Tesi di laurea - Lindustria culturale in Italia - il caffé letterario - Davide Trebbi def. 4.7.07
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Facoltà di Scienze della Comunicazione
L’industria culturale in Italia:
il caffè letterario
di Davide Trebbi
Relatore: Correlatore:
Prof. Mario Morcellini Dott.Giovanni Ciofalo
Anno Accademico
2006-2007
2
3
Indice
1. L’industria culturale in Italia 5
1.1 Possibili definizioni 9
1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale
italiana
13
1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia 15
1.4 Intellettuali o produttori culturali? 19
1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia 22
1.6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy 25
1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali 26
1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo 28
2. I caffé letterari 35
2.1 Cultura al Caffé: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud 39
2.2 Caffè storici d’Italia 41
2.3 Pasolini al Caffè: il Caffé Rosati in piazza del Popolo a
Roma
48
2.4 La Roma dei Caffé Letterari 51
2.5 Verso Praga 66
2.6 Sviluppi futuri 68
3. Lettere Caffè: il primo franchising della cultura 69
3.1 Le origini: dal 1999 ad oggi 73
3.2 Lettere caffè: tradizione e progressismo 76
3.3 We make the standard: Bill Gates al caffé letterario 77
3.4 Organizzazione e piani di sviluppo 78
3.5 L’esclusiva territoriale e il network 81
3.6 Manifesto dei Network Culturali Europei 82
3.7 I servizi offerti e il Know How 86
3.8 Il target 86
3.9 Vantaggi e valore aggiunto 87
3.10 Direzione artistica: il palinsesto culturale del caffè 88
3.11 Audience: fidelizzazione e strategia 90
3.12 Scouting network 92
4. Dialoghi al caffé 93
4.1 Musica d’autore: Claudio Lolli, autobiografia industriale 98
4.2 Cinema: Pierluigi Ferrari, un giorno da Leone 105
4
4.3 Stampa: Massimo Bucchi, la finestra sul cortile 110
4.4 Scrittura: Enza Li Gioi, amici di penna 116
5. Appendice 125
6. Bibliografia 129
5
CAPITOLO PRIMO
L’industria culturale in Italia
6
7
Si ritiene che esista un’industria culturale quando beni e servizi culturali sono
prodotti e riprodotti, immagazzinati e distribuiti con criteri industriali e
commerciali, cioè su larga scala e in conformità a strategie basate su
considerazioni economiche piuttosto che strategie concernenti lo sviluppo
culturale1.
1. Unesco, 1982, in “Classici resistenti al tempo”, M.Stazio, Il Mediaevo Italiano a cura di Mario Morcellini, Carocci, 2005, pag.145
8
9
1.1 Possibili definizioni
Un’industria culturale è un industria che produce beni culturali. Più in
generale si preferisce parlare di industrie culturali, al plurale, includendovi
anche le industrie dell’intrattenimento o dell’informazione. A ben vedere
queste definizioni riguardano profondamente la società occidentale o Nord
del mondo, industriale appunto; individuando un inizio storico di queste
nuove industrie nel momento in cui l’opera d’arte diviene riproducibile e
quindi diffondibile su larga scala 2. “Il mercato dell’arte e della cultura si
trova a confrontarsi con le nuove possibilità offerte da forme sempre più
raffinate di riproducibilità tecnica, e gli intellettuali cominciano a sentirsi
minacciati nel loro ruolo di fari guida della società”3. La produzione di beni
culturali su larga scala viene analizzata per la prima volta dalla Scuola di
Francoforte che, delineando le caratteristiche di cultura di massa,
differenzia questo tipo di industria dalla più spontanea e diretta arte
popolare in genere. Storicamente i primi studi francofortesi a cura di
Adorno e Horkheimer corrispondono all’affermazione del capitalismo
monopolistico in Europa e negli Stati Uniti e alle prime definizioni di
media power4. La critica marxista alla produzione di beni, ripresa dalla
Scuola di Francoforte, tende ad individuare le motivazioni profonde
nell’accumulo del capitale non per mezzo di decisioni creative o politiche
prese da singoli artisti o imprenditori illuminati ma piuttosto come
2. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966 3. Da: http://www.industriaculturale.it 4. Storicamente questo tipo di studi analizzano i metodi con cui i maggiori totalitarismi europei
dell’epoca, Fascismo e Nazismo, organizzano il loro consenso attraverso i media di mass e principalmente la radio e il cinematografo.
10
manipolazione del desiderio e del perseguimento di un profitto. Il termine
“industria culturale” viene usato da Horkheimer e Adorno nella "Dialettica
dell'Illuminismo” del 1942, in cui è illustrata “la trasformazione del
progresso culturale nel suo contrario”, sulla base di analisi di fenomeni
sociali caratteristici della società americana tra gli anni Trenta e Quaranta.
Negli appunti precedenti la stesura si usava il termine “cultura di massa”,
sostituita poi con “industria culturale per eliminare l'interpretazione di ciò
che tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, come
una forma contemporanea di arte popolare”5.
Il mercato di massa impone standardizzazione e organizzazione: i gusti del
pubblico e i suoi bisogni impongono stereotipi di bassa qualità. Succede
però che in questo circolo di manipolazione e di bisogno che ne deriva, che
l'unità del sistema si stringe sempre di più. Sotto le differenze, rimane
l'identità di fondo: quella del dominio che l'industria culturale persegue
sugli individui: "ciò che di continuamente nuovo essa offre non è che il
rappresentarsi in forme sempre diverse di un qualcosa di eguale" (Adorno,
1967). La macchina dell'industria culturale determina essa stessa il
consumo ed esclude tutto ciò che è nuovo, che si configura come rischio
inutile, avendo eletto a primato l'efficacia dei suoi prodotti attraverso la
creazione di nuovi tipi di consumatori con sempre maggiori bisogni da
soddisfare e altrettanti nuovi e sempre nuovi bisogni da creare.
Le industrie culturali, con le loro continue e rinnovate promesse di
soddisfacimento di questi bisogni, dal ludico all’ideologico, creano nei
consumatori la sensazione spesso reale e realizzabile del pieno ma
5. Adorno, 1967
11
momentaneo soddisfacimento degli stessi. Il risultato inevitabile è la
creazione di eterni consumatori. Per ottenere un risultato così totalizzante,
oltre all’offerta di un prodotto c’è la necessità di veicolare un messaggio
pubblicitario che accompagni il prodotto in vendita e colmi i vuoti reali di
un prodotto finale spesso fittizio e temporalmente delineato.
Gli stessi produttori di beni culturali diventano anche i diffusori tecnologici
degli stessi: la Sony produce apparecchi per ascoltare musica, masterizzarla
e quant’altro e al tempo stesso è tra le maggiori case discografiche (major)
del mondo; un esempio evidente di come le industrie culturali siano un vero
e proprio sistema con una profonda unità strutturale.
Il pubblico viene svincolato dalla precedente definizione di folla e comincia
a definire i suoi gusti, i suoi orientamenti culturali che andranno
gradualmente ad alimentare anche i profitti dei produttori di cultura.
Dicono ancora Adorno e Horkheimer a proposito dei prodotti dell' industria
culturale: “[…]sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige
bensì prontezza di intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma
anche da vietare addirittura l'attività mentale dello spettatore, se questi non
vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti” (Horkheimer -
Adorno, 1947). Costruiti apposta per un consumo distratto, non
impegnativo, questi prodotti riflettono, in ognuno di loro, il modello del
meccanismo economico che domina il tempo del lavoro e quello del non-
lavoro. “Lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto
prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo- che si squaglia
appena si rivolge alla facoltà pensante- ma attraverso i segnali. Ogni
12
connessione logica, che richieda fiuto intellettuale, viene
scrupolosamente evitata”6.
A questo proposito Morin7, nel suo L’esprit du temps 8, mette in
evidenza la lacerante contraddizione tra le nuove esigenze tecniche
che creano standard culturali e la natura soggettiva del consumo
culturale che ne segue; infatti Morin ritiene che la dialettica tra il
sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori
6. Horkheimer - Adorno,1947
7. Edgar Morin, sociologo e antropologo francese. Nasce l’8 luglio del 1921 a Parigi, figlio unico di una coppia di ebrei di origini spagnole. In realtà il suo cognome era Nahum: Morin è il cognome che
prenderà dalla sua prima moglie, conosciuta durante la militanza antifascista. Durante la formazione scolastica si appassiona alla letteratura e al cinema, ma vede nascere anche il suo interesse per la
filosofia e la politica. Sarà proprio la grande passione per la politica a spingerlo ad iscriversi al Partito
Comunista Francese nella seconda guerra mondiale, e a partecipare in prima linea alla Resistenza. Finita la guerra collabora con diversi giornali, occupandosi di tematiche politiche ma anche sociali. Nel 1950
entra al CNRS (Consiglio nazionale per la ricerca scientifica) di cui tuttora è membro, come ricercatore
nell’ambito sociologico. Nonostante il grande impegno delle ricerche, non interrompe l’attività di giornalista: nel 1957 fonda, infatti, la rivista di politica “Arguments”, e nel 1967 la rivista
“Communication” insieme a Roland Barthes e a George Friedmann. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta
si concentra sull’esplorazione della cultura di massa, dei suoi meccanismi e dei suoi effetti sull’individuo: tra le opere di quel periodo, I divi, pubblicato nel 1957, e Lo spirito del tempo, edito nel
1962. All’inizio degli anni ’70 le sue ricerche subiscono un cambio di tendenza, orientandosi all’analisi
del rapporto tra scienza e tecnologia, dopo essere entrato in contatto con la teoria dei sistemi, la teoria dell’informazione e la cibernetica. In questo modo sviluppa le prime riflessioni sul pensiero complesso,
e sulla necessità di un metodo capace di ridurre la laboriosità nella conoscenza scientifica, e pubblica il
primo volume de Il metodo, la base teorica di tutto il suo lavoro negli anni seguenti. Intraprende anche numerosi viaggi, soprattutto in America Latina, che gli permettono di entrare in contatto con diverse
culture, ma soprattutto con i risvolti negativi della scienza, del capitalismo e della sempre crescente
occidentalizzazione della cultura. Nel 1982 pubblica Scienza con coscienza, in cui presenta i limiti, le possibilità e le responsabilità sociali della scienza. Nel corso degli anni ’90 concentra la sua riflessione
sull’educazione, in particolare pone l’attenzione sulla necessità di “educare all’era planetaria”. Secondo
Morin, la formazione scolastica attuale è incapace di fornire gli strumenti necessari a comprendere la complessità del presente; la soluzione risiede in un’ educazione multidisciplinare, perché solo attraverso
una visione che comprenda le varie sfumature del mondo contemporaneo si potranno abbattere i confini
creati dalla scienza e dall’economia, per poter così giungere ad un “umanesimo planetario”.Il suo grande impegno nel campo della formazione lo porta a ricevere, nel 1998, l’incarico di presiedere il
Comitato scientifico per la riforma dei saperi da parte del Ministro dell’Educazione
francese.Attualmente è presidente dell’Associazione per il pensiero complesso di Parigi e dell’Agenzia europea della cultura dell’UNESCO.
8. 1962, tradotto poi in Italia col titolo: “L’Industria culturale”, Meltemi, 2002
13
è il vero problema nello studio dell’industria culturale.9 Morin tende
a ridimensionare il ruolo della cultura alta contrapposto alla cultura
di massa; egli non manca di evidenziare l’egemonia valoriale degli
Stati Uniti, primi produttori di beni culturali industriali, e il fatto che
la cultura di massa sia cultura dei consumi e infine, che essa tenda ad
essere media nella sua aspirazione e ispirazione, quindi a tagliar fuori
coloro che sono materialmente troppo poveri, o spiritualmente troppo
ricchi per i sogni che produce. La cultura di massa e la cultura
industriale, rimangono per Morin, l’unico grande terreno di
comunicazione tra classi sociali e culture diverse, l’unico esempio di
cultura universale della storia dell’umanità”10
.
1.2 Enrico Caruso e la nascita dell’industria culturale italiana
Nel 1902, Fred e Will Gaisberg, si trovano in Italia per registrare, per conto
della loro azienda Gramophone & Typewriter Co., la voce di papa Leone
XIII. L’11 Marzo dello stesso anno, durante una rappresentazione della
Germania di Franchetti11
, debutta al teatro La Scala di Milano, il
ventinovenne Enrico Caruso, tenore molto stimato dal pubblico teatrale
italiano dell’epoca. I fratelli Gaisberg, affascinati dalle doti tecniche del
giovane artista italiano, decidono di provare a registrare la sua voce su
grammofono Berliner12
.
9. Edgar Morin, “L’esprit du temps, 1962 10. http://www.industriaculturale.it 11. Alberto Franchetti , compositore, 1860-1942 12. Emile Berliner inventore del grammofono e fondatore della sopra citata Gramophone & Typewriter Co.; cfr. L’industria culturale in Italia, Michele Sorice, Editori Riuniti, Roma, 1998
14
Il disco realizzato dai due fratelli americani e interpretato da Caruso,
accompagnato al pianoforte da Salvatore Cottone, sarà un successo
commerciale di dimensioni prima europee e poi mondiali. Questo
avvenimento, tanto fortuito quanto epocale potrebbe essere considerato
come l’inizio dell’industria discografica di massa; il primo caso di bene
culturale diffuso su larga scala, distribuito e stampato per un vasto
pubblico. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo individuare altri casi di
prodotti culturali diffusi su larga scala come ad esempio il “Pinocchio” di
Collodi13
.
Il nascente processo di industrializzazione culturale in Italia14
, può
riscontrasi in molteplici eventi quali: la nascita a Milano del primo grande
magazzino di abiti confezionati Aux Villes d’Italie (1877) oppure la
creazione della Fiat di Torino nel 1899. “…l’automobile è un bene simbolo,
connesso alla percezione sociale della cultura e dei suoi miti 15
”. Ancora, la
fondazione della Siae (Società italiana autori ed editori) nel 1882 al fine di
tutelare il diritto d’autore delle nuove opere in distribuzione sul territorio
nazionale. La cultura moderna e la sua nascita simbolica. Secondo Alberto
Abbruzzese, è possibile individuare nella grande Esposizione Universale di
Parigi del 1900; all’interno di questa importante esposizione la merce non
solo assume una dimensione spettacolare ma viene anche scenicamente
rappresentata.
La nascente industria culturale italiana passa anche attraverso le grandi
messe in scena di opere quali l’“Aida” di Giuseppe Verdi che registra fino a
13
. Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino, Carlo Collodi, 1881 14
. Michele Sorice, L’industria culturale in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1998, pag. 12
15
40.00016
spettatori paganti nell’Arena di Verona nel 1913. Già nel 1912
poi, l’Italia si presentava come grande esportatrice di prodotti
cinematografici17
. Grazie a nuove tecnologie e alla diffusione su larga scala
di prodotti culturali, il Novecento registra per la prima volta anche la
scoperta di un pubblico, finalmente vasto e conseguentemente di massa.
1.3 Lo sviluppo dell’industria culturale in Italia
Il percorso classico è: aumento della scolarizzazione, diffusione di massa
della stampa periodica e quotidiana, diffusione della radio, poi del cinema,
poi della televisione. Da noi invece la diffusione di massa della radio, del
cinema e soprattutto della televisione precedono l’aumento della
scolarizzazione.18
Questa osservazione preliminare del caso italiano ci permette di individuare
ulteriori specificità del nostro paese e analizzare le tappe fondamentali
dello sviluppo tecnologico e mediale del sistema culturale italiano.
Importante è il ruolo che la televisione generalista ha avuto in Italia,
“all’inizio degli anni ’50 […] l’Italia si connota per un’offerta culturale
nuova fondata sull’azione e sul carisma dei mezzi di comunicazione. Si
determina uno scenario sociale caratterizzato da valori, aspirazioni e stili di
vita sostanzialmente condivisi a livello di massa […] in cui i media e gli
apparati culturali si rinnovano a livello di diffusione e prestigio rispetto allo
16. L’Arena di Verona all’epoca poteva contenere al massimo 21.500 spettatori. I 40.000 di cui parlò la
stampa denotano la grande attenzione che spettacoli del genere cominciavano a destare anche all’interno della stampa italiana. 17. E’ del 1909 la fondazione a Milano della Federazione Cinematografica. 18. G. Bechelloni, F. Rositi, Il sistema delle comunicazioni di massa in Italia, in “Problemi dell’informazione”, I, 1977, pag. 35
16
snaturamento del periodo fascista, finendo per interpretare precipuamente
la spinta alla modernizzazione. Essi, anzi, diventano i più importanti
diffusori e ripetitori delle mete socioculturali collettivamente condivise”19
.
Politicizzazione e lottizzazione dei media italiani sono state le principali
cause di contraddizioni interne e di sviluppi irregolari nei rapporti tra potere
politico, comunicazione e società. Questo sconcertante errore dell’intera
classe politica (di ogni tendenza e partito) portò al tentativo di mantenere il
controllo della Rai sulle trasmissioni nazionali e di favorire una dispersione
di piccole emittenti locali. Il risultato fu una mancanza di norme chiare, che
non impedì lo sviluppo di reti nazionali private, ma ne perse il controllo. La
situazione di “duopolio” risultante è quella che conosciamo, con tutte le
conseguenze su cui si continua a discutere. Compreso il predominio di un
“generalismo” appiattito che non favorisce lo sviluppo di qualità più
precise e più adatte alle esigenze di un pubblico molto meno “omogeneo”
di come lo si immagina secondo i cliché della “cultura di massa”.
Dal dopoguerra fino agli anni Settanta, il sistema televisivo in Italia riflette
perfettamente il sistema industriale presente nel paese: da un modello
spiccatamente taylorista-keynesiano20
, si passa, grazie anche al
19. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano, proposte di analisi per l’industria culturale”, Carocci,
2005, I, 1.7, pag. 35. I processi politici che guidano in Italia lo sviluppo dei nuovi media sono allo
stesso tempo, emancipatori e dirigisti, definendone la storica fragilità in termini di sviluppo socioculturale e modernizzazione. La scarsa propulsività interna agli apparati e conseguentemente i
limiti culturali, industriali e aziendali dei dirigenti italiani hanno condizionato negativamente e
frammentato ulteriormente lo sviluppo di industrie culturali omogenee nel nostro paese. Il cinema e la radio prima e la Tv poi, hanno sempre risentito in Italia, dei profondi limiti e obblighi imposti dal
sistema di governo (con costanti tagli di spessa pubblica nei campi maggiori della cultura) e dalla
sfiducia remunerativa nelle imprese culturali. 20. Riscontrabile in industrie come la Fiat, beneficiata, secondo politiche keynesiane, dal continuo
intervento statale col risultato di ottenere di fatto consolidate posizioni nel mercato nazionale nonché
una pressoché totale assenza di concorrenza e quindi un monopolio di fatto. Parallelamente la televisione nazionale (Rai), si ritrova in una posizione di dominanza assoluta e col finanziamento
“pubblico” tramite un canone radiotelevisivo che gli italiani pagano per poterne usufruire come
spettatori.
17
cambiamento della domanda da parte del pubblico, ad un modello di
consumo più personalizzato. Il consumo mediale privato, diventa così la
nuova frontiera delle nuove emittenti televisive locali, di medie e piccole
dimensioni, che grazie al fondamentale apporto economico derivato dalle
sponsorizzazioni private, riescono a soddisfare nuove fasce di pubblico. Gli
investimenti pubblicitari, col passare del tempo, si rivolgeranno sempre più
nei confronti di ambiti meno generalisti e più dedicati , privilegiando
prodotti personalizzati (narrowcasting). I progressivi sviluppi tecnologici
porteranno, dagli anni Novanta in poi, a concezioni e creazioni di palinsesti
sempre più personalizzati fino ad arrivare al sistema pay-tv che consente
all’utente di decidere la sua dieta televisiva, sia per gli orari di fruizione sia
per le modalità di consumo del prodotto televisivo: stabilendo una scaletta
personale della propria programmazione su schermo. Il fondamentale
passaggio dai media di massa (mass media) ai personale media (prima fra
tutto il personal computer) ridefinisce un nuovo ruolo della televisione, che
pur rimanendo il media più radicato e ancora più diffuso, deve fare i conti
con le nuove tecnologie e quando possibile, integrarle.
Possiamo individuare tre fasi fondamentali riguardanti il ruolo e lo sviluppo
del mezzo televisivo in Italia: la prima, rappresentata da una Tv generalista,
attraverso un monopolio pubblico che dura di fatto fino al 197521
; la
seconda, definibile come neotelevisione , passaggio tra vecchi e nuovi
linguaggi, caratterizzata da nuove strategie di consumi e dalla presenza di
un iniziale mercato pubblicitario; la terza e attuale fase, post-televisione,
contraddistinta dal passaggio e dall’aggiornamento di un media ormai
21. Nel 1975 viene creata una Commissione di vigilanza parlamentare sulla Rai e concessi nuovi spazi
ad emittenti private di medie e piccole dimensione. La creazione di questa Commissione rappresenta, almeno formalmente, la fine di un uso strumentale del mezzo televisivo da parte dei governi in carica
18
vecchio come la televisione in favore di nuovi media, interattivi e virtuali
(es. Internet)22
. Più che di multimedialità, in Italia, si potrebbe parlare, dagli
anni cinquanta in poi, di progressiva intermedialità tra vecchi e nuovi
sistemi di comunicazione: radio e Tv prima; Internet, telefonia mobile e
nuove tecnologie dagli anni Novanta in poi.
“I poveri di media alla periferia dell’impero mediatico” in Italia da Nord a
Sud, vanno ad ampliare la cosiddetta fascia di “classe media
radiotelevisiva”, poco affine ai nuovi media e consumatrice dei media
storicamente testati e approfonditi dai più (radio,tv e stampa). Possiamo
inoltre suddividere la storia dell’industria culturale italiana in due grandi
fasi storiche: la prima contraddistinta dall’avvento del regime fascista e
dalla seguente ricostruzione post-bellica; la seconda orientata invece verso
il mercato e le sue logiche produttive. La prima fase denota un
atteggiamento pedagogico nella produzione di cultura, lo scopo principale,
e non solo in Italia, è l’acculturazione delle masse e la necessità di un
livellamento della società secondo un sistema propagandistico. La seconda
fase, passando da un sistema “artigianale” di produzione, approda ad un
nuovo media system per conquistare un mercato sempre maggiore. In Italia
non si è mai sviluppata la televisione “via cavo”, che in altri paesi ha avuto
una larga diffusione. I motivi sono vari, ma il principale è uno: quando
stava per aprirsi la possibilità della diffusione “via cavo” in Italia, fu scelto
invece di “liberalizzare” le trasmissioni “via etere”. Un’improvvisa crescita
del numero di canali disponibili distolse l’attenzione dalle possibilità che
avrebbe offerto lo sviluppo di aree “cablate” (che in altri paesi sono state,
parecchi anni fa, anche il primo strumento di accesso alle trasmissioni
22.Cfr. L’industria culturale, tracce di immagini di un privilegio, A. Abruzzese, D. Borrelli, Carocci, Roma, 2001, pag. 224
19
satellitari). Anche nella ricezione delle trasmissioni dai satelliti l’Italia è in
forte ritardo. Ora la situazione si sa evolvendo, ma ovviamente è troppo
presto per poter fare ipotesi o previsioni su come si svilupperà nei prossimi
anni. La televisione a cinquecento o mille canali è ormai da tempo una
concreta possibilità tecnica. Se si realizzasse permetterebbe un
cambiamento radicale dei comportamenti. Ognuno potrebbe scegliere il
programma che vuole, all’ora che preferisce. Ma la televisione
“generalista” è radicata nelle abitudini ( più di chi produce la televisione
che di chi la guarda). Produrre e organizzare i contenuti necessari per una
televisione più selettiva, che offra a ciascuno una larga libertà di scelta, è
un’impresa molto impegnativa. Ciò che la tecnologia permetterebbe di
realizzare in tempi brevi probabilmente si farà attendere ancora per
parecchi anni.
1.4 Intellettuali o produttori culturali?
Per la sensibilità moderna e contemporanea, il termine “intellettuale”,
diffuso soprattutto in area germanica, sin dai primi decenni del secolo XIX,
ma che avrà fortuna soprattutto dal 1898 con il cosiddetto caso Dreyfus23
in
Francia, evoca l’immagine di un professionista della cultura (scrittore,
23. Dreyfus (1894-1906) fu il primo clamoroso caso politico-giudiziario scoppiato nella Francia della
Terza repubblica. Nel 1894 Alfred Dreyfus (Mulhouse 1859 - Parigi 1935), ufficiale di origine ebraica impiegato presso il ministero della Guerra, fu accusato di aver rivelato segreti relativi alla difesa
all'addetto militare tedesco a Parigi. Arrestato in ottobre, dopo un giudizio sommario Dreyfus fu
degradato e condannato alla deportazione a vita nell'isola del Diavolo (Caienna). L'opinione pubblica francese, travolta da un'ondata di antisemitismo, dimenticò il caso finché nel 1896, il comandante G.
Picquart, nuovo responsabile dell'ufficio informazioni del ministero, riaprì le indagini, persuaso della
colpevolezza di un altro ufficiale francese, Esterhazy. Questi però nonostante la debolezza delle prove a carico di Dreyfus, venne scagionato dal consiglio di guerra (1898), mentre il governo Méline subiva
passivamente le laceranti polemiche che dividevano i francesi in due correnti d'opinione: i dreyfusards
(intellettuali, socialisti, radicali e repubblicani antimilitaristi) e gli antidreyfusards (la destra nazionalista, antisemita e clericale).
20
politologo, sociologo, filosofo) che stabilisce con il potere un rapporto
dialettico (di opposizione o di connivenza) e che a vario titolo si fa
portavoce di istanze dominanti o marginali dell’opinione pubblica, di cui
viene considerato parte integrante e talvolta guida o ispiratore.
Si tratta dunque di una nozione inconcepibile se non in presenza di diffusi
mezzi di comunicazione (è inizialmente connessa alla stampa giornalistica)
e non di rado esposta, soprattutto da parte dei conservatori, ad una
connotazione denigratoria o quantomeno ironica24
.
Per dirla con Abruzzese, gli intellettuali: “[…]possono parlare a nome del
Principe o contro la sua volontà, ma fanno comunque parte di un unico
sistema di potere, sono parte dei suoi conflitti”25
.
Di fronte ai mutamenti sociali gli intellettuali hanno bisogno, per poter
divulgare le proprie idee, di “potenti casse di risonanza”, di mezzi di
comunicazione che diano visibilità al loro “appeal intellettuale”; risulta
evidente e necessaria dunque, una distinzione tra l’intellettuale che si
occupa di scuola, università e società contrapposto o differenziato
dall’intellettuale che opera nel campo dello spettacolo, delle tv e della
stampa. In Italia gli intellettuali “puri”, che potremmo definire accademici,
hanno dimostrato una scarsa influenza sociale dovuta alla cronica
debolezza ed incoerenza del sistema italiano nell’armonizzare il mondo
della ricerca scientifica con quello degli apparati pubblici e privati.
Diversamente la comunità degli appartenenti al mondo della scrittura,
24.Intellettuali e teorie sull’industria culturale camminano lungo l’asse che va dalle posizioni più critiche a quelle maggiormente integrate, tra coloro che hanno considerato la condivisione sempre più ampia
della cultura come un’operazione fittizia atta a illudere e magari ottundere le masse e coloro che invece
hanno salutato con favore la democratizzazione della cultura, anche se il prezzo da pagare era un adattamento della cultura stessa ai suoi nuovi destinatari. 25. Alberto abruzzese, Intellettuale versus industria culturale, in “Il Mediaevo italiano, a cura di Mario
Morcellini, Carocci, 2005, 4.14, pag. 122.
21
giornalisti delle carta stampata, critici professionisti, hanno trovato una loro
maggiore autorevolezza proprio però non discostandosi da uno dei media
più radicati nel paese quale appunto è la carta stampata.
La stampa, contrassegnata da ampi spazi di approfondimento, ha
rappresentato storicamente il luogo di incontro di idee e intellettuali, sui
maggiori argomenti di attualità ma anche su questioni più ampie26
. Il
dibattito culturale, ospitato nelle pagine di quotidiani e settimanali, ha reso
possibile l’esistenza e la divulgazione di idee ed opinioni che altrimenti si
sarebbero mal adattate al mezzo televisivo, basato e regolato sulla news.
Intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia o Umberto Eco,
raramente hanno eletto come mezzo di diffusione delle proprie idee il
mezzo televisivo, giudicato spesso livellato su canoni culturali di massa
scadenti.
26
. Prima della seconda guerra mondiale in Italia c’erano 66 quotidiani, con una “tiratura” complessiva
di 4.600.000 copie. Il Corriere della Sera, che nel 1920 era arrivato a 750.000 copie, negli anni ’40 ne
stampava 500.000 (è ancora al primo posto fra i quotidiani in Italia, con una tiratura di quasi 900.000 copie e una diffusione di oltre 700.000).Nel dopoguerra il numero di testate crebbe rapidamente, fino a
136, per poi scendere a 111 nel 1952, a 96 nel 1961 e a 75 nel 1975. La diffusione dei quotidiani
cresceva poco – o addirittura diminuiva. La “tiratura” complessiva nel 1975 era di 6.251.000 copie rispetto a 6.341.000 nel 1965. Nello stesso periodo la diffusione (copie vendute) era scesa da 4.765.000
a 4.415.000.Da allora la situazione non è molto cambiata. Il numero di testate è di nuovo aumentato (ce
ne sono circa 180 – ma molte che erano indipendenti oggi fanno parte di grossi gruppi editoriali). La diffusione, come vedremo più avanti, alla fine degli anni ’80 aveva superato i sei milioni di copie, ma
dal 1994 rimane più bassa. In rapporto alla popolazione è inferiore ai livelli d’anteguerra. L’Italia era ed
è fra i paesi più arretrati in Europa per diffusione e lettura della stampa quotidiana. Il problema è noto e ampiamente dibattuto. Ma quella che continua a mancare è una soluzione.Un fatto nuovo è la
diffusione, in alcune città, di giornali distribuiti gratuitamente nelle stazioni delle metropolitane e in
altri luoghi “frequentati”. Dal primo uscito a Roma nel 1999 si è arrivati alla diffusione in dieci città italiane (con tre testate a Milano e Roma, due a Bologna, Firenze, Napoli e Padova, una a Bari, Torino,
Venezia e Verona). Si riempie così, in parte, lo spazio lasciato vuoto dal mancato sviluppo in Italia dei
quotidiani “popolari” e dall’estinzione dei “pomeridiani”. Il numero di copie stampate è rilevante: secondo le dichiarazioni degli editori nel 2003 sarebbe arrivato a due milioni. Ma il fenomeno è limitato
ad alcune aree urbane, raggiunge solo sporadicamente quella parte poco attiva della popolazione che è
meno abituata alla lettura – e non incide molto sulla situazione complessiva della stampa. È anche aumentato il numero dei periodici “gratuiti”, diffusi in diversi canali, ma con un effetto marginale sulla
diffusione totale e sulla lettura.
Fonte dati: Censis
22
Il paradosso, aggiunge Abruzzese, è che “in Italia è la pubblicità televisiva
– vero e proprio anticristo per gli intellettuali – a far sopravvivere la
stampa, e dunque è la ricchezza dei consumi a fornire mezzi di espressione
alle culture scritte”.
Gli intellettuali si dispongono, secondo quanto detto finora, su vari livelli di
interazione con l’industria culturale: li si troverà fermi su una posizione di
critica radicale, esterna e inconciliabile rispetto al sistema di produzione
culturale moderno; oppure come veri e propri produttori culturali,
impegnati dall’interno dell’industria stessa al fine di veicolare al meglio il
prodotto o la nuova idea da commercializzare; “lavoro intellettuale e
routine produttiva” si discostano sempre più e la figura di intellettuale puro,
nella nuova industria e new media, viene sostituita con quella di “creativo”.
1.5 Comunicazione, media e consumo culturale in Italia
Per analizzare l’impatto che i media tradizionali e i nuovi media hanno
avuto sulla società italiana dall’inizio del XI secolo ad oggi potremmo
ricorrere ad una preliminare definizione di modernizzazione intesa come
“l’insieme dei processi economici, sociali e culturali che hanno trasformato
le società europee ed occidentali negli ultimi tre secoli, tanto da poter
parlare di dicotomia società tradizionale/società moderna”.27
Il mutamento socio - culturale verificatosi conseguentemente alla
diffusione di nuovi media sul territorio nazionale ha portato con se anche
nuovi fenomeni di socializzazione, fornendo strumenti ideali per questo
scopo interrelazionale a fronte di un indebolimento del ruolo storico e
27. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, l’impatto della comunicazione nel caso italiano, Carocci, 2005, 1.2, pag. 17.
23
fondante della famiglia. In tutto il mondo occidentale, le nuove tecnologie
hanno anche contribuito all’atomizzazione della società: la
rappresentazione del sé in uno schermo (attraverso chat rooms, mondi
virtuali come Second Life28
,ecc) dimostra forse il massimo impatto, sia
negativo sia radicale, che le nuove tecnologie informatiche fanno registrare
sulla società dei nuovi “pubblici”.La centralità del consumo culturale
afferma progressivamente l’importanza e il nuovo valore che il tempo
libero va ad assumere in un contesto in cui il consumatore culturale vive la
sua intera vita diviso tra “lavoro organizzato” e “tempo libero organizzato”,
in questo caso da altri. Per questo concetto si faccia riferimento al paragrafo
1.6 di questo capitolo, a proposito delle teorie sull’accesso esposte da J.
Rifkin.
Dal dopoguerra ad oggi, gli italiani hanno modificato significativamente i
loro interessi culturali e il conseguente consumo culturale. La quota di
reddito destinata alla ricreazione e all’intrattenimento in genere, dalla
cultura allo spettacolo risulta maggiore verso gli anni ’80 rispetto alla spesa
destinata al tempo libero registrata durante gli anni ’50. La produzione di
una cultura di massa a costi minori ha sicuramente facilitato tale processo
28. Second Life è una comunità virtuale tridimensionale online creata nel 2003 dalla società americana
Linden Lab. Il sistema fornisce ai suoi utenti (definiti "residenti") gli strumenti per aggiungere al
"mondo virtuale" di Second Life nuovi contenuti grafici: oggetti, fondali, fisionomie dei personaggi,
contenuti audiovisivi, ecc. La peculiarità del mondo di Second Life è quella di lasciare agli utenti la libertà di usufruire dei diritti d'autore sugli oggetti che essi creano, che possono essere venduti e
scambiati tra i "residenti" utilizzando una moneta virtuale (il Linden Dollar) che può essere convertito
in veri dollari americani. Attualmente partecipano alla creazione del mondo di Second Life oltre 6 milioni di utenti di tutto il pianeta (dato 11 maggio 2007), e ciò che distingue "Second Life" dai normali
giochi 3D online è che ogni personaggio che partecipa alla "seconda vita" corrisponde ad un reale
giocatore. Gli incontri tra personaggi all'interno del mondo virtuale si configurano dunque come reali scambi tra esseri umani attraverso la mediazione "figurata" degli avatar. L'iscrizione è gratuita, anche se
è obbligatorio essere maggiorenni. Per costruire e vendere oggetti all'interno di "Second Life", inoltre,
occorre comprare aree di terreno nel mondo virtuale di Second Life.
24
rendendo accessibili alle masse intrattenimenti precedentemente elitari (ad
es. il teatro).Se da una parte il cinema, dagli anni ’20 in poi ha subito una
costante discesa nei consumi e nelle risorse individuali ad esso destinato,
altri settori hanno aumentato la loro audience e i loro ricavi: ad esempio,
durante gli anni ’90, gli spettacoli dal vivo ( musica, teatro,ecc) e lo sport,
hanno rappresentato il vero settore di crescita nei consumi culturali. I
cosiddetti trattenimenti hanno raggiunto negli anni ’90, un terzo del
consumo culturale nazionale.
Nel caso italiano, l’industria culturale, è definita storicamente e nella sua
specificità dalla “disparità di ritmo e di rilevanza rispetto ad altri settori
dello sviluppo industriale come quello automobilistico o degli
elettrodomestici”. Più che di industria culturale definita come sistema, in
Italia si potrebbe parlare di apparati di produzione eterogenei, dal cinema
alla tv, scarsamente convergenti e basati su piccole imprese se non da
gestioni familiari. Questa particolarità tutta italiana ha indubbiamente
favorito un certo tipo di cinema, ad esempio la commedia all’italiana,
basata non su grandi budget di investimento ma sulla presenza di maschere
(da Totò a Massimo Troisi, da Roberto Benigni a Carlo Verdone) in grado
di colmare frizioni e lacune del sistema industrial-culturale italiano. Fino
agli anni ’80 si può parlare, in Italia, di artigianato culturale più che di
industria vera e propria. Si distingue per risorse e professionalità in campo
la televisione che nel corso degli ultimi cinquant’anni ha saputo mantenere
invariato il suo appeal mediatico: è forse l’unico media che abbia da
sempre seguito e assecondato i gusti del pubblico ed in particolare del
pubblico italiano. Di fronte ad una stampa in continua parabola
discendente, sia per copie vendute che per qualità di lettori, la Tv, grazie
25
anche alla sua diffusione capillare sul territorio nazionale, ha mantenuto alti
i suoi standard di fruizione da parte degli italiani, mantenendo un ruolo
centrale nei consumi mediali quotidiani, da parte dei più giovani come dei
più anziani.
1. 6 L’accesso culturale: Rifkin e la new economy
All'inizio del terzo millennio l'impatto delle nuove tecnologie sta
cambiando radicalmente la struttura della società e il nostro modo di vivere.
Nella «Fine del lavoro», Jeremy Rifkin sottolineava l'urgenza di trovare
quanto prima una risposta al problema, generato dall'informatizzazione, del
«lavoro umano inutilizzato». Nell'«Era dell'accesso», Rifkin delinea gli
scenari di un futuro imminente in cui le idee e le conoscenze sono i
principali generatori di ricchezza, in cui per la prima volta nella storia
moderna il possesso di beni materiali viene considerato un limite alla
capacità di adeguarsi al cambiamento e ogni genere di bene, servizio o
conoscenza (dall'informazione all'intrattenimento, all'istruzione) deve
essere acquistato o preso in affitto. Gran parte delle funzioni una volta
risolte in ambito sociale e culturale vengono così sostituite da rapporti
economici e quasi tutte le attività diventano esperienze a pagamento. Rifkin
analizza le strutture organizzative dell'economia delle reti e i meccanismi
dell'informazione caratteristici dell'era postmoderna, evidenziando i rischi e
le opportunità che si prospettano per lo sviluppo della società e
l'emancipazione dell'uomo nel ventunesimo secolo. Da un lato il potere dei
“nuovi tiranni” del progresso, i più grandi e importanti provider
internazionali, destinati a gestire l'accesso a ogni attività e a controllare la
26
vita di ciascuno di noi in una società dove si accresce il divario tra chi è
“connesso” e chi non lo è; dall'altro la possibilità di una maggiore
diffusione della conoscenza, della democrazia e del benessere, e
l'affrancamento dalla “schiavitù” del lavoro.
1.7 Nuovi archetipi umani e realtà virtuali
“L'uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro
che l' hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell'era industriale: si
trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi
virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell'economia delle
reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere
esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per
adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata)”29
. Lo psicologo
Robert J. Lifton ha definito questa nuova generazione “proteiforme” :
uomini e donne cresciuti nei common-interest developments30
, la cui salute
è gestita dal servizio sanitario, che utilizzano automobili in leasing,
acquistano on-line, si aspettano di ottenere software gratuitamente, ma sono
disposti a pagare per servizi aggiuntivi e aggiornamenti. Vivono in un
mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso
rapido alle informazioni, hanno una soglia d'attenzione labile, sono più
spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a
lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che
29. J.Rifkin, L’era dell’accesso, Mondatori, 2000
30. Le comunità residenziali battezzate common-interest developments (CID) residenti di un CID hanno ciascuno la proprietà di un lotto abitativo, e condividono quella di tutte le aree comuni all’interno del
CID: parchi, strade, centri di ricreazione, negozi. Il consiglio amministrativo dei CID delibera su molte
materie, dall’urbanistica alle norme di condotta. Se l’attuale tasso di crescita si manterrà nel tempo, i CID potrebbero progressivamente rivaleggiare con le amministrazioni locali.
27
industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time31
e sono
abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate
da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di
quelle dei loro genitori. Sono più «terapeutici» che ideologici e pensano più
in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di
frasi, ma superiori nell'elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi
che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano «veri»,
considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra
sovranità del consumatore e democrazia. Il loro mondo è più fluido,
segnato da confini più sfumati. Sono cresciuti a ipertesti, link fra siti Web e
anelli di feedback, e hanno una percezione della realtà più sistemica e
partecipativa che lineare e obiettiva. Pensano al mondo come a un
palcoscenico e alla propria vita come a una serie di rappresentazioni
teatrali. Cambiano in continuazione, a ogni passaggio fondamentale della
propria esistenza sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e
queste donne non sono interessati alla storia, bensì ossessionati dalla moda
e dallo stile. Questi uomini nuovi stanno iniziando a lasciarsi alle spalle la
proprietà: il loro mondo - un mondo di reti, gatekeepers e connettività -
comincia appena a essere dominato da eventi iper-reali e da esperienze
istantanee. Ciò che conta è l'accesso: non essere connessi è la morte. Sono i
31. Just in time (spesso abbreviato in JIT), espressione inglese che significa "giusto/appena in tempo", è
un insieme di metodologie tese a migliorare il processo produttivo, cercando di ottimizzare non tanto la
produzione quanto le fasi a monte, di alleggerire al massimo le scorte di materie prime e di semilavorati
necessari alla produzione. In pratica si tratta di coordinare i tempi di effettiva necessità dei materiali
sulla linea produttiva con la loro acquisizione e disponibilità nel segmento del ciclo produttivo e nel
momento in cui debbono essere utilizzati.
28
primi esseri umani a vivere in quella che lo storico Arnold Toynbee ha
definito età postmoderna. Questa nuova era contrasta decisamente con l'età
moderna, in cui i rapporti proprietari e il possesso informavano ogni
transazione economica e definivano la quasi totalità delle interazioni
sociali: le distinzioni nell'età postmoderna sono relative più all'accesso che
al possesso. L'età postmoderna è legata a una nuova fase del capitalismo,
fondata sulla mercificazione del tempo, della cultura e delle esperienze,
mentre le epoche precedenti coincisero con fasi basate sulla mercificazione
della terra e delle risorse, lo sfruttamento del lavoro, la produzione di merci
e servizi di base. Baudrillard32
sostiene che viviamo nel mondo
immaginario dello schermo, dell'interfaccia e delle reti. Tutte le nostre
macchine sono schermi, noi stessi siamo diventati schermi e l'interazione
fra uomini è diventata interattività fra schermi. Insomma, è come se già
vivessimo in un' allucinazione «estetica» della realtà.
1.8 Nuove tecnologie e immaginario collettivo
Una definizione preliminare: “la convergenza di dati continui in una
rappresentazione numerica prende il nome di
digitalizzazione”.33
Convergenza di dati e modularizzazione degli stessi
rappresentano il punto focale del sistema di funzionamento di tutte le nuove
tecnologie in uso. E di convergenza dei media, si può parlare anche
affrontando la questione dal punto di vista dell’immagine che gli individui
hanno delle nuove tecnologie. Definire l’immaginario collettivo richiederà
32. Jean Baudrillard, critico e teorico della post-modernità. 33. Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, 2002. titolo originale: The language of New
Media, Massachussets Institute of Technology, 2001. Par. 2.1. I principi ispiratori dei nuovi media. Rappresentazione numerica, pag. 47.
29
alcune, ma necessarie, chiarificazioni. Potremmo definire immaginario
collettivo: un insieme di simboli e concetti presenti nella memoria e
nell'immaginazione di una molteplicità di individui facenti parte di una
certa comunità, anche virtuale. La consapevolezza, da parte di tutti questi
individui, di condividere questi simboli rafforza il senso di appartenenza
alla comunità stessa. Spesso queste rappresentazioni fantastiche della realtà
arrivano a trascendere dalle stesse circostanze che le hanno prodotte nel
mondo reale e ad acquistare la forza e la suggestione del mito, diventando
le icone di un'intera fase della storia di un popolo. É significativo notare
come la visione di queste “entità immaginarie” sia spesso di tipo
“trasversale” (o convergente), nel senso che esse sono percepite ed
accettate come patrimonio comune, indipendentemente dagli orientamenti
religiosi, politici e culturali degli individui che fanno parte della comunità.
Un ruolo sempre più importante nella formazione e nella rielaborazione
dell'immaginario collettivo è svolto dai moderni mezzi di comunicazione di
massa, che rendono accessibili, su scala planetaria, le informazioni e le
immagini. Di conseguenza le dimensioni delle comunità che possono
condividere un comune patrimonio simbolico divengono sempre più vaste,
ed al concetto di "popolo" (o community) si sostituisce gradualmente
quello di villaggio globale. Dunque le nuove tecnologie hanno il grande
merito di consentire la costruzione collettiva di un universo comune di
significati.
L’intelligenza collettiva costituisce un nuovo spazio antropologico in cui,
grazie alle nuove tecnologie, tutti i saperi umani possono essere
democraticamente condivisi in un’ottica di etica dell’ospitalità ed estetica
dell’invenzione (esiste, infatti, un’architettura del ciberspazio).
30
L'immaginario collettivo nasce quando una infrastruttura mediatica
trasmette e ripete una stessa immagine per milioni di volte, producendo un
luogo comune, una allucinazione consensuale intorno ad uno stesso oggetto
(che poi è declinato e comunicato attraverso altri vettori, dal passaparola al
cinema). Nel caso del medium televisivo questa trasmissione seriale di
milioni di immagini è molto più letale, perché avviene nello stesso istante.
Altra cosa è invece l'immaginario di rete, che funziona in modo interattivo
e non istantaneo, per il quale parliamo di immaginario connettivo.
L'immaginario è quindi la trasmissione collettiva seriale di una stessa
immagine attraverso media diversi. Parafrasando Goebbels, è come una
bugia ripetuta milioni di volte che diventa discorso pubblico, conversazione
quotidiana, verità. L'immaginario collettivo è in definitiva questo luogo
dove si incrociano media e desiderio, dove una stessa immagine ripetuta un
milione di volte modifica contemporaneamente milioni di corpi, inscrive il
piacere, la speranza, la paura. A questo proposito, le tesi di De Kerckhove
riguardo al problema dell’intelligenza connettiva34
affermano che: “ La
mente umana può fare molto di più di quello che fa e le nuove tecnologie la
stimoleranno a fare di più , a fare meglio, a fare cose differenti e nuove”.35
Come ha dichiarato lo stesso De Kerckhove nel 1999: “Da Internet è nata
una forma di intelligenza nuova”.
L’intelligenza nuova di cui parla De Kerckhove, trova i suoi fondamenti
anche nelle caratteristiche basilari dei nuovi media definite in:
digitalizzazione, convergenza e personalizzazione. Nuove tecnologie e
34. De Kerckhove, Derrick (1991), Brainframes.Technology, Mind And Business, Bosch &; Keuning,
Utrecht, trad. it. Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Baskerville, Bologna, 1993 35 D. De Kerckhove, Ve lo posso garantire io, in Internet non ci si perde, Telema 4, primavera 1996
31
quindi nuovi media conducono al superamento di alcune barriere
apparentemente insormontabili quali il passaggio dal formato analogico
(senza soluzione di continuità) al formato digitale (discreto per sua stessa
natura: 1,0,1,0 e così all’infinito). I “vecchi” media del nostro immaginario
collettivo ci riconducono a pratiche di consumo separate tra loro. Il
telefono, la televisione e il personal computer convergono o almeno
dovrebbero attraverso la rivoluzione digitale, in un unico dispositivo
digitale e multimediale. I dispositivi comunicativi che consentiranno questa
convergenza sono in parte affermati e in parte in via di definizione. Il primo
e fondamentale passaggio sarà quello dell’abbandono, o del diverso uso,
dei mezzi di comunicazione di massa per approdare ad un uso personale e
dedicato. Afferma Alberto Marinelli: “In realtà un sistema mediale
integrato capace di assicurare prestazioni di questo tipo esiste già: è la rete
Internet, con i software di navigazione che fanno riferimento al personal
computer e ai protocolli di comunicazione sviluppati in ambiente web, che
si stanno espandendo in aree contigue dal punto di vista tecnologico
(dispositivi wireless e mobile, tv digitale via cavo, satellitare e terrestre)”.36
La possibilità di accedere a dispositivi digitali di vario tipo è poi connesso
al grado di sviluppo tecnologico di ciascun paese: per quanto riguarda
l’Italia secondo le previsioni dell’European Information Technology
Observatory, il futuro prossimo vedrà il nostro paese in coda, per
tecnologie e velocità di trasferimento dati digitali, nelle classifiche dei paesi
Europei e comunque del “Nord del mondo”.
Per dirla con Morcellini: “Senza assumere una visione retorica o
taumaturgica dei media come naturalmente democratici e progressisti,
36. In “Il Mediaevo italiano, Verso il futuro. Internet e la convergenza”,Carocci, 2005, Cap. 19, par. 19.1, pag. 398.
32
resta il fatto che essi attivano una serie infinita e persino sfuggente di effetti
psicologici, culturali e sociali”37
. Un’osservazione questa che risulta
riscontrabile anche nel caso italiano. In Italia, dagli anni ’50 in poi la
centralità della televisione nei consumi culturali e mediatici degli italiani,
ha fortemente rallentato lo sviluppo tecnologico del paese. Una nuova
multimedialità comunicativa e il suo apporto culturale rappresentano un
driver di mutamento necessario e imprescindibile. Le trasformazioni
qualitative e di standard tecnico hanno portato sia in Italia che in Europa ad
un progressivo indebolimento dei media generalisti per definizione (Radio
e tv), a favore di una multimedialità di fatto: si è passati da una concezione
originaria e di base di multimedialità (uso combinato di radio, tv e stampa)
ad una seconda fase contraddistinta dal consumo di media generalisti
abbinati al consumo di intrattenimenti dal vivo, fino ad arrivare alla terza
fase che potremmo definire di multimedialità evoluta che senza escludere i
media pre-esistenti, si indirizza su nuovi media (internet, telefonia mobile,
tv digitale, ecc).
“Tutti i navigatori e i fruitori del digitale provengono, infatti, dall’ “esercito
del generalismo”: proprio per questo è difficile che essi possano troncare i
contatti con la mappa dei media tradizionali”.38
L’intermedialità tra nuovi e vecchi mezzi di comunicazione in Italia, trova
le sue principali cause di rallentamento anche nell’età degli utilizzatori di
nuovi media e nella capacità di telecomunicazione della Rete nazionale:
scarsa diffusione di reti basate su comunicazione per mezzo di fibra ottica o
scarsa diffusione di pc/pro-famiglia sul territorio nazionale. Ci si trova di
37
. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, mutamento all’italiana, Carocci, 2005, 1.9.2, pag. 44 38. Il Mediaevo italiano, Mediaevo vs tecnoevo. Il mondo dei consumi culturali, M.Morcellini e M.Gavrila, par. 3.1, pag. 73, Carocci, 2005.
33
fronte ad un panorama italiano che vede, da una parte, un gran numero di
analfabeti informatici e, quasi in contrapposizione, dall’altra parte un
numero discreto ma in crescita di esploratori tecnologici.
34
35
CAPITOLO SECONDO
I caffé letterari
36
Quel tavolo del Caffè Garibaldi [a Trieste], sotto il municipio, tra le sette e le nove
di sera degli anni che seguirono all'altra guerra - scrive Giani Stuparich39
pensando al fratello Carlo e all'amico Scipio Slataper che dalla guerra non erano
tornati - è passato alla storia. Trieste non ebbe forse mai un affiatamento di spiriti
così vasto.
39
. cfr. Al Caffè con Stuparich in Enrico Falqui, Caffè letterari, Roma, Canesi, 1962
38
39
2.1 Cultura al Caffè: dalla Mittel Europa all’Italia del Sud
Stuparich costruisce una suggestiva carrellata dei clienti abituali del
Garibaldi fra i quali spiccano i nomi di Julius Kugy, definito spirito
europeo, e di James Joyce, uno spirito universale. Accanto a questi illustri
stranieri non mancavano certo gli italiani, anzi i triestini: primo fra tutti
Italo Svevo che "sapeva fondere con la sua animata e spiritosa socievolezza
- spiega Stuparich - la compagnia del Caffè Garibaldi. [...] Svevo sapeva
conquistare persino Saba: ed era, specie in quegli anni, non facile impresa.
Saba s'iniziava allora al freudismo, con tutti gli alti e bassi di una
nevrastenia scontrosa e patita, che solo più tardi doveva trovare nei "misteri
freudiani" il suo centro di sollievo. Svevo, in certo qual modo aveva già
disciolto il freudismo nell'ironia, nella sua ironia."40
Questo gruppo di amici, gli assidui del Caffè Garibaldi, erano così legati al
locale che, quando venne chiuso fecero secessione e si spostarono in massa
al vicino Bar Nazionale 41
.
Alla compagnia si aggiunsero presto alcuni amici occasionali come il
matematico e musicista Guido Voghera, Silvio Pittoni, fratello del deputato
socialista, il pittore klimtiano Timmel e Roberto, Bobi Bazlen, per citarne
soltanto alcuni.
"Il caffè è l'unico luogo in cui si può veramente scrivere: si è soli, con carta
e penna e tutt'al più i due o tre libri di cui si ha bisogno in quel momento -
40. Il cognato di Italo Svevo, Veneziani, era stato in analisi presso Freud per risolvere problemi di
dipendenza dalla morfina e di omosessualità. A sua volta Joyce, all’epoca anch’egli residente a Trieste,
venne a contatto con la psicanalisi proprio attraverso lo stesso Svevo. 41. In Piazza dell’Unità, sempre a Trieste.
40
spiega Claudio Magris 42
- abbandonati a se stessi e costretti a far conto
soltanto su se stessi, a raccogliere le proprie energie e dosarle con misura; il
tavolino su cui si poggia il foglio diviene la tavola di un naufrago, cui ci si
aggrappa, mentre la familiare armonia che ci circonda si svuota, diviene
l'incerta cavità del mondo, nel quale la scrittura si addentra, perplessa e
ostinata."
Sono parole scritte pensando al Caffè Tommaseo (dopo la ristrutturazione
dell'edificio che lo ospita, compiuta fra il 1984 e il 1986 dalle Generali) ma
sedendo a un tavolino del Caffè San Marco, il preferito da Magris che gli
dedica il primo capitolo dei suoi Microcosmi (Milano, Garzanti, 1997). "Il
San Marco è un vero Caffè, periferia della storia contrassegnata dalla
fedeltà conservatrice e dal pluralismo liberale dei suoi frequentatori. [...] Al
San Marco trionfa - osserva Magris - vitale e sanguigna, la varietà."43
Magris pensa al Caffè come a un luogo del disincanto dove si ripete
immutato e al tempo stesso nuovo, uno spettacolo già visto in cui ognuno
riesce forse a ritrovare se stesso. Anche Magris, come Stuparich, ricorda i
tanti nomi di intellettuali che si sono fermati a discutere, a scrivere e a
vivere qualche ora in questo Caffè: fra i tanti nomi spicca quello di Giorgio
Voghera (figlio di Guido), conosciuto per gli studi sull'ebraismo e sulla
psicanalisi.44
42. Claudio Magris, scrittore e germanista; Cfr. Utopia e disincanto. Storie, speranze, illusioni del
moderno, Claudio Magris, Garzanti, 2001 43. Claudio Magris, Microcosmi, Garzanti, Milano, 1997 44
. Giorgio Voghera, pubblicazioni e studi: Gli anni della psicanalisi (1980), Nostra Signora Morte
(1983), Carcere a Giaffa (1985), Quaderno d'Israele (1986). Di lui alcuni dicono che sia l'autore del
romanzo Il segreto, pubblicato nel 1961 da Einaudi come romanzo di "anonimo triestino" (con prefazione di Linuccia Saba); Giorgio Voghera ha sempre smentito, sostenendo che l'autore di tale
romanzo è in realtà suo padre Guido Voghera. [Per completare il labirinto: l'unica opera ufficialmente
edita di Guido Voghera è Pamphlet postumo: Etica e Politica da Hegel ai Grandi Dittatori, con una biografia scritta da Giorgio e una presentazione di Aurelia Gruber Benco (Edizioni Umana, 1967).]
41
2.2 Caffè storici d’Italia
Trieste
Le prime Botteghe da caffè vennero aperte a Trieste nella seconda metà del
Settecento, probabilmente seguendo l'esempio degli omonimi locali
veneziani decantati dal Goldoni, ma assumendo immediatamente
un'inconfondibile impronta viennese negli arredi e nei servizi offerti.
La prima Caffetteria di cui si hanno notizie fin dal 1768 era quella di
Benedetto Capano, sita in contrada Bottari (ora via San Nicolò). Ad essa
veniva concessa l'esclusiva della vendita di “Acque fredde e calde, the,
caffè, cioccolata, limonate, sorbetti ed acque sciroppate" e la possibilità di
tenere “Bigliardi da soldo e cuocere biscotterie” con la raccomandazione,
però, di non permettere nel locale” scandali, ritrovi sospetti e giochi, e di
contribuire alle quiete e alla morigeratezza”. Dì li in avanti le botteghe di
caffè si moltiplicarono in una Trieste che era cresciuta di popolo e di
fortuna.45
Emporio mitteleuropeo, ogni colonia (tedesca, greca, svizzera) aveva un
proprio luogo d'incontro: così i tedeschi frequentavano il Caffè Stella
Polare, i levantini il Caffè Griot. Con il passare del tempo, lo spirito
cosmopolita della città propose caratterizzazioni diverse da quelle
nazionaliste, con Caffè spiccatamente politici, quelli per ufficiali e alti
funzionari austriaci, quelli della borghesia, degli uomini d'affari e sempre
più numerosi i Caffè letterari. Ad imitazione dei Caffè parigini nascono
anche i primi concerti, le prime esposizioni pittoriche, le camere da gioco,
45. Fonte: A.I.A.T. Agenzia di Informazione e di Accoglienza Turistica di Trieste
42
le sale biliardo, e la sempre più ricca presenza di giornali italiani, tedeschi,
inglesi e francesi. Contribuiscono a questo continuo progresso le assidue
presenze di letterati di fama mondiale: così al Caffè Pirona è certa quella di
James Joyce, ai Portici di Chiozza, centro allora dell'irredentismo triestino,
quella di Italo Svevo, all'Antico Caffè San Marco Umberto Saba e molti
altri.
Nel corso del tempo Trieste, forse insieme alla sola Vienna, ha saputo
conservare alcune vestigia del suo passato che, per quanto antiche, sono
quanto mai ancora vive.
Continuando così in un percorso ideale fino ad arrivare al Caffè
Tommaseo, il Caffè degli Specchi nella splendida cornice di Piazza Unità,
il Tergesteo, la Stella Polare, il Torinese, il Caffè Pirona, l'Antico Caffè San
Marco. Tutti in grado di rievocare più di un secolo di storia cittadina
attraverso vicende che raccontano di irredentismo, cultura, invasioni,
letteratura, libertà.
Ma al contempo perfettamente inseriti nella realtà del XXI secolo e come
cent'anni fa in sintonia con i volubili desideri dei propri clienti.
Il Caffè Tommaseo
Il Caffè Tommaseo è, indubbiamente, uno fra i più antichi Caffè di Trieste.
Sito in quella che allora si chiamava piazza dei Negozianti, fu aperto nel
1830 da un padovano, Tomaso Marcato, che gli diede il proprio nome,
Caffè Tomaso. Il locale divenne subito meta preferita di artisti e
commercianti e, nel 1848, venne ribattezzato, in onore dello scrittore e
patriota dalmata Tommaseo. A testimoniare il legame fra il Caffè e quel
fondamentale momento storico c'è una lapide fatta apporre dall'Istituto
43
nazionale per la storia del Risorgimento, ove si legge: "Da questo Caffè
Tommaseo, nel 1848, centro del movimento nazionale, si diffuse la fiamma
degli entusiasmi per la libertà italiana".
Dopo l'uccisione di Guglielmo Oberdan che segnò il trionfo della reazione
austriaca, il locale prudentemente riprese il nome originario che mantenne
fino al 1918, fino a quel fatidico 3 novembre che portò Trieste all'Italia e
permise al Caffè di chiamarsi nuovamente Tommaseo. Il Marcato, grande
appassionato d'arte, si preoccupò di abbellire il locale affidando l'incarico
delle decorazioni al pittore Giuseppe Gatteri e facendo venire, direttamente
del Belgio, una serie di specchiere, con le quali tappezzò tutte le pareti. Il
Caffè, ritrovo di artisti, letterati e uomini d'affari ospitava spesso mostre e
concerti; va ricordata una personale dedicata a Giuseppe Bernardino Bison
e i concerti che venivano proposti il giovedì dall'orchestra del Teatro
comunale e il sabato dalla banda. Fra le specialità offerte dal Caffè Tomaso
c'era il gelato, introdotto in città proprio dal Marcato che, sensibile alle
innovazioni, volle anche dotare il caffè di illuminazione a gas: correva il
1844 ed era il momento in cui in città si facevano i primi esperimenti
pubblici. Una curiosità emersa dagli archivi del locale è che, con un
contratto di acquisto, stilato il 29 settembre del 1830 pare ne fosse entrata
in possesso la contessa Lipomana, nome sotto il quale si nascondeva
nientemeno che Carolina Bonaparte, la vedova di Gioacchino Murat. Altro
fatto degno di nota è che l'edificio che ospita il locale è, dal 7 aprile 1954,
tutelato come monumento storico e artistico, sorte che divide con altri caffè
prestigiosi, un nome per tutti il Caffè Greco a Roma, in via Condotti. Fra
gli altri proprietari del caffè merita di essere ricordata la signora Nerina
Madonna Punzo che si preoccupò non solo di mantenere intatto l'aspetto
44
originario del locale, ma si improvvisò anche editrice di un giornale
periodico “Lettere da un antico caffè” che voleva farsi portavoce di idee e
dibattiti letterari ed artistici. Restaurato e rinnovato nel dicembre 1997 nel
segno dell'originaria tradizione dei Caffè Viennesi, dalla nuova Società
proprietaria del Caffè.
Il Caffè San Marco
Il 3 gennaio 1914 viene inaugurato il Caffè San Marco, sorto là dove un
tempo c'era la Latteria Centrale Trifolium, divenne presto luogo di ritrovo
di lettori di quotidiani, giocatori di biliardo, nonché giovani irredentisti e
laboratorio per la preparazione di passaporti falsi che sarebbero serviti ai
patrioti antiaustriaci per scappare in Italia. L'attività del Caffè fu
bruscamente interrotta il 23 maggio 1915 quando una pattuglia austriaca
devastò il locale. Fra i diversi proprietari che si alternarono nella gestione
del Caffè meritano di essere ricordati, oltre al primo Marco Lovrinivich, le
sorelle Stock che Claudio Magris definisce "minute e inesorabili"46
.
Il Caffè, più volte restaurato grazie alla munificenza delle Assicurazioni
Generali, si presenta oggi, dopo la riapertura del 16 giugno 1997, con
l'immutato e suggestivo aspetto di sempre. Le maschere ammiccano ancora
dall'alto, sopra il bancone di legno intarsiato, opera - spiega ancora Magris -
della rinomata falegnameria Cante. Alcune maschere sono attribuite al
pittore viennese Timmel, che sfogava al Caffè la propria fatica di vivere. In
effetti tutto il Caffè segue lo stile della Secessione viennese che, abbinato
allo stile floreale, gli conferisce un'incredibile suggestione. Interessanti
sono i nudi dipinti sui medaglioni alle pareti, pare da Napoleone Cozzi un
46. Cfr. Microcosmi, Milano, Garzanti, 1997, cap. 1
45
"decoratore alpinista scrittore e irredentista" e da Ugo Flumiani "pittore -
spiega Magris - di acque increspate." I nudi sono infatti la metafora dei
fiumi friulani, ma anche istriani e dalmati che si perdono nell'Adriatico, il
mare di Venezia e quindi di San Marco. Di grande effetto le innumerevoli
foglie di caffè che rappresentano una costante nella decorazione con il loro
ripetersi ossessivo e al tempo stesso rassicurante. Ci sono i tavolini di
marmo con la gamba di ghisa che si eleva su un piedistallo sorretto da
zampe di leone, quel leone di San Marco, voluto dal primo proprietario non
tanto per celebrare il proprio nome quanto per simboleggiare italianità e
irredentismo. Molto amato dagli scacchisti, per la particolare disposizione
dei tavolini, il Caffè si presenta - osserva Magris - come una scacchiera
dove gli avventori sono costretti a muoversi come il cavallo.
Caffè Pasticceria Pirona
Frequentatore assiduo del caffè, tra gli altri fu James Joyce, il quale
assaporando i raffinati dolci di tipo austriaco, ma soprattutto degustando i
pregiati vini, progettò qui il suo "Ulisse".
Caffè degli Specchi
La data di nascita del Caffè degli Specchi fu il 1839; suo fondatore e primo
gestore fu il greco Nicolò Priovolo. Il locale venne ospitato al pianterreno
di Palazzo Stratti in quella Piazza Grande (dal 1918 Piazza dell'Unità
d'Italia) che rappresentava ieri e continua ad essere oggi il cuore della città.
Per questa sua particolare posizione, il Caffè degli Specchi diventò subito
un avamposto privilegiato per seguire tutte le vicende storico, politico,
46
economiche e culturali della città di Trieste. La metà dell'Ottocento
rappresentò, oltre che un interessante periodo di sviluppo economico,
l'inizio di quelle che sarebbero state le esaltanti lotte per la conquista
dell'italianità di Trieste e il Caffè degli Specchi sarebbe presto diventato un
covo di irredentisti. In quegli anni il Caffè degli Specchi cambiò molti
gestori e subì notevoli trasformazioni. Dopo Nicolò Priovolo, la direzione
del locale passò a due caffettieri di professione, Antonio Cesareo e
Vincenzo Carmelich che se ne sarebbero occupati per oltre cinquant'anni
(1884-1945). Nel secondo dopoguerra il Caffè degli Specchi e l'intero
Palazzo Stratti vennero requisiti dagli alleati anglo-americani. Da quel
momento, all'interno del locale vennero collocate le insegne della Royal
Navy (la marina britannica) e ai triestini non accompagnati fu fatto divieto
di frequentare il Caffè. Nel 1953 la gestione del locale fu affidata al
bergamasco Angelo Asperi, che chiuse i battenti nel 1967 per avviare
alcune opere di restauro. Tra l'altro un primo ripristino del Caffè era già
stato fatto nel 1933. Ultimato nel 1969 il rinnovo, di cui si fecero carico le
Assicurazioni Generali, proprietarie di Palazzo Stratti, il Caffè riaprì gestito
dalla società Hausbrandt, storica casa di tostatura fondata a Trieste nel
1892. Infine nel 1990, la gestione passò all' attuale Società che, con l'ultima
totale ristrutturazione del 2000 ne disegnò l'attuale fisionomia.
Il Caffè Tergesteo
Il Caffè Tergesteo fin dal 1863 si trovava di fronte allo storico Teatro
Lirico G. Verdi con tavolini all'aperto. Classico luogo di incontro e
passaggio cittadino, frequentato di giorno da uomini d'affari della vicina
Borsa e di sera dall'elite culturale della città, oggi è situato, invece,
47
all'interno della Galleria omonima, che da Piazza Verdi porta a Piazza della
Borsa. Dopo i lavori di restauro, per ricreare l'atmosfera di “fin de siècle”,
dell'originale, purtroppo, è rimasto ben poco. Da notare le vetrate colorate
che raffigurano episodi della storia triestina. Ad esso Saba dedicò una lirica
raccolta nel Canzoniere ("Caffè Tergeste... tu concili l'italo e lo slavo, a
tarda notte, lungo il tuo bigliardo").
Caffè Stella Polare
La nascita del Caffè Stella Polare, nel primo stabile sito di fianco al Canale
di Ponte Rosso che arrivava fino alla Chiesa di Sant'Antonio, risale al 1865.
Lo dirigeva Antonio Carmelich, ma nel 1910 la gestione passò a Riccardo
Leipziger e Mario Sbisà. All'inizio del 1904 il vecchio stabile sul Canale
venne abbattuto per far posto all'attuale palazzo. Allora il Caffè Stella
Polare fu sistemato, in via provvisoria, in un padiglione di legno e gesso,
sistemato di fronte alla Chiesa di Sant'Antonio Nuovo. Nel novembre di
quell'anno, al piano superiore dell'edificio, venne allestita una grande
mostra postuma del pittore Umberto Veruda, scomparso il 29 agosto dello
stesso anno. In seguito il Caffè Stella Polare venne definitivamente
sistemato al n. 6 di Piazza Sant'Antonio dove tuttora si trova. Il 23 maggio
del 1915 il locale subì una devastazione ad opera di dimostranti anti-
italiani, ma riuscì a superare anche questo brutto momento. A seguito di
tale negativa esperienza il gestore espose nelle sue sale un eloquente
cartello: "Qui non si parla di politica né di alta strategia". Il Caffè era nato
come tipico locale austro-ungarico con le classiche decorazioni di stucchi e
specchi che, seppur rovinate, si possono ammirare ancora oggi. Nel
momento del suo massimo splendore e con la sua posizione strepitosa dalla
48
quale abbracciava quattro vie, presentava un bancone in legno di ciliegio ed
era dotato di sale da biliardo, sale per le riunioni e per la lettura; frequentato
da negozianti ed intellettuali della colonia tedesca e da moltissimi letterati
sia triestini che stranieri.
Venezia
Il Caffè Florian, inaugurato il 29 dicembre 1720 sotto i portici delle
Procuratie Nuove in Piazza San Marco, può a ragione definirsi un simbolo
della città. Da 280 anni, infatti, il Florian svolge la sua attività quotidiana di
Caffè, meta di Veneziani, Italiani e stranieri che ne apprezzano l'ambiente e
il servizio impeccabile. Spesso, accanto all'affezionata clientela
internazionale, può capitare di incontrare personalità del mondo della
cultura, dello spettacolo e del jet set. Per coloro che desiderano un "ricordo
tangibile" della loro permanenza al Florian sono disponibili raffinati
prodotti che testimoniano il gusto e la storia del Caffè. Le estati del Florian
sono arricchite anche della presenza dell'orchestrina, secondo una
tradizione ormai quasi secolare. Inoltre, pur restando legato alla tradizione,
il locale organizza manifestazioni culturali di alto livello e di grande
attualità, in particolare nel settore dell'arte contemporanea.
2.3 Pasolini al Caffè: il Caffè Rosati in piazza del Popolo a Roma
Ricorda Ugo Pirro: “Al Caffè Rosati negli anni Cinquanta incontravi Pier
Paolo Pasolini ed Elsa Morante, ma anche tanti giovani pittori e cineasti,
tutti immersi in un clima di vivacità culturale che, solo a distanza di anni,
riesco ad apprezzare appieno”. Pirro, vincitore di due Oscar per Indagine su
49
un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Il giardino dei Finzi Contini,
mette a confronto gli anni Cinquanta e i tempi di oggi. E aggiunge: "Abito
in centro da tempo, a pochi metri da Piazza del Popolo. Prima stavo a
Vigna Clara e, nonostante la distanza, la sera andavo sempre a Piazza del
Popolo. Ci si vedeva al Caffè Rosati, non c´era bisogno di dire niente, non
usavamo certo il telefono per metterci d´accordo. Ci incontravamo lì e
decidevamo cosa fare. Agli inizi, nell’immediato dopoguerra, i soldi erano
pochi, dormivo in camere ammobiliate e spesso non ordinavo nemmeno un
bicchier d’acqua da Rosati. Mi sedevo ai tavoli e parlavo con gli amici, tutti
artisti, sceneggiatori, produttori e cineasti. I camerieri me lo permettevano
perché mi conoscevano e il clima che si respirava era di grande familiarità.
Parlavamo molto di cinema, naturalmente, ma anche di arte perché
amavamo la compagnia dei pittori che frequentavano Rosati. La gente di
cinema si incontrava anche dietro Via dell´Oca, nella sede dell´Anac,
l’associazione degli autori di cinema, in quegli anni molto autorevole. Qui
si discuteva delle due grandi fazioni di registi e sceneggiatori: i drammatici
e i comici. Io ero un drammatico. Ci sentivamo diversi da loro, c´era una
rivalità, artistica non umana, verso gli esponenti del comico. Non ci
convincevano, eccezion fatta per uno: Totò, il principe. Attore e mimo
eccezionale, troppo penalizzato da sceneggiature scadenti. Lui non
frequentava Piazza del Popolo, aveva ritmi di lavoro serrati, era una
persona isolata, schiva. Noi invece avevamo l´allegria e la vivacità della
gioventù, organizzavamo feste indimenticabili. Come una rimasta storica in
Via Margutta, durante la quale lo scultore Consagra conobbe la moglie,
incredula turista americana stupita dal nostro carattere festoso ed
internazionale. Con il passare degli anni migliorò la situazione finanziaria e
50
cominciammo a mangiare almeno una volta al giorno nelle osterie del
centro: da Otello alla Concordia, dal Re degli amici, da Cesaretto in Via
della Croce, e soprattutto da Menghi in via Flaminia, che faceva credito a
tutti sfamando così molti artisti spiantati”.
“Il punto di partenza – conclude - rimaneva però sempre Rosati. Lì
dibattevamo e scrivevamo soggetti, trattamenti e intere sceneggiature. E lì
restammo fino a quando non fummo costretti ad andare via: fu dopo i
tragici fatti del Circeo. I giovani di destra dai quali provenivano gli
assassini di Rosaria Lopez e i violentatori di Donatella Colasanti, che si
riunivano a Piazza Euclide, migrarono verso Piazza del Popolo in seguito
alle pressioni delle forze dell´ordine che controllavano i luoghi di ritrovo
dei pariolini di destra. Noi artisti, considerati nemici perché in larga parte
di sinistra, scegliemmo, come nuovo punto di incontro, il Baretto in Via
dell´Oca. Furono anni intensi, fatti da persone e luoghi unici. Piazza del
Popolo nel frattempo ha visto grandi comizi, manifestazioni e concerti ma
non è più tornata ad essere quello che era. Durante anni '60, Roma era in
continua ebollizione, un eden profano dove sogno e realtà marciavano
fianco a fianco. All'euforia generale si abbandonavano molti giovani, rapiti
dal fuoco sacro dell'arte. Tra loro Angeli, Festa, Schifano, soprannominati
da Plinio de Martiis, «i maestri del dolore, perché erano sempre vestiti di
nero, con la puzza sotto il naso e l'aria stanca e annoiata». I tre si vedevano
al Caffè Rosati di piazza del Popolo, luogo privilegiato del dibattito
culturale e amato dalla bohème nostrana. Nella Roma degli anni '60, luoghi
di ritrovo erano anche la libreria Al Ferro di Cavallo, o La Tartaruga di de
Martiis, gallerista «da tartufo» e inviato speciale di quel mondo. Altra sede
storica, Palazzo Taverna, che ospitava gli «Incontri internazionali d'arte»,
51
voluti dalla padrona di casa Graziella Lonardi Buontempo, con la
partecipazione di critici, artisti e intellettuali: da Pier Paolo Pasolini ad
Alberto Moravia, presidente dell'Associazione, a Giulio Carlo Argan.
2.4. La Roma dei Caffé Letterari
Parlare dei caffè letterari a Roma nell’antico caffè
Greco [qui a sinistra, l'ingresso dell'antico Caffè
Greco a Roma] è anche ricollegarsi alla idea
dell’Europa e della sua grande tradizione culturale
dei secoli scorsi. Nel 2000, essa può rinascere
grazie alla Comunità europea, che stabilisce un
rapporto unitario tra i Paesi e gli Stati del
continente. [...]
George Steiner, studioso di fama internazionale, ha scritto in un libro
pubblicato dal Nexus Institute di Amsterdam, definito da Mario Vargas
Llosa “ingegnoso e provocatorio”, che “L’Europa è i suoi caffè, quelli che i
francesi chiamano cafés. Dal locale di Lisbona amato da Fernando Pessoa
ai cafés di Odessa frequentati dai gangster di Isaac Babel. Dai caffè di
Copenhagen, quelli di fronte ai quali passava Kirkegaard nel suo
meditabondo girovagare fino a quelli di Palermo. Non si trovano caffè
atipici a Mosca, che è già la periferia dell’Asia. Ce ne sono pochissimi in
Inghilterra, dopo una fugace moda nel Diciottesimo secolo. Non ce ne sono
nell’America del Nord, con l’eccezione dell’avamposto francese di New
52
Orleans. Basta disegnare una mappa dei caffè, ed ecco gli indicatori
essenziali dell’ idea di Europa’”. Da questo punto di vista, l’antico caffè
Greco di Roma è proprio l’esempio italiano
della tesi di Steiner e cioè del rapporto vivo tra
la cultura europea e alcuni dei suoi più celebri
rappresentanti che lo hanno frequentato e lo
frequentano ancora oggi. Ma in verità tutti i
caffè romani, che si possono definire letterari,
sono stati e sono le sedi di incontri tra scrittori
ed artisti italiani e stranieri. In un certo periodo
della seconda metà del Novecento, hanno avuto
quasi lo stesso ruolo di redazioni di giornali o
delle case di produzione cinematografiche. Soprattutto, sono stati i centri
dove si è svolta e si è manifestata per alcuni anni quella “società della
conversazione” che caratterizzava il secolo d’oro francese del Settecento e
che in qualche modo è proseguita fino alla metà degli anni Sessanta in
Italia, a Roma. Per anni, dal Cinquanta in poi, per esempio si andava da
Rosati o da Canova in piazza del Popolo dove letterati e artisti si
incontravano per parlare anche di lavoro: quante idee di libri, di
sceneggiature di film, quante discussioni che finivano allora sui giornali
sulle tendenze artistiche e letterarie sono nate qui.
Il Caffè Greco di via Condotti, dove si affollano oggi i protagonisti del
turismo di massa è stato fino alla seconda metà del Novecento il punto di
ritrovo dei poeti, scrittori e artisti italiani. Ogni mattina andava a bere il
cappuccino Giorgio De Chirico, il quale soleva dire che “il Caffè Greco è
l’unico posto dove ci si può sedere e aspettare la fine del mondo”. C’è una
53
celebre fotografia degli anni Quaranta dove si vedono seduti quasi in posa
ai tavolini, Goffredo Petrassi, Mirko, Pericle Fazzini, Mario Soldati Mafai,
Carlo Levi, Afro, Renzo Vespignani, Vitaliano Brancati, Sandro Penna,
Lea Padovani, Orson Welles, Orfeo Tamburi, Ennio Flaiano, Libero De
Libero, Aldo Palazzeschi. “C’eravamo un po’ tutti - ricorda il pittore
Renato Guttuso - e ci andava anche Moravia”. Il Caffè Greco è uno dei più
antichi caffè d’Europa insieme al Procope di Parigi e al caffè Florian di
Venezia. Il suo aspetto non era molto differente da quello odierno, come si
può vedere da un acquerello del 1852 del pittore Passini conservato ad
Amburgo [e dal dipinto di Vladimir Petinow riprodotto qui a sinistra]. Ha
mantenuto le stesse caratteristiche nell’arredo e nei tavolini ricoperti da
marmi antichi, nelle salette piene di opere d’arte, foto e oggetti che
testimoniano della sua storia. Re, regine, marajà, scrittori, poeti,
compositori, attori, cantanti, persino capi pellerossa e cowboy come il
celebre Buffalo Bill ne sono stati assidui frequentatori.
Fondato nel 1760 da Nicola della Maddalena, forse un levantino, donde il
nome del locale riferito alla sua nazionalità greca, probabilmente esisteva
già da alcuni anni. Giacomo Casanova ricorda nelle sue memorie che nel
1743, quando era a servizio del cardinale Troiano Acquaviva (e anche della
sua bella nipote), entrò con alcuni amici romani nel “Caffè di strada
Condotta”. Ma il primo documento ufficiale risale al 1760: si tratta di una
nota del censimento di quell’anno contenuta nel “Libro dello stato delle
anime” della Parrocchia di San Lorenzo in Lucina (conservato
nell’Archivio del Vicariato) in cui risulta il nome di “Nicola di Maddalena,
greco”. La notorietà del Caffè Greco ebbe inizio nel 1779 quando cominciò
ad essere frequentato da Johann Wilhelm Tischbein, Karl Philipp Moritz in
54
compagnia del loro grande amico Wolfgang von Goethe - il quale abitava a
poca distanza al numero 20 di via del Corso. Ben presto divenne luogo
preferito d’incontri di artisti germanici, tanto che lo scrittore Johann Jakob
Wilhelm Heinse ne propose la denominazione di “Caffè Tedesco”. Il suo
successo si consolidò nel 1806 quando, a causa del blocco continentale
imposto da Napoleone per combattere gli inglesi, il prezzo del caffè salì
vertiginosamente. Tutti i caffettieri di Roma, volendo mantenere fermo il
prezzo di ogni tazza, si arrangiarono con i ceci, la soia o le castagne. Il
proprietario del Caffè Greco, al contrario, utilizzò sempre vero caffè, ma lo
servì in tazze molto più piccole (le stesse di oggi: tazzine cerchiate di
arancio servite da camerieri ancora come un tempo in frac), e raddoppiò il
prezzo. Il XIX secolo fu l’epoca d’oro del celebre locale e alle pareti sono
esposte le numerose opere di artisti italiani e stranieri che lo frequentarono,
tra cui quelle di Antonio Mancini, Ippolito Caffi, Franz Ludwig Catel,
Enrico Coleman, Massimo D’Azeglio, Angelica Kaufmann. In fondo al
locale c’è quasi “inaspettata” sia per grandezza che per bellezza la sala
rossa con pareti damascate, la statua di un fauno e sotto la finestra il divano
dove si sedeva Hans Christian Andersen. Ora vi si riuniscono varie
associazioni culturali tra cui il gruppo dei “Romanisti”, studiosi della storia
di Roma e poeti in dialetto romanesco.
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L’elenco degli avventori famosi è quasi interminabile. Del Caffè Greco
furono ospiti regnanti e principi della Chiesa quali Luigi I di Baviera e
Gioacchino Pecci, il futuro papa Luigi XIII47
. Gli scrittori e artisti stranieri
apprezzarono in modo particolare una speciale scatola in legno posta
all’entrata che permetteva di ricevere la corrispondenza. Per il suo carattere
storico, il Caffè Greco, che continua ad essere
frequentato da artisti e letterati da ogni parte
del mondo, è stato sottoposto a vincolo nel
1953 dal ministero della Pubblica Istruzione e
dichiarato monumento di interesse storico. Un
altro caffè che ha avuto una notorietà europea
perché accoglieva intellettuali ed artisti
stranieri attratti dalle bellezze della Città
eterna è il Caffè Notegen, aperto nel 1880 in
via del Babuino 159, dallo svizzero Jon
Notegen che gli ha dato il nome e che impiantò nei locali sottostanti anche
una fabrichetta di marmellata. Il periodo di maggior fama è negli anni
Trenta, quando diventò ritrovo di personalità artistiche italiane e straniere
che continuarono a frequentarlo anche nel secondo dopoguerra fino agli
anni Ottanta. Ne furono clienti: Mario Mafai, Cesare Zavattini, Ennio
Flaiano, Mino Maccari, Carlo Levi, Renato Guttuso, Schifano, Novella
47
. Tra gli scrittori stranieri: Nicolaj Gogol che a quanto si racconta vi scrisse una parte delle Anime
morte; René de Chateaubriand, Adam Mikewicz e Stendhal, che vi si recava spesso. Lo storico Ippolyte Taine, Arthur Schopenhauer, Mark Twain, George Byron, Percy B. Shelley, che abitava poco distante, e
il giovane poeta inglese Keats, che aveva preso casa al numero 26 di piazza di Spagna dove morì . Fra
gli italiani: Carlo Goldoni, Giacomo Leopardi, Gabriele D’Annunzio. Pittori e scultori quali: Jean Baptiste Corot, Friederich Overbeck, Antonio Canova, Orazio e Carlo Vernet, Jean A. Ingres, Berthel
Thorvaldsen, Anselm Feuerbach, Henry Regnault; numerosi musicisti, tra cui Franz Liszt, Hector
Berlioz, George Bizet, Gioacchino Rossini, Jacob Mendelssohn, Giovanni Sgambati, Arturo Sgambati, Arturo Toscanini, Charles Gounod, Richard Wagner.
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Parigini, Ugo Attardi. Negli ultimi anni del Novecento e fino ad oggi, dopo
un periodo di eclisse, per merito di Reto e Teresa Notegen, il caffè
promuove presentazioni di libri, mostre di artisti, dibattiti su scrittori
contemporanei e letture di poesia. Durante la prima metà del Novecento
fino alla fine della seconda guerra mondiale, il caffè più in voga tra letterati
e artisti è stato il caffè Aragno in via del Corso, oggi trasformato in una
rosticceria. Come ricorda Arnaldo Frateili che lo frequentò, e che ha scritto
un libro pubblicato da Bompiani intitolato “Dall’Aragno a Rosati”48
, nella
celebre terza saletta si riunivano scrittori e poeti come Bruno Barilli,
Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Arturo Onofri, Rosso di
Sansecondo, Umberto Fracchia. Da un loro cenacolo, sul quale posavano
uno sguardo benevolo alcune divinità maggiori o minori della nuova critica
sensibile al verbo crociano (Emilio Cecchi, Alfredo Gargiulo, Goffredo
Bellonci, ecc.) nacque la rivista Lirica che, anche in una città sorda e
distratta come Roma, contò qualche cosa se non altro come antesignana
della Ronda. Questi giovani, che coltivavano la prosa d’arte oltre alla
poesia libera dai vecchi schemi, inauguravano il gusto del “frammento” ed
erano lanciati alla scoperta delle letterature straniere. Così la letteratura
romana si sprovincializzava, tra le prime clamorose esplosioni delle bombe
futuriste.
All’Aragno nei primi anni Quaranta c’erano giornalisti che facevano la
fronda al fascismo in maniera più o meno aperta, come Mario Pannunzio,
che doveva diventare direttore prima del quotidiano “Risorgimento
liberale” poi del prestigioso settimanale “Il mondo”, con Sandro De Feo,
48. Arnaldo Frateili: Dall'Aragno al Rosati: Ricordi di vita letteraria. Milano, Bompiani 1964
57
Ercole Patti e Mario Missiroli, celebre direttore prima del “Messaggero” e
poi del “Corriere della Sera”. Da lì, alla caduta del fascismo il 25 luglio del
‘43, Mario Pannunzio, insieme con altri giornalisti, si mosse per occupare
la redazione del “Messaggero” e far pubblicare in prima pagina la notizia
della cattura di Mussolini e della fine del regime. Tante volte nella terza
saletta c’erano stati battibecchi tra qualche gerarca fascista e gli allora
giovani giornalisti e scrittori che parlavano male del regime. Da Aragno,
negli anni del secondo dopoguerra, prima che lo storico caffè fosse ceduto
ad Alemagna, il produttore dei panettoni milanesi, si poteva incontrare
ancora Bruno Barilli che, consumando un cappuccino, scriveva su un
quaderno alcuni dei suoi versi o delle sue raffinate pagine sulla vecchia
Roma. Questi personaggi erano anche tra i frequentatori della sala da tè
Babington a Piazza di Spagna, che fu fondata nel 1893 da Isabel Cargill e
Anna Maria Babington. Queste due signorine inglesi di buona famiglia
erano venute a Roma con l’intento di aprire una sala da tè e di lettura per la
comunità anglosassone, quando ancora il tè poteva essere acquistato solo in
farmacia. Inizialmente, la sala venne aperta in via Due Macelli, ma visto il
grande successo l’anno seguente fu trasferita in piazza di Spagna nel
prestigioso palazzo adiacente alla scalinata di Trinità dei Monti. Da allora,
la sala da tè è rimasta pressoché invariata e continua a essere testimone
discreta di eventi storici e culturali. Sopravvissuta a due guerre mondiali, e
all’avvento del fast food, Babington ha ospitato famiglie reali, politici,
giornalisti e personaggi della cultura e dello spettacolo. Ancora oggi,
quando si apre la porticina a vetri con sopra disegnato un gatto nero con il
collare rosso e il campanello fa ding, ci si sente trasportati magicamente nel
sud Kensington del XIX secolo. È stata meta, prima dell’ultima guerra, di
58
nobili inglesi e di artisti di ogni nazionalità che si sono mescolati poi nel
secondo dopoguerra con molti letterati come Elsa Morante e Giorgio
Bassani e giornalisti romani. Una fine poetessa recentemente scomparsa,
Biagia Marniti, che lo frequentava nel dopoguerra è stata una delle
protagoniste della rinascita della vita culturale a Roma dove si ristampava
“La Fiera letteraria” ed era nato, nel salotto Bellonci, il gruppo degli “amici
della domenica” che ha creato nel 1947 il Premio Strega, il più prestigioso
premio letterario italiano. Ecco come la Marniti descrive l’ambiente di
Babington: “In piazza di Spagna, da Babington, continuavano ad
incontrarsi Bruno Barilli e Vincenzo Caldarelli, Giacomo Natta e Luigi
Diemoz, Bruno Fonzi e Velso Mucci che dirigeva una rivista problematica
come Il costume politico e letterario (1945-1950). Al gruppo si
aggiungevano saltuariamente Alfredo Zennaro, Biasi, Nicola Ciarletta,
Marcello Pagliero e altri giornalisti che amavano discutere vivacemente di
letteratura, di teatro e di politica. Erano intellettuali di varie tendenze:
anarchici e comunisti, socialisti, liberali e individualisti e, fra battute,
paradossi, fra notabili e antinotabili, l’intelligenza scintillava fra una tazza
di tè e, chi poteva permetterselo, un pasticcino. Si viveva di carne in
scatola, di latte, di pane raffermo, di castagnaccio, di noccioline, di olive, di
castagne arrostite e sigarette fatte a mano. Erano mesi di dignitosa povertà,
e dopo tante sofferenze e amarezze, erano densi di iniziative fluttuanti fra
gli estremi lampi di una bohème che stava per scomparire. L’unica certezza
era l’essere vivi, l’essere in buona salute. Si cercava un lavoro e si avevano
cento idee”.
59
Dice Giovanni Russo: “Posso portare sui caffè letterari romani della
seconda metà del Novecento una testimonianza personale49
,”. Non si
possono trascurare per esempio, fino agli inizi degli anni Novanta, le
lunghe serate al bar del Plaza con gli amici come il poeta Michele Parrella,
lo scrittore Piero Buttitta, l’editore Cesare De Michelis e il fratello Gianni.
Famosa è la distinzione che faceva Flaiano, a proposito degli intellettuali
che si incontravano dopo la cena, fra diambuli e nottambuli, i quali ultimi
erano quelli disposti a superare la mezzanotte. Prima di cena si andava a
prendere l’aperitivo in via Condotti al “Baretto”, che poi fu, alla fine del
Novecento, quasi di soppiatto trasformato in una boutique con grande
rammarico di giornalisti e politici che vi si incontravano, da Giorgio
Spadolini - cugino del più famoso Giovanni - a Giulia Massari, che hanno
poi scelto di rifugiarsi al bar dell’Hotel d’Inghilterra. Il sabato e la
domenica una meta letteraria per un caffé o un aperitivo prima di pranzo
erano e rimangono i caffé all’angolo tra Campo dei Fiori e piazza Farnese.
Ma il luogo principale di incontro è stato e rimane piazza del Popolo. Nel
mio libro50
c’è proprio un capitolo intitolato “Andavamo a piazza del
Popolo”, dove cito i calembours e i soprannomi che venivano appioppati ai
frequentatori di Canova e di Rosati e di cui vorrei citarne alcuni.
Da Canova o da Rosati, appena arrivato dalla provincia nel dopoguerra,
seduto al tavolo con Mazzacurati o Vincenzo Talarico o Sandro De Feo,
alcuni di quei soprannomi li ho visti nascere o li ho ascoltati dalla voce dei
protagonisti. Per esempio, il motto “mi spezzo ma non mi spiego” con cui
Mazzacurati definiva l’inflessibile critico d’arte Argan, io lo ricordo detto
49. Cfrr. “Con Flaiano e Fellini in via Veneto - Dalla Dolce vita alla Roma di oggi” Rubbettino, 2005. 50. ibid
60
da Flaiano a proposito di se stesso così variato: “Mi spezzo ma non
m’impiego”. E credo che la battuta “La terra ai carandini”, deformazione
dello slogan comunista “La terra ai contadini”, sia nata tra Flaiano e Mezio
nel salotto del “Mondo” frequentato dal “proprietario” Nicolò Carandini,
proprietario della tenuta di Torre in Pietra. L’epigramma di Flaiano
suonava così: Il conte Carandini fermo come Torre in Pietra che non crolla
lancia il manifesto della nuova Internazionale “Agricoltori di tutto il mondo
unitevi - la terra ai Carandini”. Mazzacurati, la sera quando usciva dal suo
studio di scultore, con la sua aria impassibile, il bel volto in apparenza
soave, si sfogava genialmente sia pure indulgendo qualche scurrilità.
Apprendo da Caruso che per esempio il “Vecchio tastamento” a proposito
del buon Ciccio Trombadori, che troneggiava da Rosati, o “La picassata
alla siciliana” per Guttuso - e trascuro altre variazioni su Picasso - sono di
Mazzacurati insieme a molti altri “calembours” e giochi di parole. Così
“L’amaro Gambarotta” per Moravia o “Il profeta del passato” per
Pannunzio, (ma era più diffuso, forse per il suo aspetto imponente e per il
suo silenzioso distacco, un altro soprannome: “Il piedone”) sono dello
stesso autore. Si potrebbe aprire - come del resto s’è aperto - un dibattito
sulla paternità dell’uno o dell’altro doppio senso di Mazzacurati, come per
esempio, a proposito di un pittore qui anonimo, il forte “Latrin lover”, e
“L’incantatore dei sergenti” per Filippo De Pisis. In un altro capitolo,
Giovanni Russo racconta l’atmosfera nel secondo dopoguerra del Caffè
Rosati: “Nel secondo dopoguerra, Rosati è stato quello che, fino alla metà
degli anni Quaranta per gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti, erano stati
Aragno e il Caffè Greco. Tutto il mondo letterario ed artistico ruotava
intorno a questo Caffè di piazza del Popolo, anche se il suo omonimo di via
61
Veneto attirava d’inverno registi, scrittori, giornalisti e politici, da Saragat
ai produttori De Laurentis e Ponti.”
“I ritmi e le frequenze cambiavano secondo gli orari delle giornate e delle
stagioni. Si andava da Rosati a piazza del Popolo a bere l’aperitivo e le
signore della buona borghesia andavano la domenica a comprare le paste
dopo la messa, mentre negli altri giorni il pomeriggio prendevano il té”.
“Quanti soprannomi celebri sono stati
inventati da Vincenzino Talarico, da
Mazzacurati, da Flaiano, da Franco
Monicelli, sedendo ai tavolini dove
affilavano le loro linguacce prima di
disperdersi per la cena”.
“L’estate era il trionfo di Rosati. Qui, col
ponentino, la sera, fino agli inizi degli anni Settanta, dopo cena, tutti
venivano a prendere il gelato o una bibita fresca e a conversare, parlando
dell’ultimo film e del libro di Pasolini o di Bassani o di Arbasino o della
Morante, o degli avvenimenti politici interni ed internazionali, su cui si
accanivano Sandro De Feo ed Ercole Patti, anche se essi d’inverno
preferivano gli angoli raccolti, come una grotta accogliente, del Caffè di
fronte, Canova”.
“Ho nella mente come un dagherrotipo delle prime serate che ho trascorso
da Rosati in cui ricordo i vari gruppi. Alberto Moravia che con la moglie
abitava in via dell’Oca, la stradina che sbocca in Via Ripetta subito dopo
62
piazza del Popolo, ne è stato, tranne che negli ultimi anni, un frequentatore
abitualissimo. Vi faceva, per così dire, casa e bottega. E la sera insieme alla
moglie Elsa Morante, con Pasolini e con gli scrittori più giovani alle prime
armi, da Siciliano ad Arbasino, o con amici che arrivavano da Milano o da
Firenze, da Soldati a Vittorini e l’editore Bompiani, si davano
appuntamento ai tavoli di questo Caffè.
In un tavolo in prima fila, da solo o con l’amico Francalancia, sedeva il
pittore Francesco Trombadori, talvolta insieme con De Chirico, Guttuso,
Bartoli e Maccari. Dall’altra parte dei tavoli, dopo le 23 c’erano Mario
Pannunzio, Libonati, Carandini, il gruppo del “Mondo” a cui si aggregava
volentieri talvolta Rossellini, e poi veniva Fellini per vedere Flaiano.
Nasceva in quelle ore una specie di gioco di parole e di sguardi: da tavolo a
tavolo si intrecciavano discorsi. Allora Rosati chiudeva verso le una e
mezza o le due di notte ed i tavoli rimanevano fuori, e ad essi, con
Ciarletta, Bonanni, Alfredo Mezio e talvolta anche con un gruppo di
fotografi tra cui Pasquale Prunas, si arrivava fino alle tre o alle quattro a
guardare il cielo terso, quasi trasparente. Passava un vecchio con un secchio
con Coca Cola e i lupini perché il bar era chiuso e compariva di volo
Sandro Penna”. “Dopo questo dagherrotipo tra gli anni ’59 e ‘ 60 scattano
altre foto nella memoria del tempo. Simone di Beauvoir e Sartre che
stavano a parlare come due ragazzini al tavolo mentre arrivava Carlo Levi
da Villa Strohl Fern con la sua “1100” nera. E i giovani pittori, purtroppo
consumatisi nella loro vita dispendiosa, come Franco Angeli con Marina
Lante della Rovere ed il suo amico Festa, e il gallerista Plinio con Dorazio,
Turcato, Consagra, Nino Franchina, Cascella. C’era alle 19 una gran folla
nella saletta, file al telefono come ancora oggi, e si mischiavano gli
63
architetti famosi, da Luccichenti che costruì la villa della Petacci alla
Camilluccia, a Monaco, a Minciaroni”. “Altri flash con gli attori: da
Vittorio Caprioli a Franca Valeri a Carlo Mazzarella tra cinema, tv e
giornalismo, a Gassman. C’è stato un momento negli anni Sessanta in cui
accanto ad artisti e scrittori italiani c’erano famosi personaggi stranieri,
come lo scrittore svizzero Max Frisch ed il pittore olandese De Kooning
oltre a stupende ragazze, come una molto bella amica di Pollock. I flash
potrebbero continuare: forse quell’epoca di Rosati si può cogliere bene nei
versi del poeta Michele Parrella che vi veniva allora con Leonardo
Sinisgalli: “Era il tempo dei convogli e degli abbracci / Il mondo era là in
quella vecchia vetrina opaca / e tutti i nostri nomi ancora intatti / quando i
sogni nacquero e si infransero”. Da Rosati sono nati amori e progetti
televisivi, soggetti di film, inchieste giornalistiche, polemiche politiche.
Rosati è stato fino agli anni della TV un luogo cosmopolita, un centro dei
protagonisti del successo letterario ed artistico e dei giovani che vi
aspiravano.
“Certo, nel Settanta c’è stata una certa decadenza. Il pittore Bruno Caruso
racconta in un suo libretto che Flaiano e Mazzacurati incontrandosi una
sera a piazza del Popolo e voltandosi a guardare verso il Caffè affollato di
giovani sconosciuti con blue-jeans e capelli lunghi diceva: “Credono i
essere noi”. Era il periodo delle comparse dei film western all’italiana”. Tre
anni fa Rosati è stato restaurato, identico a come era prima, con i mobili
fatti rinnovare a Firenze dove erano stati costruiti. Continua Russo: “È
tornato come prima, come una volta. Roma certo è cambiata ma sarebbe
travolta se Rosati fosse trasformato in un Caffè postmoderno o alla moda.
Forse il modo migliore per dire quello che Rosati dovrebbe essere è citare
64
questi versi di Antonello Trombadori, scritti quando Rosati fu rinnovato e
restaurato. “S’ariapre Rosati, allegramente! M’ero messo pavura che
chiudeva / domani invece ce sarà più gente /de quanta prima già se lo
godeva / In tempi de talento scarseggiante / un Caffè con la Storia su le
mano / è un richiamo /’ no specchio stimolante”. In un altro capitolo,
intitolato “Quando l’arte nasceva a piazza del Popolo”, Russo cita un libro
di Andrea Tugnoli che ricostruisce la vicenda di quel gruppo di artisti che
animarono negli anni Sessanta la vita artistica romana. Quei pittori che si
radunavano intorno al caffè Rosati: Schifano, Angeli, Festa, Giosetta
Fioroni, Bignardi, Ceroli, Mambor, Lombardo, Tacchi, Kounellis, Pascali,
erano al centro di un’attività artistica che rendeva Roma negli anni ’50 la
città che faceva concorrenza a New York e Parigi. Quello che pochi sanno
è che erano gli artisti americani a venire a Roma a spiare e curiosare, dal
famoso Rauchenberg a De Kooning. È un libro, quello di Tugnoli, che
permette di collocare questo fenomeno romano nella giusta prospettiva al di
fuori degli schemi e delle mode dell’epoca. Nella prefazione Maurizio
Calvesi sottolinea il contributo che questi artisti hanno dato all’arte italiana
nella seconda metà del secolo. “La scuola di piazza del Popolo” ne
rappresenta un aspetto importante e, nello stesso tempo, un momento
significativo della storia delle capitale che testimonia della vivacità
culturale e artistica di Roma negli anni ’60. Anche se può suonare come il
vezzo della nostalgia del passato, via Veneto, per chi la frequentava
all’epoca sua più gloriosa che fu dagli anni Cinquanta alla metà degli anni
Sessanta, è stata anche il simbolo, nel bene e nel male, di una Roma che
usciva dalla guerra e dalla fame, di un Paese che aveva la volontà di
ricostruire e di godere dei piaceri della vita. Sento ancora nel palato il
65
sapore dolcemente amaro del primo bicchiere di baby (whisky Ballantine)
che, era la fine degli anni Quaranta, assaporavo al bancone di Rosati in via
Veneto con il premuroso barman Valentino. Si facevano le ore piccole,
chiacchierando attorno ai tavolini dei caffè già chiusi mentre c’era la brezza
del ponentino che allora rendeva tollerabile trascorrere il luglio e l’agosto a
Roma. Via Veneto frequentata da attrici famose, come Lana Turner, da
attori come Marlon Brando, era balzata a notorietà internazionale subito
dopo la guerra, anche perché gli ufficiali alleati che alloggiavano
all’Excelsior e negli altri alberghi frequentavano l’Harry’s Bar, Rosati poi
diventato Carpano e il Caffè Strega.
Chi ha letto “L’Orologio”51
di Carlo Levi sa come Roma visse quell’epoca
del dopoguerra, con quanta effervescente vivacità e creatività. In via
Veneto Rossellini ideò i suoi primi film, qui Mario Pannunzio con Franco
Libonati e gli altri amici de “Il Mondo”, con Paolo Monelli e Vittorio
Gorresio, discutevano di film, di libri, dell’ultimo romanzo di Moravia o
delle battaglie politiche per la democrazia. Certo non basta trasformare gran
parte di via Veneto in un’isola pedonale, far suonare ad un’orchestrina le
musiche degli anni Sessanta (e perché no, quelle della fine degli anni
Quaranta e degli anni Cinquanta) per restituirle quel tocco irripetibile, ma è
anche significativo, in questo momento che rassomiglia psicologicamente a
quell’epoca in cui da poco era finito un regime, il proposito di far rinascere
questa strada che sembrava ormai abbandonata al degrado. Non ci si può
certo illudere che, come per miracolo, ritornino i fantasmi di quel tempo.
51
. Carlo Levi, L'orologio, Einaudi, 1989
66
Erano i tempi in cui lo Scià, scappato dall’Iran dove doveva poi tornare
fino alla rivoluzione komeinista, stava all’Excelsior con Soraya.
2.5 Verso Praga
Caffè Arco
Era il luogo d'incontro del gruppo di autori di lingua tedesca che si
raccoglieva, dal 1908 in poi, intorno a Franz Werfel (tra cui Willy Haas e lo
scrittore e pittore Alfred Kubin) che qui, dopo i primi successi, leggeva le
sue opere. Lo frequentavano anche Ernst Pollak, Milena Jesenská, Johannes
Urzidil, Otto Pick, Egon Erwin Kisch, Paul Kornfeld, Hugo Salus, Max
Brod, Oskar Baum e, saltuariamente, Franz Kafka. Qui egli fece nel 1912
conoscenza con Rudolf Fuchs.
Esiste ancor oggi, all'angolo tra Hybernska e Dlazdena, ma già fin dalla
fine della prima guerra mondiale ha perso, insieme ai vecchi frequentatori,
il significato e l'aura di un tempo.
Caffè Savoy
Era un piccolo e misero caffè ai margini del ghetto ebraico. Qui nel 1911-
1912 si tennero le rappresentazioni di una compagnia di attori di teatro
yiddisch, tra cui Isak Löwy, di cui Kafka divenne grande amico.
67
Caffè Union
Era un caffè notissimo, vi si riunivano gli intellettuali di lingua ceca, tra cui
Karel Capek, uno dei fondatori del gruppo artistico Devetsil. L'intero
edificio, all'angolo tra Narodnji Trida e Na Perstyne, fu abbattuto nel 1949.
Caffè Louvre
Era ed è un caffè centrale ed elegante, aperto nel 1902 e chiuso durante il
periodo comunista. Riaprì nel 1992 e, se non vi fate intimorire da un
ingresso piuttosto anonimo, salendo al primo piano vi sembrerà di ritrovare
le atmosfere di un tempo, in un locale con grandi sale eleganti e un servizio
all'altezza della sua fama. All'inizio del secolo vi si incontrava piuttosto
saltuariamente il gruppo interessato alla filosofia di Franz Brentano, lo
stesso che frequentava il salotto di Berta Fanta. Il gruppo fu frequentato
inizialmente anche da Max Brod, Felix Weltsch e Franz Kafka, che in
seguito preferirono frequentarlo solo per i loro incontri personali e per
reciproche letture. Il Cafè Louvre si trova al 20 di Narodnji Trida.
Caffè Edison
Prese questo nome in seguito ad una visita di Edison in viaggio a Praga.
Qui occasionalmente si incontravano Kafka e Urzidil, che alla storia di
questo locale ha dedicato un suo saggio in "Di qui passa Kafka".
68
2.6 Sviluppi futuri
Un tempo c'erano i caffè letterari, fumosi, creativi, passionali ritrovi nei
quali scambiarsi idee, leggere racconti, confrontarsi. Ora questi luoghi sono
su Internet, vanno di moda e finiscono recensiti sui libri. Intorno a loro gira
una comunità di giovani, con la passione per la scrittura e per la letteratura,
molto spesso aspiranti scrittori. E' la rete infatti che accoglie la tradizione
letteraria e diventa luogo di scambio aperto, quasi sempre privo di censura
così il web diventa luogo in cui non solo parlare di letteratura ma anche
pubblicare letteratura. Il nome che li identifica e' blog, collettivi o a
titolarità singola, riviste on line e aperti che si basano, sui contributi
esterni.
69
CAPITOLO TERZO
Lettere Caffè:
il primo franchising cultura
70
71
Un’idea il cui momento sia giunto
è più forte di tutti gli eserciti del mondo
Victor Hugo
72
73
3.1 Le origini: dal 1999 ad oggi
Il Lettere Caffè, inaugurato a Roma nel Dicembre 1999, in Via di San
Francesco a Ripa al numero 100, rappresenta il primo esempio romano di
nuovo caffè letterario. Può contare già dal suo esordio, su personalità di
tutto rispetto nel mondo culturale italiano: Riccardo Mannelli, disegnatore
de “La Repubblica”, Enza Li Gioi, brillante esperta in comunicazione e
marketing e un comitato scientifico e di assidui frequentatori che vanno da
Maurizio Costanzo a Margherita Hack, da Massimo Bucchi ad Oliviero
Beha. Il caffè, originariamente sorto per ospitare anche la redazione della
rivista “Lettere – il mensile dell’Italia che scrive” si troverà presto
proiettato nella programmazione che conta nella scena artistica della
capitale, ospitando concerti di musica dal vivo, presentazioni editoriali,
reading letterari, dibattiti e quant’altro sia riconducibile al fermento
culturale della capitale.
La rivista “Lettere” stampata da Pineider, già nota come fornitore ufficiale
di carta da lettere e materiali cartacei in genere per la casata reale inglese,
intende ospitare tra le sue pagine il meglio dell’epistolarità italiana del
momento. I lettori della rivista, eterogenei quanto originali, si affollano e si
ingaggiano in pagine e pagine di lettere e commenti-confessioni che fanno
della rivista un unicum nel panorama culturale italiano di fine anni ’9052
.
52. Andando ad analizzare il comitato scientifico che compone la rivista possiamo scovare tra gli altri:
Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Franco Grillini, Elena Gianini Bellotti, Vittorio Sgarbi, Monica Vitti,
Carmen Llera Moravia, Mario Monicelli, Paolo Rossi, Elio Toaff, Mariuccia Mandelli (Krizia) e una
seria di altri interventi editoriali da Paolo Pietrangeli a Beppe Vigna, da Francesca Reggiani a Gino
Strada, Nicola Tranfaglia, Giga Melik, Vauro e molti, moltissimi altri.
74
La rivista, circa 80 pagine fitte e stampate su carta da oltre 120 grammi, si
divide in sezioni e spazi ben delimitati: un editoriale che descrive il numero
che si andrà a leggere, una serie di lettere di autori più o meno noti e
destinatari ugualmente noti o sconosciuti ai più, ricordi e atmosfere da
rotocalco d’autore. E poi: cinema, interviste, inchieste, appunti di viaggio,
arte, scienza, memorie, annunci, pensieri, aforismi, cartoline. Ma
soprattutto: Epistolario parte I, II e uno spazio denominato Lettere &
Lettere. Importante per capire lo spirito di una redazione-club del genere è
anche l’analisi del luogo in cui il caffè sorge: Trastevere.
Luogo di poveri carbonai e umili artigiani che dagli anni ’70 in poi diventa
fulcro della vita culturale romana, soprattutto underground, sommersa.
Trastevere, quartiere che nel suo nome porta una divisione storica e
toponomastica rispetto al Centro di Roma, quello bene, dei palazzi sia di
governo sia di dinastia, è idealmente diviso dal suo lungo e largo Viale, di
Trastevere appunto che in un flusso continuo di automobili e scooter, ci
conduce fino a Largo di Torre Argentina coi suoi ruderi imperiali e i suoi
teatri, librerie e colonie feline. Trastevere, da questa parte di San Francesco
a Ripa ospita via Anicia, scenario storico dell’uccisione di Anna Magnani
nel film Roma città Aperta, la chiesa di San Francesco d’Assisi che ospita i
resti di Giorgio De Chirico e l’estasi di Santa Teresa del Borromini, opera
d’arte scultorea mondialmente nota. Il cinema Sacher, della Sacher
Production (del regista Nanni Moretti), una taverna greca (Akropolis), il
Big Mama (blues club storico della capitale con oltre 20 anni di onorata
attività) e una storica enoteca, Bernabei. In uno scenario del genere, Lettere
Caffè sorge sotto i migliori auspici e infatti conquista subito un ruolo
centrale nel palinsesto notturno dei romani. Oltre all’arte della performance
75
trova spazio l’arte culinaria, specialità friulane e mitteleuropee e vini del
Collio o comunque del nord-est italiano. L’orario di apertura, dalle 14 alle
02.00, fa si che gli avventori del caffè possano, durante l’intera giornata,
trovare il proprio angolo di cultura e serenità interiore che sembra sempre
più mancare in una capitale tanto caotica quanto assetata di cultura,
soprattutto non ufficiale. Le figure fondamentali che agiscono all’interno
del Lettere Caffè si possono riassumere in: direttore artistico,
amministratore, addetto stampa e camerieri (anch’essi artisti col dono
dell’arte materiale) che fanno del caffè un posto davvero originale. Così
mentre sulle pagine della rivista scorrono nomi illustri e comparse che
diventeranno presto nomi noti, nel caffè si alternano i migliori musicisti
della capitale che finalmente trovano un luogo dove esprimersi, a misura
d’uomo e d’artista. Gli artisti, dai musicisti ai pittori, ai fotografi vanno a
comporre il pubblico e al tempo stesso diventano i protagonisti dell’attività
quotidiana del caffè. Nella sua cospicua rassegna stampa il Lettere Caffè
attraversa trasversalmente tutti gli ambienti e le testate della stampa
italiana, da destra a sinistra, dal sommerso culturale ai nomi più famosi.
Un laboratorio culturale vivacissimo che porta fin dai suoi esordi, i segni di
una cultura non ufficiale ma presente, pronta ad esplodere nel momento in
cui gli si offre uno spazio dove esprimersi. Perché il problema della cultura
capitolina o italica in generale, negli anni ’90 e nei successivi, risulterà
proprio questo: come poter esprimere la propria arte ancora sconosciuta ai
grandi circuiti di distribuzione. La risposta immediata e fattiva arriva
proprio dallo spirito originario del caffè letterario. Se nel Settentrione
d’Italia e soprattutto nel Nord – Est, i caffè rappresentano il luogo di
coscienza politica durante le due guerre, nella Roma post Tangentopoli, il
76
caffè letterario può rappresentare un luogo nuovo e di riscoperta del dialogo
culturale e della rappresentazione poetica. La poesia diventa una
protagonista del Lettere Caffè53
, non potrebbe essere altrimenti. La poesia
che da sempre ha trovato un ruolo marginale e clandestino all’interno delle
fila privilegiate dell’industria culturale ufficiale, trova il suo habitat
naturale all’interno di un luogo a misura d’artista come solo può esserlo un
caffè letterario.
3.2 Lettere Caffè : tradizione e progressismo
I rapporti umani, lo scambio di vedute e il confronto culturale hanno
sempre eletto i propri luoghi di espressione, andando così ad evidenziare il
ruolo centrale, da decine di anni, del caffè letterario. La tradizione si
affianca alle nuove tecnologie che finalmente risultano d’aiuto e supporto a
quanto di più analogico possa esserci sul nostro pianeta: i rapporti umani.
Se il Lettere Caffè si limitasse nella sua attività di aggregazione umana,
verrebbe meno l’obiettivo che questo tipo di caffè letterario si è prefisso:
una rete nazionale di caffè.
Le nuove tecnologie permettono di partire da un luogo della tradizione
come il caffè e proiettarlo nella rete Internet con naturalezza inaspettata e
funzionalità. Un portale web54
che sia in grado di supportare funzioni di
accesso a vari livelli (es. utente semplice o amministratore), garantirà anche
l’usabilità e la partecipazione di tutti gli attori reali, i clienti del caffè e di
tutti gli attori virtuali che intervengono on-line tramite moduli informatici
53. Cfr. www.letterecaffe.org, per un elenco completo degli artisti che si sono esibiti al Lettere Caffè e
per i programmi mensili e settimanali in corso. 54 . www.letterecaffe.net
77
come forum di discussione o l’invio di news direttamente sul portale del
caffè. La rivista che ha dato vita al Lettere Caffè si ritrova proiettata nel
web mondiale senza risentire affatto della sua nuova dimensione digitale.
3.3 We make the standard: Bill Gates al caffé letterario
“Un computer su ogni scrivania” così William Henry Gates III o più
semplicemente Bill Gates pensava lo sviluppo futuro della sua neonata
società informatica: la Microsoft. L’espansione planetaria della società di
Gates si sarebbe basata su poche regole fondamentali: non vendere nulla
ma al contrario concedere in licenza i prodotti (software) sviluppati dalla
sua società informatica; far in modo che i maggiori produttori di periferiche
e accessori informatici facessero riferimento al suo Windows, il sistema
operativo creato da Gates e soprattutto, come premesso, fare in modo che il
Personal Computer divenisse un elettrodomestico user friendly55
, alla
portata di tutti.
Se Gates si sedesse in un qualsiasi Lettere Caffè, noterebbe che la sua idea
è talmente esatta da essere usata anche in un ambiente che per sua natura è
profondamente analogico. Il caffè letterario è formato da cuori e menti
pensanti in opposizione a circuiti elettronici e schermi LCD. Al tempo
stesso, la tecnologia e la filosofia che la Microsoft ha esportato in tutto il
mondo risulta inseribile e usabile in un contesto di socialità avanzata ben
rappresentato dal caffè letterario.
Il marchio Lettere Caffè – il caffè letterario viene concesso in licenza a
uomini e donne che ne condividano la filosofia organizzativa, i contenuti
55 . Dall’inglese, letteralmente: “di facile usabilità”
78
potenziali e reali, la funzione di edificazione socio-culturale. L’obiettivo
principale di un progetto di rete di caffè letterari potrebbe essere paragonato
alla rete Internet, divisa in milioni di nodi, pc, server o terminali che
orizzontalmente veicolano informazioni e contenuti da una parte all’altra
del paese o del mondo. Una rete nazionale e successivamente
extranazionale che si basa su standard condivisi, su linguaggi comuni che
privilegiano l’attenzione per i soggetti culturali e le loro applicazioni
pratiche nella vita quotidiana. Lo standard nell’epoca dell’accesso risulta
così essere il vero agente di emancipazione di tutti quei contenuti che
l’industria culturale ufficiale e istituzionalizzata sembra non riuscire o voler
far emergere. Il sommerso culturale che fa del Lettere Caffè un luogo
pionieristico va così ad acquistare una posizione di salienza senza
precedenti.
3.4 Organizzazione e piani di sviluppo
Un progetto di rete di caffè letterari trova nella sua vocazione inclusiva e di
valorizzazione della cultura locale il suo punto di forza. Ci si trova così di
fronte a 3 tipi di soluzioni possibili o tipologie di affiliazione56
:
Hard: avvio di un locale ex novo, modellato sull'esempio dei Lettere
Caffè romani.
Soft: conversione (o gemellaggio) di un locale preesistente, con
l'inserimento di elementi caratteristici del Lettere Caffè.
56. Fonte: www.letterecaffe.net
79
Corner: creazione di un corner riservato alla promozione culturale,
con le pubblicazioni dell'Editrice Letterecaffè S.r.l.
Una divisione così proposta valorizzerà al meglio le situazioni e gli spazi
preesistenti all’installazione del marchio Lettere Caffè mantenendo la
tradizione del luogo in cui i contenuti della rete nazionale vengono
veicolati.
Nelle figura. 1 è rappresentato un modello di progettazione di tipo Hard,
ovvero un allestimento ex-novo per un nuovo punto della rete.
Figura 1. Progetto di nuovo Lettere Caffè per affiliazione di tipo Hard
80
Figura 2. Progetto del secondo punto Lettere Caffè a Roma
Figura. 2: il progetto del secondo punto Lettere Caffè a Roma, dedicato all’architettura e alla arti visive
in genere.
81
Figura. 3: Progetto di Corner letterario da posizionare in librerie o bar o esercizi pubblici. Il corner ha
una funzione promozionale del marchio Lettere Caffè ed espone le edizioni della Editrice Letterecaffè
3.5 L’esclusiva territoriale e il network
Lettere Caffè è un franchising di servizi, ben diverso dal franchising di
prodotto (es. McDonald) che si basa su prodotti piuttosto che su contenuti.
Così la necessità primaria per l’espansione di una rete di caffè di questo
tipo è la capillarità e la presenza diffusa sul territorio. Non si vede alcun
bisogno di aprire un caffè letterario del genere a distanze troppo
ravvicinate: 100 Lettere Caffè in 5 anni è l’obiettivo della Lettere Caffè
Franchising s.r.l. La rete per poter funzionare e veicolare al meglio i
contenuti in tutte le sue parti ha bisogno di essere uniformemente
distribuita sul territorio nazionale. L’esclusività territoriale (un caffè per
non meno di 50.000 abitanti) rappresenta anche il ruolo di catalizzatore che
un caffè letterario può svolgere soprattutto nella provincia italiana.
82
3.6. Manifesto dei Network Culturali Europei 57
I Network Culturali Europei sono già stati riconosciuti in una delibera del
Consiglio Europeo e dei Ministri della Cultura del novembre 1991, che
riconosce i loro contributi e benefici58
.
57. Adottato dal Foro dei Network Culturali Europei Bruxelles, 21 settembre 1997 58. I Network Culturali:
contribuiscono alla coesione europea;
facilitano la mobilità degli operatori culturali e dei prodotti culturali;
facilitano una comunicazione culturale incrociata combattendo la xenofobia, ed il razzismo e
sviluppando la comprensione culturale reciproca;
rinforzano la società civile dando una voce democratica all'individuo;
rinforzano quelle dimensioni culturali dello sviluppo che non sono prodotte da fattori puramente
economici;
aiutano a costruire la collaborazione con i cosiddetti "paesi del terzo mondo".
Un network è un gruppo di individui che si assumono la propria responsabilità per il raggiungimento di
obiettivi comuni ed è un sistema dinamico per la comunicazione, cooperazione e collaborazione.
Un network è una struttura che facilita, un modo di organizzare più che un organismo.
E' un modo di organizzare più che un'organizzazione. Sono la flessibilità, l'avvicinamento, il processo,
la mentalità di un network che creano il suo moltiplicato di se stesso. É una parte della società civile che
ha luogo nello spazio pubblico. Quello del network è uno sviluppo organico che nasce dalla necessità
degli individui di stabilire contatti, per avere scambi e lavorare insieme. L'energia, l'informazione, il
potere di un network affluisce orizzontalmente e dal basso verso l'alto. I Network Culturali forniscono
benefici reali allo spazio sociale, culturale, politico ed economico europeo. I membri dei Network
Culturali sono responsabili, produttivi, riflessivi, pragmatici e impegnati. Provengono da culture,
località geografiche e generazioni diverse. un sistema importante per stimolare e facilitare l'occupazione
- identificano e forniscono posti di lavoro per elementi da formare, laureati e professionisti ; speciale
valore aggiuntivo. Un network è una sinergia, è l'effetto moltiplicato di se stesso
I network sono:
83
I passaggi fondamentali di adesione alla rete Lettere Caffè possono essere
facilmente descritti come segue:
a. Fee d’ingresso
Una quota di partecipazione al progetto di franchising, quota da onorare
una tantum e che si potrebbe definire “gettone di presenza” per
l’affiliazione.
Comprende:
l’esclusività territoriale;
la progettazione e la dimostrazione (in pianta) degli allestimenti.
b. Royalties
Le royalties, proprio come avviene per contratti editoriali (dalla carta alla
musica) , sono quote a scadenza fissa, che il franchisee riconosce al
franchisor (in questo caso Lettere Caffè), per i servizi ottenuti.
uno strumento per i governi nazionali per rispondere a necessità culturali, specifiche e
strategiche; una forma di addestramento professionale per lo sviluppo di abilità professionali ed
esperienza all'interno del settore culturale;
un modo efficace ed economico di diffondere l'informazione europea attuale sugli sviluppi delle
forme d'arte ai professionisti in tutti i settori culturali e nel governo;
un efficace catalizzatore economico per stimolare la cooperazione culturale internazionale.
All'interno dei network il profilo culturale professionale di alcuni paesi e regioni è cresciuto e
aumentato. Lavorano con persone, idee e prodotti.
84
Comprendono:
uso del brand;
uso dei canali pubblicitari del franchisor;
supervisione e assistenza nella direzione artistica;
consulenza amministrativa: reperimento informative e leggi su licenze
commerciali e normative vigenti;
merchandising;
possibilità di adesione a convenzioni commerciali con fornitori;
possibilità di beneficiare dell'allestimento dei locali a prezzi
vantaggiosi.
Le Royalties non includono il costo degli allestimenti e un preventivo
personalizzato che verrà fornito dal nostro partner commerciale su
richiesta. Il design manager, avrà il ruolo di impostare praticamente
l’immagine del Lettere Caffè basandosi sul locale in corso di affiliazione.
Gli allestimenti dei nuovi caffè dovranno seguire la filosofia estetica del
Lettere Caffè ed esporre il marchio della rete. Qualche esempio: un Lettere
Caffè tipo dovrà avere un desk o comunque uno spazio per l’esposizione
di libri ed edizioni editoriali varie, sia edite che auto-edite; uno
spazio musica per le esibizioni e tutte le strutture necessarie per
l’esposizione di opere visive (dalla pittura alla fotografia). I progetti di
allestimento effettuati in forma privata devono rispettare i canoni estetici
85
riportati nel contratto di affiliazione, dovranno essere supervisionati ed
approvati dalla Lettere Caffè Franchising S.r.l59
.
59
Lettere Caffè Franchising é una società a responsabilità limitata fondata da Enza Li Gioi - ideatrice
del progetto in veste di presidente, Davide Trebbi - direttore artistico del Lettere Caffè romano con
l’incarico della programmazione nazionale della rete e Simone Baldi - responsabile della parte
amministrativa, finanziaria e legale dell'azienda. Per una breve biografia dei soci fondatori: Enza Li
Gioi, la presidente é nata a Gorizia , ma vive da molti anni a Roma dove si é occupata di pubblicità e
marketing soprattutto in campo editoriale. Ideatrice del progetto "Lettere", che comprende oltre ai caffé
letterari in franchising una rivista letteraria omonima , si propone , attraverso la nuovissima "Editrice
Letterecaffé" di dare vita a una importante collana di poesia, di racconti, di diaristica e di carteggi
epistolari.Lei stessa scrittrice ha pubblicato il libro di racconti "Civico 38" e "Amici di penna".
Attualmente ricopre anche il ruolo di Direttore Editoriale della nuova casa editrice. Davide Trebbi , il
direttore artistico é nato a Roma il 22 Maggio del 1980. Studente in Scienze della Comunicazione
presso l'università "La Sapienza" di Roma ; cantautore con cinque album "Riflessi" e "Galleria
d'Autore", “Bootleg” e i più recenti “Buongiorno (2006) e Approved (2007), EP stampato per
CastorOne Edizioni Musicali. Ha un'esperienza di otto anni come Direttore Artistico del Lettere Caffé
di Roma e Conference Organizer per organismi internazionali; ex Segretario romano della F.I.P.E. –
Conf Commercio per il coordinamento dei locali serali, é il responsabile delle attività culturali e della
programmazione nazionale della rete di locali in Franchising.
Simone Baldi, direttore generale, é nato a Roma il 20 gennaio 1979. Laureato in Business
Administration, ha un'esperienza di management , finanza e pubbliche relazioni in società italiane e
organismi internazionali. Simone è il responsabile degli affari amministrativi, finanziari e legali della
società. Lead singer e co-autore della band "EnomisVal" con un album autoprodotto "Spares and
trades". E infine, Roberto Ciambrone, Design Manager è sceno-tecnico e affermato imprenditore dello
spettacolo. Ha fondato e dirige La Scenografia S.r.l., una delle più importanti società italiane del settore.
Roberto è responsabile dell'allestimento degli interni e degli standard stilistici dei locali e porta in dote
alla Lettere Caffé Franchising S.r.l. un'esperienza trentennale ai massimi livelli nazionali.
Fonte: www.letterecaffe.net
86
3.7 I servizi offerti e il Know How 60
training del personale di sala e bar;
training del personale addetto alla direzione artistica.
a) Allestimenti interni
b) Editoria e Pubblicitá
c) Consulenza Direzione e Programmazione Artistica
controllo e supervisione nel periodo di avviamento della
programmazione del nuovo locale;
consulenza sulla direzione artistica per tutto il periodo di
affiliazione.
d) Possibilità di adesione a convenzioni commerciali con fornitori
e) Merchandising
3.8 Il target
Il modello di business del Lettere Caffè è la distribuzione multicanale di
prodotti culturali veicolati attraverso centri locali integrati in una rete.
Il caffè letterario della Lettere Caffè Franchising S.r.l. è un contenitore
omogeneo e compatibile con altri, attraverso il quale il prodotto
caratteristico del locale viene immesso e diffuso in rete.
60. Fonte: www.letterecaffe.net
87
Questo può avvenire in diversi modi – ad esempio, attraverso
l’organizzazione di tournée e scambi tra i vari caffè letterari della rete.
Ma a differenza di altre realtà commerciali impegnate nella produzione e
distribuzione di musica, letteratura e spettacoli, i caffè letterari in
franchising realizzano i propri scopi commerciali e di profittabilità
attraverso i guadagni derivanti dalla somministrazione di bevande e generi
alimentari di vario tipo. Il target di un caffè letterario così concepito è
praticamente indefinibile: dai 3 ai 90 anni, chiunque può partecipare e
soddisfare le proprie esigenze di interazione e soddisfazione di bisogni
culturali. La programmazione offerta ai frequentatori del caffè, spazia dalla
musica dal vivo alla sala da tè, dalle attività per i più piccoli (lettura di
fiabe) alle mostre d’arte convenzionali o meno. La cultura in sé, come
concetto, si presenta trasversale e applicabile a tutti campi dell’agire
umano, dall’enogastromia all’arte sculturea.
3.9 Vantaggi e valore aggiunto
Ciascun caffè letterario in franchising è indipendente dagli altri ma
beneficia della partecipazione alla rete. La Lettere Caffè Franchising S.r.l.
infatti coordina e supporta l’offerta culturale dei vari caffè letterari, che è
indipendente dall’attività economica del caffè letterario. Questa
caratteristica garantisce la qualità e la flessibilità del progetto di
entertainment perché ci permette di selezionare liberamente il prodotto
culturale offerto.
Da un punto di vista funzionale, il modello può essere paragonato allo
sviluppo di una rete interconnessa quale Internet: l’utente inserisce il suo
88
contenuto in un terminale locale, il contenuto va in circolo nel sistema e
diventa immediatamente fruibile da tutti gli utenti.
In questa ottica, i franchisees agiscono quali service providers del portale
locale mentre il contenuto è prodotto da soggetti terzi ospiti del caffè
letterario.
In questo senso la rete di caffè letterari in franchising si presenta anche
come una rete di promotori e talent scout. Il progetto di entertainment si
concretizza nella produzione e distribuzione di musica, letteratura e
spettacoli in partnership con la sister company Editrice Letterecaffè S.r.l.
3.10 Direzione artistica : il palinsesto culturale del caffé
Durante la lavorazione di "Imagine"61, John Lennon si scaglia apertamente contro Paul
McCartney con il durissimo testo di "How Do You Sleep?": "Il suono che tu produci è
'muzak' (musicaccia) per le mie orecchie, eppure dovresti aver imparato qualcosa in tutti
questi anni".
La direzione artistica di un caffè letterario in genere prevede diversi campi
d’azione e promozione dell’attività culturale nella programmazione di uno
spazio come Lettere Caffè. Il calendario degli eventi all’interno del caffè è
diviso in giorni e fasce orarie ben definite. Il direttore artistico si occupa
dell’organizzazione e del coordinamento degli eventi e conseguentemente
dei rapporti con l’esterno: stampa periodica e quotidiana, radio locali e
61Album pubblicato nel 1971 per la casa discografica Capitol. La struggente ballata utopistica della title track resterà il suo brano più celebre, il suo testamento spirituale e un inno per generazioni di pacifisti e
"sognatori" ("Imagine no possesions/ I wonder if you can / No need for greed or hunger/ A brotherhood
of man/ Imagine all the people sharing all the world/ You may say I'm a dreamer/ but I'm not the only one/ I hope some day you'll join us/ And the world will live as one").
89
nazionali, convenzioni esterne con altre realtà culturali simili. I rapporti con
l’esterno riguardano anche le relazioni istituzionali che un caffè letterario,
per sua natura profonda, è naturalmente proiettato a perseguire nei
confronti delle amministrazioni pubbliche prima locali e successivamente
nazionali (ad es. il Ministero dei Beni Culturali).
La fascia pomeridiana della programmazione, dalle 15.00 alle 20.00, è
dedicata alle presentazioni editoriali, all’inaugurazione di mostre d’arte e al
servizio di sala da tè con la possibilità di consultare libri, riviste e
quotidiani presenti nel caffè. Presentazioni ed inaugurazioni rappresentano
il punto focale dell’attività del Lettere Caffè e del suo lavoro di scouting
network62
.
La fascia serale e le attività tipiche del club di musica dal vivo hanno inizio
dalle 20.00 in poi. La musica dal vivo e le esibizioni dal vivo in generale,
abbinate alla dimensione del caffè letterario vengono espresse al meglio,
grazie anche alla capacità di attento ascolto che il pubblico dei caffè ha
sempre destinato agli artisti. I concerti musicali, acustici e selezionati in
base anche al contenuto testuale delle opere, rappresentano anche i
maggiori introiti economici del Lettere Caffè.
Direzione artistica significa anche decidere l’impostazione che si intende
dare a quel che si dirige. Nel caso del Lettere Caffè, la grande attenzione
alle nuove proposte e al sommerso culturale italiano, in tutti i campi della
cultura, rappresenta un bacino artistico quasi infinito. Non sono pochi i casi
di grandi musicisti, da Paolo Conte ad Edoardo Bennato, che se non fossero
divenuti famosi avrebbero probabilmente continuato nei loro studi e nelle
loro future professioni: Paolo Conte è laureato in giurisprudenza; Edoardo
62. cfr. par. 3.13 di questo capitolo
90
Bennato in architettura. Questi esempi illustri fanno indubbiamente
riflettere su quanto la scolarizzazione63
di questo paese, tardiva e tuttavia
efficace, abbia formato uomini e donne che nell’arte trovano una loro
importante dimensione di vita.
Il “sommerso culturale” in Italia è proprio questo: laureati di tutti i settori
accademici che hanno l’hobby della musica, della poesia, della pittura e
dell’arte in genere. Questi hobby, in molti casi, se adeguatamente supportati
e non sommersi, potrebbero divenire vere professioni. Questo tipo di
individui vanno a formare il pubblico e spesso sono anche gli attori del
Lettere Caffè.
3.11 Audience: fidelizzazione e strategia
Afferma Jeremy Rifkin nel suo “L’era dell’accesso”: “In generale, le
nazioni concentrano la politica sul primo settore (il mercato) e sul secondo
(lo stato); dando spesso per scontato il terzo (la cultura), senza rendersi
conto del ruolo fondamentale che quest’ultimo gioca nel processo di
formazione della fiducia sociale e, quindi, nella realizzazione degli scambi
e nel funzionamento del mercato64
”. E ancora: “Nelle comunità e nei paesi
che hanno un terzo settore forte e ben sviluppato, i mercati capitalistici
prosperano; dove il terzo settore è debole, i mercati capitalistici hanno, in
genere, assai meno successo.”65
63.cfr. par. 1.3: “L’industria culturale in Italia” 64. L’era dell’accesso, Mondadori, 2001, pag.323 e 324 65. Ibid.
91
Questa lucida riflessione di Rifkin ci permette di ragionare ulteriormente
sul tipo di pubblico e la sua fidelizzazione66
nel tempo; un progetto di lungo
termine come può considerarsi Lettere Caffè, avrebbe bisogno proprio di un
terzo settore (la cultura) ben sviluppato. In Italia, come abbiamo cercato di
ricostruire in queste pagine, la cultura è spesso distorta o poco considerata
se non in base al suo posizionamento o salienza mediatica.
Un progetto culturale a lungo termine, quindi strategico, presuppone fattori
di sviluppo e organizzazioni che devono, indiscutibilmente passare dalla
cultura di base per arrivare a quella ufficiale. Il sommerso, come già
definito in queste pagine, rappresenta proprio la parte volutamente meno
sviluppata del terzo settore in questo paese. Se l’alternativa alla scarsa
esposizione mediatica deve essere il non esistere, è in questo passaggio che
un progetto culturale come Lettere Caffè si colloca e va a svilupparsi.
Fidelizzare significa costruire una audience di uomini e donne che
arbitrariamente seguano un programma culturale e ne condividano i valori
di fondo. Lettere Caffè ne è un esempio chiaro: qualità invece che quantità;
spazio condiviso invece che lottizzato o ancor peggio vietato; recupero del
sommerso culturale invece che definitivo affondamento di tutte quelle
culture sub o side, raramente ascoltate dall’industria culturale ufficiale.
In questo quadro il fine ultimo del Lettere Caffè è la creazione di uno
standard qualitativo condiviso che porti i numerosi pubblici possibili ad
individuare immediatamente un “prodotto culturale” Lettere Caffè,
distinguendolo da un prodotto destinato al semplice meccanismo
industriale.
66 Fidelizzare: rendere un cliente stabilmente affezionato all’acquisto di un prodotto, cfr. http://www.demauroparavia.it/43541
92
3.12 Scouting network
La principale risorsa di una rete orizzontale come Lettere Caffè, è la
possibilità di veicolare in rete nuove proposte da tutti caffè presenti sul
territorio nazionale. Le proposte culturali che non trovano spazio nelle
grandi reti distributive già presenti sul territorio nazionale, possono avere
nuova visibilità all’interno dei Lettere Caffè. Questo tipo di caffè letterario,
avendo facoltà di produzione audio-visiva ed editoriale, rappresenta
probabilmente la soluzione migliore affinché il sommerso culturale italiano
possa avere spazio e promozione. Lo scouting, ricerca di nuove proposte
professionali ed artistiche, diviene automaticamente la missione principale
della rete Lettere Caffè, al punto che la maggior parte del palinsesto
mensile è organizzato in appuntamenti settimanali fissi: lo slam poetry,
gara di poesia inedita con votazione per alzata di mano; Statale 17, rassegna
musicale per nuovi autori; Venti Teatrali, vera e propria sfida teatrale a
base di monologhi o rappresentazioni della durata massima di 20 minuti. La
rassegna permanente di nuove proposte e uno spazio vero, analogico e
possibile, fanno del Lettere Caffè un laboratorio pubblico, un contenitore in
costante espansione.
93
CAPITOLO QUARTO
Dialoghi al caffé
94
95
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati
Bertold Brecht
96
97
Dopo aver ragionato su teorie e ambiti principali dell’industria culturale,
sono stati intervistati quattro protagonisti della cultura italiana al fine di
comprendere, attraverso esperienze di vita, qual è il loro punto di vista sui
differenti aspetti della cultura nel nostro paese e sul concetto di caffè
letterario.
I personaggi intervistati sono: Claudio Lolli, cantautore; Massimo Bucchi,
vignettista; Pierluigi Ferrari, attore; Enza Li Gioi, scrittrice. Ognuno nel
proprio campo d’azione e con una propria esperienza professionale
maturata in anni di lavoro, attraverso domande teoriche e pratiche, che
hanno condotto questo lavoro a toccare fatti storici (come il caso Moro) e
artistici (come la nascita e l’evoluzione del cabaret a Roma) passando
anche attraverso la storia dei caffè letterari italiani fino ad arrivare al
Lettere Caffè di Roma, come esempio moderno e futuribile di caffè
culturale e spazio aperto a nuove idee. Le interviste sono state realizzate in
audiovisivo in diversi luoghi di Roma e all’interno del Lettere Caffè. Lo
strumento dell’intervista è risultato particolarmente utile al fine di
comprendere a fondo gli sviluppi dell’industria culturale italiana,
confermando l’importanza dei codici nella comunicazione di un prodotto
culturale e della necessità dell’individuazione di un pubblico o audience al
quale un determinato prodotto è destinato.
98
4.1 Musica d’autore: Claudio Lolli, autobiografia industriale
Claudio Lolli67
, cantautore bolognese classe 1950, ha iniziato la sua carriera
artistica negli anni Settanta e si è da subito contraddistinto per la sua
difficile collocazione all’interno di un genere specifico dell’industria
culturale italiana. In “Autobiografia industriale”, brano musicale contenuto
67 Claudio Lolli, un cantautore degli anni ‘70, nasce a Bologna nel 1950. Claudio Lolli, schivo, problematico, innamorato delle atmosfere desolanti tristi e malinconiche, è abile nel mettere in musica
le delusioni e il pessimismo di un'epoca generazionale. Ci sono tre periodi che caratterizzano Lolli: il
primo periodo che va dal 1972 al 1975, dove il cantautore bolognese compone le sue canzoni con pochi arrangiamenti e con la prevalenza della sola chitarra acustica, raccontando canzoni intorno ai temi
dell'amicizia, dell'ecologia, delle angosce generazionali, e denunciando in modo ironico sulla società di
allora. Sono dischi questi, per lo meno i primi che occorre ascoltare quando si sta assolutamente bene, per evitare di cadere nella depressione più totale, dischi che vanno ascoltati a piccole dosi. Il secondo
periodo, dal 1975 al 1977, è un periodo in cui Lolli arricchisce gli arrangiamenti con sezioni di fiati e
percussioni e per la prima volta gira in tour con un nutrito numero di musicisti, un esempio che verrà poi seguito da altri cantautori.
Con il disco " Disoccupate le strade dai sogni " , Lolli si rende conto che i tempi sono cambiati e i sogni
di una generazione svaniti...un disco che ha testi molto difficili, gli arrangiamenti molto jazzati e proseguono anche con il successivo Extranei. Nel disco Disoccupate le strade dai sogni ci sono canzoni
che ho ascoltato tantissimo, canzoni diverse dal solito Lolli triste e malinconico, canzoni come Incubo
Numero Zero, Alba Meccanica, Socialdemocrazia. In Extranei altre canzoni memorabili "Come un Dio Americano" e "Il Ponte". Nel terzo periodo, Lolli esce dalla scena l'artista rallenta il passo discografico
e patisce una certa crisi della canzone d'autore e con l'album Antipatici Antipodi mette in evidenza
capacità di sintesi liriche e ottimi arrangiamenti musicali. La copertina dell'album è opera di Andrea Pazienza e nel disco troviamo delle canzoni bellissime come Notte Americana, Villeneuve e Formula
Uno scritta con Roberto Roversi. Nel 1984 Lolli porta in giro per l'Italia lo spettacolo " Dolci Promesse
di Guerra " insieme a Giampiero Alloisio e nel 1988 dopo una lunga pausa arriva un nuovo lavoro .... il disco dal titolo " Claudio Lolli" con canzoni che rilevano un certo disagio quotidiano come "La fine del
Cinema Muto", "Adriatico", "Via col Vento" e "Tutte le lingue del mondo". Per scelta Lolli non
promuove il disco nei consueti canali tradizionali e negli anni successivi si dedica esclusivamente al mestiere di professore, mettendo così fine al suo precariato come cantautore. Nel 1992 esce l'album dal
titolo "Nove Pezzi Facili", il brano ispirato da Cesare Pavese, scritto ai tempi del precedente album ,
viene inserito in questo disco insieme a due brani inediti dal titolo " Tien An Men " e " Vite Artificiali", tutto il resto sono dei rifacimenti o riproposte di vecchie canzoni. Nel marzo del 1993 Lolli torna ad
esibirsi dal vivo in un recital al Teatro Puccini di Firenze. Ha pubblicato tre libri "L'Inseguitore Peter
H.", "Giochi Crudeli" e “Rumore rosa”. Alcune delle canzoni di Lolli sono state incise anche da Francesco Guccini (Keaton, uno dei brani più belli di "Signora Bovary" e Ballando con una sconosciuta,
da "Quello che non..." Gli Stadio incidono invece il pezzo dal titolo Segretaria Telefonica nell'album
"Siamo Tutti elefanti Inventati". Lolli attraversa ancora un periodo di riflessione, di assenza dalla scena per tornare con l'album "Le intermittenze del cuore" nel 1997, un antologia nel 1998 e un nuovo album
dal titolo "Dalla parte del torto" nel 2000. “Ho visto anche degli zingari felici” versione live con il
Parto delle nuvole pesanti. “La scoperta dell’America”, anche questo come gli ultimi album, pubblicato da Storie di Note.
99
nell’album “Disoccupate le strade dai sogni”68
, Lolli spiega molto bene
come funziona un’industria culturale e come vengono definiti i vari generi
di prodotti da vendere; spiega anche le difficoltà che un giovane autore di
canzoni incontra per poter comunicare la propria opera all’interno di un
sistema culturale rigido e organizzato, come un’industria appunto.
Dice Lolli: questa canzone è nata per raccontare un po’ la storia di quel
che può succedere a un giovane che va a portare delle canzoni in una casa
discografica69
, in un’industria culturale. Devo dire che è molto
autobiografica e anche molto sincera, nel senso che è successo veramente
così. […] certamente la mia musica, le mie canzoni non erano…a parte il
fatto che in quegli anni la canzone d’autore era un po’ di moda, un po’
funzionava e aveva un certo seguito. Certamente non mi presentavo come
una rock star vera, alla Emi ricevevano i King Crimson, i Pink Floyd…...
68. Emi, 1977 69. La EMI, casa discografica. Le numerose etichette di EMI, tra cui Capitol, Virgin, EMI Classics,
Parlophone e Blue Note solo per citarne alcune, hanno offerto alle orecchie del mondo artisti come i Beatles, i Rolling Stones, Nat King Cole, Pink Floyd, Herbert Von Karajan, Maria Callas, Queen,. EMI,
acronimo di Electric and Musical Industries, inizia la propria avventura nel 1887, con l'apertura della
Gramophone Company a Londra; già un anno dopo vengono aperti uffici in Francia, Germania ed Italia. Apre anche la Columbia Phonograph sua maggiore concorrente. Nel 1889 viene acquistato il dipinto di
Francis Barraud "La voce del padrone" che ritrae il cagnolino Nipper mentre ascolta un grammofono.
Proprio per l'utilizzo del dipinto di Barraud come marchio, la Gramophone Company incomincia a essere conosciuta come His Master's Voice, La Voce del Padrone. Tra il 1900 e il 1906 vengono aperti
uffici in Russia, Australia, Giappone, India e Cina.
La Gramophone Company viene quotata alla Borsa di Londra nel 1904, con il 60% degli utili proveniente dal di fuori del Regno Unito.
Il tenore Enrico Caruso, incidendo per la Gramophone Company dieci arie d'opera in una stanza d'hotel
di Milano, conferisce al grammofono dignità di mezzo "serio" per l'ascolto di musica classica. Nel 1914 le vendite di dischi si attestano sui 4 milioni di copie all'anno. Con la prima Guerra Mondiale vengono
persi i mercati di Russia e Germania.
Nel 1925 la Gramophone Company inizia a utilizzare un sistema di registrazione del suono elettrico, più che meccanico. Nel 1926 O for the wings of a dove di Ernest Lough, è il primo disco a vendere più di
1.000.000 di copie. Nel 1931 nasce la EMI: si fondono infatti la Gramophone Company e la Columbia
formando la Electric and Musical Industries. Nello stesso anno un ingegnere dei laboratori di ricerca EMI, Alan Blumlein, crea la tecnologia della registrazione stereo e si aprono i mitici studi di
registrazione di Abbey Road.
100
Il sentimento permanente è l’estraneità da parte dell’artista verso un
sistema di produzione industriale che cerca di organizzare in settori ben
definiti e rigidi i vari generi culturali. Continua Lolli: il sentimento
sostanziale di quel pezzo, di quell’esperienza è l’estraneità. Sei estraneo a
quel mondo, tu fai musica in un certo modo, di un certo tipo, forse bella,
forse brutta però sei il granello di sabbia che fa inceppare il meccanismo.
Non sei un prodotto, non vorresti esserlo e certamente non lo sei. Vendono
molti più prodotti “normali” di quello che può essere questo tipo di
musica.
Da Domenico Modugno a Piero Ciampi, la musica d’autore in Italia ha
avuto, proprio come è accaduto per quanto riguarda la televisione, forti
connotazioni politiche e ideologiche70
. Le differenze con paesi esteri, anche
in questo caso, sono notevoli e sostanziali. La storica querelle tra musica
colta e musica popolare in Italia, ha visto proprio durante gli anni Settanta,
il suo punto di maggiore tensione. Accanto a cantanti nazional-popolari
sono apparsi i cantautori, con il loro carico di contenuti sociali e riflessioni
dirette e sincere come mai se ne erano sentite prima nel nostro paese. Così
Modugno che rappresenta un primo passo verso il cantautorato, seppur
ancora pienamente nazional-popolare, può essere individuato come punto
di partenza per la mia analisi. Piero Ciampi, cantautore e poeta livornese,
rappresenta al contrario il tipico “prodotto” scarsamente collocabile nel
“supermercato” dell’industria culturale. Claudio Lolli a cui ha dedicato
70. Mario Morcellini in “Il Mediaevo italiano”, I peccati originali dell’industria culturale, Carocci, 2005, 1.6, pag. 31.
101
anche una canzone71
a questo proposito afferma: Modugno lo metterei, se
avessi delle “carpettine”, nel pop più che nella canzone d’autore; una
canzone geniale come “Volare” certamente rompe moltissimi schemi, però
il resto….Non dimentichiamoci de “La lontananza” o “Il telefono”, non
so, mi pare un’altra cosa, con tutto il rispetto. Piero Ciampi era un’altra
cosa; era un artista modernissimo, sofferentissimo e straordinariamente
espressivo; infatti non ha avuto il successo di Modugno nonostante abbia
scritto delle canzoni straordinariamente più belle. Un’ulteriore
precisazione: Una cosa è una produzione in qualche modo popolare, senza
dare a quest’aggettivo una connotazione negativa; un’altra cosa è invece
una produzione che nasce da un’esigenza espressiva che ha a che fare con
l’arte, con l’artistico, con l’esistenziale, con l’individuale. Poi tutte e due
confluiscono per necessità, in qualche momento della storia, in un
meccanismo (l’industria culturale, ndr) che le può accomunare
apparentemente.
A questo punto l’intervista si è focalizzata sulle principali differenze
produttive e artistiche tra l’Italia e i principali produttori di musica a livello
mondiale, come Stati Uniti e Regno Unito. Dal 1960 ad oggi, dalle prime
canzoni di Elvis Presley ai Beatles, da Bob Dylan ai Pink Floyd, le
differenze di mercato e produzione di beni musicali tra Italia e paesi esteri
sono notevoli.
Continua Lolli: La differenza che noto è questa: nei luoghi citati (Stati
Uniti e Regno Unito) c’è una straordinaria capacità di comunicazione, di
abbinamento; i musicisti si conoscono, si amano, lavorano insieme anche
71. Spiega Claudio Lolli: “La diffidenza nei confronti di Piero Ciampi è una metafora, non è dovuta ai
suoi musicisti. Per esempio Gianni Marchetti lo adorava. E’ una metafora della difficoltà che la poesia incontra nell’entrare in un mondo musical-pop-industriale”.
102
se fanno generi molto diversi. Io ho avuto l’impressione che in Italia ci sia
stata , e probabilmente ci sia ancora, una separazione molto netta, vissuta
astiosamente tra il rock e il pop, il cantautore, ecc. Come se uno fosse
nemico dell’altro. Credo che questo sia stato un po’ un limite. Bob Dylan
ha collaborato con tutti, con tutti i musicisti possibili; tutti quelli a cui ha
chiesto una collaborazione lo hanno fatto volentieri. Io non credo che in
Italia ci sia una situazione del genere e sicuramente non c’è stata negli
anni e nei decenni precedenti.
Parlando di generi letterari e quindi, di “cassetti” in cui si possono inserire
dei prodotti da immettere successivamente nell’industria culturale si è
deciso di affrontare la storica dicotomia tra canzone e poesia, analizzando
le differenze tra i due generi e soprattutto le diverse tecniche linguistiche
usate. La poesia, componente fondamentale del palinsesto culturale del
Lettere Caffè di Roma (cfr. par. 4.4), è forse il genere letterario che ha
avuto più difficoltà in Italia, soprattutto per quanto riguarda il sistema di
distribuzione e vendita dell’opera poetica. Claudio Lolli, che ha pubblicato
anche un libro di poesie inedite72
, fa delle distinzioni sia tecniche sia di
intenzioni artistiche.
Secondo Lolli esiste una differenza assoluta tra la parola poetica è una
parola che aspira all’autonomia e che esiste solamente in quanto
raggiunge una sua autonomia; la parola poetica dev’essere precisissima,
immodificabile. Non ci può essere un’altra parola che può sostituire la
parola precedente e assolutamente nulla, dall’esterno, può condizionarla.
La parola della canzone è una parola che può essere più imprecisa perché
ha un aiuto notevole, l’aiuto del bordone musicale. Una parola imprecisa,
72
. Claudio Lolli, Rumore Rosa, Stampa alternativa, Libro +cd, 2004, Roma.
103
suonata, cantata, detta, citata, letta, con la musica raggiunge l’effetto
poetico anche se non è perfetta, anche se non è precisa, anche se non è
insostituibile. Questa è una differenza notevole di genere e di stile.
Per quel che riguarda la fruizione da parte del pubblico, il termine poesia
si allarga, allarga il suo campo semantico e allora certamente può essere
(la parola, ndr) poeticissima anche una canzone, visto che chi l’ascolta ha
le stesse sensazioni che può avere chi legge Baudelaire. Come dire, da una
parte hai il mondo dei produttori, dei cercatori, dei perversi e degli
ossessionati dalla parola e dall’altra hai il mondo dei comunicatori, di
quelli che sono ossessionati dal bisogno del contatto col pubblico.
Tornando alla produzione musicale di Claudio Lolli, possiamo individuare
due album fondamentali nella sua carriera e anche per lo scopo di questo
lavoro: “Ho visto anche degli zingari felici”73
e “Disoccupate le strade dai
73. Concept album, che inizia con “Ho visto anche degli Zingari Felici”, contiene canzoni come Agosto, una canzone che racconta della bomba che fu messa sul treno Italicus, che esplose nella galleria di San
Benedetto Val di Sambro. Nel retro della copertina viene scritto: " Ho visto degli zingari felici " nasce
come ballata alla fine di giugno del 1975, come conseguenza e tentativo di adeguamento e rinnovamento espressivo nei confronti della nuova e più dinamica situazione politica che, secondo gli
autori, richiede nuovi e più avanzati livelli di intervento anche in campo di elaborazione culturale. Nella
sua parte letteraria la ballata è una specie di storia affettiva di una piazza e delle evoluzioni che il rapporto tra noi e questa subisce nel corso di un determinato periodo sempre più facendosi organico e
importante. Dove la piazza (che nell'occasione è Piazza Maggiore di Bologna) rappresenta non solo
tutte le piazze d'Italia, che in questo anno hanno vissuto una notevole crescita di "crucialità" anche culturale, ma in generale lo spazio aperto, politico, che rompe i contorni di isolamento che il riflusso
degli ultimi anni aveva in parte ricreato. La piazza simboleggia una nuova spinta al concreto operare
politico, un nuovo ritrovarsi insieme in modo non artificioso né frustrante, a festeggiare senza illusioni e trionfalismi, ma pur sempre a festeggiare, una vittoria reale e popolare. Questa storia si svolge attorno a
due poli, e se uno è appunto quello del 15,16,17 giugno 1975, l'altro è quello dell'agosto 74, quando a
breve distanza dalla strage di Piazza della Loggia a Brescia, la Piazza di Bologna doveva ospitare i funerali di dieci delle dodici vittime dell' Italicus, subendo anche l'affronto della presenza, a dir poco
sconcertante, in nome del governo, di personaggi del calibro di Leone e Fanfani. Tra un polo e l'altro
sono inserite delle storie "private", storie di vita e di morte, comunque viste nell'ambito di un sempre più organico confronto e di una sempre più progressiva sovrapposizione tra l’aria quella della piazza
(cioè della società), come unica possibilità di vivere dei rapporti umani soddisfacenti e autentici. " La
morte della mosca " riflessione allegorica sulla morte di un uomo, riporta alla evidenza della divisione in classi della società; Anna di Francia, popolana anarchica dal nome di regina, rappresenta la difficoltà
e l'insicurezza di una libertà autentica, contraddittoria e angosciosa nella misura in cui è per forza di
cose libertà individuale... "Albana per Togliatti" presenta un momento di superamento anche se chiaramente solo euforico e volontaristico, delle divisioni all'interno della sinistra, un momento in cui i
104
sogni”. Questi due lavori risultano fondamentali per il nostro discorso in
quanto il primo rappresenta al meglio un prodotto riuscito e di grande
successo commerciale mentre il secondo pur essendo un album riuscito,
non raggiunge un altrettanto ampio successo commerciale e rappresenta per
l’autore in questione, un momento di svolta nella carriera artistica. “Ho
visto anche degli zingari felici” è un album fondamentale per la musica
d’autore italiana, non solo per la carriera di Claudio Lolli. E’ un concept
album, viene presentato in tournèe, è un grande successo commerciale.
Claudio Lolli pubblica poco dopo con l’ album: “Disoccupate le strade dai
sogni”, un disco più approfondito, più complesso degli “Zingari”74
. Un
“prodotto” come Claudio Lolli in quel momento storico è un prodotto che
vende moltissimo, è un prodotto di nicchia (narrow) ma con un cospicuo
pubblico e nell’album che segue, Lolli dimostra di saper fare anche
dell’altro, invece di ripetere se stesso. In questo passaggio però, si rompe il
meccanismo tipico, lo stratagemma sottile dell’industria, si verifica un
allontanamento dal genere e settore specifico che aveva portato “Ho visto
anche degli zingari felici” ad essere un grande successo e l’album
successivo ne soffre. Claudio Lolli interpreta così questo passaggio: Ho
visto anche degli zingari felici” è un disco che ha avuto molto successo, ha
venduto molto e mi ha dato molti soldi. Avrei potuto fare tranquillamente:
“Ho visto anche degli zingari felici” 1, gli zingari felici 2 e gli zingari
felici 3 , gli zingari felici 4, ecc. Avrei potuto clonarmi molto
tranquillamente e per un paio di volte sarebbe andata anche molto bene;
compagni che sono lì si riconoscono come compagni proprio per l fatto di esserci. Le esperienze e i personaggi che forniscono il materiale per questa ballata sono in parte autentici in parte inventati come
sintetizzazione di esperienze particolari. 74 . Denominazione che i fans di Claudio Lolli e i critici danno dell’album sopraccitato: “Ho visto anche degli zingari felici”, EMI Italia
105
Però se uno pensa da artista, pensa che una cosa, se ha funzionato, vuol
dire che è conclusa. Almeno da un punto di vista formale. E che quindi
occorrerebbe qualcosa di diverso, di nuovo. Alla facilità e alla semplicità
degli “zingari felici” ho voluto aggiungere la complessità del periodo
successivo. E’ vero che gli “Zingari felici” rappresentavano in un certo
senso l’ascesa, la nascita, la maturazione felice di un movimento75
.
“Disoccupate le strade dai sogni” rappresentava invece l’esercito, i carri
armati a Bologna, la difficoltà e ancora il frantumarsi di uno specchio, la
perdita di senso e quindi anche dal punto di vista musicale doveva essere
qualcosa di meno semplice, meno comprensibile, meno seduttivo. Qualcosa
che mettesse in difficoltà e questo è stato, per così dire, l’inizio della fine
del mio rapporto col pubblico. Era un disco molto difficile da sentire, lo
apprezzano solo quelli che hanno una certa capacità critica, non puoi
cantare su una spiaggia, una sera, accanto al falò con la chitarra, una
canzone di quel disco; questa è stata un’operazione progettata e dolorosa
con cui ho rinunciato ad una sorta di pubblico e di carriera. Però questo
era quel che dovevo fare.
4.2 Cinema: Pierluigi Ferrari , un giorno da Leone
Pierluigi Ferrari, attore romano, ha iniziato la sua carriera al Teatro Eliseo76
diventando attore di prosa. Nel 1979, con “Senti chi parla” di Carlo
Verdone (con la partecipazione di Diana Dei) ha iniziato una tournée che
da Roma ha portato questo spettacolo fino a Siena e Firenze per circa un
75 . Si fa riferimento al movimento studentesco e idelogico del ’68. La fantasia al potere in
contrapposizione alla lotta armata, le Brigate Rosse, caratterizzante del ’77. 76 . Storico teatro della capitale in Via Nazionale.
106
mese e mezzo. La sua profonda amicizia con la famiglia Verdone inizia
all’epoca della scuola elementare, come compagno di classe del fratello di
Carlo Verdone, Luca, oggi esimio professore di storia dell’arte
all’università, autore vari libri e di un’interessante attività da regista
cinematografico. Proprio con Luca Verdone, Pierluigi Ferrari ha iniziato
un’esperienza di produzione di cortometraggi destinati soprattutto ai
dipartimenti Rai di quell’epoca (fine anni Settanta). Si trattava di
documentari d’arte in genere, di pittura, scultura e musica. Racconta
Ferrari: “Giravamo l’Italia facendo riprese ed io mi occupavo della
produzione. Poi con Carlo (Verdone) è iniziata una collaborazione anche se
lui a dire il vero era un grande amante della musica rock, batterista e
rockettaro. Io suonavo la chitarra, suonavamo in duetto, ci chiamavamo
“Los Chiodos”, questo lo sanno in pochi; registravamo in casa delle piccole
cose con Carlo al piano e io alla chitarra. Lui (Carlo Verdone) è un buon
suonatore anche di piano, fa delle cose di jazz abbastanza particolari”.
La storia artistica e i personaggi incontrati da Pierluigi Ferrari mi
permettono di poter parlare delle principali differenze tra teatro e
televisione in Italia, cercando di definire quali differenze qualtitative e di
pubblico siano alla base di questi due generi dell’industria culturale e
soprattutto se teatro e televisione possano convivere o come spesso è
accaduto, mescolarsi. Dice Ferrari: Il teatro è un qualcosa che crea
un’atmosfera del momento; l’attore col suo temperamento si butta con tutto
il cuore che ha, quella sera particolare e fa la sua rappresentazione. La
televisione, se viene fatta ad esempio in diretta, anch’essa, provandola
negli sketches con Carlo (Verdone), provoca una forte emozione. Sai che
dall’altra parte dello schermo non ti guardano in 100 o 200 persone ma al
107
contrario, milioni di persone; quando viene dato il nero77
c’è un attimo di
panico. Molto diverso è per quanto riguarda le trasmissioni televisive
registrate; puoi tagliare, ti puoi fermare ma il pathos che l’attore ha in
teatro non può sicuramente essere quello provato né al cinema né in
televisione. A Roma, dove Ferrari ha iniziato la sua carriera, oltre al teatro,
negli anni Settanta, la scena era rivolta ai nuovi comici e a nuovi spazi
minori dove potersi esibire: L’esperienza teatrale romana che nasce dal
genio riconosciuto di Paolo Poli e di sua sorella. Ai tempi gestivano uno
spazio teatrale, l’Alberico e un altro piccolo spazio annesso, l’Alberichino;
succedeva questo: all’Alberico lui (Paolo Poli) faceva i suoi spettacoli
mentre all’Alberichino ci si riuniva di sera per vedere cosa c’era in giro,
dai monologhi teatrali e quant’altro e lui (P.Poli), alla fine di queste
piccole rappresentazione trasformava il teatrino in un “ristorante”, si
tiravano fuori tavoli e sedie e si mangiavano dagli spaghetti all’insalata.
Da Roberto Benigni a Marco Messeri, Carlo Verdone, La Smorfia78
, I
Giancattivi, I Gatti di vicolo dei miracoli e molti altri. Quasi tutti gli attori e
i comici che passavano da Roma, passavano anche in questo spazio
teatrale: Si stava tutti insieme, si chiacchierava, si discuteva e Paolo Poli
incitava tutti questi talenti in erba ad esprimersi ed a rappresentare le loro
opere e idee; spinse anche Carlo Verdone, nel 1977, a mettere in scena il
suo primo lavoro teatrale intitolato: Tali e Quali[…] Possiamo dire che
Paolo Poli è stato precursore e ha preparato le opere che di fatto hanno
dato visibilità maggiore ai nuovi comici nella trasmissione Rai “No Stop”
per la regia di Enzo Trapani, un grandissimo della nostra televisione.
Sicuramente, nella carriera di Pieluigi Ferrari, il passaggio più importante è
77 . Segnale tecnico che da inizio alla diretta televisiva. 78 . Storico trio comico formato da: Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo De Caro.
108
l’incontro con Sergio Leone, di cui ricorda personalità e racconti poco
conosciuti: Sergio (Leone) era veramente geniale sia nella vita quotidiana
che nel suo lavoro di regista, il regista più perfezionista che abbia mai
incontrato. Preciso e addirittura pretenzioso nei confronti della troupe,
degli attori e fino ad arrivare al trovarobe79
. Mi ricordo un episodio
esemplare, si girava “C’era una volta in America” e con Luca verdone
seguivamo la troupe per la realizzazione di un documentario sul back stage
del film80
. Ad un certo punto ricordo lui (S. Leone) fece un feroce appunto
ad un trovarobe perché questi aveva sbagliato i fari di un’automobile di
scena: i fari trovati erano del 1936 ma l’automobile in questione era del
’40. Questo per dire che tipo era Sergio Leone.
Continua ricordando il rapporto artistico tra Carlo Verdone e Sergio Leone:
Per Carlo Verdone è stato (Sergio Leone) un secondo padre, il padre
cinematografico di Carlo, permettendogli di fare “Un sacco bello” e
“Bianco rosso e verdone”81
e con lui sono iniziate anche le mie
collaborazioni cinematografiche con Carlo (Verdone). La mia
collaborazione è culminata diversi anni dopo, fine anni ’80, con la
realizzazione del film “Compagni di scuola”, nel quale sono stato
assistente alla regia (di Carlo Verdone, ndr). E’ stata un’esperienza
bellissima, molto difficile ma che ci ha dato davvero molte soddisfazioni.E’
di sicuro un film che è rimasto e rimarrà nella storia del cinema italiano”.
Il cinema italiano dagli anni Cinquanta in poi ha subito una costante perdita
di pubblico, dovuta anche all’inserimento massiccio di produzioni
cinematografiche straniere ed in particolare statunitensi. Analizzando le
79. Figura professionale in ambito cinematografico, addetto al reperimento di oggetti di scena. 80 . Il titolo di questo documentario sarebbe dovuto essere “Un giorno da Leone”. 81. I primi due film ufficiali di Carlo Verdone con la regia di Sergio Leone e le musiche originali di Ennio Morricone.
109
motivazioni di questa crisi del cinema in Italia, Ferrari dice: il cinema
italiano partorisce dei registi che hanno la grande capacità di colpire in
maniera diretta e di non essere troppo legati al cinema di maniera82
o al
cinema dei grandi mezzi economici: al cinema cosa italiano cosa manca? I
soldi!.
Questa cronica mancanza di fondi dedicati all’industria culturale in Italia, è
perfettamente rispecchiata in un episodio raccontato Ferrari: un episodio
accaduto mentre eravamo in tour con Carlo (Verdone) per lo spettacolo
“Senti chi parla”, eravamo a Siena e una sera decidiamo di andare al
cinema. Ci consultiamo velocemente e decidiamo di andare a vedere
“Shining” di Stanley Kubrick….ci sediamo nel cinema, partono i titoli di
testa83
e Carlo mi dice: “Ecco, a questo punto, noi abbiamo già finito i
soldi, tanto per dirti che rapporto c’è fra cinema americano e italiano, che
differenza di mezzi economici appunto. Il budget impiegato nei titoli di un
film statunitense già esaurisce l’equivalente budget destinato alla
realizzazione di un film completo prodotto in Italia”.
82. Dispregiativo usato nelle arti visive, pittoriche in particolare, per designare lavori troppo accademici,
troppo ammiccante all’arte ritenuta ufficiale e “sicura”. 83. Carlo Verdone aveva appena terminato le riprese di “Bianco, rosso e verdone”.
110
4.3 Stampa: Massimo Bucchi, la finestra sul cortile
La finestra sul cortile è una visione, un modo di interpretare la realtà
Massimo Bucchi
Massimo Bucchi84
, vignettista e grafico classe 1941, è stato tra i primi a
lavorare sul nascente quotidiano “La Repubblica” come grafico e
successivamente come vignettista nelle pagine d’opinione del quotidiano
diretto da Eugenio Scalari. La satira come comunicazione diretta ma anche
stratificata viene raccontata da Bucchi attraverso vignette graficamente
innovative, corredate da didascalie ironiche e pungenti. La sua “finestra sul
cortile” rappresenta uno dei migliori casi di satira italiana su carta stampata:
Ho disegnato a mano per vari anni, poi mi sono ricordato che prima facevo
il pubblicitario e in pubblicità quello che riguarda la parte iconografica
non corrisponde, quasi mai, al prodotto. Se faccio una cosa col dito di Dio
e il dito di Adamo85
e meglio usare direttamente Michelangelo piuttosto che
ridisegnarlo da me. L’opera originale in qualche modo perderebbe la sua
unicità, la sua interezza. Esiste già l’originale e questo basta. Il copyright
ha importanza fino ad un certo punto; ho usato almeno due volte
l’immagine di Topolino86
. La satira in qualche modo è protetta dal diritto
84. E' uno dei più grandi innovatori del linguaggio grafico della satira italiana. Vive e lavora a Roma.
Nella sua lunga carriera è stato disegnatore, vignettista, illustratore, è presente da sempre sulle pagine
d'opinione del quotidiano La Repubblica con la rubrica "La finestra sul cortile", e su un'infinità di riviste specializzate. E' autore di "Torna a casa lessico" e di "Storie dei pazzi", pubblicati da Mondadori nel
1987 e nel 1991. Ha vinto due premi Forte dei Marmi per la satira politica. Oltre a "La finestra sul
cortile" (minimum fax, 1998), ha pubblicato "Moriente e uccidente" (con Piero Sciotto, Bompiani 1999). 85. Famoso particolare de “La creazione di Adamo” di Michelangelo Buonarroti, opera realizzata nel
1511 (data non del tutto confermata ma plausibile) 86. Il Mickey Mouse di Walt Disney.
111
d’autore. Quando un’immagine viene usata non solo senza fini di lucro ma
anche come comunicazione umoristico-satirica c’è molta più tolleranza.
La satira, al pari di una poesia o di una canzone, incide sulle opinioni dei
lettori e del pubblico in genere. Ogni prodotto culturale stimola una
reazione dell’opinione pubblica; nel caso di una vignetta satirica ospitata
all’interno di uno dei maggiori quotidiani nazionali (La Repubblica), è
interessante analizzare reazioni e atteggiamenti confrontandoli anche col
particolare periodo storico che si intende analizzare: una vignetta in tempi
elettorali ha probabilmente un peso diverso rispetto ad una vignetta
realizzata il 15 di Agosto. Massimo Bucchi, più che di incisività di
contenuto di una vignetta, parla di incisività sul comportamento del lettore:
[…] è un fatto di condivisione, si capisce quali spazi si possano
frequentare e quali no. Non penso sia un modo di persuadere, di
convincere, non lavoro per la Pravda87
. Esiste un pubblico che è già
abbastanza in sintonia con la testata (La Repubblica in questo caso, ndr),
esiste un pubblico che si aspetta degli argomenti piuttosto che altri, questo
si. Ma non è un pubblico che aspetta di sapere quel che deve pensare.
Rispetto alla possibilità di creare una vignetta in assenza di un giudizio
personale dell’autore, Massimo Bucchi è invece scettico: Riferendomi al
periodo che va dalla distruzione delle due torri88
fino ad arrivare a tempi
più recenti. In quei momenti, è difficilissimo esercitare una critica. Una
critica di questo tipo non può essere esercitata in termini politici diretti,
soprattutto usando i codici della satira. Mi ricordo ad esempio di una mia
87. Quotidiano ufficiale del Partito Comunista Russo già dall’inizio del ‘900. 88Si fa riferimento all’attentato terroristico che provocò la distruzione del World Trade Center di Manhattan (New York) e al grave danneggiamento di molti edifici adiacenti; 11 Settembre 2001.
112
vignetta in cui il figlio dice al padre: “papà dove finiscono le stelle?” e il
padre gli risponde: “dove cominciano le strisce….89
La vignetta, come ogni prodotto dell’industria culturale, per essere
comunicata ed essere compresa, necessita di una condivisione di codici e
sottocodici da parte del pubblico. Una comunicazione condivisa del
prodotto culturale risulta difficile in assenza di un codice condiviso dagli
attori in questione: il vignettista da una parte e il lettore dall’altro. Questa
situazione comunicativa è riscontrabile in molteplici ambiti dell’industria
culturale: dal prodotto musicale al prodotto editoriale, il messaggio deve
essere codificato da chi lo riceve. Nel suo quotidiano lavoro a “La
Repubblica”, Massimo Bucchi affronta questo problema di comunicazione:
I codici sono fondamentali. Semplicemente trasportando una vignetta da
una pagina ad un’altra, si cambia completamente il significato della
vignetta stessa. Per esempio: circa dieci anni fa (nel 1994, ndr), nel
periodo in cui Silvio Berlusconi scese in politica attiva, feci un paio di
vignette per la pagina dei commenti. Queste vignette vennero spostate
dalla pagina sulla prima pagina (del quotidiano “La Repubblica”; così
facendo però, assumevano un significato del tutto diverso da quello da me
ricercato nel realizzarle. Nelle vignette in questione avevo rappresentato
due personaggi intenti a rubarsi voti elettorali; spostati in prima pagina
davano l’idea di rubarsi il portafogli. Se faccio una vignetta da prima
89Ancora a proposito di posizioni personali nella creazione di una vignetta, dice Massimo Bucchi: “sono
particolarmente affezionato, come dire, all’intuizione politica…..quando ci riesco. Mi ricordo di aver fatto una vignetta nel ’93, in piena Mani Pulite, avevano appena arrestato tutti e si diceva “è cambiato
tutto, l’Italia sarà un altro paese, ecc” e i feci una vignetta raffigurante Robespierre che diceva: “ Gli
italiani non hanno capito la differenza tra una rivoluzione e una retata”. Seguirono anche delle piccole polemiche interne al giornale dovute al fatto che alcuni pensavano che i maxi arresti potessero essere un
punto di svolta e cambiamento reale negli equilibri politici del paese e quelli che , come me, pensavano
che non sarebbe cambiato nulla di sostanziale. E la mia non era una percezione individuale ma bensì un’idea diffusa, era nell’aria.
113
pagina devo sapere che tipo di notizie le faranno da contorno. La prima
pagina di un quotidiano è una pagina essenziale, è a “rimorchio” della
notizia […..]. Il giornale è come un domino: la prima pagina butta giù tutte
le altre impregnandole del suo significato (dando a una certa copia, di un
certo quotidiano, un certo taglio ben specifico, ndr).Si legge qualsiasi
pagina del giornale, dalla prima in poi, avendo sempre il riferimento,
inconscio o consapevole, di quanto visto in prima pagina.
Durante questo è stata esaminata la crisi della stampa in Italia e i modi in
cui i quotidiani sono riusciti a rinnovarsi grazie all’introduzione di inserti e
prodotto multimediali abbinati alla copia del quotidiano in edicola. In
questi termini la nascita del quotidiano “La Repubblica”, nel 1976, e il suo
sviluppo negli anni successivi, è un caso esemplare. Massimo Bucchi
ricorda così la nascita del quotidiano di Scalfari: […] era un giornale
vivissimo. Raccoglieva tutte le tendenze del momento, era un cantiere di
idee. Ho partecipato a tutti i numeri zero del quotidiano, abbiamo
cambiato moltissimo prima di dargli la forma e i contenuti per i quali è
conosciuta [….] Repubblica è un giornale nato senza sport (da intendersi
come: Pagina sportiva, ndr), senza fotografie, doveva essere un “Le
Monde”90
…. Poi invece, le fotografie servivano in Italia. Lo sport è nato
due anni dopo.Il giornale è nato nel 1976, due anni dopo nel 1978, la
Nazionale di calcio italiana andava talmente bene ai Mondiali di Argentina
che a metà campionato mondiale abbiamo deciso di introdurre lo sport
dedicandogli due colonne in quarta pagina (2 colonne su 6 totali che
costituiscono il formato tabloid de “La Repubblica”). Così è nato il primo
nucleo della redazione sportiva del giornale.
90. Storico quotidiano francese.
114
Altro punto cruciale per la vendita di un prodotto culturale ma anche di un
prodotto commerciale generico, è l’individuazione di un pubblico o
audience di riferimento, nel caso di Repubblica dice Bucchi: Non sapevamo
bene, ancora, quale potesse essere il pubblico di riferimento e quindi
modificavamo tutto e continuamente; sapevamo che un nostro possibile
pubblico di riferimento era quello appartenente all’area riformista[…..]ma
era comunque un aspetto complicato da stabilire. Di sicuro c’era già una
crisi della stampa comunista: Paese Sera91
, L’Unità perdeva copie, ecc.
Era un giornale (La Repubblica, ndr) che vendeva pochissimo all’inizio.
Il caso del rapimento Moro92
, paradossalmente, è stato importante, senza
confondere la gravità della situazione con argomenti più futili, per le sorti
e le vendite di Repubblica; ha dato la possibilità al pubblico di vedere
come la redazione riuscisse a raccontare questo fatto di cronaca: su Moro
si scrivevano delle cose che oltre a Repubblica, nessun altro quotidiano
avrebbe mai pubblicato. Per esempio: le lettere che Moro scrisse durante il
rapimento vennero pubblica da Repubblica e non da altri quotidiani.
Andando a fondo nell’analisi dei cronici ritardi dell’industria culturale
italiana, non si deve dimenticare il ruolo centrale che ha avuto il sistema
politico nel causare un’ “atrofizzazione” delle nuove proposte. A tale
proposito, Massimo Bucchi individua le principali cause di questo ritardo
culturale in diversi fattori: […] il sistema è vecchio. Le nuove proposte
cadono nel vuoto; come le vecchie navi in malora, riparate col compensato
al posto dell’acero. Non c’è l’idea del rinnovare. E continuando nella
specifità dell’arte vignettistica in Italia, aggiunge: Nel particolare campo
91. Quotidiano nazionale ormai scomparso. 92. Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana nel 1978. Rapito dalle Brigate Rosse nel maggio dello stesso anno.
115
del nostro mestiere, non esercitando una funzione fondamentale nella
società, penso che di noi si potrebbe anche fare a meno. Non ci sarebbe
uno shock nel paese se le vignette sparissero dalle pagine dei quotidiani;
negli Stati Uniti o in Inghilterra, si! In Italia abbiamo fatto a meno della
satira e della vignetta per quindici anni. Abbiamo un nostro pubblico,
meno numeroso di altri ma potrebbe essere tranquillamente “soffocato”; le
vignette sono sempre più usate come segnalibri. Tecnicamente la vignetta
viene inserita quando, in assenza di foto classica, un pezzo giornalistico
deve essere segnalato: la vignetta attira l’attenzione del lettore che
probabilmente leggerà l’articolo segnalato dal disegno vignettistico. La
vignetta può considerarsi al pari di un segnalino pubblicitario, una cosa
che pulsa, lì dov’è.
Massimo Bucchi, nel 2000, ha allestito una mostra delle sue opere migliori
all’interno del Lettere Caffè di Roma. Analizzando la funzione di un caffè
letterario moderno nella comunicazione di contenuti culturali, il binomio
industria culturale-caffè letterario risulta possibile ma ad alcune condizioni:
[…] bisogna vedere come viene organizzato il progetto (Lettere Caffè, il
caffè letterario, ndr). Bisogna individuare quali contenuti si intende
comunicare, a che pubblico intende rivolgersi: non dev’essere solo un
momento di intrattenimento; il Lettere Caffè deve perseguire gli obiettivi
per cui è nato: diffusione di autori e linguaggi nuovi, senza puntare
direttamente al mercato (inteso come mercato di massa, ndr). Cercare di
capire primariamente come il pubblico reagisce a questa novità (Lettere
Caffè, ndr) e quali siano le aspettative ad esso legate. Penso che i caffè
letterari abbiano ancora un’importante ruolo di mediazione purché non
organizzati come il “tè delle cinque” ma come diffusori di nuovi contenuti.
116
Altrimenti rimarrebbero confinati nella categoria delle “cose
meravigliose” come può esserlo una proiezione in sala cinematografica ma
senza nessun’altra differenza. I caffè letterari in genere, presuppongono un
pubblico che abbia una formazione culturale di un certo tipo, che sappia a
cosa ci si riferisce, detto questo, è possibile che il Rock & Roll sia
superiore alla filosofia greca: non do giudizi di qualità ma di quantità di
informazioni, più o meno recepibili dall’interlocutore.
4.4 Scrittura: Enza Li Gioi, amici di penna
Enza Li Gioi93
, goriziana di nascita e romana d’adozione, scrittrice94
e
ideatrice del Lettere Caffè di Roma, ricopre il ruolo di presidente della
Lettere Caffè Franchising s.r.l. con l’intento di creare una rete nazionale di
caffè letterari. La rivista Lettere - il mensile dell’Italia che scrive, secondo
Enza Li Gioi:
aveva in se già tutti gli elementi del caffè letterario. La rivista era un
contenitore di tutto ciò che poteva essere espresso attraverso la scrittura;
mancava solo la musica che successivamente si è rivelata invece come
attività fondamentale all’interno dell’attività del caffè letterario. Era una
93. Per una breve biografia di Enza Li Gioi, fare riferimento alla nota n. 59, cap. 3, par. 3.6 94. “La scrittura manuale è una caratteristica esclusiva dell’essere umano. Tutti gli animali comunicano
tra loro attraverso un particolare linguaggio ma solo l’uomo è in grado di scrivere, lasciando traccia dei
suoi pensieri. Esistono diverse scienze collegate alla scrittura: la grafologia, prima fra tutte, individua il
carattere di una persona dal modo in cui scrive; è in grado di farlo con una tale precisione che può
essere usata per risolvere casi giudiziari e criminosi. Come si potrebbe rinunciare all’importanza della
scrittura? Ben vengano le nuove tecnologie digitali ma a patto che non porti alla rinuncia di questa
caratteristica esclusiva dell’espressione umana”. Enza Li Gioi, intervistata da Davide Trebbi.
117
rivista molto bella, dalla grafica ai materiali usati e con la collaborazione
di un grande illustratore, Riccardo Mannelli95
a cui era affidata la parte
che definirei: visual. […] pur non essendo letteraria nel senso più classico
del termine: era una rivista a carattere epistolare. Poteva parteciparvi
chiunque avesse qualcosa da scrivere, discutendo dei più disparati
argomenti. Presentava diverse sezioni ed argomenti quali: lettere d’amore,
lettere di odio, gelosia o rancore; i lettori scrivevano e molto. La nostra
redazione era subissata da missive e interventi di lettori e curiosi.96
Il sommerso culturale italiano e la sua possibile “emersione” è il movente
culturale e organizzativo del Lettere Caffè di Roma. Scopo di questo lavoro
è di comprendere come un caffè letterario, possa incidere su un’industria
culturale, quella italiana ad esempio, legata da sempre a centri di potere e
personalità che spesso offuscano luoghi innovativi o laboratori culturali. Il
Il caffè letterario, sia storicamente sia come riproposizione moderna, è da
sempre un catalizzatore di cultura non ufficiale e quindi sommersa. Spiega
ancora Enza Li Gioi: Il sommerso è il movente di questo caffè letterario,.
L’attenzione per il sommerso culturale è fondamentale: è evidente, anche
camminando per la strada, imbattendosi in un musicista solitario. Ci si può
rendere conto che la qualità della sua musica è di gran lunga maggiore
rispetto ad altri prodotti ben confezionati e proposti dall’industria. Di
fronte a questa situazione il ragionamento va da sé e si potrebbe pensare
che questo musicista incontrato per caso e comunque molto bravo, si
meriterebbe perlomeno una locandina che riportasse il suo nome e
descrivesse la sua arte[…] è giusto che esistano dei luoghi che danno la
95 Illustratore del quotidiano “La Repubblica”. 96
. Cfr. Cap. 3.1: Le origini: dal 1999 ad oggi.
118
possibilità di conoscere il meglio della musica e dell’arte in genere (dalla
poesia alla pittura). Il sommerso in questo paese è enorme e non trova una
via d’uscita o il modo di manifestarsi. Questi posti (i caffè letterari, ndr)
sono necessari per gli artisti e per coloro che operano nel settore della
cultura in genere.
Nel resto dell’Europa, molti dirigenti, sia pubblici sia di grandi aziende
private, sono giovani colti e ben istruiti e nella maggior parte dei casi,
hanno una grande esperienza pratica. Non è difficile trovare, all’estero,
manager di alto livello con appena 40 anni di età ad esempio; in Italia si
potrebbe invece, per usare un’espressione personale, di vecchie poltrone. Il
problema in Italia è opposto: pochi giovani realmente preparati,
professionalmente parlando e molti settori chiave dell’industria nazionale
controllati anziani o adulti che dir si voglia. Il divario tra il paese reale e il
potere decisionale, in Italia, risulta enorme. Enza Li Gioi ha una lunga
esperienza di vita e fa parte invece di quegli individui maturi che non
restano “attaccati ad una poltrona” ma bensì decidono di progettare cose
nuove e dinamiche. Il ruolo dei giovani nello sviluppo del paese Italia e il
ruolo dei centri e delle personalità di potere radicate nel nostro paese viene
così definito da Li Gioi: Credo si debba fare una distinzione tra la
giovinezza dell’anagrafe e la giovinezza delle idee. Nel nostro paese vige
un finto giovanilismo: vecchi che non vogliono invecchiare, anche se l’età
avanza e poi una specie di contentino che le istituzioni danno ai giovani,
nominandoli in continuazioni e promettendo progetti futuri. I giovani
vengono solo nominati, nulla di più. Questo secondo qualcuno dovrebbe
essere sufficiente alla costruzione delle nuove generazioni: è evidente che
non basta. In realtà gli “anziani” tengono fermamente il potere ei giovani
119
vengono incensati e niente di più. E’ una situazione assurda: la giovinezza
riguarda le idee, l’innovazione e non una particolare età anagrafica. Ciò
premesso, certamente in Italia il potere gli “anziani” non lo abbandonano
mai. In Inghilterra, Tony Blair a 53 anni sta lasciando la poltrona mentre
noi, in Italia, abbiamo novantenni che restano saldamente al loro posto di
potere. Un eccezione positiva potrebbe essere fatte per il Presidente della
Repubblica, come saggio anziano e considerando il delicato ruolo
istituzionale ma per il resto non si vede il motivo del mancato
rinnovamento generazionale del paese.
Da Nord a Sud, prendendo ad esempio l’Inghilterra o la Germania esistono
molti spazi culturali come i caffè all’interno dei quali è ancora possibile
comunicare analogicamente invece che tra server e terminali.
Il nostro paese ha una storia ricca e lunga almeno 3000 anni mentre invece
molti paesi del Nord Europa, pur avendo una storia meno densa e più
recente, si ritrovano ad essere più “civili” di noi riguardo all’attenzione
rivolta ai fenomeni culturali. Una delle principali ragioni di questa
situazione è da individuare secondo Enza Li Gioi nell’intelligenza
imprenditoriale, soprattutto da parte dei governanti e politici: Se si investe
in direzione dell’educazione e della cultura nelle giovani generazioni ci si
attendono dei riscontri fattivi, come farebbe ogni buon imprenditore. E’
necessario vedere i risultati di un così cospicuo investimento[…]
Al contrario, in Italia, pur essendo usciti dal problema dell’analfabetismo
in tempi relativamente brevi e con investimenti che immagino cospicui,
sembra che nessuno voglia sapere qual’è stato il risultato di questa
120
immane spesa pubblica per l’alfabetizzazione della nazione97
. Quanti poeti,
scrittori e artisti cono nati in seguito a quest’opera di acculturazione
nazionale? Sembra che nessuno voglia saperlo e considerarlo”.
La lunga storia d’Italia poi, secondo Li Gioi ha l’effetto di dare gran parte
dell’attenzione al mantenimento di monumenti e opere d’arte del passato
con una conseguente scarsa attenzione alle opere del presente: Tutti gli
sforzi, anche economici, rivolti alla cultura vanno a restaurare sia
praticamente che concettualmente, cose del passato. E’ giusto restaurare e
conservare il passato ma non dovrebbe diventare una priorità; le maggiori
risorse andrebbero rivolte a tutto ciò che è nuovo. Esemplare per capire
questa differenza tra l’Italia e l’estero potrebbe essere l’operazione
compiuta con l’Ara Pacis di Roma che è stata “incartata”, mentre invece a
Parigi si costruisce una piramide di ferro e vetro proprio di fronte al
Louvre, edificio di arte antica. I francesi, così facendo, hanno mescolato
antico e moderno con grande disinvoltura; per non parlare degli
avveniristici musei che sorgono in capitali estere come il Guggenheim di
New York […] noi invece, in Italia, continuiamo a restaurare “vecchie
97.Non è mai troppo tardi è il titolo di una celebre trasmissione televisiva mandata in onda a cadenza giornaliera dalla RAI fra il 1959 ed il 1968 e organizzata col sostegno del Ministero della Pubblica
Istruzione. Il programma era condotto dal maestro e pedagogo Alberto Manzi (Roma, 1924 – Pitigliano, 1997), che ne era stato anche l'ideatore, e aveva il fine di insegnare a leggere e a scrivere agli italiani che avevano superato l'età scolare, ma che non ne erano ancora in grado. Si trattava di autentiche
lezioni, tenute da Manzi a classi formate da adulti analfabeti, nelle quali venivano utilizzate le tecniche
di insegnamento allora più moderne, proposte al pubblico televisivo con un linguaggio piacevole e per nulla pedantesco.La trasmissione ebbe un ruolo sociale ed educativo molto importante, contribuendo
all'unificazione culturale della nazione tramite l'insegnamento della lingua italiana e abbassando
notevolmente il tasso di analfabetismo, particolarmente elevato nell'Italia di quegli anni. Infatti pare
che, grazie a queste lezioni a distanza, quasi un milione e mezzo di persone sia riuscito a conseguire la
licenza elementare. Il progetto ebbe inoltre un grande successo internazionale, in quanto fu imitato da
ben settantadue paesi.
121
cose”, di grande valore ma se una parte della ricchezza va devoluta al
mantenimento del passato, la maggior parte della ricchezza andrebbe
destinata allo sviluppo di tutto ciò che è nuovo.
Il Lettere Caffè, in quanto caffé letterario, fa parte di quello che si potrebbe
definire settore terziario intelligente, un intrattenimento consapevole al
contrario della frequente ipnosi da schermo, sia televisivo che informatico.
I vantaggi sociali di un caffè letterario in genere possono essere molteplici
e raccontando l’esperienza del Lettere Caffè, Li Gioi chiarisce: invita (il
Lettere Caffè, ndr) gli avventori ad aprire un libro mentre si sorseggia una
bevanda. Questo mi sembra già molto. All’interno di questo caffè non
esiste la moda, il nostro obbiettivo era di renderlo un classico, un piccolo
monumento della cultura per tutti, come se fosse sempre esistito e per
sempre dovesse esistere; a cominciare dall’architettura decostruttivista
con cui il caffè è realizzato, operando nello spazio in maniera insolita,
dando più valore al contenuto che al “contenitore”. E’ un’architettura che
non risponde a nessuna regola precisa, rispecchia esattamente lo spirito
del Lettere Caffè, fino ad essere un po’ instabile e preoccupante, come la
situazione culturale italiana d’altra parte. E all’interno di un caffè
letterario come il Lettere Caffè, la poesia ricopre un ruolo fondamentale
anche attraverso un’interessante iniziativa editoriale “Il resto è poesia”98
.
La sinergia tra poesia e caffè letterario risulta evidente: la poesia, come la
canzone, sono creazioni spontanee dell’artista […] canzone e poesia sono
un flusso di coscienza dell’artista e non dovrebbero essere programmate
da altri. A questo proposito “Il resto è poesia”, un’iniziativa del Lettere
Caffè, rende possibile il commercio della poesia in un modo molto
98. Cfr. www.ilrestoepoesia.it
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semplice: i clienti invece del resto alla cassa, posso acquistare al costo di
1€, dei libretti contenenti una selezione dei migliori poeti passati dal
Lettere Caffè. I poeti sono stati, di fatto, isolati e questa nostra iniziativa
editoriale oltre ad essere ironica, vuole anche diffondere opere poetiche di
buona e ottima qualità. Non è più possibile, come un tempo, fare di
professione il poeta; malgrado questa situazione, qui al Lettere Caffè,
attraverso il nostro Slam Poetry99
, la poesia viene trattata come una cosa
seria. Attraverso la sfida tra poeti in carne ed ossa presenti nel caffè, la
poesia viene anche ironizzata e comunque resa accessibile al pubblico, con
grande divertimento e attenzione da parte dei presenti e con un’affluenza e
una partecipazione in continua crescita.
Crescita e partecipazione del Lettere Caffè dipenderanno in futuro dalla
capacità di conciliare cultura e nuove tecnologie ma anche dallo sviluppo
della rete di caffè letterari sul territorio nazionale. Tra i tanti buoni motivi
insiti nella creazione di una rete nazionale di questo tipo, Enza Li Gioi
specifica: oltre all’offerta radio televisiva, con grandi mezzi e
finanziamenti, in Italia c’è spazio per poco altro; chi è escluso,
indipendente dalla qualità dell’opera proposta, da questi investimenti e da
questi media di massa, non sarà mai conosciuto al grande o medio
pubblico. E’ opportuno creare una rete alternativa che proponga nuovi
autori e gli permetta di spostarsi sul territorio nazionale, facendo
conoscere la propria opera.
Ripercorrendo la storia dei primi caffè letterari si potrebbe dire, con le
parole di Li Gioi, che i caffè: […] sono nati semplicemente come caffè,
luoghi dove potersi sedere e conversare a lungo; va da sé che chi aveva
99. Gara di poesia per alzata di mano.
123
qualcosa da dire erano spesso gli intellettuali e gli artisti in genere. Questi
luoghi, nati come caffè, diventavano letterari nel momento in cui
ospitavano dibattiti più o meno pubblici e scambi di idee più o meno
ufficiali e accettate. Il caffè letterario di oggi nasce appunto con l’intento
di far rivivere quest’atmosfera di scambio e confronto che ha avuto inizio
due secoli fa. Oggi come allora, i caffè letterari ospitano chi ha qualcosa
da dire e spesso non trova altri luoghi per poterlo esprimere. Sta
diventando, per dirla televisivamente, un format culturale.
124
125
Appendice
Da Nord a Sud, Inchiostri d’autore al Caffé: Mostra itinerante in alcuni
tra i più importanti caffè storici letterari italiani
Un’idea che nasce dall’amicizia tra un libraio antiquario, Paolo Salvarani
della libreria Grandangolo e il proprietario di un Antico Caffè letterario,
Luca Bonacini del Caffè dell’Orologio, di Modena.
Un’incredibile esposizione di lettere e scritti, originali autografi, in gran
parte inediti, letterati, poeti e pensatori che hanno fatto grande il Novecento
Italiano. Il materiale oltre cento documenti, messo a disposizione da
importanti collezionisti privati italiani. Documenti che Ci rivelano alcuni
aspetti essenziali della personalità e dei loro rapporti letterari. Ci
permettono di conoscere a distanza ravvicinata l’intima identità di questi
personaggi, che hanno reso questo secolo appena trascorso, meno buio, e
che tutti noi avremmo voluto conoscere. L’importante raccolta riunita in
una mostra che girerà per oltre un anno,i più antichi Caffè letterari italiani,
e che ci permetterà di apprezzare queste testimonianze di vita, proprio
all’interno dei luoghi dell’ospitalità dove esse sono state scritte.
Tra i vari patrocini spicca quello dell’associazione Locali Storici d’Italia, e
la gentile collaborazione del Comune di Torino.
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Luoghi e date:
CAFFE’ DELL’OROLOGIO 1859 di Modena
25 settembre - 21 ottobre 2004
Cenacolo di democrazia e cultura: nel 1945, nella piazzetta delle Ova
esplose la festa della liberazione e l’Orologio offrì liquori a tutta Modena
per 24 ore; qui è nata nel 1962 la “Cooperativa per la diffusione dell’opera
Artistica”per diffondere la più bella cultura del teatro e della grafica; qui si
riuniva il Gotha dell’editoria italiana nel ’62 e ’63 per le prime due edizioni
del Festival del libro,con Arnoldo Mondadori, Giulio Einaudi,
Giangiacomo Feltrinelli, Ugo Guanda e Angelo Rizzoli,insieme a Pasolini,
Bevilacqua, Bianciardi, Chiara.
CAFFE’ SAN CARLO 1822 di Torino
30 ottobre - 23 novembre 2004
Celebre ritrovo di intellettuali e patrioti risorgimentali, chiuso varie volte
per l’attività sovversiva dei riformisti, venne frequentato da scapigliati,
docenti universitari, giornalisti, scrittori e artisti.Qui Alessandro Dumas
assaporò il suo primo “bicerin”, il Duca degli Abruzzi progettò la storica
spedizione in Antartide, Gramsci ebbe l' idea di fondare “L’Ordine
Nuovo”,e poi ancora sostarono: De Amicis, Benedetto Croce, Casorati,
Gobetti, Luigi Einaudi, e Carlo Levi.
127
CAFFE’ FIORIO 1780 di Torino
30 ottobre – 23 novembre 2004 (insieme al San Carlo)
Carlo Alberto chiedeva ogni mattina cosa si era detto tra le sue mura,
perchè era il caffè più aristocratico meta di intellettuali, nobili e politici. Lo
requentarono Cavour, Rattazzi, D’Azeglio, e ancor oggi quelle sale
magnificamente restaurate, raccolgono i segreti dei gelati più famosi di
Torino, amatissimi da Nietzsche.
GRAN CAFFE’ GIUBBE ROSSE 1890 di Firenze
4 dicembre 2004 - 6 gennaio 2005
Soffici prese qui il famoso schiaffo. Tra fumo, spumante e assenzio,
consumavano qui le notti le anime esaltate del Futurismo fiorentino, i
redattori di Lacerba e della Voce: c’erano Papini, Prezzolini, Slapater,
Palazzeschi, Rosai, Stuparich, Viviani, a cui s’univano Boccioni, Russolo,
Balla, Severini, Marinetti. Oggi il caffè che fù anche di Vittorini, Gadda e
Montale dà vita ogni mercoledi, agli “incontri letterari”.
CONFETTERIA COVA 1817 di Milano
8 gennaio – 2 febbraio 2005
E’ un Caffè istituzione, dove la vita milanese pulsa da quasi due secoli.
Ritrovo di patrioti delle Cinque Giornate, circolo di nobili, era centro di
tutte le riunioni e dei trattenimenti serali. Lo frequentarono Tito Speri,
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Cairoli, Mazzini, Garibaldi, Verga, Sabatino Lopez. Nel 1868, Cova battè
addirittura moneta. Esclusiva e raffinata, la pasticceria continua la sua
tradizione di salotto meneghino, sull’elegante via Montenapoleone.
CAFFE’ PEDROCCHI 1831 di Padova
12 marzo - 13 aprile 2005
Continua il grande retaggio romantico, il Gran Caffè senza porte dove
l’incontro del mondo di ieri e di oggi riesce a costituire linfa sociale di una
città di studi come Padova. Da quando Stendhal lo definì “Le meilleur caffè
d’Italie” il Pedrocchi è sempre migliorato e, dopo un’inevitabile stasi, oggi
è di nuovo pieno di risorse culturali grazie all’opera del Comune patavino.
GRAN CAFFE’ GAMBRINUS 1860 di Napoli
16 aprile – 22 maggio 2005
Loggia della Napoli dell’ultimo Ottocento, era centro politico, urbano e
morale della città.
Qui D’annunzio scrisse i versi di “Vucchella”;qui sedevano il giornalismo,
la legge, l’arte. La politica di Napoli, tutti riuniti in un cenacolo ideale che
un prefetto fascista trasformò in Banca nella parte più bella. Ma che oggi,
con le sue mille decorazioni illustri ancora vive.
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Ringraziamenti
Un grazie profondo ai miei genitori per avermi sostenuto nei miei studi e
nella mia vita di tutti i giorni.
Grazie al Dott. Giovanni Prattichizzo per la sua pazienza e i suoi preziosi
consigli per ordinare questo mio lavoro; al Dott. Giovanni Ciofalo per la
sua disponibilità; al Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione
dell’Università “La Sapienza” di Roma, Prof. Mario Morcellini, per la sua
comprensione e per il suo incoraggiamento.
Un grazie particolare a Massimo Giordano per la realizzazione e l’editing
delle riprese audio-video delle interviste contenute in allegato a questo
lavoro.
Grazie a Claudio Lolli, Massimo Bucchi, Pierluigi Ferrari ed Enza Li Gioi
per avermi concesso utili interviste per la realizzazione di questo lavoro.
Grazie a Marina Fornabaio, inestimabile presenza nella mia vita e saggia
consigliera nei momenti più difficili della realizzazione di questo lavoro.
Grazie a Sabina, Adriano, Stefano e Ivana per la collaborazione nello
svolgimento delle pratiche amministrative necessarie per la presentazione
di questo lavoro.
E ancora grazie alla buona musica e all’arte di qualità che da sempre mi
aiuta a vivere meglio.