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1 TESI DI LAUREA Prendersi cura degli altri: Gruppi di narrazione e Pedagogia dei Genitori Relatore Candidato Dr.ssa GARRINO Lorenza Scuccimarra Laura ANNO ACCADEMICO 2009/2010

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TESI DI LAUREA Prendersi cura degli altri: Gruppi di narrazione e Pedagogia

dei Genitori

Relatore Candidato Dr.ssa GARRINO Lorenza Scuccimarra Laura

ANNO ACCADEMICO 2009/2010

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Abstract

Introduzione: Secondo Pedagogia dei Genitori ascoltare con attenzione e dare importanza al

racconto dei genitori e dei professionisti sanitari, alla loro storia ne fa avvertire l’importanza

e l’unicità. La narrazione, se condivisa, acquisisce un valore profondo perché trasmette a chi

ascolta gli stessi valori che hanno determinato le scelte e le azioni fatte da chi racconta.

Obiettivi: Esplorare le esperienze dei genitori e degli infermieri nel rapporto di cura e

crescita con figli e pazienti per evidenziare i vissuti e le sensazioni provate all’interno del

loro percorso.

Materiali e metodi: Il metodo utilizzato è quello della ricerca qualitativa partecipata.

Attraverso la partecipazione ai Gruppi di narrazione sono state raccolte cinque narrazioni di

genitori e quattro di infermieri. Per l’analisi delle narrazioni è stato utilizzato l’approccio

della Qualitative Content Analysis, il cui obiettivo è quello di descrivere e far emergere un

fenomeno e quindi raggiungere l’affidabilità, la credibilità e la trasferibilità dell’oggetto

preso in esame.

Risultati: Sono state realizzate due tabelle, una per le narrazioni dei genitori e l’altra per

quelle degli infermieri. Dall’analisi dei testi narrativi dei genitori sono state individuate

cinque categorie: speranza/fiducia, ansia/timore, senso di impotenza/sconforto,

empowerment/determinazione ed empatia; mentre dall’analisi dei testi narrativi degli

infermieri ne sono state individuate quattro: speranza/fiducia, senso di impotenza/sconforto,

empatia e fiducia in sé stessi.

Discussione: Nell’analisi delle narrazioni dei genitori la categoria emersa con più forza in

tutti e cinque i testi è quella della speranza/fiducia. Un’altra categoria emersa con forza ma

non in tutte le analisi delle narrazioni è il senso di impotenza/sconforto. Ritrovate le forze,

dopo lo sconforto ed il senso di impotenza, compare un’altra categoria individuata nelle

analisi; quella dell’empowerment e della determinazione. La categoria dell’empatia compare

in due narrazioni, quelle scritte da genitori di figli disabili. In una sola narrazione compare la

categoria ansia/timore. Nell’analisi delle narrazioni degli infermieri, la categoria che emerge

con più forza è quella del senso di impotenza/sconforto e compare una nuova categoria,

quella della fiducia in sé stessi.

Conclusioni: I dati emersi dall’analisi potrebbero indicare il fatto che gli infermieri abbiano

una visione più negativa rispetto ai genitori nel rapporto del prendersi cura di una persona,

ma ancora non si possono comprendere del tutto quali siano le percezioni provate dagli

infermieri con più forza.

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INDICE Premessa Pag 5 Introduzione Pag 6

Capitolo 1 Medical Humanities, Narrative Based Medicine (NBM) e Narrative

Based Nursing (NBN). 1.1 Medical Humanities e professioni di cura. Pag 7

1.2 La formazione narrativa nelle professioni sanitarie. Pag 10 1.3 La Narrative Based Medicine (NBM). Pag 15

1.4 La Narrative Based Nursing (NBN). Pag 17 Capitolo 2

La Metodologia Pedagogia dei Genitori.

2.1 Le competenze dei genitori in ambito educativo. Pag 21 2.2 Genitorialità come professionalità. Pag 25 2.3 Genitorialità e professionalità sanitarie tra cura e crescita. Pag 29

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Capitolo 3 I Gruppi di narrazione in ambito educativo e in ambito sanitario.

3.1 Dal Gruppo di auto aiuto al Gruppo di narrazione. Pag 33 3.1.1 I Gruppi di auto aiuto. Pag 34 3.1.2 I Gruppi Balint. Pag 36 3.2 Teoria e pratica del Gruppo di narrazione. Pag 37 3.3 Il Gruppo di narrazione in ambito educativo. Pag 40

3.4 Il Gruppo di narrazione in ambito sanitario. Pag 42 Capitolo 4 Una ricerca qualitativa sui materiali narrativi

4.1 Scopo dell’indagine Pag 46

4.2 Caratteristiche del campione Pag 46

4.3 Materiali e metodi Pag 47

4.4 Risultati Pag 48 4.5 Discussione Pag 51

4.6 Conclusioni Pag 53

4.7 Bibliografia Pag 55

Allegati Le narrazioni.

Le narrazioni dei genitori. Pag 56

Le narrazioni degli infermieri. Pag 67

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Premessa

La scelta di approfondire il tema della narrazione in ambito educativo e sanitario prende

corpo durante una partecipazione ad un’attività elettiva, dal nome “La Pedagogia dei

Genitori” in area di comunicazione ed educazione terapeutica, dove mi viene proposta

l’occasione di poter partecipare, in qualità di osservatrice e partecipante attiva, ad incontri di

gruppo con genitori e infermieri, chiamati Gruppi di narrazione, nelle città di Pianezza ed

Aosta.

La narrazione è uno strumento che ha la funzione di valorizzare e dare dignità alle persone e

coesione all’interno dei team di lavoro. In questo modo emerge la specificità umana del

lavoro al quale tutti partecipano e si dà loro consapevolezza. Dare spazio a genitori e

infermieri per narrare la propria storia e così mostrare i pensieri, le emozioni, le

responsabilità e soprattutto le competenze che ognuno di loro ha nei confronti dei figli e dei

pazienti.

Le narrazioni ci aiutano a vedere qualcosa che era davanti ai nostri occhi e che non

vedevamo. Sottolineare il valore delle esperienze di persone con cui entriamo in contatto e

che la società rende muta, quindi inesistente.

Questa esperienza è stata per me un vero e proprio percorso di crescita, iniziato da un

semplice interesse e diventato via via sempre più coinvolgente. Poter sperimentare

realmente che cosa significa diventare parte di un gruppo, condividendo emozioni, paure e

gioie, arricchisce da un punto di vista umano e professionale.

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Introduzione

Prendersi cura del paziente è fondamentale per la pratica infermieristica, ma forse non lo è

mai stato importante quanto lo è oggi. La pressione ed i limiti temporali che gravano sugli

operatori sanitari nella maggior parte degli ambienti in cui agiscono possono far si che essi

divengano freddi ed indifferenti alle necessità del paziente.

La narrazione fa uscire gli infermieri dallo stato di passività in cui spesso li collocano,

attraverso questa acquisiscono consapevolezza delle proprie conoscenze e competenze.

Secondo Pedagogia dei Genitori ascoltare con attenzione e dare importanza al racconto dei

genitori e dei professionisti sanitari, alla loro storia ne fa avvertire l’importanza e l’unicità.

L’infermiere in quanto professionista esperto, si cala nel vivo del rapporto di ogni singolo

paziente, prendendosene cura secondo un approccio olistico. Per la specificità della sua

formazione e utilizzando la narrazione come strumento di valore attribuisce agli interventi

assistenziali una valenza significativa poiché contestualizzati in una storia riconosciuta e

accettata.

La narrazione dei genitori, se condivisa con altri genitori o con la comunità più in generale,

acquisisce un valore profondo perché trasmette con chi ascolta gli stessi valori che hanno

determinato le scelte e le azioni genitoriali, così come avvieni nei team di lavoro dei

professionisti sanitari.

Nel gruppo di lavoro si vengono a creare le dinamiche che costituiscono la condizione

essenziale del buon funzionamento dell’ attività di gruppo, tutto ciò che viene prodotto ed

ascoltato è inevitabilmente messo in circolo e a sua volta produce nuove idee, percorsi di

pensiero, emozioni.

Attraverso una ricerca partecipata ho cercato di esplorare ed analizzare nelle narrazioni di

genitori e infermieri i vissuti e le sensazioni provate all’interno del loro processo di cura e di

crescita.

L’ascolto e l’analisi delle narrazioni secondo l’approccio della Qualitative Content Analysis

mi hanno permesso di far emergere i contenuti più profondi dei testi presi in esame.

Il materiale utilizzato per la ricerca è stato reperito da fonti cartacee (libri di testo e riviste);

da fonti telematiche (ricerche bibliografiche in rete sulle principali banche dati) e dal

materiale narrativo prodotto nei Gruppi di narrazione.

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Capitolo 1

Medical Humanities, Narrative Based Medicine (NBM) e Narrative

Based Nursing (NBN)

1.1 Medical Humanities e professioni di cura

Le Medical Humanities possono essere generalmente definite come ciò che riguarda la

comprensione dell’uomo attraverso le scienze umane. In questo ambito rientrano discipline

quali la psicologia, la pedagogia, l’antropologia, la filosofia, la storia, la giurisprudenza, la

letteratura, le arti visive. Tuttavia alcune di queste discipline (ad es. la psicologia) nel corso

del loro sviluppo si sono avvicinati a modelli non lontani da quelli delle cosiddette” scienze

dure”, le scienze della natura, staccandosi, in maniera diversa dell’epistemologia che

caratterizza le scienze umane. Tale epistemologia è di tipo storico-narrativo e si differenzia

da quella logico-formale, che è tipica delle scienze esatte. Nell’epistemologia narrativa

esiste una concezione diversa di “verità”: se pensiamo, per esempio alle affermazioni di uno

storico o alle conclusioni cui giunge un filosofo, o anche un magistrato, possiamo osservare

come esse siano generalizzazioni che riguardano l’interpretazione di fatti o di assunti, le

quali, in misura diversa sono inseparabili dall’individuo che le ha condotte e dal contesto

che le ha generate nella loro generalità e storicità. E, non per questo, non sono in grado di

restituire irrinunciabili aree di verità.

In linea con questa conoscenza scientifica narrativa, Evans ha proposto di intendere le

Medical Humanities come “qualsiasi forma sistemica di studio che si propone di raccogliere

e interpretare l’esperienza umana” (1).

La letteratura relativa alla formazione degli adulti e nello specifico degli operatori sanitari,

sembra fare riferimento al concetto di humanities proprio in questo senso, quando cioè si

promuove lo studio di discipline (o l’utilizzo di strumenti relativi a discipline) che ancora

mantengono un paradigma fortemente storico-narrativo, che intendono dunque la

conoscenza come un processo di costruzione di significato e, quindi, interpretativo.

Secondo Greaves (2) diverse sono le discipline che possono rientrare nelle Medical

Humanities, a seconda della concezione che si ha di queste ultime. Le Medical Humanities,

infatti, possono essere alternativamente intese come:

• Qualsiasi materia di studio che non sia considerata una scienza naturale (sono escluse

qui la fisica ecc.);

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• Qualsiasi materia di studio che non sia considerata una scienza naturale o sociale (oltre

a quelle del punto precedente sono escluse la sociologia, economia ecc.);

• Qualsiasi materia di studio che non si basa su metodologie quantitative ( oltre a quelle

del punto precedente, sono escluse alcune correnti della psicologia, della pedagogia);

• Tutte le materie che si concentrano sull’unicità dell’individuo piuttosto che su

generalizzazioni su di esso (che adottino quindi un approccio incentrato sulla

singolarità della persona e utilizzino quella che è chiamata “conoscenza personale”).

Quest’ultima concezione di Medical Humanities è quella a cui ci riferiamo. Per valutare poi

il peso che le Medical Humanities devono avere nella formazione medica, secondo Greaves

è necessario esplicitare la concezione di medicina alla quale si fa riferimento. Una prima

concezione, la più diffusa, è quella che intende la pratica clinica come scienza (della natura);

all’interno di essa le Medical Humanities, essendo costituite in gran parte da discipline non

scientifiche, sono considerate marginali. Una seconda concezione, la più antica, quella

ippocratica, considera la medicina primariamente come un’arte; in essa non viene negato il

ruolo della scienza e della tecnologia, ma queste vengono ricomprese in una più ampia

concezione dell’intervento medico, nella quale è parimenti importante la competenza

relazionale. Una terza concezione, infine, (quella che potremmo definire “compensativa”

diffusa negli USA alla fine degli anni Sessanta, quando nascono le Medical Humanities)

considera l’arte un modo per controbilanciare una medicina che, a causa del suo enorme

sviluppo scientifico e tecnologico, ha perso il contatto con l’uomo.

La proposta di Greaves è quella di ripensare la medicina come un intervento sempre e

comunque imperniato sull’individualità del paziente e quindi di concepire tutta la medicina,

intesa come pratica clinica, come Medical Humanities, all’interno delle quali vengono

ricondotte sia le scienze mediche, sia le medical arts. In altre parole, l’autore propone di

ripensare le discipline mediche come Medical Humanities tout court, all’interno delle quali

trovino la loro collocazione sia le discipline scientifiche che le discipline umanistiche

(definite medical arts). In questo senso, si supererebbe l’approccio fin ora utilizzato in molte

facoltà mediche, nelle quali, a fronte della disumanizzazione della medicina, si integra la

formazione dell’operatore sanitario con le Medical Humanities, mantenendo inalterato il

ruolo e le finalità della medicina scientifica. Anche Bleakley, Marshall e Bromer (3)

propongono di superare la contrapposizione tra medicina (intesa come scienza della natura)

e Medical Humanities: “La medicina non è una scienza per sé, ma una scienza che si basa su

pratiche comunicative e narrative”.

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La pratica clinica può essere intesa anche come un’attività di conoscenza personale e una

pratica altresì immaginativa, che richiede competenze sia razionali, che relazionali.

All’interno di questa visione della relazione tra medicina e Medical Humanities, nella quale

ogni contrapposizione e ogni dualismo sono superati, queste attività formative vengono a

essere intese più che come specifici contenuti o discipline, come una nuova prospettiva

attraverso la quale insegnare e praticare la medicina. Una medicina, insomma, che accetta di

auto comprendersi anche a partire dalle sue dimensioni narrative, senza per questo

dimenticare le sue irrinunciabili componenti scientifiche. In questo modo, le Medical

Humanities, più che come specifiche discipline, possono essere intese come tutti quei saperi

e quegli strumenti che consentono di imparare prima ed esercitare poi, la medicina in questa

nuova prospettiva, che è quella narrativa.

Ricordiamo che le Humanities si definiscono come l’insieme dei diversi ambiti disciplinari

che rientrano nelle cosiddette ”scienze con un paradigma narrativo”. Le storie rappresentano

tanto l’oggetto di studio di alcune di queste discipline, che uno strumento di conoscenza e di

ricerca. Le narrazioni di malattia sono particolari tipi di storie. Quindi nel “grande

contenitore” delle Humanities rientrano le storie, che a loro volta comprendono le narrazioni

di malattia, cioè le Illness Narratives, o le scritture di malattia, cioè le autopathographies.

Poiché le scienze umane si riferiscono a paradigmi narrativi si può sostenere che, benché

Humanities, storie e narrazione/scritture di malattia si collochino al livelli concettuali diversi

esse sono accumunate da un “nucleo duro” di tipo narrativo. Detto questo si può affermare

che le Medical Humanities servono per imparare a comprendere gli esseri umani, nella loro

specificità e unicità (4).

Nello specifico, le Medical Humanities consentono di sviluppare una riflessione

approfondita sui grandi temi ricorrenti in ambito socio-sanitario, quali per esempio il

rapporto con il paziente, il significato della malattia, la morte e il morire, il rapporto tra

medicine, minoranze e culture o la malattia mentale, l’handicap, l’invecchiamento, la

malattia terminale, il corpo sano e malato.

Le Medical Humanities possono rappresentare un modo per insegnare a conoscere davvero

l’esperienza di malattia nella sua complessità e quindi nella sua ineludibile dimensione di

vissuto. In particolare hanno la finalità di sviluppare capacità osservative, interpretative e di

costruzione del significato dell’esperienze di malattia, aiutando i professionisti della cura a

connettere le esperienze altrui con le proprie; aiutano insomma ad andare in profondità

nell’analisi dell’esperienza di malattia, insegnando prima a osservare con attenzione il

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paziente e poi a scavare ben al di sotto della superficie del fenomeno patologico e dei segni

e sintomi medici col quale esso si presenta.

1.2 La formazione narrativa nelle professioni sanitarie

I risultati di una formazione basata sulla narrazione sono precisati nel libro di Rita Charon

sulla medicina narrativa (5). Un’attenta analisi delle sue osservazioni conduce a sottolineare

che gli effetti di una formazione narrativa in campo medico sono generalizzabili ed

estensibili agli altri ambiti in cui il rapporto tra le persone è centrale. La specificità della

formazione genitoriale si iscrive nella dinamica della costruzione narrativa delle

professionalità ampliandone i risultati. Oltre alle principali conseguenze in chi partecipa ad

ambiti in cui la narrazione è fondante indicate da Charon: attenzione, rappresentazione e

affiliazione, si può aggiungere l’effetto familiarità.

Attenzione

Uno dei primi risultati della formazione narrativa è una maggior attenzione nei confronti

delle persone. Agli esperti la società riconosce una conoscenza che li pone spesso in

posizione disimmetrica rispetto alle persone che si rivolgono loro. Questo porta talvolta ad

una relativa attenzione agli altri. Nella formazione narrativa il genitore viene posto in

posizione di formatore e tutto viene focalizzato sulla sua figura. Egli è l’attore, i

professionisti sono spettatori. Ciò che cattura con maggior forza la concentrazione su di lui è

il contenuto della sua esposizione.

L’attenzione, sottolinea Charon è un risultato complesso che presuppone rigore, difficile da

realizzare. Un esercizio attivo che viene messo in gioco dall’attività degli altri in situazioni

precise. Presuppone uno svuotarsi temporaneo di sé per far spazio alle vicende degli altri.

Nella narrazione formativa prodotta dai genitori ci si accorge che essi hanno una visione di

sé e delle proprie azioni. Danno un senso alle loro storie, le organizzano. Questo accende

interesse, l’attenzione è implicito riconoscimento delle loro abilità argomentative. Rivelano

capacità ermeneutiche, nel significato etimologico della parola: svelare ciò che è nascosto.

Nello specifico della loro narrazione rivelano ciò che sta dietro al loro agire e a quello dei

figli: la loro storia che permette una conoscenza genetico evolutiva, come si sono originate

le vicende educative e come si sono sviluppate. Queste oggettive capacità espresse nel corso

delle sessioni formative condotte secondo la Metodologia Pedagogia dei Genitori (vedi

capitolo II) portano gli esperti a riconoscere capacità espressive che non erano mai state

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riconosciute perché non richieste e quindi non dichiarate e ad avvertire un sapere sul figlio al

quale è possibile far ricorso.

Le impressioni ricevute nel corso dell’ascolto delle narrazioni si trasformano nell’attività dei

professionisti in una pratica di maggiore attenzione di fronte alle persone di cui si occupano.

Nelle professioni dedicate alla persona occorre sapersi donare agli altri in termini di

accettazione, far spazio, disporsi all’ascolto. Vi è analogia con l’atteggiamento di chi si reca

ad uno spettacolo ed è anche la stessa attenzione con la quale ci si dispone a una formazione.

Non significa dimenticarsi di sé stesso ma raggiungere una maggiore padronanza di sé.

Etimologicamente attenzione deriva dal verbo attendere che esprime l’azione di chi si

proietta verso l’altro. Produce uno dei maggiori presupposti di qualità per chi si occupa della

persona umana, la disponibilità. Charon, sottolinea che: E’ un fatto innegabile, anche se

difficile da descrivere, che alcune persone si rivelano come ‘presenti’, cioè a nostra

disposizione quando soffriamo o abbiamo la necessità di confidarci, mentre vi sono altri che

non trasmettono questa sensazione. La presenza è qualcosa che si rivela, con immediatezza

e senza equivoci, in uno sguardo, un sorriso, un’intonazione o una stretta di mano. La

persona che è a mia disposizione è l’unico in grado di essere con me, con la totalità del mio

essere quando ho bisogno; mentre chi non è a mia disposizione sembra offrirmi un prestito

temporaneo misurato sulle sue risorse. Per il primo sono una presenza, per l’altro un

oggetto (5).

La disponibilità, figlia dell’attenzione, non può essere ottenuta in modo teorico, in termini

razionali, si trasmette attraverso una formazione che passa per la mente e per il cuore. Le

narrazioni dei genitori come proposta formativa portano un contributo essenziale in questa

direzione, impostando un’intensa concentrazione sulla persona tramite la loro azione e i loro

itinerari educativi presentati all’attenzione dei professionisti.

La Charon sottolinea che queste disposizioni di animo non hanno solo risvolti professionali

ma diventano capacità che possiamo esercitare anche nei confronti di noi stessi: Sviluppando

la capacità dell’attenzione, la formazione narrativa non fornisce solo gli strumenti per

ascoltare i pazienti in modo più accurato e capire le loro situazioni in modo più completo

ma ha anche un grande risultato che può aiutare i professionisti nella ricerca di dare

significato alla loro vita (5).

Rappresentazione

La formazione prodotta tramite la narrazione degli itinerari educativi condotti permette agli

esperti di ampliare il loro campo cognitivo con nuove alleanze e nuove capacità. Charon

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sottolinea che sembra esserci una valida, reciproca connessione tra gli stati di attenzione e

quelli di rappresentazione nel processo di narrazione (5).

L’attenzione deriva dall’azione messa in scena dal racconto che cattura la mente e i sensi

degli spettatori. L’oggettiva rappresentazione che avviene nel corso della formazione si

trasforma nell’omonima capacità in chi assiste e aderisce con attenzione. E’ la capacità di

rappresent-azione: raffigurare dentro di noi le persone, presentarle a noi stessi, acquistarne

un’immagine, la più completa possibile, la più corretta possibile, frutto di un’attenzione

oggettiva, scissa da schemi professionali e soprattutto proposta direttamente dalla persona

interessata. Paradossalmente nei rapporti umani il massimo di oggettività corrisponde al

massimo di soggettività e viceversa, poiché a condurre il processo di liberazione deve essere

la persona non l’esperto che ha il compito di aiutare, fare da specchio, Charon propone la

metafora del professionista come coppa che induce a versare, che accoglie e in un certo

senso aiuta a dar forma alla propria esperienza.

Nella formazione narrativa, la capacità di rappresentazione si ottiene tramite la descrizione

di un’esperienza con un paziente. La dimensione empatica proposta dalla narrazione si

trasferisce a tutti i partecipanti al gruppo. Si imparano a vedere le sfaccettature di una

personalità prodotte dalla sua storia.

Familiarità

Nella formazione narrativa delle professioni sanitarie i professionisti propongono una parte

di loro, una parte della loro storia. Si espongono, si mettono in gioco, mettono a disposizione

degli altri la loro esperienza in modo diretto. Costruiscono ponti di fiducia in direzione di

chi li ascolta, condividono itinerari di crescita, di quotidianità, rivolgendosi agli astanti come

se fossero persone conosciute da tempo. Attribuiscono intenzionalità comunicativa alla

platea, pongono le basi per una reciprocità di rapporti. Fanno il primo passo verso una

situazione di relazionalità basata sulla comune umanità.

Si innesca un processo di familiarizzazione. “Famiglia non è mensa o dormitorio, è luogo in

cui si parla, in cui si mettono in comune sentimenti e stringono relazioni più strette”(6).

Dall’attenzione catturata dalla narrazione, alla rappresentazione della persona mutuata dalla

descrizione di un paziente, alla creazione di una situazione di familiarità tra i partecipanti. Si

compone un itinerario formativo che Rita Charon definisce a spirale, una crescita comune

determinata dal reciproco rispetto. Nella spirale ogni punto è significativo, non vi sono

gradazioni o stadi inferiori o superiori, quanto un percorso che sfocia in un rapporto

costruito dalle relazioni che sono state messe in comune. Al centro dell’uomo c’è la sua

storia. La narrazione è il fulcro del percorso: un dono che procede dal donatore a colui che

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riceve e che lo fa proprio senza impoverire chi lo propone. Chi ascolta è stato investito dalla

dignità di esser messo a far parte di un itinerario di crescita intimo, personale, specifico. La

vita narrata è proposta come scambio che porta ad una crescita reciproca e ad un reciproco

riconoscimento. Chi ha narrato si è individualizzato agli occhi e alla coscienza degli altri,

sarà presente nel loro cuore e non verrà dimenticato. Il mondo interiore degli altri, la loro

storia, ci è stata trasmessa, sono diventati familiari, non possono più esserci indifferenti. La

loro specificità rende più facili i rapporti e gli interventi.

Affiliazione

All’effetto di familiarità o di familiarizzazione nella formazione dei professionisti si affianca

quello di affiliazione. Chi ha narrato assume un volto e una storia, chi ascolta ne diventa

implicitamente responsabile, poiché la loro situazione si iscrive nella coscienza di chi ha

ascoltato. E’ come se si fosse stretto un impegno, un patto che ha le caratteristiche

dell’azione genitoriale.

L’esperienza che ci è stata presentata ora ci appartiene, dobbiamo farla crescere. Non è

depositata nella nota di un registro, nella voce di una cartella clinica, in un angolo di una

pratica burocratica. E’ nato un interesse per l’avvenire di chi ci è stato narrato. La narrazione

innesca un processo di affiliazione. E’ una situazione che si crea spesso nella professioni

sanitarie che hanno come centro i rapporti umani. Per un’insegnante, un medico, un

educatore, un infermiere, il risultato più gratificante di un rapporto professionale è una

relazione che dura nel tempo, che non si esaurisce nell’atto dovuto. E’ testimoniato dalle

situazioni in cui si incontrano le persone che riconosciamo e ci riconoscono magari dopo

molto tempo. E’ il rapporto con la maestra che ci accompagnò nei primi apprendimenti o col

medico di famiglia che frequentava la nostra casa o l’infermiere che ci riconosce per strada e

ci chiama “il suo malato”. Un tempo questo rapporto era normale, attualmente la tecnologia

l’ha ridotto e impoverito, privato di spessore.

La formazione condotta tramite la narrazione intende ripristinare i canali comunicativi tra

esperti e ‘utenti’, risvegliare sensibilità funzionali alla cura e alla crescita, proporre e

approfondire una professionalità che si nutre e si ispira alle relazioni che si istaurano nella

famiglia.

Risultati di familiarità e affiliazione si realizzano non solo con le persone di cui gli esperti si

occupano, ma anche tra colleghi. Come verrà sottolineato nella teoria su Gruppi di

narrazione (vedi capitolo II), il racconto delle esperienze personali condotto in formazioni

strutturate, attuato in modo consapevole e libero, produce una conoscenza approfondita non

rituale o basata sull’apparenza, appiattita dalla routine dei rapporti. Comunicare situazioni

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vissute personalmente, entrare nel profondo, rimettersi in gioco coi propri racconti di vita,

produce gli stessi effetti della formazione attuata tramite la narrazione degli itinerari

educativi dei genitori. Si riprende potere sulla propria vita, dichiarando di esserne autori. E’

una chiamata implicita alla solidarietà. Il controllo sulla propria esistenza produce quello che

attualmente viene definito empowerment, dignità desiderio di attribuirle un senso.

Questi effetti si ottengono in un’azione condivisa, collettiva; nella formazione si costruisce

una relazione determinata dalla comunicazione della narrazione dove potenzialmente tutti

possiedono un pezzetto della propria e dell’altrui vita. Venire a conoscenza di brani

dell’esistenza delle persone viene definito da Rita Charon “mettersi in contatto”, non

perdersi di vista, costruire una relazione di reciprocità basato sullo scambio delle proprie

esperienze.

Il senso di familiarità e di affiliazione è fondamentale in ambito sanitario, dove crisi e

debolezze hanno bisogno di quella solidarietà attiva che confina strettamente con quella

genitoriale: Nella pratica di internisti neonatologi o di medicina del dolore, dimentichiamo

o spesso non sappiamo quanto sia minacciosa per i malati la perdita di contatto o la

preoccupazione che qualcosa possa interrompere il collegamento con i curanti (5).

Il collegamento e l’analogia con l’attaccamento o l’abbandono genitoriale è intuitivo. Non a

caso proprio è il medico Rita Charon a definire l’affiliazione uno dei risultati formativi della

narrazione, proponendo con questo termine la genitorialità come paradigma per le

professionalità medico sanitarie, sottolineando il valore della relazionalità familiare come

modello per le situazioni terapeutiche.

La formazione narrativa non mobilita solo l’attenzione e la rappresentazione, ma tramite

l’affiliazione produce azioni positive, entra nel miglioramento delle pratiche specifiche delle

professioni che si occupano di rapporti umani. Rita Charon sottolinea che come medico

esegue protocolli per i suoi pazienti ma, come conseguenza della formazione narrativa, li

compie in modo più significativo e umano.

Aver ascoltato con l’attenzione e l’empatia indotta da un contesto formativo ufficiale gli

itinerari educativi dei genitori permette di portare in ambito operativo le stesse qualità.

L’impegno professionale diventa più profondo e soddisfacente. Atti di attenzione e di

rappresentazione culminano nell’azione: io posso fare delle cose per il mio paziente come

conseguenza di queste azioni narrative compiute con senso del dovere e abilità. Raggiungo i

miei colleghi di èquipe e i compagni di lavoro in modo più sistematico e personale in virtù

dell’ascolto e della lettura di quello che scrivono in relazione al loro lavoro clinico e di

quello che ascoltano del mio lavoro” (5)

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1.3 La Narrative Based Medicine (NBM)

La Narrative Based Medicine (NBM) nasce come risposta ad un sistema sanitario che pone

interessi burocratici e corporativi al di sopra dei bisogni di un paziente che si sente

inascoltato e abbandonato. E’ una pratica sanitaria caratterizzata dalla competenza nel

riconoscere, capire ed essere toccati dalle storie di malattie.

Il paziente non è il termine passivo (al massimo informato e consenziente) di un processo

diagnostico-terapeutico governato dal curante, ma può diventare col racconto attore della

relazione. Il medico dovrà essere capace di ascoltare e analizzare questo racconto senza la

fretta di volerlo ricondurre negli schematismi comodi ma aridi dell’anamnesi. Spesso le

parole del paziente, possono orientare verso la giusta diagnosi e cura.

Nella Narrative Based Medicine della versione letteraria uno scrittore nel suo romanzo si

pone dal punto di vista del personaggio, vive all’interno del suo orizzonte, tuttavia può

sempre uscirne e ritornare alla sua posizione privilegiata e proporre prospettive diverse da

quelle che il personaggio può avere. Il protagonista dell’azione narrativa autobiografica non

può uscire dalla situazione di cui deve riconoscersi autore.

La narrazione permette e garantisce la libertà e la soggettività del paziente che ridiventa

persona, non solo uno che soffre o che sopporta. La sua sfuggente entità è garanzia di un

rapporto paritario. Non può esser definita da una singola diagnosi, né ridotto alla sola

malformazione o patologia. Vi è sempre qualcosa che sfugge e che lo rende libero e questa

concezione dovrebbe essere continuamente presente al clinico.

La metodologia della NBM si inserisce all’interno delle varie discipline dando spazio a

sequenze narrative di docenti e discenti che, tenendo conto delle nozioni e della logica

interna alle materie, permettono una dinamica interpretativa che applichi allo specifico le

indicazioni generali. Occorre valorizzare la storia del paziente e del curante. Il corpus di

conoscenze, pur fondamentale, non deve sovrastare l’incontro umano che è al cuore

dell’intervento terapeutico.

Processo di formazione significa partecipazione personale, emotiva, capacità di

cambiamento di atteggiamento, adesione empatica alle situazioni personali e altrui.

La Narrative Based Medecine si inserisce autorevolmente in questo itinerario collegandosi

ad una sintesi interdisciplinare che raccoglie Pedagogia, Antropologia, Sociologia e

Letteratura. NBM nella formazione delle professionalità terapeutiche significa dare spazio

alla soggettività e al suo processo di formazione, aprire la possibilità agli studenti di

misurare le loro capacità secondo parametri genetico evolutivi, concedendo loro la

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possibilità di riconsiderarsi in termini autobiografici, narrandosi, raccontando la loro

formazione, le loro emozioni, le loro reazioni.

La NBM inserisce il paziente nel ruolo di autore. Storicamente la situazione del malato si è

sempre situata in una condizione precaria. L’aggettivo precario rivela una condizione

instabile, non autodeterminata, che dipende dagli altri: la sofferenza come condizione

inferiore, se non come colpa. Il malato deve limitare la propria dignità umana, la sua

condizione sociale si rattrappisce, deve pregare, implorare dall’esterno la salute come

intervento salvifico, non come authoring o responsabilità condivisa col curante. Occorre

riposizionare la situazione del malato e questo avviene attraverso la costruzione narrativa

della sua situazione in cui riprende la propria dignità di persona. La dignità gli deriva

dall’esser autore di una narrazione che può iniziare nell’incontro con la medicina, ma che ha

le sue radici nella vita vissuta precedentemente. Si può parlare di medical plot, di peripezia

narrativa: è il paziente in ogni caso che narra se stesso e la sua malattia, è in questa

presentazione dove appare l’individualità e la complessità della persona, è nel racconto che

si manifesta l’autonomia del paziente, l’essere auto-re della sua situazione. Dopo l’incontro

narrativo l’esame autoptico, gli esami clinici ed infine il dialogo nel quale si articola il patto

dal quale emergono diagnosi e terapia.

La NBM aiuta il medico ad iniziare dalla conoscenza di sé, dalle sue motivazioni. Dalla

consapevolezza della sua biografia, abilitandolo all’utilizzo consapevole di conoscenze e

competenze. Se diagnosi e prescrizione terapeutica devono esser operazioni scientificamente

corrette lo diventano grazie a una riflessione narrativa sulle proprie scelte, preferenze,

idiosincrasie, ecc., elementi che vengono identificati in una autobiografia. Nella narrazione

si compendia la dignità ma anche la responsabilità di esser autori.

La narrazione del paziente implica tempo e attenzione, più il paziente è chiamato a narrare

più si implica nell’azione terapeutica assumendo e condividendo responsabilità che non

devono esser addossate solo a un medico e che non possono esser limitate alla firma sul

consenso informato.

Lo scopo della medicina non è solo curare o alleviare le malattia, ma anche promuovere il

benessere e la dignità nella persona. Molti pazienti vogliono partecipare alle riflessioni dei

medici, non esser recettori passivi. Mentre una volta i medici parlavano di relazione

medico-paziente, ora parlano sempre di più di interazione medico-paziente. L’inversione ha

valore di segno. Denota un cambiamento di potere dal medico al paziente. Interazione

indica con efficacia un maggior livello di parità nella loro alleanza. Il termine relazione

spesso comportava un’ombra di paternalismo (5).

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La narrazione da parte del curante diventa possibilità di esprimere le proprie emozioni, di

chiarirle e di dominarle. Significa per i medici riconoscere la propria partecipazione umana e

soprattutto emotiva all’azione di cura. Il valore della narrazione consiste nell’inquadrare la

loro attività in un contesto strutturato e di ridurre la possibilità di errori clinici. La nascente

scienza cognitiva della medicina assume il valore del raccontare e del dialogo, riconoscendo

le situazioni cliniche.

Come sottolinea Rita Charon nel saggio sulla Narrative Based Medecine: Una medicina

praticata con competenza narrativa sarà più in grado di riconoscere i pazienti e le malattie,

coniugare conoscenza e rispetto per entrare umilmente in empatia coi colleghi,

accompagnare i pazienti e le loro famiglie attraverso le vicissitudini della malattia. Queste

capacità porteranno a un atteggiamento di cura, più umano, più etico e forse più efficace

(5). La narrazione rafforza le soggettività dei due attori del patto terapeutico con la stessa

dignità che deriva loro dall’essere autori e responsabili di guarigione. Il paziente racconta la

sua situazione di malato all’interno di una biografia, analogamente il curante racconta il

proprio esser terapeuta situandolo nella storia personale. Sperimentazioni di Narrative Based

Medicine sono condotte nell’insegnamento di Pedagogia generale e sociale presso la sede di

Aosta del corso di Laurea in Scienze infermieristiche, Facoltà di Medicina e Chirurgia,

Università di Torino, sia per quanto riguarda gli studenti, che per la formazione dei tutors e

dei responsabili di tirocinio.

1.4 La Narrative Based Nursing (NBN)

La Narrative Based Nursing (NBN) viene attuata, con momenti di narrazione per preparare i

futuri infermieri ad esprimere in modo narrativo la loro professionalità. Viene collegata alla

Narrative Based Medicine e intende svilupparne metodi e pratiche. Ha come modello gli

strumenti utilizzati dalla Metodologia Pedagogia dei Genitori, in particolare i Gruppi di

narrazione.

L'obiettivo della NBN è:

• rendere consapevole il personale infermieristico della dignità della propria

professione

• acquisire materiale documentario per precisare nel concreto la professionalità

infermieristica

• fornire strumenti per valorizzare la professione e verificare la qualità degli interventi

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• sottolineare l'importanza della relazionalità paziente – infermiere e migliorarne la

qualità

• mettere in luce buone prassi nella quotidianità e nella relazionalità sanitaria

• far emergere situazioni di eccellenza

• diffondere a livello sociale un immagine della professione che tenga conto degli

standard relazionali esistenti

• promuovere una cultura della valorizzazione delle buone prassi

• migliorare l'immagine della professione attraverso situazioni concrete.

Si inserisce nelle attività legate alla formazione e all'in-formazione del personale.

Formazione in quanto chiede ai corsisti di implicarsi in prima persona proponendo le proprie

vicende professionali e partecipando in modo empatico a quelle degli altri, acquisendo

dignità e rispetto per la propria e l'altrui professionalità; in-formazione perché si pone come

obiettivo di presentare le ragioni epistemologiche della narrazioni, gli strumenti per

manifestarle e diffonderne la testimonianza, e soprattutto la teoria della narrazione come

nuovo strumento di consapevolizzazione nelle scienze umane. La narrazione della

relazionalità infermieristica valorizza l'intervento professionale, gli attribuisce spessore e

propone un setting positivo, un campo di rapporti che sostiene e conferisce senso

all'intervento tecnico - specialistico di cura. L'infermiera che si narra acquisisce dignità della

propria azione, si riconosce una serie di capacità, fa il bilancio della sua attività, ne coglie i

lati costruttivi e positivi e li ripropone nella relazione col malato, diventando maggiormente

consapevole delle risorse che ha dovuto metter in campo, di cui ha fatto un bilancio.

Esaminando la letteratura sulla narrazione nelle professioni sanitarie si rimane stupiti dalla

carenza di testimonianze infermieristiche. Gli infermieri scrivono poco, forse perché

agiscono molto. Questo va a scapito della comunicazione sulla loro professionalità che non

emerge, non viene riconosciuta e soprattutto non viene diffusa. Si ha l'impressione che gli

stessi protagonisti non abbiano coscienza fino in fondo della loro importanza e soprattutto

della loro specificità rispetto ad altre professionalità come quelle mediche o riabilitative.

Sono necessari studi metacognitivi, teorici, ma è urgente raccogliere una casistica concreta

che proponga la quotidianità di una professione la cui caratteristica è la presa in carico

olistica e sistemica del paziente. Si tratta di un incontro diretto con la persona e con i

familiari, la consapevolezza del rapporto psicofisico con l'individuo. Questa dimensione

emerge tramite lo specifico della narrazione che permette di raccogliere e evidenziare gli

infiniti particolari di cui sono intessute le relazioni che intercorrono tra infermiere e paziente

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e costituiscono un percorso vissuto nell'arco delle 12 o 24 ore, minuto dopo minuto:

l'incontro con la specificità del malato, le sue abitudini, il carattere, le preferenze, una

relazione diretta che non può esser espressa attraverso grafici, formule o questionari, ma si

esprime attraverso lo scrivere o il de-scrivere la relazione. Chiarire lo specifico della

professionalità infermieristica è funzionale al collegamento tra medici e infermieri. Essere

consapevoli delle proprie funzioni e del proprio ruolo permette una dignità che mette in

grado il singolo di valorizzare la propria attività. La formazione del personale infermieristico

ha avuto negli ultimi decenni cambiamenti strutturali che l'hanno condotta dal Convitto

all'odierna Laurea in un alternarsi di mansioni e di funzioni che spesso non hanno avuto la

possibilità di sedimentare. Questo ha comportato una pluralità di interventi e di

atteggiamenti che determinano difficoltà a rapportarsi con le altre professionalità sanitarie.

Problematico è l'amalgamarsi e lo stratificarsi degli esiti delle varie formazioni che

propongono difficoltà di relazioni nello stesso ambito infermieristico. La raccolta delle

narrazioni riguardanti lo specifico della quotidianità permette al personale di identificarsi in

una prassi che si determina nella relazione col paziente di fronte al quale si stemperano le

differenze di formazione. La narrazione delle esperienze infermieristiche propone l'essenza

della professionalità, quello che il pubblico deve conoscere. L'immagine degli infermieri

viene spesso comunicata in modo distorto, legata a stereotipi e luoghi comuni. Campagne di

promozione della sanità e delle professioni vengono affidati a esperti della pubblicità,

abituati a creare bisogni e a pubblicizzare prodotti materiali e non relazioni di cura e di

aiuto. Propongono campagne legate all'esteriorità all'opulenza, al consumo, che distorcono

la realtà e spesso minano il delicato rapporto che si instaura col paziente. Occorre

comunicare dati di realtà, accessibili direttamente come quelli che si trasmettono in modo

narrativo, non affidandosi all'evidenza dell'immagine patinata o alla compressione del claim

pubblicitario, quanto all'elaborazione soggettiva di chi vive le situazioni direttamente e le

narra con tutta la partecipazione di chi crede profondamente nella propria professione e la

esprime nel modo migliore. Una raccolta di narrazioni di esperienze infermieristiche

permette una riflessione a tutti coloro che aderiscono alle relazioni di cura: pazienti e

familiari. La narrazione infermieristica come quella medica non è a senso unico: non

riguarda solo l'esposizione delle vicende da parte del personale sanitario, ma ha come

corrispettivo la narrazione del paziente. Scrivere la propria esperienza da parte del curante e

del paziente assume il valore dell'incontro tra due individualità la cui disposizione umana è

uguale, ma diversa l'azione, complementare rispetto al fine ultimo, la salute. Dal racconto

delle reciproche esperienze nasce un'intesa non solo dal punto di vista terapeutico ma anche

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umano. La narrazione del curante ne propone il lato emotivo relazionale, l'umanità di chi si

mette in gioco non solo con le sue competenze tecniche ma soprattutto con quelle umane.

Significa mettere a nudo la propria umanità descrivere sentimenti ed emozioni ammettere

limiti e fallibilità, chiarendo la propria posizione umana. Questa situazione è più facile e

congeniale per il personale infermieristico la cui relazionalità diretta e continuativa col

paziente permette una confidenza e un'apertura che facilita i rapporti umani e soprattutto la

loro comunicazione. La professionalità infermieristica non ha mai avuto connotazioni di

onnipotenza né un linguaggio settoriale specifico che allontana dalla quotidianità e

all'espressione dei propri sentimenti ed emozioni. Dalla parte del paziente scrivere la

propria esperienza ha il senso di aumentare la propria responsabilità, di accettare

l'insicurezza di una situazione in cui nessuno è onnipotente. Si tratta di un percorso comune,

un viaggio verso una meta riconosciuta e condivisa in cui i partners devono stringere un

patto di solidarietà che comporta fiducia reciproca basata su una conoscenza delle rispettive

risorse. La narrazione del paziente ha il significato di una presa di coscienza della dignità

della sua soggettività, del possesso sul suo corpo, delle conoscenze sulla propria vita e sulla

propria storia. Dei progetti che fa per la sua esistenza che non viene arrestata dalla malattia

ma si realizza nell'incontro con le difficoltà (7).

Vi è una Metodologia strettamente legata a quella riguardante la Narrative Based Nursing, la

Metodologia Pedagogia dei Genitori. Basata sulla narrazione degli itinerari educativi delle

famiglie, è nata per valorizzare le competenze educative dei genitori a fronte delle

competenze specifiche dei professionisti che si occupano di rapporti umani in funzione di un

patto educativo con gli esperti, che riconosca il ruolo attivo e conoscitivo nella famiglia.

Questa metodologia è stata utilizzata in ambito formativo sanitario negli ateliers promossi

dalla Società Italiana di Pedagogia Medica (SIPEM) sezione Piemonte Valle di Aosta, nelle

formazioni elettive del Corso di Laurea in Scienze Infermieristiche di Torino e per sette anni

nell'insegnamento di Pedagogia generale e sociale nell'analogo Corso di Laurea di Aosta.

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Capitolo 2

La Metodologia Pedagogia dei Genitori 2.1 Le competenze dei genitori in ambito educativo.

“Si può parlare oggi sia di perdita di mestieri sia di perdita di saperi rispetto alla vita quotidiana.

Più abili nei mestieri e saperi professionali, abbiamo disimparato a riconoscerci quelle competenze che prendono forma con l’esperienza di ogni giorno come genitori, partner, vicini, abitanti di un paese. Anche per questo siamo schiacciati da una sorta di impotenza ad agire. Riconoscere mestieri e saperi della vita quotidiana, come la <<pedagogia>> dei genitori, è condizione essenziale per orientare, in dialogo con i saperi e i mestieri di chi è esperto, il verso dove andare”(8).

La capacità di relazione, di aiuto si irrobustisce esperienzialmente nelle persone quando esse

possono agire nell’aiutare e nell’essere aiutati, nell’accogliere l’umanità degli altri e nel

manifestare apertamente la propria umanità, con le sue debolezze, riconoscendo che ogni

situazione è diversa dall’altra e non vi sono ricette. Si è di fronte ad una competenza

relazionale elaborata attraverso l’esperienza.

Nel momento in cui alle persone che hanno maturato un’originale competenza di aiuto in

situazioni difficili, come ad esempio quelle con i figli diversamente abili, viene chiesto di

condividere come formatori la competenza educativa a cui sono giunti, (che viene

denominata <<pedagogia dei genitori>>), non fanno altro che raccontare e rielaborare la

loro soggettiva esperienza nelle situazioni che la vita le ha chiamate quotidianamente ad

affrontare.

La narrazione dei percorsi sviluppati in famiglia, con i figli diversamente abili, sollecita

empatia e condivisione e apre al cambiamento.

Le narrazioni fanno emergere in chi ascolta il ricordo della propria educazione , il desiderio

e la necessità di metterla a confronto.

In realtà le emozioni che la narrazione suscita non sono fine a se stesse, ma inducono alla

ricezione dei valori che le narrazioni lasciano trasparire.

I genitori conoscono il figlio in una prospettiva lunga, legata all’arco della vita. Il rapporto

con il figlio si basa su una progettualità che in un primo tempo appartiene a loro, ma in

seguito è sempre più determinata dal ragazzo stesso. Nell’azione di ogni giorno, nel suo

evolversi nel tempo emergono determinanti educative che delineano vere e proprie

pedagogie che contribuiscono a mettere in discussione il pensare, l’agire di chi ascolta,

creando le premesse e un contesto significativo per aderire ai valori impliciti ed espliciti di

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cui l’azione quotidiana è intrisa. Il sapere esperienziale di ogni genitore, mediato

dall’empatia e dalla condivisione e dalla forte densità emozionale che ne consegue, apre alla

lucidità della conoscenza, come dimostra Martha Nussbaum nel saggio sull’intelligenza

delle emozioni (9).

La dignità pedagogica della famiglia può essere collegata all’I care di Don Milani (10) (mi

preoccupo, mi sta a cuore), in cui la profonda empatia si sprigiona come impegno nel

promuovere lo sviluppo della personalità del figlio, non disgiunta da principi guida che

determinano e rafforzano le scelte morali.

La pedagogia dei genitori può essere considerata una conoscenza in evoluzione.

Quotidianamente infatti le famiglie mettono in atto strategie che determinano e sono

determinate da valori che devono incarnarsi nell’azione educativa, pena l’arrestarsi dello

sviluppo umano e morale dei figli e l’affievolirsi dei legami parentali. Ripensando alle

narrazioni di genitori con figli diversamente abili e alla loro funzione stimolante in momenti

di formazione per operatori sociali, è possibile ricondurre i valori di riferimento a cinque

nuclei.

La tensione della crescita. I genitori condividono l’avventura più esaltante: la crescita di un

altro individuo. Si tratta di una dinamica delicata in cui occorre, da una parte, rispettare la

soggettività della persona e, dall’altra, porla nelle migliori condizioni per esprimere le

proprie potenzialità. I genitori non determinano la crescita del figlio, tuttavia, se non

intervengono, essa può avvenire in modo distorto o meno efficace. Devono saper dosare le

loro attenzioni per non causare una perdita di soggettività, ma non possono agire attraverso

indicazioni o prescrizioni astratte: è la loro presenza, le attenzioni e le cure continue che

orientano lo sviluppo. La contiguità, la continuità dei rapporti influenza l’altra persona che

si ispira al modello e agisce per imitazione. La condivisione determina un rapporto

biunivico. Colui che fa crescere è costretto lui stesso a crescere, stimolato dall’attenzione di

chi lo considera con occhi ingenui. Questo determina nel genitore una visione evolutiva

della realtà e delle persone e una continua tensione verso il futuro.

Il cambiamento che avviene sotto i loro occhi e che essi favoriscono, non è solo fisico o solo

spirituale. Essi toccano con mano nel figlio la dialettica tra lo sviluppo sociale e quello

personale. Con le loro testimonianze abilitano chi li ascolta a considerare la persona nella

sua interezza.

Proprio perché la crescita delle persone non è mai lineare, i genitori diventano consapevoli

di come ogni evoluzione è diversa dall’altra e di come una delle caratteristiche di chi educa

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è anche saper attendere.

I genitori, in quanto hanno l’occasione di sperimentare nei figli i risultati e le conseguenze

delle loro azioni, accumulano una memoria storica in grado di documentare le tappe dello

sviluppo.

La dignità dei genitori viene esaltata se il figlio è diversamente abile. Essi possono osservare

una crescita con continue dissonanze, che induce in loro la consapevolezza di essere

ricercatori (11).

Un respiro di speranza. Ogni individuo, alla nascita, pur avendo qualità e potenzialità

proprie, si affida alla progettazione di una porzione di umanità rappresentata dai genitori.

La presenza di ogni individuo è impegnativa e sono i genitori che devono costruire un

progetto che proietti la persona nello spazio e nel tempo.

Le famiglie devono necessariamente praticare il valore della speranza per costruire le basi

sulle quali impostare una vita futura. Per i genitori la speranza è un valore astratto, ma si

afferma in tutte le scelte che compiono per conto del figlio.

La caratteristica evolutiva della vita è determinata dalla presenza di un essere in continua

trasformazione, la cui metamorfosi avviene sotto gli occhi del padre e della madre e può

essere documentata al mondo (11).

Un quotidiano intriso di fiducia. Mentre la speranza si estende lungo l’arco del progetto di

vita, la fiducia si realizza nella quotidianità dell’esistenza.

Il ruolo del genitore si esprime giorno dopo giorno e in ogni situazione deve porsi come

punto di riferimento per il figlio.

La personalità si forma gradatamente e si basa su sicurezze alimentate dalla condivisione di

relazioni interfamiliari costituite da micro rapporti verificati momento dopo momento.

Ogni situazione è nuova per il piccolo d’uomo che la affronta sostenuto dall’esperienza di

chi l’ha preceduto. Per lui avventurarsi per vie sconosciute significa appoggiarsi sulla

fiducia di chi ha compiuto itinerari simili.

La famiglia è quindi una fonte di fiducia forse appannata dai messaggi mediatici che cercano

di negare l’impegno dei genitori.

Le difficoltà sono funzionali alla crescita e affrontarle permette al figlio di sviluppare

competenze che costituiranno parte della sua personalità e gli daranno la possibilità di

realizzare i suoi progetti.

La fiducia nella capacità del figlio di superare gli ostacoli è determinante, gli consegna la

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forza necessaria per affrontarli in modo vincente (11).

L’accettazione di un’irripetibile identità. Elemento fondante per l’affermazione della

personalità è la consapevolezza della propria identità, che è un prodotto sociale che si forma

in ambito familiare. L’identità di una persona deriva dall’accettazione e dall’amore col quale

ognuno viene accolto fin dal momento della nascita, in quanto l’accettazione che gli altri

manifestano si trasforma in autostima.

Per ogni genitore il proprio figlio è il più bello del mondo, ed è giusto che sia così. Sentirsi

una persona speciale, diversa da tutti gli altri, afferma la nostra individualità e ci rende

sicuri. <<Ogni scarrafone è bello a mamma sua>>, è l’atteggiamento spontaneo di chi è

consapevole di aver dato vita ad un essere irripetibile, la cui missione nel mondo non potrà

essere compiuta da nessun altro. Questo senso di specificità viene trasmesso al figlio e

costituisce una dote che promuoverà la sua autorealizzazione. E’ un valore prezioso per chi

ha compiti educativi, perché permette di adattare gli strumenti pedagogici e di

personalizzarli secondo le esigenze individuali (11).

Una responsabilità non delegabile. In ogni società, anche la più strutturata e coesa, la

famiglia viene considerata la base dell’educazione dei figli e come tale responsabile. Come

gli altri valori, la responsabilità non è una scelta libera, ma fa parte dell’essere famiglia:

assunta in modo consapevole diventa determinante per la dignità dei genitori. I genitori sono

un punto di riferimento: non solo sostengono il peso del comportamento del figlio, ma sono

interlocutori, ne rispondono a coloro che hanno a che fare con la loro prole. In questo senso

costituiscono un’agenzia educativa con la quale è possibile un dialogo, che diventa la pietra

angolare sulla quale costruire un sistema relazionale sempre più articolato.

I valori pedagogici della speranza, della fiducia, dell’identità e della responsabilità

appartengono a tutti i genitori. Tuttavia non sempre queste qualità vengono identificate e

riconosciute. Per questo è compito decisivo per ogni comunità locale programmare

iniziative, in modo da riconoscere, apprezzare e utilizzare le competenze e i valori della

famiglia.

Il buon funzionamento della società presuppone un patto educativo tra istituzioni e famiglia,

una concertazione in cui ogni interlocutore viene riconosciuto dall’altro come detentore di

pari dignità pedagogica (11).

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2.2 Genitorialità come professionalità.

“Pedagogia dei genitori” nasce a Torino in seguito ad attività che valorizzano il

protagonismo dei cittadini che si impegnano ad essere operatori sociali di salute mentale in

una dinamica di reciprocità, alimentata dalla messa in discussione dei rapporti

interpersonali. Alcuni principi derivano dalla pratica delle assemblee di Attività Terapeutica

Popolare, nate a Modena, condotte a Torino dal 1978, in cui i genitori hanno parte attiva,

prendendo la parola in pubblico e testimoniando i loro percorsi educativi.

La fecondità del protagonismo dei genitori, come cittadini attivi e primi conoscitori dei loro

figli, fa si che siano utilizzati come formatori all’interno delle scuole dal 1995, data in cui

sono formalizzati i principi e la Metodologia Pedagogia dei Genitori.

Questo metodo si diffonde a livello nazionale e internazionale, contribuendo alla formazione

dei professionisti che si occupano di rapporti umani: insegnanti, educatori, medici, giudici,

assistenti sociali, ecc.

Istituzioni scolastiche, ASL, Enti Locali adottano la Metodologia Pedagogia dei Genitori per

l’aggiornamento dei propri operatori e iniziative di aggregazione sociale.

Dal 2001 al 2004, Pedagogia dei Genitori diventa Progetto europeo, inserito nel programma

di educazione permanente Socrates Grundtving 2, al quale partecipano Associazioni di

genitori italiani, francesi e scozzesi. Dal 2007 al 2009 la Comunità Europea ha approvato il

Progetto Dalla Parte delle famiglie-Pedagogia dei Genitori con la partnership di Francia,

Grecia, Italia.

Pedagogia dei genitori sottolinea che: la famiglia è una componente essenziale e

insostituibile dell’educazione. Spesso le viene attribuito un ruolo debole e passivo che

induce alla delega ai cosiddetti esperti. La famiglia possiede risorse e competenze che

devono essere riconosciute dalle altre agenzie educative.

La Metodologia evidenzia la dignità dell’azione pedagogica dei genitori come esperti

educativi, mediante iniziative mirate a promuovere la conoscenza e la diffusione di

Pedagogia dei Genitori. Si realizza mediante le seguenti azioni:

• Raccolta, pubblicazione e diffusione delle narrazioni dei percorsi educativi dei genitori.

• Formazione da parte dei genitori, degli esperti e dei professionisti che si occupano di

rapporti umani (insegnanti, medici, giudici, assistenti sociali, ecc.).

• Presentazione dei principi scientifici riguardanti Pedagogia Dei Genitori tramite

ricerche, studi e convegni.

Pedagogia dei Genitori si esprime attraverso:

• La pedagogia della responsabilità: la famiglia adempie ai compiti dell’educazione e ne

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risponde al mondo.

• La pedagogia dell’identità: l’amore dei genitori fa sviluppare una consapevolezza che

permette alla persona di riconoscersi.

• La pedagogia della speranza: la speranza dei genitori è l’anima del progetto di vita, del

pensami adulto.

• La pedagogia della fiducia: la fiducia della famiglia non solo sostiene le potenzialità del

figlio, ma le fa nascere;

• La pedagogia della crescita: i genitori sono testimoni e attori del percorso di sviluppo del

figlio.

Pedagogia Dei Genitori propone il Patto educativo scuola, famiglia, sanità, promosso

dall’Ente Locale in cui i genitori assumono un ruolo attivo grazie al riconoscimento delle

loro competenze.

Le competenze educative dei genitori

Protagonismo dei genitori

Occorre riconoscere l’azione educativa dei genitori, valorizzarla, analizzarne la specificità,

conoscerne le caratteristiche migliori sulle quali poter far affidamento. Ci lamentiamo della

mancanza di risorse, riferendoci spesso a quelle materiali. Senza sottovalutarne

l’importanza, questa richiesta dipende da un atteggiamento consumistico che ci induce a non

tener conto della risorsa uomo. Si considera risorsa solo quella validata ufficialmente,

garantita da un titolo ufficiale, da uno studio spesso basato solo sui libri. Non ci rendiamo

conto che studio non è solo quello teorico ed astratto, è anche l’esperienza umana codificata

nella pratica quotidiana. Questa risorsa è importante, perché si radica nella continuità dei

rapporti e nella specificità delle conoscenze, ponendoci in grado di fare analisi concrete di

situazioni concrete.

Il riconoscimento di queste capacità nelle scienze umane valorizza le competenze relazionali

dirette. Creare unità di misura per l’uomo ha portato all’aberrazione del Quoziente di

Intelligenza che in Italia fortunatamente non ha avuto larga diffusione. Comparazioni prive

di senso conducono a comode ma disperanti diagnosi di età mentale, che tolgono speranza a

chi desidera impegnarsi nella direzione di una sempre maggior promozione umana.

Occorre prendere atto che dietro le risorse umane definite aspecifiche, grezze, esistono

chiarezze e competenze che devono ottenere validazione da parte di tutta la comunità

scientifica ed esser accettate con lo stesso rispetto che si ha per quelle dei ‘tecnici’.

I genitori sono esperti a pieno titolo per i loro figli e per le scelte che li riguardano.

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Validazione della Pedagogia dei Genitori

Vi è la necessità di presentare e fissare le basi scientifiche delle competenze dei genitori,

perché venga riproposta la fiducia nella loro attività educativa. Gli esperti si rendono conto

che occorre collaborare ed anche imparare dalle famiglie.

Una studiosa americana mette a fuoco l’approccio degli esperti con le famiglie:

“Tradizionalmente il prevalente approccio alle famiglie, in particolare quelle con figli

disabili è derivato dagli ambiti della medicina, della psicologia, dell’educazione e

dell’assistenza. Collegandosi ai metodi delle scienze sociali gli esperti hanno esaminato la

famiglia allo stesso modo col quale un medico esamina un ammalato. Il risultato è che la

maggior parte degli esperti sostengono che le famiglie sono impegnate in una continua lotta

per affrontare i devastanti problemi che riguardano ad esempio la presenza di una persona

handicappata. I genitori e gli altri membri del nucleo familiare vengono giudicati dalla

maggior parte degli esperti in base alla loro debolezza e mancanza piuttosto che per la loro

forza e le loro risorse (12)”.

Fortunatamente questo paradigma sta cambiando: ”Sono messi in discussione i modelli

‘deficitari’ che accompagnavano la pratica degli esperti, sostituiti da teorie che sostengono

la competenza delle famiglie… Chi desidera capire (e rispettare) l’esperienza dei genitori

sempre di più si rivolge ai genitori stessi per ottenere la loro interpretazione della

situazione che stanno vivendo. Invece di assumere una visione dall’esterno questi

ricercatori dipendono dai genitori per definire il significato delle loro scelte e del mondo

che li circonda (12)”.

Dignità dei genitori

Occorre generalizzare questo atteggiamento, invitando educatori, personale sanitario,

docenti a porsi all’ascolto dei genitori, per imparare da loro. Ridare significato di

apprendimento reciproco e paritario a questa parola che, per la medicalizzazione e la

patologizzazione dei rapporti, ha acquisito un’accezione terapeutica. L’ascolto è diventato

quello dello psicologo che si pone su di un piano diverso, non paritario.

Ascoltare significa spesso interpretare, oppure auscultare, porgere l’orecchio a chi ha

problemi, cercare sintomi, indizi per individuare patologie. Persone non problemi è il titolo

di un libro di Don Ciotti (13): persone con competenze ed esperienze in grado di arricchire

chi li interpella.

Le narrazioni dei genitori non sono testimonianze, sono analisi in cui non è racchiuso solo

un sapere oggettivo, ma vi sono decisioni ed un progetto di vita. Sono indicazioni per un

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giudice, un operatore sanitario, un docente da accettare, perché l’esperto di quel ragazzo è il

genitore, è lui che ne ha la responsabilità oggettiva per il futuro, è lui che ha elaborato un

progetto di crescita.

Le decisioni degli operatori vanno prese paritariamente coi genitori, titolari di un sapere

educativo e formativo.

Imparare dai genitori

Ascoltare i genitori per imparare un tipo specifico di pedagogia:

• Imparare da loro la specificità dei figli. I genitori hanno il segreto della loro crescita,

l’hanno condivisa. Hanno fatto progetti per e con loro. Hanno vissuto nello stesso

ambiente.

Conoscono le tradizioni e la situazione sociale nella quale i figli vivono.

• Imparare da loro la specificità dell’educazione familiare. Esser genitori significa

possedere un sapere generalizzabile che deriva dall’esercizio di quella funzione.

Da secoli la Pedagogia dei Genitori è stata accettata e mai messa in discussione. La società

l’ha sempre riconosciuta anche se non l’ha codificata. Non ve n’era bisogno. Esisteva ed era

valorizzata. Vari fattori portano ora alla necessità di individuarne la specificità:

• La modernità ha distrutto la comunità di villaggio ed il relativo sapere che sosteneva la

Pedagogia dei Genitori.

• La modernità ha distrutto la famiglia allargata patriarcale all’interno della quale si

esercitava e tramandava la Pedagogia dei Genitori.

I genitori nella loro azione quotidiana mettono in atto valori pedagogici.

Genitori come formatori.

Gli “esperti” che si occupano di rapporti umani devono riconoscere i genitori persone

componenti in grado di fornire utili indicazioni, con i quali avere rapporti paritari.

Lo sottolinea ad esempio la Legge Quadro sull’handicap 104/92, quando per l’integrazione

scolastica prevede nei gruppi di lavoro la presenza dei genitori accanto ad insegnanti e

curanti.

La specificità del sapere dei genitori deve essere presentata in situazioni di formazione, dove

essi propongono ai tecnici il loro percorso specifico e le indicazioni della Pedagogia dei

Genitori. Sono per vocazione e pratica formatori, esprimono le loro competenze attraverso la

narrazione, strumento non invasivo, legato alla realtà concreta, che ha il pregio

dell’immediatezza, della ricostruzione affettiva ed emotiva di un percorso pedagogico

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basato sull’empatia. Sono qualità che le scienze dell’uomo hanno rischiato di perdere per la

spersonalizzazione determinata dall’influenza del positivismo. La possono recuperare oggi

se nella teoria e nella pratica si dimostrano attente alla Pedagogia dei Genitori.

2.3 Genitorialità e professioni sanitarie tra cura e crescita.

Un ulteriore approccio che permette di chiarire la pedagogia dei genitori da un angolo di

visuale legato alla disabilità, è quello che riguarda il rapporto tra medicina e pedagogia.

Si tratta di una rivalorizzazione profonda delle cure parentali che acquistano valore di nuovo

paradigma per la riqualificazione di una scienza cardine per l’uomo: la medicina.

Pino Donghi, segretario generale della Fondazione Sigma-Tau, sintetizzando i contributi

degli scienziati di tutto il mondo sul concetto di cura, sottolinea: “Tutti i disagi, i problemi e

le contraddizioni sono state interpretate come patologie da curare. Il significato originario

di cura è prendersi cura, cioè esaminare, analizzare e farsi carico responsabilmente di

eventi di crisi all’interno di un individuo o di un gruppo sociale” (14). Si tratta quindi di un

processo empatico, collaborativo.

Nel mondo attuale prevale un atteggiamento positivistico che non considera la cura come

“processo” o “scambio comunicativo”, ma solo in base al risultato nel suo aspetto terminale

di fallimento o di guarigione.

Donghi ricorda che l’atteggiamento materno può suggerire un approccio diverso: “Perché

non attribuire al curare anche il significato di crescere?” Non a caso nella storia di ciascun

individuo le prime cure che si incontrano sono le cure materne e sappiamo quanto sia

importante che esse consistano proprio nella trasformazione da parte della madre dei

messaggi, delle emozioni che provengono al bambino e che gli siano restituite elaborate in

modo da metterlo in grado di affrontare il mondo che lo circonda e la crescita”(14).

Cure materne come capacità di elaborare la crisi in senso dinamico garantendo l’identità

dell’individuo e proiettandolo in una situazione di crescita continua che non considera la

malattia un evento a sé, ma la inserisce in una storia, nella narrazione di una biografia umana

scritta dal soggetto attraverso il contributo di tutti.

Donghi sviluppa ulteriormente una serie di indicazioni inseribili nel concetto di “pedagogia

della famiglia”, suggerendo che curare significa dunque favorire la trasformazione in senso

evolutivo e non più ricomporre, riequilibrare una struttura originaria già data. L’agire dei

genitori si sviluppa in una dimensione continua, nella quotidianità dello sviluppo, dalla

quale trae la sua validità. La crescita determinata dalla famiglia viene considerata un

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processo continuo costruito giorno per giorno all’interno del quale vi è la possibilità di

controllare capillarmente l’intervento.

Il genitore trasforma la realtà, non si limita a nominarla attraverso la definizione di una

diagnosi che spesso blocca una situazione e non ne aiuta l’evoluzione.

La pedagogia dei genitori si oppone ad una visione demiurgica e invasiva, tipica di una certa

medicina volta a ricomporre, riequilibrare una struttura originaria già data.

Il modello proposto da Donghi si collega consapevolmente alle cure dei genitori che

vengono considerate un approccio trasformazionale-evolutivo. Si tratta del paradigma della

mediazione di un soggetto attivo nei confronti della persona “malata” o in crescita, in

trasformazione.

Noi vediamo in azione questo modello nell’apprendimento della comunicazione orale. Nel

rapporto col bimbo, la madre ha un ruolo attivo, fa da mediatrice tra la realtà e il bimbo, che

nei confronti del mondo esterno si trova in una situazione di crisi, di alterazione.

La madre interpreta il mondo al figlio e interviene in un modo attivo che crea

consapevolezza nel bimbo, il quale a sua volta diventerà autore della sua mediazione.

Il rapporto con i genitori è polivalente e polifunzionale, problematizzare per un genitore

vuol dire non arrestarsi di fronte ad una difficoltà, ad un deficit, che spesso viene dagli

esperti circoscritto in una diagnosi legata necessariamente al presente, con pochi riferimenti

al passato e una scarsa proiezione verso il futuro.

L’atteggiamento diagnostico spesso non vuol dire solo una conseguente terapia, ma anche

uno stato di limitazione, porre la persona in una situazione data, dalla quale si può uscire

solo attraverso la strada stretta indicata dal curante.

Nell’ultima parte del suo scritto, Donghi ripropone il “prendersi cura” come atteggiamento

globale e paradigmico e, in una situazione delicata e difficile come quella del rapporto

medico-paziente, sottolinea che “va considerato il prendersi cura prima che la terapia”,

mettendo in primo piano l’atteggiamento genitoriale.

Partendo da questi presupposti, fondamentale può essere la conoscenza dello strumento Con

i nostri occhi (15), funzionale alla realizzazione del patto educativo scuola-famiglia utile

alla definizione ottimale del percorso dell’integrazione degli allievi diversamente abili che,

secondo la normativa, inizia con la diagnosi medica. La diagnosi è fondamentale dal punto

di vista medico-riabilitativo, ma non lo è in ambito educativo, dato che l’insegnamento

interviene sugli elementi positivi. La persona è un’unità in cui tutto è connesso

nell’interazione tra organi, funzioni e capacità. E’ quanto indica l’ICF (International

Classification of Functioning) approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel

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2001, in cui si raccomanda di passare da un modello unicamente medico a un modello

sociale basato sulla persona. Un linguaggio comune che è nato per essere parlato sia dagli

operatori sociali, sanitari, politici…, che dalle stesse persone con disabilità. Lo scopo

generale dell’ICF vuole essere quello di fornire un linguaggio comunemente standardizzato

che permetta la comunicazione in materia di salute e di assistenza sanitaria, in tutto il

mondo, e tra scienze e discipline differenti.

Una grande novità dell’ICF è quella che questa classificazione non riguarda soltanto le

persone con disabilità o le persone malate in generale, ma riguarda tutti, avendo così

un’applicazione universale.

Un’altra caratteristica di questa classificazione è quella di dare un importante valore ai

fattori ambientali che descrivono i contesti in cui gli individui vivono, questo perché si è

osservato che, oggi, milioni di persone soffrono a causa di una condizione di salute, che in

un ambiente sfavorevole diventa disabilità.

L’ICF ricerca la presenza di menomazioni, che possono essere l’espressione di una

condizione di salute, ma non indicano necessariamente che l’individuo debba essere

considerato malato. La disabilità è definita dall’ICF come: la conseguenza o il risultato di

una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali, e i

fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo (16). Infatti,

ambienti diversi possono avere un impatto molto diverso sullo stesso individuo in una

determinata condizione di salute.

Il linguaggio nell’ICF è neutrale rispetto all’eziologia, enfatizzando la funzionalità e la

potenzialità della persona rispetto al tipo di malattia, perché l’OMS, vuole favorire le

persone con disabilità senza che queste vengano sminuite o ancor peggio discriminate.

Nella Checklist ICF i fattori Personali non vengono elencati, ma possono essere descritti in

uno spazio “bianco” dove l’operatore o l’individuo stesso può narrargli senza l’obbligo di

dover rientrare in una classificazione. Proprio partendo da questo spazio per descrivere i

molteplici fattori personali, che giocano un ruolo non secondario nella percezione e nella

realizzazione delle proprie potenzialità e delle disabilità, posso ipotizzare che la narrazione

della propria esperienza di vita, della percezione che si ha della malattia, possa essere un

ulteriore integrazione all’ICF. Narrazione dove chi racconta può essere l’individuo stesso, il

genitore, il caregiver piuttosto che il professionista che cura.

Questo il legame allo strumento Con i nostri occhi, che nell’ambito di Pedagogia dei

Genitori si propone di affiancare alla diagnosi, nel percorso ufficiale di integrazione, la

presentazione del figlio. La presentazione fornisce ai docenti, ai compagni, alle altre

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famiglie e agli esperti i mezzi per interagire con la bimba o il bimbo con difficoltà.

La terminologia degli esperti è spesso di difficile comprensione. Le parole usate nelle

diagnosi non sono situabili nella realtà quotidiana e rimandano ad interventi tecnici.

I genitori spiegano i figli usando il linguaggio della quotidianità. Li presentano in termini

evolutivi in un processo di crescita che vivono giorno per giorno. Alla diagnosi e al profilo

proposto dai genitori si affianca la relazione osservativa della scuola. Si integra in questo

modo la rete tra le agenzie che contribuiscono alla crescita della personalità dell’allievo,

ciascuna con le sue competenze e specificità.

Pedagogia dei Genitori sostiene metodologicamente la presentazione dei genitori, base per il

patto educativo nel quale le competenze della famiglia e degli insegnanti si alleano

nell’interesse della persona. E’ strumento prezioso, elaborato secondo le caratteristiche, le

esigenze e gli interessi dei ragazzi.

Possono contenere alcune foto e le seguenti informazioni:

CHI SONO?

LE COSE CHE MI PIACCIONO

LE COSE CHE TROVO DIFFICILI

MODI COI QUALI POSSO COMUNICARE

MODI COI QUALI PUOI AIUTARMI

QUELLO CHE DEVI CONOSCERE DI ME (il superamento delle difficoltà)

QUELLO CHE VOGLIO TU SAPPIA DI ME (il contributo alla crescita degli altri)

Lo schema proposto è utilizzato dai genitori delle sezioni delle scuole del Comune di

Collegno. Con i nostri occhi è uno degli strumenti utile a favorire la continuità nel passaggio

da un ordine di scuola all’altro. Per gli alunni in situazione di handicap potrà affiancare la

diagnosi funzionale. Le strategie elaborate per le situazioni di disagio e di difficoltà

diventano soluzioni applicabili per tutti.

I genitori presentano i figli con l’immediatezza e l’empatia che li contraddistingue. Danno

una visione a tutto tondo della loro soggettività, indicandone le caratteristiche, le preferenze,

le relazioni all’interno della famiglia, le amicizie le capacità che hanno sviluppato e le

potenzialità, tutti elementi che solo uno stretto rapporto come quello tra genitore e figlio può

rilevare. Non nascondono le difficoltà, ma non le enfatizzano e propongono la personalità

dei figli nella sua complessità e nella sua evoluzione.

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Capitolo 3

I Gruppi di narrazione in ambito educativo e in ambito sanitario 3.1 Dal Gruppo di mutuo auto aiuto al Gruppo di narrazione.

Negli anni ’70 sono nati e si sono sviluppati i Gruppi di mutuo autoaiuto. Emergeva la coscienza che non era più sufficiente un rapporto terapeutico chiuso in una di

dimensione duale; chi aveva problemi aveva bisogno di un tessuto umano solidale per uscire

da una situazione negativa.

I Gruppi di auto mutuo aiuto avevano una dimensione più ampia della terapia, anche se al

loro interno l’esperto era ancora una figura centrale: interpretava, dava consigli, guidava il

gruppo.

Dal punto di vista sistemico sono stati un progresso, tuttavia erano centrati su situazioni

patologiche: chi partecipava aveva un problema che desiderava risolvere, il gruppo aveva

connotazione terapeutica. Si partiva da condizioni difficili o negative e se ne cercava la

soluzione.

Ci sono diversi tipi di Gruppi di mutuo auto aiuto: quelli formati da persone che

condividono un handicap o una malattia cronica, quelli costituiti da persone che vogliono

cambiare una abitudine, un comportamento (ad esempio gli Alcolisti Anonimi), quelli

organizzati da familiari di persone con gravi problemi, gruppi di persone che attraversano un

periodo di crisi (un lutto, una separazione), o un periodo positivo ma che cambia

radicalmente le loro vite (es. nascita di un figlio), o, infine, persone che devono affrontare

una situazione o un cambiamento che influisce sulle loro identità (es. al menopausa, il

pensionamento).

Nell’attuale situazione sociale, caratterizzata dall’isolamento, è necessario proporre

occasioni di crescita collettiva in cui non si parta da una dimensione patologica, non si

deleghi a un esperto la soluzione delle scelte riguardanti la propria vita e la propria

professione, ma vi sia la possibilità di discutere delle proprie esperienze in modo sereno,

continuativo, di fronte a persone (colleghi) che ascoltano con interesse e rispetto, senza

esprimere giudizi.

Creare questa condizione è fondamentale per la professionalità sanitaria: in un mondo in

perenne cambiamento, devono effettuare scelte che riguardano il proprio lavoro, la propria

funzione, senza esser confortati dalle indicazioni collettive o sostenuti da un’attiva coscienza

sociale

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I Gruppi di narrazione si fondano sulla quotidianità e sulla positività: non si parte dai

problemi, quanto dall’orgoglio e dalla gioia di eseguire bene la propria professione.

La base comune è la crescita comune pazienti-curanti. Evidenziare professionalità,

esprimere le proprie esperienze in modo narrativo è come costruire ponti, non si cerca il

terreno cedevole o fragile, si costruisce sulla roccia, si parte dalla positività, con la

consapevolezza che valorizzarla permetterà di superare la negatività. Il Gruppo di narrazione

non nasce per risolvere problemi o sanare situazioni, serve a creare un clima di conoscenza e

rispetto reciproco, in cui si esprime la propria esperienza concreta in modo narrativo.

Nei Gruppi di narrazione non vi sono conduttori o esperti, chi parla conosce la propria

situazione o le vicende di cui è stato protagonista meglio di qualsiasi altra persona, ne è

autore. La narrazione esalta questa soggettività, questo protagonismo, questa autenticità,

questa presa di possesso della propria storia. La narrazione delle scelte e delle esperienze ha

valore di crescita per chi le ha compiute e per gli altri. Tutti sono sullo stesso piano, tutti

sono esperti e ricercatori alla stesso modo. Il protagonismo collettivo permette un

coinvolgimento che diventa responsabilità comune per il funzionamento del Gruppo di

narrazione. L’indicazione di Paulo Freire “Nessuno insegna a nessuno, tutti imparano da

tutti (17), è alla base della metodologia, fulcro della crescita collettiva.

I Gruppi di narrazione hanno la caratteristica di essere aperti alla partecipazione di tutti

coloro che sono interessati e funzionali all’uso sociale della narrazione, l’umanità espressa

nei racconti ha un valore per la comunità, deve essere socializzata, diventare patrimonio

comune. Occorre promuovere consapevolezza dei valori di condivisione e empatia nella

società e la consapevolezza della dimensione umana in chi ha responsabilità professionale

nel campo dei rapporti umani. I Gruppi di narrazione si inseriscono in una dinamica sociale

che ha come scopo creare un tessuto solidale e consapevole e formare professionisti in grado

di stipulare alleanze paritarie con le persone di cui si occupano.

3.1.1 I Gruppi di mutuo autoaiuto

L’intrinseca necessità umana di sostegno, supporto e aiuto nelle difficoltà della vita

quotidiana situa le origini dell’autoaiuto molto lontane nel tempo.

I primi veri movimenti di auto aiuto nascono in seguito alla rivoluzione industriale e alla

crescente necessità di far fronte ai problemi sociali, economici e sanitari ad essa collegati.

Le <<Friendly Societies>> in Inghilterra, ad esempio, sorsero nella seconda metà

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dell’Ottocento come gruppi locali di lavoratori in cerca di sostegno comunitario per

fronteggiare problemi di vita quotidiana come l’alloggio e la salute.

Gli squilibri sociali ed economici causati dalla rivoluzione industriale diedero l’impulso

anche negli Stati Uniti alla nascita delle <<Trade Unions>> che funzionavano, per molti

aspetti, come organizzazioni di mutuo aiuto, essendo incentrate su problemi lavorativi,

personali e familiari.

Negli anni ’30 a questo tipo di supporto si unì anche la formazione di istituzioni educative

per i lavoratori con programmi educativi improntati al mutuo aiuto e al reciproco impegno

dei partecipanti, finalizzati anche all’organizzazione di programmi di azione collettiva, a

beneficio di gruppi, comunità o città.

E’ in questi anni che nascono formalmente i primi veri Gruppi di mutuo autoaiuto che si

occupano non solo di assistenza sociale ma anche di problemi sanitari, e che inoltre pongono

l’accento sull’importanza della responsabilità individuale rispetto al proprio cambiamento,

al proprio empowerment. Vengono fondati ad esempio gli Alcoholics Anonymous, con lo

scopo di aiutare le persone dipendenti dall’alcol ad allontanarsi dalla loro dipendenza.

Potremmo dire che il mutuo autoaiuto si occupa fondamentalmente di empowerment,

considerando questo termine nella sua accezione psicoterapeutica e psicologica di comunità

più che organizzativa.

La classica definizione di auto aiuto recita come segue: I Gruppi di auto aiuto sono piccole

strutture gruppali volontarie, per il mutuo aiuto ed il raggiungimento di obiettivi

particolari. Sono di solito formati da pari, che si sono uniti per assistersi reciprocamente e

soddisfare un bisogno comune, superando comuni handicap o problemi inabilitanti, e

puntando ad un cambiamento personale e/o sociale desiderato.

Gli iniziatori e i membri di tali gruppi percepiscono che i loro bisogni non possono essere

riconosciuti e risolti attraverso le istituzioni sociali esistenti. Accentuano le relazioni faccia

a e promuovono l’assunzione di responsabilità da parte dei membri. Spesso offrono sia

assistenza materiale sia supporto emotivo; frequentemente orientati sulla <<causa>> e

promulgano una ideologia e dei valori, attraverso cui i membri possano conseguire un

aumentato senso di identità personale (18).

L’azione dei Gruppi di mutuo auto aiuto coinvolge contemporaneamente il livello cognitivo,

conoscitivo, comportamentale della persona insieme a quello emotivo, affettivo, relazionale.

Il racconto della propria storia al resto del gruppo permette di trasformare la percezione

confusa delle proprie esperienze in un racconto chiaro per sé e per gli altri e condivisibile.

I progetti stabiliti dal gruppo sono impegni che ogni membro si assume nei confronti degli

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altri, e che gli permettono di dimostrare a se stesso di poter efficacemente affrontare i suoi

problemi, di essere empowered e contemporaneamente essere una persona che ha qualcosa

da offrire, avere l’opportunità di essere empowering.

3.1.2 I Gruppi Balint

Il Gruppo Balint è un metodo usato per l’addestramento al rapporto interpersonale per tutti

gli operatori sanitari e non (infermieri, assistenti sociali e insegnanti).

Il lavoro del Gruppo Balint consiste nello studio del controtransfert manifesto

dell’operatore, del modo cioè, in cui egli utilizza la sua personalità, la sua cultura, le sue

convinzioni scientifiche, le sue reazioni. Non è un gruppo di terapia, tantomeno un gruppo

di supervisione. È un gruppo che promuove e/o predispone, piuttosto, l’operatore a non agire

senza ascoltare e senza riflettere sulla relazione e sulle emozioni che prova nel momento in

cui il paziente chiede aiuto.

Balint, raccomandava, di lasciar stare l’analisi dei sintomi e quella dei complessi, e mettere

al centro delle preoccupazioni dell’analista ciò che caratterizza l’analizzando stesso: l’uomo

globale, la persona inserita nel suo ambiente, e quindi la sua individualità unica e

irripetibile(19).

Il metodo Balint si basa sulla partecipazione attiva dei componenti del gruppo e sulla

elaborazione dei vissuti portati da ognuno dei membri. Più che un ampliamento delle

conoscenze teoriche si ricerca una migliore conoscenza dei reali bisogni del singolo

paziente, spesso non esplicitamente dichiarati e, in particolare, si cerca di perseguire uno

sviluppo e un affinamento della capacità osservativa ed autosservativa del curante rivolta

alle proprie emozioni e ai propri comportamenti che sono attivati attraverso modalità consce

o inconsce dal paziente.

Il curante crede di operare senza tener conto che lui, come tutti, è notevolmente influenzato

dal suo stato d’animo e dalle risposte emotive suscitate dalla sofferenza, dalla lamentosità,

dalle proteste, dalla seduttività del paziente, ecc. Queste risposte emotive che sono così

comuni, così umane, che si danno per scontate e non fanno parte del campo osservativo del

curante, eppure giocano un ruolo importante per la compliance del paziente, nel suscitare

fiducia o sfiducia e nei risultati stessi della terapia. Tali sentimenti invece che costituire un

impedimento al successo della terapia possono essere presi in esame ed essere considerati

come espressione di modalità comunicative del paziente e ricevute, sottoforma di

sensazioni-emozioni-sentimenti e pensieri, da parte del curante.

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Il linguaggio usato nel gruppo non è tecnico ma il più possibile vicino a quello della vita

quotidiana.

L’apprendimento avviene attraverso l'esame delle esperienze effettuate e, poiché è

un’attività più formativa che informativa, può procedere solo lentamente, un po' per volta.

I membri del Gruppo Balint a turno presentano un proprio caso descrivendo gli incontri con

un paziente che li ha messi in difficoltà. In questo contesto non si vogliono spiegare le cause

e le dinamiche di una malattia ma si cerca il massimo della personalizzazione, i problemi e

le difficoltà implicite o esplicite di quella singola persona in quel dato contesto.

Dai risultati dell'interazione curante-paziente dipende spesso l’evoluzione del rapporto e

l'esito del trattamento terapeutico. E' dunque un modo di aiutare i professionisti sanitari a

riflettere sul proprio stile di relazione con i pazienti, permettendo di raggiungere una più

profonda comprensione di questi ultimi e dei loro reali bisogni. Diventano più sensibili e

recettivi utilizzando i propri sentimenti come strumento di conoscenza del paziente (10).

3.2 Teoria e pratica del Gruppo di narrazione.

“Narrarsi e rinarrarsi per creare e intrecciare sempre nuovi ponti di senso fra le molteplici

esperienze della nostra vita. Il narratore prende ciò che narra dalla sua esperienza e lo

trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia”.

Walter Benjamin

Il Gruppo di narrazione è uno degli strumenti della Metodologia Pedagogia dei Genitori, ha

la funzione di valorizzare e raccogliere le narrazioni degli itinerari educativi delle famiglie.

Partecipano i genitori e tutti coloro che sono interessati alla Metodologia: insegnanti,

studenti, educatori, amministratori, operatori sanitari, medici, giudici, assistenti sociali, ecc.,

portando la propria esperienza di come educano o di come sono stati educati.

Ogni partecipante racconta liberamente l’itinerario educativo compiuto come genitore, come

figlio o come operatore sanitario; la sua crescita, gli episodi più significativi, il carattere, il

comportamento, senza schemi prefissati, partendo da sé. Non vi sono dichiarazioni di ordine

generale, si narrano situazioni vissute e sperimentate.

I Gruppi di narrazione si attuano a livello territoriale nelle scuole (classe, gruppo di classi,

istituto), nelle associazioni, nelle parrocchie e negli enti dell’ambito sanitario.

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Nei Gruppi non vi sono conduttori o esperti: alcuni partecipanti si assumono la

responsabilità del buon funzionamento:

• illustrano i principi della Metodologia di Pedagogia dei Genitori

• garantiscono la continuità

• assicurano gli spazi e calendarizzano gli incontri

• sollecitano le presenze

• fanno in modo che ciascuno narri a turno senza esser interrotto

• raccolgono le narrazioni per eventuali pubblicazioni.

• Curano una relazione su quanto esposto nei gruppi, leggendola come continuità nella

riunione successiva, testimonianza del valore educativo delle riflessioni dei partecipanti.

I componenti dei Gruppi narrano oralmente gli itinerari di crescita, in seguito

• si invita chi ha narrato a scrivere quanto esposto

• le narrazioni vengono lette collettivamente e raccolte dai responsabili

• le riunioni proseguono su temi educativi scelti dai partecipanti, in cui ognuno narra

come li ha affrontati secondo la propria esperienza

• periodicamente il gruppo approfondisce le componenti teoriche della Metodologia

• a distanza di un certo periodo si aggiornano gli itinerari educativi

• i partecipanti presentano le narrazioni nelle istituzioni in cui sono nati i gruppi

(scuole, associazioni, parrocchie, enti sanitari ecc.)

• diffondono in ambito territoriale, a livello più vasto, gli itinerari raccolti come

testimonianza delle competenze educative genitoriali.

I Gruppi di narrazione permettono ai partecipanti di acquisire la consapevolezza delle

competenze educative dei genitori e degli operatori sanitari e della necessità della loro

valorizzazione.

La narrazioni hanno valore sociale: la loro pubblicazione e diffusione sono testimonianza di

cittadinanza attiva, rendono visibile il capitale sociale costituito dall’educazione familiare e

sanitaria e strumento di professionalità per gli esperti che si occupano di rapporti umani.

Le riunioni periodiche dei Gruppi di narrazione permettono la costruzione di reti territoriali

di genitorialità collettiva e l’attuazione del patto intergenerazionale.

Alla base della metodologia del gruppo vi è la dinamica della narrazione. Ciascuno dei

genitori all’inizio presenta oralmente o per iscritto il proprio figlio, mentre gli operatori

sanitari (infermieri) raccontano un paziente che ricordano in maniera particolare; nelle

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riunioni che seguiranno raccontano anche le scelte fatte in ordine agli argomenti individuati

collettivamente. Non dà indicazioni astratte o generiche, il sapere che circola nei Gruppi di

narrazione è un sapere situato, radicato in una realtà vissuta e conosciuta.

Ognuno dà testimonianza di sé e della propria vita. Il vissuto e la narrazione sono collegate:

la vita si esprime nel racconto che permette di proporre particolari concreti, episodi reali,

legati dal filo costituito dall’esistenza della persona. La narrazione permette di esprimere il

proprio percorso umano secondo la propria consapevolezza: ognuno narra quanto conosce.

Non vi sono generalizzazioni astratte, ma un sapere contestualizzato, testimoniato,

verificato.

Ognuno sceglie consapevolmente quello che vuole esporre, ne decide l’ordine, gli episodi

che ritiene significativi per sé e per gli altri, autentica con la propria vita quanto esprime. Ne

è l’autore e come tale viene riconosciuto.

Chi ascolta lo fa con interesse, senza interrompere e soprattutto senza interpretare, non si va

al di là di quanto uno afferma. Le narrazioni non sono indizi in base ai quali fare congetture

o formulare giudizi. Vi è pieno rispetto per il racconto di vita che fa crescere chi narra e chi

ascolta. Vi è il valore della reciprocità: chi ascolta si trasformerà a sua volta in narratore e

pretenderà lo stesso rispetto col quale ha ascoltato.

La reciprocità garantisce un rapporto paritario. La narrazione nutre la coscienza di chi

partecipa. Chi assiste valorizza chi parla, lo legittima, gli dà forza, tanto più se si tratta di

un’attenzione collettiva. L’effetto è di empowerment. Sentirsi ascoltato, capito, crea fiducia.

Permette di organizzare i pensieri, dar ordine nella proprio storia, porvi un sigillo personale.

Questa formazione di rappresentazione proposta dalle famiglie si ottiene tramite la

presentazione del figlio con gli occhi dei genitori, chiamato Con i nostri occhi, uno degli

strumenti della Metodologia Pedagogia dei Genitori. La dimensione empatica proposta dalla

narrazione si trasferisce agli esperti. La visione evolutiva caratterizzante l’itinerario

educativo si compone come strumento professionale. Tramite il racconto dell’itinerario

educativo si imparano a vedere le sfaccettature di una personalità prodotte dalla sua storia.

Non è stata necessaria una preparazione per permettere ai genitori la rappresentazione del

figlio, abilitarli a raccontarlo. Questo processo l’hanno compiuto infinite volte nella

quotidianità. La loro genitorialità è stata una continua abilitazione alla presentazione del

figlio. E’ nata con i sogni fatti durante l’attesa e la loro concretizzazione dopo la nascita. Il

rapporto col figlio e con l’ambiente presuppone continue azioni rappresentative non solo in

termini di immaginazione personale ma anche di comunicazione dell’immagine del figlio

agli altri. L’azione del genitore è di presentarlo al mondo, darne una rappresentazione

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sociale. Esercitano questa funzione con i parenti, gli amici, in situazione relazionale vicina,

ma anche in termini più vasti e ufficiali. La dichiarazione all’anagrafe, il battesimo,

l’iscrizione alla scuola dell’infanzia costituiscono continui interventi di presentazione.

Il sapere dei genitori non è riconosciuto socialmente, non è presente nella preparazione dei

professionisti che si occupano dei loro figli, la loro descrizione spesso viene richiesta con

l’importanza e il peso che le compete. Avviene in modo burocratico, spesso è laterale

rispetto ad altre conoscenze. Darne una sistemazione scientifica che venga accolta dagli

esperti è compito della Metodologia in modo che ciò che si realizza in modo episodico,

avvenga in modo preciso e sistematico.

La formazione proposta agli esperti secondo i principi della Metodologia fornisce loro una

visione individualizzata dei figli e contemporaneamente propone strumenti per una migliore

rappresentazione dei soggetti che incontrano in ambito professionale. Apprendono dai

genitori strumenti funzionali ad una maggiore personalizzazione, la capacità di esprimere

emozioni e sentimenti indotti dall’incontro con una persona. Comprendere e rappresentare la

propria esperienza è utile a comprendere e rappresentare l’esperienza altrui. E’ funzionale ad

un processo di riflessione, di meta cognizione anche sulla propria professionalità. Permette

di uscire dagli schemi e dalla routine, passare da una rappresentazione degli altri mediata

attraverso oggettivazioni e stereotipi ad una visione dinamica ed evolutiva. Gli itinerari

educativi dei genitori sono strumento di complessità; una persona viene osservata nelle sue

mille sfaccettature. Si tratta di un paradigma induttivo collegato ad una visione funzionale al

patto educativo con la famiglia (11).

3.3 Il Gruppo di narrazione in ambito educativo.

Il Gruppo di Narrazione in ambito educativo viene attuato per valorizzare le competenze

educative dei genitori e realizzare il patto educativo scuola-famiglia.

L’ambito educativo si sviluppa all’interno della scuola oppure nelle associazioni e ha una

serie di caratteristiche che dipendono dalla specificità degli ambiti e delle funzioni.

I Gruppi di narrazione organizzati nelle scuole rivestono un valore particolare. La scuola è

luogo dell’istruzione e dell’educazione e si collega all’ambito familiare. I Gruppi di

narrazione in questo ambito sono specifici al patto educativo tra docenti e genitori che hanno

in comune la crescita umana dei figli alunni. Tema fondamentale e terreno d’incontro è

quello della genitorialità che unisce docenti e genitori. Il centro è quello della formazione in

ambito familiare e dell’itinerario narrativo dell’educazione.

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Attualmente le maggiori agenzie educative, scuola e famiglia, sono oggetto di campagne

diffamatorie da parte dei media, che devono diffondere consumismo tra le giovani

generazioni. Funzione pedagogica di genitori e insegnanti è quella di opporsi ai desideri

sfrenati per costruire non solo teste ben fatte ma anche personalità in grado di saper

scegliere.

I Gruppi di narrazione sono strumento di alleanza educativa tra scuola e famiglia.

L’istituzione scolastica che adotta la Metodologia Pedagogica dei Genitori li inserisce tra le

sue attività, proponendoli al Collegio Docenti in modo che gli insegnanti li possano

scegliere.

La scuola è la Piazza del Terzo Millennio, il luogo in cui tutti si ritrovano nonostante

religioni o etnie diverse, è il luogo della riconciliazione, in cui una comunità racchiude

quanto più ha di prezioso: il proprio futuro. E’ il luogo in cui, più di ogni altro è necessaria

la concentrazione tra gli adulti di riferimento: genitori e insegnanti. E’ il luogo in cui si

rimane più a lungo: negli istituti comprensivi i figli possono rimanere anche undici anni.

I Gruppi di narrazione sono occasione di collegamento: le famiglie si trovano seguendo la

metodologia illustrata nel riquadro per raccontare i loro figli, prima oralmente poi per

iscritto. I docenti partecipano come genitori o come figli. Una volta tanto non sono più i soli

responsabili di una situazione educativa. Si realizza una dinamica paritaria in cui vengono

accolti e capiti nelle loro problematiche familiari con una dimensione umana che favorisce il

patto educativo.

Le narrazioni dei percorsi di crescita e la presentazione dei figli creano una situazione di

necessario collegamento. Dopo le riunioni i figli degli altri avranno un volto diverso, più

familiare, sono stati descritti con gli occhi dei loro genitori. Le presentazioni sono strumento

di delega educativa al gruppo: questo è nostro figlio con i suoi pregi e i suoi difetti, anche

voi ve ne potete occupare.

E’ un modo per ovviare alla solitudine delle famiglie, dovuta anche ad un malinteso senso di

proprietà dei figli. Non si accetta l’educazione collettiva che avveniva nella famiglia

allargata e nella comunità di villaggio. Attualmente se un bimbo si comporta male e un

estraneo lo riprende i genitori spesso si offendono e non accettano la condivisione delle loro

responsabilità.

Nei Gruppi di narrazione vi è la possibilità di intessere rapporti duraturi che preparano una

genitorialità diffusa. Le presentazioni dei figli vengono raccolte in una pubblicazione

trasmessa a tutte le famiglie della classe. Le riunioni continuano su temi temi decisi assieme,

ogni genitore narra le proprie scelte contribuendo ad arricchire le soluzioni educative degli

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altri. Non si parte dai problemi o dalle emergenze in quanto dagli elementi positivi e dalla

crescita. Si sviluppa una narrazione fondata sull’evoluzione umana e sulle tappe di sviluppo

significative che hanno permesso il superamento delle situazioni difficili. Tutti gli argomenti

hanno una specificità legata alla cura e all’educazione delle giovani generazioni. Si

costituisce così una rete intergenitoriale che diventa modello sociale e si diffonde a livello di

territorio.

Nelle classi finali delle medie e delle superiori il Gruppo di narrazione di classe diventa

strumento per il patto intergenerazionale: i genitori leggono ai figli-alunni le loro

presentazioni. Questa riunioni hanno un forte impatto educativo ed emotivo, molti ragazzi,

dopo aver ascoltato assumono un miglior comportamento a casa e a scuola, l’attuazione

della strategia della fiducia produce i suoi frutti.

I Comuni spesso promuovono la Metodologia Pedagogia dei Genitori, consapevoli della

necessità di valorizzare l’impegno dei cittadini come capitale sociale, creando occasioni di

solidarietà educativa, riprendendo la vocazione pedagogica propria di ogni comunità e della

sua amministrazione.

Il Gruppo di narrazione in ambito educativo ha lo stesso scopo di quello riguardante

l’ambito sanitario. Il campo comune è quello delle scienze umane e l’ambito è quello

formativo, la costruzione della personalità. Argomento principale è quindi la crescita del

figlio alunno proposta in una dimensione storica e vista in termini pedagogici. Denominatore

comune rispetto alle narrazioni in ambito sanitario non è solo la dinamica fondata sulle

regole specifiche della dinamica del Gruppo di narrazione, ma anche partire dal concreto e

proporre situazioni vissute in prima persona. Anche in quest’ambito è fondamentale

l’assenza di giudizio e l’atmosfera di empatie e condivisione che determinano la possibilità

di esprimersi senza timori, dato che l’assenza di conduttore e di interpretazione permetto

l’esprimersi diretto.

3.4 Il Gruppo di narrazione in ambito sanitario.

La Metodologia Pedagogia dei Genitori viene inserita nella formazione riguardante il

personale sanitario, proposta tramite le Narrative Based Medicine (NBM).

Il Gruppo di Narrazione in ambito sanitario si realizza in ambito formativo in:

• Corso di laurea in Scienze Infermieristiche, insegnamento di pedagogia generale e

sociale.

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• Corsi in ambito elettivo.

In ambito professionale:

• Corsi di formazione proposti dall’IPASVI.

• Gruppi di Narrazione a livello di reparto.

Finalità

• Rendere il personale sanitario consapevole della propria dignità professionale.

• Attribuire maggior coesione allo staff all’interno della strutture (ospedaliere, di

territorio, ecc.) con una maggiore relazionalità basata sulla consapevolezza del proprio

valore e sulla conoscenza reciproca.

• Sottolineare i momenti di interazione positiva coi pazienti basati su empatia e

condivisione.

• Fornire elementi di qualità fondati sulla relazione coi pazienti e con i colleghi

• Sottolineare l’importanza della relazione malato-personale sanitario

• Mettere in luce il valore professionale dell’empatia e della condivisione

• Rendere consapevole il personale infermieristico della dignità della propria

professione

• Acquisire materiale documentario per precisare nel concreto la professionalità

infermieristica

• Fornire strumenti per valorizzare la professione e verificare la qualità degli interventi

• Sottolineare l’importanza della relazionalità paziente-infermiere e migliorarne la

qualità

• Metter in luce buone prassi nella quotidianità e nella relazionalità sanitaria

• Far emergere situazioni di eccellenza

• Diffondere a livello sociale un’immagine della professione che tenga conto degli

standard relazionali esistenti

• Promuovere una cultura della valorizzazione delle buone prassi

• Migliorare l’immagine della professione attraverso situazioni concrete

• Sottolineare l’importanza della qualità relazionale tra colleghi e coi pazienti

• Proporre l’identità di una struttura fondata sulla narrazione delle esperienze del

personale

• Favorire la circolazione delle buone prassi tramite la narrazione delle esperienze del

personale

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• Creare strumenti di condivisione sociale del carico emotivo e umano prodotto dalla

situazione sanitaria

• Fornire strumenti per proporre dati di qualità nella relazione

Argomenti

Un Gruppo di narrazione attuato in ambito sanitario nello specifico di un reparto focalizza i

racconti sulla relazione col paziente, il primo tema è: “Un malato che non dimenticherò

mai”.

La narrazione viene compiuta oralmente. Nell’incontro successivo i partecipanti leggono lo

stesso racconto ma messo per iscritto. Questa operazione permette di mettere a fuoco la

relazione, arricchirla di particolari, aggiungere situazioni. Dal punto di vista comunicativo vi

è grande differenza tra l’esposizione orale e quella scritta: la prima è diretta ed

emotivamente connotata, mentre la seconda è più riflessa, sorvegliata. La scrittura permette

inoltre di avere una testimonianza che rimane consultabile, che può essere diffusa col

permesso dell’autore.

Lo specifico del tema riguarda la centralità del malato, l’importanza della relazione e

soprattutto lo scambio relazionale che avviene, la muta crescita. Il non dimenticare un

malato significa sottolineare come un rapporto significativo con un malato, paradigma per

tutti i rapporti che a questo devono tendere, deve essere paritario.

Un secondo argomento, specifico per un Gruppo di narrazione condotto all’interno di un

reparto, riguarda Un malato che non dimenticherò mai. Focalizzando l’attenzione sulla

figura di un paziente che la maggior parte dello staff ha conosciuto. Tutti narrano la loro

relazione con lui, si compone la somma degli interventi umani all’interno del reparto.

Emerge inoltre la specificità del reparto, la sua anima relazionale, la ricomposizione delle

narrazioni attorno ad un’unica figura di paziente, ricompone anche l’attività di tutti gli

operatori in una dimensione relazionale. Anche queste narrazioni vanno inoltre trasformate

in racconti scritti. Si forma un patrimonio comune, una memoria collettiva che crea identità

di reparto e dei singoli operatori. Tutti concorrono alla realizzazione di un obiettivo comune.

Collettivamente i partecipanti del Gruppo di narrazione scelgono assieme una serie di

argomenti narrativi che toccano situazioni emblematiche non necessariamente

problematiche, funzionali alla crescita della relazionalità, della stima e della dignità degli

operatori.

Le storie personali di vita una volta emerse e comunicate testimoniano il valore di tutte le

persone.

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La narrazione in ambito sanitario ha aspetti in comune con quella in ambito educativo. Si

parte sempre dall’interrelazione stretta tra cura e crescita che possono essere collegate in una

definizione che accomuna i due ambiti: “italico”. Superamento dei momenti di crisi tramite

una mediazione. La differenza deriva dal fatto che i compiti e la struttura dove avvengono le

narrazioni a carattere sanitario è completamente diversa. Si parte da un’emergenza e da una

situazione che non ha i tempi distesi di quella scolastica. La narrazione in ambito sanitario

spesso si svolge in strutture ospedaliere che hanno la caratteristica di essere “istituzioni

totali” cioè coinvolgere tutto l‘arco della giornata della persona. Inoltre vi è la possibilità di

una reciprocità maggiore, dato che tra infermiere e paziente normalmente vi è un’adultità

che permette una relazione diversa da quella in ambito scolastico. E quindi la possibilità di

affiancare alla narrazione del personale sanitario quella del paziente, sempre che ne abbia la

possibilità. Il tema ricorrente è quello di una relazionalità che non ha la quotidianità di

quella educativa ed è legata ad una situazione difficile da risolvere. Proprio per questo la

narrazione in ambito sanitario è preziosa perché risolve il rapporto in una determinante

quotidiana che rende più distesa la relazione. Anche in questa situazione vi è la possibilità di

un incontro tra persone e soprattutto di esprimere una relazionalità che proprio per questo

diventa più sicura e padroneggiabile.

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Capitolo 4 Una ricerca qualitativa sui materiali narrativi 4.1 Scopo dell’indagine

L’obiettivo dell’indagine è stato quello di esplorare le esperienze dei genitori e degli

infermieri nel rapporto che hanno rispettivamente con i propri figli e pazienti, e di analizzare

le percezioni emerse dai loro racconti a partire dai materiali prodotti nei Gruppi di narrazione.

In particolare evidenziare vissuti e sensazioni provate dai genitori all’interno del percorso di

crescita dei figli e dagli infermieri nel loro rapporto con i pazienti e di dare consapevolezza a

loro stessi e a chi li ascolta.

Tutto ciò per valorizzare questi due ambiti nella loro diversa prospettiva come risorse nella

formazione infermieristica.

4.2 Caratteristiche del campione

Per questo studio è stato preso in esame materiale narrativo prodotto da genitori durante

alcuni incontri organizzati in diverse scuole elementari e medie di Pianezza e Collegno in

provincia di Torino. Ogni Gruppo di narrazione era costituito da genitori i cui figli

frequentavano la stessa sezione. Almeno un genitore di ogni gruppo aveva un figlio disabile. I

gruppi erano composti in maggioranza da sole madri. In media ogni gruppo era composto da

una decina di genitori. Vi partecipavano anche le maestre e le professoresse che si narravano

come genitori.

Il campione è stato di tipo propositivo. Di queste narrazioni ne ho selezionate e prese in

esame cinque, chiedendo il consenso dei genitori. I criteri di inclusione comprendono

l’estensione delle narrazioni di almeno una pagina e la significatività dei contenuti espressi

rispetto al mandato.

Sono state poi prese in esame narrazioni di infermieri che lavorano attualmente presso

la struttura complessa di Neurologia dell’ospedale di Aosta.

Per quanto riguarda la raccolta delle narrazioni degli infermieri è stata utilizzata la stessa

procedura delle narrazioni dei genitori. Qui, però, ho potuto partecipare ad un solo incontro

organizzato con gli infermieri dell’ospedale di Aosta. Le infermiere, tutte donne, che hanno

partecipato al gruppo erano otto. Di queste narrazioni ne sono state raccolte e analizzate

quattro. Non è stato possibile recuperare ulteriori narrazioni per completare la raccolta.

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Ad ognuno di loro è stato chiesto di narrare l’esperienza avuta con un paziente che le ha

particolarmente colpite. “Un malato che non dimenticherò mai” è il titolo assegnato a queste

narrazioni, proprio perché la raccolta comprende dei ricordi indimenticabili che hanno anche

segnato la crescita professionale di ognuna di loro.

4.3 Materiali e metodi

Il metodo che ho utilizzato è quello della ricerca qualitativa partecipata. Questa si fonda sul

riconoscimento della dignità e sulle potenzialità in termini costruttivi delle risorse culturali,

materiali e psicologiche presenti anche nelle parti più “sommerse” della comunità (20).

Una ricerca partecipata in quanto ho preso parte personalmente ai Gruppi di narrazione dei

genitori e degli infermieri narrando in prima persona la mia esperienza come figlia e come

studente infermiera.

In questa ricerca l’approccio analitico delle narrazioni è basato sull’analisi qualitativa del

contenuto, la Qualitative Content Analysis, il cui obiettivo è quello di descrivere e far

emergere un fenomeno e quindi raggiungere l’affidabilità, la credibilità e la trasferibilità

dell’oggetto preso in esame (21).

L’analisi inizia con la lettura, più volte, di tutto il testo per raggiungere l’immersione e

ottenere un quadro generale. Poi vengono lette attentamente le frasi parola per parola per

ricavare dei codici o delle categorie. La categoria può essere assegnato a oggetti, eventi o

altri fenomeni.

Analisi dei dati

Si evidenziano le parole significative del testo ricche di pensieri e concetti, che

successivamente vengono inseriti in una tabella e suddivisi in categorie. La tabella quindi

deve contenere: l’unità di significato, l’unità di significato condensato ed la categoria. (22)

Di seguito viene riportato un esempio:

UNITA’ DI SIGNIFICATO UNITA’ DI SIGNIFICATO

CONDENSATO

CATEGORIA

E’ imprevedibile per così dire, non si può mai essere sicuri di niente.

Un’imprevedibile ed incerta situazione.

INCERTEZZA

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4.4 Risultati

La maggior parte dei genitori e degli infermieri che hanno preso parte ai Gruppi di narrazione

si sono aperti al gruppo senza imbarazzo, lasciando trasparire i loro sentimenti.

Sono state realizzate due tabelle, una per le narrazioni dei genitori e l’altra per quelle degli

infermieri.

Dall’analisi dei testi narrativi dei genitori sono state individuate cinque categorie (tabella 1):

• SPERANZA/FIDUCIA. La speranza e la fiducia nel vedere crescere ed evolversi un

figlio.

• ANSIA/TIMORE. Il timore che succeda qualcosa di spiacevole ad una persona a noi

cara.

• SENSO DI IMPOTENZA/SCONFORTO. Lo sconforto che ci assale nel non sapere

cosa fare ed il senso di impotenza nel sentirsi inutili.

• EMPOWERMENT/DETERMINAZIONE. Il ricevere la forza ed il coraggio per

affrontare una situazione difficile e quindi sentirsi determinati a combatterla.

• EMPATIA. L’empatia per sentire cosa prova una persona a noi vicina. Tabella 1: NARRAZIONI GENITORI

UNITA’ DI SIGNIFICATO UNITA’ DI SIGNIFICATO CONDENSATO

CODICE

(…), dopo domani camminerà, correrà, giocherà a calcio, diventerà un pilota.[NARR. 1]

In futuro potrà realizzare tutti i suoi sogni.

Ma io sono sicura che con l’aiuto delle maestre,di mamma e papà e grazie alla tue voglia di imparare, riusciremo a superare tutti gli ostacoli e tutti quelli che troverai durante la tua crescita. Vedrai che ce la fai.[NARR. 2].

Sono sicura che riusciremo a superare tutti gli ostacoli.

Sei un po’ lenta e cammini come una paperina, ma cresci a vista d’occhio e pensiamo che sicuramente non sai gestire quei centimetri in più che ti ritrovi. [NARR. 3]

Sicuramente riuscirai a camminare normalmente.

SPERANZA/FIDUCIA

Sicuramente sei cresciuta molto ed hai imparato a mediare, smussando alcuni aspetti del tuo forte carattere e cercando di andare incontro agli altri. Noi siamo molto soddisfatti dei progressi che hai fatto e

Sicuramente ci renderai orgogliosi.

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sicuramente siamo felici di come stai crescendo.[NARR. 4]

Il futuro non ci è chiaro e come tutti ti troverai ad affrontare le fatiche della vita, della famiglia o delle varie faccende quotidiane, ma questo nostro essere uniti e volerci bene deve essere il “balsamo” che ci fa sperare.[NARR. 5]

La nostra unione ci dà speranza.

SPERANZA/FIDUCIA

(…), quel mattino aveva qualcosa di strano che non mi rendeva tranquilla, avevo uno strano presentimento.[NARR. 1]

Uno strano presentimento: che cosa sta accadendo?

ANSIA/TIMORE

Il mio sconforto era tale che un giorno mi accorsi di non avere neanche più il latte, fu allora che mi sentii del tutto inutile, impotente di fronte a questa situazione così grave.[NARR. 1]

Anche le ultime risorse personali vengono meno.

Non sapevamo come fare: non volevo lasciarti tutto il giorno solo (…). Mi sentivo divisa in due. [NARR.2]

Non sapere cosa fare. SENSO DI IMPOTENZA/SCONFORTO

Un pugno nello stomaco naturalmente sarebbe stato preferibile(…). Abbiamo fatto tutto quello che sapevamo, adesso siamo qui, impotenti, (…), arrabbiati.[NARR.3]

Abbiamo fatto tutto quello che sapevamo.

Decisi di assumermi la responsabilità e firmai per rimanere lì, avevo la sensazione che l’avrei perso se l’avessi abbandonato anche solo per poche ore.[NARR.1]

Prendere una decisione.

Mi è tornato il latte, (…), smisi di rispondere alle varie telefonate perché il mio obiettivo era solo lui. Volevo riuscire a comunicargli la mia piena fiducia e dimostrargli che gli ero vicina, la sua mamma ora sapeva che ce l’avrebbe fatta.[NARR.1]

Ricevere forza e coraggio.

EMPOWERMENT/DETERMINAZIONE

Un’infermiera dopo avermi ascoltata mi ha messo una mano sulla spalla mi ha detto:”La cosa importante è che lei si rimetta in forma perché avrà tanto da fare”.[NARR. 3].

Spronare a rimettersi in forma.

La mia più grande consolazione sei comunque proprio tu, perché oltre a vedere tutte le tue difficoltà vedo anche la tue sicurezze. [NARR.3]

Ma proprio tu riesci a darmi la più grande consolazione.

L’unica cosa che riuscivo ancora a fare era di tenermi vicino il suo corpicino, fargli sentire il mio calore, il mio odore.[NARR. 1]

Non farlo sentire abbandonato.

Solo un genitore, ma soprattutto EMPATIA

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una madre può capire cosa significa vedere il proprio figlio soffrire, vedere i suoi occhi terrorizzati che cercano conforto nei tuoi, vorresti riversare tutto il suo dolore su di te.[NARR.1]

Immedesimarsi nei panni di un altro.

Si rapporta con il contatto fisico soprattutto con il viso, si rassicura toccandolo ed accarezzandolo, (…).[NARR. 1]

Rassicurarlo con il contatto fisico.

EMPATIA

Non mi bastava vederti solo un’ora; volevo darti il latte, farti le carezze, sentire il tuo respiro, il tuo cuore, farti sentire che non ti avevo abbandonato. [NARR. 2].

Non farlo sentire abbandonato.

Dall’analisi delle narrazioni degli infermieri sono emerse quattro categorie (tabella 2):

• SPERANZA/FIDUCIA. La speranza e la fiducia nel veder star meglio una persona

di cui ci prendiamo cura.

• SENSO DI IMPOTENZA/SCONFORTO. Lo sconforto che ci assale nel non sapere

cosa fare e l’impotenza nel sentirsi inutili.

• EMPATIA. L’empatia per sentire cosa prova una persona a noi vicina.

• FIDUCIA IN SE’ STESSI. Quando ci si trova di fronte ad esperienze difficili si

impara ad affrontarle e a guadagnare fiducia in sé stessi.

TABELLA 2: NARRAZIONI INFERMIERI

Vera non si rassegnava, non voleva essere malata.[NARR. 1]

Non si rassegnava SPERANZA/FIDUCIA

Entrammo subito in un rapporto di intesa, diventai la sua confidente.[NARR. 3]

Diventai la sua confidente FIDUCIA

(…)a momenti di profonda depressione quando si ricordava che le gambe non la tenevano più su.[NARR.1]

Profonda depressione

Cosa potevo dire? Non avrei potuto rassicurarla o dirgli “tanto guarirai”. [NARR.1]

Cosa dire? Cosa fare? IMPOTENZA/SCONFORTO

Mi sono messa a piangere, sono immobile, non riesco a darmi una spiegazione, un perché. [NARR. 2]

Non riesco a darmi una spiegazione.

(…)la malattia la stava consumando di giorno in giorno e io non sapevo che fare per lei.[NARR.3]

Non sapevo che fare per lei

Io ero Vera nel sogno, ero lei e avevo bagnato il letto! [NARR.1]

Io ero Vera

(…)in quel momento avevamo entrambe le lacrime agli occhi. NAR.3

Sentire ciò che prova l’altra persona.

EMPATIA

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(…) ho capito che Lili si sentiva sola, non aveva nessuno al mondo. [NARR.4]

Questa esperienza mi ha dato maggiore sicurezza. [NARR. 2]

Imparare dalle esperienze

(…) partendo da questa vicenda sono riuscita ad affrontarle con più serenità e fiducia in me stessa. [NARR.3]

FIDUCIA IN SE’ STESSI

4.4 Discussione

Nell’analisi delle narrazioni dei genitori la categoria emersa con più forza in tutti e cinque i

testi è quella della speranza/fiducia: la speranza è legata alla dimensione umana dei genitori.

L’essere che viene concepito è parte di loro ed è diverso da loro. Si rendono conto della sua

importanza. Il suo evolversi, il crescere con loro e da loro propone il senso dell’evoluzione,

dello sviluppo. Sono proiettati verso il futuro, non possono non pensare a lui, a come sarà, a

cosa farà. Dialogano con lui. I genitori si sentono base dalla quale emerge il futuro essere.

Speranza significa crescita e superamento delle difficoltà, investimento e tensione verso

un’evoluzione che non può avvenire senza fatica.

La speranza dei genitori si misura sul figlio, sulle sue capacità, sulla necessità di andare oltre,

di superare le difficoltà. I racconti di queste mamme, che narrano i loro figli, sono intrisi di

speranza. L’amore e la forza di queste mamme sono il motore che le alimenta. La speranza,

che si proietta verso il futuro, si collega alla fiducia che, invece, ha il ritmo continuo della

quotidianità. Essa è legata alle scelte ed alle forze che il bambino mette in campo. Le capacità

sono nutrite e rafforzate da un rapporto diretto, la fiducia del genitore non solo sostiene le

potenzialità del figlio, ma le fa nascere. I genitori lo conoscono meglio di qualsiasi di

qualsiasi altra persona e il loro sostegno e approvazione hanno un peso incomparabile.

Dalla spontaneità e dalle verità di queste narrazioni emerge con forza che sono i genitori,

seppur affaticati dall’affrontare situazioni difficili, i primi a credere che il proprio figlio è

capace di avere una vita degna di essere vissuta e capace di essere fonte di gioia e di

soddisfazioni per chi lo ama.

La fiducia dei genitori permette a quel figlio di raggiungere traguardi che all’inizio erano così

lontani da sembrare irraggiungibili (11).

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Un’altra categoria emersa con forza ma non in tutte le analisi delle narrazioni è il senso di

impotenza/sconforto: i genitori, di fronte a una sconfitta o a una difficoltà molto grave,

vengono presi dallo sconforto e dal senso di impotenza. Tutto questo è dato da un cedimento

interiore, una scomparsa dello slancio vitale, la perdita della speranza. I genitori che vedono i

propri figli colpiti dalla malattia crollano, non sanno cosa fare per aiutarli. A volte lo

sconforto e il senso di impotenza sono meccanismi di protezione. E così tornano ad essere

capaci di sperare e di essere fiduciosi quando tutto sembra perduto (11).

Ritrovate le forze, dopo lo sconforto ed il senso di impotenza, compare un’altra categoria

individuata nelle analisi; quella dell’empowerment e della determinazione: il potenziamento

personale per utilizzare al meglio le proprie capacità, risorse, energie, potenzialità; sentirsi

protagonisti della propria vita e del proprio lavoro; saper prendere decisioni e sapere come

reagire anche in presenza di situazioni che sembrano impossibili da affrontare; così i genitori

combattono con determinazione per la salvaguardia dei propri figli; e sono proprio questi

ultimi a dargli la forza di reagire e di andare avanti senza abbattersi. Anche il rimprovero di

una persona con cui siamo a contatto può scatenare questa reazione di rafforzamento

personale. In questo caso l'empowerment può aiutare le vittime a ricostruire il controllo sulla

propria vita e ad immaginare un futuro alternativo all'esistente, a progettare e a mettere in

opera delle soluzioni, tornando ad essere responsabili del proprio destino.

Avere potere su se stesso, sentirsi ed essere efficace, avere la consapevolezza di potere

incidere sugli eventi, godere di una buona autostima, ecc., sono parte di una condizione che

rappresenta un cammino che favorisce la speranza nel futuro e che permette di percepirsi

come persone capaci di cimentarsi e riuscire. Empowered non è una persona che ha raggiunto

tutti i suoi obiettivi, una persona arrivata, una persona «di potere», ma qualcuno/a capace di

affrontare la vita e le sue sfide, capace di attraversare successi e insuccessi mantenendo saldo

il potere su se stesso/a e arricchendo quotidianamente il suo «potere con l'altro».

La categoria dell’empatia compare in due narrazioni, quelle scritte da genitori di figli disabili.

La genitorialità si trasforma in costruzione di empatia, di identità. Questa empatia nasce nello

stare accanto al figlio, nel farlo sentire protetto, amato. Il genitore si immedesima in ciò che il

proprio figlio sta provando soprattutto in condizioni di disabilità. Non vuole farlo sentire

abbandonato ma lo rassicura con la sua continua e costante presenza. I genitori si

riconoscono in lui celebrandone l’unicità, sinonimo di bellezza, quella del suo essere nel

mondo come diversità. Ogni mamma pensa che il proprio figlio sia il più bello del mondo ed è

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questa la marcia per investire nei figli quell’amore che permette e determina l’identità di

ciascuno.

L’empatia della famiglia scatta in particolare in situazioni dove dovrebbero esserci rifiuto,

mancanza di accettazione. I genitori non rimangono impassibili di fronte alla diversità del

figlio, appartengono anche loro alla società, non possono esserne colpiti, soffrirne. E’ la figura

genitoriale esterna che propone al bimbo l’idea di persona che in seguito riconoscerà come

propria (11).

In una sola narrazione compare la categoria ansia/timore: questi sentimenti nascono dalla

paura che possa succedere qualcosa di brutto ad una persona a noi cara, soprattutto ad un

figlio. Un genitore che vede il proprio figlio soffrire viene invaso da questa sensazione, che,

come nel senso di impotenza e sconforto, compare quando siamo di fronte ad una situazione a

noi del tutto sconosciuta, che pensiamo di non saper affrontare. “Cosa sta succedendo?”. Il

genitore è invaso da una strano presentimento, di negatività. Questa condizione emerge solo

in una narrazione, perché solitamente i genitori hanno una visione positiva di ciò che gli

aspetta.

Nell’analisi delle narrazioni degli infermieri, la categoria che emerge con più forza è quella

del senso di impotenza/sconforto e compare una nuova categoria, quella della fiducia in sé

stessi.

4.5 Conclusioni

Durante il lavoro, sono entrata contatto con le narrazioni di genitori ed infermieri riuscendo

ad esplorare a fondo le loro esperienze con figli e pazienti ed evidenziando vissuti e

sensazioni provate da ognuno di loro.

Nell’analisi delle narrazioni degli infermieri la categoria che emerge in maggioranza è quella

del senso di impotenza/sconforto mentre la categoria fiducia/speranza appare in maniera

debole. Questi dati potrebbero indicare il fatto che gli infermieri abbiano una visione più

negativa rispetto al rapporto del prendersi cura di una persona. Nonostante siano “abituati” a

convivere con realtà drammatiche e dure, sono invasi da sentimenti di impotenza e sconforto.

Da quanto emerge dall’analisi delle narrazioni, però, si può affermare che alcuni infermieri

considerano gli insuccessi come momenti di apprendimento, che portano il curante ad avere

più fiducia in sé stesso.

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Questa metodologia dà spazio ai pensieri di questi due ambiti, in particolare degli infermieri,

di cui si hanno poche testimonianze.

Lo studio è stato condotto su un numero più ampio di narrazioni di genitori e su un piccolo

campione di infermieri. Ancora non si possono comprendere del tutto quali siano le

percezioni provate dagli infermieri con più forza.

Lo studio potrebbe essere esteso ad un campione più ampio per indagare in maniera più

profonda sulle esperienze degli infermieri.

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4.7 Bibliografia

5 Evans M. Reflections on the humanities in medical education. Medical Education 2002;

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6 Greaves D. The nature and the role of medical humanities. Medical Humanities 2001; 26(1):

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7 Bleakley A., Marshall R., Bromer R. Toward an aestethic medicine: developing a core

medical humanities undergraduate curriculum. Medical Humanities 2006; 27(4): 197-213.

8 Zannini L. Medical humanities e medicina narrativa: nuove prospettive nella formazione dei

professionisti della cura. Raffaello Cortina Editore 2008; 147-8.

9 Charon R. Narrative Medicine: Honoring the Stories of Illness. Oxford University Press

2006.

10 Donati P. Manuale di Sociologia della famiglia. Laterza 2004.

11 Artioli G. Amaducci G. Narrare la malattia. Nuovi strumenti per la professione

infermieristica, Carocci faber 2007.

12 Moletto A., Zucchi R. Seogni genitore è un po’ pedagogista. Animazione sociale. Edizioni

Gruppo Abele 2005.

13 Nussbaum M. L’intelligenza delle emozioni. Il Mulino 2004.

14 Don Milani L. I care (lettera di don Milani ai giudici). Barbiana 1965.

15 Sito Pedagogia dei genitori: http://pedagogiadeigenitori.interfree.it.

16 Wiclam-Searl P. Mothers with a Mission. Columbia University 1992.

17 Don Ciotti L. Persone non problemi. Edizioni Gruppo Abele 1994.

18 Donghi P., Preta L. In principio era la cura. Sagittari Laterza 1995.

19 Moletto A., Zucchi R. Con i nostri occhi. Un itinerario di “Pedagogia dei Genitori”.

Supplemento ad handicap e scuola 2006.

20 OMS, ICF Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute.

Erickson 2001.

21 Freire P. La Pedagoogia degli oppressi. Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998.

22 Oliva F., Croce M. I gruppi di mutuo auto aiuto. Animazione Sociale. Edizioni Gruppo

Abele 1998.

23 Balint M. Medico, paziente e malattia. Feltrinelli 1990.

24 AA.VV. Il lavoro nella comunità locale. Percorsi per una cittadinanza attiva. Animazione

Sociale.Edizioni Gruppo Abele 2008.

25 Hsieh H. F., Shannon S. Three Approaches to Qualitative Content Analysis. Qualitative

Health Research 2005; 15: 1277-88.

26 Graneheim U., Lundman B. Qualitative content analysis in nursing research: concepts,

procedures and measures to achieve trustworthiness. Nurse Education Today 2004; 24:105-

12

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ALLEGATI

Narrazioni dei genitori

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NARRAZIONE 1

DOPO DOMANI

“DOPO DOMANI” queste sono due parole che mio figlio pronuncia molto spesso, dopo domani camminerà, correrà, giocherà a calcio, diventerà un pilota. Ricordo ancora, come fosse adesso, il giorno che ho portato Francesco in ospedale, allora aveva solo quindici giorni di vita ed era un bimbo come tanti altri, mangiava e dormiva come si usa dire in questi casi, quel mattino aveva qualcosa di strano che non mi rendeva tranquilla, avevo uno strano presentimento. Fino ad allora non avevo mai pensato che in un attimo il corso della vita può cambiare strada, girare e intraprendere una via diversa da quella finora immaginata per il futuro. In quei terribili giorni è capitato di tutto e Franci si è aggravato molto, gli esiti degli esami erano tutti preoccupanti, aveva atteggiamenti strani che duravano a lungo, il suo corpicino diventava rigido, gli occhietti fissavano il vuoto, era bianco in viso, sofferente, facevo fatica a stringerlo fra le mie braccia, sembrava mi respingesse; solo dopo i medici ci dissero che quelle erano crisi convulsive e che la sua testolina stava subendo una grave sofferenza. Non mangiava più, ricordo che provavo ad attaccarlo al seno ma lui avevo perso ogni istinto, lo leccava, mi guardava quasi mi chiedesse cosa ne doveva fare. Con le infermiere provavamo a dargli qualche goccia di latte con la siringa come si fa con i pulcini, ma era veramente dura fargli deglutire qualcosa. Il mio sconforto era tale che un giorno mi accorsi di non avere neanche più latte, fu allora che mi sentii del tutto inutile, impotente di fronte a questa situazione così grave. L’unica cosa che riuscivo ancora a fare era di tenermi vicino il suo corpicino, fargli sentire il mio calore e il mio odore. Data la sua piccola età, i medici furono molto chiari dicendoci che non si poteva fare una previsione su come avrebbe reagito ai farmaci e al sopraggiungere di inaspettate crisi cardiache. Mi proposero anche di trasferirlo in uno ospedale più attrezzato con una sala di rianimazione per neonati, avrebbero dovuto metterlo in un’incubatrice perché non avevano altri posti liberi e non sarei potuta rimanergli vicino, se non per qualche ora al giorno. Decisi di assumermi la responsabilità e firmai per rimanere lì, avevo la sensazione che l’avrei perso se l’avessi abbandonato anche solo per poche ore. Le mie giornate erano fatte di pianti silenziosi, non riuscivo a trovare consolazione in niente e in nessuno, mi sentivo completamente svuotata, incapace di reagire, sentivo la presenza abbandonarmi, avevo incubi ad occhi aperti, il mio pensiero era solo uno: quello di perderlo. Non sono mai stata coraggiosa né tanto meno pronta per affrontare simili situazioni, mai avrei immaginato di trovarmi in un incubo del genere. Era un continuo sentirlo piangere, le sue grida si erano fatte deboli era pallido, rigido, mi domandavo cosa potesse provare, non riuscivo a trovare un contatto con lui perché non aveva nessuna reazione alla mia voce, non capivo se mi guardava, se mi sentiva. Un giorno gli fecero un taglietto all’altezza della caviglia destra per infilargli un sondino che salisse fino allo stomaco: ci dissero che serviva per avere un accesso in caso di emergenza perché non aveva più vene interne. Una notte un’infermiera vedendomi particolarmente sconvolta venne a parlarmi, mi ricordo che mi disse un po’ bruscamente di reagire perché i miei pianti non portavano a niente di buono e soprattutto non aiutavano mio figlio, il messaggio che gli stavo passando era di rassegnazione mentre dovevo trovare la forza di riuscire a trasmettergli positività, fiducia, sicurezza perché io ero tutto ciò che di buono lui conosceva, la sua mamma dalla quale per nove mesi era stato protetto, nutrito, riscaldato.

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Per piangere avrei avuto tempo tutta la vita ma in quel momento dovevo reagire per amore suo. Lì per lì mi diede molto fastidio questo intervento, lo interpretai come un rimprovero, un’invasione nella mia vita, mi chiesi come potesse lei avere la presunzione di insegnarmi cosa fare in questo momento così delicato, quale maestra di vita si credeva! Ci pensai tutta la notte e alla fine arrivai a capire il suo messaggio. Che sciocca ero stata aveva proprio ragione, l’unica persona che doveva aver fiducia in suo figlio lo stava abbandonando e lui, sentendosi solo, si stava lasciando andare. Capii l’importanza di questo gesto e mi reputai fortunata di aver capito in tempo, stavo sbagliando tutto, con la mia presunzione mi ero rinchiusa nel mio dolore ignorando che stavo perdendo di vista la cosa più importante che avevo accompagnandola alla rassegnazione. Solo un genitore, ma soprattutto una madre può capire cosa significa vedere il proprio figlio soffrire, vedere i suoi occhi terrorizzati che cercano conforto nei tuoi, vorresti riversare tutto il suo dolore su di te, credo che farebbero meno male venti coltellate. Mi è tornato il latte, mi ricordo che me lo tiravo con il tiralatte perché dovevo preparare le scorte per quando lui si sarebbe rimesso a mangiare, smisi di rispondere alle varie telefonate perché il mio obiettivo era solo lui. Volevo riuscire a comunicargli la mia piena fiducia e dimostrargli che gli ero vicina, la sua mamma ora sapeva che ce l’avrebbe fatta, chiedeva solo di stargli vicino per rassicurarlo che tutto sarebbe andato per il meglio e che presto l’avrebbe riportato a casa. Insistendo per parecchi giorni finalmente è riuscito a riattaccarsi al seno e da lì a poco, ha ripreso a nutrirsi autonomamente (continuando in modo esclusivo fino all’anno…ho dovuto staccarlo io!!). Io credo che le medicine avranno anche in parte fatto qualcosa, ma lo stato psicologico di una persona, anche in un esserino così piccolo, influenza molto anche il fisico. Questa simbiosi tra mamma e figlio è stata molto importante, l’ho avvertita io e sono certa anche Francesco, sono fermamente convinta di questo e non so se altre persone potranno condividere questa mia visione. Il ricovero è stato di un mese circa ed è stato dimesso con diagnosi di: Verosimile meningoencefalite virale convulsiva. Tornati a casa dall’ospedale abbiamo dovuto somministrare per sei mesi a Franci barbiturici, questi gli permettevano di non avere crisi convulsive ma, facendolo dormire molto e mantenendogli la testolina a riposo, non gli hanno permesso di crescere come tutti. Non aveva il controllo del capo né tantomeno del tronco, era come un bimbo appena nato. Mi ricordo che per un lunghissimo periodo (18 mesi) mi alzavo di notte ogni dieci minuti per girarlo e sistemarlo nel migliore dei modi, avevo paura che soffocasse, lui voleva essere contenuto, aveva paura di cadere, così mi ritrovavo sempre con lui in braccio. All’età di otto mesi la neuro-psichiatra ha diagnosticato: tetra paresi distonica atetoide, abbiamo cominciato subito fisioterapia tre/quattro volte a settimana con Rachele. Il suo rapporto con lei è qualcosa di speciale che dura ancora oggi, è un po’ come se fosse la sua seconda mamma perché l’ha accompagnato, fin da piccolino, nelle sue conquiste. Mi ha confidato che le piacerebbe un giorno “da grandi” incontrarlo e chiedere all’uomo che sarà diventato se si ricorda delle “torture” imposte o dell’affetto datogli per riuscire a superarle. L’abbiamo fatto seguire, sotto consiglio della nostra pediatra, anche in un altro centro specializzato, da un fisiatra molto bravo, dal quale andiamo ogni sei mesi ancora adesso. Ultimamente proprio questo dottore ha ri-diagnosticato una diplegia spastica perché Francesco è migliorato parecchio con l’uso delle mani. Ad oggi non riesce ancora ad avere molta forza e a fare movimenti “fini” ma sollecitandolo migliorerà sicuramente. Lo stanno seguendo anche in un ospedale specializzato per un piccolo deficit visivo, da un anno e mezzo a questa parte stiamo mettendo a giorni alterni un occlusione ad entrambi gli occhietti.

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E’ un bambino molto sensibile quindi avverte molto gli stati d’animo delle persone che ha intorno, quando si trova a disagio e/o ha paura di qualcosa si irrigidisce; spesso se non si sente in una posizione sicura prevale la paura di cadere, basta tenergli una manina per rassicurarlo che gli passa. Si rapporta con il contatto fisico soprattutto con il viso, si rassicura toccandolo ed accarezzandolo, è facile che questo possa capitare soprattutto quando è stanco. Riguardo a questo gesto, credo sia collegato al periodo che ha trascorso in ospedale perché per rassicurarlo gli toccavo sempre gli occhietti sussurrandogli delle dolci paroline, lo accarezzavo e lo baciavo di continuo. Queste coccole sono durate fino ad oggi ma la cosa più curiosa è che lui ora le fa a me quasi per ringraziarmi di tutte quelle che gli ho dato. Se a volte sono particolarmente nervosa o giù di morale, eccolo che nel pieno della notte si fa portare nel lettone e comincia con le carezze e i baci agli occhi fino al mattino, è pazzesco ma l’adulto in questi momenti sembra lui. Ora che ha iniziato l’asilo comincia a sperimentarsi nel rapporto con gli altri bimbi della sua età, ha trovato un modo tutto suo per attirarli verso di sé utilizzando soprattutto la sua dolcezza ed allegria, anche con il fratello sta cominciando a relazionarsi meglio, sono contenta che gradualmente si stia risolvendo anche questo rapporto. Francesco è un bambino molto allegro e solare, anche se appare molto fragile ha un carattere molto forte, soprattutto nelle situazioni importanti. Io dico che è un ometto perché è molto ambizioso, lui vuole camminare e si sta impegnando a fare in modo che questo avvenga il prima possibile, non ha mai rifiutato una seduta di fisioterapia, seppure molto faticose e non sempre così divertenti; si è sempre sottoposto al giudizio di medici, neuropsichiatri, fisiatri, logopedisti, foniatri, oculisti…trovando la forza di donare un sorriso ad ognuno di essi. Si sono aperte per lui quest’anno con l’asilo le magnifiche porte del “mondo dei bimbi”, va più che volentieri, non dando affatto peso al confronto ma affrontandolo con estrema naturalezza e senza pregiudizio. Sono rimasta favorevolmente colpita dall’affetto con cui i suoi compagni l’hanno accolto, circondandolo di attenzioni e coinvolgendolo in giochi spensierati. E’ una vera forza e mi sta insegnando ad affrontare ogni giorno con la sua positività ed energia, io auguro a tutte le persone che lo conoscono e che gli vogliono bene, di riuscire ad entrare in sintonia con lui per poter imparare a loro volta i suoi semplici insegnamenti e a gioire dei suoi progressi. Spero di essere riuscita a trasmettere un po’ di noi… “l’autentica felicità ci è sempre accanto ma chiede a ciascuno di noi il coraggio di saperla cogliere…”

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NARRAZIONE 2

8 MAGGIO 2001

Caro figlio mio è questa la data della tua nascita: è stata prematura e triste nello stesso tempo perché la tua mamma non ha potuto prenderti in braccio. Le infermiere ti hanno messo nella incubatrice, sì perché eri piccolissimo e non riuscivi a respirare da solo. Non ho avuto la gioia di prenderti in braccio ed accarezzarti come ho fatto con tuo fratello. Sì amore, quando sei nato a casa c’era tuo fratello Rocco che ti aspettava, ma tu sei dovuto rimanere per due settimane in ospedale a causa del tuo peso ed eri così piccolo che solo a guardarti sembrava di spezzarti. Tesoro mio, quelle due settimane non finivano più. Per me e per tuo padre cominciavano a nascere dei problemi perché lui non poteva più stare a casa per guardare tuo fratello perché doveva andare a lavorare e io ero all’ospedale con te. Non sapevamo come fare: non volevo lasciarti tutto il giorno da solo ma non potevo neanche lasciare tuo fratello che proprio in quei giorni stava male e non poteva andare all’asilo. La distanza c’era, tu eri all’ospedale, noi abitavamo lontano e papà lavorava ancora più lontano. Mi sentivo divisa in due e sola. Ma una gentile infermiera mi ha vista che piangevo, mi ha chiesto cosa avevo e dopo avermi ascoltata mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto: “Signora vada a casa dall’altro figlio che in questo momento ha più bisogno di lei. Oscar sta bene ed è sempre tenuto sotto osservazione. La cosa importante è che lei ci porti ogni giorno il suo latte e che si rimetta in forma perché quando il bambino verrà dimesso avrà tanto da fare”. E così ho fatto. Per quattro giorni tuo papà alle 6.30 ti portava il latte. Ti accarezzava le mani attraverso i buchi dell’incubatrice e poi mi telefonava per farmi sapere come stavi. Ma a me non bastava e stavo tutto il giorno a piangere: volevo vederti, toccare le tue manine, darti il mio latte e starti vicino così che non ti sentissi solo. Ma non potevo perché tuo fratello aveva bisogno di me. Sono trascorsi dei giorni e finalmente tuo fratello è guarito e io sono potuta venire a trovarti più spesso perché non mi bastava vederti solo un’ora come avevo fatto per quattro giorni; volevo darti il latte, farti le carezze, sentire il tuo respiro, il tuo cuore, farti sentire che non ti avevo abbandonato. Passano dei giorni e finalmente arriva la bella notizia: possiamo portarti a casa, tuo fratello era molto contento. Non sapevamo ancora che per noi sarebbe stato molto difficile. E sì, perché, tu amore mio non dormivi mai né di giorno, né di notte. Così, io e te ci siamo trasferiti in un’altra camera perché papà doveva andare a lavorare e aveva bisogno di dormire. Così siamo andati avanti per quattro anni. Non mi reggevo in piedi, ero diventata nervosa ed isterica e non capivo perché eri così. Ho pensato delle cose orribili che se le ricordo me ne vergogno. E invece tu eri così vivace che mi chiedevo dove prendessi tutta quell’energia dormendo solo quattro ore nell’arco di un intero giorno. Intanto gli anni passavano e finalmente inizi a dormire un po’ di più ma mi accorgevo che avevi bisogno di dieci persone a guardarti perché andavi sempre dove c’era il pericolo. Così ho cominciato a togliere dalla tua portata tutto ciò che era pericoloso; ma non serviva a niente perché trovavi sempre il modo di arrivare a prenderli. Come quella sera che volevi farti la barba e ti sei tagliato il labbro (fortunatamente il taglio non era profondo) ed avevi solo 4 anni. Beh! Come questo episodio ce ne sono stati tanti altri in questi anni fino ad oggi. Già, oggi, che hai quasi 7 anni e vai a scuola.

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Si Oscar, adesso sei in prima elementare. Non sei ancora entrato bene nell’ottica della scuola anche se ti piace tanto andarci: vuoi solo giocare, disegnare, tagliare. Sei un bambino molto dolce, affettuoso, premuroso, vuoi sempre essere al centro dell’attenzione e vanitoso. Ti piace ballare e giocare con le costruzioni. E cosa dire delle coccole che ti fai fare da tutti ma soprattutto dalla tua nonna; perché lei è solo tua e di nessun altro. Torniamo a parlare della scuola. Le tue maestre mi dicono che sei un bambino svelto e con loro sei affettuoso, che ti sei inserito molto bene e vai d’accordo con tutti i compagni, che durante le lezioni a volte ti perdi in chiacchiere. Dicono anche che partecipi a tutte le attività che si svolgono in classe, ma che hai anche una difficoltà nella lettura e nella scrittura. Ma io sono sicura che con l’aiuto della maestre, delle assistenti del dopo scuola, con l’aiuto di mamma e papà e grazie alla tua voglia di imparare, riusciremo a superare tutti gli ostacoli e tutti quelli che troverai durante la tua crescita. Vedrai amore mio, vedrai che ce la farai.

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NARRAZIONE 3

UN AUTENTICO REGALO DI DIO

Mia dolce, tenera Francesca, come ogni bambino su questa terra, sei un autentico regalo di Dio. Sei nata senza complicazioni, dopo una bella e serena gravidanza: un parto veloce e il giorno dopo correvo letteralmente lungo il corridoio dell’ospedale. Sei cresciuta all’insegna della salute: mangiavi come un lupetto, dormivi come un ghiro, mai un problema di salute. Sei sempre stata bellissima, una bambola in carrozzina poi una bambina adorabile: i capelli biondi, gli occhi azzurri, un bel visetto rotondo, il nasino regolare, le labbra carnose sempre pronte a sorridere. Ora sei sulla soglia dell’adolescenza, il tuo viso si è allungato per non parlare della gambe! Ma il tuo sorriso rimane immutato: ci parla di gioia, amore, allegria e serenità. Hai un carattere dolce e arrendevole, predisposto ad aiutare gli altri, a consolare, la prima a cedere in una piccola disputa, facile da convincere a fare qualcosa che magari non ti va tanto. Sei furbetta: le tue domande arrivano puntuali e implacabili e i tuoi commenti lasciano di stucco. Sei affettuosa e coccolona. Dai tanta gioia a chiunque stia vicino a te e possiedi un potere particolare nel farti amare. Quando raggiungi i cinque/sei anni notiamo quello che presumiamo sia solo un difetto: sei un po’ lenta e cammini come una paperina, ma cresci a vista d’occhio e pensiamo che sicuramente non sai gestire quei centimetri in più che ti ritrovi. Andiamo comunque da ortopedici, osteopati, piscine e palestre. Comincia la scuola, ti riveli subito attenta e intelligente, ma la lentezza e le difficoltà nei movimenti cominciano ad essere più rilevanti…continuiamo a ripeterci che si sa, sei tranquilla…e poi ognuno ha i suoi tempi, ma nel corso dell’anno scolastico questi tempi cominciano a prendere troppo le distanze da quelli degli altri. Anche le maestre se ne accorgono e con un po’ di imbarazzo ci consigliano di fare un controllo. Giungiamo quasi per scrupolo dalla Dottoressa G., in Neuropsichiatria Infantile…ma perché non mi dice quello che sto aspettando mi dica? –Stia tranquilla signora è troppo alta e magrolina, al mondo ci sono tanti bambini un po’ goffi, vuol dire che non sarà esattamente una sportiva!-. No, non me lo dice, mi dice che è meglio approfondire. Approfondiamo con tutti gli esami del caso; risultato: gigantesca e voluminosa malformazione artero – venosa nel cervello. Un pugno nello stomaco naturalmente sarebbe stato preferibile. Questa cosa si è formata già nel ventre materno durante la ventesima settimana di gravidanza. La parola “chirurgia” è impronunciabile e non si può trattare farmacologicamente. Si prova quanto meno a cercare di ridurla con una serie di embolizzazioni effettuate al Policlinico di S. Si chiede un parere a un altro centro specializzato per un’eventuale radiochirurgia che ci viene sconsigliata, la MAV è troppo complicata ed estesa. Tramite conoscenze, inviamo lastre e documentazione alla Columbia University di New York, ma rimangono anche loro senza parole. Ecco, abbiamo fatto tutto quel che sapevamo, adesso siamo qui, impotenti, tristi, felici, fiduciosi, depressi, speranzosi, in crisi a turno, arrabbiati, grati per ogni giorno che ci viene regalato. Saper incassare con saggezza richiede molto tempo, se mai lo sapremo fare. Aspettiamo quel che ci riserva il futuro, che è un libro aperto a tutte le eventualità; si lo so che è così per tutti, nessuno di noi conosce il proprio avvenire, siamo tutti nelle Sue mani. Quindi non mi resta che affidarmi fiduciosa e cercare di non pensare troppo, anche se è tanto difficile. E’ difficile perché ti vedo incespicare sempre di più, vedo e provo nella mia anima tutte le tue fatiche: tenere in mano una matita, aprire una merendina, abbottonarti, mangiare, parlare, contare, vestirti, giocare con gli altri bambini,…ti vedo rinunciare, volta per volta, prima a

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scrivere poi a correre, vedo la stanchezza che ti assale dopo un minimo sforzo e vedo la tristezza negli occhi del tuo papà che vorrebbe regalarti la luna, ma può solo darti il suo amore: cha è più della luna. La mia più grande consolazione sei comunque proprio tu, perché oltre a vedere tutte le tue difficoltà vedo anche le tue sicurezze: so che ti senti amata nello stesso modo in cui tu ami tutti, ti senti protetta e accettata, ti vedo serena e contenta di te stessa, sai accogliere i tuoi peggioramenti quasi come un evento naturale, un dato di fatto. Pur cosciente dei tuoi limiti, hai sempre provato a fare e quando non riuscivi ti sedevi a guardare i tuoi amici con un sorriso, rallegrandoti del divertimento degli altri; ora non provi neanche, lo sai benissimo che no ce la fai, ma tu continui a guardare e a sorridere. Hai accolto la tua fiammante Kawasaki del tutto semplicemente, senza complicazioni, come se ti avessimo regalato una bicicletta speciale a quattro ruote. Sai consolare, tirare su il morale agli altri dicendo la cosa giusta al momento giusto con quel tuo modo di esprimerti lento e scandito. Hai la capacità di vedere il bicchiere sempre mezzo pieno. Quando è sopraggiunta la novità della celiachia, ti ho spiegato che avresti dovuto fare la gastroscopia, un esame tutt’altro che piacevole, ma che sarebbe durato solo cinque minuti: tu mi hai risposto che cinque minuti non erano poi un quarto d’ora! Ora “hai deciso” che gli alimenti senza glutine sono ancora più gustosi degli altri. Quanto ho da imparare ogni volta da te! E il mio pensiero più forte è che sono davvero felice che tu esista e che tu sia proprio la mia bambina, anzi la mia ragazzina ormai. Che il Signore mi abbia privilegiata in questo modo, affidando proprio a me questa creatura speciale di cui sono veramente orgogliosa. Grazie Francesca, grazie di esistere. Spero di meritarti. Ti voglio tanto bene. MAMMA

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NARRAZIONE 4

LA PRINCIPESSA “NUMERO DUE”

CARA REBECCA, ormai hai dodici anni e un caratterino niente male…ma a dire la verità, lo hai sempre avuto! Fin dalla prima volta in cui ti abbiamo tenuta tra le nostre braccia, ci siamo accorti subito della tua forte personalità, piangevi decisa per farti sentire, per chiamare o lamentarti, non per “rugnare” come fanno tanti neonati. Appena nata avevi gli occhi spalancati e ti guardavi bene intorno per capire chi c’era e come era fatto il mondo intorno a te, non per nulla le infermiere ti avevano soprannominata “due fanali”. La tua sorellina Alida, che all’epoca aveva due anni e mezzo, era molto più tranquilla, si adattava a qualunque situazione, a qualunque orario e non si lagnava quasi mai. Abbiamo scoperto fin da subito che per te non era così, solo che abituarci alla tua personalità non è sempre stato facile. Eri cocciuta, strillavi e spesso non volevi cedere, impuntandoti sulle tue ragioni, senza voler ascoltare i consigli che volevamo darti. Quando avevi quasi due anni è capitato più volte che io e te dovessimo uscire per alcune commissioni, ma tu non volevi saperne…così bellissima, piena di ricciolini scuri e con gli occhioni grandi, ma imbronciati, ti mettevi sulla porta di casa e con le mani sui fianchi, mi guardavi decisa e, sfidandomi, dicevi: “Ehmbè…ehmbè…chi comanda in chetta casa?”. Io, sicura di fare la cosa giusta, ti rispondevo: “Come chi comanda in questa casa? In questa casa comandano mamma e papà e adesso tu ti prepari ed esci con la mamma e non voglio sentire ragioni!”; ma tu ti imbronciavi ancora di più replicando: “Ehmbè, ehmbè…e io da chetta casa vado via…”. Quando ero sfinita ti lasciavo lì dietro alla porta e fingevo di uscire, ma quando ritornavo tu eri sempre lì con le tue manine incrociate dietro alla schiena, il labbro inferiore in avanti e due occhi severi, che mi guardavi per dirmi: tanto io non piango e non cedo a nessun ricatto. Era difficile farti ragionare, così il più delle volte ci portavi all’esasperazione e per farti ascoltare usavamo la nostra autorità costringendoti ad obbedire, tuo malgrado. A tavola non volevi mai finire la minestra, ti lasciavamo lì per un quarto d’ora aspettando che ti convincessi a mangiare tutto. Certe volte vincevamo noi, altre volte tu. Con i parenti e gli amici non entravi subito in confidenza, tendevi le braccia soltanto a coloro che ti erano simpatici, soprattutto alle persone che non si imponevano, ma che con simpatia riuscivano a sdrammatizzare e farti ridere, come nonno Danilo. Non sempre volevi salutare, semplicemente ti giravi dall’altra parte oppure silenziosa, non aprivi bocca e continuavi a guardare la gente per studiare la loro reazione. Sei sempre stata riflessiva, schietta e molto, molto determinata in ciò che sceglievi e decidevi. Con tua sorella litigavi spesso, ma anche ora è così… Volevi sempre starle accanto, imitarla, giocare con lei… ma “dirigere tu le operazioni”, benché fossi la più piccola. Era difficile mediare tra voi due: non volevamo che Alida cedesse sempre a tuo favore, solo perché era la più grande, tu avevi il carattere più forte e non ti piaceva sentirti “la più piccola”. Volevi fare le stesse esperienze che tua sorella stava vivendo cioè andare a danza, sciare, frequentare la scuola dell’infanzia, giocare con i suoi amichetti…. Litigavate tutti i giorni e quando tornavamo a casa, dopo una giornata di lavoro, era molto facile perdere la pazienza senza sapere mai a chi dare ragione.

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Un giorno mentre passeggiavo per strada, mi sono fermata davanti ad una libreria e la mia attenzione si è posata su un libro della seri Battello a Vapore: “La principessa numero due” e immediatamente ho pensato a te. Anche tu eri la nostra principessa, ti volevamo un mondo di bene, almeno tanto quanto ne provavamo per la tua sorellina…solo che tu forse non lo avevi ancora capito. Così sono entrata l’ho acquistato e alla sera tutti e quattro coricati nel lettone abbiamo letto questa bellissima storia. “In un antico reame vivevano due sorelle, solo che la seconda era tremendamente gelosa della primogenita. Così escogitò un piano per farla fuori assoldando il cuoco di corte…Venne scoperta per caso dai genitori che, invece di punirla, cercarono di comprendere il motivo per cui aveva agito così e trovarono una soluzione”. La stessa che io e papà abbiamo deciso di adottare per la nostra famiglia. Si trattava di organizzare la settimana: il Lunedì, il Mercoledì e il Venerdì Alida era la principessa numero uno e poteva decidere quali giochi fare, quali cartoni animati vedere in tv ecc…, invece il Martedì, il Giovedì e il Sabato tu, Rebecca, eri la principessa numero uno e Alida la principessa numero due, quindi potevi scegliere le cose che ti piacevano… “La domenica saremo tutti numeri uno – disse il Re e così fu. E anche se ci volle un po’ di tempo alla principessa numero uno per abituarsi a non essere sempre la numero uno, e alla principessa numero due per abituarsi ad essere la numero uno per una parte del tempo, e anche se la Domenica c’era sempre un po’ di baruffa quando tutti erano numero uno, da allora in poi vissero tutti felici e contenti”. Forse non è tutto un idillio come nelle fiabe, perché a complicare un po’ la situazione io e papà abbiamo ancora deciso di regalarvi un fratellino, però sicuramente tu sei cresciuta molto ed hai imparato a mediare, smussando alcuni aspetti del tuo forte carattere e cercando di andare incontro agli altri, anche quando ti è costato fatica. Noi siamo molto soddisfatti dei progressi che hai fatto e sicuramente siamo felici e contenti di come stai crescendo…

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NARRAZIONE 5 CIO’ CHE SI HA NEL CUORE

Carissimo Leo, non è sempre facile trovare le parole giuste per dire ciò che si ha nel cuore, vorrei però provare comunque. Cosa può dire una mamma del suo bambino? Credo che tu sia una persona straordinaria che colora la vita di ognuno di noi. Sei arrivato 11 anni fa e tutti noi eravamo troppo eccitati nell’aspettarti (ti sei fatto desiderare parecchi giorni dopo il termine della gravidanza) e quando finalmente sei entrato nella nostra casa per molto tempo, a turno, c’era sempre qualcuno vicino alla tua culla o eri spesso preso in braccio: non conoscevi il pianto perché i tuoi fratelli non ti lasciavano piangere. Sei cresciuto tra i grandi e ti sei sbrigato in fretta a vestirti e a prepararti le cose necessarie per la scuola. Noi due fatichiamo a rimanere seri e ridiamo sotto i baffi quando papà arriva arrabbiato per il lavoro. Non ce la faccio a non dirti sempre qualcosa di ridicolo o buffo, tu non sempre accetti questo mio modo scherzoso di comunicarti le cose, ma alla fine ti rassegni e finisci col cedere e ridi e scherzi pure tu. Sappiamo tutti però qual è la soglia della tua sopportazione: non devo esagerare nel prenderti un po’ in giro e mai chiamarti con il tuo vero nome! Anche tu conosci bene la mia di sopportazione ed è vero che non mi arrabbio facilmente con te, ma sai bene che quando parto per questa tangente non ragiono tanto e forse ti castigo troppo, come quella volta che ti ho nascosto un grosso sacco di giochi. Sai che non accetto le bugie e queste mi fanno proprio arrabbiare. Ma tu sei proprio un bambino positivo, sempre allegro con tanta voglia di fare. A volte penso che tra qualche anno inizierai a voler uscire la sera con i tuoi amici e che vorrai il motorino; se penso che questa tappe della vita le ho già trascorse anni fa con i tuoi fratelli e sorelle mi viene un po’ di panico e vorrei poterti imprigionare dentro una campana di vetro perché il mondo che c’è fuori mi spaventa un po’. Per ora non voglio pensarci ancora e voglio godermi questi pochi anni finché sei ancora piccolo. Conservo un quaderno dove ho scritto e scrivo le tue battute ridicole e serie…come quella volta quando eravamo a tavola e si conversava animatamente, tu ci guardavi tutti quanti e osservavi…ad un certo punto te ne sei uscito chiedendoci: “Perché io sono cresciuto dopo?”. O come quella volta che hai chiesto se i ladri erano dei coccodrilli…o solo qualche tempo fa quando sei andato in gita a Chiusa Pesio e mi hai detto che eri felice perché finalmente avresti conosciuto i tuoi cugini, quando sappiamo tutti che i tuoi zii che abitano là non hanno figli, e sono zii che non vedi mai! E poi solo qualche giorno fa che hai detto che a quella ragazza le hanno potato le gambe… Vedi Leo, la vita senza di te sarebbe monotona e triste, tu ci insegni che l’essenziale è il volerci bene, ci insegni a cercare sempre il bene e di conseguenza a viverlo. Vorrei dimostrarti ch nonostante tutto, il mondo dei grandi non è così brutto come tu hai sostenuto qualche tempo fa; il futuro non ci è chiaro e come tutti ti troverai ad affrontare le fatiche della vita, della famiglia o delle varie faccende quotidiane, ma questo nostro essere uniti e volerci bene deve essere il “balsamo” che ci fa sperare. Ciao “grasso” mio. Mamma.

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ALLEGATI

Narrazioni degli infermieri

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NARRAZIONE 1 UN PAZIENTE CHE NON DIMENTICHERO’ MAI

Sono un’infermiera che lavora in Neurologia e voglio parlarvi di una persona che non dimenticherò mai: si chiama Vera e quando è stata ricoverata per la prima volta aveva 16 anni. Il motivo del ricovero era dovuto al fatto che presentava paresi e mancanza di forza all’arto inferiore di sinistra, le fu fatta diagnosi di sclerosi multipla, diagnosi che fu poi confermata negli anni a seguire con successivi ricoveri in cui Vera peggiorava un pochino sempre di più. Vera è una ragazza con un viso bellissimo, capelli lunghi riccioli neri, occhi scuri e profondi, colorito delle guance talmente perfetto che sembrava quasi disegnato su una copertina di giornale. Io avevo più o meno 26 anni quando lei è stata ricoverata per la prima volta. Non è affatto preoccupata lei che è una ragazza come tutte le sedicenni; voglia di ridere, scherzare, parlare della scuola, delle amiche e di quel ragazzo che a lei piaceva un po’. Il suo carattere è spigliato, estroverso, sempre allegro, non si può fare a meno di entrare in confidenza con lei, e così fu. Vera dai suoi sedici anni non avrebbe mai potuto pensare dell’esistenza di una malattia dal nome sclerosi multipla che di lì ai successivi anni l’avrebbe portata a rimanere ferma su una carrozzella. Negli anni a seguire i peggioramenti si presentavano sistematicamente puntuali. Vera non si rassegnava, non voleva essere ammalata. Il mio rapporto con lei non era distaccato (infermiera-paziente) ma quasi di un’amicizia fraterna tra sorelle. La professione dell’infermiere esige un distacco emotivo ma con alcuni malati è più difficile. Ogni malato è diverso e ogni infermiere è diverso e risponde in modo soggettivo agli stimoli della relazione che si viene a creare. Quando veniva ricoverata era contenta di sapere che io ero in turno. I suoi stati emotivi erano soggetti a considerevoli sbalzi di umore, era in grado di passare da momenti di forte allegria quando per esempio la vedevo arrivare barcollante all’inizio del corridoio e ci salutavamo al momento del ricovero, a momenti di profonda depressione quando si ricordava che le gambe non la tenevano più su, “Guarda le mie gambe, tremano, non riesco a camminare, cedono”. Cosa potevo dire? Non avrei potuto rassicurarla o dirgli “tanto guarirai!”. Il suo problema più grande è la sfera sessuale assai carente dato che non ha mai potuto sperimentare l’amore e il sesso e così chiedeva a me cose personali che ovviamente mi mettevano in difficoltà e a disagio. Talvolta mi pareva che provasse “invidia” nei miei confronti perché stavo bene, questa sensazione di invidia a volte si avverte in alcuni malati che amano metterti in difficoltà con battute cattive. Fino ad ora ho raccontato al presente ma Vera non c’è più. E’ morta all’età di 26 anni, 5 anni fa per complicanze polmonari. E’ morta, con sollievo per me, nel reparto di pneumologia perché quello che non volevo era vederla morire. Voglio ancora raccontare un episodio accadutomi l’ultima settimana in cui lei era ancora in Neurologia prima dell’aggravamento della situazione polmonare, Vera era completamente dipendente, muoveva poco gli arti e presentava disturbi minzionali caratterizzati da minzione imperiosa, c’era l’indicazione al catetere vescicale però per volere di Vera si era deciso di soprassedere ancora un po’. Quando la mamma chiedeva la padella dovevamo portarla velocemente se no bagnava il letto e il più delle volte si arrivava in ritardo. Quel pomeriggio me lo ricordo bene, alla fine del turno sarei partita per una località marina. Una volta arrivata alla località mi addormentai facendo sogni strani; avevo bisogno di urinare ma la padella non arrivava, mi sveglia di soprassalto, avevo bagnato il letto! Io ero Vera nel sogno, ero lei e avevo bagnato il letto! Vera non ti dimenticherò mai! Un grosso abbraccio.

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NARRAZIONE 2

UN PAZIENTE CHE NON DIMENTICHERO’ MAI

Caro diario, sono qui seduta al mio solito tavolo e voglio raccontarti una mia giornata piena di emozioni. Sono le 6.00, entro in reparto; “Che bello!” penso “Inizia una mattinata da dedicare agli altri…”. Solita routine: prelievi, terapie, consegne… Ore 8.00, arriva in reparto una nuova utente apparentemente tranquilla e collaborante; una donnina di 75 anni circa con gli occhi chiari, capelli raccolti con un foulard in testa. E’ accompagnata dagli operatori del 118. accolta in camera chiamo il medico per avvisarlo del nuovo ricovero. Mi dice che a breve si presenterà a visitare la paziente. La mia collega ed io continuiamo nella distribuzione della terapie. Quando arrivo in camera5 do una sbirciata e vedo la donnina girata sul fianco, immobile con delle bava sulla bocca. Mi precipito chiamando la mia collega che si precipita in camera. Chiamo la paziente ma mi accorgo subito che è qualcosa di grave in quanto non c’è nessun segno vitale, niente che mi dica “Stai tranquilla”. La mia collega chiami telefonicamente il rianimatore. Nel frattempo inizio la rianimazione aiutata dai miei colleghi accorsi. All’arrivo del rianimatore la donnina era già deceduta. Mi sono messa a piangere, sono immobile, non riesco a darmi una spiegazione, un perché. Ho assistito all’ultimo respiro di questa donnina che poco tempo prima mi aveva regalato un sorriso ed un abbraccio. Non riesco a crederci, penso ad un sogno ma i miei colleghi mi riportano alla realtà. E’ la prima volta che assisto alla morte in modo diretto e sono invasa dai sensi di colpa per aver lasciato questa signora da sola, indifesa nel suo letto. Grazie ai miei colleghi sono riuscita a realizzare l’accaduto ed ho cercata di “trattenere” le cose “positive” della situazione: il sorriso, l’abbraccio caloroso ed il grazie dei familiari. Per diversi giorni ho riflettuto sull’accaduto e mi vengono i brividi. Ma questa esperienza mi ha arricchito: mi ha dato maggiore sicurezza e mi ha fatto capire che riflettere è indispensabile.

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NARRAZIONE 3 UN PAZIENTE CHE NON DIMENTICHERO’ MAI

Daniela è una ragazza di 29 anni, molto carina e sempre sorridente. La conobbi durante il primo mese di lavoro in reparto di oncologia. Ero un po’ spaventata da questa realtà. Ricordo la prima volta che entrai nella sua stanza profumata, mi rivolse un sorriso meraviglioso. Entrammo subito in un rapporto di intesa, diventai la sua confidente. Era un piacere trascorrere i miei momenti liberi in sua compagnia, mi stavo affezionando. Avevo paura di tutto questo perché sapevo che Dani, così la chiamavo, era in fase terminale della propria malattia. E forse proprio per questo la presi così a cuore, proprio perché non mi capacitavo del fatto che una ragazza così giovane e allegra potesse essere così vicina al termine della propria esistenza. Lei non era a conoscenza della gravità della situazione. Vedevo i familiari piangere e abbracciarsi fuori dalla sua stanza e poi rientrarci sforzandosi di sorridere. Sicuramente Dani se ne rendeva conto ma nonostante ciò era sempre di buon umore. Per questo quando stavo con lei neanche pensavo alla sua malattia, sapeva far emergere solo le sue migliori qualità, il suo sorriso, le sue storie, l’interesse che metteva anche lei nell’ascoltare ciò che avevo da dirle. La vedevo deperire sempre di più, ormai non riusciva neanche più a tenersi in piedi, la malattia la stava consumando di giorno in giorno e io non sapevo che fare per lei. Dato che avrei dovuto subire un’operazione e mettermi in mutua per un mese andai nella sua camera per salutarla e in quel momento avevamo entrambe le lacrime agli occhi. Ricordo che mi disse: “Non vedo l’ora di uscire per andare a farmi un bel viaggio ai Caraibi”. “Allora andremo insieme” le dissi. Sognare, poteva sognare, almeno questo le era ancora concesso. Erano passati una decina di giorni e ancora non trovavo il coraggio per chiamarla. Non volevo sentirmi dire “Dani non c’è più”. Mi sentivo e mi sento tuttora un po’ in colpa per questo, perché non voglio che pensi che mi sia dimenticata di lei. Nei miei ricordi è presente e spero che questo messaggio, anche se ora non c’è più, la possa raggiungere. E’ stata la prima esperienza forte da quando ho iniziato questo mio percorso da infermiera e penso di essere cambiata, sicuramente sono cambiata e cresciuta, proprio da quel momento. Ci sono state tante altre esperienze come questa ed anche di più forti, ma partendo da questa vicenda sono riuscita ad affrontarle con più serenità e fiducia in me stessa perché il ricordo di Dani mi fa sorridere e non mi rattrista e per questo la ringrazio.

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NARRAZIONE 4 UN PAZIENTE CHE NON DIMENTICHERO’ MAI

Ci sono stati pazienti, in particolare, che non dimenticherò mai, che hanno lasciato il segno in me. Una di questi è Lili, un’anziana signora ricoverata per un’infezione alle vie urinarie. In pochi conoscevano il suo nome, la maggior parte degli operatori sanitari andava da lei solo nel momento in cui bisognava intervenire per le cure di base di cui lei necessitava. Questo perché Lili a primo impatto sembrava una persona antipatica e scorbutica, a mala pena rispondeva alle domande che le rivolgevano e non collaborava quasi con nessuno. Io, inizialmente, come gli altri, non ho insistito nel rapportarmi con lei. Poi, dopo alcuni giorni dal suo ricovero, ho capito che Lili si sentiva sola, non aveva nessuno al mondo, senza figli ne amici ancora in vita, solo una zia che in un mese si è fatta vedere una sola volta. Mi sono sentita una persona piccola, perché anch’io come gli altri l’avevo giudicata senza interessarmi su quale potesse essere la sua storia. Un giorno portai con me un pettine, uno shampoo e una camicia da notte che volevo regalarle. Andai da lei e, insistendo un po’, la convinsi a fare un bagno a letto. Ricordo che inizialmente sbuffava in continuazione, poi iniziai a farle domande riguardo alla sua vita e piano piano si aprì con me. Ricordo anche che mentre la pettinavo sorrideva e continuava a ringraziarmi, sembrava rinata. Da quel momento continuò a volermi con lei ogni volta che bisognava far qualcosa, come per esempio un prelievo, e divenne molto più collaborante. Mi chiedeva sempre se potevo andare a tenerle compagnia e appena potevo io lo facevo volentieri. Penso che per lei io sia stata una figura importante in quel periodo, ma quello che forse non sa è che lo è stata anche lei per me. Umanamente parlando sono cresciuta tanto grazie a lei. Ho capito che nell’ascoltare una persona si trovano tante soluzioni e si capiscono tante cose. Non la dimenticherò mai.