimo mandato.
Nel caso dell’Uganda, lo scorso aprile sono state represse in diverse occasioni le manifestazioni
battezzate “walk to work”, guidate da due leader dell’opposizione Kizza Besigye (del Forum for
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Democratic Change) e da Norbert Mao (del Democratic Party). Centinaia di persone che erano
scese in piazza per protestare contro l’aumento del costo della vita e dei beni di prima necessità
sono state disperse dalla Polizia con la forza o sono state incarcerate, con l’accusa di aver turbato
l’ordine pubblico. Il Presidente Yoweri Museveni (riconfermato al potere lo scorso febbraio 2011,
grazie ad elezioni truccate o comunque ritenute “poco trasparenti” dagli osservatori elettorali e
dall’opposizione) non ha esitato ad utilizzare le maniere forti per mettere a tacere il malcontento
popolare.
Per quanto attiene le proteste del 20-21 luglio 2011 a Blantyre e Mzuzu, che hanno indotto taluni
osservatori a parlare di una versione nazionale della “primavera araba”, esse non sono state il frutto
di istanze radicali bensì l’espressione di un malcontento generale nei confronti del Presidente Bingu
Wa Mutharika (al potere dal 2004), della politica economica del suo governo, del deterioramento
delle condizioni di vita e della crescente repressione interna.
Le manifestazioni sono state represse violentemente dalle forze dell’ordine (ci sono stati 250 arresti,
44 feriti e 18 vittime ), autorizzate dal Capo dello Stato a “utilizzare qualsiasi misura per reprimere
i dimostranti”.
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