Tesi di laurea - Lindustria culturale in Italia - il caffé letterario - Davide Trebbi def. 4.7.07

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Facoltà di Scienze della Comunicazione L’industria culturale in Italia: il caffè letterario di Davide Trebbi Relatore: Correlatore: Prof. Mario Morcellini Dott.Giovanni Ciofalo Anno Accademico 2006-2007

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Facoltà di Scienze della Comunicazione

L’industria culturale in Italia:

il caffè letterario

di Davide Trebbi

Relatore: Correlatore:

Prof. Mario Morcellini Dott.Giovanni Ciofalo

Anno Accademico

2006-2007

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Indice

1. L’industria culturale in Italia 5

1.1 Possibili definizioni 9

1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale

italiana

13

1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia 15

1.4 Intellettuali o produttori culturali? 19

1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia 22

1.6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy 25

1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali 26

1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo 28

2. I caffé letterari 35

2.1 Cultura al Caffé: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud 39

2.2 Caffè storici d’Italia 41

2.3 Pasolini al Caffè: il Caffé Rosati in piazza del Popolo a

Roma

48

2.4 La Roma dei Caffé Letterari 51

2.5 Verso Praga 66

2.6 Sviluppi futuri 68

3. Lettere Caffè: il primo franchising della cultura 69

3.1 Le origini: dal 1999 ad oggi 73

3.2 Lettere caffè: tradizione e progressismo 76

3.3 We make the standard: Bill Gates al caffé letterario 77

3.4 Organizzazione e piani di sviluppo 78

3.5 L’esclusiva territoriale e il network 81

3.6 Manifesto dei Network Culturali Europei 82

3.7 I servizi offerti e il Know How 86

3.8 Il target 86

3.9 Vantaggi e valore aggiunto 87

3.10 Direzione artistica: il palinsesto culturale del caffè 88

3.11 Audience: fidelizzazione e strategia 90

3.12 Scouting network 92

4. Dialoghi al caffé 93

4.1 Musica d’autore: Claudio Lolli, autobiografia industriale 98

4.2 Cinema: Pierluigi Ferrari, un giorno da Leone 105

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4.3 Stampa: Massimo Bucchi, la finestra sul cortile 110

4.4 Scrittura: Enza Li Gioi, amici di penna 116

5. Appendice 125

6. Bibliografia 129

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CAPITOLO PRIMO

L’industria culturale in Italia

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Si ritiene che esista un’industria culturale quando beni e servizi culturali sono

prodotti e riprodotti, immagazzinati e distribuiti con criteri industriali e

commerciali, cioè su larga scala e in conformità a strategie basate su

considerazioni economiche piuttosto che strategie concernenti lo sviluppo

culturale1.

1. Unesco, 1982, in “Classici resistenti al tempo”, M.Stazio, Il Mediaevo Italiano a cura di Mario Morcellini, Carocci, 2005, pag.145

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1.1 Possibili definizioni

Un’industria culturale è un industria che produce beni culturali. Più in

generale si preferisce parlare di industrie culturali, al plurale, includendovi

anche le industrie dell’intrattenimento o dell’informazione. A ben vedere

queste definizioni riguardano profondamente la società occidentale o Nord

del mondo, industriale appunto; individuando un inizio storico di queste

nuove industrie nel momento in cui l’opera d’arte diviene riproducibile e

quindi diffondibile su larga scala 2. “Il mercato dell’arte e della cultura si

trova a confrontarsi con le nuove possibilità offerte da forme sempre più

raffinate di riproducibilità tecnica, e gli intellettuali cominciano a sentirsi

minacciati nel loro ruolo di fari guida della società”3. La produzione di beni

culturali su larga scala viene analizzata per la prima volta dalla Scuola di

Francoforte che, delineando le caratteristiche di cultura di massa,

differenzia questo tipo di industria dalla più spontanea e diretta arte

popolare in genere. Storicamente i primi studi francofortesi a cura di

Adorno e Horkheimer corrispondono all’affermazione del capitalismo

monopolistico in Europa e negli Stati Uniti e alle prime definizioni di

media power4. La critica marxista alla produzione di beni, ripresa dalla

Scuola di Francoforte, tende ad individuare le motivazioni profonde

nell’accumulo del capitale non per mezzo di decisioni creative o politiche

prese da singoli artisti o imprenditori illuminati ma piuttosto come

2. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966 3. Da: http://www.industriaculturale.it 4. Storicamente questo tipo di studi analizzano i metodi con cui i maggiori totalitarismi europei

dell’epoca, Fascismo e Nazismo, organizzano il loro consenso attraverso i media di mass e principalmente la radio e il cinematografo.

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manipolazione del desiderio e del perseguimento di un profitto. Il termine

“industria culturale” viene usato da Horkheimer e Adorno nella "Dialettica

dell'Illuminismo” del 1942, in cui è illustrata “la trasformazione del

progresso culturale nel suo contrario”, sulla base di analisi di fenomeni

sociali caratteristici della società americana tra gli anni Trenta e Quaranta.

Negli appunti precedenti la stesura si usava il termine “cultura di massa”,

sostituita poi con “industria culturale per eliminare l'interpretazione di ciò

che tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, come

una forma contemporanea di arte popolare”5.

Il mercato di massa impone standardizzazione e organizzazione: i gusti del

pubblico e i suoi bisogni impongono stereotipi di bassa qualità. Succede

però che in questo circolo di manipolazione e di bisogno che ne deriva, che

l'unità del sistema si stringe sempre di più. Sotto le differenze, rimane

l'identità di fondo: quella del dominio che l'industria culturale persegue

sugli individui: "ciò che di continuamente nuovo essa offre non è che il

rappresentarsi in forme sempre diverse di un qualcosa di eguale" (Adorno,

1967). La macchina dell'industria culturale determina essa stessa il

consumo ed esclude tutto ciò che è nuovo, che si configura come rischio

inutile, avendo eletto a primato l'efficacia dei suoi prodotti attraverso la

creazione di nuovi tipi di consumatori con sempre maggiori bisogni da

soddisfare e altrettanti nuovi e sempre nuovi bisogni da creare.

Le industrie culturali, con le loro continue e rinnovate promesse di

soddisfacimento di questi bisogni, dal ludico all’ideologico, creano nei

consumatori la sensazione spesso reale e realizzabile del pieno ma

5. Adorno, 1967

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momentaneo soddisfacimento degli stessi. Il risultato inevitabile è la

creazione di eterni consumatori. Per ottenere un risultato così totalizzante,

oltre all’offerta di un prodotto c’è la necessità di veicolare un messaggio

pubblicitario che accompagni il prodotto in vendita e colmi i vuoti reali di

un prodotto finale spesso fittizio e temporalmente delineato.

Gli stessi produttori di beni culturali diventano anche i diffusori tecnologici

degli stessi: la Sony produce apparecchi per ascoltare musica, masterizzarla

e quant’altro e al tempo stesso è tra le maggiori case discografiche (major)

del mondo; un esempio evidente di come le industrie culturali siano un vero

e proprio sistema con una profonda unità strutturale.

Il pubblico viene svincolato dalla precedente definizione di folla e comincia

a definire i suoi gusti, i suoi orientamenti culturali che andranno

gradualmente ad alimentare anche i profitti dei produttori di cultura.

Dicono ancora Adorno e Horkheimer a proposito dei prodotti dell' industria

culturale: “[…]sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige

bensì prontezza di intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma

anche da vietare addirittura l'attività mentale dello spettatore, se questi non

vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti” (Horkheimer -

Adorno, 1947). Costruiti apposta per un consumo distratto, non

impegnativo, questi prodotti riflettono, in ognuno di loro, il modello del

meccanismo economico che domina il tempo del lavoro e quello del non-

lavoro. “Lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto

prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo- che si squaglia

appena si rivolge alla facoltà pensante- ma attraverso i segnali. Ogni

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connessione logica, che richieda fiuto intellettuale, viene

scrupolosamente evitata”6.

A questo proposito Morin7, nel suo L’esprit du temps 8, mette in

evidenza la lacerante contraddizione tra le nuove esigenze tecniche

che creano standard culturali e la natura soggettiva del consumo

culturale che ne segue; infatti Morin ritiene che la dialettica tra il

sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori

6. Horkheimer - Adorno,1947

7. Edgar Morin, sociologo e antropologo francese. Nasce l’8 luglio del 1921 a Parigi, figlio unico di una coppia di ebrei di origini spagnole. In realtà il suo cognome era Nahum: Morin è il cognome che

prenderà dalla sua prima moglie, conosciuta durante la militanza antifascista. Durante la formazione scolastica si appassiona alla letteratura e al cinema, ma vede nascere anche il suo interesse per la

filosofia e la politica. Sarà proprio la grande passione per la politica a spingerlo ad iscriversi al Partito

Comunista Francese nella seconda guerra mondiale, e a partecipare in prima linea alla Resistenza. Finita la guerra collabora con diversi giornali, occupandosi di tematiche politiche ma anche sociali. Nel 1950

entra al CNRS (Consiglio nazionale per la ricerca scientifica) di cui tuttora è membro, come ricercatore

nell’ambito sociologico. Nonostante il grande impegno delle ricerche, non interrompe l’attività di giornalista: nel 1957 fonda, infatti, la rivista di politica “Arguments”, e nel 1967 la rivista

“Communication” insieme a Roland Barthes e a George Friedmann. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta

si concentra sull’esplorazione della cultura di massa, dei suoi meccanismi e dei suoi effetti sull’individuo: tra le opere di quel periodo, I divi, pubblicato nel 1957, e Lo spirito del tempo, edito nel

1962. All’inizio degli anni ’70 le sue ricerche subiscono un cambio di tendenza, orientandosi all’analisi

del rapporto tra scienza e tecnologia, dopo essere entrato in contatto con la teoria dei sistemi, la teoria dell’informazione e la cibernetica. In questo modo sviluppa le prime riflessioni sul pensiero complesso,

e sulla necessità di un metodo capace di ridurre la laboriosità nella conoscenza scientifica, e pubblica il

primo volume de Il metodo, la base teorica di tutto il suo lavoro negli anni seguenti. Intraprende anche numerosi viaggi, soprattutto in America Latina, che gli permettono di entrare in contatto con diverse

culture, ma soprattutto con i risvolti negativi della scienza, del capitalismo e della sempre crescente

occidentalizzazione della cultura. Nel 1982 pubblica Scienza con coscienza, in cui presenta i limiti, le possibilità e le responsabilità sociali della scienza. Nel corso degli anni ’90 concentra la sua riflessione

sull’educazione, in particolare pone l’attenzione sulla necessità di “educare all’era planetaria”. Secondo

Morin, la formazione scolastica attuale è incapace di fornire gli strumenti necessari a comprendere la complessità del presente; la soluzione risiede in un’ educazione multidisciplinare, perché solo attraverso

una visione che comprenda le varie sfumature del mondo contemporaneo si potranno abbattere i confini

creati dalla scienza e dall’economia, per poter così giungere ad un “umanesimo planetario”.Il suo grande impegno nel campo della formazione lo porta a ricevere, nel 1998, l’incarico di presiedere il

Comitato scientifico per la riforma dei saperi da parte del Ministro dell’Educazione

francese.Attualmente è presidente dell’Associazione per il pensiero complesso di Parigi e dell’Agenzia europea della cultura dell’UNESCO.

8. 1962, tradotto poi in Italia col titolo: “L’Industria culturale”, Meltemi, 2002

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è il vero problema nello studio dell’industria culturale.9 Morin tende

a ridimensionare il ruolo della cultura alta contrapposto alla cultura

di massa; egli non manca di evidenziare l’egemonia valoriale degli

Stati Uniti, primi produttori di beni culturali industriali, e il fatto che

la cultura di massa sia cultura dei consumi e infine, che essa tenda ad

essere media nella sua aspirazione e ispirazione, quindi a tagliar fuori

coloro che sono materialmente troppo poveri, o spiritualmente troppo

ricchi per i sogni che produce. La cultura di massa e la cultura

industriale, rimangono per Morin, l’unico grande terreno di

comunicazione tra classi sociali e culture diverse, l’unico esempio di

cultura universale della storia dell’umanità”10

.

1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale italiana

Nel 1902, Fred e Will Gaisberg, si trovano in Italia per registrare, per conto

della loro azienda Gramophone & Typewriter Co., la voce di papa Leone

XIII. L’11 Marzo dello stesso anno, durante una rappresentazione della

Germania di Franchetti11

, debutta al teatro La Scala di Milano, il

ventinovenne Enrico Caruso, tenore molto stimato dal pubblico teatrale

italiano dell’epoca. I fratelli Gaisberg, affascinati dalle doti tecniche del

giovane artista italiano, decidono di provare a registrare la sua voce su

grammofono Berliner12

.

9. Edgar Morin, “L’esprit du temps, 1962 10. http://www.industriaculturale.it 11. Alberto Franchetti , compositore, 1860-1942 12. Emile Berliner inventore del grammofono e fondatore della sopra citata Gramophone & Typewriter Co.; cfr. L’industria culturale in Italia, Michele Sorice, Editori Riuniti, Roma, 1998

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Il disco realizzato dai due fratelli americani e interpretato da Caruso,

accompagnato al pianoforte da Salvatore Cottone, sarà un successo

commerciale di dimensioni prima europee e poi mondiali. Questo

avvenimento, tanto fortuito quanto epocale potrebbe essere considerato

come l’inizio dell’industria discografica di massa; il primo caso di bene

culturale diffuso su larga scala, distribuito e stampato per un vasto

pubblico. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo individuare altri casi di

prodotti culturali diffusi su larga scala come ad esempio il “Pinocchio” di

Collodi13

.

Il nascente processo di industrializzazione culturale in Italia14

, può

riscontrasi in molteplici eventi quali: la nascita a Milano del primo grande

magazzino di abiti confezionati Aux Villes d’Italie (1877) oppure la

creazione della Fiat di Torino nel 1899. “…l’automobile è un bene simbolo,

connesso alla percezione sociale della cultura e dei suoi miti 15

”. Ancora, la

fondazione della Siae (Società italiana autori ed editori) nel 1882 al fine di

tutelare il diritto d’autore delle nuove opere in distribuzione sul territorio

nazionale. La cultura moderna e la sua nascita simbolica. Secondo Alberto

Abbruzzese, è possibile individuare nella grande Esposizione Universale di

Parigi del 1900; all’interno di questa importante esposizione la merce non

solo assume una dimensione spettacolare ma viene anche scenicamente

rappresentata.

La nascente industria culturale italiana passa anche attraverso le grandi

messe in scena di opere quali l’“Aida” di Giuseppe Verdi che registra fino a

13

. Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino, Carlo Collodi, 1881 14

. Michele Sorice, L’industria culturale in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1998, pag. 12

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40.00016

spettatori paganti nell’Arena di Verona nel 1913. Già nel 1912

poi, l’Italia si presentava come grande esportatrice di prodotti

cinematografici17

. Grazie a nuove tecnologie e alla diffusione su larga scala

di prodotti culturali, il Novecento registra per la prima volta anche la

scoperta di un pubblico, finalmente vasto e conseguentemente di massa.

1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia

Il percorso classico è: aumento della scolarizzazione, diffusione di massa

della stampa periodica e quotidiana, diffusione della radio, poi del cinema,

poi della televisione. Da noi invece la diffusione di massa della radio, del

cinema e soprattutto della televisione precedono l’aumento della

scolarizzazione.18

Questa osservazione preliminare del caso italiano ci permette di individuare

ulteriori specificità del nostro paese e analizzare le tappe fondamentali

dello sviluppo tecnologico e mediale del sistema culturale italiano.

Importante è il ruolo che la televisione generalista ha avuto in Italia,

“all’inizio degli anni ’50 […] l’Italia si connota per un’offerta culturale

nuova fondata sull’azione e sul carisma dei mezzi di comunicazione. Si

determina uno scenario sociale caratterizzato da valori, aspirazioni e stili di

vita sostanzialmente condivisi a livello di massa […] in cui i media e gli

apparati culturali si rinnovano a livello di diffusione e prestigio rispetto allo

16. L’Arena di Verona all’epoca poteva contenere al massimo 21.500 spettatori. I 40.000 di cui parlò la

stampa denotano la grande attenzione che spettacoli del genere cominciavano a destare anche all’interno della stampa italiana. 17. E’ del 1909 la fondazione a Milano della Federazione Cinematografica. 18. G. Bechelloni, F. Rositi, Il sistema delle comunicazioni di massa in Italia, in “Problemi dell’informazione”, I, 1977, pag. 35

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snaturamento del periodo fascista, finendo per interpretare precipuamente

la spinta alla modernizzazione. Essi, anzi, diventano i più importanti

diffusori e ripetitori delle mete socioculturali collettivamente condivise”19

.

Politicizzazione e lottizzazione dei media italiani sono state le principali

cause di contraddizioni interne e di sviluppi irregolari nei rapporti tra potere

politico, comunicazione e società. Questo sconcertante errore dell’intera

classe politica (di ogni tendenza e partito) portò al tentativo di mantenere il

controllo della Rai sulle trasmissioni nazionali e di favorire una dispersione

di piccole emittenti locali. Il risultato fu una mancanza di norme chiare, che

non impedì lo sviluppo di reti nazionali private, ma ne perse il controllo. La

situazione di “duopolio” risultante è quella che conosciamo, con tutte le

conseguenze su cui si continua a discutere. Compreso il predominio di un

“generalismo” appiattito che non favorisce lo sviluppo di qualità più

precise e più adatte alle esigenze di un pubblico molto meno “omogeneo”

di come lo si immagina secondo i cliché della “cultura di massa”.

Dal dopoguerra fino agli anni Settanta, il sistema televisivo in Italia riflette

perfettamente il sistema industriale presente nel paese: da un modello

spiccatamente taylorista-keynesiano20

, si passa, grazie anche al

19. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano, proposte di analisi per l’industria culturale”, Carocci,

2005, I, 1.7, pag. 35. I processi politici che guidano in Italia lo sviluppo dei nuovi media sono allo

stesso tempo, emancipatori e dirigisti, definendone la storica fragilità in termini di sviluppo socioculturale e modernizzazione. La scarsa propulsività interna agli apparati e conseguentemente i

limiti culturali, industriali e aziendali dei dirigenti italiani hanno condizionato negativamente e

frammentato ulteriormente lo sviluppo di industrie culturali omogenee nel nostro paese. Il cinema e la radio prima e la Tv poi, hanno sempre risentito in Italia, dei profondi limiti e obblighi imposti dal

sistema di governo (con costanti tagli di spessa pubblica nei campi maggiori della cultura) e dalla

sfiducia remunerativa nelle imprese culturali. 20. Riscontrabile in industrie come la Fiat, beneficiata, secondo politiche keynesiane, dal continuo

intervento statale col risultato di ottenere di fatto consolidate posizioni nel mercato nazionale nonché

una pressoché totale assenza di concorrenza e quindi un monopolio di fatto. Parallelamente la televisione nazionale (Rai), si ritrova in una posizione di dominanza assoluta e col finanziamento

“pubblico” tramite un canone radiotelevisivo che gli italiani pagano per poterne usufruire come

spettatori.

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cambiamento della domanda da parte del pubblico, ad un modello di

consumo più personalizzato. Il consumo mediale privato, diventa così la

nuova frontiera delle nuove emittenti televisive locali, di medie e piccole

dimensioni, che grazie al fondamentale apporto economico derivato dalle

sponsorizzazioni private, riescono a soddisfare nuove fasce di pubblico. Gli

investimenti pubblicitari, col passare del tempo, si rivolgeranno sempre più

nei confronti di ambiti meno generalisti e più dedicati , privilegiando

prodotti personalizzati (narrowcasting). I progressivi sviluppi tecnologici

porteranno, dagli anni Novanta in poi, a concezioni e creazioni di palinsesti

sempre più personalizzati fino ad arrivare al sistema pay-tv che consente

all’utente di decidere la sua dieta televisiva, sia per gli orari di fruizione sia

per le modalità di consumo del prodotto televisivo: stabilendo una scaletta

personale della propria programmazione su schermo. Il fondamentale

passaggio dai media di massa (mass media) ai personale media (prima fra

tutto il personal computer) ridefinisce un nuovo ruolo della televisione, che

pur rimanendo il media più radicato e ancora più diffuso, deve fare i conti

con le nuove tecnologie e quando possibile, integrarle.

Possiamo individuare tre fasi fondamentali riguardanti il ruolo e lo sviluppo

del mezzo televisivo in Italia: la prima, rappresentata da una Tv generalista,

attraverso un monopolio pubblico che dura di fatto fino al 197521

; la

seconda, definibile come neotelevisione , passaggio tra vecchi e nuovi

linguaggi, caratterizzata da nuove strategie di consumi e dalla presenza di

un iniziale mercato pubblicitario; la terza e attuale fase, post-televisione,

contraddistinta dal passaggio e dall’aggiornamento di un media ormai

21. Nel 1975 viene creata una Commissione di vigilanza parlamentare sulla Rai e concessi nuovi spazi

ad emittenti private di medie e piccole dimensione. La creazione di questa Commissione rappresenta, almeno formalmente, la fine di un uso strumentale del mezzo televisivo da parte dei governi in carica

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vecchio come la televisione in favore di nuovi media, interattivi e virtuali

(es. Internet)22

. Più che di multimedialità, in Italia, si potrebbe parlare, dagli

anni cinquanta in poi, di progressiva intermedialità tra vecchi e nuovi

sistemi di comunicazione: radio e Tv prima; Internet, telefonia mobile e

nuove tecnologie dagli anni Novanta in poi.

“I poveri di media alla periferia dell’impero mediatico” in Italia da Nord a

Sud, vanno ad ampliare la cosiddetta fascia di “classe media

radiotelevisiva”, poco affine ai nuovi media e consumatrice dei media

storicamente testati e approfonditi dai più (radio,tv e stampa). Possiamo

inoltre suddividere la storia dell’industria culturale italiana in due grandi

fasi storiche: la prima contraddistinta dall’avvento del regime fascista e

dalla seguente ricostruzione post-bellica; la seconda orientata invece verso

il mercato e le sue logiche produttive. La prima fase denota un

atteggiamento pedagogico nella produzione di cultura, lo scopo principale,

e non solo in Italia, è l’acculturazione delle masse e la necessità di un

livellamento della società secondo un sistema propagandistico. La seconda

fase, passando da un sistema “artigianale” di produzione, approda ad un

nuovo media system per conquistare un mercato sempre maggiore. In Italia

non si è mai sviluppata la televisione “via cavo”, che in altri paesi ha avuto

una larga diffusione. I motivi sono vari, ma il principale è uno: quando

stava per aprirsi la possibilità della diffusione “via cavo” in Italia, fu scelto

invece di “liberalizzare” le trasmissioni “via etere”. Un’improvvisa crescita

del numero di canali disponibili distolse l’attenzione dalle possibilità che

avrebbe offerto lo sviluppo di aree “cablate” (che in altri paesi sono state,

parecchi anni fa, anche il primo strumento di accesso alle trasmissioni

22.Cfr. L’industria culturale, tracce di immagini di un privilegio, A. Abruzzese, D. Borrelli, Carocci, Roma, 2001, pag. 224

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satellitari). Anche nella ricezione delle trasmissioni dai satelliti l’Italia è in

forte ritardo. Ora la situazione si sa evolvendo, ma ovviamente è troppo

presto per poter fare ipotesi o previsioni su come si svilupperà nei prossimi

anni. La televisione a cinquecento o mille canali è ormai da tempo una

concreta possibilità tecnica. Se si realizzasse permetterebbe un

cambiamento radicale dei comportamenti. Ognuno potrebbe scegliere il

programma che vuole, all’ora che preferisce. Ma la televisione

“generalista” è radicata nelle abitudini ( più di chi produce la televisione

che di chi la guarda). Produrre e organizzare i contenuti necessari per una

televisione più selettiva, che offra a ciascuno una larga libertà di scelta, è

un’impresa molto impegnativa. Ciò che la tecnologia permetterebbe di

realizzare in tempi brevi probabilmente si farà attendere ancora per

parecchi anni.

1.4 Intellettuali o produttori culturali?

Per la sensibilità moderna e contemporanea, il termine “intellettuale”,

diffuso soprattutto in area germanica, sin dai primi decenni del secolo XIX,

ma che avrà fortuna soprattutto dal 1898 con il cosiddetto caso Dreyfus23

in

Francia, evoca l’immagine di un professionista della cultura (scrittore,

23. Dreyfus (1894-1906) fu il primo clamoroso caso politico-giudiziario scoppiato nella Francia della

Terza repubblica. Nel 1894 Alfred Dreyfus (Mulhouse 1859 - Parigi 1935), ufficiale di origine ebraica impiegato presso il ministero della Guerra, fu accusato di aver rivelato segreti relativi alla difesa

all'addetto militare tedesco a Parigi. Arrestato in ottobre, dopo un giudizio sommario Dreyfus fu

degradato e condannato alla deportazione a vita nell'isola del Diavolo (Caienna). L'opinione pubblica francese, travolta da un'ondata di antisemitismo, dimenticò il caso finché nel 1896, il comandante G.

Picquart, nuovo responsabile dell'ufficio informazioni del ministero, riaprì le indagini, persuaso della

colpevolezza di un altro ufficiale francese, Esterhazy. Questi però nonostante la debolezza delle prove a carico di Dreyfus, venne scagionato dal consiglio di guerra (1898), mentre il governo Méline subiva

passivamente le laceranti polemiche che dividevano i francesi in due correnti d'opinione: i dreyfusards

(intellettuali, socialisti, radicali e repubblicani antimilitaristi) e gli antidreyfusards (la destra nazionalista, antisemita e clericale).

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politologo, sociologo, filosofo) che stabilisce con il potere un rapporto

dialettico (di opposizione o di connivenza) e che a vario titolo si fa

portavoce di istanze dominanti o marginali dell’opinione pubblica, di cui

viene considerato parte integrante e talvolta guida o ispiratore.

Si tratta dunque di una nozione inconcepibile se non in presenza di diffusi

mezzi di comunicazione (è inizialmente connessa alla stampa giornalistica)

e non di rado esposta, soprattutto da parte dei conservatori, ad una

connotazione denigratoria o quantomeno ironica24

.

Per dirla con Abruzzese, gli intellettuali: “[…]possono parlare a nome del

Principe o contro la sua volontà, ma fanno comunque parte di un unico

sistema di potere, sono parte dei suoi conflitti”25

.

Di fronte ai mutamenti sociali gli intellettuali hanno bisogno, per poter

divulgare le proprie idee, di “potenti casse di risonanza”, di mezzi di

comunicazione che diano visibilità al loro “appeal intellettuale”; risulta

evidente e necessaria dunque, una distinzione tra l’intellettuale che si

occupa di scuola, università e società contrapposto o differenziato

dall’intellettuale che opera nel campo dello spettacolo, delle tv e della

stampa. In Italia gli intellettuali “puri”, che potremmo definire accademici,

hanno dimostrato una scarsa influenza sociale dovuta alla cronica

debolezza ed incoerenza del sistema italiano nell’armonizzare il mondo

della ricerca scientifica con quello degli apparati pubblici e privati.

Diversamente la comunità degli appartenenti al mondo della scrittura,

24.Intellettuali e teorie sull’industria culturale camminano lungo l’asse che va dalle posizioni più critiche a quelle maggiormente integrate, tra coloro che hanno considerato la condivisione sempre più ampia

della cultura come un’operazione fittizia atta a illudere e magari ottundere le masse e coloro che invece

hanno salutato con favore la democratizzazione della cultura, anche se il prezzo da pagare era un adattamento della cultura stessa ai suoi nuovi destinatari. 25. Alberto abruzzese, Intellettuale versus industria culturale, in “Il Mediaevo italiano, a cura di Mario

Morcellini, Carocci, 2005, 4.14, pag. 122.

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21

giornalisti delle carta stampata, critici professionisti, hanno trovato una loro

maggiore autorevolezza proprio però non discostandosi da uno dei media

più radicati nel paese quale appunto è la carta stampata.

La stampa, contrassegnata da ampi spazi di approfondimento, ha

rappresentato storicamente il luogo di incontro di idee e intellettuali, sui

maggiori argomenti di attualità ma anche su questioni più ampie26

. Il

dibattito culturale, ospitato nelle pagine di quotidiani e settimanali, ha reso

possibile l’esistenza e la divulgazione di idee ed opinioni che altrimenti si

sarebbero mal adattate al mezzo televisivo, basato e regolato sulla news.

Intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia o Umberto Eco,

raramente hanno eletto come mezzo di diffusione delle proprie idee il

mezzo televisivo, giudicato spesso livellato su canoni culturali di massa

scadenti.

26

. Prima della seconda guerra mondiale in Italia c’erano 66 quotidiani, con una “tiratura” complessiva

di 4.600.000 copie. Il Corriere della Sera, che nel 1920 era arrivato a 750.000 copie, negli anni ’40 ne

stampava 500.000 (è ancora al primo posto fra i quotidiani in Italia, con una tiratura di quasi 900.000 copie e una diffusione di oltre 700.000).Nel dopoguerra il numero di testate crebbe rapidamente, fino a

136, per poi scendere a 111 nel 1952, a 96 nel 1961 e a 75 nel 1975. La diffusione dei quotidiani

cresceva poco – o addirittura diminuiva. La “tiratura” complessiva nel 1975 era di 6.251.000 copie rispetto a 6.341.000 nel 1965. Nello stesso periodo la diffusione (copie vendute) era scesa da 4.765.000

a 4.415.000.Da allora la situazione non è molto cambiata. Il numero di testate è di nuovo aumentato (ce

ne sono circa 180 – ma molte che erano indipendenti oggi fanno parte di grossi gruppi editoriali). La diffusione, come vedremo più avanti, alla fine degli anni ’80 aveva superato i sei milioni di copie, ma

dal 1994 rimane più bassa. In rapporto alla popolazione è inferiore ai livelli d’anteguerra. L’Italia era ed

è fra i paesi più arretrati in Europa per diffusione e lettura della stampa quotidiana. Il problema è noto e ampiamente dibattuto. Ma quella che continua a mancare è una soluzione.Un fatto nuovo è la

diffusione, in alcune città, di giornali distribuiti gratuitamente nelle stazioni delle metropolitane e in

altri luoghi “frequentati”. Dal primo uscito a Roma nel 1999 si è arrivati alla diffusione in dieci città italiane (con tre testate a Milano e Roma, due a Bologna, Firenze, Napoli e Padova, una a Bari, Torino,

Venezia e Verona). Si riempie così, in parte, lo spazio lasciato vuoto dal mancato sviluppo in Italia dei

quotidiani “popolari” e dall’estinzione dei “pomeridiani”. Il numero di copie stampate è rilevante: secondo le dichiarazioni degli editori nel 2003 sarebbe arrivato a due milioni. Ma il fenomeno è limitato

ad alcune aree urbane, raggiunge solo sporadicamente quella parte poco attiva della popolazione che è

meno abituata alla lettura – e non incide molto sulla situazione complessiva della stampa. È anche aumentato il numero dei periodici “gratuiti”, diffusi in diversi canali, ma con un effetto marginale sulla

diffusione totale e sulla lettura.

Fonte dati: Censis

Page 22: Tesi di laurea - Lindustria culturale in Italia - il caffé letterario - Davide Trebbi def. 4.7.07

22

Il paradosso, aggiunge Abruzzese, è che “in Italia è la pubblicità televisiva

– vero e proprio anticristo per gli intellettuali – a far sopravvivere la

stampa, e dunque è la ricchezza dei consumi a fornire mezzi di espressione

alle culture scritte”.

Gli intellettuali si dispongono, secondo quanto detto finora, su vari livelli di

interazione con l’industria culturale: li si troverà fermi su una posizione di

critica radicale, esterna e inconciliabile rispetto al sistema di produzione

culturale moderno; oppure come veri e propri produttori culturali,

impegnati dall’interno dell’industria stessa al fine di veicolare al meglio il

prodotto o la nuova idea da commercializzare; “lavoro intellettuale e

routine produttiva” si discostano sempre più e la figura di intellettuale puro,

nella nuova industria e new media, viene sostituita con quella di “creativo”.

1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia

Per analizzare l’impatto che i media tradizionali e i nuovi media hanno

avuto sulla società italiana dall’inizio del XI secolo ad oggi potremmo

ricorrere ad una preliminare definizione di modernizzazione intesa come

“l’insieme dei processi economici, sociali e culturali che hanno trasformato

le società europee ed occidentali negli ultimi tre secoli, tanto da poter

parlare di dicotomia società tradizionale/società moderna”.27

Il mutamento socio - culturale verificatosi conseguentemente alla

diffusione di nuovi media sul territorio nazionale ha portato con se anche

nuovi fenomeni di socializzazione, fornendo strumenti ideali per questo

scopo interrelazionale a fronte di un indebolimento del ruolo storico e

27. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, l’impatto della comunicazione nel caso italiano, Carocci, 2005, 1.2, pag. 17.

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fondante della famiglia. In tutto il mondo occidentale, le nuove tecnologie

hanno anche contribuito all’atomizzazione della società: la

rappresentazione del sé in uno schermo (attraverso chat rooms, mondi

virtuali come Second Life28

,ecc) dimostra forse il massimo impatto, sia

negativo sia radicale, che le nuove tecnologie informatiche fanno registrare

sulla società dei nuovi “pubblici”.La centralità del consumo culturale

afferma progressivamente l’importanza e il nuovo valore che il tempo

libero va ad assumere in un contesto in cui il consumatore culturale vive la

sua intera vita diviso tra “lavoro organizzato” e “tempo libero organizzato”,

in questo caso da altri. Per questo concetto si faccia riferimento al paragrafo

1.6 di questo capitolo, a proposito delle teorie sull’accesso esposte da J.

Rifkin.

Dal dopoguerra ad oggi, gli italiani hanno modificato significativamente i

loro interessi culturali e il conseguente consumo culturale. La quota di

reddito destinata alla ricreazione e all’intrattenimento in genere, dalla

cultura allo spettacolo risulta maggiore verso gli anni ’80 rispetto alla spesa

destinata al tempo libero registrata durante gli anni ’50. La produzione di

una cultura di massa a costi minori ha sicuramente facilitato tale processo

28. Second Life è una comunità virtuale tridimensionale online creata nel 2003 dalla società americana

Linden Lab. Il sistema fornisce ai suoi utenti (definiti "residenti") gli strumenti per aggiungere al

"mondo virtuale" di Second Life nuovi contenuti grafici: oggetti, fondali, fisionomie dei personaggi,

contenuti audiovisivi, ecc. La peculiarità del mondo di Second Life è quella di lasciare agli utenti la libertà di usufruire dei diritti d'autore sugli oggetti che essi creano, che possono essere venduti e

scambiati tra i "residenti" utilizzando una moneta virtuale (il Linden Dollar) che può essere convertito

in veri dollari americani. Attualmente partecipano alla creazione del mondo di Second Life oltre 6 milioni di utenti di tutto il pianeta (dato 11 maggio 2007), e ciò che distingue "Second Life" dai normali

giochi 3D online è che ogni personaggio che partecipa alla "seconda vita" corrisponde ad un reale

giocatore. Gli incontri tra personaggi all'interno del mondo virtuale si configurano dunque come reali scambi tra esseri umani attraverso la mediazione "figurata" degli avatar. L'iscrizione è gratuita, anche se

è obbligatorio essere maggiorenni. Per costruire e vendere oggetti all'interno di "Second Life", inoltre,

occorre comprare aree di terreno nel mondo virtuale di Second Life.

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24

rendendo accessibili alle masse intrattenimenti precedentemente elitari (ad

es. il teatro).Se da una parte il cinema, dagli anni ’20 in poi ha subito una

costante discesa nei consumi e nelle risorse individuali ad esso destinato,

altri settori hanno aumentato la loro audience e i loro ricavi: ad esempio,

durante gli anni ’90, gli spettacoli dal vivo ( musica, teatro,ecc) e lo sport,

hanno rappresentato il vero settore di crescita nei consumi culturali. I

cosiddetti trattenimenti hanno raggiunto negli anni ’90, un terzo del

consumo culturale nazionale.

Nel caso italiano, l’industria culturale, è definita storicamente e nella sua

specificità dalla “disparità di ritmo e di rilevanza rispetto ad altri settori

dello sviluppo industriale come quello automobilistico o degli

elettrodomestici”. Più che di industria culturale definita come sistema, in

Italia si potrebbe parlare di apparati di produzione eterogenei, dal cinema

alla tv, scarsamente convergenti e basati su piccole imprese se non da

gestioni familiari. Questa particolarità tutta italiana ha indubbiamente

favorito un certo tipo di cinema, ad esempio la commedia all’italiana,

basata non su grandi budget di investimento ma sulla presenza di maschere

(da Totò a Massimo Troisi, da Roberto Benigni a Carlo Verdone) in grado

di colmare frizioni e lacune del sistema industrial-culturale italiano. Fino

agli anni ’80 si può parlare, in Italia, di artigianato culturale più che di

industria vera e propria. Si distingue per risorse e professionalità in campo

la televisione che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha saputo mantenere

invariato il suo appeal mediatico: è forse l’unico media che abbia da

sempre seguito e assecondato i gusti del pubblico ed in particolare del

pubblico italiano. Di fronte ad una stampa in continua parabola

discendente, sia per copie vendute che per qualità di lettori, la Tv, grazie

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25

anche alla sua diffusione capillare sul territorio nazionale, ha mantenuto alti

i suoi standard di fruizione da parte degli italiani, mantenendo un ruolo

centrale nei consumi mediali quotidiani, da parte dei più giovani come dei

più anziani.

1. 6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy

All'inizio del terzo millennio l'impatto delle nuove tecnologie sta

cambiando radicalmente la struttura della società e il nostro modo di vivere.

Nella «Fine del lavoro», Jeremy Rifkin sottolineava l'urgenza di trovare

quanto prima una risposta al problema, generato dall'informatizzazione, del

«lavoro umano inutilizzato». Nell'«Era dell'accesso», Rifkin delinea gli

scenari di un futuro imminente in cui le idee e le conoscenze sono i

principali generatori di ricchezza, in cui per la prima volta nella storia

moderna il possesso di beni materiali viene considerato un limite alla

capacità di adeguarsi al cambiamento e ogni genere di bene, servizio o

conoscenza (dall'informazione all'intrattenimento, all'istruzione) deve

essere acquistato o preso in affitto. Gran parte delle funzioni una volta

risolte in ambito sociale e culturale vengono così sostituite da rapporti

economici e quasi tutte le attività diventano esperienze a pagamento. Rifkin

analizza le strutture organizzative dell'economia delle reti e i meccanismi

dell'informazione caratteristici dell'era postmoderna, evidenziando i rischi e

le opportunità che si prospettano per lo sviluppo della società e

l'emancipazione dell'uomo nel ventunesimo secolo. Da un lato il potere dei

“nuovi tiranni” del progresso, i più grandi e importanti provider

internazionali, destinati a gestire l'accesso a ogni attività e a controllare la

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26

vita di ciascuno di noi in una società dove si accresce il divario tra chi è

“connesso” e chi non lo è; dall'altro la possibilità di una maggiore

diffusione della conoscenza, della democrazia e del benessere, e

l'affrancamento dalla “schiavitù” del lavoro.

1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali

“L'uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro

che l' hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell'era industriale: si

trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi

virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell'economia delle

reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere

esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per

adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata)”29

. Lo psicologo

Robert J. Lifton ha definito questa nuova generazione “proteiforme” :

uomini e donne cresciuti nei common-interest developments30

, la cui salute

è gestita dal servizio sanitario, che utilizzano automobili in leasing,

acquistano on-line, si aspettano di ottenere software gratuitamente, ma sono

disposti a pagare per servizi aggiuntivi e aggiornamenti. Vivono in un

mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso

rapido alle informazioni, hanno una soglia d'attenzione labile, sono più

spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a

lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che

29. J.Rifkin, L’era dell’accesso, Mondatori, 2000

30. Le comunità residenziali battezzate common-interest developments (CID) residenti di un CID hanno ciascuno la proprietà di un lotto abitativo, e condividono quella di tutte le aree comuni all’interno del

CID: parchi, strade, centri di ricreazione, negozi. Il consiglio amministrativo dei CID delibera su molte

materie, dall’urbanistica alle norme di condotta. Se l’attuale tasso di crescita si manterrà nel tempo, i CID potrebbero progressivamente rivaleggiare con le amministrazioni locali.

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27

industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time31

e sono

abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate

da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di

quelle dei loro genitori. Sono più «terapeutici» che ideologici e pensano più

in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di

frasi, ma superiori nell'elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi

che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano «veri»,

considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra

sovranità del consumatore e democrazia. Il loro mondo è più fluido,

segnato da confini più sfumati. Sono cresciuti a ipertesti, link fra siti Web e

anelli di feedback, e hanno una percezione della realtà più sistemica e

partecipativa che lineare e obiettiva. Pensano al mondo come a un

palcoscenico e alla propria vita come a una serie di rappresentazioni

teatrali. Cambiano in continuazione, a ogni passaggio fondamentale della

propria esistenza sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e

queste donne non sono interessati alla storia, bensì ossessionati dalla moda

e dallo stile. Questi uomini nuovi stanno iniziando a lasciarsi alle spalle la

proprietà: il loro mondo - un mondo di reti, gatekeepers e connettività -

comincia appena a essere dominato da eventi iper-reali e da esperienze

istantanee. Ciò che conta è l'accesso: non essere connessi è la morte. Sono i

31. Just in time (spesso abbreviato in JIT), espressione inglese che significa "giusto/appena in tempo", è

un insieme di metodologie tese a migliorare il processo produttivo, cercando di ottimizzare non tanto la

produzione quanto le fasi a monte, di alleggerire al massimo le scorte di materie prime e di semilavorati

necessari alla produzione. In pratica si tratta di coordinare i tempi di effettiva necessità dei materiali

sulla linea produttiva con la loro acquisizione e disponibilità nel segmento del ciclo produttivo e nel

momento in cui debbono essere utilizzati.

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28

primi esseri umani a vivere in quella che lo storico Arnold Toynbee ha

definito età postmoderna. Questa nuova era contrasta decisamente con l'età

moderna, in cui i rapporti proprietari e il possesso informavano ogni

transazione economica e definivano la quasi totalità delle interazioni

sociali: le distinzioni nell'età postmoderna sono relative più all'accesso che

al possesso. L'età postmoderna è legata a una nuova fase del capitalismo,

fondata sulla mercificazione del tempo, della cultura e delle esperienze,

mentre le epoche precedenti coincisero con fasi basate sulla mercificazione

della terra e delle risorse, lo sfruttamento del lavoro, la produzione di merci

e servizi di base. Baudrillard32

sostiene che viviamo nel mondo

immaginario dello schermo, dell'interfaccia e delle reti. Tutte le nostre

macchine sono schermi, noi stessi siamo diventati schermi e l'interazione

fra uomini è diventata interattività fra schermi. Insomma, è come se già

vivessimo in un' allucinazione «estetica» della realtà.

1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo

Una definizione preliminare: “la convergenza di dati continui in una

rappresentazione numerica prende il nome di

digitalizzazione”.33

Convergenza di dati e modularizzazione degli stessi

rappresentano il punto focale del sistema di funzionamento di tutte le nuove

tecnologie in uso. E di convergenza dei media, si può parlare anche

affrontando la questione dal punto di vista dell’immagine che gli individui

hanno delle nuove tecnologie. Definire l’immaginario collettivo richiederà

32. Jean Baudrillard, critico e teorico della post-modernità. 33. Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, 2002. titolo originale: The language of New

Media, Massachussets Institute of Technology, 2001. Par. 2.1. I principi ispiratori dei nuovi media. Rappresentazione numerica, pag. 47.

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alcune, ma necessarie, chiarificazioni. Potremmo definire immaginario

collettivo: un insieme di simboli e concetti presenti nella memoria e

nell'immaginazione di una molteplicità di individui facenti parte di una

certa comunità, anche virtuale. La consapevolezza, da parte di tutti questi

individui, di condividere questi simboli rafforza il senso di appartenenza

alla comunità stessa. Spesso queste rappresentazioni fantastiche della realtà

arrivano a trascendere dalle stesse circostanze che le hanno prodotte nel

mondo reale e ad acquistare la forza e la suggestione del mito, diventando

le icone di un'intera fase della storia di un popolo. É significativo notare

come la visione di queste “entità immaginarie” sia spesso di tipo

“trasversale” (o convergente), nel senso che esse sono percepite ed

accettate come patrimonio comune, indipendentemente dagli orientamenti

religiosi, politici e culturali degli individui che fanno parte della comunità.

Un ruolo sempre più importante nella formazione e nella rielaborazione

dell'immaginario collettivo è svolto dai moderni mezzi di comunicazione di

massa, che rendono accessibili, su scala planetaria, le informazioni e le

immagini. Di conseguenza le dimensioni delle comunità che possono

condividere un comune patrimonio simbolico divengono sempre più vaste,

ed al concetto di "popolo" (o community) si sostituisce gradualmente

quello di villaggio globale. Dunque le nuove tecnologie hanno il grande

merito di consentire la costruzione collettiva di un universo comune di

significati.

L’intelligenza collettiva costituisce un nuovo spazio antropologico in cui,

grazie alle nuove tecnologie, tutti i saperi umani possono essere

democraticamente condivisi in un’ottica di etica dell’ospitalità ed estetica

dell’invenzione (esiste, infatti, un’architettura del ciberspazio).

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L'immaginario collettivo nasce quando una infrastruttura mediatica

trasmette e ripete una stessa immagine per milioni di volte, producendo un

luogo comune, una allucinazione consensuale intorno ad uno stesso oggetto

(che poi è declinato e comunicato attraverso altri vettori, dal passaparola al

cinema). Nel caso del medium televisivo questa trasmissione seriale di

milioni di immagini è molto più letale, perché avviene nello stesso istante.

Altra cosa è invece l'immaginario di rete, che funziona in modo interattivo

e non istantaneo, per il quale parliamo di immaginario connettivo.

L'immaginario è quindi la trasmissione collettiva seriale di una stessa

immagine attraverso media diversi. Parafrasando Goebbels, è come una

bugia ripetuta milioni di volte che diventa discorso pubblico, conversazione

quotidiana, verità. L'immaginario collettivo è in definitiva questo luogo

dove si incrociano media e desiderio, dove una stessa immagine ripetuta un

milione di volte modifica contemporaneamente milioni di corpi, inscrive il

piacere, la speranza, la paura. A questo proposito, le tesi di De Kerckhove

riguardo al problema dell’intelligenza connettiva34

affermano che: “ La

mente umana può fare molto di più di quello che fa e le nuove tecnologie la

stimoleranno a fare di più , a fare meglio, a fare cose differenti e nuove”.35

Come ha dichiarato lo stesso De Kerckhove nel 1999: “Da Internet è nata

una forma di intelligenza nuova”.

L’intelligenza nuova di cui parla De Kerckhove, trova i suoi fondamenti

anche nelle caratteristiche basilari dei nuovi media definite in:

digitalizzazione, convergenza e personalizzazione. Nuove tecnologie e

34. De Kerckhove, Derrick (1991), Brainframes.Technology, Mind And Business, Bosch &; Keuning,

Utrecht, trad. it. Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna, 1993 35 D. De Kerckhove, Ve lo posso garantire io, in Internet non ci si perde, Telema 4, primavera 1996

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quindi nuovi media conducono al superamento di alcune barriere

apparentemente insormontabili quali il passaggio dal formato analogico

(senza soluzione di continuità) al formato digitale (discreto per sua stessa

natura: 1,0,1,0 e così all’infinito). I “vecchi” media del nostro immaginario

collettivo ci riconducono a pratiche di consumo separate tra loro. Il

telefono, la televisione e il personal computer convergono o almeno

dovrebbero attraverso la rivoluzione digitale, in un unico dispositivo

digitale e multimediale. I dispositivi comunicativi che consentiranno questa

convergenza sono in parte affermati e in parte in via di definizione. Il primo

e fondamentale passaggio sarà quello dell’abbandono, o del diverso uso,

dei mezzi di comunicazione di massa per approdare ad un uso personale e

dedicato. Afferma Alberto Marinelli: “In realtà un sistema mediale

integrato capace di assicurare prestazioni di questo tipo esiste già: è la rete

Internet, con i software di navigazione che fanno riferimento al personal

computer e ai protocolli di comunicazione sviluppati in ambiente web, che

si stanno espandendo in aree contigue dal punto di vista tecnologico

(dispositivi wireless e mobile, tv digitale via cavo, satellitare e terrestre)”.36

La possibilità di accedere a dispositivi digitali di vario tipo è poi connesso

al grado di sviluppo tecnologico di ciascun paese: per quanto riguarda

l’Italia secondo le previsioni dell’European Information Technology

Observatory, il futuro prossimo vedrà il nostro paese in coda, per

tecnologie e velocità di trasferimento dati digitali, nelle classifiche dei paesi

Europei e comunque del “Nord del mondo”.

Per dirla con Morcellini: “Senza assumere una visione retorica o

taumaturgica dei media come naturalmente democratici e progressisti,

36. In “Il Mediaevo italiano, Verso il futuro. Internet e la convergenza”,Carocci, 2005, Cap. 19, par. 19.1, pag. 398.

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resta il fatto che essi attivano una serie infinita e persino sfuggente di effetti

psicologici, culturali e sociali”37

. Un’osservazione questa che risulta

riscontrabile anche nel caso italiano. In Italia, dagli anni ’50 in poi la

centralità della televisione nei consumi culturali e mediatici degli italiani,

ha fortemente rallentato lo sviluppo tecnologico del paese. Una nuova

multimedialità comunicativa e il suo apporto culturale rappresentano un

driver di mutamento necessario e imprescindibile. Le trasformazioni

qualitative e di standard tecnico hanno portato sia in Italia che in Europa ad

un progressivo indebolimento dei media generalisti per definizione (Radio

e tv), a favore di una multimedialità di fatto: si è passati da una concezione

originaria e di base di multimedialità (uso combinato di radio, tv e stampa)

ad una seconda fase contraddistinta dal consumo di media generalisti

abbinati al consumo di intrattenimenti dal vivo, fino ad arrivare alla terza

fase che potremmo definire di multimedialità evoluta che senza escludere i

media pre-esistenti, si indirizza su nuovi media (internet, telefonia mobile,

tv digitale, ecc).

“Tutti i navigatori e i fruitori del digitale provengono, infatti, dall’ “esercito

del generalismo”: proprio per questo è difficile che essi possano troncare i

contatti con la mappa dei media tradizionali”.38

L’intermedialità tra nuovi e vecchi mezzi di comunicazione in Italia, trova

le sue principali cause di rallentamento anche nell’età degli utilizzatori di

nuovi media e nella capacità di telecomunicazione della Rete nazionale:

scarsa diffusione di reti basate su comunicazione per mezzo di fibra ottica o

scarsa diffusione di pc/pro-famiglia sul territorio nazionale. Ci si trova di

37

. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, mutamento all’italiana, Carocci, 2005, 1.9.2, pag. 44 38. Il Mediaevo italiano, Mediaevo vs tecnoevo. Il mondo dei consumi culturali, M.Morcellini e M.Gavrila, par. 3.1, pag. 73, Carocci, 2005.

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fronte ad un panorama italiano che vede, da una parte, un gran numero di

analfabeti informatici e, quasi in contrapposizione, dall’altra parte un

numero discreto ma in crescita di esploratori tecnologici.

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CAPITOLO SECONDO

I caffé letterari

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Quel tavolo del Caffè Garibaldi [a Trieste], sotto il municipio, tra le sette e le nove

di sera degli anni che seguirono all'altra guerra - scrive Giani Stuparich39

pensando al fratello Carlo e all'amico Scipio Slataper che dalla guerra non erano

tornati - è passato alla storia. Trieste non ebbe forse mai un affiatamento di spiriti

così vasto.

39

. cfr. Al Caffè con Stuparich in Enrico Falqui, Caffè letterari, Roma, Canesi, 1962

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39

2.1 Cultura al Caffè: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud

Stuparich costruisce una suggestiva carrellata dei clienti abituali del

Garibaldi fra i quali spiccano i nomi di Julius Kugy, definito spirito

europeo, e di James Joyce, uno spirito universale. Accanto a questi illustri

stranieri non mancavano certo gli italiani, anzi i triestini: primo fra tutti

Italo Svevo che "sapeva fondere con la sua animata e spiritosa socievolezza

- spiega Stuparich - la compagnia del Caffè Garibaldi. [...] Svevo sapeva

conquistare persino Saba: ed era, specie in quegli anni, non facile impresa.

Saba s'iniziava allora al freudismo, con tutti gli alti e bassi di una

nevrastenia scontrosa e patita, che solo più tardi doveva trovare nei "misteri

freudiani" il suo centro di sollievo. Svevo, in certo qual modo aveva già

disciolto il freudismo nell'ironia, nella sua ironia."40

Questo gruppo di amici, gli assidui del Caffè Garibaldi, erano così legati al

locale che, quando venne chiuso fecero secessione e si spostarono in massa

al vicino Bar Nazionale 41

.

Alla compagnia si aggiunsero presto alcuni amici occasionali come il

matematico e musicista Guido Voghera, Silvio Pittoni, fratello del deputato

socialista, il pittore klimtiano Timmel e Roberto, Bobi Bazlen, per citarne

soltanto alcuni.

"Il caffè è l'unico luogo in cui si può veramente scrivere: si è soli, con carta

e penna e tutt'al più i due o tre libri di cui si ha bisogno in quel momento -

40. Il cognato di Italo Svevo, Veneziani, era stato in analisi presso Freud per risolvere problemi di

dipendenza dalla morfina e di omosessualità. A sua volta Joyce, all’epoca anch’egli residente a Trieste,

venne a contatto con la psicanalisi proprio attraverso lo stesso Svevo. 41. In Piazza dell’Unità, sempre a Trieste.

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40

spiega Claudio Magris 42

- abbandonati a se stessi e costretti a far conto

soltanto su se stessi, a raccogliere le proprie energie e dosarle con misura; il

tavolino su cui si poggia il foglio diviene la tavola di un naufrago, cui ci si

aggrappa, mentre la familiare armonia che ci circonda si svuota, diviene

l'incerta cavità del mondo, nel quale la scrittura si addentra, perplessa e

ostinata."

Sono parole scritte pensando al Caffè Tommaseo (dopo la ristrutturazione

dell'edificio che lo ospita, compiuta fra il 1984 e il 1986 dalle Generali) ma

sedendo a un tavolino del Caffè San Marco, il preferito da Magris che gli

dedica il primo capitolo dei suoi Microcosmi (Milano, Garzanti, 1997). "Il

San Marco è un vero Caffè, periferia della storia contrassegnata dalla

fedeltà conservatrice e dal pluralismo liberale dei suoi frequentatori. [...] Al

San Marco trionfa - osserva Magris - vitale e sanguigna, la varietà."43

Magris pensa al Caffè come a un luogo del disincanto dove si ripete

immutato e al tempo stesso nuovo, uno spettacolo già visto in cui ognuno

riesce forse a ritrovare se stesso. Anche Magris, come Stuparich, ricorda i

tanti nomi di intellettuali che si sono fermati a discutere, a scrivere e a

vivere qualche ora in questo Caffè: fra i tanti nomi spicca quello di Giorgio

Voghera (figlio di Guido), conosciuto per gli studi sull'ebraismo e sulla

psicanalisi.44

42. Claudio Magris, scrittore e germanista; Cfr. Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del

moderno, Claudio Magris, Garzanti, 2001 43. Claudio Magris, Microcosmi, Garzanti, Milano, 1997 44

. Giorgio Voghera, pubblicazioni e studi: Gli anni della psicanalisi (1980), Nostra Signora Morte

(1983), Carcere a Giaffa (1985), Quaderno d'Israele (1986). Di lui alcuni dicono che sia l'autore del

romanzo Il segreto, pubblicato nel 1961 da Einaudi come romanzo di "anonimo triestino" (con prefazione di Linuccia Saba); Giorgio Voghera ha sempre smentito, sostenendo che l'autore di tale

romanzo è in realtà suo padre Guido Voghera. [Per completare il labirinto: l'unica opera ufficialmente

edita di Guido Voghera è Pamphlet postumo: Etica e Politica da Hegel ai Grandi Dittatori, con una biografia scritta da Giorgio e una presentazione di Aurelia Gruber Benco (Edizioni Umana, 1967).]

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2.2 Caffè storici d’Italia

Trieste

Le prime Botteghe da caffè vennero aperte a Trieste nella seconda metà del

Settecento, probabilmente seguendo l'esempio degli omonimi locali

veneziani decantati dal Goldoni, ma assumendo immediatamente

un'inconfondibile impronta viennese negli arredi e nei servizi offerti.

La prima Caffetteria di cui si hanno notizie fin dal 1768 era quella di

Benedetto Capano, sita in contrada Bottari (ora via San Nicolò). Ad essa

veniva concessa l'esclusiva della vendita di “Acque fredde e calde, the,

caffè, cioccolata, limonate, sorbetti ed acque sciroppate" e la possibilità di

tenere “Bigliardi da soldo e cuocere biscotterie” con la raccomandazione,

però, di non permettere nel locale” scandali, ritrovi sospetti e giochi, e di

contribuire alle quiete e alla morigeratezza”. Dì li in avanti le botteghe di

caffè si moltiplicarono in una Trieste che era cresciuta di popolo e di

fortuna.45

Emporio mitteleuropeo, ogni colonia (tedesca, greca, svizzera) aveva un

proprio luogo d'incontro: così i tedeschi frequentavano il Caffè Stella

Polare, i levantini il Caffè Griot. Con il passare del tempo, lo spirito

cosmopolita della città propose caratterizzazioni diverse da quelle

nazionaliste, con Caffè spiccatamente politici, quelli per ufficiali e alti

funzionari austriaci, quelli della borghesia, degli uomini d'affari e sempre

più numerosi i Caffè letterari. Ad imitazione dei Caffè parigini nascono

anche i primi concerti, le prime esposizioni pittoriche, le camere da gioco,

45. Fonte: A.I.A.T. Agenzia di Informazione e di Accoglienza Turistica di Trieste

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le sale biliardo, e la sempre più ricca presenza di giornali italiani, tedeschi,

inglesi e francesi. Contribuiscono a questo continuo progresso le assidue

presenze di letterati di fama mondiale: così al Caffè Pirona è certa quella di

James Joyce, ai Portici di Chiozza, centro allora dell'irredentismo triestino,

quella di Italo Svevo, all'Antico Caffè San Marco Umberto Saba e molti

altri.

Nel corso del tempo Trieste, forse insieme alla sola Vienna, ha saputo

conservare alcune vestigia del suo passato che, per quanto antiche, sono

quanto mai ancora vive.

Continuando così in un percorso ideale fino ad arrivare al Caffè

Tommaseo, il Caffè degli Specchi nella splendida cornice di Piazza Unità,

il Tergesteo, la Stella Polare, il Torinese, il Caffè Pirona, l'Antico Caffè San

Marco. Tutti in grado di rievocare più di un secolo di storia cittadina

attraverso vicende che raccontano di irredentismo, cultura, invasioni,

letteratura, libertà.

Ma al contempo perfettamente inseriti nella realtà del XXI secolo e come

cent'anni fa in sintonia con i volubili desideri dei propri clienti.

Il Caffè Tommaseo

Il Caffè Tommaseo è, indubbiamente, uno fra i più antichi Caffè di Trieste.

Sito in quella che allora si chiamava piazza dei Negozianti, fu aperto nel

1830 da un padovano, Tomaso Marcato, che gli diede il proprio nome,

Caffè Tomaso. Il locale divenne subito meta preferita di artisti e

commercianti e, nel 1848, venne ribattezzato, in onore dello scrittore e

patriota dalmata Tommaseo. A testimoniare il legame fra il Caffè e quel

fondamentale momento storico c'è una lapide fatta apporre dall'Istituto

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nazionale per la storia del Risorgimento, ove si legge: "Da questo Caffè

Tommaseo, nel 1848, centro del movimento nazionale, si diffuse la fiamma

degli entusiasmi per la libertà italiana".

Dopo l'uccisione di Guglielmo Oberdan che segnò il trionfo della reazione

austriaca, il locale prudentemente riprese il nome originario che mantenne

fino al 1918, fino a quel fatidico 3 novembre che portò Trieste all'Italia e

permise al Caffè di chiamarsi nuovamente Tommaseo. Il Marcato, grande

appassionato d'arte, si preoccupò di abbellire il locale affidando l'incarico

delle decorazioni al pittore Giuseppe Gatteri e facendo venire, direttamente

del Belgio, una serie di specchiere, con le quali tappezzò tutte le pareti. Il

Caffè, ritrovo di artisti, letterati e uomini d'affari ospitava spesso mostre e

concerti; va ricordata una personale dedicata a Giuseppe Bernardino Bison

e i concerti che venivano proposti il giovedì dall'orchestra del Teatro

comunale e il sabato dalla banda. Fra le specialità offerte dal Caffè Tomaso

c'era il gelato, introdotto in città proprio dal Marcato che, sensibile alle

innovazioni, volle anche dotare il caffè di illuminazione a gas: correva il

1844 ed era il momento in cui in città si facevano i primi esperimenti

pubblici. Una curiosità emersa dagli archivi del locale è che, con un

contratto di acquisto, stilato il 29 settembre del 1830 pare ne fosse entrata

in possesso la contessa Lipomana, nome sotto il quale si nascondeva

nientemeno che Carolina Bonaparte, la vedova di Gioacchino Murat. Altro

fatto degno di nota è che l'edificio che ospita il locale è, dal 7 aprile 1954,

tutelato come monumento storico e artistico, sorte che divide con altri caffè

prestigiosi, un nome per tutti il Caffè Greco a Roma, in via Condotti. Fra

gli altri proprietari del caffè merita di essere ricordata la signora Nerina

Madonna Punzo che si preoccupò non solo di mantenere intatto l'aspetto

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originario del locale, ma si improvvisò anche editrice di un giornale

periodico “Lettere da un antico caffè” che voleva farsi portavoce di idee e

dibattiti letterari ed artistici. Restaurato e rinnovato nel dicembre 1997 nel

segno dell'originaria tradizione dei Caffè Viennesi, dalla nuova Società

proprietaria del Caffè.

Il Caffè San Marco

Il 3 gennaio 1914 viene inaugurato il Caffè San Marco, sorto là dove un

tempo c'era la Latteria Centrale Trifolium, divenne presto luogo di ritrovo

di lettori di quotidiani, giocatori di biliardo, nonché giovani irredentisti e

laboratorio per la preparazione di passaporti falsi che sarebbero serviti ai

patrioti antiaustriaci per scappare in Italia. L'attività del Caffè fu

bruscamente interrotta il 23 maggio 1915 quando una pattuglia austriaca

devastò il locale. Fra i diversi proprietari che si alternarono nella gestione

del Caffè meritano di essere ricordati, oltre al primo Marco Lovrinivich, le

sorelle Stock che Claudio Magris definisce "minute e inesorabili"46

.

Il Caffè, più volte restaurato grazie alla munificenza delle Assicurazioni

Generali, si presenta oggi, dopo la riapertura del 16 giugno 1997, con

l'immutato e suggestivo aspetto di sempre. Le maschere ammiccano ancora

dall'alto, sopra il bancone di legno intarsiato, opera - spiega ancora Magris -

della rinomata falegnameria Cante. Alcune maschere sono attribuite al

pittore viennese Timmel, che sfogava al Caffè la propria fatica di vivere. In

effetti tutto il Caffè segue lo stile della Secessione viennese che, abbinato

allo stile floreale, gli conferisce un'incredibile suggestione. Interessanti

sono i nudi dipinti sui medaglioni alle pareti, pare da Napoleone Cozzi un

46. Cfr. Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997, cap. 1

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"decoratore alpinista scrittore e irredentista" e da Ugo Flumiani "pittore -

spiega Magris - di acque increspate." I nudi sono infatti la metafora dei

fiumi friulani, ma anche istriani e dalmati che si perdono nell'Adriatico, il

mare di Venezia e quindi di San Marco. Di grande effetto le innumerevoli

foglie di caffè che rappresentano una costante nella decorazione con il loro

ripetersi ossessivo e al tempo stesso rassicurante. Ci sono i tavolini di

marmo con la gamba di ghisa che si eleva su un piedistallo sorretto da

zampe di leone, quel leone di San Marco, voluto dal primo proprietario non

tanto per celebrare il proprio nome quanto per simboleggiare italianità e

irredentismo. Molto amato dagli scacchisti, per la particolare disposizione

dei tavolini, il Caffè si presenta - osserva Magris - come una scacchiera

dove gli avventori sono costretti a muoversi come il cavallo.

Caffè Pasticceria Pirona

Frequentatore assiduo del caffè, tra gli altri fu James Joyce, il quale

assaporando i raffinati dolci di tipo austriaco, ma soprattutto degustando i

pregiati vini, progettò qui il suo "Ulisse".

Caffè degli Specchi

La data di nascita del Caffè degli Specchi fu il 1839; suo fondatore e primo

gestore fu il greco Nicolò Priovolo. Il locale venne ospitato al pianterreno

di Palazzo Stratti in quella Piazza Grande (dal 1918 Piazza dell'Unità

d'Italia) che rappresentava ieri e continua ad essere oggi il cuore della città.

Per questa sua particolare posizione, il Caffè degli Specchi diventò subito

un avamposto privilegiato per seguire tutte le vicende storico, politico,

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economiche e culturali della città di Trieste. La metà dell'Ottocento

rappresentò, oltre che un interessante periodo di sviluppo economico,

l'inizio di quelle che sarebbero state le esaltanti lotte per la conquista

dell'italianità di Trieste e il Caffè degli Specchi sarebbe presto diventato un

covo di irredentisti. In quegli anni il Caffè degli Specchi cambiò molti

gestori e subì notevoli trasformazioni. Dopo Nicolò Priovolo, la direzione

del locale passò a due caffettieri di professione, Antonio Cesareo e

Vincenzo Carmelich che se ne sarebbero occupati per oltre cinquant'anni

(1884-1945). Nel secondo dopoguerra il Caffè degli Specchi e l'intero

Palazzo Stratti vennero requisiti dagli alleati anglo-americani. Da quel

momento, all'interno del locale vennero collocate le insegne della Royal

Navy (la marina britannica) e ai triestini non accompagnati fu fatto divieto

di frequentare il Caffè. Nel 1953 la gestione del locale fu affidata al

bergamasco Angelo Asperi, che chiuse i battenti nel 1967 per avviare

alcune opere di restauro. Tra l'altro un primo ripristino del Caffè era già

stato fatto nel 1933. Ultimato nel 1969 il rinnovo, di cui si fecero carico le

Assicurazioni Generali, proprietarie di Palazzo Stratti, il Caffè riaprì gestito

dalla società Hausbrandt, storica casa di tostatura fondata a Trieste nel

1892. Infine nel 1990, la gestione passò all' attuale Società che, con l'ultima

totale ristrutturazione del 2000 ne disegnò l'attuale fisionomia.

Il Caffè Tergesteo

Il Caffè Tergesteo fin dal 1863 si trovava di fronte allo storico Teatro

Lirico G. Verdi con tavolini all'aperto. Classico luogo di incontro e

passaggio cittadino, frequentato di giorno da uomini d'affari della vicina

Borsa e di sera dall'elite culturale della città, oggi è situato, invece,

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all'interno della Galleria omonima, che da Piazza Verdi porta a Piazza della

Borsa. Dopo i lavori di restauro, per ricreare l'atmosfera di “fin de siècle”,

dell'originale, purtroppo, è rimasto ben poco. Da notare le vetrate colorate

che raffigurano episodi della storia triestina. Ad esso Saba dedicò una lirica

raccolta nel Canzoniere ("Caffè Tergeste... tu concili l'italo e lo slavo, a

tarda notte, lungo il tuo bigliardo").

Caffè Stella Polare

La nascita del Caffè Stella Polare, nel primo stabile sito di fianco al Canale

di Ponte Rosso che arrivava fino alla Chiesa di Sant'Antonio, risale al 1865.

Lo dirigeva Antonio Carmelich, ma nel 1910 la gestione passò a Riccardo

Leipziger e Mario Sbisà. All'inizio del 1904 il vecchio stabile sul Canale

venne abbattuto per far posto all'attuale palazzo. Allora il Caffè Stella

Polare fu sistemato, in via provvisoria, in un padiglione di legno e gesso,

sistemato di fronte alla Chiesa di Sant'Antonio Nuovo. Nel novembre di

quell'anno, al piano superiore dell'edificio, venne allestita una grande

mostra postuma del pittore Umberto Veruda, scomparso il 29 agosto dello

stesso anno. In seguito il Caffè Stella Polare venne definitivamente

sistemato al n. 6 di Piazza Sant'Antonio dove tuttora si trova. Il 23 maggio

del 1915 il locale subì una devastazione ad opera di dimostranti anti-

italiani, ma riuscì a superare anche questo brutto momento. A seguito di

tale negativa esperienza il gestore espose nelle sue sale un eloquente

cartello: "Qui non si parla di politica né di alta strategia". Il Caffè era nato

come tipico locale austro-ungarico con le classiche decorazioni di stucchi e

specchi che, seppur rovinate, si possono ammirare ancora oggi. Nel

momento del suo massimo splendore e con la sua posizione strepitosa dalla

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quale abbracciava quattro vie, presentava un bancone in legno di ciliegio ed

era dotato di sale da biliardo, sale per le riunioni e per la lettura; frequentato

da negozianti ed intellettuali della colonia tedesca e da moltissimi letterati

sia triestini che stranieri.

Venezia

Il Caffè Florian, inaugurato il 29 dicembre 1720 sotto i portici delle

Procuratie Nuove in Piazza San Marco, può a ragione definirsi un simbolo

della città. Da 280 anni, infatti, il Florian svolge la sua attività quotidiana di

Caffè, meta di Veneziani, Italiani e stranieri che ne apprezzano l'ambiente e

il servizio impeccabile. Spesso, accanto all'affezionata clientela

internazionale, può capitare di incontrare personalità del mondo della

cultura, dello spettacolo e del jet set. Per coloro che desiderano un "ricordo

tangibile" della loro permanenza al Florian sono disponibili raffinati

prodotti che testimoniano il gusto e la storia del Caffè. Le estati del Florian

sono arricchite anche della presenza dell'orchestrina, secondo una

tradizione ormai quasi secolare. Inoltre, pur restando legato alla tradizione,

il locale organizza manifestazioni culturali di alto livello e di grande

attualità, in particolare nel settore dell'arte contemporanea.

2.3 Pasolini al Caffè: il Caffè Rosati in piazza del Popolo a Roma

Ricorda Ugo Pirro: “Al Caffè Rosati negli anni Cinquanta incontravi Pier

Paolo Pasolini ed Elsa Morante, ma anche tanti giovani pittori e cineasti,

tutti immersi in un clima di vivacità culturale che, solo a distanza di anni,

riesco ad apprezzare appieno”. Pirro, vincitore di due Oscar per Indagine su

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un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Il giardino dei Finzi Contini,

mette a confronto gli anni Cinquanta e i tempi di oggi. E aggiunge: "Abito

in centro da tempo, a pochi metri da Piazza del Popolo. Prima stavo a

Vigna Clara e, nonostante la distanza, la sera andavo sempre a Piazza del

Popolo. Ci si vedeva al Caffè Rosati, non c´era bisogno di dire niente, non

usavamo certo il telefono per metterci d´accordo. Ci incontravamo lì e

decidevamo cosa fare. Agli inizi, nell’immediato dopoguerra, i soldi erano

pochi, dormivo in camere ammobiliate e spesso non ordinavo nemmeno un

bicchier d’acqua da Rosati. Mi sedevo ai tavoli e parlavo con gli amici, tutti

artisti, sceneggiatori, produttori e cineasti. I camerieri me lo permettevano

perché mi conoscevano e il clima che si respirava era di grande familiarità.

Parlavamo molto di cinema, naturalmente, ma anche di arte perché

amavamo la compagnia dei pittori che frequentavano Rosati. La gente di

cinema si incontrava anche dietro Via dell´Oca, nella sede dell´Anac,

l’associazione degli autori di cinema, in quegli anni molto autorevole. Qui

si discuteva delle due grandi fazioni di registi e sceneggiatori: i drammatici

e i comici. Io ero un drammatico. Ci sentivamo diversi da loro, c´era una

rivalità, artistica non umana, verso gli esponenti del comico. Non ci

convincevano, eccezion fatta per uno: Totò, il principe. Attore e mimo

eccezionale, troppo penalizzato da sceneggiature scadenti. Lui non

frequentava Piazza del Popolo, aveva ritmi di lavoro serrati, era una

persona isolata, schiva. Noi invece avevamo l´allegria e la vivacità della

gioventù, organizzavamo feste indimenticabili. Come una rimasta storica in

Via Margutta, durante la quale lo scultore Consagra conobbe la moglie,

incredula turista americana stupita dal nostro carattere festoso ed

internazionale. Con il passare degli anni migliorò la situazione finanziaria e

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cominciammo a mangiare almeno una volta al giorno nelle osterie del

centro: da Otello alla Concordia, dal Re degli amici, da Cesaretto in Via

della Croce, e soprattutto da Menghi in via Flaminia, che faceva credito a

tutti sfamando così molti artisti spiantati”.

“Il punto di partenza – conclude - rimaneva però sempre Rosati. Lì

dibattevamo e scrivevamo soggetti, trattamenti e intere sceneggiature. E lì

restammo fino a quando non fummo costretti ad andare via: fu dopo i

tragici fatti del Circeo. I giovani di destra dai quali provenivano gli

assassini di Rosaria Lopez e i violentatori di Donatella Colasanti, che si

riunivano a Piazza Euclide, migrarono verso Piazza del Popolo in seguito

alle pressioni delle forze dell´ordine che controllavano i luoghi di ritrovo

dei pariolini di destra. Noi artisti, considerati nemici perché in larga parte

di sinistra, scegliemmo, come nuovo punto di incontro, il Baretto in Via

dell´Oca. Furono anni intensi, fatti da persone e luoghi unici. Piazza del

Popolo nel frattempo ha visto grandi comizi, manifestazioni e concerti ma

non è più tornata ad essere quello che era. Durante anni '60, Roma era in

continua ebollizione, un eden profano dove sogno e realtà marciavano

fianco a fianco. All'euforia generale si abbandonavano molti giovani, rapiti

dal fuoco sacro dell'arte. Tra loro Angeli, Festa, Schifano, soprannominati

da Plinio de Martiis, «i maestri del dolore, perché erano sempre vestiti di

nero, con la puzza sotto il naso e l'aria stanca e annoiata». I tre si vedevano

al Caffè Rosati di piazza del Popolo, luogo privilegiato del dibattito

culturale e amato dalla bohème nostrana. Nella Roma degli anni '60, luoghi

di ritrovo erano anche la libreria Al Ferro di Cavallo, o La Tartaruga di de

Martiis, gallerista «da tartufo» e inviato speciale di quel mondo. Altra sede

storica, Palazzo Taverna, che ospitava gli «Incontri internazionali d'arte»,

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voluti dalla padrona di casa Graziella Lonardi Buontempo, con la

partecipazione di critici, artisti e intellettuali: da Pier Paolo Pasolini ad

Alberto Moravia, presidente dell'Associazione, a Giulio Carlo Argan.

2.4. La Roma dei Caffé Letterari

Parlare dei caffè letterari a Roma nell’antico caffè

Greco [qui a sinistra, l'ingresso dell'antico Caffè

Greco a Roma] è anche ricollegarsi alla idea

dell’Europa e della sua grande tradizione culturale

dei secoli scorsi. Nel 2000, essa può rinascere

grazie alla Comunità europea, che stabilisce un

rapporto unitario tra i Paesi e gli Stati del

continente. [...]

George Steiner, studioso di fama internazionale, ha scritto in un libro

pubblicato dal Nexus Institute di Amsterdam, definito da Mario Vargas

Llosa “ingegnoso e provocatorio”, che “L’Europa è i suoi caffè, quelli che i

francesi chiamano cafés. Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa

ai cafés di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel. Dai caffè di

Copenhagen, quelli di fronte ai quali passava Kirkegaard nel suo

meditabondo girovagare fino a quelli di Palermo. Non si trovano caffè

atipici a Mosca, che è già la periferia dell’Asia. Ce ne sono pochissimi in

Inghilterra, dopo una fugace moda nel Diciottesimo secolo. Non ce ne sono

nell’America del Nord, con l’eccezione dell’avamposto francese di New

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Orleans. Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori

essenziali dell’ idea di Europa’”. Da questo punto di vista, l’antico caffè

Greco di Roma è proprio l’esempio italiano

della tesi di Steiner e cioè del rapporto vivo tra

la cultura europea e alcuni dei suoi più celebri

rappresentanti che lo hanno frequentato e lo

frequentano ancora oggi. Ma in verità tutti i

caffè romani, che si possono definire letterari,

sono stati e sono le sedi di incontri tra scrittori

ed artisti italiani e stranieri. In un certo periodo

della seconda metà del Novecento, hanno avuto

quasi lo stesso ruolo di redazioni di giornali o

delle case di produzione cinematografiche. Soprattutto, sono stati i centri

dove si è svolta e si è manifestata per alcuni anni quella “società della

conversazione” che caratterizzava il secolo d’oro francese del Settecento e

che in qualche modo è proseguita fino alla metà degli anni Sessanta in

Italia, a Roma. Per anni, dal Cinquanta in poi, per esempio si andava da

Rosati o da Canova in piazza del Popolo dove letterati e artisti si

incontravano per parlare anche di lavoro: quante idee di libri, di

sceneggiature di film, quante discussioni che finivano allora sui giornali

sulle tendenze artistiche e letterarie sono nate qui.

Il Caffè Greco di via Condotti, dove si affollano oggi i protagonisti del

turismo di massa è stato fino alla seconda metà del Novecento il punto di

ritrovo dei poeti, scrittori e artisti italiani. Ogni mattina andava a bere il

cappuccino Giorgio De Chirico, il quale soleva dire che “il Caffè Greco è

l’unico posto dove ci si può sedere e aspettare la fine del mondo”. C’è una

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celebre fotografia degli anni Quaranta dove si vedono seduti quasi in posa

ai tavolini, Goffredo Petrassi, Mirko, Pericle Fazzini, Mario Soldati Mafai,

Carlo Levi, Afro, Renzo Vespignani, Vitaliano Brancati, Sandro Penna,

Lea Padovani, Orson Welles, Orfeo Tamburi, Ennio Flaiano, Libero De

Libero, Aldo Palazzeschi. “C’eravamo un po’ tutti - ricorda il pittore

Renato Guttuso - e ci andava anche Moravia”. Il Caffè Greco è uno dei più

antichi caffè d’Europa insieme al Procope di Parigi e al caffè Florian di

Venezia. Il suo aspetto non era molto differente da quello odierno, come si

può vedere da un acquerello del 1852 del pittore Passini conservato ad

Amburgo [e dal dipinto di Vladimir Petinow riprodotto qui a sinistra]. Ha

mantenuto le stesse caratteristiche nell’arredo e nei tavolini ricoperti da

marmi antichi, nelle salette piene di opere d’arte, foto e oggetti che

testimoniano della sua storia. Re, regine, marajà, scrittori, poeti,

compositori, attori, cantanti, persino capi pellerossa e cowboy come il

celebre Buffalo Bill ne sono stati assidui frequentatori.

Fondato nel 1760 da Nicola della Maddalena, forse un levantino, donde il

nome del locale riferito alla sua nazionalità greca, probabilmente esisteva

già da alcuni anni. Giacomo Casanova ricorda nelle sue memorie che nel

1743, quando era a servizio del cardinale Troiano Acquaviva (e anche della

sua bella nipote), entrò con alcuni amici romani nel “Caffè di strada

Condotta”. Ma il primo documento ufficiale risale al 1760: si tratta di una

nota del censimento di quell’anno contenuta nel “Libro dello stato delle

anime” della Parrocchia di San Lorenzo in Lucina (conservato

nell’Archivio del Vicariato) in cui risulta il nome di “Nicola di Maddalena,

greco”. La notorietà del Caffè Greco ebbe inizio nel 1779 quando cominciò

ad essere frequentato da Johann Wilhelm Tischbein, Karl Philipp Moritz in

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compagnia del loro grande amico Wolfgang von Goethe - il quale abitava a

poca distanza al numero 20 di via del Corso. Ben presto divenne luogo

preferito d’incontri di artisti germanici, tanto che lo scrittore Johann Jakob

Wilhelm Heinse ne propose la denominazione di “Caffè Tedesco”. Il suo

successo si consolidò nel 1806 quando, a causa del blocco continentale

imposto da Napoleone per combattere gli inglesi, il prezzo del caffè salì

vertiginosamente. Tutti i caffettieri di Roma, volendo mantenere fermo il

prezzo di ogni tazza, si arrangiarono con i ceci, la soia o le castagne. Il

proprietario del Caffè Greco, al contrario, utilizzò sempre vero caffè, ma lo

servì in tazze molto più piccole (le stesse di oggi: tazzine cerchiate di

arancio servite da camerieri ancora come un tempo in frac), e raddoppiò il

prezzo. Il XIX secolo fu l’epoca d’oro del celebre locale e alle pareti sono

esposte le numerose opere di artisti italiani e stranieri che lo frequentarono,

tra cui quelle di Antonio Mancini, Ippolito Caffi, Franz Ludwig Catel,

Enrico Coleman, Massimo D’Azeglio, Angelica Kaufmann. In fondo al

locale c’è quasi “inaspettata” sia per grandezza che per bellezza la sala

rossa con pareti damascate, la statua di un fauno e sotto la finestra il divano

dove si sedeva Hans Christian Andersen. Ora vi si riuniscono varie

associazioni culturali tra cui il gruppo dei “Romanisti”, studiosi della storia

di Roma e poeti in dialetto romanesco.

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L’elenco degli avventori famosi è quasi interminabile. Del Caffè Greco

furono ospiti regnanti e principi della Chiesa quali Luigi I di Baviera e

Gioacchino Pecci, il futuro papa Luigi XIII47

. Gli scrittori e artisti stranieri

apprezzarono in modo particolare una speciale scatola in legno posta

all’entrata che permetteva di ricevere la corrispondenza. Per il suo carattere

storico, il Caffè Greco, che continua ad essere

frequentato da artisti e letterati da ogni parte

del mondo, è stato sottoposto a vincolo nel

1953 dal ministero della Pubblica Istruzione e

dichiarato monumento di interesse storico. Un

altro caffè che ha avuto una notorietà europea

perché accoglieva intellettuali ed artisti

stranieri attratti dalle bellezze della Città

eterna è il Caffè Notegen, aperto nel 1880 in

via del Babuino 159, dallo svizzero Jon

Notegen che gli ha dato il nome e che impiantò nei locali sottostanti anche

una fabrichetta di marmellata. Il periodo di maggior fama è negli anni

Trenta, quando diventò ritrovo di personalità artistiche italiane e straniere

che continuarono a frequentarlo anche nel secondo dopoguerra fino agli

anni Ottanta. Ne furono clienti: Mario Mafai, Cesare Zavattini, Ennio

Flaiano, Mino Maccari, Carlo Levi, Renato Guttuso, Schifano, Novella

47

. Tra gli scrittori stranieri: Nicolaj Gogol che a quanto si racconta vi scrisse una parte delle Anime

morte; René de Chateaubriand, Adam Mikewicz e Stendhal, che vi si recava spesso. Lo storico Ippolyte Taine, Arthur Schopenhauer, Mark Twain, George Byron, Percy B. Shelley, che abitava poco distante, e

il giovane poeta inglese Keats, che aveva preso casa al numero 26 di piazza di Spagna dove morì . Fra

gli italiani: Carlo Goldoni, Giacomo Leopardi, Gabriele D’Annunzio. Pittori e scultori quali: Jean Baptiste Corot, Friederich Overbeck, Antonio Canova, Orazio e Carlo Vernet, Jean A. Ingres, Berthel

Thorvaldsen, Anselm Feuerbach, Henry Regnault; numerosi musicisti, tra cui Franz Liszt, Hector

Berlioz, George Bizet, Gioacchino Rossini, Jacob Mendelssohn, Giovanni Sgambati, Arturo Sgambati, Arturo Toscanini, Charles Gounod, Richard Wagner.

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Parigini, Ugo Attardi. Negli ultimi anni del Novecento e fino ad oggi, dopo

un periodo di eclisse, per merito di Reto e Teresa Notegen, il caffè

promuove presentazioni di libri, mostre di artisti, dibattiti su scrittori

contemporanei e letture di poesia. Durante la prima metà del Novecento

fino alla fine della seconda guerra mondiale, il caffè più in voga tra letterati

e artisti è stato il caffè Aragno in via del Corso, oggi trasformato in una

rosticceria. Come ricorda Arnaldo Frateili che lo frequentò, e che ha scritto

un libro pubblicato da Bompiani intitolato “Dall’Aragno a Rosati”48

, nella

celebre terza saletta si riunivano scrittori e poeti come Bruno Barilli,

Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Arturo Onofri, Rosso di

Sansecondo, Umberto Fracchia. Da un loro cenacolo, sul quale posavano

uno sguardo benevolo alcune divinità maggiori o minori della nuova critica

sensibile al verbo crociano (Emilio Cecchi, Alfredo Gargiulo, Goffredo

Bellonci, ecc.) nacque la rivista Lirica che, anche in una città sorda e

distratta come Roma, contò qualche cosa se non altro come antesignana

della Ronda. Questi giovani, che coltivavano la prosa d’arte oltre alla

poesia libera dai vecchi schemi, inauguravano il gusto del “frammento” ed

erano lanciati alla scoperta delle letterature straniere. Così la letteratura

romana si sprovincializzava, tra le prime clamorose esplosioni delle bombe

futuriste.

All’Aragno nei primi anni Quaranta c’erano giornalisti che facevano la

fronda al fascismo in maniera più o meno aperta, come Mario Pannunzio,

che doveva diventare direttore prima del quotidiano “Risorgimento

liberale” poi del prestigioso settimanale “Il mondo”, con Sandro De Feo,

48. Arnaldo Frateili: Dall'Aragno al Rosati: Ricordi di vita letteraria. Milano, Bompiani 1964

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Ercole Patti e Mario Missiroli, celebre direttore prima del “Messaggero” e

poi del “Corriere della Sera”. Da lì, alla caduta del fascismo il 25 luglio del

‘43, Mario Pannunzio, insieme con altri giornalisti, si mosse per occupare

la redazione del “Messaggero” e far pubblicare in prima pagina la notizia

della cattura di Mussolini e della fine del regime. Tante volte nella terza

saletta c’erano stati battibecchi tra qualche gerarca fascista e gli allora

giovani giornalisti e scrittori che parlavano male del regime. Da Aragno,

negli anni del secondo dopoguerra, prima che lo storico caffè fosse ceduto

ad Alemagna, il produttore dei panettoni milanesi, si poteva incontrare

ancora Bruno Barilli che, consumando un cappuccino, scriveva su un

quaderno alcuni dei suoi versi o delle sue raffinate pagine sulla vecchia

Roma. Questi personaggi erano anche tra i frequentatori della sala da tè

Babington a Piazza di Spagna, che fu fondata nel 1893 da Isabel Cargill e

Anna Maria Babington. Queste due signorine inglesi di buona famiglia

erano venute a Roma con l’intento di aprire una sala da tè e di lettura per la

comunità anglosassone, quando ancora il tè poteva essere acquistato solo in

farmacia. Inizialmente, la sala venne aperta in via Due Macelli, ma visto il

grande successo l’anno seguente fu trasferita in piazza di Spagna nel

prestigioso palazzo adiacente alla scalinata di Trinità dei Monti. Da allora,

la sala da tè è rimasta pressoché invariata e continua a essere testimone

discreta di eventi storici e culturali. Sopravvissuta a due guerre mondiali, e

all’avvento del fast food, Babington ha ospitato famiglie reali, politici,

giornalisti e personaggi della cultura e dello spettacolo. Ancora oggi,

quando si apre la porticina a vetri con sopra disegnato un gatto nero con il

collare rosso e il campanello fa ding, ci si sente trasportati magicamente nel

sud Kensington del XIX secolo. È stata meta, prima dell’ultima guerra, di

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nobili inglesi e di artisti di ogni nazionalità che si sono mescolati poi nel

secondo dopoguerra con molti letterati come Elsa Morante e Giorgio

Bassani e giornalisti romani. Una fine poetessa recentemente scomparsa,

Biagia Marniti, che lo frequentava nel dopoguerra è stata una delle

protagoniste della rinascita della vita culturale a Roma dove si ristampava

“La Fiera letteraria” ed era nato, nel salotto Bellonci, il gruppo degli “amici

della domenica” che ha creato nel 1947 il Premio Strega, il più prestigioso

premio letterario italiano. Ecco come la Marniti descrive l’ambiente di

Babington: “In piazza di Spagna, da Babington, continuavano ad

incontrarsi Bruno Barilli e Vincenzo Caldarelli, Giacomo Natta e Luigi

Diemoz, Bruno Fonzi e Velso Mucci che dirigeva una rivista problematica

come Il costume politico e letterario (1945-1950). Al gruppo si

aggiungevano saltuariamente Alfredo Zennaro, Biasi, Nicola Ciarletta,

Marcello Pagliero e altri giornalisti che amavano discutere vivacemente di

letteratura, di teatro e di politica. Erano intellettuali di varie tendenze:

anarchici e comunisti, socialisti, liberali e individualisti e, fra battute,

paradossi, fra notabili e antinotabili, l’intelligenza scintillava fra una tazza

di tè e, chi poteva permetterselo, un pasticcino. Si viveva di carne in

scatola, di latte, di pane raffermo, di castagnaccio, di noccioline, di olive, di

castagne arrostite e sigarette fatte a mano. Erano mesi di dignitosa povertà,

e dopo tante sofferenze e amarezze, erano densi di iniziative fluttuanti fra

gli estremi lampi di una bohème che stava per scomparire. L’unica certezza

era l’essere vivi, l’essere in buona salute. Si cercava un lavoro e si avevano

cento idee”.

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Dice Giovanni Russo: “Posso portare sui caffè letterari romani della

seconda metà del Novecento una testimonianza personale49

,”. Non si

possono trascurare per esempio, fino agli inizi degli anni Novanta, le

lunghe serate al bar del Plaza con gli amici come il poeta Michele Parrella,

lo scrittore Piero Buttitta, l’editore Cesare De Michelis e il fratello Gianni.

Famosa è la distinzione che faceva Flaiano, a proposito degli intellettuali

che si incontravano dopo la cena, fra diambuli e nottambuli, i quali ultimi

erano quelli disposti a superare la mezzanotte. Prima di cena si andava a

prendere l’aperitivo in via Condotti al “Baretto”, che poi fu, alla fine del

Novecento, quasi di soppiatto trasformato in una boutique con grande

rammarico di giornalisti e politici che vi si incontravano, da Giorgio

Spadolini - cugino del più famoso Giovanni - a Giulia Massari, che hanno

poi scelto di rifugiarsi al bar dell’Hotel d’Inghilterra. Il sabato e la

domenica una meta letteraria per un caffé o un aperitivo prima di pranzo

erano e rimangono i caffé all’angolo tra Campo dei Fiori e piazza Farnese.

Ma il luogo principale di incontro è stato e rimane piazza del Popolo. Nel

mio libro50

c’è proprio un capitolo intitolato “Andavamo a piazza del

Popolo”, dove cito i calembours e i soprannomi che venivano appioppati ai

frequentatori di Canova e di Rosati e di cui vorrei citarne alcuni.

Da Canova o da Rosati, appena arrivato dalla provincia nel dopoguerra,

seduto al tavolo con Mazzacurati o Vincenzo Talarico o Sandro De Feo,

alcuni di quei soprannomi li ho visti nascere o li ho ascoltati dalla voce dei

protagonisti. Per esempio, il motto “mi spezzo ma non mi spiego” con cui

Mazzacurati definiva l’inflessibile critico d’arte Argan, io lo ricordo detto

49. Cfrr. “Con Flaiano e Fellini in via Veneto - Dalla Dolce vita alla Roma di oggi” Rubbettino, 2005. 50. ibid

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da Flaiano a proposito di se stesso così variato: “Mi spezzo ma non

m’impiego”. E credo che la battuta “La terra ai carandini”, deformazione

dello slogan comunista “La terra ai contadini”, sia nata tra Flaiano e Mezio

nel salotto del “Mondo” frequentato dal “proprietario” Nicolò Carandini,

proprietario della tenuta di Torre in Pietra. L’epigramma di Flaiano

suonava così: Il conte Carandini fermo come Torre in Pietra che non crolla

lancia il manifesto della nuova Internazionale “Agricoltori di tutto il mondo

unitevi - la terra ai Carandini”. Mazzacurati, la sera quando usciva dal suo

studio di scultore, con la sua aria impassibile, il bel volto in apparenza

soave, si sfogava genialmente sia pure indulgendo qualche scurrilità.

Apprendo da Caruso che per esempio il “Vecchio tastamento” a proposito

del buon Ciccio Trombadori, che troneggiava da Rosati, o “La picassata

alla siciliana” per Guttuso - e trascuro altre variazioni su Picasso - sono di

Mazzacurati insieme a molti altri “calembours” e giochi di parole. Così

“L’amaro Gambarotta” per Moravia o “Il profeta del passato” per

Pannunzio, (ma era più diffuso, forse per il suo aspetto imponente e per il

suo silenzioso distacco, un altro soprannome: “Il piedone”) sono dello

stesso autore. Si potrebbe aprire - come del resto s’è aperto - un dibattito

sulla paternità dell’uno o dell’altro doppio senso di Mazzacurati, come per

esempio, a proposito di un pittore qui anonimo, il forte “Latrin lover”, e

“L’incantatore dei sergenti” per Filippo De Pisis. In un altro capitolo,

Giovanni Russo racconta l’atmosfera nel secondo dopoguerra del Caffè

Rosati: “Nel secondo dopoguerra, Rosati è stato quello che, fino alla metà

degli anni Quaranta per gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti, erano stati

Aragno e il Caffè Greco. Tutto il mondo letterario ed artistico ruotava

intorno a questo Caffè di piazza del Popolo, anche se il suo omonimo di via

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Veneto attirava d’inverno registi, scrittori, giornalisti e politici, da Saragat

ai produttori De Laurentis e Ponti.”

“I ritmi e le frequenze cambiavano secondo gli orari delle giornate e delle

stagioni. Si andava da Rosati a piazza del Popolo a bere l’aperitivo e le

signore della buona borghesia andavano la domenica a comprare le paste

dopo la messa, mentre negli altri giorni il pomeriggio prendevano il té”.

“Quanti soprannomi celebri sono stati

inventati da Vincenzino Talarico, da

Mazzacurati, da Flaiano, da Franco

Monicelli, sedendo ai tavolini dove

affilavano le loro linguacce prima di

disperdersi per la cena”.

“L’estate era il trionfo di Rosati. Qui, col

ponentino, la sera, fino agli inizi degli anni Settanta, dopo cena, tutti

venivano a prendere il gelato o una bibita fresca e a conversare, parlando

dell’ultimo film e del libro di Pasolini o di Bassani o di Arbasino o della

Morante, o degli avvenimenti politici interni ed internazionali, su cui si

accanivano Sandro De Feo ed Ercole Patti, anche se essi d’inverno

preferivano gli angoli raccolti, come una grotta accogliente, del Caffè di

fronte, Canova”.

“Ho nella mente come un dagherrotipo delle prime serate che ho trascorso

da Rosati in cui ricordo i vari gruppi. Alberto Moravia che con la moglie

abitava in via dell’Oca, la stradina che sbocca in Via Ripetta subito dopo

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piazza del Popolo, ne è stato, tranne che negli ultimi anni, un frequentatore

abitualissimo. Vi faceva, per così dire, casa e bottega. E la sera insieme alla

moglie Elsa Morante, con Pasolini e con gli scrittori più giovani alle prime

armi, da Siciliano ad Arbasino, o con amici che arrivavano da Milano o da

Firenze, da Soldati a Vittorini e l’editore Bompiani, si davano

appuntamento ai tavoli di questo Caffè.

In un tavolo in prima fila, da solo o con l’amico Francalancia, sedeva il

pittore Francesco Trombadori, talvolta insieme con De Chirico, Guttuso,

Bartoli e Maccari. Dall’altra parte dei tavoli, dopo le 23 c’erano Mario

Pannunzio, Libonati, Carandini, il gruppo del “Mondo” a cui si aggregava

volentieri talvolta Rossellini, e poi veniva Fellini per vedere Flaiano.

Nasceva in quelle ore una specie di gioco di parole e di sguardi: da tavolo a

tavolo si intrecciavano discorsi. Allora Rosati chiudeva verso le una e

mezza o le due di notte ed i tavoli rimanevano fuori, e ad essi, con

Ciarletta, Bonanni, Alfredo Mezio e talvolta anche con un gruppo di

fotografi tra cui Pasquale Prunas, si arrivava fino alle tre o alle quattro a

guardare il cielo terso, quasi trasparente. Passava un vecchio con un secchio

con Coca Cola e i lupini perché il bar era chiuso e compariva di volo

Sandro Penna”. “Dopo questo dagherrotipo tra gli anni ’59 e ‘ 60 scattano

altre foto nella memoria del tempo. Simone di Beauvoir e Sartre che

stavano a parlare come due ragazzini al tavolo mentre arrivava Carlo Levi

da Villa Strohl Fern con la sua “1100” nera. E i giovani pittori, purtroppo

consumatisi nella loro vita dispendiosa, come Franco Angeli con Marina

Lante della Rovere ed il suo amico Festa, e il gallerista Plinio con Dorazio,

Turcato, Consagra, Nino Franchina, Cascella. C’era alle 19 una gran folla

nella saletta, file al telefono come ancora oggi, e si mischiavano gli

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architetti famosi, da Luccichenti che costruì la villa della Petacci alla

Camilluccia, a Monaco, a Minciaroni”. “Altri flash con gli attori: da

Vittorio Caprioli a Franca Valeri a Carlo Mazzarella tra cinema, tv e

giornalismo, a Gassman. C’è stato un momento negli anni Sessanta in cui

accanto ad artisti e scrittori italiani c’erano famosi personaggi stranieri,

come lo scrittore svizzero Max Frisch ed il pittore olandese De Kooning

oltre a stupende ragazze, come una molto bella amica di Pollock. I flash

potrebbero continuare: forse quell’epoca di Rosati si può cogliere bene nei

versi del poeta Michele Parrella che vi veniva allora con Leonardo

Sinisgalli: “Era il tempo dei convogli e degli abbracci / Il mondo era là in

quella vecchia vetrina opaca / e tutti i nostri nomi ancora intatti / quando i

sogni nacquero e si infransero”. Da Rosati sono nati amori e progetti

televisivi, soggetti di film, inchieste giornalistiche, polemiche politiche.

Rosati è stato fino agli anni della TV un luogo cosmopolita, un centro dei

protagonisti del successo letterario ed artistico e dei giovani che vi

aspiravano.

“Certo, nel Settanta c’è stata una certa decadenza. Il pittore Bruno Caruso

racconta in un suo libretto che Flaiano e Mazzacurati incontrandosi una

sera a piazza del Popolo e voltandosi a guardare verso il Caffè affollato di

giovani sconosciuti con blue-jeans e capelli lunghi diceva: “Credono i

essere noi”. Era il periodo delle comparse dei film western all’italiana”. Tre

anni fa Rosati è stato restaurato, identico a come era prima, con i mobili

fatti rinnovare a Firenze dove erano stati costruiti. Continua Russo: “È

tornato come prima, come una volta. Roma certo è cambiata ma sarebbe

travolta se Rosati fosse trasformato in un Caffè postmoderno o alla moda.

Forse il modo migliore per dire quello che Rosati dovrebbe essere è citare

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questi versi di Antonello Trombadori, scritti quando Rosati fu rinnovato e

restaurato. “S’ariapre Rosati, allegramente! M’ero messo pavura che

chiudeva / domani invece ce sarà più gente /de quanta prima già se lo

godeva / In tempi de talento scarseggiante / un Caffè con la Storia su le

mano / è un richiamo /’ no specchio stimolante”. In un altro capitolo,

intitolato “Quando l’arte nasceva a piazza del Popolo”, Russo cita un libro

di Andrea Tugnoli che ricostruisce la vicenda di quel gruppo di artisti che

animarono negli anni Sessanta la vita artistica romana. Quei pittori che si

radunavano intorno al caffè Rosati: Schifano, Angeli, Festa, Giosetta

Fioroni, Bignardi, Ceroli, Mambor, Lombardo, Tacchi, Kounellis, Pascali,

erano al centro di un’attività artistica che rendeva Roma negli anni ’50 la

città che faceva concorrenza a New York e Parigi. Quello che pochi sanno

è che erano gli artisti americani a venire a Roma a spiare e curiosare, dal

famoso Rauchenberg a De Kooning. È un libro, quello di Tugnoli, che

permette di collocare questo fenomeno romano nella giusta prospettiva al di

fuori degli schemi e delle mode dell’epoca. Nella prefazione Maurizio

Calvesi sottolinea il contributo che questi artisti hanno dato all’arte italiana

nella seconda metà del secolo. “La scuola di piazza del Popolo” ne

rappresenta un aspetto importante e, nello stesso tempo, un momento

significativo della storia delle capitale che testimonia della vivacità

culturale e artistica di Roma negli anni ’60. Anche se può suonare come il

vezzo della nostalgia del passato, via Veneto, per chi la frequentava

all’epoca sua più gloriosa che fu dagli anni Cinquanta alla metà degli anni

Sessanta, è stata anche il simbolo, nel bene e nel male, di una Roma che

usciva dalla guerra e dalla fame, di un Paese che aveva la volontà di

ricostruire e di godere dei piaceri della vita. Sento ancora nel palato il

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sapore dolcemente amaro del primo bicchiere di baby (whisky Ballantine)

che, era la fine degli anni Quaranta, assaporavo al bancone di Rosati in via

Veneto con il premuroso barman Valentino. Si facevano le ore piccole,

chiacchierando attorno ai tavolini dei caffè già chiusi mentre c’era la brezza

del ponentino che allora rendeva tollerabile trascorrere il luglio e l’agosto a

Roma. Via Veneto frequentata da attrici famose, come Lana Turner, da

attori come Marlon Brando, era balzata a notorietà internazionale subito

dopo la guerra, anche perché gli ufficiali alleati che alloggiavano

all’Excelsior e negli altri alberghi frequentavano l’Harry’s Bar, Rosati poi

diventato Carpano e il Caffè Strega.

Chi ha letto “L’Orologio”51

di Carlo Levi sa come Roma visse quell’epoca

del dopoguerra, con quanta effervescente vivacità e creatività. In via

Veneto Rossellini ideò i suoi primi film, qui Mario Pannunzio con Franco

Libonati e gli altri amici de “Il Mondo”, con Paolo Monelli e Vittorio

Gorresio, discutevano di film, di libri, dell’ultimo romanzo di Moravia o

delle battaglie politiche per la democrazia. Certo non basta trasformare gran

parte di via Veneto in un’isola pedonale, far suonare ad un’orchestrina le

musiche degli anni Sessanta (e perché no, quelle della fine degli anni

Quaranta e degli anni Cinquanta) per restituirle quel tocco irripetibile, ma è

anche significativo, in questo momento che rassomiglia psicologicamente a

quell’epoca in cui da poco era finito un regime, il proposito di far rinascere

questa strada che sembrava ormai abbandonata al degrado. Non ci si può

certo illudere che, come per miracolo, ritornino i fantasmi di quel tempo.

51

. Carlo Levi, L'orologio, Einaudi, 1989

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Erano i tempi in cui lo Scià, scappato dall’Iran dove doveva poi tornare

fino alla rivoluzione komeinista, stava all’Excelsior con Soraya.

2.5 Verso Praga

Caffè Arco

Era il luogo d'incontro del gruppo di autori di lingua tedesca che si

raccoglieva, dal 1908 in poi, intorno a Franz Werfel (tra cui Willy Haas e lo

scrittore e pittore Alfred Kubin) che qui, dopo i primi successi, leggeva le

sue opere. Lo frequentavano anche Ernst Pollak, Milena Jesenská, Johannes

Urzidil, Otto Pick, Egon Erwin Kisch, Paul Kornfeld, Hugo Salus, Max

Brod, Oskar Baum e, saltuariamente, Franz Kafka. Qui egli fece nel 1912

conoscenza con Rudolf Fuchs.

Esiste ancor oggi, all'angolo tra Hybernska e Dlazdena, ma già fin dalla

fine della prima guerra mondiale ha perso, insieme ai vecchi frequentatori,

il significato e l'aura di un tempo.

Caffè Savoy

Era un piccolo e misero caffè ai margini del ghetto ebraico. Qui nel 1911-

1912 si tennero le rappresentazioni di una compagnia di attori di teatro

yiddisch, tra cui Isak Löwy, di cui Kafka divenne grande amico.

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Caffè Union

Era un caffè notissimo, vi si riunivano gli intellettuali di lingua ceca, tra cui

Karel Capek, uno dei fondatori del gruppo artistico Devetsil. L'intero

edificio, all'angolo tra Narodnji Trida e Na Perstyne, fu abbattuto nel 1949.

Caffè Louvre

Era ed è un caffè centrale ed elegante, aperto nel 1902 e chiuso durante il

periodo comunista. Riaprì nel 1992 e, se non vi fate intimorire da un

ingresso piuttosto anonimo, salendo al primo piano vi sembrerà di ritrovare

le atmosfere di un tempo, in un locale con grandi sale eleganti e un servizio

all'altezza della sua fama. All'inizio del secolo vi si incontrava piuttosto

saltuariamente il gruppo interessato alla filosofia di Franz Brentano, lo

stesso che frequentava il salotto di Berta Fanta. Il gruppo fu frequentato

inizialmente anche da Max Brod, Felix Weltsch e Franz Kafka, che in

seguito preferirono frequentarlo solo per i loro incontri personali e per

reciproche letture. Il Cafè Louvre si trova al 20 di Narodnji Trida.

Caffè Edison

Prese questo nome in seguito ad una visita di Edison in viaggio a Praga.

Qui occasionalmente si incontravano Kafka e Urzidil, che alla storia di

questo locale ha dedicato un suo saggio in "Di qui passa Kafka".

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2.6 Sviluppi futuri

Un tempo c'erano i caffè letterari, fumosi, creativi, passionali ritrovi nei

quali scambiarsi idee, leggere racconti, confrontarsi. Ora questi luoghi sono

su Internet, vanno di moda e finiscono recensiti sui libri. Intorno a loro gira

una comunità di giovani, con la passione per la scrittura e per la letteratura,

molto spesso aspiranti scrittori. E' la rete infatti che accoglie la tradizione

letteraria e diventa luogo di scambio aperto, quasi sempre privo di censura

così il web diventa luogo in cui non solo parlare di letteratura ma anche

pubblicare letteratura. Il nome che li identifica e' blog, collettivi o a

titolarità singola, riviste on line e aperti che si basano, sui contributi

esterni.

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CAPITOLO TERZO

Lettere Caffè:

il primo franchising cultura

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Un’idea il cui momento sia giunto

è più forte di tutti gli eserciti del mondo

Victor Hugo

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3.1 Le origini: dal 1999 ad oggi

Il Lettere Caffè, inaugurato a Roma nel Dicembre 1999, in Via di San

Francesco a Ripa al numero 100, rappresenta il primo esempio romano di

nuovo caffè letterario. Può contare già dal suo esordio, su personalità di

tutto rispetto nel mondo culturale italiano: Riccardo Mannelli, disegnatore

de “La Repubblica”, Enza Li Gioi, brillante esperta in comunicazione e

marketing e un comitato scientifico e di assidui frequentatori che vanno da

Maurizio Costanzo a Margherita Hack, da Massimo Bucchi ad Oliviero

Beha. Il caffè, originariamente sorto per ospitare anche la redazione della

rivista “Lettere – il mensile dell’Italia che scrive” si troverà presto

proiettato nella programmazione che conta nella scena artistica della

capitale, ospitando concerti di musica dal vivo, presentazioni editoriali,

reading letterari, dibattiti e quant’altro sia riconducibile al fermento

culturale della capitale.

La rivista “Lettere” stampata da Pineider, già nota come fornitore ufficiale

di carta da lettere e materiali cartacei in genere per la casata reale inglese,

intende ospitare tra le sue pagine il meglio dell’epistolarità italiana del

momento. I lettori della rivista, eterogenei quanto originali, si affollano e si

ingaggiano in pagine e pagine di lettere e commenti-confessioni che fanno

della rivista un unicum nel panorama culturale italiano di fine anni ’9052

.

52. Andando ad analizzare il comitato scientifico che compone la rivista possiamo scovare tra gli altri:

Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Franco Grillini, Elena Gianini Bellotti, Vittorio Sgarbi, Monica Vitti,

Carmen Llera Moravia, Mario Monicelli, Paolo Rossi, Elio Toaff, Mariuccia Mandelli (Krizia) e una

seria di altri interventi editoriali da Paolo Pietrangeli a Beppe Vigna, da Francesca Reggiani a Gino

Strada, Nicola Tranfaglia, Giga Melik, Vauro e molti, moltissimi altri.

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La rivista, circa 80 pagine fitte e stampate su carta da oltre 120 grammi, si

divide in sezioni e spazi ben delimitati: un editoriale che descrive il numero

che si andrà a leggere, una serie di lettere di autori più o meno noti e

destinatari ugualmente noti o sconosciuti ai più, ricordi e atmosfere da

rotocalco d’autore. E poi: cinema, interviste, inchieste, appunti di viaggio,

arte, scienza, memorie, annunci, pensieri, aforismi, cartoline. Ma

soprattutto: Epistolario parte I, II e uno spazio denominato Lettere &

Lettere. Importante per capire lo spirito di una redazione-club del genere è

anche l’analisi del luogo in cui il caffè sorge: Trastevere.

Luogo di poveri carbonai e umili artigiani che dagli anni ’70 in poi diventa

fulcro della vita culturale romana, soprattutto underground, sommersa.

Trastevere, quartiere che nel suo nome porta una divisione storica e

toponomastica rispetto al Centro di Roma, quello bene, dei palazzi sia di

governo sia di dinastia, è idealmente diviso dal suo lungo e largo Viale, di

Trastevere appunto che in un flusso continuo di automobili e scooter, ci

conduce fino a Largo di Torre Argentina coi suoi ruderi imperiali e i suoi

teatri, librerie e colonie feline. Trastevere, da questa parte di San Francesco

a Ripa ospita via Anicia, scenario storico dell’uccisione di Anna Magnani

nel film Roma città Aperta, la chiesa di San Francesco d’Assisi che ospita i

resti di Giorgio De Chirico e l’estasi di Santa Teresa del Borromini, opera

d’arte scultorea mondialmente nota. Il cinema Sacher, della Sacher

Production (del regista Nanni Moretti), una taverna greca (Akropolis), il

Big Mama (blues club storico della capitale con oltre 20 anni di onorata

attività) e una storica enoteca, Bernabei. In uno scenario del genere, Lettere

Caffè sorge sotto i migliori auspici e infatti conquista subito un ruolo

centrale nel palinsesto notturno dei romani. Oltre all’arte della performance

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trova spazio l’arte culinaria, specialità friulane e mitteleuropee e vini del

Collio o comunque del nord-est italiano. L’orario di apertura, dalle 14 alle

02.00, fa si che gli avventori del caffè possano, durante l’intera giornata,

trovare il proprio angolo di cultura e serenità interiore che sembra sempre

più mancare in una capitale tanto caotica quanto assetata di cultura,

soprattutto non ufficiale. Le figure fondamentali che agiscono all’interno

del Lettere Caffè si possono riassumere in: direttore artistico,

amministratore, addetto stampa e camerieri (anch’essi artisti col dono

dell’arte materiale) che fanno del caffè un posto davvero originale. Così

mentre sulle pagine della rivista scorrono nomi illustri e comparse che

diventeranno presto nomi noti, nel caffè si alternano i migliori musicisti

della capitale che finalmente trovano un luogo dove esprimersi, a misura

d’uomo e d’artista. Gli artisti, dai musicisti ai pittori, ai fotografi vanno a

comporre il pubblico e al tempo stesso diventano i protagonisti dell’attività

quotidiana del caffè. Nella sua cospicua rassegna stampa il Lettere Caffè

attraversa trasversalmente tutti gli ambienti e le testate della stampa

italiana, da destra a sinistra, dal sommerso culturale ai nomi più famosi.

Un laboratorio culturale vivacissimo che porta fin dai suoi esordi, i segni di

una cultura non ufficiale ma presente, pronta ad esplodere nel momento in

cui gli si offre uno spazio dove esprimersi. Perché il problema della cultura

capitolina o italica in generale, negli anni ’90 e nei successivi, risulterà

proprio questo: come poter esprimere la propria arte ancora sconosciuta ai

grandi circuiti di distribuzione. La risposta immediata e fattiva arriva

proprio dallo spirito originario del caffè letterario. Se nel Settentrione

d’Italia e soprattutto nel Nord – Est, i caffè rappresentano il luogo di

coscienza politica durante le due guerre, nella Roma post Tangentopoli, il

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caffè letterario può rappresentare un luogo nuovo e di riscoperta del dialogo

culturale e della rappresentazione poetica. La poesia diventa una

protagonista del Lettere Caffè53

, non potrebbe essere altrimenti. La poesia

che da sempre ha trovato un ruolo marginale e clandestino all’interno delle

fila privilegiate dell’industria culturale ufficiale, trova il suo habitat

naturale all’interno di un luogo a misura d’artista come solo può esserlo un

caffè letterario.

3.2 Lettere Caffè : tradizione e progressismo

I rapporti umani, lo scambio di vedute e il confronto culturale hanno

sempre eletto i propri luoghi di espressione, andando così ad evidenziare il

ruolo centrale, da decine di anni, del caffè letterario. La tradizione si

affianca alle nuove tecnologie che finalmente risultano d’aiuto e supporto a

quanto di più analogico possa esserci sul nostro pianeta: i rapporti umani.

Se il Lettere Caffè si limitasse nella sua attività di aggregazione umana,

verrebbe meno l’obiettivo che questo tipo di caffè letterario si è prefisso:

una rete nazionale di caffè.

Le nuove tecnologie permettono di partire da un luogo della tradizione

come il caffè e proiettarlo nella rete Internet con naturalezza inaspettata e

funzionalità. Un portale web54

che sia in grado di supportare funzioni di

accesso a vari livelli (es. utente semplice o amministratore), garantirà anche

l’usabilità e la partecipazione di tutti gli attori reali, i clienti del caffè e di

tutti gli attori virtuali che intervengono on-line tramite moduli informatici

53. Cfr. www.letterecaffe.org, per un elenco completo degli artisti che si sono esibiti al Lettere Caffè e

per i programmi mensili e settimanali in corso. 54 . www.letterecaffe.net

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come forum di discussione o l’invio di news direttamente sul portale del

caffè. La rivista che ha dato vita al Lettere Caffè si ritrova proiettata nel

web mondiale senza risentire affatto della sua nuova dimensione digitale.

3.3 We make the standard: Bill Gates al caffé letterario

“Un computer su ogni scrivania” così William Henry Gates III o più

semplicemente Bill Gates pensava lo sviluppo futuro della sua neonata

società informatica: la Microsoft. L’espansione planetaria della società di

Gates si sarebbe basata su poche regole fondamentali: non vendere nulla

ma al contrario concedere in licenza i prodotti (software) sviluppati dalla

sua società informatica; far in modo che i maggiori produttori di periferiche

e accessori informatici facessero riferimento al suo Windows, il sistema

operativo creato da Gates e soprattutto, come premesso, fare in modo che il

Personal Computer divenisse un elettrodomestico user friendly55

, alla

portata di tutti.

Se Gates si sedesse in un qualsiasi Lettere Caffè, noterebbe che la sua idea

è talmente esatta da essere usata anche in un ambiente che per sua natura è

profondamente analogico. Il caffè letterario è formato da cuori e menti

pensanti in opposizione a circuiti elettronici e schermi LCD. Al tempo

stesso, la tecnologia e la filosofia che la Microsoft ha esportato in tutto il

mondo risulta inseribile e usabile in un contesto di socialità avanzata ben

rappresentato dal caffè letterario.

Il marchio Lettere Caffè – il caffè letterario viene concesso in licenza a

uomini e donne che ne condividano la filosofia organizzativa, i contenuti

55 . Dall’inglese, letteralmente: “di facile usabilità”

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78

potenziali e reali, la funzione di edificazione socio-culturale. L’obiettivo

principale di un progetto di rete di caffè letterari potrebbe essere paragonato

alla rete Internet, divisa in milioni di nodi, pc, server o terminali che

orizzontalmente veicolano informazioni e contenuti da una parte all’altra

del paese o del mondo. Una rete nazionale e successivamente

extranazionale che si basa su standard condivisi, su linguaggi comuni che

privilegiano l’attenzione per i soggetti culturali e le loro applicazioni

pratiche nella vita quotidiana. Lo standard nell’epoca dell’accesso risulta

così essere il vero agente di emancipazione di tutti quei contenuti che

l’industria culturale ufficiale e istituzionalizzata sembra non riuscire o voler

far emergere. Il sommerso culturale che fa del Lettere Caffè un luogo

pionieristico va così ad acquistare una posizione di salienza senza

precedenti.

3.4 Organizzazione e piani di sviluppo

Un progetto di rete di caffè letterari trova nella sua vocazione inclusiva e di

valorizzazione della cultura locale il suo punto di forza. Ci si trova così di

fronte a 3 tipi di soluzioni possibili o tipologie di affiliazione56

:

Hard: avvio di un locale ex novo, modellato sull'esempio dei Lettere

Caffè romani.

Soft: conversione (o gemellaggio) di un locale preesistente, con

l'inserimento di elementi caratteristici del Lettere Caffè.

56. Fonte: www.letterecaffe.net

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Corner: creazione di un corner riservato alla promozione culturale,

con le pubblicazioni dell'Editrice Letterecaffè S.r.l.

Una divisione così proposta valorizzerà al meglio le situazioni e gli spazi

preesistenti all’installazione del marchio Lettere Caffè mantenendo la

tradizione del luogo in cui i contenuti della rete nazionale vengono

veicolati.

Nelle figura. 1 è rappresentato un modello di progettazione di tipo Hard,

ovvero un allestimento ex-novo per un nuovo punto della rete.

Figura 1. Progetto di nuovo Lettere Caffè per affiliazione di tipo Hard

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Figura 2. Progetto del secondo punto Lettere Caffè a Roma

Figura. 2: il progetto del secondo punto Lettere Caffè a Roma, dedicato all’architettura e alla arti visive

in genere.

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Figura. 3: Progetto di Corner letterario da posizionare in librerie o bar o esercizi pubblici. Il corner ha

una funzione promozionale del marchio Lettere Caffè ed espone le edizioni della Editrice Letterecaffè

3.5 L’esclusiva territoriale e il network

Lettere Caffè è un franchising di servizi, ben diverso dal franchising di

prodotto (es. McDonald) che si basa su prodotti piuttosto che su contenuti.

Così la necessità primaria per l’espansione di una rete di caffè di questo

tipo è la capillarità e la presenza diffusa sul territorio. Non si vede alcun

bisogno di aprire un caffè letterario del genere a distanze troppo

ravvicinate: 100 Lettere Caffè in 5 anni è l’obiettivo della Lettere Caffè

Franchising s.r.l. La rete per poter funzionare e veicolare al meglio i

contenuti in tutte le sue parti ha bisogno di essere uniformemente

distribuita sul territorio nazionale. L’esclusività territoriale (un caffè per

non meno di 50.000 abitanti) rappresenta anche il ruolo di catalizzatore che

un caffè letterario può svolgere soprattutto nella provincia italiana.

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3.6. Manifesto dei Network Culturali Europei 57

I Network Culturali Europei sono già stati riconosciuti in una delibera del

Consiglio Europeo e dei Ministri della Cultura del novembre 1991, che

riconosce i loro contributi e benefici58

.

57. Adottato dal Foro dei Network Culturali Europei Bruxelles, 21 settembre 1997 58. I Network Culturali:

contribuiscono alla coesione europea;

facilitano la mobilità degli operatori culturali e dei prodotti culturali;

facilitano una comunicazione culturale incrociata combattendo la xenofobia, ed il razzismo e

sviluppando la comprensione culturale reciproca;

rinforzano la società civile dando una voce democratica all'individuo;

rinforzano quelle dimensioni culturali dello sviluppo che non sono prodotte da fattori puramente

economici;

aiutano a costruire la collaborazione con i cosiddetti "paesi del terzo mondo".

Un network è un gruppo di individui che si assumono la propria responsabilità per il raggiungimento di

obiettivi comuni ed è un sistema dinamico per la comunicazione, cooperazione e collaborazione.

Un network è una struttura che facilita, un modo di organizzare più che un organismo.

E' un modo di organizzare più che un'organizzazione. Sono la flessibilità, l'avvicinamento, il processo,

la mentalità di un network che creano il suo moltiplicato di se stesso. É una parte della società civile che

ha luogo nello spazio pubblico. Quello del network è uno sviluppo organico che nasce dalla necessità

degli individui di stabilire contatti, per avere scambi e lavorare insieme. L'energia, l'informazione, il

potere di un network affluisce orizzontalmente e dal basso verso l'alto. I Network Culturali forniscono

benefici reali allo spazio sociale, culturale, politico ed economico europeo. I membri dei Network

Culturali sono responsabili, produttivi, riflessivi, pragmatici e impegnati. Provengono da culture,

località geografiche e generazioni diverse. un sistema importante per stimolare e facilitare l'occupazione

- identificano e forniscono posti di lavoro per elementi da formare, laureati e professionisti ; speciale

valore aggiuntivo. Un network è una sinergia, è l'effetto moltiplicato di se stesso

I network sono:

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I passaggi fondamentali di adesione alla rete Lettere Caffè possono essere

facilmente descritti come segue:

a. Fee d’ingresso

Una quota di partecipazione al progetto di franchising, quota da onorare

una tantum e che si potrebbe definire “gettone di presenza” per

l’affiliazione.

Comprende:

l’esclusività territoriale;

la progettazione e la dimostrazione (in pianta) degli allestimenti.

b. Royalties

Le royalties, proprio come avviene per contratti editoriali (dalla carta alla

musica) , sono quote a scadenza fissa, che il franchisee riconosce al

franchisor (in questo caso Lettere Caffè), per i servizi ottenuti.

uno strumento per i governi nazionali per rispondere a necessità culturali, specifiche e

strategiche; una forma di addestramento professionale per lo sviluppo di abilità professionali ed

esperienza all'interno del settore culturale;

un modo efficace ed economico di diffondere l'informazione europea attuale sugli sviluppi delle

forme d'arte ai professionisti in tutti i settori culturali e nel governo;

un efficace catalizzatore economico per stimolare la cooperazione culturale internazionale.

All'interno dei network il profilo culturale professionale di alcuni paesi e regioni è cresciuto e

aumentato. Lavorano con persone, idee e prodotti.

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Comprendono:

uso del brand;

uso dei canali pubblicitari del franchisor;

supervisione e assistenza nella direzione artistica;

consulenza amministrativa: reperimento informative e leggi su licenze

commerciali e normative vigenti;

merchandising;

possibilità di adesione a convenzioni commerciali con fornitori;

possibilità di beneficiare dell'allestimento dei locali a prezzi

vantaggiosi.

Le Royalties non includono il costo degli allestimenti e un preventivo

personalizzato che verrà fornito dal nostro partner commerciale su

richiesta. Il design manager, avrà il ruolo di impostare praticamente

l’immagine del Lettere Caffè basandosi sul locale in corso di affiliazione.

Gli allestimenti dei nuovi caffè dovranno seguire la filosofia estetica del

Lettere Caffè ed esporre il marchio della rete. Qualche esempio: un Lettere

Caffè tipo dovrà avere un desk o comunque uno spazio per l’esposizione

di libri ed edizioni editoriali varie, sia edite che auto-edite; uno

spazio musica per le esibizioni e tutte le strutture necessarie per

l’esposizione di opere visive (dalla pittura alla fotografia). I progetti di

allestimento effettuati in forma privata devono rispettare i canoni estetici

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85

riportati nel contratto di affiliazione, dovranno essere supervisionati ed

approvati dalla Lettere Caffè Franchising S.r.l59

.

59

Lettere Caffè Franchising é una società a responsabilità limitata fondata da Enza Li Gioi - ideatrice

del progetto in veste di presidente, Davide Trebbi - direttore artistico del Lettere Caffè romano con

l’incarico della programmazione nazionale della rete e Simone Baldi - responsabile della parte

amministrativa, finanziaria e legale dell'azienda. Per una breve biografia dei soci fondatori: Enza Li

Gioi, la presidente é nata a Gorizia , ma vive da molti anni a Roma dove si é occupata di pubblicità e

marketing soprattutto in campo editoriale. Ideatrice del progetto "Lettere", che comprende oltre ai caffé

letterari in franchising una rivista letteraria omonima , si propone , attraverso la nuovissima "Editrice

Letterecaffé" di dare vita a una importante collana di poesia, di racconti, di diaristica e di carteggi

epistolari.Lei stessa scrittrice ha pubblicato il libro di racconti "Civico 38" e "Amici di penna".

Attualmente ricopre anche il ruolo di Direttore Editoriale della nuova casa editrice. Davide Trebbi , il

direttore artistico é nato a Roma il 22 Maggio del 1980. Studente in Scienze della Comunicazione

presso l'università "La Sapienza" di Roma ; cantautore con cinque album "Riflessi" e "Galleria

d'Autore", “Bootleg” e i più recenti “Buongiorno (2006) e Approved (2007), EP stampato per

CastorOne Edizioni Musicali. Ha un'esperienza di otto anni come Direttore Artistico del Lettere Caffé

di Roma e Conference Organizer per organismi internazionali; ex Segretario romano della F.I.P.E. –

Conf Commercio per il coordinamento dei locali serali, é il responsabile delle attività culturali e della

programmazione nazionale della rete di locali in Franchising.

Simone Baldi, direttore generale, é nato a Roma il 20 gennaio 1979. Laureato in Business

Administration, ha un'esperienza di management , finanza e pubbliche relazioni in società italiane e

organismi internazionali. Simone è il responsabile degli affari amministrativi, finanziari e legali della

società. Lead singer e co-autore della band "EnomisVal" con un album autoprodotto "Spares and

trades". E infine, Roberto Ciambrone, Design Manager è sceno-tecnico e affermato imprenditore dello

spettacolo. Ha fondato e dirige La Scenografia S.r.l., una delle più importanti società italiane del settore.

Roberto è responsabile dell'allestimento degli interni e degli standard stilistici dei locali e porta in dote

alla Lettere Caffé Franchising S.r.l. un'esperienza trentennale ai massimi livelli nazionali.

Fonte: www.letterecaffe.net

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86

3.7 I servizi offerti e il Know How 60

training del personale di sala e bar;

training del personale addetto alla direzione artistica.

a) Allestimenti interni

b) Editoria e Pubblicitá

c) Consulenza Direzione e Programmazione Artistica

controllo e supervisione nel periodo di avviamento della

programmazione del nuovo locale;

consulenza sulla direzione artistica per tutto il periodo di

affiliazione.

d) Possibilità di adesione a convenzioni commerciali con fornitori

e) Merchandising

3.8 Il target

Il modello di business del Lettere Caffè è la distribuzione multicanale di

prodotti culturali veicolati attraverso centri locali integrati in una rete.

Il caffè letterario della Lettere Caffè Franchising S.r.l. è un contenitore

omogeneo e compatibile con altri, attraverso il quale il prodotto

caratteristico del locale viene immesso e diffuso in rete.

60. Fonte: www.letterecaffe.net

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87

Questo può avvenire in diversi modi – ad esempio, attraverso

l’organizzazione di tournée e scambi tra i vari caffè letterari della rete.

Ma a differenza di altre realtà commerciali impegnate nella produzione e

distribuzione di musica, letteratura e spettacoli, i caffè letterari in

franchising realizzano i propri scopi commerciali e di profittabilità

attraverso i guadagni derivanti dalla somministrazione di bevande e generi

alimentari di vario tipo. Il target di un caffè letterario così concepito è

praticamente indefinibile: dai 3 ai 90 anni, chiunque può partecipare e

soddisfare le proprie esigenze di interazione e soddisfazione di bisogni

culturali. La programmazione offerta ai frequentatori del caffè, spazia dalla

musica dal vivo alla sala da tè, dalle attività per i più piccoli (lettura di

fiabe) alle mostre d’arte convenzionali o meno. La cultura in sé, come

concetto, si presenta trasversale e applicabile a tutti campi dell’agire

umano, dall’enogastromia all’arte sculturea.

3.9 Vantaggi e valore aggiunto

Ciascun caffè letterario in franchising è indipendente dagli altri ma

beneficia della partecipazione alla rete. La Lettere Caffè Franchising S.r.l.

infatti coordina e supporta l’offerta culturale dei vari caffè letterari, che è

indipendente dall’attività economica del caffè letterario. Questa

caratteristica garantisce la qualità e la flessibilità del progetto di

entertainment perché ci permette di selezionare liberamente il prodotto

culturale offerto.

Da un punto di vista funzionale, il modello può essere paragonato allo

sviluppo di una rete interconnessa quale Internet: l’utente inserisce il suo

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contenuto in un terminale locale, il contenuto va in circolo nel sistema e

diventa immediatamente fruibile da tutti gli utenti.

In questa ottica, i franchisees agiscono quali service providers del portale

locale mentre il contenuto è prodotto da soggetti terzi ospiti del caffè

letterario.

In questo senso la rete di caffè letterari in franchising si presenta anche

come una rete di promotori e talent scout. Il progetto di entertainment si

concretizza nella produzione e distribuzione di musica, letteratura e

spettacoli in partnership con la sister company Editrice Letterecaffè S.r.l.

3.10 Direzione artistica : il palinsesto culturale del caffé

Durante la lavorazione di "Imagine"61, John Lennon si scaglia apertamente contro Paul

McCartney con il durissimo testo di "How Do You Sleep?": "Il suono che tu produci è

'muzak' (musicaccia) per le mie orecchie, eppure dovresti aver imparato qualcosa in tutti

questi anni".

La direzione artistica di un caffè letterario in genere prevede diversi campi

d’azione e promozione dell’attività culturale nella programmazione di uno

spazio come Lettere Caffè. Il calendario degli eventi all’interno del caffè è

diviso in giorni e fasce orarie ben definite. Il direttore artistico si occupa

dell’organizzazione e del coordinamento degli eventi e conseguentemente

dei rapporti con l’esterno: stampa periodica e quotidiana, radio locali e

61Album pubblicato nel 1971 per la casa discografica Capitol. La struggente ballata utopistica della title track resterà il suo brano più celebre, il suo testamento spirituale e un inno per generazioni di pacifisti e

"sognatori" ("Imagine no possesions/ I wonder if you can / No need for greed or hunger/ A brotherhood

of man/ Imagine all the people sharing all the world/ You may say I'm a dreamer/ but I'm not the only one/ I hope some day you'll join us/ And the world will live as one").

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nazionali, convenzioni esterne con altre realtà culturali simili. I rapporti con

l’esterno riguardano anche le relazioni istituzionali che un caffè letterario,

per sua natura profonda, è naturalmente proiettato a perseguire nei

confronti delle amministrazioni pubbliche prima locali e successivamente

nazionali (ad es. il Ministero dei Beni Culturali).

La fascia pomeridiana della programmazione, dalle 15.00 alle 20.00, è

dedicata alle presentazioni editoriali, all’inaugurazione di mostre d’arte e al

servizio di sala da tè con la possibilità di consultare libri, riviste e

quotidiani presenti nel caffè. Presentazioni ed inaugurazioni rappresentano

il punto focale dell’attività del Lettere Caffè e del suo lavoro di scouting

network62

.

La fascia serale e le attività tipiche del club di musica dal vivo hanno inizio

dalle 20.00 in poi. La musica dal vivo e le esibizioni dal vivo in generale,

abbinate alla dimensione del caffè letterario vengono espresse al meglio,

grazie anche alla capacità di attento ascolto che il pubblico dei caffè ha

sempre destinato agli artisti. I concerti musicali, acustici e selezionati in

base anche al contenuto testuale delle opere, rappresentano anche i

maggiori introiti economici del Lettere Caffè.

Direzione artistica significa anche decidere l’impostazione che si intende

dare a quel che si dirige. Nel caso del Lettere Caffè, la grande attenzione

alle nuove proposte e al sommerso culturale italiano, in tutti i campi della

cultura, rappresenta un bacino artistico quasi infinito. Non sono pochi i casi

di grandi musicisti, da Paolo Conte ad Edoardo Bennato, che se non fossero

divenuti famosi avrebbero probabilmente continuato nei loro studi e nelle

loro future professioni: Paolo Conte è laureato in giurisprudenza; Edoardo

62. cfr. par. 3.13 di questo capitolo

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90

Bennato in architettura. Questi esempi illustri fanno indubbiamente

riflettere su quanto la scolarizzazione63

di questo paese, tardiva e tuttavia

efficace, abbia formato uomini e donne che nell’arte trovano una loro

importante dimensione di vita.

Il “sommerso culturale” in Italia è proprio questo: laureati di tutti i settori

accademici che hanno l’hobby della musica, della poesia, della pittura e

dell’arte in genere. Questi hobby, in molti casi, se adeguatamente supportati

e non sommersi, potrebbero divenire vere professioni. Questo tipo di

individui vanno a formare il pubblico e spesso sono anche gli attori del

Lettere Caffè.

3.11 Audience: fidelizzazione e strategia

Afferma Jeremy Rifkin nel suo “L’era dell’accesso”: “In generale, le

nazioni concentrano la politica sul primo settore (il mercato) e sul secondo

(lo stato); dando spesso per scontato il terzo (la cultura), senza rendersi

conto del ruolo fondamentale che quest’ultimo gioca nel processo di

formazione della fiducia sociale e, quindi, nella realizzazione degli scambi

e nel funzionamento del mercato64

”. E ancora: “Nelle comunità e nei paesi

che hanno un terzo settore forte e ben sviluppato, i mercati capitalistici

prosperano; dove il terzo settore è debole, i mercati capitalistici hanno, in

genere, assai meno successo.”65

63.cfr. par. 1.3: “L’industria culturale in Italia” 64. L’era dell’accesso, Mondadori, 2001, pag.323 e 324 65. Ibid.

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91

Questa lucida riflessione di Rifkin ci permette di ragionare ulteriormente

sul tipo di pubblico e la sua fidelizzazione66

nel tempo; un progetto di lungo

termine come può considerarsi Lettere Caffè, avrebbe bisogno proprio di un

terzo settore (la cultura) ben sviluppato. In Italia, come abbiamo cercato di

ricostruire in queste pagine, la cultura è spesso distorta o poco considerata

se non in base al suo posizionamento o salienza mediatica.

Un progetto culturale a lungo termine, quindi strategico, presuppone fattori

di sviluppo e organizzazioni che devono, indiscutibilmente passare dalla

cultura di base per arrivare a quella ufficiale. Il sommerso, come già

definito in queste pagine, rappresenta proprio la parte volutamente meno

sviluppata del terzo settore in questo paese. Se l’alternativa alla scarsa

esposizione mediatica deve essere il non esistere, è in questo passaggio che

un progetto culturale come Lettere Caffè si colloca e va a svilupparsi.

Fidelizzare significa costruire una audience di uomini e donne che

arbitrariamente seguano un programma culturale e ne condividano i valori

di fondo. Lettere Caffè ne è un esempio chiaro: qualità invece che quantità;

spazio condiviso invece che lottizzato o ancor peggio vietato; recupero del

sommerso culturale invece che definitivo affondamento di tutte quelle

culture sub o side, raramente ascoltate dall’industria culturale ufficiale.

In questo quadro il fine ultimo del Lettere Caffè è la creazione di uno

standard qualitativo condiviso che porti i numerosi pubblici possibili ad

individuare immediatamente un “prodotto culturale” Lettere Caffè,

distinguendolo da un prodotto destinato al semplice meccanismo

industriale.

66 Fidelizzare: rendere un cliente stabilmente affezionato all’acquisto di un prodotto, cfr. http://www.demauroparavia.it/43541

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92

3.12 Scouting network

La principale risorsa di una rete orizzontale come Lettere Caffè, è la

possibilità di veicolare in rete nuove proposte da tutti caffè presenti sul

territorio nazionale. Le proposte culturali che non trovano spazio nelle

grandi reti distributive già presenti sul territorio nazionale, possono avere

nuova visibilità all’interno dei Lettere Caffè. Questo tipo di caffè letterario,

avendo facoltà di produzione audio-visiva ed editoriale, rappresenta

probabilmente la soluzione migliore affinché il sommerso culturale italiano

possa avere spazio e promozione. Lo scouting, ricerca di nuove proposte

professionali ed artistiche, diviene automaticamente la missione principale

della rete Lettere Caffè, al punto che la maggior parte del palinsesto

mensile è organizzato in appuntamenti settimanali fissi: lo slam poetry,

gara di poesia inedita con votazione per alzata di mano; Statale 17, rassegna

musicale per nuovi autori; Venti Teatrali, vera e propria sfida teatrale a

base di monologhi o rappresentazioni della durata massima di 20 minuti. La

rassegna permanente di nuove proposte e uno spazio vero, analogico e

possibile, fanno del Lettere Caffè un laboratorio pubblico, un contenitore in

costante espansione.

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93

CAPITOLO QUARTO

Dialoghi al caffé

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94

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95

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati

Bertold Brecht

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97

Dopo aver ragionato su teorie e ambiti principali dell’industria culturale,

sono stati intervistati quattro protagonisti della cultura italiana al fine di

comprendere, attraverso esperienze di vita, qual è il loro punto di vista sui

differenti aspetti della cultura nel nostro paese e sul concetto di caffè

letterario.

I personaggi intervistati sono: Claudio Lolli, cantautore; Massimo Bucchi,

vignettista; Pierluigi Ferrari, attore; Enza Li Gioi, scrittrice. Ognuno nel

proprio campo d’azione e con una propria esperienza professionale

maturata in anni di lavoro, attraverso domande teoriche e pratiche, che

hanno condotto questo lavoro a toccare fatti storici (come il caso Moro) e

artistici (come la nascita e l’evoluzione del cabaret a Roma) passando

anche attraverso la storia dei caffè letterari italiani fino ad arrivare al

Lettere Caffè di Roma, come esempio moderno e futuribile di caffè

culturale e spazio aperto a nuove idee. Le interviste sono state realizzate in

audiovisivo in diversi luoghi di Roma e all’interno del Lettere Caffè. Lo

strumento dell’intervista è risultato particolarmente utile al fine di

comprendere a fondo gli sviluppi dell’industria culturale italiana,

confermando l’importanza dei codici nella comunicazione di un prodotto

culturale e della necessità dell’individuazione di un pubblico o audience al

quale un determinato prodotto è destinato.

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4.1 Musica d’autore: Claudio Lolli, autobiografia industriale

Claudio Lolli67

, cantautore bolognese classe 1950, ha iniziato la sua carriera

artistica negli anni Settanta e si è da subito contraddistinto per la sua

difficile collocazione all’interno di un genere specifico dell’industria

culturale italiana. In “Autobiografia industriale”, brano musicale contenuto

67 Claudio Lolli, un cantautore degli anni ‘70, nasce a Bologna nel 1950. Claudio Lolli, schivo, problematico, innamorato delle atmosfere desolanti tristi e malinconiche, è abile nel mettere in musica

le delusioni e il pessimismo di un'epoca generazionale. Ci sono tre periodi che caratterizzano Lolli: il

primo periodo che va dal 1972 al 1975, dove il cantautore bolognese compone le sue canzoni con pochi arrangiamenti e con la prevalenza della sola chitarra acustica, raccontando canzoni intorno ai temi

dell'amicizia, dell'ecologia, delle angosce generazionali, e denunciando in modo ironico sulla società di

allora. Sono dischi questi, per lo meno i primi che occorre ascoltare quando si sta assolutamente bene, per evitare di cadere nella depressione più totale, dischi che vanno ascoltati a piccole dosi. Il secondo

periodo, dal 1975 al 1977, è un periodo in cui Lolli arricchisce gli arrangiamenti con sezioni di fiati e

percussioni e per la prima volta gira in tour con un nutrito numero di musicisti, un esempio che verrà poi seguito da altri cantautori.

Con il disco " Disoccupate le strade dai sogni " , Lolli si rende conto che i tempi sono cambiati e i sogni

di una generazione svaniti...un disco che ha testi molto difficili, gli arrangiamenti molto jazzati e proseguono anche con il successivo Extranei. Nel disco Disoccupate le strade dai sogni ci sono canzoni

che ho ascoltato tantissimo, canzoni diverse dal solito Lolli triste e malinconico, canzoni come Incubo

Numero Zero, Alba Meccanica, Socialdemocrazia. In Extranei altre canzoni memorabili "Come un Dio Americano" e "Il Ponte". Nel terzo periodo, Lolli esce dalla scena l'artista rallenta il passo discografico

e patisce una certa crisi della canzone d'autore e con l'album Antipatici Antipodi mette in evidenza

capacità di sintesi liriche e ottimi arrangiamenti musicali. La copertina dell'album è opera di Andrea Pazienza e nel disco troviamo delle canzoni bellissime come Notte Americana, Villeneuve e Formula

Uno scritta con Roberto Roversi. Nel 1984 Lolli porta in giro per l'Italia lo spettacolo " Dolci Promesse

di Guerra " insieme a Giampiero Alloisio e nel 1988 dopo una lunga pausa arriva un nuovo lavoro .... il disco dal titolo " Claudio Lolli" con canzoni che rilevano un certo disagio quotidiano come "La fine del

Cinema Muto", "Adriatico", "Via col Vento" e "Tutte le lingue del mondo". Per scelta Lolli non

promuove il disco nei consueti canali tradizionali e negli anni successivi si dedica esclusivamente al mestiere di professore, mettendo così fine al suo precariato come cantautore. Nel 1992 esce l'album dal

titolo "Nove Pezzi Facili", il brano ispirato da Cesare Pavese, scritto ai tempi del precedente album ,

viene inserito in questo disco insieme a due brani inediti dal titolo " Tien An Men " e " Vite Artificiali", tutto il resto sono dei rifacimenti o riproposte di vecchie canzoni. Nel marzo del 1993 Lolli torna ad

esibirsi dal vivo in un recital al Teatro Puccini di Firenze. Ha pubblicato tre libri "L'Inseguitore Peter

H.", "Giochi Crudeli" e “Rumore rosa”. Alcune delle canzoni di Lolli sono state incise anche da Francesco Guccini (Keaton, uno dei brani più belli di "Signora Bovary" e Ballando con una sconosciuta,

da "Quello che non..." Gli Stadio incidono invece il pezzo dal titolo Segretaria Telefonica nell'album

"Siamo Tutti elefanti Inventati". Lolli attraversa ancora un periodo di riflessione, di assenza dalla scena per tornare con l'album "Le intermittenze del cuore" nel 1997, un antologia nel 1998 e un nuovo album

dal titolo "Dalla parte del torto" nel 2000. “Ho visto anche degli zingari felici” versione live con il

Parto delle nuvole pesanti. “La scoperta dell’America”, anche questo come gli ultimi album, pubblicato da Storie di Note.

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nell’album “Disoccupate le strade dai sogni”68

, Lolli spiega molto bene

come funziona un’industria culturale e come vengono definiti i vari generi

di prodotti da vendere; spiega anche le difficoltà che un giovane autore di

canzoni incontra per poter comunicare la propria opera all’interno di un

sistema culturale rigido e organizzato, come un’industria appunto.

Dice Lolli: questa canzone è nata per raccontare un po’ la storia di quel

che può succedere a un giovane che va a portare delle canzoni in una casa

discografica69

, in un’industria culturale. Devo dire che è molto

autobiografica e anche molto sincera, nel senso che è successo veramente

così. […] certamente la mia musica, le mie canzoni non erano…a parte il

fatto che in quegli anni la canzone d’autore era un po’ di moda, un po’

funzionava e aveva un certo seguito. Certamente non mi presentavo come

una rock star vera, alla Emi ricevevano i King Crimson, i Pink Floyd…...

68. Emi, 1977 69. La EMI, casa discografica. Le numerose etichette di EMI, tra cui Capitol, Virgin, EMI Classics,

Parlophone e Blue Note solo per citarne alcune, hanno offerto alle orecchie del mondo artisti come i Beatles, i Rolling Stones, Nat King Cole, Pink Floyd, Herbert Von Karajan, Maria Callas, Queen,. EMI,

acronimo di Electric and Musical Industries, inizia la propria avventura nel 1887, con l'apertura della

Gramophone Company a Londra; già un anno dopo vengono aperti uffici in Francia, Germania ed Italia. Apre anche la Columbia Phonograph sua maggiore concorrente. Nel 1889 viene acquistato il dipinto di

Francis Barraud "La voce del padrone" che ritrae il cagnolino Nipper mentre ascolta un grammofono.

Proprio per l'utilizzo del dipinto di Barraud come marchio, la Gramophone Company incomincia a essere conosciuta come His Master's Voice, La Voce del Padrone. Tra il 1900 e il 1906 vengono aperti

uffici in Russia, Australia, Giappone, India e Cina.

La Gramophone Company viene quotata alla Borsa di Londra nel 1904, con il 60% degli utili proveniente dal di fuori del Regno Unito.

Il tenore Enrico Caruso, incidendo per la Gramophone Company dieci arie d'opera in una stanza d'hotel

di Milano, conferisce al grammofono dignità di mezzo "serio" per l'ascolto di musica classica. Nel 1914 le vendite di dischi si attestano sui 4 milioni di copie all'anno. Con la prima Guerra Mondiale vengono

persi i mercati di Russia e Germania.

Nel 1925 la Gramophone Company inizia a utilizzare un sistema di registrazione del suono elettrico, più che meccanico. Nel 1926 O for the wings of a dove di Ernest Lough, è il primo disco a vendere più di

1.000.000 di copie. Nel 1931 nasce la EMI: si fondono infatti la Gramophone Company e la Columbia

formando la Electric and Musical Industries. Nello stesso anno un ingegnere dei laboratori di ricerca EMI, Alan Blumlein, crea la tecnologia della registrazione stereo e si aprono i mitici studi di

registrazione di Abbey Road.

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Il sentimento permanente è l’estraneità da parte dell’artista verso un

sistema di produzione industriale che cerca di organizzare in settori ben

definiti e rigidi i vari generi culturali. Continua Lolli: il sentimento

sostanziale di quel pezzo, di quell’esperienza è l’estraneità. Sei estraneo a

quel mondo, tu fai musica in un certo modo, di un certo tipo, forse bella,

forse brutta però sei il granello di sabbia che fa inceppare il meccanismo.

Non sei un prodotto, non vorresti esserlo e certamente non lo sei. Vendono

molti più prodotti “normali” di quello che può essere questo tipo di

musica.

Da Domenico Modugno a Piero Ciampi, la musica d’autore in Italia ha

avuto, proprio come è accaduto per quanto riguarda la televisione, forti

connotazioni politiche e ideologiche70

. Le differenze con paesi esteri, anche

in questo caso, sono notevoli e sostanziali. La storica querelle tra musica

colta e musica popolare in Italia, ha visto proprio durante gli anni Settanta,

il suo punto di maggiore tensione. Accanto a cantanti nazional-popolari

sono apparsi i cantautori, con il loro carico di contenuti sociali e riflessioni

dirette e sincere come mai se ne erano sentite prima nel nostro paese. Così

Modugno che rappresenta un primo passo verso il cantautorato, seppur

ancora pienamente nazional-popolare, può essere individuato come punto

di partenza per la mia analisi. Piero Ciampi, cantautore e poeta livornese,

rappresenta al contrario il tipico “prodotto” scarsamente collocabile nel

“supermercato” dell’industria culturale. Claudio Lolli a cui ha dedicato

70. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, I peccati originali dell’industria culturale, Carocci, 2005, 1.6, pag. 31.

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anche una canzone71

a questo proposito afferma: Modugno lo metterei, se

avessi delle “carpettine”, nel pop più che nella canzone d’autore; una

canzone geniale come “Volare” certamente rompe moltissimi schemi, però

il resto….Non dimentichiamoci de “La lontananza” o “Il telefono”, non

so, mi pare un’altra cosa, con tutto il rispetto. Piero Ciampi era un’altra

cosa; era un artista modernissimo, sofferentissimo e straordinariamente

espressivo; infatti non ha avuto il successo di Modugno nonostante abbia

scritto delle canzoni straordinariamente più belle. Un’ulteriore

precisazione: Una cosa è una produzione in qualche modo popolare, senza

dare a quest’aggettivo una connotazione negativa; un’altra cosa è invece

una produzione che nasce da un’esigenza espressiva che ha a che fare con

l’arte, con l’artistico, con l’esistenziale, con l’individuale. Poi tutte e due

confluiscono per necessità, in qualche momento della storia, in un

meccanismo (l’industria culturale, ndr) che le può accomunare

apparentemente.

A questo punto l’intervista si è focalizzata sulle principali differenze

produttive e artistiche tra l’Italia e i principali produttori di musica a livello

mondiale, come Stati Uniti e Regno Unito. Dal 1960 ad oggi, dalle prime

canzoni di Elvis Presley ai Beatles, da Bob Dylan ai Pink Floyd, le

differenze di mercato e produzione di beni musicali tra Italia e paesi esteri

sono notevoli.

Continua Lolli: La differenza che noto è questa: nei luoghi citati (Stati

Uniti e Regno Unito) c’è una straordinaria capacità di comunicazione, di

abbinamento; i musicisti si conoscono, si amano, lavorano insieme anche

71. Spiega Claudio Lolli: “La diffidenza nei confronti di Piero Ciampi è una metafora, non è dovuta ai

suoi musicisti. Per esempio Gianni Marchetti lo adorava. E’ una metafora della difficoltà che la poesia incontra nell’entrare in un mondo musical-pop-industriale”.

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se fanno generi molto diversi. Io ho avuto l’impressione che in Italia ci sia

stata , e probabilmente ci sia ancora, una separazione molto netta, vissuta

astiosamente tra il rock e il pop, il cantautore, ecc. Come se uno fosse

nemico dell’altro. Credo che questo sia stato un po’ un limite. Bob Dylan

ha collaborato con tutti, con tutti i musicisti possibili; tutti quelli a cui ha

chiesto una collaborazione lo hanno fatto volentieri. Io non credo che in

Italia ci sia una situazione del genere e sicuramente non c’è stata negli

anni e nei decenni precedenti.

Parlando di generi letterari e quindi, di “cassetti” in cui si possono inserire

dei prodotti da immettere successivamente nell’industria culturale si è

deciso di affrontare la storica dicotomia tra canzone e poesia, analizzando

le differenze tra i due generi e soprattutto le diverse tecniche linguistiche

usate. La poesia, componente fondamentale del palinsesto culturale del

Lettere Caffè di Roma (cfr. par. 4.4), è forse il genere letterario che ha

avuto più difficoltà in Italia, soprattutto per quanto riguarda il sistema di

distribuzione e vendita dell’opera poetica. Claudio Lolli, che ha pubblicato

anche un libro di poesie inedite72

, fa delle distinzioni sia tecniche sia di

intenzioni artistiche.

Secondo Lolli esiste una differenza assoluta tra la parola poetica è una

parola che aspira all’autonomia e che esiste solamente in quanto

raggiunge una sua autonomia; la parola poetica dev’essere precisissima,

immodificabile. Non ci può essere un’altra parola che può sostituire la

parola precedente e assolutamente nulla, dall’esterno, può condizionarla.

La parola della canzone è una parola che può essere più imprecisa perché

ha un aiuto notevole, l’aiuto del bordone musicale. Una parola imprecisa,

72

. Claudio Lolli, Rumore Rosa, Stampa alternativa, Libro +cd, 2004, Roma.

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suonata, cantata, detta, citata, letta, con la musica raggiunge l’effetto

poetico anche se non è perfetta, anche se non è precisa, anche se non è

insostituibile. Questa è una differenza notevole di genere e di stile.

Per quel che riguarda la fruizione da parte del pubblico, il termine poesia

si allarga, allarga il suo campo semantico e allora certamente può essere

(la parola, ndr) poeticissima anche una canzone, visto che chi l’ascolta ha

le stesse sensazioni che può avere chi legge Baudelaire. Come dire, da una

parte hai il mondo dei produttori, dei cercatori, dei perversi e degli

ossessionati dalla parola e dall’altra hai il mondo dei comunicatori, di

quelli che sono ossessionati dal bisogno del contatto col pubblico.

Tornando alla produzione musicale di Claudio Lolli, possiamo individuare

due album fondamentali nella sua carriera e anche per lo scopo di questo

lavoro: “Ho visto anche degli zingari felici”73

e “Disoccupate le strade dai

73. Concept album, che inizia con “Ho visto anche degli Zingari Felici”, contiene canzoni come Agosto, una canzone che racconta della bomba che fu messa sul treno Italicus, che esplose nella galleria di San

Benedetto Val di Sambro. Nel retro della copertina viene scritto: " Ho visto degli zingari felici " nasce

come ballata alla fine di giugno del 1975, come conseguenza e tentativo di adeguamento e rinnovamento espressivo nei confronti della nuova e più dinamica situazione politica che, secondo gli

autori, richiede nuovi e più avanzati livelli di intervento anche in campo di elaborazione culturale. Nella

sua parte letteraria la ballata è una specie di storia affettiva di una piazza e delle evoluzioni che il rapporto tra noi e questa subisce nel corso di un determinato periodo sempre più facendosi organico e

importante. Dove la piazza (che nell'occasione è Piazza Maggiore di Bologna) rappresenta non solo

tutte le piazze d'Italia, che in questo anno hanno vissuto una notevole crescita di "crucialità" anche culturale, ma in generale lo spazio aperto, politico, che rompe i contorni di isolamento che il riflusso

degli ultimi anni aveva in parte ricreato. La piazza simboleggia una nuova spinta al concreto operare

politico, un nuovo ritrovarsi insieme in modo non artificioso né frustrante, a festeggiare senza illusioni e trionfalismi, ma pur sempre a festeggiare, una vittoria reale e popolare. Questa storia si svolge attorno a

due poli, e se uno è appunto quello del 15,16,17 giugno 1975, l'altro è quello dell'agosto 74, quando a

breve distanza dalla strage di Piazza della Loggia a Brescia, la Piazza di Bologna doveva ospitare i funerali di dieci delle dodici vittime dell' Italicus, subendo anche l'affronto della presenza, a dir poco

sconcertante, in nome del governo, di personaggi del calibro di Leone e Fanfani. Tra un polo e l'altro

sono inserite delle storie "private", storie di vita e di morte, comunque viste nell'ambito di un sempre più organico confronto e di una sempre più progressiva sovrapposizione tra l’aria quella della piazza

(cioè della società), come unica possibilità di vivere dei rapporti umani soddisfacenti e autentici. " La

morte della mosca " riflessione allegorica sulla morte di un uomo, riporta alla evidenza della divisione in classi della società; Anna di Francia, popolana anarchica dal nome di regina, rappresenta la difficoltà

e l'insicurezza di una libertà autentica, contraddittoria e angosciosa nella misura in cui è per forza di

cose libertà individuale... "Albana per Togliatti" presenta un momento di superamento anche se chiaramente solo euforico e volontaristico, delle divisioni all'interno della sinistra, un momento in cui i

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sogni”. Questi due lavori risultano fondamentali per il nostro discorso in

quanto il primo rappresenta al meglio un prodotto riuscito e di grande

successo commerciale mentre il secondo pur essendo un album riuscito,

non raggiunge un altrettanto ampio successo commerciale e rappresenta per

l’autore in questione, un momento di svolta nella carriera artistica. “Ho

visto anche degli zingari felici” è un album fondamentale per la musica

d’autore italiana, non solo per la carriera di Claudio Lolli. E’ un concept

album, viene presentato in tournèe, è un grande successo commerciale.

Claudio Lolli pubblica poco dopo con l’ album: “Disoccupate le strade dai

sogni”, un disco più approfondito, più complesso degli “Zingari”74

. Un

“prodotto” come Claudio Lolli in quel momento storico è un prodotto che

vende moltissimo, è un prodotto di nicchia (narrow) ma con un cospicuo

pubblico e nell’album che segue, Lolli dimostra di saper fare anche

dell’altro, invece di ripetere se stesso. In questo passaggio però, si rompe il

meccanismo tipico, lo stratagemma sottile dell’industria, si verifica un

allontanamento dal genere e settore specifico che aveva portato “Ho visto

anche degli zingari felici” ad essere un grande successo e l’album

successivo ne soffre. Claudio Lolli interpreta così questo passaggio: Ho

visto anche degli zingari felici” è un disco che ha avuto molto successo, ha

venduto molto e mi ha dato molti soldi. Avrei potuto fare tranquillamente:

“Ho visto anche degli zingari felici” 1, gli zingari felici 2 e gli zingari

felici 3 , gli zingari felici 4, ecc. Avrei potuto clonarmi molto

tranquillamente e per un paio di volte sarebbe andata anche molto bene;

compagni che sono lì si riconoscono come compagni proprio per l fatto di esserci. Le esperienze e i personaggi che forniscono il materiale per questa ballata sono in parte autentici in parte inventati come

sintetizzazione di esperienze particolari. 74 . Denominazione che i fans di Claudio Lolli e i critici danno dell’album sopraccitato: “Ho visto anche degli zingari felici”, EMI Italia

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Però se uno pensa da artista, pensa che una cosa, se ha funzionato, vuol

dire che è conclusa. Almeno da un punto di vista formale. E che quindi

occorrerebbe qualcosa di diverso, di nuovo. Alla facilità e alla semplicità

degli “zingari felici” ho voluto aggiungere la complessità del periodo

successivo. E’ vero che gli “Zingari felici” rappresentavano in un certo

senso l’ascesa, la nascita, la maturazione felice di un movimento75

.

“Disoccupate le strade dai sogni” rappresentava invece l’esercito, i carri

armati a Bologna, la difficoltà e ancora il frantumarsi di uno specchio, la

perdita di senso e quindi anche dal punto di vista musicale doveva essere

qualcosa di meno semplice, meno comprensibile, meno seduttivo. Qualcosa

che mettesse in difficoltà e questo è stato, per così dire, l’inizio della fine

del mio rapporto col pubblico. Era un disco molto difficile da sentire, lo

apprezzano solo quelli che hanno una certa capacità critica, non puoi

cantare su una spiaggia, una sera, accanto al falò con la chitarra, una

canzone di quel disco; questa è stata un’operazione progettata e dolorosa

con cui ho rinunciato ad una sorta di pubblico e di carriera. Però questo

era quel che dovevo fare.

4.2 Cinema: Pierluigi Ferrari , un giorno da Leone

Pierluigi Ferrari, attore romano, ha iniziato la sua carriera al Teatro Eliseo76

diventando attore di prosa. Nel 1979, con “Senti chi parla” di Carlo

Verdone (con la partecipazione di Diana Dei) ha iniziato una tournée che

da Roma ha portato questo spettacolo fino a Siena e Firenze per circa un

75 . Si fa riferimento al movimento studentesco e idelogico del ’68. La fantasia al potere in

contrapposizione alla lotta armata, le Brigate Rosse, caratterizzante del ’77. 76 . Storico teatro della capitale in Via Nazionale.

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mese e mezzo. La sua profonda amicizia con la famiglia Verdone inizia

all’epoca della scuola elementare, come compagno di classe del fratello di

Carlo Verdone, Luca, oggi esimio professore di storia dell’arte

all’università, autore vari libri e di un’interessante attività da regista

cinematografico. Proprio con Luca Verdone, Pierluigi Ferrari ha iniziato

un’esperienza di produzione di cortometraggi destinati soprattutto ai

dipartimenti Rai di quell’epoca (fine anni Settanta). Si trattava di

documentari d’arte in genere, di pittura, scultura e musica. Racconta

Ferrari: “Giravamo l’Italia facendo riprese ed io mi occupavo della

produzione. Poi con Carlo (Verdone) è iniziata una collaborazione anche se

lui a dire il vero era un grande amante della musica rock, batterista e

rockettaro. Io suonavo la chitarra, suonavamo in duetto, ci chiamavamo

“Los Chiodos”, questo lo sanno in pochi; registravamo in casa delle piccole

cose con Carlo al piano e io alla chitarra. Lui (Carlo Verdone) è un buon

suonatore anche di piano, fa delle cose di jazz abbastanza particolari”.

La storia artistica e i personaggi incontrati da Pierluigi Ferrari mi

permettono di poter parlare delle principali differenze tra teatro e

televisione in Italia, cercando di definire quali differenze qualtitative e di

pubblico siano alla base di questi due generi dell’industria culturale e

soprattutto se teatro e televisione possano convivere o come spesso è

accaduto, mescolarsi. Dice Ferrari: Il teatro è un qualcosa che crea

un’atmosfera del momento; l’attore col suo temperamento si butta con tutto

il cuore che ha, quella sera particolare e fa la sua rappresentazione. La

televisione, se viene fatta ad esempio in diretta, anch’essa, provandola

negli sketches con Carlo (Verdone), provoca una forte emozione. Sai che

dall’altra parte dello schermo non ti guardano in 100 o 200 persone ma al

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contrario, milioni di persone; quando viene dato il nero77

c’è un attimo di

panico. Molto diverso è per quanto riguarda le trasmissioni televisive

registrate; puoi tagliare, ti puoi fermare ma il pathos che l’attore ha in

teatro non può sicuramente essere quello provato né al cinema né in

televisione. A Roma, dove Ferrari ha iniziato la sua carriera, oltre al teatro,

negli anni Settanta, la scena era rivolta ai nuovi comici e a nuovi spazi

minori dove potersi esibire: L’esperienza teatrale romana che nasce dal

genio riconosciuto di Paolo Poli e di sua sorella. Ai tempi gestivano uno

spazio teatrale, l’Alberico e un altro piccolo spazio annesso, l’Alberichino;

succedeva questo: all’Alberico lui (Paolo Poli) faceva i suoi spettacoli

mentre all’Alberichino ci si riuniva di sera per vedere cosa c’era in giro,

dai monologhi teatrali e quant’altro e lui (P.Poli), alla fine di queste

piccole rappresentazione trasformava il teatrino in un “ristorante”, si

tiravano fuori tavoli e sedie e si mangiavano dagli spaghetti all’insalata.

Da Roberto Benigni a Marco Messeri, Carlo Verdone, La Smorfia78

, I

Giancattivi, I Gatti di vicolo dei miracoli e molti altri. Quasi tutti gli attori e

i comici che passavano da Roma, passavano anche in questo spazio

teatrale: Si stava tutti insieme, si chiacchierava, si discuteva e Paolo Poli

incitava tutti questi talenti in erba ad esprimersi ed a rappresentare le loro

opere e idee; spinse anche Carlo Verdone, nel 1977, a mettere in scena il

suo primo lavoro teatrale intitolato: Tali e Quali[…] Possiamo dire che

Paolo Poli è stato precursore e ha preparato le opere che di fatto hanno

dato visibilità maggiore ai nuovi comici nella trasmissione Rai “No Stop”

per la regia di Enzo Trapani, un grandissimo della nostra televisione.

Sicuramente, nella carriera di Pieluigi Ferrari, il passaggio più importante è

77 . Segnale tecnico che da inizio alla diretta televisiva. 78 . Storico trio comico formato da: Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo De Caro.

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l’incontro con Sergio Leone, di cui ricorda personalità e racconti poco

conosciuti: Sergio (Leone) era veramente geniale sia nella vita quotidiana

che nel suo lavoro di regista, il regista più perfezionista che abbia mai

incontrato. Preciso e addirittura pretenzioso nei confronti della troupe,

degli attori e fino ad arrivare al trovarobe79

. Mi ricordo un episodio

esemplare, si girava “C’era una volta in America” e con Luca verdone

seguivamo la troupe per la realizzazione di un documentario sul back stage

del film80

. Ad un certo punto ricordo lui (S. Leone) fece un feroce appunto

ad un trovarobe perché questi aveva sbagliato i fari di un’automobile di

scena: i fari trovati erano del 1936 ma l’automobile in questione era del

’40. Questo per dire che tipo era Sergio Leone.

Continua ricordando il rapporto artistico tra Carlo Verdone e Sergio Leone:

Per Carlo Verdone è stato (Sergio Leone) un secondo padre, il padre

cinematografico di Carlo, permettendogli di fare “Un sacco bello” e

“Bianco rosso e verdone”81

e con lui sono iniziate anche le mie

collaborazioni cinematografiche con Carlo (Verdone). La mia

collaborazione è culminata diversi anni dopo, fine anni ’80, con la

realizzazione del film “Compagni di scuola”, nel quale sono stato

assistente alla regia (di Carlo Verdone, ndr). E’ stata un’esperienza

bellissima, molto difficile ma che ci ha dato davvero molte soddisfazioni.E’

di sicuro un film che è rimasto e rimarrà nella storia del cinema italiano”.

Il cinema italiano dagli anni Cinquanta in poi ha subito una costante perdita

di pubblico, dovuta anche all’inserimento massiccio di produzioni

cinematografiche straniere ed in particolare statunitensi. Analizzando le

79. Figura professionale in ambito cinematografico, addetto al reperimento di oggetti di scena. 80 . Il titolo di questo documentario sarebbe dovuto essere “Un giorno da Leone”. 81. I primi due film ufficiali di Carlo Verdone con la regia di Sergio Leone e le musiche originali di Ennio Morricone.

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motivazioni di questa crisi del cinema in Italia, Ferrari dice: il cinema

italiano partorisce dei registi che hanno la grande capacità di colpire in

maniera diretta e di non essere troppo legati al cinema di maniera82

o al

cinema dei grandi mezzi economici: al cinema cosa italiano cosa manca? I

soldi!.

Questa cronica mancanza di fondi dedicati all’industria culturale in Italia, è

perfettamente rispecchiata in un episodio raccontato Ferrari: un episodio

accaduto mentre eravamo in tour con Carlo (Verdone) per lo spettacolo

“Senti chi parla”, eravamo a Siena e una sera decidiamo di andare al

cinema. Ci consultiamo velocemente e decidiamo di andare a vedere

“Shining” di Stanley Kubrick….ci sediamo nel cinema, partono i titoli di

testa83

e Carlo mi dice: “Ecco, a questo punto, noi abbiamo già finito i

soldi, tanto per dirti che rapporto c’è fra cinema americano e italiano, che

differenza di mezzi economici appunto. Il budget impiegato nei titoli di un

film statunitense già esaurisce l’equivalente budget destinato alla

realizzazione di un film completo prodotto in Italia”.

82. Dispregiativo usato nelle arti visive, pittoriche in particolare, per designare lavori troppo accademici,

troppo ammiccante all’arte ritenuta ufficiale e “sicura”. 83. Carlo Verdone aveva appena terminato le riprese di “Bianco, rosso e verdone”.

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4.3 Stampa: Massimo Bucchi, la finestra sul cortile

La finestra sul cortile è una visione, un modo di interpretare la realtà

Massimo Bucchi

Massimo Bucchi84

, vignettista e grafico classe 1941, è stato tra i primi a

lavorare sul nascente quotidiano “La Repubblica” come grafico e

successivamente come vignettista nelle pagine d’opinione del quotidiano

diretto da Eugenio Scalari. La satira come comunicazione diretta ma anche

stratificata viene raccontata da Bucchi attraverso vignette graficamente

innovative, corredate da didascalie ironiche e pungenti. La sua “finestra sul

cortile” rappresenta uno dei migliori casi di satira italiana su carta stampata:

Ho disegnato a mano per vari anni, poi mi sono ricordato che prima facevo

il pubblicitario e in pubblicità quello che riguarda la parte iconografica

non corrisponde, quasi mai, al prodotto. Se faccio una cosa col dito di Dio

e il dito di Adamo85

e meglio usare direttamente Michelangelo piuttosto che

ridisegnarlo da me. L’opera originale in qualche modo perderebbe la sua

unicità, la sua interezza. Esiste già l’originale e questo basta. Il copyright

ha importanza fino ad un certo punto; ho usato almeno due volte

l’immagine di Topolino86

. La satira in qualche modo è protetta dal diritto

84. E' uno dei più grandi innovatori del linguaggio grafico della satira italiana. Vive e lavora a Roma.

Nella sua lunga carriera è stato disegnatore, vignettista, illustratore, è presente da sempre sulle pagine

d'opinione del quotidiano La Repubblica con la rubrica "La finestra sul cortile", e su un'infinità di riviste specializzate. E' autore di "Torna a casa lessico" e di "Storie dei pazzi", pubblicati da Mondadori nel

1987 e nel 1991. Ha vinto due premi Forte dei Marmi per la satira politica. Oltre a "La finestra sul

cortile" (minimum fax, 1998), ha pubblicato "Moriente e uccidente" (con Piero Sciotto, Bompiani 1999). 85. Famoso particolare de “La creazione di Adamo” di Michelangelo Buonarroti, opera realizzata nel

1511 (data non del tutto confermata ma plausibile) 86. Il Mickey Mouse di Walt Disney.

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d’autore. Quando un’immagine viene usata non solo senza fini di lucro ma

anche come comunicazione umoristico-satirica c’è molta più tolleranza.

La satira, al pari di una poesia o di una canzone, incide sulle opinioni dei

lettori e del pubblico in genere. Ogni prodotto culturale stimola una

reazione dell’opinione pubblica; nel caso di una vignetta satirica ospitata

all’interno di uno dei maggiori quotidiani nazionali (La Repubblica), è

interessante analizzare reazioni e atteggiamenti confrontandoli anche col

particolare periodo storico che si intende analizzare: una vignetta in tempi

elettorali ha probabilmente un peso diverso rispetto ad una vignetta

realizzata il 15 di Agosto. Massimo Bucchi, più che di incisività di

contenuto di una vignetta, parla di incisività sul comportamento del lettore:

[…] è un fatto di condivisione, si capisce quali spazi si possano

frequentare e quali no. Non penso sia un modo di persuadere, di

convincere, non lavoro per la Pravda87

. Esiste un pubblico che è già

abbastanza in sintonia con la testata (La Repubblica in questo caso, ndr),

esiste un pubblico che si aspetta degli argomenti piuttosto che altri, questo

si. Ma non è un pubblico che aspetta di sapere quel che deve pensare.

Rispetto alla possibilità di creare una vignetta in assenza di un giudizio

personale dell’autore, Massimo Bucchi è invece scettico: Riferendomi al

periodo che va dalla distruzione delle due torri88

fino ad arrivare a tempi

più recenti. In quei momenti, è difficilissimo esercitare una critica. Una

critica di questo tipo non può essere esercitata in termini politici diretti,

soprattutto usando i codici della satira. Mi ricordo ad esempio di una mia

87. Quotidiano ufficiale del Partito Comunista Russo già dall’inizio del ‘900. 88Si fa riferimento all’attentato terroristico che provocò la distruzione del World Trade Center di Manhattan (New York) e al grave danneggiamento di molti edifici adiacenti; 11 Settembre 2001.

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vignetta in cui il figlio dice al padre: “papà dove finiscono le stelle?” e il

padre gli risponde: “dove cominciano le strisce….89

La vignetta, come ogni prodotto dell’industria culturale, per essere

comunicata ed essere compresa, necessita di una condivisione di codici e

sottocodici da parte del pubblico. Una comunicazione condivisa del

prodotto culturale risulta difficile in assenza di un codice condiviso dagli

attori in questione: il vignettista da una parte e il lettore dall’altro. Questa

situazione comunicativa è riscontrabile in molteplici ambiti dell’industria

culturale: dal prodotto musicale al prodotto editoriale, il messaggio deve

essere codificato da chi lo riceve. Nel suo quotidiano lavoro a “La

Repubblica”, Massimo Bucchi affronta questo problema di comunicazione:

I codici sono fondamentali. Semplicemente trasportando una vignetta da

una pagina ad un’altra, si cambia completamente il significato della

vignetta stessa. Per esempio: circa dieci anni fa (nel 1994, ndr), nel

periodo in cui Silvio Berlusconi scese in politica attiva, feci un paio di

vignette per la pagina dei commenti. Queste vignette vennero spostate

dalla pagina sulla prima pagina (del quotidiano “La Repubblica”; così

facendo però, assumevano un significato del tutto diverso da quello da me

ricercato nel realizzarle. Nelle vignette in questione avevo rappresentato

due personaggi intenti a rubarsi voti elettorali; spostati in prima pagina

davano l’idea di rubarsi il portafogli. Se faccio una vignetta da prima

89Ancora a proposito di posizioni personali nella creazione di una vignetta, dice Massimo Bucchi: “sono

particolarmente affezionato, come dire, all’intuizione politica…..quando ci riesco. Mi ricordo di aver fatto una vignetta nel ’93, in piena Mani Pulite, avevano appena arrestato tutti e si diceva “è cambiato

tutto, l’Italia sarà un altro paese, ecc” e i feci una vignetta raffigurante Robespierre che diceva: “ Gli

italiani non hanno capito la differenza tra una rivoluzione e una retata”. Seguirono anche delle piccole polemiche interne al giornale dovute al fatto che alcuni pensavano che i maxi arresti potessero essere un

punto di svolta e cambiamento reale negli equilibri politici del paese e quelli che , come me, pensavano

che non sarebbe cambiato nulla di sostanziale. E la mia non era una percezione individuale ma bensì un’idea diffusa, era nell’aria.

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pagina devo sapere che tipo di notizie le faranno da contorno. La prima

pagina di un quotidiano è una pagina essenziale, è a “rimorchio” della

notizia […..]. Il giornale è come un domino: la prima pagina butta giù tutte

le altre impregnandole del suo significato (dando a una certa copia, di un

certo quotidiano, un certo taglio ben specifico, ndr).Si legge qualsiasi

pagina del giornale, dalla prima in poi, avendo sempre il riferimento,

inconscio o consapevole, di quanto visto in prima pagina.

Durante questo è stata esaminata la crisi della stampa in Italia e i modi in

cui i quotidiani sono riusciti a rinnovarsi grazie all’introduzione di inserti e

prodotto multimediali abbinati alla copia del quotidiano in edicola. In

questi termini la nascita del quotidiano “La Repubblica”, nel 1976, e il suo

sviluppo negli anni successivi, è un caso esemplare. Massimo Bucchi

ricorda così la nascita del quotidiano di Scalfari: […] era un giornale

vivissimo. Raccoglieva tutte le tendenze del momento, era un cantiere di

idee. Ho partecipato a tutti i numeri zero del quotidiano, abbiamo

cambiato moltissimo prima di dargli la forma e i contenuti per i quali è

conosciuta [….] Repubblica è un giornale nato senza sport (da intendersi

come: Pagina sportiva, ndr), senza fotografie, doveva essere un “Le

Monde”90

…. Poi invece, le fotografie servivano in Italia. Lo sport è nato

due anni dopo.Il giornale è nato nel 1976, due anni dopo nel 1978, la

Nazionale di calcio italiana andava talmente bene ai Mondiali di Argentina

che a metà campionato mondiale abbiamo deciso di introdurre lo sport

dedicandogli due colonne in quarta pagina (2 colonne su 6 totali che

costituiscono il formato tabloid de “La Repubblica”). Così è nato il primo

nucleo della redazione sportiva del giornale.

90. Storico quotidiano francese.

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Altro punto cruciale per la vendita di un prodotto culturale ma anche di un

prodotto commerciale generico, è l’individuazione di un pubblico o

audience di riferimento, nel caso di Repubblica dice Bucchi: Non sapevamo

bene, ancora, quale potesse essere il pubblico di riferimento e quindi

modificavamo tutto e continuamente; sapevamo che un nostro possibile

pubblico di riferimento era quello appartenente all’area riformista[…..]ma

era comunque un aspetto complicato da stabilire. Di sicuro c’era già una

crisi della stampa comunista: Paese Sera91

, L’Unità perdeva copie, ecc.

Era un giornale (La Repubblica, ndr) che vendeva pochissimo all’inizio.

Il caso del rapimento Moro92

, paradossalmente, è stato importante, senza

confondere la gravità della situazione con argomenti più futili, per le sorti

e le vendite di Repubblica; ha dato la possibilità al pubblico di vedere

come la redazione riuscisse a raccontare questo fatto di cronaca: su Moro

si scrivevano delle cose che oltre a Repubblica, nessun altro quotidiano

avrebbe mai pubblicato. Per esempio: le lettere che Moro scrisse durante il

rapimento vennero pubblica da Repubblica e non da altri quotidiani.

Andando a fondo nell’analisi dei cronici ritardi dell’industria culturale

italiana, non si deve dimenticare il ruolo centrale che ha avuto il sistema

politico nel causare un’ “atrofizzazione” delle nuove proposte. A tale

proposito, Massimo Bucchi individua le principali cause di questo ritardo

culturale in diversi fattori: […] il sistema è vecchio. Le nuove proposte

cadono nel vuoto; come le vecchie navi in malora, riparate col compensato

al posto dell’acero. Non c’è l’idea del rinnovare. E continuando nella

specifità dell’arte vignettistica in Italia, aggiunge: Nel particolare campo

91. Quotidiano nazionale ormai scomparso. 92. Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana nel 1978. Rapito dalle Brigate Rosse nel maggio dello stesso anno.

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del nostro mestiere, non esercitando una funzione fondamentale nella

società, penso che di noi si potrebbe anche fare a meno. Non ci sarebbe

uno shock nel paese se le vignette sparissero dalle pagine dei quotidiani;

negli Stati Uniti o in Inghilterra, si! In Italia abbiamo fatto a meno della

satira e della vignetta per quindici anni. Abbiamo un nostro pubblico,

meno numeroso di altri ma potrebbe essere tranquillamente “soffocato”; le

vignette sono sempre più usate come segnalibri. Tecnicamente la vignetta

viene inserita quando, in assenza di foto classica, un pezzo giornalistico

deve essere segnalato: la vignetta attira l’attenzione del lettore che

probabilmente leggerà l’articolo segnalato dal disegno vignettistico. La

vignetta può considerarsi al pari di un segnalino pubblicitario, una cosa

che pulsa, lì dov’è.

Massimo Bucchi, nel 2000, ha allestito una mostra delle sue opere migliori

all’interno del Lettere Caffè di Roma. Analizzando la funzione di un caffè

letterario moderno nella comunicazione di contenuti culturali, il binomio

industria culturale-caffè letterario risulta possibile ma ad alcune condizioni:

[…] bisogna vedere come viene organizzato il progetto (Lettere Caffè, il

caffè letterario, ndr). Bisogna individuare quali contenuti si intende

comunicare, a che pubblico intende rivolgersi: non dev’essere solo un

momento di intrattenimento; il Lettere Caffè deve perseguire gli obiettivi

per cui è nato: diffusione di autori e linguaggi nuovi, senza puntare

direttamente al mercato (inteso come mercato di massa, ndr). Cercare di

capire primariamente come il pubblico reagisce a questa novità (Lettere

Caffè, ndr) e quali siano le aspettative ad esso legate. Penso che i caffè

letterari abbiano ancora un’importante ruolo di mediazione purché non

organizzati come il “tè delle cinque” ma come diffusori di nuovi contenuti.

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Altrimenti rimarrebbero confinati nella categoria delle “cose

meravigliose” come può esserlo una proiezione in sala cinematografica ma

senza nessun’altra differenza. I caffè letterari in genere, presuppongono un

pubblico che abbia una formazione culturale di un certo tipo, che sappia a

cosa ci si riferisce, detto questo, è possibile che il Rock & Roll sia

superiore alla filosofia greca: non do giudizi di qualità ma di quantità di

informazioni, più o meno recepibili dall’interlocutore.

4.4 Scrittura: Enza Li Gioi, amici di penna

Enza Li Gioi93

, goriziana di nascita e romana d’adozione, scrittrice94

e

ideatrice del Lettere Caffè di Roma, ricopre il ruolo di presidente della

Lettere Caffè Franchising s.r.l. con l’intento di creare una rete nazionale di

caffè letterari. La rivista Lettere - il mensile dell’Italia che scrive, secondo

Enza Li Gioi:

aveva in se già tutti gli elementi del caffè letterario. La rivista era un

contenitore di tutto ciò che poteva essere espresso attraverso la scrittura;

mancava solo la musica che successivamente si è rivelata invece come

attività fondamentale all’interno dell’attività del caffè letterario. Era una

93. Per una breve biografia di Enza Li Gioi, fare riferimento alla nota n. 59, cap. 3, par. 3.6 94. “La scrittura manuale è una caratteristica esclusiva dell’essere umano. Tutti gli animali comunicano

tra loro attraverso un particolare linguaggio ma solo l’uomo è in grado di scrivere, lasciando traccia dei

suoi pensieri. Esistono diverse scienze collegate alla scrittura: la grafologia, prima fra tutte, individua il

carattere di una persona dal modo in cui scrive; è in grado di farlo con una tale precisione che può

essere usata per risolvere casi giudiziari e criminosi. Come si potrebbe rinunciare all’importanza della

scrittura? Ben vengano le nuove tecnologie digitali ma a patto che non porti alla rinuncia di questa

caratteristica esclusiva dell’espressione umana”. Enza Li Gioi, intervistata da Davide Trebbi.

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rivista molto bella, dalla grafica ai materiali usati e con la collaborazione

di un grande illustratore, Riccardo Mannelli95

a cui era affidata la parte

che definirei: visual. […] pur non essendo letteraria nel senso più classico

del termine: era una rivista a carattere epistolare. Poteva parteciparvi

chiunque avesse qualcosa da scrivere, discutendo dei più disparati

argomenti. Presentava diverse sezioni ed argomenti quali: lettere d’amore,

lettere di odio, gelosia o rancore; i lettori scrivevano e molto. La nostra

redazione era subissata da missive e interventi di lettori e curiosi.96

Il sommerso culturale italiano e la sua possibile “emersione” è il movente

culturale e organizzativo del Lettere Caffè di Roma. Scopo di questo lavoro

è di comprendere come un caffè letterario, possa incidere su un’industria

culturale, quella italiana ad esempio, legata da sempre a centri di potere e

personalità che spesso offuscano luoghi innovativi o laboratori culturali. Il

Il caffè letterario, sia storicamente sia come riproposizione moderna, è da

sempre un catalizzatore di cultura non ufficiale e quindi sommersa. Spiega

ancora Enza Li Gioi: Il sommerso è il movente di questo caffè letterario,.

L’attenzione per il sommerso culturale è fondamentale: è evidente, anche

camminando per la strada, imbattendosi in un musicista solitario. Ci si può

rendere conto che la qualità della sua musica è di gran lunga maggiore

rispetto ad altri prodotti ben confezionati e proposti dall’industria. Di

fronte a questa situazione il ragionamento va da sé e si potrebbe pensare

che questo musicista incontrato per caso e comunque molto bravo, si

meriterebbe perlomeno una locandina che riportasse il suo nome e

descrivesse la sua arte[…] è giusto che esistano dei luoghi che danno la

95 Illustratore del quotidiano “La Repubblica”. 96

. Cfr. Cap. 3.1: Le origini: dal 1999 ad oggi.

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possibilità di conoscere il meglio della musica e dell’arte in genere (dalla

poesia alla pittura). Il sommerso in questo paese è enorme e non trova una

via d’uscita o il modo di manifestarsi. Questi posti (i caffè letterari, ndr)

sono necessari per gli artisti e per coloro che operano nel settore della

cultura in genere.

Nel resto dell’Europa, molti dirigenti, sia pubblici sia di grandi aziende

private, sono giovani colti e ben istruiti e nella maggior parte dei casi,

hanno una grande esperienza pratica. Non è difficile trovare, all’estero,

manager di alto livello con appena 40 anni di età ad esempio; in Italia si

potrebbe invece, per usare un’espressione personale, di vecchie poltrone. Il

problema in Italia è opposto: pochi giovani realmente preparati,

professionalmente parlando e molti settori chiave dell’industria nazionale

controllati anziani o adulti che dir si voglia. Il divario tra il paese reale e il

potere decisionale, in Italia, risulta enorme. Enza Li Gioi ha una lunga

esperienza di vita e fa parte invece di quegli individui maturi che non

restano “attaccati ad una poltrona” ma bensì decidono di progettare cose

nuove e dinamiche. Il ruolo dei giovani nello sviluppo del paese Italia e il

ruolo dei centri e delle personalità di potere radicate nel nostro paese viene

così definito da Li Gioi: Credo si debba fare una distinzione tra la

giovinezza dell’anagrafe e la giovinezza delle idee. Nel nostro paese vige

un finto giovanilismo: vecchi che non vogliono invecchiare, anche se l’età

avanza e poi una specie di contentino che le istituzioni danno ai giovani,

nominandoli in continuazioni e promettendo progetti futuri. I giovani

vengono solo nominati, nulla di più. Questo secondo qualcuno dovrebbe

essere sufficiente alla costruzione delle nuove generazioni: è evidente che

non basta. In realtà gli “anziani” tengono fermamente il potere ei giovani

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vengono incensati e niente di più. E’ una situazione assurda: la giovinezza

riguarda le idee, l’innovazione e non una particolare età anagrafica. Ciò

premesso, certamente in Italia il potere gli “anziani” non lo abbandonano

mai. In Inghilterra, Tony Blair a 53 anni sta lasciando la poltrona mentre

noi, in Italia, abbiamo novantenni che restano saldamente al loro posto di

potere. Un eccezione positiva potrebbe essere fatte per il Presidente della

Repubblica, come saggio anziano e considerando il delicato ruolo

istituzionale ma per il resto non si vede il motivo del mancato

rinnovamento generazionale del paese.

Da Nord a Sud, prendendo ad esempio l’Inghilterra o la Germania esistono

molti spazi culturali come i caffè all’interno dei quali è ancora possibile

comunicare analogicamente invece che tra server e terminali.

Il nostro paese ha una storia ricca e lunga almeno 3000 anni mentre invece

molti paesi del Nord Europa, pur avendo una storia meno densa e più

recente, si ritrovano ad essere più “civili” di noi riguardo all’attenzione

rivolta ai fenomeni culturali. Una delle principali ragioni di questa

situazione è da individuare secondo Enza Li Gioi nell’intelligenza

imprenditoriale, soprattutto da parte dei governanti e politici: Se si investe

in direzione dell’educazione e della cultura nelle giovani generazioni ci si

attendono dei riscontri fattivi, come farebbe ogni buon imprenditore. E’

necessario vedere i risultati di un così cospicuo investimento[…]

Al contrario, in Italia, pur essendo usciti dal problema dell’analfabetismo

in tempi relativamente brevi e con investimenti che immagino cospicui,

sembra che nessuno voglia sapere qual’è stato il risultato di questa

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immane spesa pubblica per l’alfabetizzazione della nazione97

. Quanti poeti,

scrittori e artisti cono nati in seguito a quest’opera di acculturazione

nazionale? Sembra che nessuno voglia saperlo e considerarlo”.

La lunga storia d’Italia poi, secondo Li Gioi ha l’effetto di dare gran parte

dell’attenzione al mantenimento di monumenti e opere d’arte del passato

con una conseguente scarsa attenzione alle opere del presente: Tutti gli

sforzi, anche economici, rivolti alla cultura vanno a restaurare sia

praticamente che concettualmente, cose del passato. E’ giusto restaurare e

conservare il passato ma non dovrebbe diventare una priorità; le maggiori

risorse andrebbero rivolte a tutto ciò che è nuovo. Esemplare per capire

questa differenza tra l’Italia e l’estero potrebbe essere l’operazione

compiuta con l’Ara Pacis di Roma che è stata “incartata”, mentre invece a

Parigi si costruisce una piramide di ferro e vetro proprio di fronte al

Louvre, edificio di arte antica. I francesi, così facendo, hanno mescolato

antico e moderno con grande disinvoltura; per non parlare degli

avveniristici musei che sorgono in capitali estere come il Guggenheim di

New York […] noi invece, in Italia, continuiamo a restaurare “vecchie

97.Non è mai troppo tardi è il titolo di una celebre trasmissione televisiva mandata in onda a cadenza giornaliera dalla RAI fra il 1959 ed il 1968 e organizzata col sostegno del Ministero della Pubblica

Istruzione. Il programma era condotto dal maestro e pedagogo Alberto Manzi (Roma, 1924 – Pitigliano, 1997), che ne era stato anche l'ideatore, e aveva il fine di insegnare a leggere e a scrivere agli italiani che avevano superato l'età scolare, ma che non ne erano ancora in grado. Si trattava di autentiche

lezioni, tenute da Manzi a classi formate da adulti analfabeti, nelle quali venivano utilizzate le tecniche

di insegnamento allora più moderne, proposte al pubblico televisivo con un linguaggio piacevole e per nulla pedantesco.La trasmissione ebbe un ruolo sociale ed educativo molto importante, contribuendo

all'unificazione culturale della nazione tramite l'insegnamento della lingua italiana e abbassando

notevolmente il tasso di analfabetismo, particolarmente elevato nell'Italia di quegli anni. Infatti pare

che, grazie a queste lezioni a distanza, quasi un milione e mezzo di persone sia riuscito a conseguire la

licenza elementare. Il progetto ebbe inoltre un grande successo internazionale, in quanto fu imitato da

ben settantadue paesi.

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cose”, di grande valore ma se una parte della ricchezza va devoluta al

mantenimento del passato, la maggior parte della ricchezza andrebbe

destinata allo sviluppo di tutto ciò che è nuovo.

Il Lettere Caffè, in quanto caffé letterario, fa parte di quello che si potrebbe

definire settore terziario intelligente, un intrattenimento consapevole al

contrario della frequente ipnosi da schermo, sia televisivo che informatico.

I vantaggi sociali di un caffè letterario in genere possono essere molteplici

e raccontando l’esperienza del Lettere Caffè, Li Gioi chiarisce: invita (il

Lettere Caffè, ndr) gli avventori ad aprire un libro mentre si sorseggia una

bevanda. Questo mi sembra già molto. All’interno di questo caffè non

esiste la moda, il nostro obbiettivo era di renderlo un classico, un piccolo

monumento della cultura per tutti, come se fosse sempre esistito e per

sempre dovesse esistere; a cominciare dall’architettura decostruttivista

con cui il caffè è realizzato, operando nello spazio in maniera insolita,

dando più valore al contenuto che al “contenitore”. E’ un’architettura che

non risponde a nessuna regola precisa, rispecchia esattamente lo spirito

del Lettere Caffè, fino ad essere un po’ instabile e preoccupante, come la

situazione culturale italiana d’altra parte. E all’interno di un caffè

letterario come il Lettere Caffè, la poesia ricopre un ruolo fondamentale

anche attraverso un’interessante iniziativa editoriale “Il resto è poesia”98

.

La sinergia tra poesia e caffè letterario risulta evidente: la poesia, come la

canzone, sono creazioni spontanee dell’artista […] canzone e poesia sono

un flusso di coscienza dell’artista e non dovrebbero essere programmate

da altri. A questo proposito “Il resto è poesia”, un’iniziativa del Lettere

Caffè, rende possibile il commercio della poesia in un modo molto

98. Cfr. www.ilrestoepoesia.it

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semplice: i clienti invece del resto alla cassa, posso acquistare al costo di

1€, dei libretti contenenti una selezione dei migliori poeti passati dal

Lettere Caffè. I poeti sono stati, di fatto, isolati e questa nostra iniziativa

editoriale oltre ad essere ironica, vuole anche diffondere opere poetiche di

buona e ottima qualità. Non è più possibile, come un tempo, fare di

professione il poeta; malgrado questa situazione, qui al Lettere Caffè,

attraverso il nostro Slam Poetry99

, la poesia viene trattata come una cosa

seria. Attraverso la sfida tra poeti in carne ed ossa presenti nel caffè, la

poesia viene anche ironizzata e comunque resa accessibile al pubblico, con

grande divertimento e attenzione da parte dei presenti e con un’affluenza e

una partecipazione in continua crescita.

Crescita e partecipazione del Lettere Caffè dipenderanno in futuro dalla

capacità di conciliare cultura e nuove tecnologie ma anche dallo sviluppo

della rete di caffè letterari sul territorio nazionale. Tra i tanti buoni motivi

insiti nella creazione di una rete nazionale di questo tipo, Enza Li Gioi

specifica: oltre all’offerta radio televisiva, con grandi mezzi e

finanziamenti, in Italia c’è spazio per poco altro; chi è escluso,

indipendente dalla qualità dell’opera proposta, da questi investimenti e da

questi media di massa, non sarà mai conosciuto al grande o medio

pubblico. E’ opportuno creare una rete alternativa che proponga nuovi

autori e gli permetta di spostarsi sul territorio nazionale, facendo

conoscere la propria opera.

Ripercorrendo la storia dei primi caffè letterari si potrebbe dire, con le

parole di Li Gioi, che i caffè: […] sono nati semplicemente come caffè,

luoghi dove potersi sedere e conversare a lungo; va da sé che chi aveva

99. Gara di poesia per alzata di mano.

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qualcosa da dire erano spesso gli intellettuali e gli artisti in genere. Questi

luoghi, nati come caffè, diventavano letterari nel momento in cui

ospitavano dibattiti più o meno pubblici e scambi di idee più o meno

ufficiali e accettate. Il caffè letterario di oggi nasce appunto con l’intento

di far rivivere quest’atmosfera di scambio e confronto che ha avuto inizio

due secoli fa. Oggi come allora, i caffè letterari ospitano chi ha qualcosa

da dire e spesso non trova altri luoghi per poterlo esprimere. Sta

diventando, per dirla televisivamente, un format culturale.

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Appendice

Da Nord a Sud, Inchiostri d’autore al Caffé: Mostra itinerante in alcuni

tra i più importanti caffè storici letterari italiani

Un’idea che nasce dall’amicizia tra un libraio antiquario, Paolo Salvarani

della libreria Grandangolo e il proprietario di un Antico Caffè letterario,

Luca Bonacini del Caffè dell’Orologio, di Modena.

Un’incredibile esposizione di lettere e scritti, originali autografi, in gran

parte inediti, letterati, poeti e pensatori che hanno fatto grande il Novecento

Italiano. Il materiale oltre cento documenti, messo a disposizione da

importanti collezionisti privati italiani. Documenti che Ci rivelano alcuni

aspetti essenziali della personalità e dei loro rapporti letterari. Ci

permettono di conoscere a distanza ravvicinata l’intima identità di questi

personaggi, che hanno reso questo secolo appena trascorso, meno buio, e

che tutti noi avremmo voluto conoscere. L’importante raccolta riunita in

una mostra che girerà per oltre un anno,i più antichi Caffè letterari italiani,

e che ci permetterà di apprezzare queste testimonianze di vita, proprio

all’interno dei luoghi dell’ospitalità dove esse sono state scritte.

Tra i vari patrocini spicca quello dell’associazione Locali Storici d’Italia, e

la gentile collaborazione del Comune di Torino.

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Luoghi e date:

CAFFE’ DELL’OROLOGIO 1859 di Modena

25 settembre - 21 ottobre 2004

Cenacolo di democrazia e cultura: nel 1945, nella piazzetta delle Ova

esplose la festa della liberazione e l’Orologio offrì liquori a tutta Modena

per 24 ore; qui è nata nel 1962 la “Cooperativa per la diffusione dell’opera

Artistica”per diffondere la più bella cultura del teatro e della grafica; qui si

riuniva il Gotha dell’editoria italiana nel ’62 e ’63 per le prime due edizioni

del Festival del libro,con Arnoldo Mondadori, Giulio Einaudi,

Giangiacomo Feltrinelli, Ugo Guanda e Angelo Rizzoli,insieme a Pasolini,

Bevilacqua, Bianciardi, Chiara.

CAFFE’ SAN CARLO 1822 di Torino

30 ottobre - 23 novembre 2004

Celebre ritrovo di intellettuali e patrioti risorgimentali, chiuso varie volte

per l’attività sovversiva dei riformisti, venne frequentato da scapigliati,

docenti universitari, giornalisti, scrittori e artisti.Qui Alessandro Dumas

assaporò il suo primo “bicerin”, il Duca degli Abruzzi progettò la storica

spedizione in Antartide, Gramsci ebbe l' idea di fondare “L’Ordine

Nuovo”,e poi ancora sostarono: De Amicis, Benedetto Croce, Casorati,

Gobetti, Luigi Einaudi, e Carlo Levi.

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CAFFE’ FIORIO 1780 di Torino

30 ottobre – 23 novembre 2004 (insieme al San Carlo)

Carlo Alberto chiedeva ogni mattina cosa si era detto tra le sue mura,

perchè era il caffè più aristocratico meta di intellettuali, nobili e politici. Lo

requentarono Cavour, Rattazzi, D’Azeglio, e ancor oggi quelle sale

magnificamente restaurate, raccolgono i segreti dei gelati più famosi di

Torino, amatissimi da Nietzsche.

GRAN CAFFE’ GIUBBE ROSSE 1890 di Firenze

4 dicembre 2004 - 6 gennaio 2005

Soffici prese qui il famoso schiaffo. Tra fumo, spumante e assenzio,

consumavano qui le notti le anime esaltate del Futurismo fiorentino, i

redattori di Lacerba e della Voce: c’erano Papini, Prezzolini, Slapater,

Palazzeschi, Rosai, Stuparich, Viviani, a cui s’univano Boccioni, Russolo,

Balla, Severini, Marinetti. Oggi il caffè che fù anche di Vittorini, Gadda e

Montale dà vita ogni mercoledi, agli “incontri letterari”.

CONFETTERIA COVA 1817 di Milano

8 gennaio – 2 febbraio 2005

E’ un Caffè istituzione, dove la vita milanese pulsa da quasi due secoli.

Ritrovo di patrioti delle Cinque Giornate, circolo di nobili, era centro di

tutte le riunioni e dei trattenimenti serali. Lo frequentarono Tito Speri,

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Cairoli, Mazzini, Garibaldi, Verga, Sabatino Lopez. Nel 1868, Cova battè

addirittura moneta. Esclusiva e raffinata, la pasticceria continua la sua

tradizione di salotto meneghino, sull’elegante via Montenapoleone.

CAFFE’ PEDROCCHI 1831 di Padova

12 marzo - 13 aprile 2005

Continua il grande retaggio romantico, il Gran Caffè senza porte dove

l’incontro del mondo di ieri e di oggi riesce a costituire linfa sociale di una

città di studi come Padova. Da quando Stendhal lo definì “Le meilleur caffè

d’Italie” il Pedrocchi è sempre migliorato e, dopo un’inevitabile stasi, oggi

è di nuovo pieno di risorse culturali grazie all’opera del Comune patavino.

GRAN CAFFE’ GAMBRINUS 1860 di Napoli

16 aprile – 22 maggio 2005

Loggia della Napoli dell’ultimo Ottocento, era centro politico, urbano e

morale della città.

Qui D’annunzio scrisse i versi di “Vucchella”;qui sedevano il giornalismo,

la legge, l’arte. La politica di Napoli, tutti riuniti in un cenacolo ideale che

un prefetto fascista trasformò in Banca nella parte più bella. Ma che oggi,

con le sue mille decorazioni illustri ancora vive.

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Bibliografia

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Ringraziamenti

Un grazie profondo ai miei genitori per avermi sostenuto nei miei studi e

nella mia vita di tutti i giorni.

Grazie al Dott. Giovanni Prattichizzo per la sua pazienza e i suoi preziosi

consigli per ordinare questo mio lavoro; al Dott. Giovanni Ciofalo per la

sua disponibilità; al Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione

dell’Università “La Sapienza” di Roma, Prof. Mario Morcellini, per la sua

comprensione e per il suo incoraggiamento.

Un grazie particolare a Massimo Giordano per la realizzazione e l’editing

delle riprese audio-video delle interviste contenute in allegato a questo

lavoro.

Grazie a Claudio Lolli, Massimo Bucchi, Pierluigi Ferrari ed Enza Li Gioi

per avermi concesso utili interviste per la realizzazione di questo lavoro.

Grazie a Marina Fornabaio, inestimabile presenza nella mia vita e saggia

consigliera nei momenti più difficili della realizzazione di questo lavoro.

Grazie a Sabina, Adriano, Stefano e Ivana per la collaborazione nello

svolgimento delle pratiche amministrative necessarie per la presentazione

di questo lavoro.

E ancora grazie alla buona musica e all’arte di qualità che da sempre mi

aiuta a vivere meglio.