Tesi di Laurea su "Il Fotografo" di Guibert, Lefèvre, Lemercier
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Transcript of Tesi di Laurea su "Il Fotografo" di Guibert, Lefèvre, Lemercier
ALMA MATER STUDIORUMUNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA
Facoltà di Lettere e FilosofiaCorso di Laurea in Dams
Storia della Fotografia
GUIBERT, LEFÈVRE, LEMERCIER:
DISEGNO E FOTOGRAFIA COME RACCONTO
E TESTIMONIANZA DI VIAGGIO
Tesi di Laurea di: Relatore:
Niki Starnino Prof. Claudio Marra
TERZA SESSIONE
ANNO ACCADEMICO 2011-2012
A mamma e papà,
e a Paola
L'atto della creazione è una sorta di rituale.Le origini dell'arte e dell'umanità giacciononascoste in questa misteriosa creazione.La creatività umana riconferma e mistificala potenza della vita.
Keith Haring
INDICE
1. Introduzione..........................................................................................................pag. 6
2. L'opera..................................................................................................................pag. 9
2.1 Gli autori.....................................................................................................pag. 10
2.2 L'edizione originale e le altre edizioni..................................................pag. 11
2.3 La storia narrata..............................................................................................pag. 12
3. Dell'uso della fotografia: tra narrazione e testimonianza.....................................pag. 14
4. Soluzioni formali e contenuti culturali.................................................................pag. 19
5. Dell'uso del disegno: stile ed espedienti...............................................................pag. 25
Galleria d'immagini..............................................................................................pag. 28
Bibliografia...........................................................................................................pag. 43
Sitografia...............................................................................................................pag. 44
5
1. Introduzione
Siamo immersi, o meglio, sommersi da miriadi di segni fatti di simboli, segnali,
parole, immagini, suoni, odori, oggetti, ecc. Tutti che cercano quasi sempre di dirci
qualcosa: di comunicare e di significare. Per farlo, essi si articolano – noi li articolia-
mo – in sistemi che sono i linguaggi: non esclusivamente quelli verbali come le lingue
naturali, ma anche in linguaggi testuali, visivi, musicali, simbolici, gestuali, ecc. Un
linguaggio è quindi un sistema di segni, e “il segno è un'entità generata dalla connes-
sione fra un'espressione e un contenuto”1. La presenza sempre maggiore e varia di tanti
e diversi tipi di segni, permette l'evoluzione e la nascita di nuovi sistemi di segni, ossia
di nuovi linguaggi, capaci di esprimere in un modo nuovo, vecchi e nuovi contenuti.
Se è vero che siamo immersi in questi sistemi, con i quali siamo in stretto contatto,
allora sono illuminanti le due idee proposte da Daniele Barbieri all'introduzione del
suo libro I linguaggi del fumetto:
La prima è che i linguaggi non sono solamente strumenti attraverso cui comunichiamo quello che intendiamo comunicare: sono, anche e soprattutto, ambienti in cui viviamo e che in buona parte determinano quello che vogliamo, oltre a quello che possiamo comunicare. La seconda idea è che questi ambienti che sono i linguaggi non costituiscono dei mondi separati, ma rap-presentano piuttosto aspetti diversi dell'ambiente globale della comunicazione, e sono di con-seguenza fortemente interconnessi, intrecciati, in continua interazione reciproca.2
I linguaggi come ambienti, dunque. Perché in essi viviamo, formiamo e usiamo le
idee che poi comunichiamo.
Una materia molto importante, complessa e in costante sviluppo, quella della co-
municazione, che per forza di cose è sempre più di massa nel nostro tempo. Ecco per-
ché sommersi più che immersi, a volte; perché siamo bombardati da tantissime cose e
persone che ogni giorno ci parlano attraverso i libri, la televisione, il web, i giornali,
l'arte, la radio, la musica, il cinema, la poesia, il fumetto, la danza, la pubblicità, ecc. E
se secoli fa, o anche solo decenni, la comunicazione era lineare e fatta di una mediocre
velocità, oggi non è più così, perché la scrittura o lettura di un libro, la realizzazione o
1 L. Hjelmslev, Espressione e contenuto, in P. Fabbri e G. Marrone (a cura di), Semiotica in nuce. Volume i.I fondamenti e l'epistemologia strutturale, Meltemi editore, Roma 2000, p. 68.
2 D. Barbieri, I linguaggi del fumetto, Bompiani, Milano 2002, p. 1.
6
contemplazione di un dipinto, la produzione o l'ascolto di una musica, la realizzazione
di o partecipazione ad uno spettacolo teatrale e via dicendo, sono stati amplificati da
nuovi mezzi di comunicazione e nuovi linguaggi, rendendo la comunicazione stessa:
più veloce, multimediale e ipertestuale, infine ipermediale.
Il cinema, ad esempio, è un medium investito da moltissimi linguaggi, come quello
visivo, fotografico, sonoro, musicale, gestuale, ecc.; allo stesso modo il videogioco,
con anche una componente di interattività; nell'arte – contemporanea – poi, i concetti
di bello, di quadro e di arte stessa sono stati stravolti, aggiornati, trasformati, come è
normale che sia con l'avvento di nuovi media, definendo l'arte non più come attività
esclusivamente manuale-visiva-estetica ma anche tattile, performativa, sonora, olfatti-
va, interattiva, investendo altri sensi e soprattutto investendo intellettualmente ed emo-
tivamente lo spettatore-destinatario; per non parlare, infine, dell'ipermedia per eccel-
lenza, il World Wide Web, dove al suo interno i media non sono solo presenti in grande
quantità e diversa qualità, ma anche collegati tra loro, complementari, superficiali o
criptati, statici dinamici o interattivi, ciascuno presente con la sua struttura all'interno
di una macrostruttura, tutti con, e a disposizione di, diversi linguaggi.
Ma le parole sono spesso truffaldine, ed è facile, forse, dopo questo breve ma deli-
cato discorso, confondere i termini; ad esempio, la fotografia è un medium o un lin-
guaggio? O entrambi? Beh, se un medium è un «mezzo» di «comunicazione», allora
direi che la fotografia intesa nel suo “valore concreto”3, come oggetto materiale, come
strumento o tecnologia, sia un medium, ma il suo modo di essere e di fare, sia linguag-
gio: nello scattare quella fotografia con un apparecchio fotografico, saranno state usate
delle accortezze, una tecnica compositiva ed espositiva, un investimento intellettuale
riguardo al cosa e al come impressionare, ecc.
Il mezzo è “lo Strumento o il Modo con cui si opera”4. Con ciò, non è forse ciascun
linguaggio un particolare tipo di medium, un ambiente-strumento complesso, che però
si rivela nei modi d'uso di altri media, i segni?
In questo contesto può risultare illuminante l'esempio della luce elettrica. Essa è informazione allo stato puro. È un medium, per così dire, senza messaggio, a meno che non lo si impieghi per formulare qualche annuncio verbale o qualche nome. Questo fatto, comune a tutti i media,
3 Cfr. definizione di «mezzo» al significato 2, in http://www.treccani.it/vocabolario/mezzo2/ 4 Cfr. etimologia di «mezzo» riferito ad azione, in http://www.etimo.it/?term=mezzo&find=Cerca
7
indica che il «contenuto» di un medium è sempre un altro medium. Il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa e la stampa quello del tele-grafo.5
Posso anche decidere di usare un medium senza «contenuto», per così dire: sempli-
cemente osservare il mondo dal mirino di una fotocamera o scattare fotografie senza
«senso», collezionare libri dalle pagine bianche e vuote, o usarli come palette tascabili
per confrontarvi i bianchi, ecc.; e alla fine anche questi sarebbero dei «contenuti».
Perché il «messaggio» di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi che introduce nei rapporti umani. La ferrovia non ha introdotto nella società né il movimento, né il trasporto, né la ruota, né la strada, ma ha accelerato e allargato le pro-porzioni di funzioni umane già esistenti creando città di tipo totalmente nuovo e nuove forme di lavoro e di svago.6
Ma non voglio cadere in un circolo vizioso di rimandi o di virtuosismi sulle defini-
zioni delle parole, anche perché su tale delicata e complessa questione servirebbe uno
studio a parte. Voglio invece evidenziare che se abitiamo nei linguaggi che sono am-
bienti, e che sono anche media, allora ci troviamo nella «cultura», che Renato Barilli,
nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, definisce:
[…] peculiare soltanto dell'uomo (non ha senso parlare di una cultura degli animali) proprio perché legata alla proprietà tipicamente umana di saper “lavorare”, il che a sua volta è reso possibile dall'assunzione di strumenti extra-organici, così detti in quanto non facenti parte or-ganica delle dotazioni di natura.7
Barilli osserva come ci sia differenza tra le attività e i mutamenti animali e quelli
umani, evidenziando le categorie di natura e cultura. Quest'ultima è possibile nell'uo-
mo non solo dall'uso di strumenti extra-organici, ma anche dal loro modo di essere
usati, migliorati, quindi evoluti. L'aspetto materiale-oggettuale e quello ideale-intellet-
tuale è dunque in continua interazione e condizionamento reciproco.8
È con questa idea che sembra proseguire l'attività culturale espressiva e comunica-
tiva dell'uomo, sempre verso modi inesplorati e futuri di intervenire con e su ciò che si
ha, perché, come riflette Carlo Michelstaedter:
5 M. McLuhan, Capire i media. Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore editore, Milano 2011, p. 29.6 Ivi, p. 30.7 R. Barilli, Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, Bononia University Press, Bologna 2007, p. 358 Cfr. Ivi, pp. 37-42.
8
Il peso non può mai esser persuaso.Né alcuna vita è mai sazia di vivere in alcun presente, che tanto è vita, quanto si continua, e si continua nel futuro, quanto manca del vivere. Che se si possedesse ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l'aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe d'esser vita.9
Il mio intento è di analizzare e parlare di un medium «classico», un libro, nel quale
sono contenuti però, più di un medium, più di un linguaggio, tra loro diversi, che con-
corrono a mutare le proporzioni, i ritmi e gli schemi nei rapporti umani di cui si è detto
sopra, quindi della cultura stessa.
Questo libro contiene un fumetto, Il Fotografo10 (fig. 15). E questo fumetto contie-
ne il linguaggio del fumetto, che a sua volta è la somma, lo scarto, l'intreccio e l'intera-
zione di altri linguaggi. Ci sono disegni, testi e non solo. Sono presenti anche fotogra-
fie e quindi anche il linguaggio della fotografia.
Come riporta Adriano Sofri nella sua prefazione all'edizione italiana del libro, il fu-
mettista “Guibert sa che disegno e fotografia si guardano in cagnesco”11, tirando in bal-
lo la questione molto dibattuta secondo la quale, pittura12 e fotografia avrebbero scate-
nato un Combattimento per un'immagine13, tra le quali invece, secondo la tesi di Clau-
dio Marra, “non ci sarebbe stato combattimento perché di fatto, nella cultura artistica
del Novecento, esse hanno interpretato due identità differenti se non addirittura antite-
tiche”14.
Vorrei riflettere invece – riguardo l'opera – non sulla presenza di una identità agli
antipodi, ma sulla collaborazione, tra immagine disegnata, creata, «artistica», essen-
zialmente «soggettiva», e immagine prelevata, reale, «meccanica», definita comune-
mente «oggettiva», al fine di rendere innovativa la narrazione di un viaggio che ci par-
la di una cultura diversa da quella in cui questo fumetto nasce e vive, evidenziando
come l'inventiva degli autori sia riuscita a creare un «oggetto» originale e funzionale.
9 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2010, p. 40.10 Il titolo originale è in francese: Le Photograph.11 A. Sofri, Prefazione, in, E. Guibert, D. Lefèvre, F. Lemercier, Il Fotografo, Coconino Press – Fandango,
Bologna 2010, p. 7.12 È chiaro che in questo contesto, pittura e disegno sono correlate.13 Il termine è il titolo di una mostra allestita a Torino nel 1973, nella quale furono esposte opere di pittori e
fotografi, mettendo, per la prima volta a confronto e in relazione pubblica, gli aspetti identitari di entrambi.14 C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia senza “combattimento”, Mondadori, 1999, p. 8.
9
2. L'opera
2.1 Gli autori
Didier Lefèvre (14 luglio 1957 – 29 gennaio 2007 Morangis)
Dopo aver studiato ed essersi laureato in biologia farmaceutica, si dedica alla foto-
grafia e al fotoreportage, effettuando servizi fotografici in Afghanistan, Sri Lanka, Co-
lombia, Cambogia, Sierra Leone, Eritrea, Malawi, Niger, Liberia e Costa d'Avorio, al
seguito di MSF-Medici Senza Frontiere, nel quale entra a far parte dal 1984 proprio
come farmacista, poi ancora in Burundi, Romania, Cecoslovacchia, Ungheria, Russia,
Repubblica Democratica del Congo, Cina, Albania, Macedonia, Israele, Ruanda, Ko-
sovo, Iran, Uzbekistan e Tagikistan, su ingaggi internazionali. È spesso ritornato in
questi luoghi per osservare i cambiamenti e rincontrare le persone che conosceva. È
stato rappresentato da agenzie come la VU e la Editing, e fatto parte del collettivo di
fotografi Images and Co.; per il resto ha lavorato da freelance. Le sue fotografie sono
state pubblicate su Libération (fig. 7), L'Express, L'Équipe Magazine, Éditions Ouest-
France, e su altri magazine e giornali. Le fotografie della sua prima missione in Afgha-
nistan, del 1986, sono il punto di partenza, e parte integrante e sostanziale, del libro
qui preso in esame. In Conversations avec le Photographe è presente la discussione tra
Lefèvre e l'amico Guibert che è servita per la realizzazione del libro. Foto e altra docu-
mentazione sui suoi viaggi in Afghanistan sono presenti nel libro Voyages en Afghani-
stan, le pays des citrons doux et des oranges amères, che ha ricevuto il Prix du Premier
Livre Photo 2004. È morto nel 2007 per un infarto.
Emmanuel Guibert (Parigi 1964)
Dopo una laurea in lettere e un anno di formazione all'atelier Hourdé che gli per-
mette poi i successivi pochi mesi di frequenza alla prestigiosa ENSAD, resta subito
coinvolto dal mondo professionale. Inizia prima a lavorare su storyboard per cinema e
video, poi debutta nel fumetto col suo primo albo, Brune, venuto fuori da molti anni di
lavorazione, nel quale però sperimenta e prende le misure con le difficoltà del mestie-
10
re. Negli anni è diventato uno tra i nomi emergenti del fumetto francese, collaborando
anche con altri autori come Joann Sfar, per La fille du professeur, Les olives noires e
Sardine de l'espace, e David B., per Le capitaine écarlate – entrambi dell'Atelier des
Vosges, del quale fa parte anche Marjane Satrapi. Altre sue opere di rilievo sono La
guerre d'Alan e Des nouvelle d'Alain. Quest'ultimo riprende il metodo progettuale e
compositivo usato con Il Fotografo, contenendo anch'esso fotografie integranti il rac-
conto disegnato.
Frédéric Lemercier (1962 Rouen)
La sua passione per le arti visive lo portano a frequentare l'Accademia di Belle Arti
e successivamente l'ENSAD, dove conosce l'amico Emmanuel Guibert. Dopo espe-
rienze lavorative per istituzioni culturali come il Musée d'Orsay e la Réunion des mu-
sées nationaux – per i quali cura la grafica – si dedica all'insegnamento artistico, ap-
prodando come insegnante per l'ESAT. Con Emmanuel Guibert collabora alla realizza-
zione di La campagne à la mer, Le Pavé de Paris, Des nouvelle d'Alain, Conversations
avec le Photographe e naturalmente de Il Fotografo. Per lo stesso Didier Lefèvre cura
il Voyages en Afghanistan, le pays des citrons doux et des oranges amères.
2.2 L'edizione originale e altre edizioni.
L'opera è stata pubblicata per la prima volta in francese e in tre tomi, dall'editore
belga di fumetti Dupuis, nella collezione Aire Libre. I volumi sono usciti rispettiva-
mente nel 2003, 2004 e 2006, ricevendo il Prix des Libraires/Canal BD 2004, il volu-
me 1, e il Prix France Info 2005 de la BD d'Actualité, il volume 2. Nel 2008 è stata
edita una versione integrale in occasione dei vent'anni di Aire Libre. Nel 2010, infine,
l'edizione integrale pubblicata da First Second, ha anche ricevuto, tra diversi altri pre-
mi, il prestigioso Eisner Award come Miglior edizione statunitense di opere straniere.
Nel terzo tomo è allegato anche un DVD, contenente un filmato di 40 minuti rea-
lizzato dalla capomissione in Afghanistan Juliette Fournot, che testimonia, come i pri-
mi due volumi, le condizioni di vita trovate durante la missione.
11
2.3 La storia narrata
Le vicende di questa storia riguardano il viaggio effettuato da Didier Lefèvre tra la
fine di luglio e la metà di novembre del 1986 in Afghanistan, durante la guerra tra l'in-
vasore sovietico, supportato dal governo comunista afghano, e la resistenza afghana,
costituita dai mujaheddin.
La guerra in Afghanistan – ancora oggi – è una realtà difficile – come d'altronde
tutte le guerre – e complessa, in quanto presenta non solo motivi scaturenti da scopi
materiali, ma anche da delle ideologie, e uomini e fazioni legate ad esse, che si scon-
trano continuamente, senza lasciarsi persuadere l'una dall'altra, e senza cedere il passo
per un periodo abbastanza lungo da poterlo chiamare “pace”.
Ma Didier – il nostro protagonista – non è lì per combattere, tanto meno per villeg-
giare. È invece stato scelto per effettuare un fotoreportage sulle condizioni umane, so-
ciali e sanitarie presenti sul territorio, dove gli unici a preoccuparsene sono le équipe di
Medici Senza Frontiere e qualche altra ONG. È la stessa capomissione MSF in Afgha-
nistan, Juliette Fournot, a individuare nel giovane fotografo francese la persona giusta
per documentare la drammatica situazione.
Juliette è una dentista che ha vissuto l'infanzia in Afghanistan, e per questo il suo
ruolo di capo è facilitato – e possibile per una donna – dalla sua conoscenza della cul-
tura e della lingua afghane, sorrette, oltremodo, da una risolutezza e degli ideali forti.
Assieme a lei ci sono nel gruppo: un chirurgo, John, un medico, Robert e un infermiere
anestesista, Régis, persone fondamentali per la missione e per il racconto. Ma ci sono
anche: volontari, infermieri, guide e mujaheddin; poi ancora lungo il viaggio: vecchi,
bambini, pecore e cavalli, sconosciuti e conoscenti, buoni e truffatori, tutti importanti,
se non per l'équipe e il viaggio, per la reale esperienza culturale e di vita di Didier, e
per la loro incidenza sul racconto.
La missione da compiere è: organizzare la spedizione, la carovana, i pacchi di me-
dicinali, i viveri e il resto, a Peshawar, in Pakistan, poi partire, dirigendosi a nord, a
Chitral, da dove si attraverserà il confine con l'Afghanistan, passando per diversi colli
- a mo' di gincana – ad un'altitudine di 5.000 metri, proseguire lungo la pista sostando
12
in villaggi e zone strategiche, attraversare la regione del Nuristan per arrivare in quella
del Badakhshan, a nord, nelle valli di Teshkan e infine di Yaftal, a Zaragandara, molto
vicini alle zone di combattimento, dove c'è un ospedale bellico in cui l'équipe si siste-
merà, e dove poco distante, a Palandara, ne nascerà uno nuovo per le équipe locali e le
future missioni. Infine si tornerà a Peshawar.
Il viaggio di andata sarà praticamente fedele ai programmi, anche se non priva di
fatica, a differenza del ritorno che vedrà Didier deciso ad affrontarlo in solitudine se
non per la presenza alternante di qualche scorta che si rivelerà più un peso che un vero
aiuto, senza l'appoggio degli amici, senza la loro conoscenza della lingua, senza la loro
esperienza culturale, senza le loro conoscenze strategiche e ritmiche del viaggio esoti-
co e clandestino, al fine di potersi sentire libero e maggiormente coinvolto da quel ter-
ritorio così diverso dalla quotidianità metropolitana a cui è abituato normalmente.
13
3. Dell'uso della fotografia: tra narrazione e testimonianza
La prima cosa che si nota iniziando a leggere questo fumetto, è che inizia con delle
didascalie a supporto non di disegni ma di fotografie (Fig. 1). Molti libri contengono
fotografie. Così come riviste, giornali, magazine e opuscoli. Ancor di più nel web, in
modo sparso o sistematico, in articoli, post, siti, portfolio, ecc. La maggior parte di
queste foto è accompagnata da didascalie, inserite spesso al di sotto di esse, pronte a
commentarle o a descriverle. Ma nei fumetti no. Raramente si trovano fotografie che
preludono una storia fumettistica.
Qui è invece una delle caratteristiche: un fumetto che inizia con fotografie e che è
fatto “anche” di fotografie, e di didascalie che, al posto di commentarle, le “narrano”
una dopo l'altra. Potremmo obiettare con i fotoromanzi, nei quali sono presenti sia le
foto che la narrazione. Ma un fotoromanzo differisce da un fumetto (non per niente
non si è affermato col termine “fotofumetto”15). Esso gli assomiglia per l'uso di imma-
gini, per l'uso di didascalie e balloon, o per quello della tipica struttura della pagina,
ma è realizzato più sulla scia del set cinematografico, più con l'idea di creare un “film
statico” (soprattutto nella sua accezione tra gli anni '40 e '70), con la presenza di soli
attori “reali” pronti a “recitare” le azioni da immortalare, e diretto da un vero e proprio
regista. Il fattore primario, però, è che le immagini di cui il fotoromanzo è costituito
sono esclusivamente fotografiche; non ci sono disegni (esclusi quelli per il lettering o
per magri effetti grafici) narranti, elementi invece presenti ed essenziali per la costitu-
zione del fumetto sin dalla sua nascita: disegni realistici, disegni dipinti, disegni stiliz-
zati, disegni digitali, ecc., tutti pur sempre dei disegni, intesi come rappresentazioni
immaginate mediante segni grafici manuali (in realtà l'aggettivo “manuale” è prevalen-
15 Un caso isolato è La figlia del maresciallo di Giovannino Guareschi, dove ritengo impropria e acerba la defi-nizione esplicita di “fotofumetto” – seppur coraggiosa e originale – essendo in realtà un semplice fotoroman-zo uscito a puntate sul settimanale Candido a partire da gennaio 1952. Il termine potrebbe anche essere usato oggi come forma di fumetto che includa in qualche modo anche il caso particolare del fotoromanzo, ma la questione è delicata anche per via delle differenze culturali e linguistiche di ciascun popolo. Cfr. M. Pellitteri, Sette parole chiave del fumetto in Italia, http://www.liberweb.it/upload/cmp/Liera/7-parole-chiave-fumetto.pdf, p. 1-3; B. Vigna, Il fotoromanzo, http://www.hybriscomics.com/HybrisComics/fumetti.php?action=fotoromanzo; N. Arnaud, F. Lacassin, J. Tortel (sotto la direzione di), La paraletteratura: il melo-dramma, il romanzo popolare, il fotoromanzo, il romanzo poliziesco, il fumetto , Liguori, Napoli 1977, pp. 100-14; si osservi anche l'uso che fa S. McCloud del termine “photo comics” in, A couple of photo comics, 09/07/2009, http://scottmccloud.com/2009/07/09/a-couple-of-photo-comics/.
14
te, dato l'essere stesso della mano umana organo prensile più sviluppato, ma limitante e
incompleto, vista la presenza di persone diversamente abili capaci appunto di scrivere
e disegnare con piedi o bocca).
La fotografia è data dal processo di impressione luminosa su un materiale fotosen-
sibile. Chi “disegna”, qui, è la luce riflessa dalle cose del mondo, dunque dalla realtà.
“Realtà” per via di quella caratteristica della fotografia di saper catturare la vita e il
mondo reali in modo “oggettivo”, lasciando traccia di qualcosa che esiste davvero.
Ma una fotografia, come osserva Daniele Barbieri:
[…] porta in sé non solo la traccia luminosa della parte di mondo fotografata, ma anche la traccia dello sguardo del fotografo, che ha scelto la porzione di spazio e di tempo a cui limitare il proprio sguardo.16
Sottolineando su questo piano, però, anche le differenze con la pittura:
Nell’una [la pittura] la traccia del gesto si associa a un’immagine che non comunica come traccia, bensì come ipoicona, cioè per somiglianza costruita. Nell’altra la traccia del gesto si associa a un’immagine che è a sua volta traccia, impronta del mondo.17
La differenza è dunque nell'identità dell'immagine: una costruita, creata ex novo,
sostanzialmente “fittizia”, l'altra estrapolata, catturata, “trovata” nel mondo reale.
Da questo nasce spontanea la domanda lasciata aperta da Barbieri proprio alla fine
dello stesso articolo, riferendosi a Il Fotografo:
[…] cosa ne sarebbe del fascino di un libro come questo, tutto giocato sul contrasto tra immagini costruite (le vignette disegnate) e immagini-testimonianza (le foto), se avessimo ragione di sospettare che queste ultime sono tutti fotomontaggi realizzati con Photoshop?18
La fine. Se non dell'efficacia narrativa, del fascino ne sarebbe certamente la fine.
Perché la forza costitutiva di questo libro è riposta – al di là della qualità tecnica – nel-
l'uso delle fotografie come “testimonianza” di un racconto ri-costruito.
Per chiarire le cose, il sopracitato fotofumetto può essere invece definito come
quella forma di fumetto caratterizzata: o semplicemente dall'uso di fotografie “cartoo-
16 D. Barbieri, Della traccia e del gesto, in pittura e fotografia, 27/10/2010, http://guardareleggere.wordpress.com/2010/10/27/della-traccia-e-del-gesto-in-pittura-e-fotografia/.
17 Ibidem.18 Ibid.
15
nizzate” e “manipolate”, debitamente ritagliate, montate, ecc. – oggi con maggiore ef-
ficacia grazie al digitale e forse per questo terminologicamente riemersa – annullando
o quanto meno distorcendo quel valore oggettivo, o, ancor meglio, dal loro interagire
proprio con i disegni. Tutto ciò porta a trasformare, come osserva Michele Nigro, “in
'surreale' ciò che nasce come reale”19. Nel cinema, un funzionamento simile e parallelo
al secondo caso sta alla base di film come Mary Poppins (1964) o Chi ha incastrato
Roger Rabbit (1988), dove gli attori si trovano a recitare con personaggi e ambienti di
fantasia, immaginati dai disegni (animati).
Specifico che è chiara la presenza della sottile linea che c'è tra fotoromanzo e foto-
fumetto nel momento in cui si debba denominare ad esempio una determinata opera
come “fotoromanzo fantascientifico” anziché come “fotofumetto fantascientifico”, in
quanto l'occasione d'uso di effetti speciali, di disegni e pratiche digitali, e via dicendo,
porrebbe difficoltà e dubbi; perciò si vuol qui usare le “etichette” dei generi solo per le
distinzioni sostanziali, e non per quelle superficiali, minimali o commerciali.
L'immagine fotografica, quindi, ha due ruoli fondamentali e peculiari in quest'ope-
ra: non quello di rappresentare una realtà vera eppur recitata come nel fotoromanzo, e
neanche quello di una rappresentazione surreale ottenuta dal suo intersecarsi e interagi-
re con i disegni come comunemente nel fotofumetto, ma quello di essere mera traccia
del reale e dello sguardo del fotografo, ossia “testimonianza”, e quella di “essere insie-
me anche racconto, armonizzandosi con le vignette disegnate”20.
Ciò che accade allora nella lettura di questo fumetto è l'intenso altalenare delle no-
stre emozioni e sensazioni visive, che se in un attimo sono immerse nella lettura dei
balloon e delle didascalie, o magicamente coinvolte dai disegni tanto realistici quanto
sintetici, d'un tratto sono sbattute in modo violento ed epifanico dinanzi alla presenza
“vera” della realtà. Esemplare può essere la lettura caratteristica ed anche drammatica
da pagina 226 a 234 (figg. 2 e 11), quasi a fine racconto, dove il pathos narrativo incal-
zato dalle prime quattro pagine esclusivamente disegnate trova il suo culmine emotivo
nelle successive quattro costituite esclusivamente da fotografie, per poi restare ancora-
to nuovamente al solo segno grafico dell'ultima pagina.
19 M. Nigro, Il fotofumetto, http://michelenigro.wordpress.com/il-fotofumetto/.20 D. Barbieri, Dell'uso narrativo dell'immagine fotografica, 28/03/2010,
https://guardareleggere.wordpress.com/2010/03/28/delluso-narrativo-dellimmagine-fotografica/.
16
Questo forte passaggio dall'immaginato al vero, e viceversa, si presenta con più
frequenza e fluidità durante tutto il racconto, riuscendo eccellentemente a far collabo-
rare il disegno con la fotografia (figg. 3 e 4). Così come ciascuna vignetta diventa nar-
razione in relazione a quella precedente e a quella successiva, così fa anche ciascuna
fotografia, diventando “presente” di un prima e di un dopo.
Si scopre così l'evidente funzione “giornalistica” che può avere un'opera simile, nel
suo senso più genuino: informare di un evento o cosa, reali ed attuali, mediante un cer-
to lavoro intellettuale, creativo, critico, e tuttavia obiettivo e nel rispetto della dignità
umana21. Quest'opera sembra rispecchiare bene questa breve definizione, anche se è
dovuta una precisazione: il lavoro effettuato dal fumettista Guibert, non si è potuto ba-
sare su un evento effettivamente attuale, o meglio, il tema della guerra in Afghanistan
e delle sue drammatiche situazioni sociali, sanitarie e umane è attualissimo, ma la testi-
monianza portata dal suo amico fotoreporter, Lefèvre, si è dovuta risvegliare dopo cir-
ca tredici anni, coadiuvata dalle stesse fotografie conservate. Guibert ha avuto varie
conversazioni con Lefèvre22, cercando zelantemente di ricostruire gli avvenimenti e le
sensazioni di quel primo e avventuroso viaggio in Afghanistan, del 1986.
Matteo Stefanelli riassume molto efficacemente il senso dell'opera, evocando:
[…] la memoria, l'esperienza e, soprattutto, la qualità dell'esistenza di chi ha saputo vivere una vita per illuminare gli altri – un amico o una comunità – con la forza del proprio esserci.23
Emergono due elementi che rendono possibile una simile considerazione dell'opera: la
scelta di Lefèvre di testimoniare con la propria vita, e l'interesse di Guibert di dare
pieno rilievo a quella testimonianza. Infatti Guibert, forte di una personale “visione del
mondo e dell'uomo […] tende a sparire, non racconta in prima persona, cede il posto
alla soggettività altrui”24, cercando e trovando “uno stile parlato, naturale, da trasferire
21 Essendo assente una vera e propria definizione giuridica di giornalismo, si tiene in considerazione – oltre all'art. 2 della legge professionale n. 69/1963 – l'argomentazione di alcune sentenze della Corte di Cassazione e di altri organi competenti. Cfr. F. Abruzzo, Parte prima – I giornalismi e il concetto di attività giornalistica , in Il lavoro giornalistico nella giurisprudenza, http://www.altalex.com/index.php?idnot=39730; e Sentenza della Corte Costituzionale n. 112/1993, http://www.giurcost.org/decisioni/1993/0112s-93.html.
22 Sul sito ufficiale dell'opera sono accessibili alcuni frammenti audio di quelle conversazioni ed anche un video dove Guibert studia le pose da fotoreporter di Lefèvre. Cfr. http://lephotographe.dupuis.com/site.html.
23 M. Stefanelli, Emmanuel Guibert, o l'etica della testimonianza, 02/03/2010, http://fumettologicamente.wordpress.com/2010/03/02/emmanuel-guibert-o-l%E2%80%99etica-della-testimonianza/.
24 Ibidem.
17
sulla pagina naturalmente, in modo da poter dire 'io' come se fossi Didier”25. L'umiltà e
la poesia di Guibert emergono, alla fine, proprio in queste scelte.
La volontà di dare una qualche identità terminologica – sempre e solo sostanziale,
e non banale – a questo tipo di fumetto, ci mette nelle condizioni di confrontarci con la
digressione sui generi di cui sopra. Abbiamo detto che il fotofumetto ha la caratteristi-
ca di unire disegno e fotografia facendoli scontrare, mischiare, amalgamare, interagire.
Vista la loro comune presenza anche in quest'opera, possiamo decidere di usarne il ter-
mine, osservando come qui, il disegno e la fotografia, collaborino in un modo differen-
te e nuovo dall'idea di sopra, mantenendo intatte le loro identità. A ciò si aggiunge il
carattere giornalistico già evidenziato (il quale è interessante confrontare con altre sue
applicazioni, visti ad esempio i tempi di produzione di un fumetto, diversi rispetto ad
un articolo o esposizione giornalistici tradizionali maggiormente repentini), che sosti-
tuisce nuovamente la realtà al surrealismo, questa volta “non recitata”. Otteniamo un
“fumetto di realtà”26, scoprendo essenzialmente un lavoro di graphic journalism (gior-
nalismo grafico/disegnato) e comics journalism27 (giornalismo a fumetti), e nello spe-
cifico – con la volontà di usare il fotofumetto come grande contenitore dove la fotogra-
fia interagisce con i disegni e in generale con il linguaggio fumettistico – un'opera di
“fotofumetto giornalistico” o “fotogiornalismo a fumetti” (comics photojournalism)28.
25 Da un'intervista a Guibert in, "Il fotografo": dal reportage al fumetto, una storia di guerra all'incrocio dei media, 08/03/2010, http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/focus/focus_0746.html?language=it.
26 Cfr. P. Interdonato, M. Stefanelli, Giornalismo disegnato. Alle origini del fumetto di realtà, dal political cartooning al comics journalism, in O. Martini, M. Stefanelli (a cura di), G. B. Trudeau, Doonesbury. L'integrale 1970-1972, Black Velvet, Bologna 2009, pp. 17-23.
27 Graphic journalism è il termine più usato, ma anche il più generico vista la non specificità fumettistica nel lemma “grafico”, che invece può benissimo rappresentare qualsiasi soluzione visiva data anche da semplici e distinte illustrazioni, disegni, schizzi, carnet de voyage, ecc. Per questo sarebbe da preferire il termine comics journalism, sicuramente il più adatto, anche per indicare i sottogeneri. Comunque è tuttora un work in progress e forse un possibile job in progress. Esempi di questo tipo sono: Maus (1986-'91) di A. Spiegelman, Palestina (1996) di J. Sacco, Persepolis (2000-'03) di M. Satrapi, Pyongyang (2004) di G. Delisle, e Quaderni ucraini (2010) di Igort; solo per citarne alcuni.
28 Il nostro caso specifico. Un altro recente lavoro di questo tipo è Alain e i Rom (Coconino Press – Fandango, 2011) dello stesso Guibert con Lemercier e A. Keler, probabilmente opera ancora più incisiva per lo sviluppo di questa forma di giornalismo (e di fumetto). Cfr. D. Barbieri, Di Alain e i Rom, 23/01/2012, http://guardareleggere.wordpress.com/2012/01/23/di-alain-e-i-rom/. Anche su alcuni numeri di Topolino (li-bretto) è possibile trovare l'uso della fotografia a supporto dei reportage a fumetti. Cfr. M. Stefanelli, Comics journalism by Topolino, 23/02/2010, http://fumettologicamente.wordpress.com/2010/02/23/comics-journalism-by-topolino/. Un altro caso particolare è il rifacimento/integrazione con foto reali di vignette già disegnate dell'opera già citata Pyongyang di Delisle. Cfr. M. Stefanelli, Rifare Pyongyang, borgesianamente parlando, 12/11/2010, http://fumettologicamente.wordpress.com/2010/11/12/rifare-pyongyang-borgesianamente-parlando/.
18
4. Soluzioni formali e contenuti culturali
Siamo nel 1986 quando Lefèvre scatta le foto per il reportage: esperimenti ce n'era-
no, ma la qualità analogica della fotografia era almeno due decenni avanti quella digi-
tale. Ancora oggi nel 2012, non tutti i fotografi hanno preferito rimpiazzarla.
Questo portò Lefèvre a impressionare circa 130 pellicole in 3 mesi, che avrebbero
impiegato una bella spesa per lo sviluppo, nonostante – per cercare di ridurre proprio
quella spesa – furono usate esclusivamente in bianco e nero.
Funzionava così quando ancora non c'era la comodità e l'economicità digitale, e i
fotoreporter sapevano di dover dosare gli scatti, essere tecnicamente preparati per non
sprecare alcun fotogramma della pellicola, ed essere allerta per cogliere gli attimi più
imprevisti e interessanti del loro lavoro documentaristico.
Anche Lefèvre doveva tener conto di tutto ciò e infatti, da buon fotografo, era
provvisto di quattro fotocamere (Nikon e Leica), tecnicamente preparato e consapevole
delle difficoltà operative, soprattutto in quel contesto. Molto spesso durante il raccon-
to, il protagonista – lo stesso Lefèvre – digredisce sul mestiere del “fotografo”, sul lin-
guaggio che esso parla e sulla propria identità professionale ed espressiva, facendosi
portatore – insieme a quello della testimonianza umanitaria – dell'altra tematica espli-
cita di questa storia, che riversa poi nel titolo stesso dell'opera.
Nel primo mese che passa a Peshawar, Lefèvre è attirato, e allo stesso tempo tra-
volto, dall'“inestricabile bazar”29 della cultura locale, non riuscendo sempre a com-
prenderlo e a viverlo con affinità. Ma lo fotografa: fotografie agli oggetti, agli scatolo-
ni pieni di medicinali da spedire con la carovana, ritratti agli uomini forzuti che stanno
nei mercati a contrattare le bestie da vendere con gesti criptici e sguardi ammiccanti,
foto ricordo, foto istintive, foto a raffica per cogliere le differenze dei punti di vista o
forse per rendere i movimenti; e sarà il suo scopo per tutto il viaggio. A volte la molti-
tudine di fotografie scattate allo stesso soggetto, tutte nello stesso momento, sono solo
il making of di una “bella foto”, quella che riesce a rendere al meglio il senso di quello
scorcio di realtà, delle emozioni, dell'azione, e la forma estetica più piacevole, accatti-
29 E. Guibert, D. Lefèvre, F. Lemercier, op. cit., p. 37.
19
vante o espressiva che li possa trasmettere.
Il lavoro d'impaginazione e colorazione del libro è stato affidato a Lemercier che
svolge un bellissimo lavoro grafico. Le foto sono il punto di partenza di quest'opera,
non sono un optional30. Guibert è chiaro a voler arricchire le foto con i disegni e non
viceversa – carattere significativo per lo statuto dell'opera stessa – e riesce bene ad evi-
denziare questo aspetto assieme a Lemercier, il quale non si limita a prendere la foto, a
scansionarla e a metterla in sequenza come fosse una semplice vignetta, ma inserisce
la foto non solo come immagine ma anche come vero e proprio “oggetto del mondo”,
lasciando evidenti i bordi dei fotogrammi, le sigle dei negativi, i fori per l'avanzamento
della pellicola e i segni di un pennarello rosso (figg. 3-6) effettuati dal fotografo per
selezionare le foto migliori. Alcune di quelle segnate (fig. 6) sono poi state pubblicate
sul giornale Libération, assieme all'articolo dedicato alla “stagnante guerra” (fig. 7).
Queste foto “inserite” tra le vignette disegnate, non solo sono portatrici di uno scorcio
di mondo, ma sono esse stesse scorcio di mondo.
Torna ancora qui la capacità della fotografia di testimoniare e raccontare: di rac-
contare una testimonianza e di testimoniare un racconto. Testimonianza e racconto non
solo di un viaggio ma anche di una cultura, di una visione del mondo a confronto con
le altre, di individui forti della propria identità, piccola o grande che sia, e poi magari
deboli agli occhi della società, di gesti, di luoghi, di parole e di sentimenti, di politica e
di religione, e di altre cose che scritte qui non richiamano al meglio quel determinato
contesto, ma che invece emergono comprensibili leggendo e “guardando” il fumetto.
Ma com'è la “bella foto” capace di avere e dire qualcosa di interessante e significa-
tivo? Anche Didier ammette di non saperlo effettivamente, o quanto meno non lo sa
spiegare. Ma sa una cosa: che “bisogna cercare, cercare, sempre, in continuazione. E
non necessariamente in situazioni spettacolari o in guerra”31, perché al mattino, pur es-
sendo stanchi e intontiti, ci si può trovare a catturare anche una semplice discussione
tra mujaheddin, dei quali un piccolo bambino è incantato (fig. 7), o perché semplice-
mente stando tra le persone si può sorprendere un gesto particolare, inusuale per sé, o
decidere di affaticarsi con lo zaino pesante delle fotocamere sulle spalle pur di essere
poi in grado di confermare con uno scatto fotografico repentino la paura di affidarlo ad
30 Cfr. op. cit., http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/focus/focus_0746.html?language=it.31 Ivi, p. 75.
20
un asino che può tranquillamente scivolare per un precipizio lungo il sentiero.
E cercando ancora, Didier si trova a ritrarre anche un paio di vecchietti che girano
con un paio di occhiali da pilota d'elicottero sovietico, attestando un aspetto grottesco
dell'atteggiamento straniero nei confronti di oggetti rari, e constatando un'inusuale ap-
propriazione, come lo è anche da parte sua e dell'equipe nello sfruttare ad esempio i
chadri (i burqa) delle donne afghane per non essere riconosciuti alla frontiera.
Non sempre è semplice, o provvidenziale, o istintivo, lo scatto di una fotografia,
ma Didier sa che “un reportage è così: una lunga attesa.”32, e nell'attesa gli capita an-
che di leggere, ad esempio, un libro di Stevenson, In viaggio con un asino nelle Cé-
vennes, che prende dalla casa di MSF prima della partenza da Peshawar, oppure di
ascoltare la radio, a volte la BBC in persiano sintonizzata dai mujaheddin, altre volte
Radio France Internationale che gli dà anche la brutta notizia della morte di un foto-
grafo, oppure ancora di parlare con Robert e gli altri di quella guerra, strana ma proba-
bilmente come tutte le altre, fatta di violenza e diplomazia, ma anche di messaggi se-
greti scritti nel tessuto interno degli abiti di alcuni vecchietti utili al commercio cittadi-
no dei mujaheddin e innocui agli occhi sovietici, che Didier trova occasione di fotogra-
fare in un esemplare che parla semplicemente, seppur in codice, di agricoltura.
Mentre è in viaggio osserva persino come il paesaggio, o la situazione, richiami le
avventure di Tintin, ritraendo con qualche rapido scatto alcune immagini suggestive di
questo pensiero. Sarà davvero lo stesso Didier che durante il viaggio riflette una com-
parazione del mondo reale con quello immaginato di un fumetto? O c'è lo zampino di
Guibert? Convinti che quest'ultimo abbia lasciato pieno titolo all'esperienza dell'amico,
viene da evidenziare come anche chi non è del settore – in questo caso un farmacista-
fotografo-giornalista – possa trovare interessante, utile, comunicativa e riflessiva, l'o-
pera fumettistica, spesso relegata a mero intrattenimento per bambini o a portatrice di
sola alterità – magari comica, magari fantastica, magari supereroistica o magari metafi-
sica – rispetto alla vita reale.
Ma ci sono cose che Didier (viene naturale usare il nome e non il cognome visto
essere anche il protagonista della storia stessa) non può o non riesce a fotografare ma
che ci racconta, come le prove di forza a braccio di ferro tra l'orgoglio mujaheddin di
32 Ivi. p. 49.
21
Najmudin e il medico olandese Ronald, o l'elicottero che d'un tratto sorvola la loro
zona durante il cammino – probabilmente anche per non rischiare di essere individuati
per mezzo di qualche riflesso di un vetro dell'obiettivo, visto già il rischio con una
semplice unghia della mano – o il paesaggio notturno senza luna che dice di somigliare
a quelli trapelanti dai romanzi d'avventura, o ancora il parasole di un suo obiettivo che
perde in un burrone inciampando lungo il sentiero, il bagno ghiacciato nudi in un tor-
rente, la gigantesca esplosione in un altro torrente causata da una granata improvvisata
a canna da pesca o la sua caduta nell'attraversare lo stesso, testimoniata poi dallo scatto
dell'unica foto a colori inserita nel libro, fatta con la macchina fotografica che gli pre-
sta John, visto che quella che stava usando si era appena inzuppata con lui nell'acqua.
Poi ancora il modo in cui si devono espletare i propri bisogni dovendosi accovacciare,
oltre che per defecare, anche per mingere, per non dare scandalo alla gente locale, la
quale ritiene essere da animali farlo in piedi, e il non poter usare carta igienica, o se sì
doverla sotterrare poi, che sarebbe traccia del passaggio di occidentali per i sovietici.
Ma se non riesce a fotografare i mujaheddin intenti a masticare il naswar (una pol-
vere di tabacco e calce), riesce invece a fotografarli mentre ad una sosta del viaggio
uccidono una pecora per farne kebab, pietanza che ormai da noi in occidente è entrata
invece a far parte del commercio fast food.
Lì di veloce non c'è nulla. Impera la calma, il silenzio, la solitudine, l'immensità
della natura che a volte emana pace, altre volte guerra.
Come una tremenda intimidazione a non solcare quei luoghi misteriosi e pericolo-
si, si staglia l'immagine di una lenta agonia che è costretto a subire un cavallo stremato
e abbandonato lungo il sentiero, a cui Didier non può far altro che “mirare” e scattare
foto così come s'addice ad un fotografo, testimoniando non solo il dolore, la tristezza,
la solitudine, l'impotenza, di un essere vivente “inutile” e morente, ma anche la spieta-
tezza, la vigliaccheria e la rudezza della situazione e soprattutto di quegli uomini, quei
mujaheddin, che hanno deciso di non finirlo con un colpo di fucile, in nome di una fal-
sa speranza. Un colpo che il fotografo non sa e non vuole sparare (fig. 4).
Lì di veloce – quando si è (s)fortunati – c'è la morte improvvisa per via di qualche
mina antiuomo o di qualche colpo fatale, altrimenti, il più delle volte, si devono fare i
conti con mali cronici o perduranti: malattie inibitorie, lente e violente, colpi di fucile
22
partiti per sbaglio e causa di figure storpiate, doloranti e da racconti pulp o di paura, di
teste senza una mandibola o un occhio, proiettili rimasti in corpo ed estratti con le pin-
ze come in un film tra un bicchiere di whisky e il morso ad un pezzo di legno, bambini
emorragici, paralizzati o dalle mani bruciate.
Le tragiche condizioni di queste persone sono anche il pretesto per Didier di cono-
scere e parlare non solo del suo ma anche del mestiere di Régis e degli altri: il medico.
Nonostante le scomodità, la scarsità dei mezzi, la paura, queste persone decidono di
dedicare la propria vita agli altri, a sconosciuti, a stranieri, curando le loro ferite fisiche
e magari qualcuna mentale, sentimentale o spirituale.
E infine c'è proprio questo delicato e sempre presente argomento che dalla spiritua-
lità passa inevitabilmente alla religione, una religione – quella musulmana – combattu-
ta in se stessa – come a volte tutte le religioni. Aspetto fondamentale della vita sociale
e quotidiana degli afghani. Didier scopre come i familiari dei pazienti moribondi o del-
le vittime di guerra, i mutilati e i curati, giustifichino tutto se non come volontà di Al-
lah, anche quando la tragedia s'innesca per caso o per distrazione, quando è il frutto di
un incidente, o quando le cure non bastano a tenere in vita i propri cari. È evidente
come la religione lì, rispetto a noi qui in occidente, sia vissuta molto più intensamente
e seriamente, a volte con rigidità, ed anche come vero e proprio regolamento civile. In-
fatti Didier si troverà ad essere molto discreto nel fotografare ad esempio le preghiere
quotidiane degli afghani, un tabù che solo in una circostanza favorevole riuscirà a vin-
cere pienamente, riuscendo a fotografarla da molti punti di vista. Sarà riguardoso per le
foto, nel comportamento e nel linguaggio anche quando, nel suo ritorno solitario,
sprovvisto di una buona conoscenza della lingua afghana, s'imbatterà in conversazioni
delicate proprio sulla religione, sulla propria posizione rispetto ad essa e sulla propria
vita coniugale. Argomento, quello della vita coniugale, anch'esso tanto importante
quanto spesso ingannevole. Resta infatti stupito, Didier, quando un giorno Juliette gli
racconterà di una coppia di sposi innamorati, divenuti un “tris” per via della scelta del-
la moglie di procurare un'altra donna al suo sposo – e alle faccende di casa.
Il valore e il ruolo della “donna” sono elementi che emergono forti dalle riflessioni
di questo racconto: il fatto che sia una donna il capo di una spedizione così rischiosa e
che sia lei a comunicare e a trafficare con i rudi mujaheddin, l'idea della donna afghana
23
come custode dei valori morali, la libertà che le donne afghane hanno e come si eman-
cipi questo diritto nei chadri, l'umanità che scaturisce da una madre disperata perché in
lutto per il proprio figlio – come in ogni altro luogo e cultura – in contrasto con il me-
nefreghismo e la durezza degli uomini bellicosi, ecc.
É curioso evidenziare come questa realtà sia comunicata per mezzo di immagini, le
foto e i disegni, le quali, se per un verso rappresentano le prime il reale e le seconde
l'immaginato, per un altro si alterano: le foto, scorci “luminosi” del mondo, sono prive
di quella stessa luce, essendo poveramente in bianco e nero, cosa che la vita reale non
è, se non nella drammaticità di alcuni eventi e scene, della quale purtroppo queste foto
si fanno proprio cariche, mentre i disegni si arricchiscono di colore, un colore piatto ed
essenziale, ma luminoso, speranzoso, fiducioso della creatività e dell'intelligenza del-
l'uomo al servizio della creazione anziché della distruzione. Fiducia nel presente e nel-
la realtà che trapela timida anche in quell'unica foto a colori: una foto di gruppo nella
quale si staglia il sorriso di Juliette nel giorno del suo compleanno.
24
5. Dell'uso del disegno: stile ed espedienti
“Tutti i disegni sono inventati”33, dirà il fumettista Guibert in un'intervista. L'autore
sottolinea che i disegni non sono copiati dalle foto, né sono l'esatta riproposizione
grafica di un testo scritto, anche perché il diario che sarebbe dovuto esserci come
documento di quel viaggio è andato perso, e perché quei disegni vogliono essere
invece ciò che sta attorno alle foto e non la loro scarna traduzione, anche se ne
ripropongono l'atmosfera e ad esse cercano di integrarsi.
Proprio per trovare lo stile di disegno che funzioni con l'immagine fotografica,
Guibert sperimenta diversi tratti (fig. 8), studia i personaggi, prova ad intervenire su
piccoli dettagli, tenta linee sobrie ed effetti pittorici, confrontando i risultati, e optando
infine per lo stile che occuperà le pagine del libro: uno stile abbastanza realistico da
richiamare le foto presenti, ma essenziale, molto grafico, dettagliato quanto basta per
comunicare una situazione o un oggetto, cancellando spesso interi sfondi appiattiti poi
dalle tinte piatte di Lemercier (figg. 2, 4 e 11), così da evidenziare al massimo i
personaggi e le loro azioni, e risultando in netto contrasto con la ricchezza di dettagli
presente ovviamente nelle fotografie, per non farle pesare troppo alla scorrevolezza
della lettura visiva e narrativa.
Una scelta non facile ma probabilmente la più funzionale e idonea all'integrità
dell'opera, riuscendo quindi davvero a non far pesare la presenza delle molte foto che
durante la lettura viene spontaneo spulciare con occhio curioso in cerca di ogni
minimo dettaglio, di ogni volto ed espressione delle persone, della forma degli oggetti
e degli indumenti, del corpo mutilato dei feriti, ecc.
Il disegno conforta noi lettori, ci dice che, nonostante l'asprezza delle immagini
fotografiche, si può sopravvivere a tutto ciò e si può raccontare con un po' di fiducia
quella storia, convinti che possa essere, oltre che testimoniata, soprattutto ricordata ai
posteri, far nascere una coscienza più responsabile e lungimirante, e che possa far
scaturire altruismo, intelligenza e vera umanità.
Visto che si tratta di un racconto di viaggio, Guibert si trova a dover disegnare
33 Op. cit., http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/focus/focus_0746.html?language=it.
25
scene molto differenti tra loro, come i differenti paesaggi che si trasformano lungo il
sentiero, le montagne e i burroni, il mercato cittadino, le varie discussioni e
conversazioni tra l'équipe e tra gli afghani, la stessa figura di Didier che scatta foto in
varie circostanze visto che quel paio di foto che si fa scattare da altri (fig. 9) mostrano
solo come non basti cliccare un bottone per effettuare una buona foto, o ancora Didier
colpito dal caldo del quarto d'ora di un blackout pakistano o dal freddo dei faticosi
cinquemila metri afghani, ed anche le notti in cui attraversano clandestini la frontiera
(fig. 10) o in cui i medici sono costretti a mettere mano ai ferri (fig. 12) o in cui Didier
perde quasi la speranza tra la bufera di neve (figg. 2 e 11).
Proprio nel disegnare le vignette notturne, Guibert gioca magnificamente con i
vuoti e i pieni, con le silhouette, con i neri, un po' alla maniera di Frank Miller in Sin
City, anche se con un tratto differente e differendo poi nella scelta di far riempire i
vuoti con il colore anziché lasciarli bianchi (fig. 12). Qui come in Sin City la soluzione
adottata rispecchia quella qualità di mistero, di ignoto, di annichilimento che i
personaggi tendono spesso ad avere in situazioni di vita drammatica.
È poi presente una caratteristica molto particolare e inusuale tra le vignette di
quattro paginette del fumetto, che raffigurano Didier in cammino per un tratto di strada
con Juliette (fig. 13), con la quale conversa e alla quale annuncia di voler intraprendere
il viaggio di ritorno da solo. La particolarità sta nel fatto che le vignette disposte nella
gabbia semplice, standard, simmetrica, senza complessità compositiva, di quelle
pagine, sono in realtà state realizzate come due sole strisce orizzontali (fig. 14), poi
suddivise in vignette. Questa scelta operativa si riflette su due fattori. Uno è quello che
le vignette e le strisce orizzontali funzionano e comunicano in due modi differenti tra
loro, creando le prime un ritmo di lettura, scandito dallo spazio bianco che le divide e
acquistando ciascuna anche una certa autonomia, e le seconde uno sguardo che legge
ininterrotto e libero, che in un unico spazio disegnato trova il tempo che scorre, dato
dagli unici due personaggi che convivono con le proprie iterazioni grafiche, dove lo
stesso albero, lo stesso ramo, la stessa pietra, appartengono sia ad un prima che ad un
dopo. L'altro fattore è che strisce orizzontali così lunghe non possono essere stampate
integre su un formato standard com'è quello della maggior parte dei libri (infatti una
delle due strisce che ho inserito nella galleria d'immagini ho dovuto dividerla in due
26
per farla entrare con una grandezza minima sufficiente per essere vista), ponendo
l'attenzione su come il digitale e il web ovviino a simili rarità – novità – e su come essi
stiano diventando ambienti adatti all'evoluzione e a un nuovo utilizzo di linguaggi che
già usiamo ma che hanno ancora un certo potenziale da catalizzare.
Guibert è uno di quegli uomini la cui creatività e inventiva non si fanno persuadere
dall'obsoleto, dal banale, dallo sterile e dal profitto commerciale, ma aspirano
all'evoluzione dell'umanità, al suo futuro, alla vita, come Lemercier e Lefèvre, con i
quali dimostra il potenziale creativo dell'uomo che nella fiducia reciproca, nella
collaborazione o nel valore identitario individuale, è capace di esprimersi, di guarire,
di creare.
27
Galleria d'immagini
Fig. 1
28
Fig. 2
29
Fig. 3
30
Fig. 4
31
Fig. 5
32
Fig. 6
33
Fig. 7
34
Fig. 8
35
Fig. 9
36
Fig. 10
37
Fig. 11
38
Fig. 12
39
Fig. 13
40
Fig. 14
41
Fig. 15
42
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