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A14 126 1 TEORIA DEI SISTEMI E COMPLESSITÀ Collana diretta da Andrea Pitasi

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TEORIA DEI SISTEMI E COMPLESSITÀCollana diretta da Andrea Pitasi

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SFIDE DEL NOSTRO TEMPO

Andrea Pitasi

Verso una sociologia giuseconomicadel mutamento globale

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Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: aprile 2007I ristampa aggiornata: giugno 2007

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Che lo vogliamo, o no, noi non saremo più quelli che eravamo

e non saremo più quelli che siamo.

N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, Armando, Roma 1995, p. 11

Ama il tuo sogno ogni inferiore amore disprezzando,

il vento ama ed accorgiti qui

che sogni solo possono veramente essere, perciò in sogno a raggiungerti m’avvio.

Ezra Pound, Canzone

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Teoria dei sistemi e complessità Collana diretta da Andrea Pitasi

Dagli studi di von Bertanlaffy in biologia, agli scritti di Wiener ed Ashby a fondazione della prima cibernetica, dalle pagine di Buckley sulla teoria dell'informazione a quelle di von Foerster per lo sviluppo di una cibernetica di secondo ordine, dalla sociologia costruttivista di Luhmann al campo olografico di Laszlo, dagli studi nelle scienze del-l'organizzazione di Crozier e Friedberg alle riflessioni epistemologi-che di Delattre, la teoria dei sistemi è una delle principali protagoniste intellettuali del XX secolo e all'alba di questo terzo millennio si con-ferma uno strumento concettuale potentissimo per l'evoluzione socio-economica dell'umanità. Come scrive brillantemente proprio Delattre: “la teoria dei sistemi ambisce ad agire allo sgretolamento dei saperi e a sviluppare una metodologia all'altezza delle sfide della complessità (...) Dopo la fase di decostruzione delle vecchie discipline (...) è di-ventato oggi indispensabile procedere ad una nuova sintesi delle cono-scenze secondo un principio di unificazione necessariamente differen-te da quelli precedenti poiché deve essere adeguato ad altri livelli di apprendimento” (P. Delattre, Teoria dei sistemi ed epistemologia, Ei-naudi, Torino 1984, pp. 3-5) e in tal senso, appunto, la teoria dei si-stemi si è rivelata un modello concettuale formidabile anche per la sua plasticità evolutiva ed adattiva ad esempio attraverso il paradigm shift da una logica tutto/parti ad una logica sistema/ambiente. Essa rivela la sua grande potenza euristica nel creare modellizzazioni concettuali in-terdisciplinari fondamentali per sviluppare analisi di scenario globale, strategie evolutive dotate anche di un adeguato impianto predittivo -su base probabilistica - e interventi tattico-operativi di problem solving che l'hanno resa applicabile anche in varianti più divulgative come quella di Paul Watzlawick e i suoi collaboratori. La teoria dei sistemi, inoltre, essendo a sua volta evolutiva, come testimoniano le splendide ricerche di Ford e Lerner, si presta a creare modelli concettuali glocali in grado, cioè, di gestire le complesse dinamiche di globalizzazione e localizzazione, di integrazione e differenziazione che contraddistin-guono l'evoluzione auto-organizzativa del vivente. Come scrive sag-giamente lo stesso Delattre (op.cit, pp.15-16): “il carattere interdisci-

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plinare della teoria dei sistemi implica lo studio e il confronto dei me-todi e dei concetti utilizzati dalle diverse discipline per isolare il so-strato comune capace di costiuire l'ossatura di un linguaggi più o me-no unificato (...) ogni linguaggio deve essere, nella misura del possibi-le, formalizzato il che significa che le sue regole di combinazione in-terna devono essere sufficientemente precise da eliminare al massimo le ambiguità, un'esigenza costante di ogni attività scientifica”. Questa collana dunque è assai attenta ed aperta a contributi interdisciplinari che offrano anche occasione di rivoluzioni kuhniane e innovazioni schumpeterianamente radicali all'altezza delle sfide evolutive della complessità negli scenari globali attuali così ricchi di soglie epocali e di biforcazioni (ad esempio se continuare ad avere un’economia basa-ta sul petrolio o attivare seriamente fonti alternative di energia, se in-vocare teorie creazioniste sull'origine e l’identità biologica dell'uomo oppure aprirci a salti evolutivi che implichino una rilettura, con relati-ve minacce ed opportunità, delle chances di vita dell'uomo in nuove forme) che sono proprie del nostro tempo e di fronte alle quali la più tragica e rischiosa decisione sarebbe quella di non decidere.

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INDICE

Prologo pag. 11

Introduzione: sfide del nostro tempo pag. 15

Capitolo I Diritto come comunicazione globale pag. 23

Capitolo II La comunicazione del diritto come tecnologia sociale pag. 51

Capitolo III KWF: una possibile mappa strategica per il nostro tempo pag. 61

Capitolo IV Appunti per una teoria sociogiuridica della bioeconomia pag. 127

Epilogo: sistemi sociogiuridici nell’orizzonte pag. 159 bioeconomico Bibliografia pag. 161

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Prologo

Tutto cominciò in una torrida estate texana mentre i mass media statunitensi erano tutti presi dal capire esattamente che cosa facessero Bill Clinton e una sua stagista nella Sala Ovale della Casa Bianca. A me importava assai poco degli abboccamenti del Presidente america-no. Ero arrivato negli USA, quella fine di Luglio del 1998, con un’idea di software evolutivo per i processi decisionali complessi da proporre al mio amico Greg Getz della University of Houston Downtown che aveva anche organizzato un paio di seminari in cui a-vrei pubblicamente presentato quella mia idea. Il resto della storia è noto, almeno agli addetti ai lavori.

I miei saggi apparsi all’estero (soprattutto: http://www.univie. ac.at/constructivism/papers/2002/pitasiconstruction.pdf), poi il sog-giorno alla Kansas State University nel 2001 confrontandomi con Ri-chard J. Harris e, soprattutto, con Leon Rappoport che da allora, dai terribili giorni dell’attacco alle Twin Towers perché di quel momento storico ormai lontano stiamo parlando, è per me una sorta di maestro intellettuale. Lo stesso anno l’uscita per Taylor & Francis (New York 2001) dei tre volumi da me diretti come Guest Editor dal titolo “Futu-re Trends of Communication Strategies” per la rivista World Futures sotto la supervisione del General Editor, l’esperto mondiale di teoria dei sistemi evolutivi Ervin Laszlo, Presidente del Club di Budapest (http://www.clubofbudapest.org) mi legittimò come studioso di una comunità internazionale molto specifica.

Nel 2003 vide la luce il mio volume Universi Paralleli, uscito per Franco Angeli che all’epoca ebbe, ai miei occhi e nell’ambito della mia produzione scientifica, il grande merito di sistematizzare ed evol-vere il mio percorso di ricerca del periodo 1995-2003, appunto. So-prattutto il capitolo sei di quel volume rendeva accessibile anche ai lettori italiani (del settore), il quadro concettuale e i suoi sviluppi dell’“idea folle” con cui ero arrivato in Texas cinque anni prima. L’impatto in Italia di quella idea fu tutt’altro che disprezzabile e di-venne, in ampia misura grazie a Lucio d’Alessandro, un importante progetto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università della Ricerca Scientifico Tecnologica, progetto di un certo successo documentato da pubblicazioni successive (d’Alessandro, 2005). Universi Paralleli, pezzo comunque relativamente facile e accessibile persino agli studen-ti universitari più brillanti del triennio di base, tuttavia ai miei occhi

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oltre a chiudere una stagione (1995-2003) delle mie ricerche ne apriva un’altra ben più impegnativa. Infatti mi resi conto che quei processi decisionali con i loro nove codici per addivenire funzionali abbiso-gnavano di mappe strategiche. Fu così che tutta l’estate del 2004, sull’Isola di Mallorca, la passai in buona misura a studiare volumi di business management, strategia militare, mappe strategiche sopratutto i testi di Kaplan & Norton, in particolare la mappa della Balanced Scorecard e i testi di Loet Leydesdorff, sistemico luhmanniano che poi ebbi modo d’intervistare (http://www.univie.ac.at/constructivism /papers/2004/pitasi-leydesdorff.html) oltre che, come mio solito, a gi-rare fotografando tutto ciò che mi attirava.

Nella mia testa prendeva sempre più forma il progetto di una qua-drilogia che avevo iniziato, non so allora quanto consapevolmente, con Universi Paralleli, scritto sostanzialmente tra il 2001 e il 2002 era apparso solo nel 2003, ma già nell’estate 2004 il progetto di quadrilo-gia stava prendendo forma. Il primo volume era stato dunque Universi Paralleli focalizzato sui processi decisionali complessi sia di sistemi sociali, sia di sistemi psichici. Questi processi abbisognavano però d’adeguate mappe strategiche in cui collocarsi e attivarsi (e la mappa da me sviluppata è stata il KWF poi presentato ad una conferenza In-ternazionale a Vienna nel Dicembre 2005 e poi ad un congresso mon-diale a Lima nell’Agosto 2006, materiali oggi scaricabili dal mio sito www.andreapitasi.tk). Alla mappa strategica evolutiva in cui conte-stualizzare i processi decisionali. Quel volume, attualmente ancora i-nedito per ironia della sorte, è intitolato “Un seimiliardesimo d’umanità. Per una sociologia giusecnomica della funzione autore” e fu concepito e scritto appunto tra il Luglio 2004 e l’agosto 2006. Due anni di apnea dato che verso il Maggio 2005 fu concepito e iniziai a scrivere questo terzo volume cercando di contestualizzare processi de-cisionali complessi e relative mappe strategiche in un’adeguata analisi di scenario evolutivo (che è appunto il tema chiave di questo mio “Sfide del nostro tempo” che ho terminato di scrivere in questi giorni ma che ancora immagino mi richieda un paio di mesi di accurata revi-sione). Il quarto volume, che è ancora un file di poche pagine, nelle mie intenzioni dovrebbe rispondere ad una triplice esigenza:

a) sistematizzare, chiarire e approfondire l’impianto concettua-le dei tre volumi precedenti

b) raccogliere la sfida, lanciata in questo volume, di ricerca dell’unità memetica anche solo per capire se si tratta, meta-foricamente di una “cinghia di trasmissione”, di un brodo

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primordiale o altro che esprime comunque la ricorsività dell’infinitamente piccolo nell’infinitamente grande e vice-versa in una ineluttabile circolarità.

c) offrire all’intera quadrilogia adeguati fondamenti non solo teorici generali ma anche metodologico - tecnici soprattutto attraverso un’impostazione matematica funzionale al proget-to evolutivo.

La brillante intuizione espressa da Richard Dawkins nel remoto 1976, infatti, a mio parere è ancora ampiamente sotto potenziata e sot-to dimensionata persino negli scritti dello stesso Dawkins.

Il quarto volume, giusto per lasciare intravedere le carte, ma solo un tantino, avrà una struttura del genere:

Prologo Introduzione

Cap. 1 Processi decisionali e mappe strategiche Cap. 2 Algoritmi evolutivi e direttrici funzionali Cap. 3 Sistemi evolutivi complessi e scenari postumani Cap. 4 Fondamenti metodologici Cap. 5 Epilogo. Noi adesso, affinché essi domani...

Bibliografia Questo terzo volume è dedicato alla memoria di mio padre che

proprio oggi compirebbe 80 anni. Gli sono profondamente grato per avermi insegnato col suo pragmatismo e rigore scientifico di medico la concretezza del lavoro intellettuale per quei discorsi sull’astronomia, la sua grande passione, che mi hanno fatto da subito comprendere come quel pragmatismo fosse il tassello di uno scenario ben più ampio.

Madrid, 02 Gennaio 2007 Andrea Pitasi

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INTRODUZIONE: sfide del nostro tempo

E meno male che il Ventesimo Secolo avrebbe dovuto essere il se-colo breve (Hobsbawn, 2000). Questa apertura, meramente nominale, di ventunesimo secolo ci ha invece già mostrato che il secolo ventesi-mo è vivo e vegeto e, quel che è peggio, pare piuttosto longevo. Basti pensare alla grande violenza del terrorismo islamico internazionale, all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, all’attentato, proprio qui a Madrid, dell’11 Marzo 2003 alla metropolitana e agli at-tacchi alla metro di Londra del Luglio 2005. Laddove c’è libertà, là il terrorismo vuole imporre totalitarismi. Tutti questi attentati, benché più intelligence intensive dei loro antecedenti, sono comunque molto in stile anni ‘70 di quel XX secolo che oltre ai Mussolini, ai Franco, ai Mao, agli Hitler e agli Stalin (alle cui strategie di potere e comunica-zione ho dedicato alcune pagine in Pitasi 2003) ci regalò appunto un intero decennio di terrorismi di varia matrice (ETA, IRA, Baader-Meinhof, RAF, Brigate Rosse ecc.) durante il quale l’apporto dei paesi Arabi all’Occidente impegnato a combattere queste varie forme di ter-rorismo fu di tentare di soffocare l’economia occidentale con un au-mento esorbitante del prezzo del petrolio che portò già all’inizio degli anni ’70, alla nefasta Austerity. Sin da allora sarebbe stato evidente che con “alleati” e partners in affari come quelli chi avrebbe più avuto bisogno di nemici?

Ancor oggi, restano, appunto, ben in auge le religioni e i conflitti ad esse connessi (chi considera questo fenomeno un tratto specifico del “nuovo secolo” ha la memoria corta: Khomeini ad esempio, ha chiuso gli occhi prima del 1 Gennaio 2000, Saddam Hussein e la que-stione irachena non sono certo figlie del nuovo secolo, basti pensare alla Prima Guerra del Golfo, così come la strage alle Olimpiadi di Monaco di Baviera negli anni ’70 non erano certo dovute a temi nuovi ecco perchè concordo col sapore di revival che a questo fenomeno danno Toeffler e Toeffler 2006: 502-504). L’economia del petrolio non è certo figlia del nuovo secolo eppure ancora cerca ostinatamente ed arrogantemente di governarlo. Già l’Austerity dei primi anni ’70 del secolo scorso, come anzidetto, avrebbero dovuto insegnarci l’inaffidabilità delle partnership tra Occidente e Paesi Medio Orientali (PMO), inaffidabilità che il periodo 2002-2005 (in cui il prezzo del greggio è praticamente raddoppiato) quando i PMO, approfittando della crescita enorme di India e Cina e anche, seppur in misura mino-

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re, del Brasile, hanno appunto alzato alle stelle il prezzo dell’oro nero per capitalizzare sul breve un’espansione di lungo termine come quel-la dei tre grandi paesi sopra citati. Le guerre per il petrolio, in ogni lo-ro forma, non pagano occorre, in un mondo dove Cina, India e Brasile si stanno, piaccia o no, rivelando nuove potenze economiche uscire dalla logica del petrolio (Toeffler e Toeffler, 2006: 504-507) e passare al nucleare blended - uso il termine in senso decisionale non tecnolo-gico - (vale a dire aperto anche ad usi di altre energie necessarie ma in sé insufficienti: a idrogeno, eolica, solare ecc.). Il ventunesimo secolo è un secolo in cui i PMO vedono ampiamente relativizzato il loro po-sto nello scenario mondiale e la centralità strategica passa a nuove, più dinamiche, creative, aperte, possibiliste realtà. Certo poi i PMO che vorranno adattarsi all’evoluzione saranno i benvenuti anche se, come, si vedrà, le cose sono un poco più complicate di quel che sembrano.

Un altro retaggio del secolo, presunto, breve, che ancora domina l’alba del nuovo millennio che stenta a decollare è la politica (politics) come luogo delle vuote forme, della mediazione a tutti costi, dello scambio di poltrone, dell’ignoranza e dell’incompetenza, del tempo-reggiamento e del trasformismo paralizzante vantati come garanzia di democraticità (!) mentre il ventunesimo secolo, semmai sarà, sarà il secolo delle strategie delle politiche (policies) knowledge intensive e task oriented per questo con una confluenza di potere nelle mani degli esperti ma per evitare che ciò si riveli un boomerang in forma di tragi-comico revival positivista con la scienza divenuta equivalente sostitu-to funzionale della religione, occorrerà una profonda rivisitazione del-la funzione strategica della scienza di cui si dirà nei prossimi capitoli (condivido l’idea di Toeffler e Toeffler 2006: 513-516 che la scienza sia stata in parte ridimensionata da soggettivismo, postmodernismo, relativismo e minimalismo ma a differenza dei due autori newyorchesi credo che ciò sia una sorta di vaccino contro rigurgiti veteropositivisti e che apra la via ad una nuova funzione strategica della scienza magari fondata su una viabilità costruttivista tradotta in cash value pragmati-sta come ho illustrato in Pitasi 2003).

Al centro del ventunesimo secolo, contrariamente all’aberrante ventesimo secolo dei lager e dei gulag, ci sarà la persona (Cesareo, 2004) e una profonda esigenza di riflettere sull’umano (Donati 1991). Il gran salto evolutivo verso un mondo high tech, information rich e nucleare richiederà, ad esempio, di ripensare alle città in genere e alle metropoli in particolare, del futuro. Come può infatti una città essere tecnologicamente efficiente e nuclearmente sicura quando è costituita

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in ampia misura da edifici di secoli precedenti costruiti con altri criteri ingegneristici ed architettonici? L’idea di ruspe impegnate, ad esem-pio, a rimuovere qualche palazzo del Rinascimento fiorentino non pia-ce a nessuno (e certamente non a me) ma restare ancorati al passato, alla tradizione anche in termini urbanistici renderà il resto del mondo ricattabile (si è già visto appunto negli anni ’70 e più recentemente nel 2005) da parte dei PMO, del petrolio e dell’Islam. Non sono nel passa-to le lezioni per il futuro, sembra.

Importante evitare anche i semplicismi manichei da instant book come la barzelletta dello “scontro di civiltà” che ha svolto ottimamen-te la sua funzione strategica per le masse: creare un best seller. La po-sta in gioco non è tra due alternative (un mondo pluralista a forte do-minanza cristiana o un mondo assolutista islamico). La questione è un tantino più complessa e occorre un algoritmo evolutivo per compren-dere le possibili direttrici funzionali degli scenari prossimi venturi. In particolare, userò quest’algoritmo evolutivo:

Ottavi Quarti Semifinale Finale Vincitore Dominio del petrolio A1 Dominio blended del nucleare A2 Piattaforme tecnologiche universali B1 Ordini locali ideologico - teocratici B2 Logica del territorio e del sangue C1 Logica di satelliti di telecomunicazione e bioingegneria C2

Funzione del diritto come selettore “natura-le”, graduale di routine amministrativa D1

Funzione del diritto come selettore artificiale kuhnianamente rivoluzionario D2

Diritto come piattaforma tecnologica globale E1

Diritto come catalogo globale per “shopping” E2

Incremento naturale di varietà etnica F1 Incremento bioingegneristico. di speciazione artificiale F2

Gestione strategica e programmata, su base probabilistica, della funzione R=(f) T G1

Gestione fatalistica della funzione R=(f) T G2 Progettazione di policymaking evolutivo H1 Amministrazione di politics H2

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E poi entrerà in scena una formuletta: (1/2) N-1

Tutto questo, come si vede, fa parte di un mio più ampio progetto, in progress, di rielaborazione della funzione strategica della scienza, la quale, a mio avviso si caratterizza come segue:

a) essa autoevolve come costruzione viabile in grado di genera-re a propria volta costruzioni viabili

b) essa funge dunque da generatrice di varietà c) essa inoltre modula biforcazioni ad alto valore aggiunto e

sostenibili sul lungo periodo d) essa interpreta la propria funzione in termini kuhnianamente

rivoluzionari e) essa sistematizza e moltiplica (nel senso macroeconomico

del termine) know how proceduralizzato, formalizzato e ap-plicabile esemplarmente in forma di software

f) essa funge da creatrice di cash value pragmatico g) essa funge da attivatore di piattaforme tecnologiche di inno-

vazione radicale schumpeterianamente intesa. Questi i punti essenziali dell’epistemologia sottesa a questo volume

che condivide appieno quanto scrisse Luciano Gallino (1992) sull'esi-genza di menti, uso il termine nella sua accezione di senso comune e scevra da tensioni metafisiche, scientifiche sistemiche pragmatiche (Gallino, 1992: 9) e quindi in grado di realizzare ricerche attraverso logiche di joint design (Gallino, 1992: 27). L’epistemologia in un libro come questo che non si occupa strettamente di epistemologia non può che svolgere una funzione mertonianamente latente ma non per questo secondaria, anzi. È mia convinzione che un testo di ricerca di base o applicata senza un’adeguata fondazione epistemologíca sia per lo più un cumulo di chiacchiere politiche (nel senso della generica incompe-tenza della politics) e/o di senso comune spesso pressate da un’angosciante ansia di operatività per dimostrare la “concretezza” e l’utilità sociale di tali chiacchiere. Nello specifico di questo volume, l’applicazione di questa epistemologia prende la forma della funzione allocativa del diritto, e di una sua rilettura socio-giuridica finalizzata ad analizzare gli scenari del prossimo futuro bioeconomico (Myers-Davis, 2003). Laddove la posta in gioco sarà tenere la persona al cen-tro e pur di farla sopravvivere e crescere nel vivente e come forma vi-vente prevederne anche le possibili evoluzioni tra umano e post uma-

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no laddove una visione troppo tradizionalista della persona potrebbe significarne l’estinzione dal vivente, magari a seguito dell’ennesima, questa volta definitiva, guerra per il petrolio. Quello che sembra fuori discussione è che l’evoluzione sta accelerando (Toeffler e Toeffler 2006: 510) e sembra improbabile che le culture di morte e quelle vota-te dall’immobile e comodo pessimismo (Toeffler e Toeffler 2006: 522) possano sopravvivere perché ben presto potrebbe diventare pale-se che decidere di non decidere è a tutti gli effetti una decisione per cui deresponsabilizzarsi col pessimismo fatalista, con la rassegnazione e con tutte le forme connesse risulterà una tragicomica dichiarazione d’incapacità e incompetenza da parte di chi, appunto, deciderà di non decidere. Sullo sfondo di questa mia trattazione vi sono alcuni temi che affronto e che sviluppo ma che non ho la pretesa di risolvere, al-meno per ora, anche per non cedere ad egoistiche e fanatiche tentazio-ni di “assoluto” come quella, ad esempio, che colpì il vescovo della Chiesa d’Irlanda, James Usher, nel 1650 quando affermò senza esita-zione che stando alla Sacre Scritture la terra sarebbe stata creata a mezzogiorno del 23 ottobre 4004 a.c. (l’umanità sta ancora ridendo anche solo all’idea) oppure quella che colpì persino il geniale Isaac Newton quando abbracciò l’idea che potesse esistere l’etere, tema che purtroppo era affascinante per i suoi contemporanei finché, sempre troppo tardi, l’immenso Albert Einstein non fece le pulizie di cotante sciocchezze coi sui scritti tra il 1905 e il 1917.

Vediamo quali sono questi temi sullo sfondo: 1. Perché la configurazione dell’algoritmo evolutivo che costituisce

il filo conduttore di questo volume è così come lo presento e non altrimenti (giacché le combinazioni alternative sarebbero innume-revoli benché finite, in un insieme dennettianamente enorme). L’idea di fondo è che le biforcazioni chiave, in base alle mie ri-cerche e con tutti i limiti della mia osservazione, siano proprio le otto che riesco a vedere. Confrontandomi con colleghi e studenti non ho mai avuto suggerimenti per altre biforcazioni ma al più suggerimenti di sottobiforcazioni in altre parole di biforcazioni che costituirebbero sottoclassi della classe da me concettualizzata mentre l’algoritmo evolutivo concettualmente possiede solo bifor-cazioni al medesimo livello di astrazione concettuale dato che le “sottoclassi” diverrebbero semplici input per il KWF che costitui-sce la mappa strategica attraverso la quale ciascuna biforcazione evolve e si seleziona.

2. Perché le otto biforcazioni sono nella sequenza che presento e non

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in un’altra. In altre parole perché ad esempio petrolio/nucleare si trova nella biforcazione A piuttosto che in una qualunque altra da B ad H. Anche qui come nel punto precedente, vi è un’innegabile margine d’indecidibilità goedeliana, la quale, tuttavia, non deve mai diventare ragione di buridanizzazione e di paralisi non per ra-gioni etiche bensì funzionali in pratica per lo stesso motivo per cui è profondamente stupido smettere di respirare perché l’aria è in-quinata. Tuttavia margine d’indecidibilità non significa assoluta arbitrarietà o casualità le 8 biforcazioni sono configurate come di seguito perché a mio avviso, come mostrerò più avanti, questa configurazione descrive ad un buon grado, seppur migliorabile e perfettibile, le interdipendenze sincroniche strategiche laddove sono debitore verso il grande Ervin Laszlo (1992, 1996 e 1998 più volte ripreso in miei precedenti scritti ad esempio Pitasi 1997, 1999, 2001 - questo proprio redatto sotto la sua guida scientifica - e 2003) per questo concetto di interdipendenza.

3. Il terzo tema in questione è palesare che la presunta dicotomia tra determinismo e libertà è un falso quanto sterile problema che può allettare solo i peggiori filosofi da salotto. In questo senso è stato talmente lampante Dennett (2004) che troverei irriguardoso ag-giungere anche solo una riga alle sue riflessioni.

4. Un quarto tema è l’obsolescenza di riflessioni etiche (intese come riflessione collettiva, sulle morali individuali, con ambizioni nor-mative se non addirittura a volte prescrittile) e politiche (nel senso ormai logoro della politics) nei prossimi salti evolutivi ove il dirit-to, kelsenianamente inteso, rende superflua l’etica mentre il dirit-to, luhmannianmente inteso attraverso il codice Recht/Unrecht, rende superflua la politica nel momento in cui ne rivela il codice governo/opposizione e ne mostra l’inadeguatezza a rispondere alle grandi sfide evolutive (ad esempio in materia di ecologia, cfr. Lu-hmann 1989).

5. Un quinto tema è che la conoscenza scientifica non è certamente riducibile alla sua applicazione tecnologica. Bene sarebbe sempre rammentare che né la scienza né la tecnologia sono la panacea di ogni male e che quindi non vanno mitizzate ma è anche vero che le sfide del nostro tempo richiedono la gestione (quasi, per non far rivoltare Heisenberg nella tomba) simultanea di tali e tante varia-bili che un design scientifico applicato ad un software evolutivo resta lo strumento più affidabile o, se si preferisce il low profile, meno peggiore, di cui l’umanità oggi disponga. Ecco perché ad

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esempio occorre a mio parere lavorare per evolvere software come il World03 (quello usato dai Meadows nelle ricerche sui limiti dello sviluppo, per intenderci).

6. Un sesto, e per queste pagine ultimo, tema è la ricerca dell’unità memetica a mio parere da condurre con spirito analogo a quello del Progetto Genoma e con la simpaticamente folle creatività dello stile di Crick e Watson, l’unità memetica andrebbe quindi indagata col massimo pragmatismo ludico della scienza e non co-me chimera mitopoietica, improbabile Graal o tragicomica pietra filosofale. Oltretutto la relativa modesta quantità di materiali di-sponibili in materia (http://pespmc1.vub.ac.be/MEMES.html) la-scia ampio margine a costruzioni sperimentali e sorprendenti se si coniugano sapientemente rigore metodologico ed estro creativo.

Infine, molti dei concetti espressi in questo libro sono controintui-tivi, cozzano con il senso comune, coi dibattiti politici attuali e con la logica ipersemplificante dei mass media. Ad esempio, argomenti come “giustizia sociale” e “redistribuzione del reddito” sono considerati irri-levanti rispetto all’evoluzione dell’algoritmo giacché esse sono cate-gorie del politico (della politics) e non variabili giuridiche o economi-che dell’algoritmo stesso della mappa strategica dell’algoritmo o nep-pure dei nove codici per i processi decisionali della mappa. Esse sono categorie operative, di breve termine, di carattere ideologico-politico, funzionali spesso a logiche da campagna elettorale ad alta contingenza gestite attraverso il codice governo/opposizione (per come lo intende appunto Luhmann, 1989) o codici massmediatici del tipo pro/contro, liberale/sociale, destra/sinistra ecc mentre l’algoritmo evolve su ben altro piano di astrazione e trascina con sé, probabilmente su scala memetica, anche queste questioni così cruciali invece per il senso co-mune per le categorie del pensiero (si fa per dire) politico.

Ecco perché questo è un libro di ricerca teorica, al contempo ambi-zioso e conscio della propria relatività, rivolto a studiosi, leaders e im-prenditori rogersianamente “primi adottanti” a livello universitario si rivolge a studenti, a forte vocazione teorica e portati per il global in-sight. Ovviamente la lettura di questo testo non è preclusa ad altri stu-denti, più giovani e acerbi, sempre con la speranza che qualcuno di es-si leggendo queste pagine abbia intuizioni e sviluppi teorie ben più po-tenti e risolutive delle mie. Se ciò accadrà potrò dire di aver dato il mio, seppur modesto, contributo allo sviluppo.

Si dice che Einstein sia stato intervistato sul New York Times sulla teoria della relatività da un giornalista sportivo esperto di golf (!) e il

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Sfide del nostro tempo

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pezzo generò molti più equivoci e difficoltà che chiarificazioni e accu-rate divulgazioni. Einstein si permise di formulare la sua teoria in edi-zione per specialisti e in esposizione divulgativa (entrambe scritte di suo pugno) ma era appunto Einstein. Credo che un libro efficacemen-te divulgativo che non perda in accuratezza teorica, precisione meto-dologica, potenza teorico-concettuale-sperimetale-applicativa e acqui-sisca invece maggior chiarezza e immediatezza stilistica rispetto alla sua esposizione specialistica sia la vetta, e quindi cronologicamente la fine, della carriera scientifica di uno studioso. Diffido sempre di quei presunti esperti che da subito propongono libri relativamente divulga-tivi e accessibili a “tutti”, ne diffido perché salvo fortunate eccezioni, essi scrivono trite e ritrite banalità che non turbino il senso comune e non alterino gli equilibri preesistenti.

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CAPITOLO I IL DIRITTO COME COMUNICAZIONE GLOBALE

Non c' è viaggio che tenga (...) si resta sempre prigionieri di se stessi

J. Schumpeter, in R.Swedberg, Joseph Schumpeter, vita e opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 90

Che la storia sia aperta è vero in più di una direzione. Perché essa porti maggiori chances di vita

a un sempre maggior numero di persone, noi dobbiamo fare qualcosa.

Libertà significa sempre libertà.

R. Dahrendorf, Libertà attiva, Laterza Editore, Roma, 2003, p. 12

Io non vedo nessuna connessione tra i problemi che derivano dal progresso tecnico-scientifico e le capacità ordinative di un'etica ( ...)

ritengo l'etica incapace di argomentare, irragionevole incompetente

N. Luhmann, Il paradigma perduto, Meltemi, Roma, 2005, p. 72

Non è quanto meno probabile che possedere libero arbitrio

dipenda dalla convinzione di avere libero arbitrio?

D. C. Dennett, L'evoluzione della libertà, R. Cortina Editore, Milano, 2004, p. 20

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Capitolo I

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1.1 Premessa

La teoria del diritto oggi, specie nelle sue varianti sociologiche, non può non fare i conti con alcuni passaggi d’epoca ai quali queste pagine sono appunto dedicate. Il primo è la sostituzione dell’ormai obsoleto concetto di integrazione come funzione del diritto (in auge invece ai tempi di Parsons, 1965) con il più moderno concetto di glo-balizzazione che pone il diritto ad un bivio: o divenire piattaforma globale oppure diventare un catalogo di differenze su scala globale tra le quali l’osservatore può selezionare facendo “shopping” (Galgano, 2005). Il secondo passaggio d’epoca è già stato brillantemente mostra-to dagli studi foucaultiani degli anni Sessanta e Settanta i quali grazie alla propria chiave (de)costruzionista hanno appunto sottolineato l’intrinseca autopoiesi del discorso normativo in sé sganciato dalla re-altà sociale. Il fatto che le intuizioni geniali di Foucault in quegli anni siano state messe in ombra dal macchinoso quanto vago modello AGIL di Parsons circa la funzione del diritto è un piccolo mistero che meriterebbe un saggio a parte. Un terzo passaggio d’epoca è la presa d’atto da parte della teoria del diritto dell’intrinseca artificiosità delle selezioni giuridiche. Non stiamo tanto parlando di un presunto codice binario naturale vs culturale quanto piuttosto del fatto che il sistema giuridico è un microcosmo artificiale che può essere al più sottoposto a validazione funzionale per coerenza interna ma che nulla ha di scientifico né di autenticamente sociale. Questo passaggio è stato po-tentemente illustrato da Luhmann (1989, 1990a, 1990b). Questo pas-saggio epocale apre la via al successivo, il quarto. Il sistema giuridico in quanto generatore di selezioni artificiali costituisce un algoritmo evolutivo (Dennett, 1993, 2000) ad alto contenuto di “progetto”, nel senso caro ai biologi, ma a zero contenuto di intelligenza, sempre nell’accezione cara ai biologi. Un diritto a intelligenza zero ma ad alto contenuto di “progetto” è appunto l’ambiente (nel senso della fisica, non di Luhmann) ideale per esperimenti artificiali e generatori di rivo-luzioni kuhniane laddove il rischio è che il flusso di una presunta gra-dualità evolutiva naturale della norma giuridica la renda mera routine amministrativa, svuotandola (Andrini, 1991). Il sistema giuridico co-me algoritmo evolutivo per costruzioni artificiali (si pensi agli jus sin-golari nell’orizzonte post umano) è l’ambiente (nel senso anzidetto) delle rivoluzioni biotecnologiche, delle sfide del postumano, della ri-allocazione delle tecnologie per l’energia ecc., cioè l’ambiente in cui

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Il diritto come comunicazione globale

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si compiono i più importanti salti evolutivi ben sapendo che non esiste un legislatore né una qualche forma di intelligenza che ne faccia fun-zione. Cinque passaggi d’epoca e un’ipotesi di nuovo scenario globa-le, dunque.

1.2 Selezione artificiale e rivoluzione kuhniana

La funzione del territorio, l’ereditarietà genetica (“il sangue” della retorica familistica), i sistemi di telecomunicazione vincolati al territo-rio e agli stati, il petrolio e le sue infrastrutture tecnologiche come principale mezzo energetico, l’identità statal-nazionale, la funzione di policymaking delle religioni e delle ideologie tout court sono i più chiassosi fantasmi del passato che ancora s’aggirano per gli scenari globali cercando di creare attriti e resistenze nei confronti dei passaggi suddetti. Una selezione naturale di scomparsa di questi fantasmi è ine-luttabile (Zwangslaeufig, avrebbe detto Luhmann) data l’autopoiesis degli algoritmi evolutivi ma la variabile tempo è tutt’altro che secon-daria. Ad esempio, se l’attivazione massiccia di risorse e tecnologie energetiche alternative (in un sistema multitasking con energia solare, eolica, idrogeno, nucleare ecc.) anticipa l’esaurimento delle scorte pe-trolifere, si prospetta un dato scenario; se invece si dovesse applicare, alla buona, soluzioni alternative al petrolio a scorte già esaurite si pro-spetterebbero ben altri scenari, da cavernicoli probabilmente. Questo bivio a sua volta apre un’altra diramazione (schema ad albero, per in-tenderci) in quanto se le alternative tecnologico-energetiche al petrolio si attivano prima che le scorte petrolifere si esauriscano oppure se si attivano dopo, ciò va a costituire un nuova diramazione circa la legit-timazione della funzione della religione tout court come fondatrice del legame sociale. Si è notato, suppongo, che i grandi potentati del petro-lio (Bush e Bin Laden, ad esempio) fanno sempre leva sulla tradizio-ne, sulla religione, ecc. Da qui una diramazione ulteriore: la produzio-ne dell’energia, se si abbandona (o se almeno se ne relativizza poten-temente la funzione) il petrolio prima che si esaurisca implica una nuova produzione a rete a nodi (come nel caso dell’energia solare e di quella ad idrogeno) che creerebbe una piattaforma tecnologica univer-sale, appunto a rete a nodi, in cui vi sarebbe una maggior simmetria, data la logica di prosuming, tra produttori e consumatori che non tra gli attuali paesi produttori di petrolio, relativamente pochi, e il resto del pianeta. Già l’Austerity dei primi anni ’70 avrebbe dovuto essere un potente campanello d’allarme.

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Capitolo I

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Vediamo di disegnare l’albero dell’algoritmo evolutivo, usando la forma metaforica di un tabellone da torneo sportivo per i motivi che gli epistemologi della biologia ben conoscono, che sottende a questo scritto:

Ottavi Quarti Semifinale Finale Vincitore Dominio del petrolio A1 Dominio blended del nucleare A2 Piattaforme tecnologiche universali B1 Ordini locali ideologico - teocratici B2 Logica del territorio e del sangue C1 Logica di satelliti di telecomunicazione e bioingegneria C2

Funzione del diritto come selettore “natura-le”, graduale di routine amministrativa D1

Funzione del diritto come selettore artificiale kuhnianamente rivoluzionario D2

Diritto come piattaforma tecnologica globale E1

Diritto come catalogo glocale per “shopping” E2

Incremento naturale di varietà etnica F1 Incremento bioingegneristico. di speciazione artificiale F2

Gestione strategica e programmata, su base probabilistica, della funzione R=(f) T G1

Gestione fatalistica della funzione R=(f) T G2 Progettazione di policymaking evolutivo H1 Amministrazione di politics H2

L’algoritmo evolutivo è deterministico nell’implicare un vincitore ed è aperto al proprio interno sui vincitori possibili tra i partecipanti al torneo.

L’incremento di varietà e la riduzione, in via contingente, della complessità insite nella concezione darwiniana dell’evoluzione si mi-sura col fatto che l’apparizione di un mutante funzionale e vantaggio-so già alla periferia del paesaggio adattivo provoca un collasso dell’insieme primitivo e lo spostamento dell’orizzonte di possibilità nel campo d’azione del mutante suddetto (D.C. Dennett, 2004). Dar-win, fa entrare questo mutante funzionale in modo graduale naturale lungo il processo evolutivo ma sa che il vero salto lo compie la sele-zione artificiale Mendel correggerà Darwin su questo fronte perché la selezione naturale genererebbe organismi forse formalmente meno e-leganti e compiuti ma in concreto assai più robusti, resistenti e longevi

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Il diritto come comunicazione globale

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in quanto temprati da indefinite selezioni di varietà. Di converso, un organismo emerso da una selezione artificiale è probabile che este-riormente sembri più elegante, compiuto e ordinato ma il suo livello di chiusura operativa per la stabilizzazione (Luhmann 1990a, 1990b e Pitasi, 2003) è molto basso e ciò lo espone ad infiniti rischi e minacce con buone probabilità che l’organismo artificiale soccomba. Questa la teoria biologica e genetica a cavallo tra il 19esimo e il 20esimo secolo. Ma guardandosi indietro raramente si procede in avanti e se lo si fa, lo si fa goffamente. Oggi come oggi, possiamo affermare che in quel contesto spazio-temporale Mendel e non Darwin aveva ragione. Oggi-giorno però lo sviluppo tecnologico, i software evolutivi e in generale i modelli computazionali di simulazione artificiale posso appunto si-mulare i trends di un algoritmo evolutivo ovviamente su base probabi-listica. Non è un sistema infallibile e non bisogna creare culti scienti-smi e tecnologici ma al contempo occorre tenere presente che ciò che oggigiorno possiamo simulare e sintetizzare mentre sarebbe stato fan-tascienza sia ai tempi di Darwin sia a quelli di Mendel. Non è così im-probabile l’idea che lo sviluppo della cibernetica, delle scienze dell’artificiale e l’opera fondamentale di Thomas Kuhn, “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, siano coetanee non sia del tutto casua-le. “Una nuova teoria è sempre annunciata insieme alle sue applica-zioni” (Kuhn, 1978:69) questo perché il continuum formale tra scoper-te ed invenzioni, tra scienza normale e scienza rivoluzionaria sottende invece un vortice di differenze ogni qualvolta ci si rende conto che una stessa serie di dati potrebbe essere interpretata attraverso differen-ti, molteplici ed eventualmente contraddittorie tra loro costruzioni teo-riche. Quando la varietà di costruzioni teoriche alternative possibili è eccedente rispetto ai casi e ai rompicapi della scienza normale ciò si-gnifica che sa è al capolinea, significa che sta abbandonando paradig-mi e regole vecchie perdenti per entrare in una nuova fase rivoluziona-riamente preparadigmatica. La tesi che sottende a questo mio saggio è appunto che la teoria sociologica del diritto in particolare e le scienze giuridiche in generale non sono mai uscite da una fase preparadigma-tica e che dunque la costruzione di piattaforme tecnologiche viabili per la globalizzazione del diritto sia la chance evolutiva per approdare ad un paradigma della scienza giuridica. Questo paradigma sarebbe il medium di selezione artificiale per valutare, almeno per simulazione, la varietà di possibili “vincitori” del torneo che fuor di metafora è il sopraccitato algoritmo evolutivo. La concentrazione su specifici rom-picapi operativi è il miglior viatico per normalizzare (il che spesso ri-

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Capitolo I

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schia di trasformarsi in burocratizzazione e paralisi) la scienza chiu-dendola nella summenzionata sineddoche per cui la partita è il torneo. La scienza rivoluzionaria e potentemente inventiva è invece la dimen-sione globale dell'algoritmo evolutivo nella sua, diciamo così, sostan-za cieca. Il progetto non richiede intelligenza mentre ciò che gli esseri umani chiamano comunemente “intelligenza” implica e richiede pro-getto.

1.3 L’ipereale irrealtà della costruzione sociale del discorso nor-mativo

L'algoritmo evolutivo illustrato in precedenza non è l'unico esisten-te né l'unico possibile, goedelianamente sarei ridicolo se affermassi il contrario, tuttavia tra gli algoritmi evolutivi possibili, questo sembra ad un elevato grado di viabilità e soprattutto sembra includere una se-rie di selezioni artificiali che costituiscono differenze che possono fare la differenza, in senso luhmanniano.

La mia ipotesi in queste pagine è che i meccanismi di decostru-zione del discorso normativo vadano adeguatamente concettualizzati ed analizzati al fine di comprendere le modalità attraverso le quali il discorso normativo spesso opera una sineddoche, per incompetenza o mala fede degli attori sociali, confondendo un singola partita del tor-neo per il torneo. Attingendo alle letture che Luhmann e Foucault of-frono del diritto, vorrei mostrate come la differenziazione nel modello del teorico tedesco dei criteri di partizione del discorso normativo per il pensatore francese siano equivalenti funzionali di processi ad alto grado di arbitrarietà che attivano appunto la sineddoche anzidetta. La sineddoche funziona in modo manifesto ed è latentemente disfunzio-nale perché crea l'illusione che la partita sia il torneo ovvero crea una simulazione irreale ma talmente verosimile per l'opinione pubblica da dare l'impressione iper-reale che la partita sia indiscutibilmente il tor-neo.

Inventore, creatore, costruttore di nuove possibilità, di nuovi oriz-zonti sperimentali e concettuali fondati sul pragmatismo della viabilità il primo, archeologo, scopritore e affascinato-lacerato dall’idea di ve-rità il secondo, i due grandi studiosi non sono quindi riducibili a due sosia intellettuali, eppure negli interstizi delle loro opere, interstizi che però conducono al cuore delle loro teorie qualcosa li accomuna, qual-cosa che, se spinto alle estreme conseguenze teoriche, non può che af-fascinare e inquietare al contempo. La differenziazione del diritto inte-

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sa come specificazione funzionale della comunicazione del diritto nel sistema giuridico in Luhmann e la de-costruzione del discorso norma-tivo attraverso l’emersione, dallo scavo archeologico, delle tecnologie che plasmano il discorso (la partizione, l’interdetto, la verità, l’astrazione, la continuità ecc.) in Foucault, infatti, possono, a mio pa-rere, suggerirci alcune equivalenze funzionali: 1. Luhmann non solo descrive una differenziazione funzionale della società in cui i sistemi (la religione, la scienza, l’economia, la politica, ovviamente il diritto, ecc.) si autonomizzano l’uno rispetto agli altri, attraverso specifici codici e programmi, non solo descrive la differen-ziazione interna di ogni sistema (e nel caso del sistema giuridico si possono almeno individuare cinque direttrici evolutive ciascuna in po-tenza un nuovo specifico sistema: funzione allocativa, funzione orien-tativa, funzione legislativa, funzione esecutiva, funzione giudiziaria), Luhmann, soprattutto, descrive la volatilità dei concetti e del senso del diritto attraverso la rumorosità e l’alta contingenza del codice selettivo (diritto/torto) del sistema giuridico stesso al quale interessa sostan-zialmente riprodursi indefinitamente entro il programma della norma-tiva vigente. Questa tensione autoriproduttiva del diritto, a mio parere, è ben tangibile anche nell’opera di Foucault: quando la normativa si evolve nella società lo fa nelle forme del discorso e il discorso, appun-to, tende ad autoriprodursi (attraverso partizione, interdetto, continui-tà, verità, ecc.) analogamente a come si riproduce nella teoria di Lu-hmann la comunicazione sistemica. Su questo piano, i due studiosi si fanno l’occhiolino. Questa prima equivalenza funzionale, tuttavia ri-chiede, a mio avviso, due precisazioni:

1.a In Luhmann la comunicazione del sistema si autoevolve e autoriproduce distanziandosi sempre più da una realtà fisica conside-rata dall’osservatore come noumenica se non addirittura priva di senso in sé. Quando Luhmann afferma che i sistemi biologici sono i soli a non operare attraverso il senso (a differenza di quelli psichici e socia-li) e quando Luhmann insegna che i sistemi psichici sono mero am-biente per i sistemi sociali (e viceversa), il teorico tedesco ha non solo inserito il rapporto individuo/società entro il paradigma siste-ma/ambiente ma ha ricondotto anche il rapporto cervello/corpo (Lu-hmann è monista) entro il medesimo paradigma. Il che può apparire contraddittorio: separa cervello e corpo eppure è monista. Come è possibile? Semplicemente perché nel sociologo tedesco non vi è alcu-na Spannung metafisica né possibilità di trascendere la condizione umana in una supposta condizione ultraterrena, divina, ecc., al con-

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Capitolo I

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tempo è però a livello meramente terreno; Luhmann sa che l’evoluzione della comunicazione trascende sempre più la materia concreta della cosiddetta realtà fisica. In Foucault, di converso, il di-scorso non trascende, bensì plasma e plagia la dimensione materiale, concreta della realtà fisica. L’attenzione, nell’opera foucaultiana, per il corpo (nelle strategie di sorveglianza e punizione, nelle pratiche ses-suali, per comprendere la relatività delle quali cfr. Duichin, 1996) si commenta da sé.

1.b In Luhmann c’è una grande energia intellettuale nel creare e progettare nuovi mondi possibili, validi in sé con le proprie regole e-volutive. Se mi si concede una metafora: Luhmann è per la sociologia ciò che Walt Disney è per il mondo dei fumetti. Il creatore di nuovi mondi come Paperopoli o Topolinia validi in sé. Sempre sotto metafo-ra, invece, Foucault è un archeologo, lo Schliemann della situazione, che ha intuito di aver scoperto Troia e si trova in una trappola episte-mologica e cognitiva che non offre scampo: il sospetto da un lato che le costruzioni attuali di Troia siano ampiamente manipolate dal potere e dai suoi discorsi e che quindi le verità ufficiali sulla storia di Troia siano forme di sorveglianza e controllo e che per poterle veramente smascherare dovrebbe accedere al noumeno della Troia vera, ma dav-vero quella vera, quella autenticamente vera e veramente autentica al di là di ogni ragionevole ed irragionevole dubbio e lungo questa cate-na di significanti slitta implacabilmente la possibilità di scoprire la ve-ra verità, davvero e veramente. Se, tuttavia, non si può cogliere la ve-rità veramente vera, come si può veramente dimostrare che le verità ufficiali sono veramente, interamente false? Tra questo sospetto verso la verità e la tensione verso una verità autentica che smascheri i di-scorsi delle verità ufficiali sembra implodere e inaridirsi la potenza eu-ristica del pensiero foucaultiano mentre Luhmann, non ponendosi un problema comparativo tra un presunto modello formale ed un presunto modello reale, evolve semplicemente attraverso la logica pragmatica della viabilità del modello in sé. La comparazione tra il pensiero di Luhmann (1990a) e quello di Foucault vede un importante tassello nella comparazione tra la temporalizzazione dell’orizzonte nelle teoria sistemica e la storia nell’archeologia dello studioso di Poitiers.

Temporalizzazione e storia non sono sinonimi e, in senso stretto, neppure equivalenti funzionali, come dirò tra poco, tuttavia questi due concetti a confronto rivelano il potenziale di grande disillusione (En-ttaeuschung) di entrambi gli autori.

Per Luhmann, il tempo è un orizzonte che si allontana tanto più gli

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si avvicina. Il futuro, dunque, non può cominciare mai, mentre il pas-sato non esiste in sé in quanto costantemente rielaborato dai criteri se-lettivi e dai programmi evolutivi dell’osservatore nel presente. Il pre-sente è la sola forma del tempo nella sistemica luhmanniana. Sfo-gliando idealmente un manuale di “Storia della filosofia”, “Storia del-la letteratura” oppure “Storia della scienza”, ecc., Luhmann insegna che questi manuali dicono ben poco sulle tematiche che dovrebbero trattare stando all’apparenza dei loro titoli, dicono piuttosto di come un osservatore ha rielaborato selettivamente ed autoreferenzialmente il rumore del possibile trasformandolo nell’attualizzazione della comu-nicazione. Un’attualizzazione possibile tra altre possibili (benché non tutte equiprobabili) che potrà essere classificata, valutata e misurata come costruzione più o meno viabile ma mai come vera/falsa. Questo vale tanto per quella che la retorica a volte chiama Storia con la esse maiuscola ma vale in egual misura per le storie con la esse minuscola (Bellasi, 1986). La direttrice funzionale dei sistemi psichici, infatti o-pera sulle tre fasi di varietà/selettività/stabilizzazione attraverso le se-guenti forme: a) la varietà (evolutiva) si produce attraverso la percezione di un

ambiente troppo complesso che costringe alla selezione; b) la selezione si produce attraverso la differenziazione piace-

re/non piacere di cui benefici/costi è solo una variante formale; c) la stabilizzazione si produce attraverso il programma di costru-

zione della memoria (Luhmann 1990b: 40). I suddetti manuali, dunque, sono, al più, mere forme di stabilizza-

zione di costruzioni viabili contingenti. Se si tematizza questo fenomeno nell’orizzonte del sistema giuridi-

co, ad esempio sulle forme della (presunta) storia del diritto, lo si inse-risce lungo la direttrice funzionale del sistema stesso e dunque: a) nella molteplicità e carica conflittuale delle aspettative normati-

ve (in questo caso, lo scontro tra diverse “scuole” nel modellare la storia ufficiale del diritto);

b) nell’attivazione di processi decisionali-selettivi (nella fattispecie per vagliare che cosa inserire/escludere dall’ipotetico manuale ufficiale di storia del diritto e tra ciò che viene incluso quale ge-rarchia e strutturazione costruire);

c) formulazione regolativi del diritto valido: nel caso specifico: la forma definitiva del libro che pretende essere la storia ufficiale del diritto (mia rielaborazione esemplificativa da Luhmann 1990b: 41).

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Capitolo I

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Questa direttrice funzionale, comunque, come dirò tra poco, genera appunto una contingenza in un orizzonte indefinito di altre contingen-ze, nulla più, e questo è viabile non solo per il manuale dell’esempio ma, ben più potentemente per la creazione di normativa vigente.

Questo conduce ad un’espansione esponenziale del pluriverso at-traverso i processi di individualizzazione delle decisioni. 2. Un sistema di diritto sufficientemente differenziato ha costituito il presupposto per il raggiungimento di un alto livello di individualizza-zione delle decisioni importanti sul piano della struttura sociale (Lu-hmann 1990b: 69).

Foucault, come Luhmann, per approfondire l’esempio del manuale di storia del diritto, sa che quel manuale è un ordine che attraverso il discorso plasma, crea le verità ufficiali che sono appunto costruzioni del potere come nel caso dell’esempio precedente di Troia, Foucault è però intrappolato nel suo sforzo decostruzionista dal momento che non potrà mai avere la certezza della verità autentica di un discorso mentre a qualche modo lo studioso francese questa ambizione inge-nua, seppur in latenza, sembrerebbe ancora averla. Foucault dunque sembra più conservatore e tradizionalista, nonostante la sua attenzione alla diversità, alla trasgressione ecc. del solo apparentemente più au-stero, ma kuhnianamente assai più rivoluzionario, Luhmann. A mio parere, e anche io sto costruendo autoreferenzialmente quale ortodos-so discepolo di Luhmann nell’essere eterodosso verso la teoria del so-ciologo di Bielefeld, le principali equivalenze funzionali tra i due pen-satori sono le seguenti: sistema (L)/ordine (F), comunicazione (L) /discorso (F), codici e programmi (L)/tecnologie (F) (si pensi alle sue lezioni nel Vermont) autoreferenzialità e autopoiesis della comunica-zione (L)/continuità e astrazione del discorso (F).

Gli equivalenti funzionali, è bene rammentarlo, non sono identità in senso matematico sono “cose” magari formalmente e concettual-mente più o meno diverse ma che se intese come strumenti da campo nella loro applicazione pratica si rivelano come svolgenti la medesima funzione, nulla più. Non voglio forzare la teoria a vedere queste cop-pie concettuali come identità matematiche.

Queste equivalenze funzionali sono, almeno in potenza, strategiche per modellare sempre meglio le forme evolutive del potere ed in que-sto Foucault è invece più sottile e intuitivo di Luhmann. Tra le forme evolutive del potere, la differenziazione del diritto gioca un ruolo im-portante. Differenziazione funzionale esterna (rispetto al sistema eco-nomico, a quello politico, a quello religioso, a quello scientifico ecc.)

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e differenziazione funzionale interna (ad esempio nello sviluppo di funzioni legislative, esecutive, giudiziarie, allocative, orientative ecc. cfr. Ferrari, 2004).

La differenziazione funzionale, interna ed esterna, del diritto è la soglia evolutiva del mutamento dei criteri selettivi e del metalivello organizzativo del diritto stesso. La differenziazione funzionale del di-ritto, dunque, apre nuovi orizzonti e metalivelli evolutivi nei cui “in-terstizi” si riproducono i parassiti serresiani: ad esempio la comunica-zione giuridica del diritto vede nella comunicazione mediatica del di-ritto, nella comunicazione politica del diritto e nella comunicazione religiosa del diritto alcuni parassiti che tendono a sostituire il codice diritto/torto con l’assai più permeabile codice intenzioni/decisioni ove nelle comunicazioni parassitarie, ad esempio di tipo politico, tale co-dice è davvero a maglie larghe. Vi è appunto una soglia evolutiva per la comunicazione giuridica del diritto per evitare i rischi, spesso inutili a cui la espongono i parassiti serresiani ovvero l’unitas multiplex dei tre registri stilistici (istruzione, informazione e intrattenimento) e del-le, loro ricombinazioni (infotainment, edutainment, eduinfotainment). Solo una comunicazione giuridica del diritto all’altezza delle sfide e-volutive poste dalla propria comunicazione (e dai vincoli tecnologici in essa impliciti) può ridurre il rumore semantico della propria comu-nicazione. La differenziazione funzionale e la relativa ricombinazione funzionale dei registri stilistici, infatti è la forma viabile per l’evoluzione del diritto. L’alternativa evolutiva ad una semantica giu-ridica burocratica ed “ingessata” non è, a mio parere, un’anarchia po-lisemica e polisensica alla Foucault per il semplice motivo che i paras-siti serresiani non solo eroderebbero un presunto principio di realtà (ir-rilevante per Luhmann, per Foucault e anche per lo scrivente) quanto farebbero della comunicazione giuridica una struttura altamente dissi-pativa e destinata ad implodere.

Se infatti la differenziazione segmentale del diritto poggiava su una serie di modelli formali ingenui ma adatti alla fase evolutiva (ad e-sempio diritto = origine divina giustizia = perfezione), se la differen-ziazione stratificata del diritto poggiava su modelli adatti alla fase evolutiva (diritto = astrazione = razionalità = universalità = certezza) oggi nell’epoca della differenziazione funzionale il sistema del diritto è ancora ad una soglia evolutiva e quindi rivela la potenza della pro-pria instabilità intesa non come problema bensì come invenzione di equilibri dinamici, evoluzione in condizioni di libertà socialmente compatibili, diritto di volontà trasparente ancorché, a tratti, capriccio-

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sa, giustizia come concetto operativo, relativo e contestuale sottoponi-bile ad analisi per grandezza, varietà, frequenza, interdipendenza e ge-neralizzabilità). Il sistema evolutivo del diritto e della propria comuni-cazione rivela appieno la mobilità dei propri confini di senso.

Questa mobilità di confini era già stata sottilmente colta da Fou-cault nel descrivere quella area indeterminata tra la presunta normalità e la presunta criminalità ovvero la trasgressione: essa “è legata al limi-te (…) secondo un rapporto di avvolgimento (…). Forse qualcosa di simile al lampo nella notte, che dal fondo del tempo conferisce un es-sere denso e nero a ciò che nega, la illumina dall’interno e da cima fondo, le deve pertanto la sua viva luminosità, la sua singolarità lace-rante ed eretta, si pere in questo spazio, che si designa con la sua so-vranità e infine tace, dopo aver dato un nome a ciò che è oscuro” (Foucault 1996: 59).

Sul piano concettuale delle equivalenze funzionali tra i due “siste-mi di pensiero” dunque viene da riflettere su come i confini di senso vengono costruiti attraverso la comunicazione in Luhmann e attraver-so il discorso in Foucault. Lo studioso francese suggerendoci (si noti attentamente, in forma di codici binari!) quattro metodi per decostruire un discorso (rarefazione/verità, discontinuità/continuità, specifici-tà/astrazione ed infine esteriorità/coerenza interna) sembra soffiare af-finché i venti di distruzione creatrice spirino sempre più potentemente.

Questi venti spirano per ripulire l’aria da mille e mille discorsi va-ghi, farraginosi e inutilmente astratti e per portare l’uomo alla scoperta del limite e ad osservare l’orizzonte dell’illimitato. Secondo Foucault, la sessualità è la via maestra per questa avventura al limite: “noi non abbiamo liberato la sessualità ma più esattamente l’abbiamo portata al limite! Il limite della nostra conoscenza poiché in ultima analisi essa detta per la nostra coscienza la sola lettura possibile della nostra inco-scienza, limite della legge poiché essa appare come il solo contenuto universale del proibito, limite del nostro linguaggio, essa designa la linea di schiuma di ciò che il proibito può appena raggiungere, sulla sabbia del silenzio” (Foucault, 1996: 55). Tramite questo esempio, il pensatore francese ci indica “il limite dell’illimitato e il regno illimita-to del limite” (ivi, 57).

Qui, nel regno illimitato del limite, la sfida tra i due sistemi di pen-siero si fa veramente impegnativa perché probabilmente è qui che s’incontra quanto di più simile, per approssimazione, possiamo chia-mare realtà la quale nel regno del limite può essere formalizzata nel fatto che la terra è un pianeta periferico di un sistema solare marginale

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in un universo indefinito la cui origine e il cui scopo, sempre che esi-stano, sono ignoti all’uomo, specie animale, organica e mortale che col tempo deperisce e va in putrefazione e che si evolve sulla terra so-prattutto attraverso le funzioni e i prodotti della neocorteccia cerebrale cercando, con esiti incerti e alterni, di potenziare sempre più le sue ca-pacità cognitivo-percettive per evolversi e riprodursi in un ambiente che gli è moderatamente adeguato (si sarebbe già estinto, altrimenti) ma al contempo non concepito in funzione dell’uomo in quanto ricco di sfide, pericoli e minacce (epidemie, carestie, siccità, terremoti, ma-remoti, catastrofi di ogni genere), ambiente in cui essere vivi o morti non è questione di senso bensì di tempo, un tempo indifferente all’uomo al quale, tuttavia, l’uomo indifferente non è.

Questa, nel regno del limite, è una Wirkliche Realitaet. Affermare qualcosa di meno, e dunque avanzare sempre più negli illimitati pro-cessi di limitazione, sarebbe ad alto rischio di semplicismo, aggiunge-re anche una sola sillaba in più a questa delimitazione della “realtà” sarebbe solo una vaga e poco plausibile congettura. Nel regno illimita-to del limite se non s’impone un materialismo marxiano o un sensismo sorokiniano, s’impone, tuttavia, un ateismo metodologico (Berger-Luckmann, 1984) senza il quale s’innescherebbero rischi evolutivi per il sistema autoreferenziale mandato in loop da un’estremizzazione dell’intangibile. Ad esempio, un codice normativo (e morale a livello di senso comune) che trovasse maggiormente giustificabile, anche se non condivisibile, il terrorista, eventualmente etichettato come marti-re, suicida in nome di Allah anziché il rapinatore o lo spregiudicato uomo d’affari bancarottiere fraudolento, rischierebbe di giustificare, se non addirittura legittimare, ogni devianza e ogni crimine. Una volta “sdoganate” motivazioni politico-ideologico-religiose di tipo intangi-bile ecco anche il serial killer sostenere che ha agito per volontà degli alieni ecc., il che renderebbe il diritto una grigia prassi amministrativa sottoposta asservita a processi decisionali altri (ad esempio politici, se non addirittura partitici) e questo condurrebbe ad un paradossale trion-fo della teoria schmittiana.

La neocorteccia cerebrale, ovviamente, produce per astrazione e differenziazione molteplici forme, anche giuridiche, di organizzazione sociale della specie umana e più in generale delle specie sulla terra. Limitandoci alla specie umana possiamo ad esempio descrivere alme-no cinque diverse forme organizzative che elenco e descrivo senza pretese di completezza né di olismo: a) forma dell’ascrittività per (presunta) origine divina, la figura del

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monarca assoluto in Francia ai tempi del Cardinal Bossuet, ad esempio;

b) ascrittività di status, ad esempio la condizione dei nobili in Eu-ropa prima della Rivoluzione Francese;

c) ascrittività di appartenenza network relazionali (logiche tribali di appartenenza comunitaria-identitaria, ad esempio);

d) acquisività per capitali economico-finanziari (il capitalismo yuppie degli USA anni ’80 ad esempio);

e) acquisività per know how strategico-evolutivo (ad esempio le frontiere più avanzate delle biotecnologie).

Nella varietà evolutiva delle specie sul nostro pianeta possiamo

considerare un continuum di indefinite specie ai cui estremi opposti abbiamo il simbiota parassitario (SP) che si adatta al proprio ambien-te, per imitazione e/o identificazione, attraverso una chiusura in quan-to sa che non ha capacità evolutivo-riproduttive al di fuori di quello specifico ambiente. All’altro estremo, si trova il sistema strategico-evolutivo complesso (SSEC) il quale costruisce, attraverso l’indivi-duazione (Pitasi 1997, 1999, 2003), la differenza tra sé e l’ambiente originario (Urumwelt) per evolvere la propria autoreferenzialità nella massima varietà viabile di ambienti possibili.

Il continumm racchiuso nella varietà da SP a SSEC è ricorsivo per-tanto si riproduce, al livello di chiusura operativa di quella differenza, in ogni specie: umana, non umana e post umana.

Torniamo a Foucault e Luhmann. Il pensatore francese, a mio avvi-so, con il suo potente sforzo decostruzionista ha smantellato il più possibile, anche se non del tutto, l’ambiente ideologico in cui si ripro-ducono massimamente i SP mentre Luhmann, concependo un sistema il più possibile evoluto rispetto alle neuroscienze, alle scienze biologi-che informatiche del tempo (Luhmann muore nel Dicembre 1998) ha aperto nuovi orizzonti evolutivi ai SSEC giocando senza esitazione “il gioco dei giochi” del post umano nell’ambito socio-giuridico. Ed ecco dunque il punto: le forme giuridiche premoderne e moderne, ma anche quelle più ingenuamente narrativo-postmoderne (Minda, 2001; Palid-da, 2000) non riescono più a comprendere (nella duplice accezione di Verstehen ed Enthalten) l’evoluzione post umana. Già diverso tempo fa, Pierpaolo Donati (1986, 1988) segnalava acutamente la crescente difficoltà dei sistemi sociali di dotarsi di propri metacodici simbolici unificanti per produrre sempre più senso e non solo informazione. Donati lo mise giustamente in evidenza allora e ancor oggi il proble-

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ma pare irrisolto anche perché siamo davanti ad un bivio: a) è opportuno sostituire i vecchi metacodici con dei nuovi? b) occorre invece scoprire una logica evolutiva diversa da quella

dei metacodici? Se vogliamo seguire, forse in modo un tantino eterodosso e para-

dossale, la lezione einsteiniana, dovremmo sapere che un problema non può essere risolto con la stessa logica che lo ha generato pertanto trovo pienamente condivisibile la questione sollevata da Donati ma ritengo che la via d’uscita dall’empasse dei metacodici non più viabili sia l’opzione b.

Decostruire un discorso normativo per costruirne un altro, insom-ma, mi parrebbe grottesco come lo sbocco della rivoluzione francese che per tagliare la testa ad un monarca assoluto mise sul trono un im-peratore megalomane.

La differenziazione del diritto per Wechselwirkung lungo la sim-metria teoretica Simmel-Luhmann (Pitasi, 1994) sembra una prima soglia evolutiva verso una logica altra rispetto al metacodice. In primo luogo, dunque, la reciprocità è episteme fondamentale per la differen-ziazione del diritto. In un mondo in cui il retaggio dell’ideale illumini-sta di governo mondiale per una pace perpetua, quanto mai goffamen-te approssimativamente incarnatosi nelle Nazioni Unite, sta naufra-gando sempre più, la differenziazione funzionale del diritto sembra una prima risposta all’utopia integrazionista. Un secondo passaggio di tale differenziazione funzionale è la tendenziale riduzione (che non è un totale annullamento) dell’asimmetria informativa, ovvero la so-stanziale trasparenza mirata a ridurre i giochi a carte unilateralmente coperte. Un terzo momento della differenziazione funzionale è il de-potenziamento del discorso normativo dell’interesse generale e la con-sapevolezza evolutiva che esistono semplicemente logiche di lobbying segmentate ciascuna espressione d’interessi particolari, più o meno nobili.

La reciprocità, la riduzione dell’asimmetria informativa e il lob-bying sono le nuove forme della partizione del discorso che in questo caso, seppur nella propria autoreferenzialità, è consapevole della pro-pria relatività, appunto, nel regno illimitato del limite. A questo punto però, il problema che si presenta non è irrilevante: che accadrebbe se la differenziazione dilagasse in iper-differenziazione se non addirittura in iper-complessità?

Chi non ricorda le pagine della “Democrazia in America” in cui Toqueville vede in quel lontano paese qualcosa di grigio e poco glo-

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rioso (Chevallier, 1968). O, meglio ancora, chi non rammenta il cele-bre passaggio dell’autobiografia d’Elias Canetti sui suoi anni inglesi e più in generale sull’Inghilterra “il peggio dell’Inghilterra è l’aridità, quella vita da mummie pilotate. Non è, come si pensa, l’atmosfera vit-toriana (…) è piuttosto l’invito all’aridità, un’aridità che comincia con la moderazione e la rettitudine e termina nell’impotenza del sentimen-to” (Canetti 2005: 16), le cui forme, aggiungo io, sono un senso di spaesamento, di incertezza negativa, la sensazione che qualunque cosa si stia facendo è sbagliata, che si sta sempre camminando sulle uova e che ogni nostra parola (si pensi alla retorica del politically correct), ogni nostro sussurro ed espressione di vita potrebbe turbare e dispiace-re qualcuno, insomma la paralisi e la più sterile non vita nella più mi-sera mediocrità. Oggigiorno, le biotecnologie, l’orizzonte post umano, la globalizzazione economica e tecnologica, la scoperta di nuovi pia-neti potenzialmente abitabili (si pensi all’ipotesi di un noto astronomo californiano della Stanford University che non esclude l’esistenza di una Terra 2 nel sistema planetario 55 Cancri, se questa ipotesi divenis-se viabile, in funzione di un adeguato sviluppo tecnologico, ciò modi-ficherebbe potentemente le logiche politiche, economiche sociali del nostro piccolo pianeta) lanciano nuove, grandi sfide al diritto e alla sua differenziazione interna ed esterna. Queste nuove sfide possono essere gestite attraverso i fondamentali presupposti summenzionati: la reciprocità, la riduzione, per trasparenza, dell’asimmetria informativa e il lobbying. Qualunque “ideologia” accampi pretese universalistiche (sia essa atea o confessionale, di destra o di sinistra, simboleggiata dalla svastica, dalla falce e il martello o da altre icone solo apparente-mente meno inquietanti) ogni volta che invoca l’interesse generale sta camuffandosi, sta semplicemente mascherando la propria specificità di parte e, a mio parere, non può che suscitare diffidenza. Prendere atto, dunque, della relatività del pluriverso, della multidimensionalità, inaf-ferrabile da un singolo osservatore, delle forme del senso è già, oltre alle summenzionate nuove forme di partizione del discorso normativo depotenziato poiché deontologizzato, un momento strategico per inse-rire le nuove sfide evolutive in un paradigma che non debba per forza avere nella più grigia, mediocre, paralizzante e sterile aridità l’antidoto ai Gulag e ai Lager e neppure nei Gulag e nei Lager il cru-dele bluff di un possibile antidoto “eroico” e follemente vitalista alla più grigia, mediocre, paralizzante e sterile aridità.

Come uscire da questo cortocircuito del senso? In primo luogo ab-bandonando, in questa prospettiva, non come pensatore tout court,

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Foucault. Il motivo dell’abbandono è il paradosso decostruzionista: nel momento in cui un autore si pone come decostruzionista costruisce il discorso della decostruzione e ciò viene spesso ingenuamente inteso, specialmente nella cultura francese, come un fatto culturale, come cul-tura. Da Maturana e Varela (1985) sappiamo bene che tutto ciò sta in-vece nel biologico e nel neurofisiologico, la specie umana non può non costruire discorsi (anche mirati a decostruire discorsi) giacché au-toreferenzialmente ed evolutivamente specie animale neocorticale. In questo la linea Humberto Maturana - Francisco Varela - Ernst von Glasesfeld (che riprende ed evolve l’epistemologia genetica piagetia-na, von Glasersfeld, 1998, d’ora in poi, per brevità, EvG) pone l’osservatore innanzi a tutta la potenza auto-organizzativa del bios. In questo, il costruttivismo glasersfeldiano sembra più viabile poiché non cade nell’errore cartesiano (Damasio, 1995), che invece commette il sociologo di Bielefeld, di separare cervello e corpo. EvG, attraverso Piaget e gli studi dei due biologi cileni, ricompone l’unità della diffe-renza che Luhmann aveva invece scisso tra sistemi capaci di produrre senso (psichico e sociale) e sistemi non in grado di fare ciò (biologi-co). Se ovviamente l’unità ricomposta da EvG è più viabile agli occhi delle più innovative neuroscienze rispetto alle stesse neuroscienze è anche evidente che il sistema biologico offre vincoli ed opportunità evolutive ma che in sé, effettivamente, non produce senso. Qui s’incontrano EvG e Luhmann, a mio parere. Abbandonare Foucualt nel suo cortocircuito di senso sul decostruzionismo costruzionista, e seguire la differenziazione del diritto attraverso il costruttivismo radi-cale lungo il confronto EvG–Luhmann ambito sul quale il secondo è assai più viabile del primo poiché EvG non ha mai applicato, a quanto mi risulta, il suo quadro epistemologico al diritto e si è sempre, preva-lentemente attenuto ad un’applicazione “pedagogica” della sua epi-stemologia mentre la fondazione della teoria sistemica luhmanninana evolve proprio dalla teoria del diritto.

In questo senso il bios diviene tematizzazione di un sistema del di-ritto che è a sua volta divenuto tecnologia sociale (nell’accezione di Luhmann, 1971) strategico-tattico-operativo come soglia evolutiva di una concezione del diritto che vada oltre la precedente in cui era quasi schizofrenicamente dissociata tra una dimensione “filosofica” (a volte ricca di potenzialità euristiche, a volte mera chiacchiera da salotto) ed una della più routinaria e kafkiana prassi esemplarmente incarnata dal manzoniano Azzeccagarbugli (sono grato a Lucio d’Alessandro e Ma-rio Morcellini che in occasione di un convegno tenutosi nel Novembre

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Capitolo I

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2005 mi hanno evocato questa figura letteraria sopita nel mio incon-scio di liceale che fui).

Un grande equivoco del dibattito postmoderno, anche nelle sue va-rianti più prestigiose ed eleganti (Ardigò, 1988), è sempre stato il pro-blema della perdita (del senso, dei valori, del centro e così via) dovuto anche alle (presunte) sabbie mobili del pensiero debole (Vattimo, 1989) e alla crescente mitigazione dei principi normativi (Zagre-belsky, 1992) mentre a mio parere la sfida evolutiva odierna è quella dell’abbandono. Abbandono di modelli, filosofie, epistemologie ecc. decisamente falsificati (uso il termine nell’accezione popperiana) nelle loro applicazioni. Invocarne una purezza teoretica, quasi metafisica, indipendentemente dalle proprie applicazioni è rischioso perché man-tiene in circolazione una retorica idealista dell’essere, dell’ontologia che possa esistere, anche solo a livello di ontica heideggeriana (si pen-si alla riflessione sull’inconoscibilità dell’ontologia e sull’ontica come più attendibile approssimazione all’ontologia nei limiti dell’osserva-tore umano, Heidegger, 1978) senza azione, senza pragmatica dei pro-cessi decisionali-organizzativi, senza tecnologizzazione del senso non vi è essere. Oggi come oggi può ancora avere senso leggere Marx, Nietzsche o, addirittura, gli antichi Greci, ben sapendo però che in essi non vi è nulla di applicativo, concreto e viabile se non ciò che l’osservatore può costruire.

L’abbandono di almeno tre concezioni del diritto sembra viabile per la sua differenziazione e miniaturizzazione (concetto di cui dirò tra poco). Un notevolissimo libro di Natalino Irti (2004) costituisce, pro-babilmente anche al di là delle intenzioni dell’autore, un ottimo cata-logo dei modelli popperianamente falsificati di diritto: a) diritto di origine divina (attraverso questa concezione si poteva

giustificare legittimare tutto e il proprio opposto, i guai politici, economici, tecnologici, sociali ecc in cui si trovano le poche te-ocrazie sopravvissute sul nostro pianeta si commentano da sé, attenzione alle fascinazioni nostalgiche di un passato di gran-dezza mai esistito);

b) il diritto come espressione di una presunta razionalità universa-le. Basta osservare l’abisso tra il progetto kantiano di pace per-petua e le Nazioni Unite di oggi per comprendere la potente fal-sificazione del modello, nonché quanto vuote suonino espres-sioni come “diritti universali dell’uomo” oppure “la legge è u-guale per tutti” al di là delle più nobili intenzioni sottese a que-sto modello;

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c) il diritto come espressione dell’arbitrio della volontà. Attual-mente è il più difficile di tre modelli da falsificare anche se la volontà arbitraria che si evolve attraverso le forme giuridiche non è quella del capriccioso megalomane (in forma di lager o Gulag) bensì quella della moderazione, della mediazione che trasforma il diritto in politica (la legge ai nemici si applica, con gli amici si interpreta, dice un icastico proverbio). Il parassita serresiano porta questo livello di apertura operativa del diritto, all’implosione dei codici e programmi del sistema giuridico al-lagandolo e di fatto trasformandolo in un tema dell’agenda ope-rativa del sistema politico.

Per sopravvivere come sistema autoreferenziale specifico, il diritto non può dunque che evolversi per differenziazione, sgusciare via dal politico attraverso una chiusura operativa che consiste nella propria miniaturizzazione come “disclaimer” dell’evoluzione biotecnologica. La comunicazione del diritto si differenzia, a propria volta, come standard viabile per tracciare i nuovi confini di senso tra il sistema giuridico e l’ambiente. Quale è il livello di chiusura operativa al quale il sistema giuridico traccia il proprio confine di senso siste-ma/ambiente? Una risposta piuttosto interessante e viabile pare essere suggerita da Alan Dershowitz (2005) il quale sostiene che i diritti na-scono dall’umana esperienza dell’ingiustizia, concetto affascinante e observer dependent che inevitabilmente (la Zwangslaeufigkeit lu-hmanniana) consegna la funzione del diritto alla Wechselwirkung simmeliana, alla relatività del caso piuttosto che all’universalità del principio ma per evitare che questa relatività del caso divenga arbitra-rietà e capriccio della volontà urge la massima riduzione delle asim-metrie informative. Come insegnava Von Foerster (1987), un sistema viabile agisce sempre per ampliare le proprie possibilità di scelta e se Luhmann è invece così attento a studiare le modalità di riduzione della complessità (solo in apparente contraddizione con Von Foerster) è so-lo perché il sociologo di Bielefeld sa che la massima possibilità di scelta è in funzione (uso il termine nella sua accezione matematica) della massima riduzione di rumore (psichico, semantico, fisico) che possa fondare la Wechselwirkung in modo trasparente e consensuale ancorché liberamente reversibile (cfr. l’interpenetrazione nella seman-tica luhmanniana, Luhmann 1983, 1985). Da qui il diritto diviene pa-lesemente sistema di comunicazione (per come lo intende Luhmann 1990a e 1990b) e disclaimer preventivo a fronte di specifiche e conte-stuali Wechselwirkung.

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Capitolo I

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Il presupposto di questa differenziazione funzionale ed evolutiva del diritto è l’uscita dal semplicismo dicotomizzante della comunica-zione nel modello di persuasione e l’ingresso in una strategia di co-municazione agevolativa delle differenze, sempre per Wechselwir-kung, per individuazione trasparente (Pitasi, 2003). Alcuni esempi semplici ed immediati: il diritto e le sue forme giuridico-comunicative, spesso si palesano come bipolarismo secco (divorzio sì/divorzio no, aborto sì/aborto no, pena di morte sì/pena di morte no). Dershowitz (2005) ha il merito di mostrarci che i vincoli evolutivo-contestuali non consentono queste ipersemplificazioni e che ogni con-testo, aggiungo io, è una possibilità sperimentale di un pluriverso (Morin, 1993) e ciò si accentua oggi che la globalizzazione ha palesa-to la possibilità di fare shopping di diritti (Galgano, 2005).

Se vogliamo credere nell’amore, ad esempio, e se quindi vogliamo sostenere che l’amore è libertà di donar(si), magari in una relazione il più possibile stabile e costruttiva (anche se non necessariamente altri-menti si cade nuovamente in un modello coercitivo-prescrittivo) tale libertà di donarsi non può mai essere coercitiva e un ampio, chiaro e nitido in forma preventiva margine di reversibilità del rapporto sembra la soluzione più viabile per ampliare la varietà e libertà di scelta re-sponsabile (Verantwortung). Accordi prematrimoniali, dunque pre-ventivi, chiari, trasparenti, simmetrici e strategici anche nel contem-plare incrementi di varietà e vincoli evolutivi (ad esempio come tute-lare socialmente, moralmente ed economicamente sin da prima che nascano gli eventuali figli) nonché facilmente reversibili, si pensi a formule di “contratti a tempo determinato tacitamente rinnovabili” (che eliminerebbero l’ormai obsoleta differenza formale matrimo-nio/convivenza) a livello di chiusura operativa di coppia sentimentale, renderebbero la libertà evolutiva assai maggiore proprio attraverso il vincolo deterministico dell’accordo prematrimoniale anche sulla cop-pia genitoriale. Se la coppia è stabile, la potenziale reversibilità del contratto è irrilevante, se invece la coppia è ad una soglia di implosio-ne, la reversibilità del contratto riduce abbondantemente i rischi.

1.4 Il discorso normativo come selezione artificiale

Concetti come “cambiamento sociale”, “tradizione”, “valori”, “cul-tura”, “intelligenza”, “spirito”, “anima” stanno ancora aleggiando nel-la semantica quotidiana di senso comune ma stanno segnando il passo nel dibattito scientifico più specialistico così come concetti quali “ve-

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rità”, “giustizia”, “ideologia”, “filosofia”. La neanche tanto graduale uscita di scena di questi concetti è a mio parere dipendente dal princi-pio di indeterminazione di Heisenberg. Nel suo recente e, a mio pare-re, importante libro “L'eclissi dell' Europa”, Acquaviva (2006) appun-to sottolinea come il disincanto del mondo stia facendo piazza pulita della plurisecolare tradizione europea (ivi: 318-3227).

L'osservatore (sia esso un manager, un analista, un consulente, un accademico ecc.) davanti a sfide evolutive emergenti come, ad esem-pio, quelle energetiche sa che non c'è soluzione pratica e artigianale che funzioni se non è supportata da una “buona” teoria. Intanto l'ecce-denza di varietà non può essere selezionata dall'estemporaneità della prassi in modo attendibile. D’altro canto l’osservatore sa che una buo-na teoria non è mai affetta da ciò che Bourdieu chiama saggiamente il teoreticismo, ovvero non è mai un mero gioco di rimandi, di ipse dixit tra frasi, estrapolate in modo più o meno credibile da opere lette più o meno seriamente di autori che le hanno scritte, più o meno con com-petenza attraverso i secoli e quasi sempre in epoche in cui il tema del-la riflessione affetta da teoreticismo non era considerato ed è proprio il teoreticismo invece, manipolando i vari livelli di astrazione, a darci l'illusione ad esempio, che la lettura di Platone possa servirci a com-prendere l'impatto sociale delle biotecnologie. Che cosa è dunque una "buona" teoria?

La mia risposta, seppur nella sua incompiutezza, poggia sulle se-guenti considerazioni: 1. è una teoria epistemologicamente observer dependent, intellet-

tualmente onesta e dunque scevra da ingenue pretese di oggettivi-tà;

2. è scevra anche da pretese dogmaticamente universalistiche men-tre ambisce ad una viabilità applicativa circoscritta in un orizzon-te spazio-temporale;

3. è evolutiva nel senso che incorpora la possibilità di trascendere suddetto orizzonte solo trascendendo se stessa;

4. prevede un impianto metodologico viabile che riesca a offrire, almeno in termini probabilistici, una serie di alternative concrete e applicative di policymaking coerentemente con l'impianto della teoria stessa;

5. prevede soglie evolutive attraverso la falsificazione; 6. implica una cassetta degli attrezzi tecnici per gli interventi mirati

sul campo; 7. traccia un confine netto tra ciò in merito a cui sussistono testimo-

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Capitolo I

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nianze viventi, più o meno attendibili o solo aide de memoire. Nel secondo caso la teoria ha il problema della “storia” e della “storicità”;

8. una buona teoria non ha ambizioni prescrittive né normative né politiche (nel senso della politics mentre, ovviamente può impli-care un'agenda di policy-making) in quanto incorpora la consape-volezza della “cecità” e della non intelligenza dell'osservatore ri-spetto all'algoritmo evolutivo del torneo. Un ottimo osservatore, al più, è consapevole che esiste un torneo, ne vede qualche partita ma mai l'intero tabellone dinamico, nel più ottimistico dei casi può ipotizzare, come sto osando io, lo schieramento iniziale delle squadre nella cerimonia di “apertura” (almeno nella prospettiva biografica dell'osservatore) del torneo stesso;

9. una buona teoria è metodologicamente atea (Berger-Luckmann, 1984) in quanto consapevole che se adotta un qualunque orienta-mento confessionale e/o ideologico si evira da sola in quanto non più attendibile né valida.

Dunque? Il problema è vedere davvero il tabellone completo del torneo e

prevederne, su base probabilistica, le selezioni più attendibili e plausi-bili. Questo è oggi in parte possibile, seppur non senza limiti o rischi, anche mediante software cognitivo-evolutivi di smiluazione che pos-sono appunto modellare, per simulazione, tutte le possibili evoluzioni dell'algoritmo.

Questo tipo di approccio liquida la figura dell’incompetente gene-ralista e (sigh) intuitivamente lungimirante tanto cara alla tradizione politico-filosofica europea ed esige invece una nuova figura di deci-sion e policymaker che sappia comparare le simulazioni algoritmiche tra loro avviando un processo decisionale e di policymaking estrema-mente veloce anche nelle sue applicazioni. Decidere di non decidere (che è appunto una decisione) oppure decidere di procastinare una de-cisione (idem) sono ottimi esempi del fatto che il progetto evolutivo dell’algoritmo non richiede intelligenza. Quando gli ecologisti lancia-no allarmi per salvare il pianeta Terra, intendono, assai più modesta-mente, che vogliono salvare le condizioni atmosferiche della Terra af-finché sia abitabile dagli umani. Per quanto ne sappiamo, l'estinzione della nostra specie potrebbe proprio essere la salvezza della Terra il cui algoritmo evolutivo considera la nostra specie solo una partitella di riscaldamento (anche dell'atmosfera, verrebbe da ironizzare) del tor-neo, contrariamente a quanto sostiene un certo narcisismo antropico.

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Comprendere che l'uomo è solo una delle tante variabili, peraltro non necessaria, nell'algoritmo evolutivo della Terra e che la sfida non consiste nel “fermare” l'evoluzione dell'algoritmo (sarebbe come per una formica fermare un Jumbo Jet in volo) in nome del “buon tempo antico”, della “tradizione” ecc.. Se il grande vantaggio competitivo dell'uomo nella sua evoluzione è stato quello di produzione e manipo-lazione simbolica neocarticale attraverso il suo essere generico (Ac-quaviva 1983, Piazzi 1984) esso potrebbe rivelarsi vincente per for-mulare nuove soluzioni adattive all'evoluzione dell'algoritmo. Ecco perché, seppur con tutti suoi limiti e le sue incertezze (per cui lungi da me invocare religioni e ideologie scientiste) il sapere scientifico e i suoi applicativi tecnologici sembrano essere gli strumenti più affidabi-li per gli uomini nel gestire i processi adattivi.

1.5 L’evoluzione delle forme giuridiche tra globalizzazione e diffe-renziazione

A questo punto il lettore disattento potrebbe anche essere seccato con me e brontolare: “ma questo saggio non doveva trattare del diritto come comunicazione globale?”. Appunto, caro lettore, concentrati e segui il filo del ragionamento.

L'algoritmo evolutivo, appunto, evolve e nulla di più o di diverso può fare. Consideriamo l'algoritmo evolutivo un paradigma kuhnian-namnte inteso, esso ha le sue regole, le sue applicazioni e i suoi rom-picapi da risolvere. Quando il paradigma è formalizzato esso procede come strumento di scienza normale, quando invece il paradigma non è ancora formato si prospetta all'orizzonte una rivoluzione scientifica e un paradigm shift. Il problema però è che, a differenza del paradigma kuhniano che trascende gli scienziati ma che ad essi è a qualche modo correlato, l'algoritmo evolutivo, per così dire, non guarda in faccia nessuno in quanto pura progettualità cieca. Dalla prospettiva di noi es-seri umani, una partita del torneo sembra di un qualche interesse di ri-lievo per le scienze giuridiche per quelle della comunicazione: il pros-simo salto evolutivo, la prossima soglia epocale circa la funzione (so-ciale) del diritto. Il diritto come sfera locale è ormai improponibile ne-gli scenari della globalizzazione, il diritto legato al territorio, al san-gue,alla nazione allo stato è il paradigma precedente e passato, ormai in obsolescenza. Adesso la sfida evolutiva è un codice binario lu-hmanniano di altro tenore. Il diritto nella globalizzazione è una piatta-forma di comunicazione con valori universalmente non divisi e forma-

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Capitolo I

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lizzati in norme procedure sul modello dello spirito della Dichiarazio-ne Universale dei Diritti dell'uomo e di organizzazioni come l'ONU?

Oppure il diritto è una piattaforma tecnologica di comunicazione universale su cui “girano” programmi e contenuti estremamente diver-si tra loro consentendo all'osservatore, limitatamente alla propria vi-sione strategica parziale, di fare “shopping” di diritti (Galgano, 2005) in funzione dei sui obiettivi, interessi, ideali ecc.? Questa partita sem-bra rientrare potentemente nel tabellone del torneo ma il suo risultato in un senso o nell’altro non è chiaro, date le implicazioni multivariate dell'algoritmo, sull'evoluzione dell’algoritmo stesso senza trasformare questo saggio in uno scritto sull’epistemologia del naturalismo, riten-go opportuno a questo punto illustrate brevemente sulla scorta di D.C. Dennett (2003 e 2004) che determinismo e libertà non si escludono vicendevolmente, anzi. Per intenderci, reputare il determinismo come la fondazione dell'ineluttabilità e l'assenza di libertà di scelta e azione è un errore notevole. L’algoritmo evolutivo è deterministico in quanto prevede un “vincitore del torneo” ma non lo è perché sull'esito delle singole partite del torneo e sull’epilogo del torneo stesso nulla può es-sere dato per scontato data la grande varietà di variabili incidenti. De-terminismo e libertà sono entrambi funzionali all'evoluzione dell'algo-ritmo al quale, per così dire, importa ben poco chi vincerà. L’algoritmo possiede regole interne e applicativi ed entrambi vengo-no, più o meno intenzionalmente, modificati dal vivente.

Se optare per una piattaforma giuridica di contenuto universale (ti-po revival illuminista) oppure per un diritto-piattaforma tecnologica per la circolazione di pacchetti diversi tra i quali fare shopping, è una libera scelta del nostro sistema sociale globale attraverso delicati equi-libri, più o meno significativi scossoni ecc.

Gli uomini e le loro organizzazioni sono liberi (seppur con tutti i loro limiti di visione strategica, lungimiranza, responsabilità, raziona-lità, intelligenza ecc.) gli uomini invece non sono liberi di non sceglie-re, invece scegliere di non scegliere, rimandare inerzialmente una scelta sono comunque scelte. La scelta attiva è un vincolo determini-stico dell'algoritmo evolutivo, vincolo al quale gli uomini e le loro or-ganizzazioni non possono sottrarsi. Anche per questo il progetto algo-ritmico evolve al di là dell'intelligenza. A quali condizioni è non solo possibile ma anche efficientemente attuabile un ordine giuridico mon-diale consensuale?

A quali condizioni è non solo possibile ma anche efficientemente attuabile un catalogo trasparente ed accessibile su scala globale di or-

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dini giuridici diversi tra cui fare funzionalmente shopping? Per evitare risposte faziose, ideologiche e normative, se non addirittura prescritti-ve, è a mio parere opportuno sottoporre questi interrogativi ad ipotesi di differenti algoritmi evolutivi o meglio conifere ciascuna di queste ipotesi restituisce ramificazioni del medesimo algoritmo che possiamo chiamare vita di cui vediamo la direttrice funzionale senza avere la pretesa di vederne o interpretarne un qualsivoglia senso:

Varietà dei simboli neo-corticalmente prodotti (VSN) Selettività scientifica di tipo evolutivo (SSE) Stabilizzazione tecnologico-algoritmica (STA) VSN- SSE- STA costituiscono una circolarità ricorsiva il cui senso in sé è per l’osservatore umano non rilevante. Rispondere a suddetti quesiti implica per quanto possibile procede-

re ad un livello il più possibile scientifico laddove per “scientifico” s’intende ogni prodotto della neocorteccia cerebrale umana o di suoi equivalenti funzionali che presenti condizioni valide, attendibili, evo-lutive, comparabili di funzionalità riproducibile, classificabile e misu-rabile sul piano metodologico-tecnico e pragmaticamente applicabile, generalizzabile su base probabilistica e, sempre su questa base, risolu-trice sul piano dell’intervento strategico-tattico-operativo. Dunque, la direttrice ritrova gestire la difficile non lineare correlazione tra com-plessità e dispersione (Morin, 2002), problema dell’organizzazione del vivente di cui ci si è resi conto grosso modo con la scoperta del DNA pertanto ogni pubblicazione precedente a quella data è a mio parere, tutt’al più, un gradevole stimolo intellettuale, ma nessuna opera pre-cedente a questa scoperta può fungere da benchmark per la ricerca at-tuale. Continuare a voltarsi indietro, cercare nei classici le chiavi per comprendere il mondo di oggi significa invece cadere nell’errore di affondare nella storia, nel passato in sé come se avessero una propria sostanza e una propria consistenza “oggettive” mentre è opportuno non dimenticare il pluriverso della memoria ed evitare l’errore meto-dologico della ricombinzione di invarianti. In altri termini, se si conti-nuerà a leggere, ad esempio, passato e presente attraverso Durkheim, Weber e Parsons cercando nel presente solo ciò che collima con quelle teorie o addirittura cercando di piegare l’osservazione del presente alle mappe del passato qualche modo, artigianale e politico, si cadrà in una sineddoche che punterà i riflettori solo su ciò che conferma la coeren-za tra il dipinto del passato nella scena del presente cadendo in quello che Bourdieu chiama giustamente il teoreticismo. Se si cede al teoreti-cismo si sprofonda nella metafisica che intendo semplicemente come

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e l’orizzonte di ciò che l’uomo non ha ancora scoperto o inventato cir-ca se stesso e/o il mondo esterno. Ciò che un tempo si credeva metafi-sico, in un’altra epoca, solitamente attraverso una tecnologia, diventa almeno senso comune sociale, nei casi più eclatanti invece può diveni-re addirittura rivoluzione kuhniana e fondazione di nuovi paradigmi con relative regole, applicazioni e risoluzioni di rompicapi.

Il più recente paradigm shift problematizzato ma frainteso da T.P. Hughes (2006) è quello che riguarda la presunta dicotomia (questo è il fraintendimento) tra determinismo tecnologico e tecnologia intesa come costruizione sociale. Infatti, secondo Hughes, un’adeguata alfa-betizzazione tecnologica sarebbe il miglior antidoto contro il determi-nismo tecnologico e la miglior chance per cogliere la lezione delle scienze sociali ovvero che le tecnologie sono costruzioni sociali come altre sulle quali la vita sociale, l’opinione pubblica, il diritto ecc. pos-sono intervenire per orientarle, per decidere se e in caso affermativo come, quanto e quando, diffondere nel sociale suddette tecnologie (cfr. Hughes 2006: 3,176). Il fraintendimento nasce appunto dall’idea che tra determinismo e costruzionismo vi sia una dicotomia. Tengo a precisare, non sostengo che siano due dimensioni distinte tra le quali vada “gettato un ponte” oppure che vadano integrate o, ancor peggio, che siano antitetiche destinate ad una sintesi dialettica. Determinismo e costruzionismo sono due facce della stessa medaglia e inutili fiumi d’inchiostro sono stati versati per dibattere sul “sesso degli angeli” un poco come sull’altra falsa dicotomia natura/cultura (Morin 2002, lo spiega assai bene).

Un esempio banale? Tra quando la televisione viene inventata (c.a. 1928) e quando s’inizia diffondere in Italia (grosso modo 1954-55) passa un inspiegabilmente lungo quarto di secolo. Nelle famiglie sta-tunitensi benestanti la tv era già un elettrodomestico sul finire degli anni Trenta. L’autarchia fascista? Presunte influenze religiose che di solito demonizzano il nuovo, specie se in forma tecnologica? Un sen-so comune troppo provinciale e localistico per cogliere la grande aper-tura al mondo potenzialmente rappresentata dalla tv? Una classe diri-gente incapace di gestire il cambiamento se non addirittura in malafe-de davanti ad esso in quanto timorosa che l’apertura al mondo avrebbe ridimensionato le elite locali? Semplicemente una certa lentezza nella penetrazione dei mercati in un’epoca in cui il marketing andava anco-ra a “pedali”?

Le cause possono essere queste e molte altre ancora fatto sta che nelle selezioni possibili, la tv è arrivata in Italia con grande ritardo.

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Una tecnologia è un esito deterministico nel senso che la combinazio-ne di certi know how esattamente in quelle modalità quanti-qualitive genera quel prodotto, è deterministica perché può tecnologicamente evolvere solo all’interno della propria mappa progettuale ma è eviden-temente esposta alla costruzione sociale che, ad esempio, l’opinione pubblica le attribuisce è questo incide sia sui modi, sia sui tempi del suo uso sociale. Attenzione la costruzione però non incide granché sull’autopoiesis deterministica della tecnologia medesima attraverso la circolarità ricorsiva VSN-SSE-STA. Certo, una corretta alfabetizza-zione tecnologica condotta attraverso la più imparziale delle swot a-nalysis sarebbe un ottimo strumento per accelerare l’accettazione o il rifiuto di una nuova tecnologia nella società e quindi per una migliore temporalizzazione che anche solo eliminando dall’orizzonte di scelta “semilavorati” di dubbia rilevanza scientifico-tecnologica renderebbe più veloce la diffusione di quelli valicati concentrando in essi le mag-giori energie secondo il principio del 20% paretiano. Come evitare pe-rò che questa selezione di semilavorati possibili non avvenga sul piano politico-sociale risentendo inevitabilmente di umori e credenze ideo-logiche e di senso comune (ad esempio religiose)? Ha forse ragione Seabright (2005) a sostenere che per lo sviluppo biologico della specie e per la crescita economica delle società gli stati restano la soluzione adattiva meno peggiore? Questa idea me non piace molto soggettiva-mente ma prendo atto, anche rivedendo quanto ho scritto in precedenti lavori, che a certe condizioni, lo stato resta uno strumento adattivo va-lido. Vonfoersterianmente (1987) è noto che l’agire più strategico è quello che ampia le possibilità di scelta del sistema psichico e/o del sistema sociale pertanto le chiusure strategico-tattiche sono sempre sinonimo di implosione mentre quelle operative contingenti sono sin-tomo di necessità evolutiva per evitare l’allagamento del sistema. Nei miei libri di metà anni ’90 ero decisamente più convinto che l’Unione Europea (UE) sarebbe stata un miglior strumento adattivo dei singoli stati nazione (Pitasi 1995a, 1995b, 1997) seguendo anche la lezione tourainiana (1993: 311) che la UE fosse un’apertura di mercati e un licenziamento di doganieri in una grande varietà e ricchezza multicul-turale e multietnica preziosamente “disorganizzata” proprio come o-rizzonte di possibilità di scelta. Oggi la UE, invece si è configurata come un arrogante modello di unificazione burocratico-culturale ridu-cendo al lumicino la propria VSN. Da Napoleone a Stalin, tutte le grandi follie dittatoriali (semplici riduzioni di complessità con l’ingenua ambizione di dare un’intelligenza totalitaria al progetto, se

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Capitolo I

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viste dentro all’algoritmo) degli ultimi 200 anni sono state figlie della vecchia Europa e oggi come non mai dobbiamo stare attenti ai rigurgi-ti nostalgici di qualunque ideologia appunto perché la storia non è ma-estra di vita.

A quali condizioni oggi lo stato nazionale può essere una soluzione adattiva viabile? Questo interrogativo rimanda ai due precedenti:

A quali condizioni è non solo possibile ma anche efficientemente attuabile un ordine giuridico mondiale consensuale?

A quali condizioni è non solo possibile ma anche efficientemente attuabile un catalogo trasparente ed accessibile su scala globale di or-dini giuridici diversi tra cui fare funzionalmente shopping?

Suspense. Da questi interrogativi i prossimi sviluppi delle ricerche.

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CAPITOLO II LA COMUNICAZIONE DEL DIRITTO COME TECNOLOGIA SOCIALE

Forse vale la pena di subire

una perdita se a compensarla è un’esplosione di nuove forme

S.Kelly, Il libro dei libri perduti, Rizzoli, Milano 2006, p. 36

Così come una sola vittoria può riscattarci da molte sconfitte, è pur vero che una sola sconfitta deprezza,

se non cancella del tutto, anche una lunghissima serie di vittorie

P. Maurensig, La variante di Lueneburg, Adelphi, Milano 1993, p. 27

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Capitolo II

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2.1 Prologo

A quali condizioni, dunque, è non solo possibile ma anche efficien-temente attuabile un ordine giuridico mondiale consensuale?

A quali condizioni è non solo possibile ma anche efficientemente attuabile un catalogo trasparente ed accessibile su scala globale di or-dini giuridici diversi tra cui fare funzionalmente shopping?

L'idea di fondo che permea queste pagine è che ciò sia possibile nella misura in cui la comunicazione del diritto diviene l'ambiente (Alexander 1990) della differenziazione del diritto stesso da ogni ru-more semantico extragiuridico ovvero nella misura in cui il diritto rie-sce a rivelarsi, nudo e crudo, nella sua assenza d fondamenti culturali, etici, morali, teologici ecc. e si presenta dunque come tecnologia so-ciale viabile.

Ottavi Quarti Semifinale Finale Vincitore Dominio del petrolio A1 Dominio blended del nucleare A2 Piattaforme tecnologiche universali B1 Ordini locali ideologico - teocratici B2 Logica del territorio e del sangue C1 Logica di satelliti di telecomunicazione e bioingegneria C2

Funzione del diritto come selettore “natura-le”, graduale di routine amministrativa D1

Funzione del diritto come selettore artificiale kuhnianamente rivoluzionario D2

Diritto come piattaforma tecnologica globale E1

Diritto come catalogo glocale per “shopping” E2

Incremento naturale di varietà etnica F1 Incremento bioingegneristico. di speciazione artificiale F2

Gestione strategica e programmata, su base probabilistica, della funzione R=(f) T G1

Gestione fatalistica della funzione R=(f) T G2 Progettazione di policymaking evolutivo H1 Amministrazione di politics H2

Rispondere a questi quesiti, anche attraverso una riflessione ispira-

ta dal nostro algoritmo evolutivo vedremo che è assai più complesso (epistemologicamente) e assai più semplice (strategicamente) a livello

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di policy di quanto l’opinione pubblica, i non addetti ai lavori specia-lizzati, solitamente immaginano. Epistemologicamente, l’analisi di scenario per valutare l’ambiente in cui evolve l’algoritmo richiede al-meno due criteri analitici - chiave per ogni “fatto sociale”, durkheimi-nanamente inteso, dell’algoritmo il quale di questi “fatti” ne contiene sul piano dell’attualità sedici (da A1 ad H2) che costituiscono otto bi-forcazioni (Laszlo, 1992) evolventesi in un arco di tempo che implica anche una contingente co-esistenza (ad esempio tra economia del pe-trolio ed economia del nucleare) ma che non può avere nella coesi-stenza la soluzione per la soglia evolutiva per lo stesso motivo per cui, semplificando al massimo, il vostro bis-bis-bis-bis nonno e voi non potete essere contemporanei e se lo foste, anche solo per la differenza di approccio alla vita, sarebbero assai più i guai che i vantaggi. Al più in casi eccezionali potete convivere voi e il vostro trisnonno se le ge-nerazioni nella vostra famiglia si riproducono assai giovani e veloce-mente, voi e il vostro bisnonno se le generazioni si riproducono un poco più lentamente, voi vostro nonno se le generazioni rallentano ul-teriormente nel riprodursi e se nella vostra famiglia si diventa genitori in età avanzata è probabile che voi nasciate quando i vostri nonni sono già scomparsi.

I due criteri chiave sono il modello di diffusione delle innovazioni

di Rogers (Rogers, 1956, von Hippel 1989 e poi sviluppato e ampliato in Pitasi 2003) che funge sia da gantt nel descrivere processi e flussi del mutamento segnalando aperture resistenze e dunque dando anche una sorta di orizzonte temporale della soglia evolutiva e il modello di economia istituzionale sviluppato da Williamson (1991 ma anche que-

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sto autore lo abbiamo trattato in Pitasi 1999 e 2003) sui costi di tran-sazione (economici, contrattuali e organizzativi).

Gli strumenti analitici in questione sono dunque il modello di Ro-gers e quello di Williamson anche se potrebbe essere utile, eventual-mente, non sottovalutare la potenza euristica della tetrade mcluhania-na (McLuhan-Powers 1989 poi ripresa in Pitasi 2003) per gestire in-versioni e capovolgimenti che i modelli triadici come, ad esempio, la dialettica hegeliano-marxiana solitamente non riescono a cogliere an-che per la loro sovradimensionata attenzione per la sintesi, sintesi che è concetto puramente utopico. Merita un’attenta riflessione, piuttosto, il fatto che i sedici fatti sociali che compongono l’algoritmo evolutivo oggigiorno siano coesistenti (questo rende così peculiare la nostra e-poca ma al tempo stesso così poco interessante in quanto priva di una direttrice funzionale nitida e manifesta e dunque piatta) e che ciò non deve essere ingenuamente scambiato né per una sintesi, approccio in-genuo, né per una stabilità acquista. Mi spiego meglio: la coesistenza è contingente e non è la soluzione evolutiva a voler creare l’illusione di una coesistenza stabile, di un’assenza di mutamento. Significa ap-punto abbracciare le pericolose illusioni della strategia comunicativa della propaganda, dell’immoblismo dell’eterno presente, della conti-nuità nella continuità, del cambiamento possibile senza alterare gli e-quilibri preesistenti, insomma scenari degni di Mao e Franco (Pitasi 1997, 1999 e 2003) che oggigiorno sarebbero grotteschi, tragicomici e rischiosissimi sia se prendessero la forma di estremismi dittatoriali (come auspicato dall’islamismo radicale, ad esempio), sia se prendes-sero la forma di grandi coalizioni moderate di “centro” le quali sareb-bero equivalenti funzionali del paralizzante Biedermeier metternichia-no (cfr Pitasi, 2003b).

2.2 Bastasse una formula…

Certamente la matematica è risorsa preziosa e, a mio parere, non adeguatamente valorizzata nelle scienze sociali specialmente non ade-guatamente valorizzata da quei cultural studies che hanno troppa vo-glia di nascondere dietro ad una spesso sterile discorsività la loro in-capacità strategico-evolutiva. In questo libro la matematica gioca un ruolo importante compatbilmente con un volume socio-giuridico che ha per oggetto mutamenti a forte carattere economico.

Iniziamo da una formula, ben sapendo che è necessaria per dare il massimo rigore metodologico a questo lavoro ma che, appunto, le

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formule non bastano. Iniziamo da ½ N-1 dove ½ è la base logaritmica 2 dell’algoritmo evolutivo, N è l’elevazione a potenza della base e dove in particolare N=fatti sociali incorporati nell’algoritmo ovvero, in que-so algoritmo N=16.

(1/2)15=1/32788 in condizioni, ovviamente puramente formali di equi-probabilità ciò significa che l’algoritmo può generare 32788 scenari diversi per approdare al “vincitore del torneo” cioè al fatto sociale ca-ratterizzante, naturalmente non l’unico ma il fondativo, della direttrice funzionale dei prossimi salti evolutivi. Superfluo dire che a questo punto della trattazione sto ancora attenendomi ad un piano logico-formale dato che tra i vari scenari non vi è in concreto equiprobabilità. Ad esempio perchè, schumpeterianamente, il mutamento socio-economico avviene attraverso invenzioni tecnologiche, riconducibili ad uno stesso grappolo, per affinità e dunque collegate in sistemi in-terdipendenti che “appiattiscono” (nell’accezione di Friedman 2006) il mondo e dunque generano dinamiche da moltiplicatore macroecono-mico che spostano le probabilità a favore degli scenari laddove l’innovazione radicale e generatrice di applicazioni killer è preponde-rante rispetto a scenari low tech ricchi di grandi quantità di innovazio-ni incrementali non strategiche ne risolutive. Pertanto si rammenti che i 32788 scenari non sono equiprobabili e, via via, mostrerò altri criteri di moltiplicazione macroeconomica (e non solo!!) in grado di fare la differenza. Per ora mi si perdoni una, solo apparente, divagazione.

2.3 Un tema del nostro tempo

Quali sono le strategie del mutamento socio-economico nell’epoca delle applicazioni killer nel campo dell’ICT?

Le funzioni del diritto, e in particolare la funzione allocativa, pos-sono costituire una sorprendente prospettiva per analizzare e com-prendere le complesse relazioni tra mutamento culturale e innovazioni tecnologiche radicali nel campo delle Information and Communica-tion Technologies (ICT). Schumpeterianamente, il mutamento socio-economico avviene attraverso invenzioni tecnologiche, riconducibili ad uno stesso grappolo, per affinità e dunque collegate in sistemi in-terdipendenti che “appiattiscono” (nell’accezione di Friedman 2006) il mondo e dunque generano dinamiche da moltiplicatore macroecono-mico che spostano le probabilità a favore degli scenari laddove l’innovazione radicale e generatrice di applicazione killer è preponde-rante rispetto a scenari low tech oppure ricchi di grandi quantità di in-

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Capitolo II

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novazioni incrementali non strategiche né risolutive. Preferisco argomentare attraverso il concetto di mutamento socio-

economico piuttosto che di “mutamento culturale” perchè quest’ultimo a mio parere conduce ad una trappola: quella dei confini identitari, trappola che il discorso di apertura di Gombrich (1985) ha brillantemente rivelato palesando la fugacità e la volatilità di questi confini.

Ritengo che la cultura sia al più l’insieme segnico-simbolico inor-ganico delle produzioni neocorticali dell’essere umano e di ogni altro essere eventualmente esistente capace di produzione noeocorticale e che ogni ulteriore e più specifica definizione porti appunto alla trappo-la di cui sopra. Il meraviglioso “Apocalittici ed Integrati” di U. Eco (1964), ad esempio, mise in evidenza quanto fosse fittizio il confine tra cultura alta e cultura bassa.

A mio parere, un’importante chiave di lettura per cogliere questi mutamenti e le loro strategie evolutive, anche se certamente non l’unica chiave, è la funzione allocativa del diritto soprattutto nella forma del diritto della proprietà intellettuale ovvero di quel diritto che abbraccia marchi, brevetti, copyright, know how e diritti d’autore tout court. Una delle risorse strategiche del portafoglio di intangibili del capitalismo digitale, in sostanza.

Ad esempio, si ciancia tanto sui mass media del pericolo cinese per la capacità della Cina di produrre low tech sottocosto dando quindi l’idea all’opinione pubblica, profana troppo profana, che il problema sia soprattutto economico-manageriale (e in effetti in parte minoritaria lo è). Ciò che i mass media raramente focalizzano è che la Cina non ha mai sottoscritto il Trattato di Berna sulla proprietà Intellettuale e che quindi non è tenuta a tutelare nel proprio paese i marchi esteri (Sull - Wang, 2005: 6-7), scusate se è poco. Inoltre, tralasciando que-sto specifico Trattato, il sistema giuridico cinese non si esprime sulle tecnologie nucleari né sulle applicazioni tra bioingegneria ed informa-tica per la creazione del prossimo scenario postumano e, come il per-fino il più mediocre dei giuristi sa, se qualcosa non è espressamente vietato allora si può.

Detto questo, siamo ancora così sicuri che il decollo della potenza cinese dipenderà nel prossimo futuro dalla produzione di massa di low tech sottocosto?

Un altro motivo per cui prediligo “mutamento socio-economico” a “mutamento culturale” viene da una riflessione per certi versi quasi banale ma al tempo stesso scomoda. Tradizione e Storia sono trucchi

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da illusionisti costruiscono continuità artificiali e artificiose laddove l’orizzonte invece offre una visione di salti, buchi, discontinuità ecc.. Ad esempio, ogni manuale di storia, seppur critico e accurato, tenta sempre di concatenare le diverse epoche tra loro, a volte in modo roz-zamente monocausale, altre volte in maniera più complessa e multi-causale, nondimeno però l’obiettivo di cercare continuità anche a co-sto di inventarla sembra più un’esigenza dell’osservatore storico che del fluire del tempo. Facciamo l’esempio delle biblioteche: esse ac-colgono, attraverso criteri organizzativi sempre temporalmente sfalsati rispetto ai volumi stessi (quanti pochi testi sono stati contemporanei di Dewey rispetto a tutti quelli che lo hanno preceduto e che a lui segui-ranno, ad esempio). Le biblioteche sono dunque costruite: A) in base a criteri organizzativi che cambiano col tempo e ogni vol-

ta dunque ridistribuiscono il sapere in filoni e settori diversi ed evolventisi;

B) in base ai testi esistenti, magari temporaneamente non disponibili ma ben chiaramente a catalogo (Anche se a volte questo “catalo-go” si rivela pieno di artifici come ad esempio l’attribuzione certa dell’Odissea ad Omero quando l’esistenza di Omero ad oggi certa non è affatto, cfr Kelly 2006). Insoma ogni biblioteca organizza per vera e, a volte per assoluta, una conoscenza che, al più è vali-da e contingente, come dimostra l’annoso problema dei libri per-duti così tipologicamente classificabili:

I) distrutti II) finiti nel posto sbagliato e dunque scomparsi III) condannati a fine prematura, ad esempio per il decesso

del proprio autore, prima che essi siano ultimati IV) in eterno stadio embrionale, prima progettati e poi mai

sviluppati dai propri autori V) perduti in letterature scritte in lingue oggigiorno non

più/non ancora leggibili come ad esempio in lingua Maya (Propriamente, questo tipo di libro perduto un margine di reversibilità lo contiene) (cfr Kelly, 2006: 12-15).

Detto questo parlare di continuità, tradizione storia non può che far sorridere col disincanto e la benevola ironia di chi conosce i trucchetti di (de)costruzione del discorso (Foucault 2001).

Certamente, mutamenti sociali, economici e tecnologici non sono meno soggetti di quello “culturale” a tali selezioni dovute a volte ad azioni intenzionali (gli autodafè di libri compiuti dai Nazisti o dalla

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Santa Inquisizione, ad esempio) sia da comportamenti metaintenziona-li (ogniqualvolta nella vita umana il risparmio cognitivo, la pigrizia, la paura, l’indolenza ecc. prendono il sopravvento), tuttavia essi sono più “sinceri” e autentici del presunto “mutamento culturale” nella misura in cui palesano da subito la loro contingenza, la loro parzialità, artifi-ciosità autoselettivà e, soprattutto la loro finitudine, sono per così dire, “falsificabili” nella misura in cui un modello economico si rivela per-dente, una tecnologia diventa obsoleta, una legge viene abrogata e dunque non è più in vigore, una convenzione sociale cade in disuso o assume nuove forme in epoche diverse ecc. mentre il mutamento “cul-turale” presenta spesso la duplice arroganza di chi vuole tracciare con-fini identitari specifici e al contempo vantare ambizioni di universalità ed eternità.

2.4 La comunicazione del diritto come tecnologia sociale?

Dunque la globalizzazione sembra aver perso, i suo detrattori sem-brano averla spuntata da quelli con maggiori pretese intellettuali (No-am Chomsky in primoluogo) a quelli di assai ben più modeste pretese divulgative (Naomi Klein, ad esempio). Bene, supponiamo abbiano vinto, come pare anche dalle grandi difficoltà degli USA nel gestire il caso medio orientale. Che cosa hanno vinto i detrattori della globaliz-zazione? Che cosa hanno ottenuto? Hanno certamente messo in evi-denza le vuote forme della globalizzazione che si sono palesate ad e-sempio nell’inapplicabilità concreta di un principio universalistico dei diritti umani, appunto vuote forme se non tradotte in azioni concrete, strategiche specifiche al contempo come nel caso dei lavori di inge-gneria idraulica per portare ovunque acqua corrente potabile (premes-sa indispensabile per combattere fame e malattie, cfr Toeffler e Toef-fler, 2006). Falliti i modelli globali e universalistici, in attesa di vedere se concezioni vecchie come il cosmopolitismo sono, almeno in parte, riciclabili al giorno d’oggi (operazione tentata da Beck- Grande, 2006)

La sfida si sposta verso la proposta Akerlof-Stiglitz di riduzione massima delle asimmetrie informative (vedasi anche il capitolo se-guente) e verso una concezione del diritto, e in particolare della rifles-sione sociogiuridica sulla funzione allocativa del diritto, in termini non più universalistici bensì di reciprocità che attraverso accordi bila-terali variegati e complessi aprono la via ad un ampio catalogo per lo shopping di diritti su scala potenzialmente planetaria. La disfunzione allocativa che genera suddetto catalogo rivela a pieno la metafunzione

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La comunicazione del diritto

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del diritto come tecnologia sociale sempre più sganciata da teoresi fi-losofiche che sempre più spesso si rivelano vuote e superflue forme (a meno che non si tratti di pochi lavori veramente fondativi quali, ad e-sempio quelli di Luhmann o Kelsen). La metafunzione del diritto co-me tecnologia sociale è inoltre, a mio parere, un’utile diga contro la deriva post-filosofica della sociologia giuridica affinché essa non ap-prodi ad un riduzionismo tutto empirico da contabilità sociale. Suddet-ta metafunzione, nella forma operativa della funzione allocativa apre la via ad un’importante lettura del capitalismo digitale ovvero quella del portafoglio di intangibili (ad esempio marchi, brevetti, copyright, know how e quanto altro concerne la proprietà intellettuale). Se infatti non è più possibile intendere marxianamente la sovrastruttura (SVS) in funzione dell’economia (E) cioè SVS=(f), e se sarebbe ingenuo ab-bracciare una sterile polemica tra sapere utile e sapere inutile (chi ri-corda la noiosa disputa tra le due culture, umanistica e scientifico-tecnica, ai tempi di C. Snow 1962?), sarebbe altrettanto ingenuo con-cordare con molti cultural studies, specialmente di matrice antropolo-gica, per i quali, a parole, tutto fa brodo ma che il brodo in concreto, lo fanno con la gallina non coi calzettoni tubolari usati da un giocatore di pallacanestro in allenamento o in partita. Se dunque la questione è che non tutto fa brodo, che però nel capitalismo digitale gli intangibili plasmano in buona misura l’economia e che questi intangibili non so-no meramente codificabili tra tecnici e umanistici, come è possibile distinguere gli intangibili che fanno assett da quelli che non fanno a-sett? Attraverso la loro possibile (o meno) proceduralizzazione in forme di know how applicabile in maniera finalizzata. Tutta la produ-zione segnico-simbolica della neocorteccia celebrale (umana ed even-tualmente no) in potenza può farsi asset ma la proceduralizzazione formalizzata di know how applicabile finalizzata rappresenta le forche caudine che compiono la selezione ad un osservatore/lettoreattento non sarà sfuggito questo passaggio: se il tempo si appiattisce (Fried-man 2006), se il futuro non può iniziare in quanto il senso è orizzonte che si allontana tanto più quanto più si cerca di avvicinarvicisi (Lu-hmann1990), se la storia, la tradizione la diacronicità generano sempre nuove forme ricostruite di epoca in epoca come suggeriva Simmel (1987) dopotutto la storia viene scritta e riscritta non è immobile, è fiction ad uso di strategie politiche, religiose, militari economiche ecc.. Allora viene il sospetto che un’analisi sincronica degli scenari attuali, seppur con tutti limiti della prospettiva dell’osservatore, sia più attendibile e viabile di presunte analisi “storiche” fosse anche solo

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Capitolo II

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perché i defunti non hanno diritto di replica mentre i vivi si. Per con-durre in modo metodologicamente adeguato quest’analisi sincronica degli scenari occorre a mio avviso una rilettura della funzione strate-gica della teoria che, come anzidetto, non può più permettersi di esse-re vuota forma generalissima, astratta e universale bensì viene a porsi come mappa strategica per gestire sincronicamente gli scenari e com-prendere le variabili che fanno davvero la differenza nel rendere non equiprobabili (quale è il contrario di equiprobabile?), gli scenari pros-simi venturi. La congettura che sto attualmente elaborando è che le va-riabili-chiave che fanno la differenza nel non rendere equiprobabili gli scenari dell’algoritmo evolutivo, sono tra di loro interdipendenti in ogni processo decisionale di rilevanza strategica in grado di creare va-lore ecco perchè a suo tempo le ho formalizzate nel KWF (Pitasi, in corso di stampa) che costituisce appunto una possibile mappa strategi-co-evolutiva di procedure di know how applicabile finalizzato (infatti senza la volontà di un osservatore che lo applichi ai propri scenari ed obiettivi non evolve, a differenza dell’algoritmo in se che opera e se-leziona ricombinando suddette variabili in mappe diverse dal KWF nel caso esso non venga applicato), KWF a cui dedico il prossimo ca-pitolo.

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CAPITOLO III

KWF: UNA POSSIBILE MAPPA STRATEGICA PER IL NOSTRO TEMPO

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Capitolo III

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3.1 Premessa

Questo terzo capitolo di questo terzo volume della quadrilogia è in realtà una sintesi aggiornata e impostata su un più ampio respiro con-cettuale, dei capitoli 7 e 8 del scondo volume (Un seimiliardesimo di umanità) della quadrilogia. La cosa buffa è che benché cronologica-mente la stesura di “Un seimiliardesimo” sia precedente a quella di “Sfide del nostro tempo” ad oggi, 3 gennaio 2007, sono entrambi ine-diti e per i curiosi giochi del mondo editoriale non mi stupirei se l’ordine di pubblicazione della quadrilogia non corrispondesse appie-no all’ordine cronologico di concepimento, sviluppo e stesura. Basta con le “comunicazioni di servizio” ed entriamo nel vivo del capitolo.

Il quadro teorico di riferimento, a questo discorso, è l’approccio giuseconomico, un approccio che sostanzialmente legge la teoria del diritto attraverso modelli e principi economici e che dunque, richiede una discreta conoscenza delle teorie economiche e dei principi fonda-mentali dell’economia.

La teoria giuridica più formalista e più tradizionale si pone il pro-blema dell’immoralità di un comportamento rispetto ai costumi e alle consuetudini, ma si pone anche il problema della legalità intesa come espressione di volontà. Questo vuol dire che un comportamento, un’azione, un modo di pensare diventa legge non perché sia giusto, perché sia vero o valido in quanto tale, ma perché la volontà di un da-to momento storico-sociale la fa diventare legge. Quindi la teoria del diritto è consapevole di giocare molto sulle forme giuridiche.

Ci sono altri ambiti invece, che intendono il diritto in maniera di-versa, mettendo in evidenza che talvolta aggrapparsi a questioni di principio, a questioni puramente di forme giuridiche, non risulta la co-sa più efficiente: per un esempio, basta pensare che le riscossioni di piccole evasioni comportano un costo più alto dell’importo della mul-ta stessa, situazioni in cui il fisco, dovrebbe spendere 100 € in indagi-ni, spese di ufficio, ecc., per riscuotere da un evasore parziale 15 € di multa.

La scuola di pensiero che va sotto il nome della Law and Econo-mics, analizza quali sono i criteri che rendono efficiente una norma in termini economici e quindi sottolinea come a volte molti reati non vengono adeguatamente sanzionati, prevenuti o repressi dal diritto perché a livello economico la teoria del diritto non è efficace. Questo significa, ricorrendo ad un famoso esempio, che se in un sistema giu-

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Kwf: una possibile mappa strategica per il nostro tempo

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ridico per una rapina a mano armata, è prevista una condanna a due anni di carcere, mentre per una rapina a mano armata con sequestro di persona e omicidio degli ostaggi, ne è prevista una a tre anni, si genera una situazione in cui al rapinatore conviene sempre scappare con un ostaggio, o più di uno, e, una volta in salvo, ucciderlo per non lasciare tracce. Questo esempio estremo e crudo mette in luce come molto spesso ragionando con il diritto, ci si scorda del fatto che molti reati non sono adeguatamente sanzionati, o sono comunque, sul piano eco-nomico, portatori di un messaggio distorto: in questo caso, il messag-gio è che una rapina è un crimine grave, ma una rapina a mano armata con un sequestro di ostaggi e uccisione degli stessi, è in proporzione molto meno grave. Se noi andiamo a vedere a livello di comportamen-ti, potremmo scoprire che in un sistema giudiziario, non può essere più pericoloso, in termini di sanzioni, evadere il fisco piuttosto che ammazzare qualcuno. La teoria della Law and Economics va a vedere l’efficienza della norma rispetto a modelli economici e quindi all’analisi economica del comportamento umano.

Per addentrarsi in questo argomento, si vedrà che paradossalmente, una società che voglia aumentare, crescere in termini sociali, econo-mici e culturali, perseguendo un interesse generale, può avere dei van-taggi non indifferenti se abbandona come principio giuridico tenden-ziale l’interesse generale, e se invece, ricorrendo ai principi di traspa-renza ed economicità, ricorre ad una palese dimensione di lobbying.

Tale percorso si articola in quattro step-chiave: 1. i 10 principi che stanno alla base della teoria economica; 2. i fondamenti teorici del paradigma Law and Economics; 3. il lobbying come strumento strategico per organizzazioni che

vogliano essere veramente efficaci, efficienti, elastiche ed eco-nomiche.

4. il KWF: modello che permette di mettere a sistema le strategie di comunicazione, le tecniche economiche di valutazione dei ri-sultati della comunicazione, con la normativa.

3.2 Dieci principi che stanno alla base della teoria economica

Si può dire, a grandi linee, che la teoria economica poggia su 10 principi, a loro volta differenziati su tre livelli. Un principio economi-co non è né morale, né immorale, nel senso che è un principio come quello della legge di gravità, secondo il quale se si lascia andare un oggetto, l’oggetto cade per terra, ma questa non è una questione né di

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cosa moralmente giusta né di cosa moralmente sbagliata. I meccani-smi fondativi dell’azione economica e, in questo senso, umana, ri-spondono anche a questi meccanismi.

I 10 principi sono divisi su 3 livelli: un livello micro, un livello che potremmo chiamare inter o anche interpersonale, o dello scambio, e un livello macro. Tali livelli, in realtà si ritrovano in ogni scienza so-ciale, per esempio in sociologia dove si parla di autori macro come Parsons, come Luhmann, di autori micro, come Goffman, e di autori inter come Boudon, Homans e Blau, che studiano le dinamiche di scambio tra gli individui, ma anche in politica.

Molto spesso nel livello dello scambio, il livello micro e quello macro si incontrano, ma questa non è l’unica dinamica possibile: po-trebbero anche incontrarsi elementi del livello macro con altri elemen-ti macro, così come elementi del livello micro con altri elementi dello stesso livello.

Alcuni di questi principi, sebbene a parole ovvi, sono tutt’altro che ovvi nelle implicazioni e nelle conseguenze: questo il motivo per cui a volte richiedono un certo grado di precisione, e anche di visione stra-tegica e teorica.

1. Gli individui debbono affrontare scelte alternative, ma come insegna la teoria economica, ciò avviene quasi sempre in condizioni di scarsità di risorse. La scelta economica può essere molto complessa - taglio i finanziamenti sulle pensioni per poi dare un assegno per l’occupazione dei giovani in cerca di lavoro, o piuttosto alzo le pen-sioni ma taglio risorse ai giovani? - o anche banale - questo mese compro una macchina fotografica digitale oppure metto da parte i sol-di per andare in vacanza? -, in base alle conseguenze che ne derivano. Il problema è che queste scelte avvengono quasi sempre in condizioni di scarsità di risorse, ovvero avvengono sulla base di risorse inferiori rispetto a quelle possibili e ciò implica che gli individui debbano fare una riflessione molto accurata dei loro criteri di scelta e di decisione e debbano definire le proprie priorità. Proprio per questo motivo tale principio sebbene molto semplice nella sua concezione teorica, è mol-to complesso nelle sue conseguenze.

2. Il costo di qualcosa è ciò a cui si deve rinunciare per ottenerla, quello che in economia si chiama solvibilità/non solvibilità. Se un og-getto, un servizio, un’informazione costa x, e tutte le risorse di un in-dividuo che vuole ottenere una di queste, sono pari ad x, in un’ottica di solvibilità l’individuo non può permettersi quella cosa, a meno che non ricorra ad un mutuo, però questo vuol dire che, e stiamo sempre

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punto e a capo, che bisogna avere uno stipendio tale per cui sia possi-bile una decurtazione. Si ritorna dunque, sul fatto che non solo il costo di qualcosa è ciò a cui si deve rinunciare per ottenerla, ma che si è solvibili quando ci si può permettere di rinunciare a qualche altra cosa. Anche da questo principio, in se per se molto semplice, derivano con-seguenze molto complesse: basta pensare alle implicazioni dei sistemi di credito e a quelle del sistema delle carte di credito. Particolarmente complesso appare il sistema delle carte di credito degli Stati Uniti, do-ve è possibile andare sempre oltre il tetto massimo mensile, pagando interessi: questo livello di flusso economico, va a innescare tutta una serie di sistemi di credito e debito, al tempo stesso concettualmente facili da descrivere e molto complessi da gestire a livello di politica economica. Si rischia di avere un debito pubblico molto elevato, citta-dini relativamente poveri perché pieni di debiti e uno Stato che però non è più depositario di beni, o di titoli di Stato, perché il cittadino non ha i risparmi sufficienti per investire in quel settore.

3. Gli individui razionali pensano al margine/limite incrementale, pensano e agiscono al margine o al limite -in questo caso sinonimi a livello concettuale-incrementale. Gli individui razionali, in parole po-vere, pensano che sia meglio l’uovo oggi che la gallina domani. Un esempio pratico di questa mentalità è lo tsunami. Il Giappone, caso a parte nello sviluppo dell’Asia, a livello economico ha delle tecnologie piuttosto sofisticate nell’ambito della prevenzione del sisma ma tutte le zone colpite dallo tsunami di Natale erano tecnologicamente non in grado di gestire la previsione di un simile fenomeno, proprio perchè tecnologicamente avevano delle attrezzature che in Europa o negli USA andavano bene 25 anni prima. Oggi si parla spesso della minac-cia della Cina e dell’India sui mercati, si dice che il costo del lavoro lì sia bassissimo, perché per quelli dei sindacati, il diritto è superato. Tralasciando l’aspetto giuridico giuslavorista e andando a vedere, tec-nologicamente, come in questi paesi si lavora, si nota che i lavoratori operano per un numero di ore notevolissimo al giorno e con tecnolo-gie, a parte il computer, che da noi potevano andare trent’anni fa. Molto spesso questi signori traducono in largo consumo i beni per i quali non occorre un’alta tecnologia, per cui succede che mentre la parte più ricca, benestante e istruita ha le nostre stesse tecnologie, la massa dei lavoratori o di chi comunque non ha un posto strategico nel processo produttivo è molto più indietro, proprio per abbattere i costi. Il principio economico in questione, quindi, ci dice che dando partico-lare priorità al margine incrementale, e quindi all’opzione di breve pe-

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riodo, molto spesso l’individuo non riesce ad avere il polso delle con-seguenze del proprio operato, neppure soltanto a livello previsiona-le/tendenziale. Il XX secolo è stato pieno di scelte incrementali, un e-sempio tra tanti è costituito dall’introduzione della plastica sul merca-to, materiale molto apprezzato, proprio perché appariva indistruttibile, in un’epoca in cui ben pochi additavano il problema della reciclabilità!

4. Gli individui rispondono agli incentivi, anche questo principio è banale a parole ma non lo è affatto nella pratica. Dire che gli indivi-dui rispondono agli incentivi significa in teoria, che una persona è consapevole di essere in un sistema di premi e di sanzioni. A livello operativo questo principio è collegato moltissimo al concetto di utilità marginale. Per utilità marginale si intende ovviamente, la tendenza per cui su una curva, si vede decrescere l’interesse di un individuo per una risorsa, all’aumentare della quantità disponibile della risorsa stessa: cioè l’individuo attribuisce valore ad una risorsa anche attraverso la quantità disponibile di tale risorsa. Quindi un sistema basato su incen-tivi deve necessariamente tener conto di tale aspetto. Di qui l’esigenza sia di comprendere che cosa sia per un individuo un premio/una san-zione, e sia calcolare come varia, nel tempo, il livello di soddisfazione o di timore da parte di questo individuo rispetto ad un premio o una sanzione. Dunque un principio immediato come questo - gli individui rispondono agli incentivi - diventa complesso a livello pratico, proprio perché prevede la creazione di standard di incentivi. Tale creazione risulta tutt’altro che semplice, basti pensare, anche se si tratta di un e-sempio paradossale, che si potrebbe addirittura scoprire, che una per-sona goda ad essere punita e che per questo il tentativo di disincenti-varla da un comportamento attraverso punizioni, non funzionerebbe.

5. Lo scambio può essere vantaggioso per tutti. Esistono dei gio-chi a somma zero, ma per fortuna non solo giochi a somma zero, nei quali vincono tutti nella misura in cui ciascuno si porta a casa qualco-sa: questa è legge dell’equilibrio di John Nash quella a cui hanno de-dicato il film “A Beautiful Mind”. In questo film si vede che il princi-pio dell’equilibrio di Nash viene enunciato in un bar del campus, dove John Nash, ventiseienne, e tre dei suoi colleghi vedono entrare quattro ragazze. Una di queste è più bella delle altre tre, che però, da loro can-to, non sono male. I tre colleghi di Nash puntano tutti sulla più bella ma Nash li ferma e dice loro che ciò non è conveniente. Infatti, se i quattro ragazzi avessero puntato tutti sulla più bella, è possibile che, tra loro, magari uno ci sarebbe riuscito a conquistarla. Il problema, pe-rò, è che gli altri sarebbero rimasti a bocca asciutta, perché nessuna

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delle amiche della più bella, avrebbe gradito fare da ripiego. Nash suggerisce di tirare a sorte, in modo da puntare ognuno ad una ragazza diversa. È chiaro che questa legge non garantiva a Nash e ai suoi compagni di riuscire a conquistare le ragazze, ma garantiva a ciascuno dei quattro la possibilità di giocarsi la carta della conquista. Il gioco del corteggiamento, come impostato da Nash, non è un gioco a somma zero per il semplice motivo che il destino di ciascuno dei quattro non è interdipendente: il fatto che uno ce la faccia non vincola l’altro a vin-cere o a perdere. Quindi il principio in questione dice che lo scambio è sempre vantaggioso per tutti, anche se non è sempre vantaggioso per tutti alla pari.

6. Di solito i mercati sono uno strumento efficace per le organiz-zazioni e per organizzare l’attività economica. Questo sembra addirit-tura una tautologia ma in realtà dietro c’è tutta la polemica tra Adam Smith e Marx. Nel modello di Smith, il papà della teoria economica, i mercati sono strumenti efficaci nella misura in cui attraverso la mano invisibile si autoregolano, e dunque, inevitabilmente, il gioco di do-manda e offerta non ha bisogno di interventi esterni da parte dello Sta-to, del diritto, della politica, ecc. Marx riprende molto del modello e-conomico di Smith, introduce però, il concetto di plusvalore. Infatti, in questo caso, non si tratta di un gioco a somma zero: se Tizio investe 5 non ottiene 5, e se Tizio investe 5 Caio non perde 5. Il problema dun-que è che in realtà viene creato qualcosa in più rispetto a quello che è stato investito, e qualcosa in più finisce a qualcun altro. Proprio per l’appropriazione e la gestione del plusvalore entrano in gioco quei fondamenti teorici che porteranno a Keynes.

7. L’intervento dello Stato può, talvolta, migliorare i risultati del mercato - ovviamente talvolta no -, proprio perchè l’allocazione del plusvalore gioca un ruolo fondamentale. Sicuramente il ruolo dello Stato non è mai neutro per cui può migliorare o peggiorare una situa-zione. Tale principio sembra scoraggiare posizioni ideologiche (pro/contro), a vantaggio del riferimento a casi specifici.

8. Il livello di benessere di un paese dipende dalla sua capacità di produrre beni o servizi. Il problema oggi dello scenario europeo è che è sempre meno strategico sia sui prodotti che sui servizi, perché né le grosse forze lavoro a basso costo, né i grandi centri intellettuali, di ri-cerca e innovazione, si trovano in Europa. Si può sostenere quindi, che, dal punto di vista economico (e non morale), più in un sistema il costo del lavoro è alto, meno si è competitivi nella produzione e nella creazione di beni e servizi.

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9. I prezzi aumentano quando lo Stato stampa troppa moneta. Questo porta a riflettere su cosa sia meglio in un contesto economico, ossia se avere un aumento dell’inflazione e un calo della disoccupa-zione, perché le due cose sono collegate da una relazione inversa, op-pure viceversa. In tale riflessione bisogna considerare che la deflazio-ne è un flagello: se i prezzi crollano, nessuno vende più nulla e questo vuol dire arrivare alla paralisi. Infatti, se un individuo compra, per 300.000 €, una casa che poi, con un crollo dei prezzi vale 100.000 €, a meno che non sia costretto da catastrofi personali, non venderà mai quella casa. Quindi la deflazione nella teoria economica è quasi peg-gio dell’inflazione.

10. Nel breve periodo i sistemi economici sono costretti a scegliere tra inflazione e disoccupazione, in gergo sistema trade-off.

Questi principi economici fanno da sfondo all’intero discorso da affrontare.

3.3 I fondamenti teorici del paradigma Law and Economics

La Law and Economics, è l’approccio giuseconomico che servirà ad inquadrare i cambiamenti che sono stati, in questo discorso, con-densati nella frase “dall’interesse generale al lobbying”.

Il paradigma Law and Economics, con il quale si fa riferimento alla scuola che cerca di leggere in termini economici l’evoluzione del dirit-to, è, in qualche modo, ispirato a questi principi di base della teoria economica.

L’approccio Law and Economics nasce sostanzialmente (anche se i primi scritti appartengono agli anni ‘60) tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi anni ‘80 negli USA. Al momento questo filone ha visto succeder-si due generazioni di studiosi. Le due generazioni però, condividono lo stesso periodo storico: si tratta di studiosi contemporanei, ovvia-mente con una differenza anagrafica per cui, per intendersi, apparten-gono alla prima generazione quegli studiosi che avevano 50 anni negli anni ‘80, mentre alla seconda quelli che negli anni ‘80 ne avevano 30. Molti di questi operano a Chicago.

La prima generazione poggia su tre principi: 1. Esiste una proporzione inversa tra prezzi e quantità disponibile

di un bene: più un bene è raro più costa, mentre più è disponibi-le più è a buon mercato.

2. Distinguere un costo da un investimento. Questo principio è un invito alla chiarificazione di una definizione economica di co-

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sto, ed ha sicuramente ripercussioni enormi. Infatti, questo a-spetto è stato spesso sottodimensionato a livello di teoria giuri-dica. In sostanza esprime la necessità, in vista dell’efficienza, di riuscire a distinguere gli investimenti dai costi. Il problema è che la risposta a tale domande è chiara solo in un secondo mo-mento, cioè ad azione compiuta. Gli studiosi della Law and E-conomics vanno invece a studiare come, con una serie di para-metri, si possa sapere, in anticipo, almeno in termini previsiona-li (e non matematici), se si tratta di un costo o di un investimen-to. Nell’approccio Law and Economics c’è la traduzione eco-nomica del conflitto sociale: una persona che arriva ad un dotto-rato ma che poi non va ad occupare un posto che le permetta di incidere dei cambiamenti, che la sua preparazione le consente di vedere, per cui si ritrova nella situazione di capire quello che succede ma di non poter fare nulla (sindrome di Cassandra). Molto spesso non c’è una simmetria tra il percorso formativo e lo sbocco occupazionale per cui si trova un lavoro che è sotto-dimensionato al curriculum di studio, non solo in una fase for-mativa ma come punto di arrivo.

3. La tendenza delle risorse a gravitare verso i loro più apprezzati usi e ciò comporta la ricerca di massimizzare lo sfruttamento in funzione della soddisfazione. C’è, dunque, di conseguenza una proporzionalità diretta tra soddisfazione e sfruttamento. Un e-sempio: oggi le persone tendono molto di più a comprare libri su come organizzare un party o rispettare il galateo a tavola piuttosto che un libro di confronti su un dibattito filosofico.

La prima generazione ha quindi bisogno di standardizzare, di defi-nire in maniera strutturata che cosa definisce un investimento o cosa lo contraddistingue nello specifico da un costo.

La seconda generazione, invece, è più modesta sul piano teorico nel senso che ha meno ambizioni di formalizzare standard, ha meno bisogno di definire a priori il confine tra un investimento e un costo, però è allo stesso tempo, un po’ meno economica e un po’ più prag-matica e giuridica. Ciò vuol dire che mantenendo sempre un imposta-zione economica, gli studiosi della seconda generazione, vanno però a studiare i fenomeni burocratici ed istituzionali, e soprattutto i processi legislativi; essi cioè vanno a studiare effettivamente come la volontà sociale e giuridica prende forma di diritto valido e quanto questa vo-lontà giuridica tiene conto dei principi economici menzionati prima.

I teorici di questa seconda generazione, sostengono in sostanza che

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l’uomo agisce secondo un modello comportamentista stimolo-risposta e che questi meccanismi di risposta sono quelli che il diritto può rego-lare ma non può cambiare. Oggi per esempio si parla molto di violen-za negli stadi, ovviamente il diritto può intervenire, con sanzioni, poli-tiche di prevenzione, ma non può non considerare che l’uomo ha biso-gno di valvole di sfogo, di aggressività, che sono nella sua natura e che ciascun individuo ha imparato a gestire meglio/peggio.

Per questa seconda generazione, l’efficienza del diritto funziona meglio attraverso le common laws piuttosto che attraverso le statute laws. Le statute laws comprendono una serie di principi, di tradizioni, che fondano quello che comunemente si chiama diritto romano: il si-stema italiano e quello francese si basano su questo tipo di ordinamen-to. La common law, invece, è il sistema più anglosassone, in esso la singola causa, il singolo processo, creano precedente di cambiamento. Nella common law è il diritto che si adegua alla società, mentre in un sistema basato sulla statute law si sostiene che debba essere il diritto a dare la direzione, le regole - pressoché eterne -, che poi il sociale deve seguire.

Da questo punto di vista l’approccio Law and Economics, special-mente di seconda generazione, cerca pragmaticamente di creare degli standard, che però servano al diritto per adeguarsi al sociale. C’è quindi la consapevolezza che anche gli standard dopo un po’invecchiano, a differenza della prima generazione, la quale pur perseguendo la politica della common law, era invece più propensa a standard che sopravvivessero al cambiamento sociale.

Più teorici quelli della prima, più pragmatici quelli della seconda generazione, ma concordi nel mettere in chiaro che il diritto, attraver-so l’economia è in funzione del sociale, e non viceversa. Sicuramente dietro questa concezione c’è l’influenza di un’esperienza estranea agli Europei e, invece, propria degli Americani: la frontiera.

3.4 Il lobbying come strumento strategico per organizzazioni che vogliano essere veramente vincenti

In questo periodo ci sono problemi legati alle ferrovie che negli ul-timi anni hanno avuto un processo di privatizzazione. Non si può però pretendere di comprendere lo sviluppo e le politiche pubbliche delle ferrovie senza capire come agisce, e con quali obiettivi, la lobby dell’auto in Italia. Quando una cosa non funziona talvolta è per disor-ganizzazione, altre volte è perché, come direbbe il sociologo Robert

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Merton quell’apparente disfunzione svolge in realtà una funzione la-tente. Negli USA le politiche di lobbying sono scoperte, nel senso che nessuno sostiene seriamente di fare l’interesse generale, cioè di agire per l’interesse generale. Al di là delle differenze culturali, il livello di lobbying negli USA è scoperto, mentre in Italia, pur esistendo comun-que, si nasconde dietro un interesse generale, di fatto impossibile, per cui a causa di tutta una serie di tradizioni di diritto romano si deve sempre far finta di star facendo qualcos’altro, rispetto a quello che si sta facendo realmente.

Il lobbying è una gestione a livello di corridoio di interessi partico-lari. Nella nostra tradizione è sempre stato abbinato alla corruzione, al giocare sporco. Esso, invece, ha una sua connotazione tecnica: è la ca-pacità di gestire ad un tavolo, al quale siedono attori con interessi par-ticolari diversi, le divergenti posizioni, in modo trasparente. Ciascuno di quelli seduti a detto tavolo, è consapevole di essere portatore di un diverso interesse particolare e sa che la somma degli interessi partico-lari, non fa l’interesse generale. Infatti, nella logica generale, la sintesi delle posizioni diverse non fa una posizione generale, bensì una posi-zione che è la sintesi di posizioni particolari, e quindi un caso partico-lare, più ampio degli altri ma sempre particolare e non generale.

Da questo punto di vista il lobbying a livello organizzativo funzio-na meglio dell’interesse generale, ma come ogni cosa presenta ovvia-mente anche degli svantaggi.

Il modello teorico illustrato di seguito, parte dall’idea che il far fin-ta di sostenere di avere un interesse generale abbia un costo enorme di tempi, di energie, di risorse umane. Tornando al sistema di assi carte-siani formazione-sbocco occupazionale, emerge che stiamo arrivando ad un paradosso, che però i giovani non possono cogliere. La vecchia formazione universitaria ha riscosso senza dubbio molte critiche, è stata accusata di una formazione generalista, del tutto inadeguata a ga-rantire uno sbocco occupazionale, proprio perché le persone laureate non avevano una preparazione pratica sufficiente rispetto alla doman-da di mercato. Il paradosso attuale è costituito dal fattore tempo: se si suppone che ad un certo punto l’Università decida di ascoltare il mer-cato del lavoro, tarando veramente i propri corsi rispetto ad esso, si scopre, senza cadere in un discorso di giudizio, che sostanzialmente si tradisce l’intento di partenza ispirato proprio da queste critiche. At-tualmente un percorso universitario dura da un minimo di 3 ad un massimo di 7 anni, ma in 3 anni il mercato del lavoro cambia molto più velocemente del mondo universitario.

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Ipotizzando che il mondo del lavoro chieda all’Università nel 2006 di formare degli ingegneri edili che entreranno nel mercato del lavoro nel 2010, ci si potrebbe trovare nella situazione per cui nel 2010 il mercato del lavoro potrebbe richiedere non più ingegneri edili ma in-gegneri delle telecomunicazioni, per colmare tale discrepanza tra of-ferta e domanda, allora il sistema Universitario potrebbe istituire un nuovo corso di laurea, formando un ibrido del tipo “ingegnere edile delle telecomunicazioni”. Il problema è che però tale scarto sarebbe continuo per cui l’adeguamento dell’Università al mercato, proprio a causa del fattore tempo, porterebbe una persona a conoscere un po’ di ingegneria, un po’ di telecomunicazioni, un po’ di diritto, ad avere in sostanza una formazione generalista, come quella che si otteneva con il vecchio ordinamento senza ascoltare il mercato del lavoro. Questo aspetto della riforma universitaria, visto in un’ottica della Law and Economics, alza spaventosamente i costi, proprio perchè l’inseguimento alla curva di domanda, finisce per riprodurre la stessa figura generalista, con maggiori costi legati proprio all’analisi della curva di domanda. Ovviamente, in un sistema che ha come fondamen-to delle proprie politiche, l’economicità, questo rappresenta un para-dosso proprio perché, cercando di ridurre i costi, finisce per aumentar-li.

Questo discorso sull’economicità, intesa come principio economi-co e strumento pratico di riforma, considera centrali 3 contributi:

1. il modello dei costi di transazione di Williamson; 2. il modello dell’asimmetria informativa di Stiglitz; 3. il principio insegnato da Gary Becker: ciascun individuo mas-

simizza e ottimizza il proprio risultato per come intende l’idea di mas-simizzazione, cioè ciascuno opera all’interno del proprio concetto di massimizzazione.

Questi tre contributi portano a riflettere sull’economicità della pubblica amministrazione italiana, che si rivela possibile nella misura in cui vengano rese trasparenti tutte le forme reali e attuali di distribu-zione dei costi: solo questo infatti consente di discutere su dove appor-tare di tagli, dove rendere palesemente fuorilegge comportamenti scorretti con controlli severi che però costano, e dove invece legaliz-zare un comportamento, togliendo il quale si bloccherebbe il meccani-smo organizzativo.

Per definire i costi, intesi, come già detto in senso più ampio, si ri-corre in questo discorso, al modello dei costi di transazione di Wil-liamson, il quale parte dall’assunto che ogni persona e ogni organizza-

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zione solo per il fatto di esistere ha dei costi. Questi costi sono di questi 3 tipi: 1. contrattuali; 2. economici in senso stretto; 3. organizzativi. I costi contrattuali, come si può immaginare hanno a che fare pro-

prio con il tipo di situazione contrattuale, per cui se io voglio un posto di lavoro oggi, ovviamente devo togliere dalla mia categoria di posto di lavoro il concetto di tempo indeterminato, altrimenti le probabilità di rimanere disoccupato si alzano moltissimo. Questo significa che la forma contrattuale di un lavoro incide moltissimo sui costi.

Il costo economico è quello che banalmente si conduce al prezzo. Va sottolineato che però, non è sempre detto che al maggior costo e-conomico corrisponda maggiore qualità.

I costi organizzativi hanno a che fare con il tempo. Per meglio illu-strare la natura di questa terza tipologia di costi, si può ricorrere ad un esempio, nel quale immaginiamo un’agenzia di eventi, alle prese con l’organizzazione di un congresso. Sicuramente l’agenzia valuterà le offerte di più alberghi, situati a distanza diversa rispetto alla sede del congresso, prima di scegliere quello in cui far alloggiare i relatori. Considerare soltanto i costi economici, tuttavia, potrebbe rivelarsi non strategico per l’agenzia, la quale potrebbe trovarsi nella situazione in cui, avendo prenotato in un albergo, che a differenza degli altri consi-derati, è situato a 50 Km dalla sede del congresso, ma offre un buon servizio ad un prezzo più basso, dovrebbe sostenere dei costi elevati per il rimborso dei taxi con i quali i relatori hanno raggiunto il con-gresso. La spesa di una scelta legata soltanto all’albergo più economi-co risulterebbe, in questo caso, maggiore di quella che avrebbe com-portato la scelta di un albergo più vicino ma più caro.

La Law and Economics è una scuola di pensiero che cerca di dare una chiave di lettura giuseconomica della costruzione sociale del dirit-to e più in generale tutti quegli strumenti di comunicazione, organiz-zazione, pubbliche relazioni che stanno anche dietro all’applicazione sociale del diritto.

La seconda generazione della Law and Economics poggia, in uno stile molto pragmatico, molto funzionale, molto più snello del prece-dente che aveva più bisogno di formalizzare degli standard teorici a priori, su 4 principi piuttosto elastici:

1. Si approda ad una chiave comportamentista dell’analisi degli uomini in senso lato, il che significa che in questo modello teorico il

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comportamento è un momento di sintesi anche di tutto ciò che non è traducibile in comportamento. Tutto ciò non vuol dire negare le inten-zioni o il pensiero, ma vuol dire che se una persona pensa in un modo e poi fa in un altro, per questa scuola ciò che conta è il comportamen-to, che sarebbe legato a stimoli e risposte. Tale presupposto porta non solo questo approccio, ma anche l’economia in generale, a dare grande importanza agli incentivi, al sistema cioè di premi e sanzioni. La con-cezione comportamentista di questo approccio, va però distinta da quella della fine dell’800 secondo la quale a fronte di un dato stimolo gli individui, intesi come macchine in senso rigido, reagiscono sempre allo stesso modo (Pavlov).

2. Il secondo principio è quello dell’efficienza normativa. Sep-pur con tutti i suoi limiti e debolezze il diritto è uno strumento cruciale di organizzazione dei comportamenti sociali e umani, che se formulato in termini di analisi economica raggiunge un livello di efficienza maggiore.

3. Il terzo principio sostiene che la selezione valida del diritto, cioè la creazione di regole, di norme, giuridicamente e socialmente adeguate al contesto, all’epoca è possibile soprattutto attraverso le common laws, molto più che attraverso i meccanismi di diritto roma-no tradizionali che secondo questi studiosi tendono ad essere un po’ troppo generali, po’ troppo astratti, un po’ troppo atemporali, rispetto alle logiche di cambiamento sociale. Il diritto romano è un diritto troppo lento, che invecchia in fretta e che non è mai all’altezza dei tempi. La common law ha la caratteristica, come ha detto Monte-squieu, di trasformare lo spirito delle leggi nello spirito del tempo, os-sia di rendere possibile che lo spirito delle leggi sia veramente la sin-tesi dello spirito del tempo. Questo non vuol dire avere un diritto giu-sto, ma vuol dire dare al diritto una possibilità in più di esserlo: un di-ritto che non rispecchia i tempi è già condannato in partenza a non es-sere funzionale, anche se avesse ragione in via di principio.

4. Il quarto principio deriva dal terzo, premesso che questi stu-diosi non credono che non tutte le common laws siano buone e valide, sostengono, tuttavia, che se si seleziona il diritto valido attraverso le common laws questo genera un meccanismo di riproduzione genetica, per cui le common laws generano altre common laws fino a che il di-ritto non arriva effettivamente ad essere simmetrico rispetto ai tempi.

Questi principi sollevano un problema non piccolo, ovvero il pro-blema della costruzione giuridica del diritto valido, problema che, se affrontato nell’ottica dell’analisi giuseconomica del diritto, o meglio

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della costruzione sociale del diritto valido, è riconducibile al discorso circa il passaggio da una logica di interesse generale ad una di lob-bying.

La costruzione sociale del diritto valido avviene attraverso 3 fasi: 1. la varietà delle posizioni e delle aspettative sociali, economi-

che, politiche; 2. la selettività attraverso dei criteri del diritto valido; 3. la stabilizzazione, cioè la resa operativa quotidiana della nor-

mativa che è stata selezionata come valida. Ad un tavolo ci sono Confindustria e sindacati, dando per scontato

la buona fede, la loro presa di posizione dimostra che non c’è interesse generale, ma una sintesi particolare di interessi particolari contingente. Ciò ridimensiona le pretese sociali e culturali del diritto, ossia alla consapevolezza che il diritto non potrà mai avvolgere lo spirito del tempo, anche se potrà attraverso la common law essere simmetrico ai tempi. Una volta stabilita la varietà delle posizioni (Confindustria, CGL, ecc.), il problema è quello della selettività, cioè il problema re-lativo ai criteri attraverso cui trasformare una o l’altra delle varie posi-zioni e aspettative, in diritto. La risposta formale è quella di ricorrere ai processi stabiliti formalmente - in sostanza fare l’interesse generale- ma è chiaro che nel dibattito parlamentare lo scontro è tra posizioni particolari, anche se ovviamente ciascuna di queste sostiene di voler agire per l’interesse generale generando un’illusione puramente me-diatica. Quindi i gruppi portatori di interessi particolari (lobby), inci-dono sui criteri effettivi, non certo formali, di selettività del diritto va-lido. Lo sviluppo dell’auto si lega comunque alla lobby dell’auto che porta avanti l’idea dell’auto come motore di cambiamento e di inno-vazione rispetto agli altri mezzi di trasporto, che la spunta in Italia su quella dei treni. Postulando che i criteri formali ed effettivi di selezio-ne funzionino, si avrebbe il problema della stabilizzazione del diritto valido, momento in cui diventa piuttosto evidente lo scarto tra la di-mensione formale e la dimensione materiale del diritto. Questo vuol dire che si attivano dei meccanismi nei quali, specialmente nei sistemi di diritto romano, la forma giuridica non sempre collima con l’applicazione del diritto: questo il motivo per cui l’approccio Law and Economics reputa più strategiche e più rilevanti per lo sviluppo socio-economico del diritto le common laws. Una norma che formal-mente stabilisce qualcosa, ma che poi non prevede né premi se viene attuata, né sanzioni se non viene attuata, resterà lettera morta, anche se formalmente in vigore. Per un esempio si può pensare alla pratica dif-

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fusa anche se non formalizzata giuridicamente, del quarto d’ora acca-demico o al contrario all’atto dovuto caduto in disuso della trascrizio-ne sul libretto delle bocciature.

Gli studiosi della Law and Economics sostengono che tali situazio-ni sono da evitare e suggeriscono quindi nel caso si verifichino, di cambiare il diritto in relazione alle concrete applicazioni, o al contra-rio di ripristinare il vecchio diritto anche nelle pratica.

Il motivo per il quale formazione e tipologia del lavoro non sono direttamente proporzionali nella realtà dei fatti, è che i criteri di selet-tività, formali ed effettivi, non differenziano il livello specifico di va-lore aggiunto, cioè per quanto l’Università possa distinguere formal-mente gli obiettivi formativi e il piano di offerta formativa della laurea triennale da quella specialistica, è probabile che le figure prodotte an-dranno poi a configgere in termini di sbocchi occupazionali. Ci vor-rebbe dunque una simmetria tra forme giuridiche, diritto materiale e analisi economica di tre momenti che in teoria, secondo il modello dell’economia classica, andrebbero a convergere nel prezzo.

Un’Università aziendalizzata ragiona in termini dei costi sostenuti per formare un laureato, così ci si aspetta che un laureato alla triennale per il quale si è speso x, abbia sul mercato un valore y, mentre quello della specialistica per il quale si è speso 2x, ne abbia uno pari a 2y. Il problema è che il sistema accademico non è assolutamente in grado di stabilire quanto poi valga un certo titolo sul mercato del lavoro: ciò non risulta possibile proprio per il problema dell’asimmetria informa-tiva nella costruzione giuseconomica del diritto valido.

Secondo il modello dell’asimmetria informativa formalizzato dal premio Nobel 2001 per l’economia Stiglitz, dietro il processo di co-struzione del diritto valido ci sarebbe il problema dell’informazione, o meglio il problema dell’uso dell’informazione che fanno le diverse lobby. Stiglitz compie un gran passo in avanti rispetto alla la teoria economica precedente, la quale aveva espulso l’informazione dal pro-prio ambito, facendo del prezzo l’unica informazione necessaria per valutare qualcosa. Secondo questa concezione tradizionale, quindi da-to che il prezzo di formazione di un laureato triennale sia x, il suo sbocco sul mercato sarà l’equivalente di un investimento x, che dovrà dare un interesse y, cioè in termini di plusvalore, questa persona dovrà andare a creare quello che è costato più 1. Ovviamente non funziona così, perché per esempio una persona con più contatti trova più facil-mente lavoro di una molto più capace ma con meno contatti, proprio perchè, anche se non sono considerati nella teoria economica, i contat-

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ti costituiscono un patrimonio informativo che gioca un ruolo centrale. Secondo l’asimmetria informativa del modello di Stiglitz, quindi gli attori delle varie lobby sono portatori di interessi particolari con livelli informativi diversi, o meglio con capacità strategiche diverse di gesti-re il patrimonio informativo di cui dispongono.

Stiglitz supera 2 principi considerati oro colato dalla teoria econo-mica precedente:

1. la legge dell’equilibrio generale di Arrow e Debreu, rimasto in voga per gli economisti per circa 40 anni, secondo la quale il prezzo è uguale all’informazione, ossia che il prezzo è tutto ciò che serve come informazione ad un individuo circa qualcosa. Totò avrebbe detto leg-gendo Arrow e Debreu che il prezzo è la somma che fa il totale, ossia tutto ciò che ci interessa sapere a livello informativo è condensato nel prezzo. Il modello di Stiglitz ci fa capire che non è così, come dimo-stra l’esempio dell’analisi della logica delle assicurazioni, da lui pro-posta. Nell’ottica di equilibrio generale di Arrow e Debreu le assicu-razioni e i potenziali sottoscrittori di polizze giocano entrambi a carte scoperte: il prezzo della polizza dice al potenziale sottoscrittore tutto ciò che riguarda la polizza stessa, mentre a sua volta il potenziale so-stenitore dà all’assicurazione tutte le informazioni affinché questa possa inserirlo nella classe specifica di appartenenza. Stiglitz dimostra che in realtà i sottoscrittori molto spesso, tendono a mantenere riserva-te alcune informazioni per non essere inseriti in una categoria di ri-schio più alta per la quale è previsto un premio più elevato, e a sua volta un’assicurazione di solito gioca a carte coperte nel far passare per clausole ordinarie le clausole aleatorie.

2. il cosiddetto teorema dell’economia del benessere, per il quale variando opportunamente la distribuzione di beni e servizi in dotazio-ne ad un sistema, il sistema di prezzi se perfettamente concorrenziale è in grado di generare equilibri pareto-efficienti, o ottimi, proprio per-chè riesce ad autoregolarsi e quindi di conseguenza ad arrivare all’ottimo, ossia al migliore equilibrio che uno scenario consente.

Stiglitz mette in crisi questi 2 modelli perchè entrano in scena il va-lore aggiunto e il plusvalore. In un sistema ideale, perfettamente con-correnziale dove il prezzo è momento di sintesi ed è l’unico momento informativo rilevante, si riproporrebbe un sistema alla A. Smith in cui il mercato usando la mano invisibile, si potrebbe autoregolare arrivan-do sempre alle migliori condizioni possibili di efficienza. Questo fun-zionerebbe a meraviglia se prezzo e informazione fossero collegati in termini matematici da un’identità (5=5), ossia fossero esattamente u-

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guali, ma in realtà non è così, e come dimostra l’esempio delle polizze assicurative, c’è un’asimmetria informativa tra l’assicurazione che cerca di vendere più polizze e i potenziali sottoscrittori che cercano di sottoscrivere la polizza alle migliori condizioni per loro (maggior van-taggi a minor costo). In scenari come questo in cui esistono tanti sog-getti-individui o organizzazioni-portatori di interessi particolari, cia-scun attore in relazione all’altro opera più o meno in maniera strategi-ca, attraverso l’asimmetria informativa di cui parla Stiglitz. Questo perchè il livello decisionale su cui gli individui agiscono, sono ad un livello di informazione decisamente modesto rispetto a quello che molto spesso occorrerebbe (ciò che in teoria della comunicazione si indica come logiche di risparmio cognitivo) per un efficace processo decisionale (efficace in senso paretiano). In un contesto in cui non c’è asimmetria informativa, tutti gli attori giocano a carte scoperte e sono in grado di padroneggiare gli strumenti di informazione, comunica-zione e pubbliche relazioni, sapendo come intersecare gli interessi par-ticolari creando aree di dominio consensuale, ossia aree di accordo temporaneo più o meno durature.

La considerazione del problema dell’asimmetria informativa si im-pone dunque per un’amministrazione pubblica che si ispira a principi come quello dell’economicità e della trasparenza. In particolare l’economicità va intesa come strumento volto a ridurre i costi di tran-sazione di Williamson, avendo chiari i criteri per distinguere costi da investimenti: con l’economicità si punta all’eliminazione degli spre-chi, ossia di tutto ciò che non genera valore aggiunto. La trasparenza, purché sia simmetrica, serve a ridurre proprio l’asimmetria informati-va, nella misura in cui non deve essere trasparente soltanto il contenu-to dell’informazione, ma anche i criteri selettivi, che hanno portato a confezionare quell’informazione, e la fonte che la legittima.

Il plusvalore è il passaggio concettuale di fondo che differenzia Smith da Marx spesso considerati antitetici. In realtà la mano invisibi-le di Smith funziona perchè non c’è plusvalore. È Marx a introdurre il concetto di plusvalore, dimostrando che in realtà in un sistema eco-nomico si innesca un meccanismo di moltiplicazione, più che di addi-zione.

Il plusvalore non crea solo valore ma anche bolle speculative, ov-vero in un contesto di asimmetria informativa in cui agiscono interessi particolari, fingere circa il valore di un prodotto, genera soltanto plu-svalore e non valore aggiunto, innescando molto spesso una bolla spe-culativa che ha la funzione di spostare ricchezza, moltiplicare il plu-

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svalore ma senza creare risorse. Una leggenda racconta che Rotschild ha fatto la sua fortuna proprio

grazie ad un uso strategico dell’asimmetria informativa. Egli apparte-neva ad una famiglia benestante, ma non poteva definirsi ricchissimo. Viveva a Londra e nel 1815, nel giro di 4 giorni diventa l’uomo più ricco del mondo perchè gioca abilmente il plusvalore. Durante la bat-taglia di Waterloo, combattuta dagli inglesi contro Napoleone Bona-parte, Rotschild manda un suo messo a cavallo sul campo di battaglia. Quando questi ritorna sfinito da lui, gli comunica prima di morire che Napoleone sta soccombendo. Rotschild diffonde la voce che, invece, Napoleone ha vinto e sta marciando verso Londra: conseguenza, la borsa crolla ed egli con i soldi della sua famiglia compra tutto quello che può, ad un prezzo ovviamente molto basso, che ben presto ritorne-rà alto, visto che in realtà Napoleone, come ha riferito il messo, viene sconfitto.

Questo è un esempio di uso abile non del valore aggiunto ma del plusvalore, perché in questo caso c’è uno spostamento, un deprezza-mento di risorse e un riallocamento e riapprezzamento di risorse, sen-za però di fatto creare nulla, ciò vuol dire che a livello di economia reale l’impatto è stato zero.

Il valore aggiunto invece parte dall’assunto che il plusvalore è un diritto, pena la circolazione stessa dell’economia, ma il plusvalore è tanto più motivato quanto più rispecchia la creazione di valore aggiun-to. Esso dunque è più motivato fino a quanto ogni passaggio del pro-cesso economico, anche quello delle informazioni e della comunica-zione, crea qualcosa di utile, almeno per qualcuno, che però prima non c’era. Il valore aggiunto scaturisce da processi di economia reale, il plus valore è figlio dell’economia reale ma diventa via via il fonda-mento dell’economia finanziaria. L’economia finanziaria molto spesso non è altro che gestione asimmetrica delle informazioni negli scontri tra lobby.

Per esempio si possono considerare le informazioni alla base della scelta di investire in futures: questo tipo di investimento consiste in una vera scommessa, più o meno a medio termine, su determinate ob-bligazioni di un dato settore. Il problema è individuare dove l’individuo che ha intenzione di investire ha preso informazioni per sentirsi “sicuro” di questo investimento: ossia c’è il rischio che po-trebbe averle ottenute da una fonte che ha interesse al suo investimen-to e che quindi gioca sull’asimmetria informativa. Nel vecchio model-lo economico, quello prima di Stiglitz, si sarebbe detto il prezzo

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dell’investimento futures, dice tutto dell’obbligazione, Stiglitz direbbe al contrario che se non si hanno informazioni adeguate su molti altri aspetti relativi ad essa, come informazioni sul potere della lobby in un dato settore, il parere del mondo politico e quello dell’opinione pub-blica, il potere delle aziende che lavorano in quel settore, e altre anco-ra, mancano i presupposti per un investimento affidabile.

Beppe Scienza, professore di Teoria economica di Torino, sostiene che molto spesso anche gli articoli di giornale, non sono articoli ma sono redazionali, sono cioè redatti dalle banche o da grandi gruppi di pressione, da grandi lobby, che riescono a muoversi proprio perchè la maggior parte dell’opinione pubblica non ha accesso alle informazio-ni, ai criteri selettivi di queste e alle fonti trasparenti, e per questo non può valutare i reali rapporti di potere e le reali situazioni finanziarie ed economiche.

Il diritto nella misura in cui parte da una chiave giusecomica di in-terpretazione delle informazioni della comunicazione, parte dall’idea che un interesse generale non ci può essere per il motivo, che il mas-simo interesse generale possibile è rendere trasparenti e simmetriche le varie posizioni di interessi particolari. Il rischio per un’ammi-nistrazione che auspica all’economicità e alla trasparenza, in uno sce-nario in cui non c’è simmetria informativa, è che essa si troverà sem-pre ad operare in contesti in cui il confine tra valore aggiunto che sicu-ramente genera ricchezza ma anche altro a livello di economia reale - e il plusvalore - che può generare sicuramente ricchezza ma anche so-lo bolle e speculazioni. Questo significa che c’è costantemente il peri-colo di gonfiare semplicemente l’asimmetria informativa e il dislivello di potere tra le lobby.

Oggi si è giunti alla relativizzazione dell’arte, per cui la sfida con-temporanea di chi ha intenzione di investire nel settore dell’arte è di andare a comprare opere di un artista sconosciuto, per poi trarne van-taggi con particolari strategie basate sul plusvalore. L’acquirente è consapevole di aver fatto un investimento e per cogliere risultati posi-tivi assumerà un lobbysta che inizierà a far pressione alle gallerie af-finché queste espongano le opere di questo artista senza fama, scriverà articoli, o anche, pagherà una fortuna ad un professore perchè scriva un libro su quell’artista. Potrà permettersi di fare tutto ciò perché egli non si sarà limitato all’acquisto di una sola opera ma dell’intera colle-zione, ottenuta a prezzi bassissimi, per cui egli ha un margine, consi-derando quanto avrebbe invece speso per ottenere opere di artisti rico-nosciuti, da poter investire per far diventare quello che ha comprato ad

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un prezzo basso, qualcosa che avrà un valore alto sul mercato. Nel campo della comunicazione, questo è la differenza nel fare co-

ol hunting e fare trend setting. Il Cool hunter, è colui che va a caccia delle cose che fanno tendenza, è uno scopritore. Si tratta però di una figura abbastanza passiva, perchè si limita a scoprire ma non crea al-cunché. Il trend setter è invece una persona che non va a scoprire le cose che fanno tendenza, ma va a studiare il modo affinché una data cosa, in cui egli ha investito, faccia tendenza. Solitamente sono i trend setter che creano delle lobby, che si avvalgono dell’asimmetria infor-mativa e che quindi cercano di creare il massimo plusvalore possibile senza preoccuparsi del valore aggiunto realmente prodotto.

L’approccio giuseconomico alla comunicazione, all’informazione e alle pubbliche relazioni, serve a spiegare come il meccanismo di lob-bying sia molto più onesto e trasparente dell’interesse generale nella misura in cui rende palese il network di interessi particolari, senza ma-scherarli dietro all’interesse generale. Questo non vuol dire che tale approccio vuole giustificarlo, il suo obiettivo sostanziale è quello di portare su un piano sempre più simmetrico i vari interessi particolari, affinché questi possano confrontarsi sulla base di una tendenziale simmetria informativa.

In che modo i saperi di questo capitolo possono agevolare la nasci-ta di autori-marchi globali?

1. i dieci principi economici servono agli aspiranti autori a comprendere le forme giuridiche, la teoria dei contratti, il valore eco-nomico di un’opera;

2. il modello dell’asimmetria informativa serve ad un aspirante autore ad esigere di avere visione strategica dell’intero processo (dalla progettazione al resoconto annuale delle vendite e di come esse ven-gono rilevate) in cui la sua opera è coinvolta;

3. i principi summenzionati della comunicazione pubblica, por-tano l’aspirante autore ad esigere trasparenza, ascolto, servizio, ecc. nelle politiche pubbliche di promozione della cultura;

4. in sostanza il vero vantaggio competitivo che questi saperi of-frono all’aspirante autore è quello di relativizzare ogni forma di identi-ficazione-appartenenza e di fargli comprendere che l’autore come marchio globale osserva un orizzonte di possibili altrimenti di forme e contesti giuridico-economici, con l’atteggiamento di chi va a fare shopping (Galgano 2005) scegliendo forme e contesti giuridico-economici più viabili rispetto ai propri obiettivi strategici.

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3.5 Le forme giuridiche della proprietà intellettuale come funzio-ne allocativa del diritto

In che modo le strategie di marca e le strategie di protezione della proprietà intellettuale integrate attraverso strumenti di comunicazione e marketing possono contribuire alla moltiplicazione del valore ag-giunto e più in generale alla costruzione sociale della ricchezza attra-verso una funzione allocativa del diritto che esprime in forma contin-gente la metafunzione del diritto come tecnologia sociale? A questo interrogativo, la mia analisi e il mio lavoro progettuale offrono una possibile risposta: il KWF il quale è un pacchetto di know how pensa-to per gli scenari della globalizzazione delle realtà locali (globalizza-zione), divenuti dominanti in modo esplicito da quando, era il primo luglio 1997, Hong Kong ritornò cinese e Deng Xiao Ping potè permet-tersi di dire a quasi un miliardo e mezzo di cinesi che “diventare ricchi porta con sé la gloria”. Il KWF è, lato sensu, un sistema evolutivo che potrebbe in futuro diventare anche un software evolutivo post-umano. Esso si costituisce di 8 steps del sistema evolutivo che definiremo per ora, giustappunto, Knowledge and Wealth Flow (KWF) e che rappre-senta una possibile forma di mappa strategica operante nell’algoritmo evolutivo di cui ai capitoli precedenti.

1) Conoscenza 2) Procedure di know how 3) Forme giuridiche della proprietà intellettuale 4) Strategie di comunicazione 5) Strategie di trendsetting 6) Eduinfotainment creativo 7) Valutazione e misurazione della ricchezza prodotta 8) Costruzione strategica della ricchezza Il KWF è stato concepito avendo ben presente che “in un’economia

di mercato il livello di occupazione riflette la quantità di informazione disponibile”. Vedi R.L. Heilbronner e L.C. Thurow, Capire l’economia, il Sole 24 Ore, Milano 2003, p.134.

Sappiamo da tempo che la produzione di massa low tech e low concept si sta riallocando in Estremo Oriente (ma abbiamo visto in precedenza che non è questo il terreno di battaglia fondamentale) e, secondariamente, nell’Est Europeo, su questo fronte attraverso il dop-pio livello strategicità/reperibilità e che gli Usa e il Regno Unito pos-sono contare su un’alta brand equity/intellectual property law, a sua volta sostenuta da un’alta propensione all’investimento high tech e

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high risk dentro ad un quadro normativo, nonostante la pressione delle lobbys religiose, piuttosto tollerante, pluralista e flessibile in base a criteri neopragmatici della common law aperti al cambiamento sociale e fondati su una concezione giuseconomica, di seconda generazione, della norma come brillantemente illustrato da David D.Friedman, Gary Minda e soprattutto da Gary S. Becker. L’approccio Law and Economics (LaE), derivato da una riattualizzazione complessa ed af-fascinante di Beccaria e Bentham.

Questo modello teorico, LaE, evidenzia anche il fatto che la volon-tà è il vero motore della creazione delle norme sociali e di quelle giu-ridiche. Le quali sono strumenti razionali in funzione di un obiettivo (di volontà). Questo modello scaccia l’illusione del first best nell’a-simmetria informativa: qualità e quantità percepite dell’informazione come vincoli evolutivi: ad esempio quanto petrolio è ancora disponibi-le? Dati non ne mancano, formalmente, ma chi, problema non nuovo ma cruciale, controlla i controllori nel processo di costruzione del da-to?

Il sistema di controllo nella cultura in generale e nella scienza in particolare esiste e funziona attraverso l’effetto S. Matteo (Merton, 2000: 1165-1201), il 20% paretiano e il vantaggio cumulativo giocato sulla disuguaglianza. Questi tre aspetti mettono sostanzialmente in e-videnza che esiste un circolo virtuoso, una profezia autoavverantesi, tale per cui un autore tanto più viene citato tanto più verrà citato, tanto più avrà ottenuto riconoscimenti, tanto più ne riceverà ancora, ecc., valendo anche l’esatto opposto per cui un autore tanto meno verrà ci-tato tanto più velocemente giungerà all’oblio. Si potrebbe obiettare che il fatto che un autore sia assai citato non è in sé prova della quali-tà, dell’attendibilità e del valore effettivo del suo lavoro al che, tutta-via, è bene rammentare che l’autore viene riconosciuto tale in base al quadro normativo, giuridico, della proprietà intellettuale in base al fat-to che la condivisione sociale (=pubblicazione) del proprio lavoro lo consolida in termini di norme sociali. Ma è opportuno rammentare, come suggerisce saggiamente Natalino Irti nel suo volume Nichilismo Giuridico (2004: 35-36), che: “Nulla essendo vero o falso, buono o cattivo, la norma consiste nel mostrarsi il più efficace, cioè il più forte (...) se la legge non esprime nient’altro che una disposizione provviso-ria, essa non è fatta oramai se non per essere elusa o per essere impo-sta”. Il 20% paretiano, l’effetto S. Matteo e il vantaggio cumulativo, certificati e codificati dalla proprietà intellettuale, che è quadro norma-tivo, giuridico e sociale, nel senso di Irti, porta a focalizzare la nostra

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attenzione sull’autore (scienziato o artista che sia) la cui opera e la cui identità sono divenute marchio globale, valore della marca (brand e-quity) la cui volontà s’impone agli editori, ai lettori, alla società tout court.

Più in concreto, la procedura KWF si pone i seguenti obiettivi: 1. evolvere l’autore in un imprenditore di sé stesso divenendo an-

che il proprio editore e policymaker editoriale; 2. offrire all’autore quegli strumenti di self management, self mar-

keting ed eduinfotainment in grado di farne arrivare l’opera ad un lettorato più ampio possibile;

3. tutelare giuridicamente non solo il diritto d’autore specifico bensì la proprietà intellettuale tout court della propria opera in quanto autore-imprenditore;

4. offrire all’autore il know how adeguato per gestire piattaforme tecnologiche e piattaforme di competenza linguistica tali da po-tersi, appunto, globalizzare;

5. offrire all’autore un know how economico-finanziario per svi-luppare un adeguato asset management dei propri intangibili.

Da questo ultimo punto, in particolare, diverrebbe possibile per l’autore adottare il modello dei costi di transazione di Williamson, ri-durre sprechi generando valore aggiunto. Iniziamo da un piccolo a-neddoto che ha condizionato questi anni molto più di quello che si pensa e molto più di quello che i media, negli anni, hanno spesso do-cumentato.

È una questione che ha implicazioni politiche, giuridiche, econo-miche e sociali ed ha inizio, o appare in tutta la sua visibilità, il 1 lu-glio 1997, giorno in cui Hong Kong ritorna alla Cina ed ha inizio il XXI secolo. Quel giorno l’erede di Mao Tze Tung, Deng Xiao Ping, affermò, come ho scritto sopra, che “diventare ricchi porta con sé la gloria”. Detto da un business man suona ovvio, detto da un leader ci-nese comunista, più o meno a un miliardo e mezzo di persone, ha un altro significato. Da quel momento viene portata avanti una strategia capillare tesa a ridimensionare l’importanza economica di Hong Kong e a creare città, storicamente cinesi, economicamente forti almeno quanto Hong Kong. La città più famosa, adesso, è Shentzen città adi-bita a luogo deputato ad accogliere il business mondiale. Oggi la Cina è costantemente sulle prime pagine dei giornali ma, il nocciolo della questione, non è tanto la concorrenza commerciale, quanto il livello organizzativo richiesto all’Occidente per riprodurre il proprio assetto economico.

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Il punto paradossale è che il decollo economico della Cina (e anche del Brasile e dell’India, cfr. Toeffler e Toeffler 2006) nonché la ripre-sa economica del Giappone, contrariamente a quanto l’opinione pub-blica europea spesso sostiene, potrebbero essere il motore dello svi-luppo globale, trainandosi gli USA (Siegel, 2005: 222).

Cina, India, Brasile e Giappone saranno dunque i probabili motori globali (il Brasile in tono minore, però) e soprattutto l’Estremo Orien-te neocapitalista e in via di sviluppo sarà protagonista strategico della cosiddetta soluzione globale. Nelle parole di J. J. Siegel: “The goods will be produced and the assets will be bought by the workers and in-vestors of the developing world. I call this the global solution” (Sie-gel, 2005: 15). Questo non vuol dire che gli autori globali avranno necessariamente gli occhi a mandorla ma piuttosto che gli autori glo-bali saranno prodotti intangibili di flussi di conoscenze (sia speciali-stiche, sia operative) di proprietà economica e intellettuale di organiz-zazioni estremo orientali che investiranno i capitali e otterranno le più cospicue royalties. Gli autori globali saranno le star di questo sistema in un modo non troppo diverso dalle star hollywoodiane ma saranno star globali e in senso ampio, cosmopoliti apolidi. Lo star system in questione potrebbe poggiare sul KWF o su un suo equivalente funzio-nale. Ideato da altri ma certamente sarebbe un sistema evolutivo alta-mente programmato e tendenzialmente deterministico.

Per questo motivo, cercheremo di ragionare su otto punti che di-venteranno, gradualmente, un processo: modelli pragmatici, modelli economici, teoria del diritto che si completano a livello strategico.

Essi danno vita ad un modello di management abbastanza evoluto che, troppo spesso, le nostre imprese cercano di ignorare, con tutto quello che ne consegue.

Tutto ciò che appartiene allo scibile umano può essere, almeno in potenza, trasformato in procedure funzionali ad un certo obiettivo. Possiamo partire dal modello economico del consumo della moneta di Milton Friedman, dal Nome della Rosa di Eco, da un fumetto oppure da un film, l’importante è analizzare il metodo organizzativo che è dietro per trasformare quella conoscenza in ricchezza. Si tenga presen-te che, quando si parla di valore aggiunto o di ricchezza, è sempre im-plicito che ci sia un soggetto a beneficiarne.

Il primo degli elementi su cui ci focalizziamo è la conoscenza. Se mi si concede una battuta, intendendola in senso lato e non in senso letterale, tutto ciò che per noi è rilevante come conoscenza è quella conoscenza che può diventare fatturato, parliamo quindi di costruzio-

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ne della ricchezza ed entriamo nel secondo punto: quando la cono-scenza diventa ricchezza. La conoscenza diventa ricchezza quando di-venta procedura di know how, quando un sapere (umanistico, scienti-fico, un mix dei due) trasformato in una serie di regole e in una serie di passaggi successivi porta ad un risultato su base probabilistica. Per procedure di know how intendiamo sia quelle procedure più sofistica-te ma, anche, a livello divulgativo, quei libretti, spesso discutibili, che rientrano in questa mentalità. Il range è infinito ma il nocciolo è sem-pre come trasformare conoscenza in procedure di know how.

Il terzo punto riguarda le forme giuridiche della proprietà intellet-tuale. Come dicevo prima, la ricchezza prodotta è sempre per qualcu-no, mai su base universale. Il problema delle forme giuridiche di pro-prietà intellettuale si riflette sulla nostra vita quotidiana.

La funzione allocativa opera su due livelli: sia sull’influenza della curva della domanda, sia sulla formalizzazione giuridica di chi ne be-neficia a livello economico. Chi ne beneficia è solitamente colui che ne possiede, a seconda del tipo di prodotto, il brevetto industriale (che non corrisponde necessariamente a chi ha inventato il prodotto), i di-ritti d’autore, i diritti legati ai terzi.

L’allocazione giuridica della proprietà intellettuale è alla base della differenza che c’è, o almeno c’è stata, tra Occidente e il resto del mondo. Un libro di Hernando De Soto “Il mistero del capitale”, parla del perché il capitalismo sia attecchito in Occidente e non altrove. De Soto cita le ingenti risorse e i beni che alcune persone si trovano a possedere in Africa e del fatto che non possano sommare i beni in ca-pitale perché non formalizzati a livello giuridico. Tali proprietari, in-fatti, possiedono immobili e terre ereditate “per tradizione”, ma non possono avvalersene per contrarre mutui o ipoteche perché non esisto-no atti catastali che ne avvalorino la proprietà a livello giuridico. Quindi tali beni non possono essere capitalizzati, mentre la linea cre-ditizia, nel capitalismo odierno, è fondamentale, basti pensare al way of life americano. Quando Deng Xiao Ping afferma che “diventare ricchi porta con sé la gloria” inizia a preoccuparsi anche del problema delle licenze, della costruzione giuridica della proprietà e della ric-chezza, inizia a trasformare in capitali beni già esistenti, per quanto possibile. L’unico, grosso, punto debole della Cina nello scenario at-tuale è una certa intrasparenza delle leggi in materia di diritto di pro-prietà, anche intellettuale (Sull, 2005: 6-7), che potrebbe diventare una sorta di buco nero per investitori extracinesi convinti di operare sul mercato salvo poi trovarsi i loro (ex)capitali nazionalizzati dal gover-

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no di Pechino. Una volta che si possiede un bene e che lo si è capita-lizzato nasce il problema di investire.

Nei processi di investimento la comunicazione e l’informazione giocano un ruolo cruciale. Nella teoria economica classica vigeva la convinzione che i prezzi fossero già il livello di informazione richiesto dal mercato: il prezzo dice tutto. Ci si è resi conto, anche attraverso le ricerche di Joseph Stiglitz, che il prezzo non è assolutamente suffi-ciente per capire il valore di una merce e, soprattutto, per trasformare un bene in un capitale. Se andiamo a vedere il prezzo di un’azienda, a seconda del metodo usato, quella stessa azienda può avere un valore totalmente differente. E se non sono in grado di capire, di accedere al-le informazioni, di capire quale metodo è stato usato per misurare il valore dell’azienda, non ho un’idea effettiva del valore del prezzo e se esso sia giusto, commisurato al valore dell’azienda oppure no. Per cui l’aspetto informativo, l’aspetto comunicativo a livello di strategia di comunicazione, rientrano nel quadro generale del management strate-gico come quarto degli elementi: strategie di comunicazione dell’informazione.

Il quinto punto è quello delle strategie di trendsetting, termine che significa costruzione di una tendenza. Molti esperti aziendali, visto che il futuro è più facile da costruire, piuttosto che da prevedere, co-minciano a lanciare una serie di nuovi stili di vita, ad esempio, una se-rie di nuovi prodotti costruendo attorno, anche attraverso la comunica-zione, tutto ciò che la trasformerà in tendenza. A quel punto, per il processo delle profezie autoavverantesi, probabilmente, non sicura-mente, il futuro si avvererà, il prodotto diventerà effettivamente di tendenza.

È interessante, ad esempio, che in inglese “to manage” stia sia per riuscire che per gestire; in italiano, invece riuscire e gestire sono due parole distinte. Chi gestisce ci sembra sempre che amministri in ma-niera routinaria un’organizzazione, con un andamento più o meno abi-tudinario; chi invece ha il compito di riuscire, con le risorse che ha a disposizione, è qualcuno che deve produrre un risultato. Solitamente le persone che riescono nel loro campo sono quelle che fin dall’inizio hanno impostato il proprio lavoro in questo modo.

Perché questa premessa? Perché, di solito, si ha l’illusione che ciò che fa tendenza è qualcosa che spontaneamente ha fatto tendenza! Se così fosse, ci sarebbe una disoccupazione mostruosa tra gli addetti stampa, mentre gli addetti stampa e, in generale, gli image maker e, più in generale, coloro che fanno comunicazione integrata negli uffici

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stampa esistono proprio per creare quelle profezie autoavverantesi che portano a creare il valore aggiunto di carattere simbolico di un prodot-to.

Torniamo un attimo al discorso della conoscenza con una doman-da. Solitamente, in una disciplina, gli studiosi al vertice scientifico di quel settore non sono gli studiosi al vertice di quella disciplina secon-do l’opinione pubblica (può succedere, a volte, che coincidano).

Il sesto punto è quello che chiamo eduinfotainment creativo (edu-cation, information, entertainment) educazione, istruzione, informa-zione, divertimento integrati strategicamente. Ciò che fa tendenza, so-litamente, lo fa anche perché diverte, perché piace, perché attira. Ciò che fa tendenza, generalmente, genera profitto ma, dietro tutto ciò, non c’è, in senso assoluto, una razionalità, c’è una volontà.

Mi spiego. La teoria del diritto nasce, originariamente, da un as-sunto: il diritto è un’emanazione del divino. Nell’Ottocento si comin-cia a pensare ad una presunta razionalità universale, ma con delle va-riazioni relative al contesto geografico, politico, economico, sociale. Col tempo la razionalità perde, però, sempre più rilevanza e, negli ul-timi venticinque anni, si è ulteriormente sviluppato il filone Law and Economics (diritto ed economia) che parte dall’assunto che il diritto non sia altro che la volontà che si fa legge. Il che ci porta a considera-re che se un certo principio è considerato giuridicamente valido ciò non vuol dire né che sia giusto, né che sia equo. Il diritto, quindi, at-traverso logiche di volontà che si misurano attraverso il lobbying (non solo ma anche attraverso il lobbying), rialloca le domande di mercato.

Il settimo punto concerne la valutazione e misurazione della ric-chezza prodotta.

L’ottavo e ultimo punto è la costruzione strategica della ricchezza. Una volta che, nel settimo punto, si è arrivati a capire come viene mi-surata la ricchezza e attribuito il valore ad un ipotetico bene, bisogna poi definire per chi è rilevante, a livello strategico, detto bene. Chi può capitalizzarlo, chi è interessato a portare avanti un business su tale be-ne. Da questo punto di vista il problema diventa spinoso.

Prendiamo il caso del mercato degli immobili in Italia. Correliamo l’aumento degli affitti e l’aumento del costo d’acquisto per la casa. Se una persona fa un mutuo, può capitare che inneschi una spirale. Molto spesso, la persona che fa un mutuo cerca di coprire l’uscita con un’entrata, che non è detto sia lo stipendio: può essere il dare in affitto una casa meno bella e con quell’affitto coprire una buona parte del mutuo. Ma basta che l’inquilino salti un mese nel pagare e queste per-

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sone si trovano in serie difficoltà economiche. Tali proprietari, messi in difficoltà dall’inquilino che non paga e dal mutuo, per liberare la casa sono costretti a subire costi per scacciare l’inquilino moroso e ad affittare ad un prezzo spesso minore, per rimettere velocemente a red-dito l’immobile, ad un nuovo inquilino. La tendenza è quella del crol-lo degli affitti, all’aumentare del numero di persone che accendono un mutuo avendo fatto i propri calcoli su un’entrata variabile come l’affitto. Tale tendenza innesca una spirale devastante i cui effetti sono sui consumi, sugli stili di vita, sul mercato del lavoro. Questo esempio serve per introdurre una serie di variabili e di modelli economici di ca-rattere giuridico. Fondamentale è il ruolo dell’informazione.

Nel già citato “Capire l’economia”, Thurow e Heilbronner sosten-gono che, in un mercato, il livello di occupazione riflette la quantità di informazione disponibile. Siamo nel cuore della teoria dell’asimmetria informativa, al centro della teoria economica post dibattito monetaristi (il mercato si regola da solo) contro keynesiani (il diritto guida l’economia).

Perché siamo nel cuore dell’asimmetria informativa? Perché quan-do parliamo in termini economici, parliamo di scarsità di risorse. Mol-to spesso, quando si parla di scarsità di risorse si parla anche di scarsi-tà di informazioni sulle risorse disponibili. In genere abbiamo accesso a delle informazioni, ma non sempre è chiaro come siano state raccol-te, sistematizzate, organizzate. Non sempre è chiara la fonte delle in-formazioni, né il pacchetto di motivazioni che ha portato una certa fonte a far circolare determinate informazioni. Se noi sapessimo, ad esempio, qualcosa in più sulla fonte, capiremmo meglio le sue moti-vazioni e scopriremmo, ad esempio, che la persona che si lamenta perché non riesce a trovare casa è stato sfrattato cinque volte per mo-rosità!

Noi ci comportiamo sempre come se avessimo sotto gli occhi lo scenario completo delle informazioni possibili. Cosa che non è. Mette-re insieme una strategia e una procedura come quella degli otto step che vi ho elencato è un tentativo nell’abituarvi ad avere sempre più chiaro l’orizzonte di possibilità, vincoli, minacce e opportunità nel vo-stro scenario.

Pensiamo al criterio di selezione all’ingresso nell’invio di curricu-la. Più avete chiari i criteri di selezione d’ingresso più avrete possibili-tà di successo. Può sembrare un’ovvietà, ma le aziende continuano, comunque, ad essere sommerse da curricula che non interessano. C’è quindi qualcosa che non torna. Questo qualcosa che non torna sta esat-

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tamente nella gestione manageriale e strategica dell’informazione sul mercato. Chi di noi ha testato personalmente un OGM? Alcuni forse però tutti abbiamo un’opinione positiva o negativa sugli OGM. Noi tutti abbiamo, più o meno, un’opinione su qualcosa che deriva da fonti seconde, terze, quarte, e spesso da fonti più o meno controllate. Il con-trollo del flusso di informazioni, la tutela giuridica della fonte che in-via le informazioni e la spendibilità in termini di capitali delle infor-mazioni sul mercato diventa il filo conduttore di questo processo di cui ho appena tratteggiato gli elementi. Quindi, quando si parla di management, strategico di una brand equity policy non significa sem-plicemente occuparsi di organizzazione e gestione. Bisogna anche a-vere una visione strategica degli attori coinvolti nei processi decisio-nali alla luce delle informazioni di cui dispongono.

Mai sentito parlare di concetti quali nichilismo giuridico e Creati-ve Commons, ad esempio?

Nichilismo giuridico è una filosofia cui accennavo quando ho trat-tato del passaggio del diritto come proiezione del divino al diritto e-spressione di una razionalità universale, al diritto come espressione di volontà. In Italia viene trattato da Natalino Irti che ha scritto un libro dal titolo, appunto, “Nichilismo giuridico” nel quale tratta le caratteri-stiche di un diritto che sa di poggiare sul nulla eccetto la volontà. Quindi, non sull’arbitrarietà di un singolo soggetto, ma sulle volontà del momento. Il diritto rivela la propria indecidibilità: alla base di una decisione giuridica non c’è oggettività, ma il prevalere di volontà che riescono a trasformarsi in norma.

Creative Commons è un progetto di Lawrence Lessig che ha inse-gnato alla Stanford Law School ed è un progetto che viene presentato nel libro “Cultura Libera”. Il progetto cerca di trovare un compromes-so giuridico e economico tra i sostenitori dell’open source e coloro che hanno spinto per una massiccia normativa giuridica sull’usabilità del materiale di terzi.

Creative Commons cerca di trovare una soluzione sia al fatto che il diritto d’autore sta soffocando il mercato per implosione perché ren-de più difficile l’uso di materiale di terzi, sia al rischio di esplosione che comporta l’open source per l’eliminazione del profitto dal flusso di comunicazione.

La forma giuridica di un’azienda gioca un ruolo cruciale nella sua organizzazione e anche nella gestione dei flussi di cassa. La forma giuridica della ricchezza, la forma economica della valutazione dei beni giuridicamente capitalizzati divengono qualcosa di importante e

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di spendibile sul mercato nella misura in cui diventano marchio. E di-ventano marchio nella misura in cui riescono a creare tutto un patri-monio simbolico, pubblicitario intorno al prodotto e al tempo stesso sono molto specifici nel tutelare quel prodotto.

3.6 Giocando al ribasso si perde

Il problema dell’Occidente in questi anni, in termini di management strategico, è il gioco al ribasso. Già dagli anni ’80, in Occidente, si è cominciato a produrre pret a porter, usando un termine della moda. Il pret a porter costa poco da produrre, è facile da proget-tare, ma anche facilissimo da copiare e, solitamente, chi lo copia lo fa quasi al livello di chi lo ha progettato originariamente. La differenza dove è? In prodotti che abbiano un livello tale di informazione e di conoscenza dentro da essere molto difficilmente clonabili. Certo, con gli anni, ogni prodotto diventa riproducibile perché il ciclo del prodot-to è sempre implacabile. Ma, più è alto il livello di know how, più è alto il contenuto informativo rispetto al target, più è improbabile che venga clonato velocemente. Prima o poi verrà clonato ma, intanto, l’azienda avrà il tempo di lanciare un altro prodotto. E così via. Anco-ra una volta la conoscenza e l’informazione ci danno il potenziale di ricchezza del prodotto. Il livello specifico di competenze e informa-zioni può rendere un prodotto, ma anche una persona nel mondo del lavoro, difficilmente sostituibile sul mercato.

Per anni, nella teoria economica, ha prevalso la teoria dell’offerta. Il consumatore e il cliente avevano semplicemente il compito di “sce-gliere” tra ciò che gli veniva imposto. Naturalmente era una scelta po-co credibile. Questa economia dell’offerta è rimasta in auge per quasi un secolo, fino agli studi della fine degli anni ‘70 di Milton Friedman ed altri studiosi che hanno spostato l’attenzione sulla cosiddetta teoria, o economia della domanda. Quindi, dando maggiore attenzione alla capacità di scelta e di valutazione dei consumatori, clienti, cittadini. Si è creata, così, l’illusione che il cittadino/cliente potesse chiedere una varietà di prodotti/servizi e che il mercato della produzione si sarebbe adeguato alle sue richieste.

Si è cominciato, in questo modo, a pensare a una teoria dell’incrocio domanda e offerta, sulla quale non c’è economista che sia in disaccordo, ma la cui fattibilità rimane più una dichiarazione d’intenti che qualcosa di concreto. Il problema riguarda sia le asimme-trie informative cui accennavamo in precedenza (tra gli attori non c’è

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uguale competenza informativa), sia il fatto che alcuni attori (econo-mici, politici, ecc.) non manifestano chiaramente le proprie intenzioni, sia il fatto che ciò che vediamo non esiste ancora e ciò che esiste non ci interessa. La teoria economica, si può dire che stia cercando, ormai da decenni, da prima che si approdasse al modello d’incrocio doman-da-offerta, di mettere insieme tre livelli: il livello microeconomico, il livello di interazione o dello scambio e il livello macro. Questi tre li-velli, complessivamente, formano quella che potremmo “minacciosa-mente” definire la teoria generale dell’economia. Essa poggia su una decina di idee fondamentali, che ho già esposto nel capitolo preceden-te ma che riprendo nel rispetto dell’autonomia dei singoli capitoli, au-tonomia che ho messo in evidenza sin dall’apertura del volume. Quat-tro di queste idee sono a livello micro, tre si collocano sul piano inte-rattivo (o dello scambio) e tre si collocano al cuore della macroeco-nomia.

Il primo principio sostiene che “gli individui devono affrontare scelte alternative”. Il livello di scelta è qualcosa di molto vario e com-plesso, il principio in sé e semplice, la cosa più impegnativa è capire quali sono i criteri di scelta, quali le scale di priorità, di chi rispetto a chi.

“Il costo di qualcosa è ciò a cui si deve rinunciare per ottenerlo” è il secondo principio. Può essere un costo strettamente economico, di tempo, affettivo, psicologico. C’è sempre un prezzo da pagare. Tale punto riconduce al calcolo economico stretto, non su quello più gene-rale del costo, al problema della solvibilità. Il costo, il prezzo di qual-cosa, rientra nella teoria economica, nella misura in cui l’attore si può permettere di rinunciare a quel costo, a ciò che quel costo richiede. Sono tutte apparenti ovvietà, ma la tendenza non è tanto quella di dire: “ho un milione di euro, non posso permettermi di comprare una casa dello stesso valore!”, bensì: “ho un milione di euro? Ne spendo due!”.

Se andate a vedere la linea creditizia nelle banche in Italia ne avre-te la conferma.

Tutto ciò genera delle spirali matematiche piuttosto antipatiche che di solito non portano a grandi risultati, a meno che il vostro indebita-mento non sia strategico ad uno start up destinato a decollare grandio-samente. Il terzo principio microeconomico dice che “gli individui ra-zionali pensano al margine, al limite incrementale”. Si parla di un at-tore economico a razionalità relativamente debole quando, a livello temporale, opera ragionamenti sull’ottimizzazione del breve periodo, mentre le decisioni nel breve periodo avranno comunque impatto sul

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medio lungo periodo. Gli attori economici si trovano in difficoltà proprio perché operano

e ragionano sempre sul breve periodo, in termini di scelta incrementa-le.

Il quarto principio della microeconomia è abbastanza ovvio: “gli individui rispondono agli incentivi”. Un incentivo positivo è più effi-cace di quello negativo, a meno che questo ultimo non sia così forte da seminare il panico e ottenere il controllo in maniera molto decisa.

Passiamo al livello dello scambio, al livello inter. Avete visto “A Beautiful Mind”? Ci può servire.

“Lo scambio - primo principio del livello inter, nonché quinto principio generale - può essere vantaggioso per tutti”. Perché abbiamo menzionato il film-biografia di Nash? Perché prima di Nash si pensa-va che un gioco fosse sempre a somma zero. Se c’è una torta per me è una torta in meno per gli altri. E per lo più finisce a botte per accapar-rarsi quella torta, o quella fetta di torta. Dal mors tua vita mea in poi, i luoghi del senso comune della teoria economica si sono sprecati. Qualcuno potrebbe dire: “e se facessimo più torte?”. Se la crescita presenta dei rischi, la decrescita semina entropia, implacabilmente.

In “A Beautiful Mind” la ricerca di un equilibrio è una faccenda di ragazze. John Nash e tre suoi colleghi sono in un pub e vedono entrare quattro ragazze. Se corteggiano tutti la più carina, come tutti e quattro i giovani sarebbero istintivamente portati a fare, è finita! Ovviamente è una visione cinematografica, divulgativa e molto riduttiva, ma è quanto di meno peggio posso proporvi per entrare nella logica di John Nash. Si parla da allora dell’equilibrio di Nash, che ha preso il posto della legge dell’equilibrio generale di Arrow e Debreu.

Si tratta di far combaciare i tempi e i modi di domanda e offerta, la difficoltà principale, evitando conflitti ed evitando di scoprire le carte rispetto ai destinatari.

Quando i quattro ragazzi corteggiano le ragazze nel pub si sono già assegnati gli obiettivi per evitare che qualcuna potesse sentirsi uno scarto o un ripiego. Ciascuno punta sulla propria meta come se fosse stato da subito il suo obiettivo naturale. Se avessero avuto l’idea di puntare alla stessa ragazza e di considerare le altre dei ripieghi, le altre si sarebbero chiuse in difesa.

Il sesto punto può sembrare tautologico: “i mercati sono di solito lo strumento più efficace per organizzare l’attività economica”. Saprete che esistono situazioni di monopolio, dove non c’è mercato. Ci sono situazioni di quasi mercato, dove c’è un duopolio che (se non fa car-

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tello, si compatta e diventa un monopolio) lascia dei margini più o meno aperti di scelta. E poi ci sono scenari di mercato aperto o semia-perto. Ciascuna situazione presenta i suoi pro e contro.

Relativamente al settimo punto “l’intervento dello Stato può talvol-ta migliorare i risultati di mercato” lo studio dei singoli casi, la stati-stica, ci può dare delle tendenze e degli spazi per riflessioni, ma una risposta a priori del genere “viva lo stato abbasso il mercato”, o vice-versa, sarebbe comunque ideologica, in un senso o nell’altro. Il merca-to, secondo la vecchia teoria della mano invisibile di Adam Smith, si sarebbe dovuto, e si dovrebbe, autoregolare. Quando un prodotto non viene più richiesto scompare e subentra un altro prodotto che viene richiesto. Non è sempre così.

Facciamo un esempio. In Italia si parla molto di disoccupazione. E il problema non è tale in quanto dato statistico, diventa molto serio quando entra in gioco la variabile tempo. Se lavorate per una rivista e avete un contratto in base al quale potete essere licenziati con il pre-avviso di cinque giorni ma sapete che, entro sei giorni, riuscirete a la-vorare per un’altra rivista, magari in un posto analogo o addirittura migliore, il cambiare lavoro non è un problema. In Italia, perdere il lavoro significa che ne troverete un altro in un paio d’anni. In un’economia di mercato che si autoregola, in teoria, questo problema non ci dovrebbe essere. Smith ha centrato alcune questioni, altre no, ad esempio non ha considerato il fattore del plusvalore che Marx ha individuato nelle sue teorie. Lo Stato a volte interviene con le politi-che sociali per il lavoro, o politiche per l’occupazione. Dire a priori che lo Stato paralizza o aiuta l’economia non è in alcun caso veritiero.

In precedenza, ho menzionato le forme giuridiche attraverso le quali il diritto condiziona l’economia e il potere dell’economia di cre-are le forme giuridiche alle quali è interessata. Sapete, ad esempio, che le ferrovie in Italia sono state potenziate molto meno che in altri paesi europei.

Sin dal 1889 venne fatta la scelta di puntare sul mercato dell’automobile e tutti i partiti hanno proseguito lungo questa linea considerando il paese più a misura di automobile che di ferrovia. A torto o a ragione, questo è stato un intervento massiccio dello Stato sull’economia e al tempo stesso un intervento massiccio dell’economia sulla creazione del diritto. Considerate quindi che i vo-stri posti di lavoro possono sparire all’emanazione di una legge, ed es-sere nella stanza dei bottoni dove si decidono le cose, permette di pie-gare il diritto e la politica all’economia.

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Il manager strategico è quella persona che, se vuole aprire delle te-levisioni in Italia, fa del lobbying perché la normativa italiana sulle televisioni venga cambiata. Negli anni ‘80 il duopolio Rai Fininvest poggiava su una normativa che prediligeva come mezzi di comunica-zione tecnologica per la televisione i ripetitori. Si configurava, così, un controllo giuridico delle tecnologie sulla concessione delle licenze ed il mercato dell’informazione era chiuso in quanto blindato dalla normativa. Quindi l’intervento dello stato può talora migliorare il fun-zionamento del mercato, talora lo può disastrare, talora può scivolare via in maniera molto anonima.

Iniziamo adesso a trattare i tre punti di carattere macroeconomico. Ottavo punto: “Il livello di benessere di un paese dipende dalla sua

capacità di produrre beni e servizi”. Avrete notato quanto si parla di globalizzazione in questo periodo.

Paul Krugman ci fa notare un dato che merita una considerazione: il tasso di importazione degli Stati Uniti nel 1890 era pari all’8% delle merci disponibili sul mercato americano. Nel 1990 la percentuale di prodotti importati negli Stati Uniti era pari all’11%. In un secolo, no-nostante la globalizzazione, le importazioni americane sono aumentate solo del 3%. Ma la gente comune negli USA si lamenta del fatto di es-sere invasa da prodotti “made in China”. Che cosa è che non torna? Gli USA, nella loro voce di bilancio, non considerano importazioni i prodotti e i servizi di quelle aziende che si trovano in Cina, ma regola-te da un contratto di business americano. Se le considerassimo come importazioni, un’ipotesi di tasso di importazione molto più alto non sarebbe incredibile. A noi interessa la forma giuridica del soggetto che produce. Il livello di benessere di un paese dipende dalla sua capacità di produrre beni e servizi. Il confine è strettamente giuridico: l’azienda americana che produce in Cina, è America o Cina? Semplificando, il gioco non sta nell’andare in Cina a creare un’azienda, ma nel fare un accordo con la Cina, affinché le aziende americane mantengano il quadro normativo statunitense. Questa si chiama lobbying sul diritto.

Secondo punto del livello macroeconomico, nono aspetto comples-sivo: “i prezzi aumentano quando lo Stato stampa troppa moneta”. Il decimo aspetto, invece, può essere riassunto nella seguente frase: “nel breve periodo i sistemi economici sono costretti a scegliere tra infla-zione e disoccupazione”. Questi due punti, che concludono il quadro delle idee fondamentali della teoria economica generale, e che sono il penultimo e l’ultimo punto del livello macroeconomico, sono questio-ni di cui avrete sentito parlare al telegiornale e in famiglia fin da pic-

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cini. Ma non sempre è chiaro cosa significhino. I prezzi aumentano quando lo Stato stampa troppa moneta. Saprete

che, con il passaggio dalla Banca d’Italia alla BCE, questo punto con-diziona moltissimo l’ingresso nel mercato del lavoro. I governi prece-denti all’avvento dell’Euro come operavano per ridurre la disoccupa-zione? La risposta era la svalutazione: rendere più debole la lira, man-dare in orbita l’inflazione, aumentare la quantità di moneta circolante, aumentare la ricchezza in maniera artificiale, aumentare i posti di la-voro. L’inflazione sale, la disoccupazione scende. La disoccupazione aumenta, l’inflazione cala. Ed è molto difficile riuscire ad uscire, nel breve periodo, da tale situazione perché nessun attore economico è co-sì razionale da riuscire a calcolare una curva di Phillips, quel grafico su assi cartesiane che sul breve ci dà sempre trade off, nel quale è im-possibile che salgano o cadano entrambe, insieme, eccetto che nell’ipotesi di intervento pubblico dello Stato, Stato che adesso si chiama Bruxelles.

Ci ritroviamo in un periodo economicamente terribile per due mo-tivi: 1) abbiamo una disoccupazione molto alta; 2) non possiamo sva-lutare perchè la Banca d’Italia non ha più questo potere che è passato alla Banca Centrale Europea. Nel momento in cui l’Euro venisse sva-lutato lo sarebbe per comune accordo di tutti i paesi dell’Unione, an-che se sono ben pochi i paesi che hanno interesse a svalutare. Quindi la disoccupazione va su, perché non si può intervenire sull’inflazione. Che cosa è successo in Italia? Nel nostro caso non sono stati avviati meccanismi di controllo sui prezzi nella fase di passaggio all’euro. Non c’è stato un passaggio ad inflazione zero, basta guardare lo scon-trino della spesa. Quindi abbiamo la disoccupazione che va su e l’inflazione che va su. Storicamente penso che non accadesse da mol-to, moltissimo tempo! E le misure per combattere la disoccupazione sono quelle che la manderebbero in orbita del tutto. Per cui si è dovuto normativamente intervenire come diritto sulle politiche dell’occupa-zione e andare a cambiare il concetto di posto di lavoro. Siccome non si è riuscito a intervenire sulle politiche occupazionali in una logica di creazione di posti di lavoro, bisogna fare una riforma che cambi giuri-dicamente il concetto di posto di lavoro. Un meccanismo abbastanza perverso. Aumentano i posti di lavoro, quindi si ha la sensazione che all’aumento dei posti di lavoro l’economia migliori e aumenti la pro-pensione al consumo. Ma in Italia tale propensione non è aumentata perché sono aumentati i posti di lavoro a tempo determinato che non permettono l’accumulo, la possibilità di capitalizzare, risparmiare,

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reinvestire e consumare. Consistendo il gioco nell’economia nel far aumentare più lentamente i prezzi di quanto aumentino gli stipendi, assume valore fondamentale la variabile tempo. Essendo l’inflazione comunque destinata ad aumentare, tutto sta a far aumentare il livello di benessere reale, il potere reale d’acquisto, più velocemente di quan-to aumenti l’inflazione. Nel breve periodo i sistemi economici sono costretti a scegliere tra il trade off tra inflazione e disoccupazione. I-nevitabilmente entrano in scena situazioni epocali, sociali di un certo contesto.

3.7 KWF: modi d’uso

L’origine del KWF si ritrova appunto nei cambiamenti degli anni ‘80 che vanno a incidere sulla funzione dello scienziato, in senso am-pio, e dello studioso nella società. Parleremo dell’intellettuale organi-co, o “militante” (concettualizzato da Antonio Gramsci), dell’effetto San Matteo, di una serie di elementi che metteremo a sistema.

Negli anni ‘80 si concludono i cosiddetti “anni di piombo” e si e-saurisce positivamente per lo Stato italiano la guerra alle Brigate Ros-se e, in generale, alle forme di terrorismo. Gli anni ‘80 sono anni par-ticolarmente densi a livello politico. Sono gli anni del disgelo tra USA e URSS, ma anche dei cosiddetti presidenti “morti per influenza” al Cremlino. Si creano i vari dialoghi e incontri tra Reagan e Gorbaciov, cambiano le alleanze. I cambiamenti sono tanti, simultanei e di peso. In quegli anni comincia a diffondersi sempre più significativamente il cellulare, ancora un po’ status symbol. Si sviluppa quella che i socio-logi chiameranno la “cultura del narcisismo” che attiverà il fenomeno di portata planetaria definito da Christopher Lasch “la ribellione delle elites”. Accade che il vertice della società reputi più interessante con-frontarsi con i propri pari in giro per il mondo, anziché vivere il mo-dello tradizionale di “padre” e guida della comunità cui appartiene. Quindi si afferma un modello basato su un dialogo internazionale, globale, tra pari, piuttosto che sull’esercizio di potere sulla comunità di appartenenza, dando un’accelerazione al fenomeno della globaliz-zazione.

La storia del marketing, prima degli anni ‘80, è quella di una para-lisi: il modello del marketing di prodotto domina per decenni, poi, nel decennio ‘80 - ‘90 si passa al marketing delle vendite, per arrivare al marketing centrato sul cliente in nemmeno dieci anni: quindi marke-ting product centered, marketing sales centered, marketing client cen-

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tered. Sono gli anni in cui il modello toyotista, nato negli anni ’60, incide

pesantemente nell’evoluzione ed organizzazione del lavoro. È dagli anni ’80 che il Giappone, applicando il modello toyotista (dal quale si svilupperanno gemba Kaizen, lean thinking, total quality management, total quality control, ecc.) comincia a mettere in ginocchio l’economia statunitense. Giappone e USA iniziano a relazionarsi molto di più, il rapporto si intensifica e quando viene a concludersi la Guerra Fredda, il nemico nella filmografia americana diventa la spia industriale giap-ponese (pensiamo a Sol Levante di Michael Crichton). Esce il libro “La via di mezzo della conoscenza” scritto da Francisco J. Varela, E-van Thompson, Eleanor Rosch e pubblicato in Italia da Feltrinelli. È il punto d’incontro tra una visione scientifica occidentale e il buddismo. Dagli anni ‘80 in poi il buddismo diventa la filosofia e il metodo delle scienze neurali e della ricerca tecnologica più avanzata negli Stati Uniti. Uno dei frutti delle contaminazioni tra Giappone e Stati Uniti. A che cosa ci porta questo scenario? A dei cambiamenti piuttosto im-portanti. Innanzitutto va in crisi la figura dell’intellettuale militante. Concettualizzazione operata da Antonio Gramsci negli anni ‘50 nella quale egli sosteneva che un intellettuale altro non sia che una persona che abbraccia incondizionatamente un’ideologia, un partito. All’interno dell’ideologia e del partito svolge due funzioni: 1) legitti-marlo sempre di più agli occhi di chi vi ha aderito e di chi non vi ha aderito; 2) essere critico verso la società laddove non ha applicato questo modello ideologico, o essere critico verso il modello per mi-gliorarlo senza, però, mai metterlo in discussione a livello di nucleo centrale. È quindi un intellettuale tra virgolette, in quanto l’intellettuale può giocare col buddismo, il cattolicesimo, il liberali-smo, il comunismo, ma saprà sempre che sono tasselli che può combi-nare all’infinito finché non arriva a creare una propria visione, teoria, modello che, probabilmente, non sarà né di destra né di sinistra in sen-so tradizionale, ma sarà abbastanza specifico di quell’intel-lettuale e dei suoi studi e potrà esprimere un proprio valore aggiunto ad alta strategicità e a bassa reperibilità. La figura dell’intellettuale militante, abituata a non essere critica verso il proprio modello di riferimento, negli anni ‘80 va in tilt. Non è un problem solver, piuttosto è abituato ad una funzione critica ma, quando si trova a dover fornire un parere, un consiglio, una consulenza, in senso lato, rimanda all’ideo-logia che ha dietro le spalle. A quel punto non c’è incremento conoscitivo, visto che, se l’ideologia è già data e appartiene al contesto e non risolve i

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problemi, la risposta non può che essere quella ideologia. Si richiede allo studioso di essere un problem solver. Ciò vale soprattutto per gli studiosi accademici, ma anche per chi ha dei lavori di carattere mana-geriale e consulenziale ad alto contenuto di conoscenza.

Tutti questi processi si accavallano, si intersecano e incidono mas-sicciamente sui cambiamenti. Usando un termine da sociologo dei processi culturali, si rende molto più rapido il processo di secolarizza-zione della conoscenza. Non solo rispetto alla religione, ma anche alle ideologie e ai grandi programmi planetari.

A questo periodo appartiene anche l’ultimo grande cambiamento di cui ci parla il libro di Peter Sloterdijk “L’Ultima Sfera”: la scomparsa del mistero. Le cosmologie e le cosmogonie infinite dell’epoca dei grandi esploratori vengono meno già ad opera di essi stessi. Negli anni ‘60 viene scoperta una tribù in Brasile, nella foresta amazzonica che ignorava che cosa fosse il Brasile, che cosa fosse l’America, che cosa fosse l’URSS e questo nel pieno della Guerra Fredda. A partire da questi anni, e sempre di più negli anni ‘70 e ‘80, noi terrestri inviamo una miriade di satelliti che ci rimandano immagini della Luna, ma an-che della Terra vista dalle stelle. Scompare il mistero, perché ci si ren-de conto millimetro per millimetro non solo di come è fatta la Terra, ma anche di chi la abita, di come è fatto, nei minimi dettagli. Il mondo diventa a misura di satellite, scompare l’imprevisto, il concetto di e-splorazione viene meno. Scompare il mistero, per alcuni anche la poe-sia, ma si riduce anche il margine di rischio, e si riducono i margini di imprevisto. Dal momento in cui non c’è più mistero da interpretare quale è il lavoro dello studioso? Sempre più quello di creatore di pro-cedure di problem solving. Tenendo presente che spesso diventano so-luzioni a problemi che nessuno aveva precedentemente presente. Il problema diventa, da una parte, il controllo sociale sulle procedure una volta prodotte. Ma una censura ex ante solitamente è un retaggio che ci portiamo dietro dalla figura dell’intellettuale militante che fil-trava ed eliminava tutto quello che non era coerente con il modello perseguito.

Oggi lo studioso si trova ad interagire sempre di più con il mondo delle aziende, delle organizzazioni in senso ampio e non è casuale che si parli molto spesso di management scientifico. Anche perché, oltre ad avvalersi di alcuni strumenti più o meno verificabili e sperimenta-bili, il management di oggi nasce sempre di più da un confronto tra mondo delle istituzioni pubbliche, mondo delle imprese e mondo delle università, nonché, in alcuni casi, con un ruolo anche delle organizza-

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zioni no profit, per cui la creazione di procedure diventa un compito per lo più del mondo universitario e dei principali centri di ricerca pri-vati, in un’ottica anche market oriented. Ecco perché, per lo studioso, il problema della proprietà intellettuale diventa molto più importante, a differenza degli intellettuali militanti. Diventa importante il copyright. Certo procedure, know how, strategie non sono a-ideologiche, se con ideologia intendiamo un sistema di idee, sono però a-ideologiche invece se intendiamo l’ideologia un discorso della verità totalizzante, avvolgente, che richiede atti di fede e previsioni millena-ristiche nonché pretese universalistiche di tracciare il confine tra il be-ne e il male.

Karl Mannheim si occupava della sociologia della conoscenza e fu celebre per un libro dal titolo “Ideologia e utopia” dove l’ideologia è il campione e l’utopia lo sfidante. Sono due modelli totalizzanti della società, come può essere stato il capitalismo (ideologia) e il comuni-smo (utopia) in occidente, antagonista del capitalismo.

Se per ideologia intendiamo un modo di vedere le cose, il problem solving è un’ideologia, se intendiamo un sistema totalizzante che vuo-le spiegare ogni aspetto della società, allora non è un’ideologia. Faccio un esempio.

Georg Simmel, alla fine dell’ottocento, scrive alcune pagine molto interessanti sul perché una persona estremamente brillante e social-mente riconosciuta potrebbe scoprirsi un criminale.

Nel 1890 scrive “ La Differenziazione sociale”, dove fa scricchio-lare il concetto di ideologia forte e porta al centro dell’attenzione so-ciologica criteri come l’avventura e lo straniero. Ciò avviene nell’ambito del dibattito sociologico, ma non a livello sociale, visto che Simmel non diventa un autore di massa, ma solo per specialisti. Ma gli specialisti sano bene che non solo è difficile per un sistema so-ciale essere ideologicamente avvolto da un unico modello ma che, molto spesso, una singola persona è un sistema, che cambia, evolve e soprattutto si differenzia. L’ideologia presupponeva che la persona fosse “tutta di un pezzo”, per tutta la vita. Simmel smonta questa idea perché ciascuna persona è tante identità. Simmel direbbe che c’è diffe-renziazione dell’identità; Goffmann direbbe che, in base al frame, al contesto, alla situazione culturale, ciascuno di noi indossa maschere diverse.

Ma veniamo al management strategico, alle sue origini e al motivo per cui nasce. Esso nasce da un dialogo di un certo livello tra istitu-zioni universitarie, istituzioni pubbliche e imprese, negli anni ‘80.

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Rapporti di potere che cambiano di volta in volta a seconda del conte-sto e dell’oggetto del dialogo.

Cosa accade negli anni ‘80? Accade che il modello del problem solver comincia a prendere piede. Ha una componente ideologica, nessuno vuole negarla. Ha però, rispetto agli altri modelli ideologici, una scissione tra sistema e ambiente. Inoltre, non è ideologico, come anzidetto, nella misura in cui non ha la pretesa di voler avvolgere la vita dell’intero individuo. Soprattutto ha il compito di ridimensionare quello che la teoria economica e la teoria sociologica chiamano il va-lore d’uso.

Nel seguire il dibattito sui mass media uno dei tormentoni (i cui due esempi, abbastanza validi e spesso citati, sono il crollo dell’economia argentina e il crollo della Parmalat) è quello dell’economia finanziaria che droga la nostra vita e condiziona tutte le nostre scelte.

Il meccanismo del valore d’uso non nasce originariamente in eco-nomia, ma in filosofia e nella teoria antropologica e sociale. I primi a parlare di valore d’uso sono i filosofi, non gli economisti, i primi ad applicarlo sono antropologi e sociologi. Gli economisti da sempre si sono soffermati sulla pericolosità del valore d’uso, soprattutto nel cre-are bolle speculative. Mentre gli antropologi e i sociologi hanno rispo-sto, con una certa miopia, frapponendo l’importanza della cultura nel cambiamento sociale. Conclusione: Enron, Parmalat, Argentina.

Saprete che, dagli anni ‘80 in poi, il nocciolo della questione del management strategico è la creazione del valore aggiunto. Nel parlare di valore aggiunto non discettiamo di un’entità assoluta, oggettiva ed è bene tenere sempre presente di chi stiamo parlando, del beneficiario (sia esso una persona, un’organizzazione, l’intera umanità). I modelli di management di questi anni non solo sono nati e/o si sono imposti negli anni ‘80, ma sono al tempo stesso i modelli che hanno per primi formalizzato la proceduralizzazione, la misurazione e la valutazione del valore aggiunto. Problema che prima degli anni ‘80 non si poneva.

Punto secondo: il valore aggiunto non è necessariamente un valore economico. È un fenomeno che si palesa quando le neuroscienze co-minciano a giocare con il conflitto di coscienza. I neuroscienziati so-stenevano che ci sono dei computer molto più intelligenti di molte persone. Il problema non è l’intelligenza, il problema è la coscienza di sé. I neuroscienziati, che hanno raccontato questa esperienza, anche nel libro “La via di mezzo della conoscenza”, hanno cominciato a gio-care con il concetto di coscienza individuale. Hanno studiato il concet-

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to di coscienza individuale nell’Islam, nella tradizione cattolica e cri-stiana in generale, nei filosofi occidentali dai presocratici ad oggi.

Ma nel loro elenco il concetto di coscienza del buddismo è stato quello che ha funzionato meglio nel creare una macchina più evoluta. La differenza è stata in un approccio di problem solving estremamente gestionale alla conoscenza che ha individuato in termini di valore ag-giunto il concetto buddista di coscienza come il più funzionale. Que-sto ha creato l’equivoco che la cultura in sé sia valore aggiunto.

Molto spesso tendiamo, erroneamente, a considerare la cultura in quanto tale valore aggiunto. Questo atteggiamento crea, invece, valore d’uso, cioè una soggettività della valutazione legata a componenti tra-dizionali, affettive, storiche a volte anche componenti opportunistiche. Quindi il valore d’uso non paga, in quanto se non viene riconosciuto dall’acquirente (ma in quel caso diventa valore di mercato o di scam-bio) gonfia a dismisura dei prezzi che in realtà vanno a paralizzare il mercato, in quanto l’acquirente potenziale non riconosce quel valore a quel prodotto. Che poi, in sé per sé, si possa creare valore aggiunto anche da prodotti culturali molto divulgativi questo è sicuramente possibile ma, nel momento in cui un prodotto viene connotato molto fortemente a livello di valore d’uso, ed al tempo stesso viene ricono-sciuto dall’acquirente tale, allora si parla di valore di mercato.

Le valutazioni basate sul valore d’uso non vengono riconosciute come attendibili dagli esperti. Il valore d’uso in sé genera solo bolle finanziarie che bloccano i mercati. Infatti, se non viene riconosciuto dagli acquirenti, i prezzi restano terribilmente alti, pur non avendo ac-quirenti.

Il valore di mercato (o di scambio) consiste nel riconoscimento, da parte dei potenziali acquirenti, di un valore non materiale, ma simboli-co, di un certo prodotto.

Ci sono altri tre tipi di valore utilizzati per valutare un’attività: il valore contabile, il valore normale e il valore corrente. Non parlerò subito di questi tre valori perché voglio mettervi di fronte a quello che è il filo conduttore di questo corso. Vi ho già accennato in precedenza ma adesso, voglio riprenderlo in maniera più procedurale, circolare, nella logica del PDCA, ma più articolata.

Il nocciolo della questione consiste nel mettere a punto un procedu-ra, sulla quale sto ancora lavorando, per cui siete di fronte a un espe-rimento in progress e non ad un prodotto finito, che serva principal-mente a studiare quali sono i flussi di costruzione della ricchezza dalla conoscenza. Al momento ho chiamato questa procedura:

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Kwf: una possibile mappa strategica per il nostro tempo

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Knowledge and Wealth Flow (vedi figura). La prima fase del KWF è la conoscenza, la seconda le procedure di

know how, la terza riguarda le forme giuridiche della proprietà intel-

Conoscenza

Costruzione strategica

della ricchezza

Procedure di know how

Forme giuridiche della

proprietà intellettuale

Valutazione e misurazione della ricchezza prodotta

Eduinfotainment creativo

Strategie di trendsetting

Strategie di comunicazione

KNOWLEDGE AND WEALTH FLOW

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lettuale, la quarta sono le strategie di comunicazione, la quinta consi-ste nelle strategie di trendsetting, la sesta nell’eduinfotainment creati-vo, la settima nella valutazione e misurazione della ricchezza prodotta l’ottava è la costruzione strategica della ricchezza che conduce a ripar-tire daccapo, in un processo circolare. Del KWF ho già trattato all’inizio di questo capitolo ma ora desidero focalizzarlo meglio.

Ciascuno di questi steps contiene delle tecniche e dei principi. Quello che mi interessa è che acquisiate l’impostazione mentale e ca-piate il senso del flusso e, in linea di massima, alcuni strumenti di al-cuni di questi steps.

Vedremo che non c’è né una conoscenza che in assoluto crea valo-re aggiunto, né una conoscenza in assoluto inutile. Se dovessi tornare a queste categorie tornerei alle sterili discussioni degli anni ‘60 intor-no all’utilità del sapere scientifico versus la discorsività del sapere umanistico.

Nella prima fase si pone il problema della selezione delle cono-scenze. Non ci sono conoscenze utili ed inutili e non voglio fare una gerarchia di saperi come usavano fare i positivisti nell’Ottocento. Hanno, per me, pari dignità l’economia, la matematica, la storia, la fi-losofia. Non c’è una disciplina migliore o peggiore delle altre, tutto sta nel modo in cui vengono trattate. La questione si pone nel definire quali sono le conoscenze rilevanti rispetto agli obiettivi del manager strategico che gestisce il processo, assumendo che in corso d’opera le conoscenze rilevanti potrebbero evolversi e si potrebbe scoprire che determinati filoni di ricerca potrebbero rilevarsi infruttuosi. Il primo punto consiste nel fare un’attenta valutazione delle conoscenze che si posseggono, come si possono applicare e in funzione di quali target. È un passaggio che rasenta l’ovvio, eppure la formazione universitaria cade proprio su questo punto: dare conoscenze agli studenti senza farli troppo riflettere sulla loro utilità. Se una persona non trova il modo di organizzare e mettere a frutto ciò che sa, si trova, infatti, in grande dif-ficoltà.

Daniel Dennett parla del principio della necessità della conoscenza, cioè la conoscenza comincia ad avere senso solo laddove ne intrave-diamo l’utilità. Non solo un cash value di carattere economico, ma di carattere più ampio.

Da qui l’esigenza di trasformare la conoscenza in procedure di know how (seconda fase). Pensiamo un attimo alla figura dell’intellettuale militante che abbracciava incondizionatamente un’ideologia e alla figura odierna dell’intellettuale, più o meno critico,

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(detto “gergalmente” da talk show). L’intellettuale da talk show ap-proda ad una tuttologia che lo fa implodere dal punto di vista mediati-co. L’esempio più eclatante è quello di Vittorio Sgarbi, di una figura caricaturale amata a livello popolare come polemista che si è poi rein-ventato come esperto d’arte (quello che in realtà era sin dai suoi esordi televisivi). Ma inevitabilmente il suo tono polemico e la sua verve, che lo avevano fatto emergere mediaticamente, hanno portato i giorna-listi a chiedergli sempre di meno di storia dell’arte e sempre di più di qualsiasi altra cosa. Conclusione: il prodotto ha avuto un ciclo impor-tante, ma veloce, il picco alto è stato raggiunto presto e poi è declina-to. Invece un intellettuale che resiste in sella, oramai ottantenne, è sta-to Francesco Alberoni, un antesignano di questo ragionamento.

Negli anni ‘60 scrive un libro sul potere dell’elite dello spettacolo (elite senza potere istituzionale, dice lui, ma con un potere mediatico enorme) sostenendo che, in futuro, si sarebbe attinto moltissimo dal mondo dello spettacolo per selezionare nuovi politici e nuovi leader. Quando Reagan andò alla Casa Bianca, Alberoni era su tutti i giornali come colui che lo aveva previsto venti anni prima. Alberoni mette a punto una procedura molto semplice che formalizza nel suo libro “Isti-tuzioni e Movimenti” uscito per i tipi de Il Mulino nel 1977: il model-lo di base della teoria dello stato nascente. Come si forma un fenome-no sociale? Come evolve, come si caratterizza? Alberoni mette a pun-to un sistema a più fasi che si fonda sullo stato nascente, sul movimen-to che struttura lo stato nascente in qualcosa di più dinamico, veloce ed anche molto più visibile. Finché questo stato nascente da movimen-to diventa istituzione, si legittima, si consolida e viene riconosciuto come qualcosa di molto concreto, tangibile e reale. A qualcuno potrà venire in mente il triplice livello di Luhmann: varietà, selettività, sta-bilizzazione. “Istituzioni e Movimenti” fu un libro di grande successo accademico, vendette oltre centomila copie. A quel punto gli viene fatto notare che la sua procedura può essere applicata anche ad altri campi, semmai più divulgativi e il modello “Movimenti e Istituzioni” diventa il modello “Innamoramento e Amore”. Alberoni prende esat-tamente la sua teoria sociologica originaria e la trita letteralmente. La categoria movimento diventa l’innamoramento e la categoria istitu-zione diventa l’amore. Il nocciolo della questione è lo stato nascente della coppia. Questo filone lo fa diventare l’Alberoni mediatico. Molti autori, intellettuali che oggi percepiamo come critici e opinionisti, hanno preparato una procedura di know how, più o meno scientifica, sottile, artigianale che viene riproposta all’infinito. Lo dimostra il fatto

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Capitolo III

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che in Italia, e ancora di più nel resto dell’Occidente, i libri di self help (esempi molto divulgativi della trasformazione del sapere in know how) vendono molto bene.

Terzo punto: forme giuridiche della proprietà intellettuale. Uno dei padri della sociologia, Robert K. Merton, autore di “Teoria e struttura sociale” nel XXIII ed ultimo capitolo di questa opera parla dell’Effetto San Matteo che può ricordare molto il principio del 20% paretiano.

L’effetto San Matteo, Merton lo attinge dai Vangeli di San Matteo dove si legge: “Poiché a chi ha verrà dato e sarà dato nell’abbondanza. Ma a chi non ha verrà tolto anche quello che ha”. Mi astengo da rifles-sioni teologiche e registro solo come Merton noti che nell’analisi delle pubblicazioni scientifiche gli autori e i libri citati sono relativamente pochi sui grandi numeri. Più o meno delle mille citazioni apparse nelle pubblicazioni la maggior parte erano riconducibili a trenta, quaranta autori, per un massimo di sessanta, settanta opere. L’effetto San Mat-teo porta a rendere sempre più visibili gli autori visibili e a far scom-parire sempre più gli autori meno visibili. Per cui il flusso conduce ad un oligopolio. Assomiglia al 20% paretiano (tanto è vero che lo stesso Merton cita il residuo paretiano) ma Merton applica tale riflessione alle pubblicazioni scientifiche e parla del vantaggio cumulativo della scienza, che potremmo definire nel nostro caso il vantaggio cumulati-vo della conoscenza. Tale vantaggio si crea su una premessa impor-tante. Sappiamo che alcuni autori e alcuni libri ricorrono spesso, altri autori e libri ricorrono molto meno. Per poter essere citati gli autori debbono essere riconosciuti come tali, per cui il riconoscimento dell’autore è il riconoscimento delle forme giuridiche della sua pro-prietà intellettuale. Se non si arriva a formalizzare la proprietà intellet-tuale come imputabile ad un soggetto, o meglio ancora ad un funzione come direbbe Focault, non si riesce a dare un vantaggio cumulativo della conoscenza. Per cui non si innesta quel processo che poi selezio-nerà gli autori. Questo discorso si collega in maniera abbastanza criti-ca ad alcune teorie che oggi vanno abbastanza di moda: la teoria dell’intelligenza collettiva di Pierre Lévy e le teorie dell’intelligenza connettiva di Derrick De Kerckhove. Il modello di De Kerckhove da questo punto di vista è più strategico, nella misura in cui in un sistema di intelligenza connettiva il tutto è più della somma delle parti, ma le parti sono ancora distinguibili. Nel modello di intelligenza collettiva di Pierre Lévy si crea un indistinto flusso di voci non più riconducibili a singole persone. Il problema è il seguente: in un’epoca collettiva se io (è un io generico, ovviamente) so che il mio contributo intellettuale

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per un certo progetto non sarà mai riconosciuto, a meno che non abbia uno spirito altamente filantropico (straordinario e statisticamente im-probabile), a un certo punto non produrrò più nulla di carattere intel-lettuale, ma mi limiterò a fare un copia e incolla da internet oppure ad andare in spiaggia ad abbronzarmi, ad esempio. Quindi l’intelligenza collettiva (che è un modello che andava di moda nel milleduecento) comporta il rischio di un depotenziamento della proprietà intellettuale dell’autore, il crollo della funzione autore. L’autore diventa in gergo quello che viene chiamato crudelmente un “negro”: ha cioè la funzio-ne di raccogliere conoscenze e metterle insieme, accorpare l’esistente in nome di un copyright che appartiene ad altri. Quindi la funzione au-tore passa ad una multinazionale, al Ministero, alla Regione, all’Università e così via dicendo. Si innesca un meccanismo altamente entropico perché, nello spostare la funzione di know how, si scopre che molto spesso il know how che gira è sostanzialmente lo stesso e viene riprodotto all’infinito senza incrementare la ricerca.

Una volta che ci si è protetti a livello di forme giuridiche della pro-prietà intellettuale, diventa fondamentale che il prodotto esca sul mer-cato e la domanda diventa: quali sono le strategie di comunicazione per diffondere il know how proceduralizzato?

In questa quarta fase torniamo alla questione propaganda-persuasione-agevolazione. "Propaganda, persuasione ed agevolazione” (Pitasi, 2003) applicate a questo contesto. Propaganda vuole dire, ad esempio, trasmettere una paura terribile alle persone per cui, o si adot-ta un certo comportamento all’interno di una certa procedura, oppure qualcosa di orribile potrebbe accadere. Pensiamo all’uso della paura di un disastro ecologico come modello strategico per rottamare le mac-chine fabbricate entro un certo anno, con la marmitta di un certo tipo, perché altamente inquinanti. Questo perché la scienza è arrivata a de-finire quelle marmitte, a livello di certificazione giuridica, come in grado di fornire determinate garanzie a livello ambientale. Salvo poi scoprire (preciso che è un semplice esempio senza valore di riferimen-to reale), magari venti anni dopo, che non è vero e l’obiettivo era solo quello di vendere più macchine. Nelle strategie di comunicazione si gioca la partita non del che cosa dire, non di chi è l’autore che comu-nica, ma la partita del come trasformare un prodotto relativamente per pochi in qualcosa di più accessibile ad una fascia sempre più ampia di persone.

La quinta fase riguarda le strategie di trendsetting o, come dicono alcuni, di coolhunting. In realtà tra trendsetting e coolhunting seman-

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Capitolo III

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ticamente c’è un abisso. Cool in inglese gergale significa ciò che fa tendenza, to hunt significa andare a caccia. Quindi si va a caccia, si cerca di scoprire quello che fa tendenza. Il coolhunting, nel quale per-sonalmente non credo, presuppone la logica dell’esplorazione, della scoperta. Il trendsetting presuppone la logica dell’invenzione. To set vuol dire sistemare, apparecchiare, allestire un trend, una tendenza. Trendsetting è un qualcosa che “a livello di laboratorio” si comincia a studiare per trasformarla in un fenomeno che crei tendenza. L’idea è quella che il futuro non si prevede, ma si crea. Anche perché, come insegna Dornbusch nel suo “Le Chiavi della prosperità”, il potere pre-visionale delle scienze economiche (che sono, comunque, le più preci-se tra le scienze sociali) è comunque un potere piuttosto limitato, per cui, se si dovesse ragionare in termini di coolhunting, le probabilità di fallire la previsione sarebbero molto alte. Al contrario, un’agenda di trendsetting, ovviamente all’interno di una procedura, ci permette, su base probabilistica, di valutare meglio le possibilità e le probabilità di un certo prodotto, usando il termine in senso lato, di decollare. Affin-ché un prodotto, in senso lato, faccia tendenza occorre sdoganarlo in modo adeguato ai diversi target. Ritorna quindi la questione dell’eduinfotainment (sesto punto) che consiste nella capacità di uno stratega della comunicazione che dà il suo contributo in queste dina-miche di rendere particolarmente attraenti, appealing, interessanti i prodotti che il trend vuole promuovere, oltre che rendere attraente ed appealing il trend stesso.

Richard Florida è stato un abile trendsetter e ci offre un esempio davvero interessante. Richard Florida è un professore universitario che insegna quello che noi potremmo chiamare in Italia Sociologia urbana e del territorio. Florida riesce a trasformare questo ambito, mantenen-do un certo rigore scientifico, in una business idea che diventa un libro “The creative class”, tradotto in italiano da Mondatori in “La classe creativa”. Florida fa un lavoro estremamente tecnico a livello scienti-fico, espresso però in modo abbastanza gradevole, non in termini troppo teorici. Prende come riferimento delle statistiche di secondo livello, quindi non crea delle statistiche in prima persona, e identifica i fattori di successo delle città con grandi risorse economiche, tra le quali San Francisco e New York. Nel suo libro sostiene la tesi che la differenza, il motore economico, sociale, culturale tra queste città e il resto del mondo è quella che lui chiama la classe creativa. La classe creativa, sostiene Florida, si evidenzia a livello statistico incrociando tre variabili (le prime due sono le più interessanti): tecnologia, omo-

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sessualità (come metafora del più ampio concetto di tolleranza tanto caro a Florida), tempo libero (reso possibile dall’energiadel talento). Naturalmente il modello è molto più articolato, ma prendiamo in con-siderazione solo queste due variabili e il discorso che sottendono. In una città di grande impatto economico il numero di omosessuali è molto alto. Perlopiù gli omosessuali ricoprono ruoli creativi nell’arte, nella pubblicità, nel cinema, nella moda, in vari ambiti. Sono persone che guadagnano molto bene con i lavori che fanno, hanno la possibili-tà di viaggiare e sono molto tecnologizzati. Quindi è più facile che siano degli innovatori di processi di cambiamento. Che ci sia una cor-relazione tra tecnologia, omosessualità e tra tecnologie, omosessualità e creatività è un’idea che nessuno gli ha contestato (perlomeno in ma-niera decisa) ma che, soprattutto, nessuno ha teorizzato prima di lui. Per cui la creative class esiste solo nei libri di Florida, se vogliamo ra-gionare in termini accademici. Perché il tempo libero, perché tecnolo-gia, omosessualità e creatività divengono una miscela esplosiva. Infat-ti questa classe, guadagnando molto, con orari che può autostabilire (la maggior parte sono professionals), investe molto nel tempo libero. Vengono fatti investimenti del tipo cyber caffè in una galleria d’arte, un circolo del tennis che diventa punto di ritrovo per dibattiti di lette-ratura, eccetera. La creative class diventa il motore di questa econo-mia. Risultato: diverse città americane chiamano Florida come consu-lente per diventare attrattive per questo tipo di persone. La domanda che ci si pone è: la creative class esisteva prima del libro di Florida? Oggi molti hanno scoperto di essere creative class negli Stati Uniti. Sicuramente l’eduinfotainment diventa dominante. Negli anni ‘70 nes-suna galleria d’arte o libreria avrebbe avuto un caffé all’interno, in quanto luoghi deputati alla fruizione in senso tradizionale dell’arte o della cultura. Oggi è possibile, anzi è un cambiamento diffuso.

Torniamo al discorso precedente e decidiamo cosa dà valore ag-giunto. Sicuramente la conoscenza in senso ampio dà valore aggiunto, ma in un processo organizzativo si pone sullo stesso piano la bontà dei pasticcini venduti all’interno del bar con i libri venduti nella libreria che contiene il bar. Inneschiamo quindi un trendsetting attraverso l’eduinfotainment e ci poniamo il problema di valutare e misurare la ricchezza prodotta dal processo che si sta portando avanti. Valutazione e misurazione della ricchezza prodotta (settimo punto). Una domanda stupida potrebbe essere: “cosa dà il valore aggiunto la libreria o il bar?”. Naturalmente non possiamo chiudere il bar o, paradossalmente, la libreria, per valutare quale dei due crei valore aggiunto.

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Venendo al discorso dei criteri e metodi per valutare tutto ciò ritor-nano i concetti di valore d’uso, valore di mercato (detto anche errone-amente valore di scambio a volte), valore contabile, valore corrente e valore normale. Il valore d’uso è molto soggettivo ed è quindi molto poco affidabile. Anche perché è viziato da campanilismi, da valori af-fettivi, dalla tradizione culturale nel senso più deteriore del termine (nella misura in cui gonfia il valore d’uso la tradizione ha una funzio-ne deteriore, in quanto crea bolle finanziarie che paralizzano il merca-to e gli scambi). Del valore di mercato abbiamo già parlato. Il valore contabile è un valore considerato abbastanza attendibile ma incomple-to. Il valore contabile, in una Università, farebbe stimare il suo valore in base alle cose che ci sono dentro e dato che la contabilità non è ar-rivata, salvo rare eccezioni, a stimare gli intangibili, non si riuscireb-be, con quel valore, a stimare l’effettivo portafoglio di una Università.

Pensiamo ad un rullino fotografico. Nel momento in cui andate a sviluppare un rullino e le vostre foto vengono accidentalmente perse o distrutte dal laboratorio di sviluppo, il risarcimento previsto viene de-finito sulla base del valore contabile. Pensate infatti alla difficoltà nel valutare il valore d’uso di quelle foto! Al tempo stesso, se un laborato-rio fotografico perde un rullino di un fotografo di moda di fama inter-nazionale, il cui lavoro è formalizzato da un contratto (punto tre: for-me giuridiche della proprietà intellettuale), c’è la possibilità di rico-struire a livello contabile un valore di gran lunga superiore a quello del semplice rullino perso nella prima occasione. Il valore corrente è, in realtà, a corrente alternata, in quanto costruito sulle stime dei periti che si presuppone per curriculum e competenze qualificati a svolgere il proprio compito. Presuppone quindi periti certificati a fare le stime. La domanda che sorge spontanea è: “chi certifica i periti e chi certifica gli standard che i periti devono usare?”.

Il gemba Kaizen e il lean thinking, in un caso specifico di perizia che è quello della certificazione di qualità, quale l’ISO 9001 ecc., è un esempio classico di un’organizzazione che cerca di autoregolamentar-si nel definire dei criteri di valutazione, perizia e stima. Ma pensate alle perizie differenti in caso di incidente automobilistico. Il vostro pe-rito valuterà il danno in una somma consistente; il perito dell’assicura-zione, probabilmente, porterà prove a supporto dell’infondatezza completa della vostra richiesta di risarcimento.

Quindi, il problema delle perizie è una questione complessa. Il va-lore corrente di un’azienda funziona nella misura in cui le perizie sono costruite su standard consolidati, l’ISO è un buon tentativo anche se

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perfettibile e se c’è una trasparenza su detti standard. Entra in scena il valore normale che non va a stimare un caso, ma uno standard. È quel-lo che fa il fisco. Pensate al valore catastale. L’immobile, al catasto, ha un valore determinato, mettiamo di 100.000 Euro. Questo perché il fisco ha stabilito certe caratteristiche. Se, nel frattempo, il valore di mercato è salito in maniera abnorme, e la casa vale un milione di euro, per legge siete al riparo da qualunque controllo se nel rogito dichiarate che avete venduto per 100.000 e 1 euro. Perché, per il fisco, siete negli standard. Ma, mentre il fisco gestisce gli acquisti di mercato su valori normali, il mercato piazza gli immobili su valori di mercato. I gap che si creano sono enormi e si creano bolle speculative che si trovano a esplodere. Pensate a quando le persone che hanno avuto un vantaggio dal valore di mercato rispetto a quello normale, vogliono strafare e ri-correre al valore d’uso che crea un gap ancora più grande del valore normale, finché questo non paralizza il mercato.

Mentre la certificazione di una perizia presuppone un valore scien-tifico, quindi al massimo c’è un Ordine, un Albo professionistico che stabilisce alcuni standard, il controllo di valore normale, invece, è un discorso di diritto valido. Il diritto diventa una questione di volontà, espressione di volontà. Se il Ministero delle Entrate stabilisce un valo-re normale è una legge a definirlo. È a livello giuridico che si attua una procedura che definisce una situazione di normalità. La norma giuridica è molto più lenta del mutamento sociale, per cui il diritto va-lido rimane in vigore quando, in realtà, il valore di mercato si è già spostato di molto. Il problema pratico su chi controlla chi stabilisce i valori normali è un problema che sussiste e rimane, mentre il proble-ma formale di chi controlla i criteri dei valori normali non sussiste perché, in questo caso, si può invocare la normativa vigente. Da una parte il perito di formazione psichiatrica si può aggrappare alla sua specializzazione in psichiatria, alla sua laurea in medicina, ma non ha uno standard fornitogli in assoluto dall’Ordine degli psichiatri o dei medici, il fisco, invece, si dà delle regole giuridicamente valide (il che non vuole dire né che siano giuste, né che siano valide) per definire il valore normale. Dove non c’è modo di creare un valore normale giuri-dicamente sancito, non si può attivare più di tanto il processo di scam-bi che poi porta a creare il valore di mercato.

Tutti questi valori agiscono simultaneamente, ma non tutti i valori sono attendibili. Non c’è mai una valutazione senza un osservatore, non c’è mai un osservatore senza criteri (per quanto informali o sotter-ranei) e questi valori sono tutti simultaneamente utilizzabili, salvo che

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Capitolo III

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non si cada nel problema del principio di indeterminazione di Heisen-berg. In realtà non si riesce a gestire simultaneamente tutto questo si-stema di valori ma, quando se ne osserva uno si sta osservando anche l’altro, quando si studia la sostanza di una particella non si riesce a coglierne la velocità e viceversa (direbbe Heisenberg). È chiaro che i criteri di valutazione sono diversi, il problema di solito non è la man-canza di simultaneità, il problema è l’attendibilità dei valori, quali mettere in scala di priorità come importanza ed attendibilità. Dei cin-que criteri il più importante è oggi considerato il valore corrente, no-nostante i problemi legati ai criteri delle perizie. Il secondo valore più importante è il valore di mercato e il terzo, perché giuridicamente san-cito, è il valore normale. Gli altri due sono considerati relativamente poco. Il valore contabile conta comunque di più del valore d’uso. Il prossimo passo consisterà nel definire come capitalizzo ciò che ho mi-surato.

Riprendiamo, a questo proposito, il codice valore aggiunto/plus-valore.

Il valore aggiunto trae le sue origini dal plusvalore, concetti simili ma non identici.

Qualche decennio prima di Marx, Smith aveva già gettato le basi per tale concetto attraverso lo studio delle interazioni tra individui.

Egli è noto per la teoria della mano invisibile, cioè dell’autore-golamentazione del mercato che, però, non sempre riesce a causa di quella variabile che Marx definisce plusvalore. La somma degli inte-ressi individuali costituisce, smithianamente, l’interesse collettivo, ma è pur vero che il totale è qualcosa in più della somma delle parti e cioè è il plusvalore marxiano.

Pensiamo ai passaggi che sono compiuti per produrre un paio di occhiali, dalla loro progettazione grafica all’immissione sul mercato. Possiamo dirci assolutamente certi che ad ogni passaggio corrisponda reale creazione di valore? Ovviamente no. Se la catena funziona bene, in ogni passaggio si crea valore, se così non è bisogna eliminare quel passaggio. Nel processo di creazione del valore, inoltre, intervengono anche fattori intangibili.

Bentham, autore della teoria delle finzioni, parla di due tipi di enti-tà, percettibili ed inferenziali. A loro volta queste entità possono esse-re reali o fittizie. Abbiamo entità reali e percettibili: un muro. Ci sono entità che noi umani non percepiamo direttamente ma dalle reazioni del nostro cane possiamo capire che qualcuno sta attivando degli ul-trasuoni: sono entità inferenziali. Ci sono le entità percettibili fittizie,

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statisticamente improbabili ma non assurde, pensate a quando sba-gliamo a giudicare qualcuno o quando i nostri sensi vengono inganna-ti, pensate all’effetto fata morgana nello stretto di Messina. Poi ci sono le fittizie inferenziali e qui si gioca tutto il concetto di valore d’uso: griffe, gli intangibili della new economy. Qui si gioca il valore del simbolo nel definire il valore d’uso del bene. Qui salta la logica della mano invisibile di Smith. Ci si rende conto che se siamo in un econo-mi del baratto o anche del prodotto (o reale) tanto più la mano invisi-bile può funzionare, ma se saltano questi equilibri e quanto più l’economia diviene finanziaria, di carattere simbolico, tanto più biso-gna mettere d’accordo gli attori dei vari passaggi che concorrono alla realizzazione del prodotto e la mano invisibile salta poiché si crea una proporzione inversa tra fatturato e ricchezza se teniamo conto del fatto che chi appone la griffe si porta a casa il 90% del fatturato prodotto.

Pensate alla bolla speculativa, è tale tutto ciò che non crea valore aggiunto ma crea plusvalore. Pensate al ciclo di vita dei cantanti mo-derni, entrano nel mercato musicale e vendono immediatamente mol-tissimo ma dopo un po’ spariscono. Pensate invece al fatto che Ba-glioni continua a riempire gli stadi. La differenza sta nel diverso inve-stimento in brand, che è ovviamente un investimento di medio-lungo termine. Ci sono dei ricarichi che occorrono solo a trarre profitto per i soggetti presenti nel processo. Qui entra in gioco Keynes, il quale è famoso per due cose: egli ha sempre sostenuto che chiunque riflette su soluzioni di lungo periodo si dimentica che sul lungo periodo saremo tutti morti. Il lungo periodo non può essere un escamotage per non ri-solvere il problema. Altra cosa che Keynes ha sempre sostenuto e che è stata fortemente contestata dai monetaristi è che pur di risolvere la disoccupazione bisognava assumere gente per scavare buche e riempi-re buche, in una società in cui non c’era assolutamente bisogno di bu-che. Il valore aggiunto di questo lavoro è ovviamente pari a zero. Il valore aggiunto sociale secondo Keynes era di aver dato lavoro e aver ridotto il numero di disoccupati. Ma chi avrebbe pagato? Le politiche pubbliche, le tasse, una voce che quindi non diventa né investimento né consumo. Aumenta la spesa pubblica, aumentano gli occupati ma va in orbita l’inflazione e quindi il costo della vita. Che ideologica-mente questo sia uno spreco o un ammortizzatore dei conflitti sociali questo è compito del politologo. Il manager strategico deve conoscere ciò per tradurlo, nel modo che ritiene più idoneo, in aumento di profit-to. Deve ragionare in termini di calcoli matematici e non politici. Ed ecco che interviene la deflazione. Un’economia deflativa è molto si-

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Capitolo III

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mile alle logiche del baratto per cui griffe e brand perdono la loro ra-gion d’essere. Si capisce bene che oggi, salvo piccole eccezioni, tale concetto è superato. Oggi, non solo la catena del valore è delocalizzata ma bisogna rispettare standard qualitativi che certifichino come e per-ché il prodotto arriva al consumatore. Ciò presuppone la capacità di maneggiare la conoscenza in maniera smaliziata. In antropologia si parla di inculturazione quando un popolo è influenzato da un altro in maniera più o meno volontaria. I processi di deculturazione quando si comincia a fare guerre e ad attivare meccanismi di chiusura verso una cultura o un’espressione di essa (ad esempio il fascismo ha bandito l’inglese). Si parla di acculturazione ogni qualvolta un popolo importa o esporta volontariamente qualcosa. La cultura è somma di usi, con-sumi, tradizioni strutturati ed istituzionalizzati. La civiltà è la cristal-lizzazione dei vari spiriti culturali che prendono forma. Ma i confini tra culture sono molto mobili. Barcellona è un po’ un luogo di miscel-lanee, per esempio. A questo gli antropologi hanno risposto spostando l’asse dall’antropologia umana a quella fisica e hanno sostenuto che poiché il cervello umano si compone di tre livelli solo in parte integra-ti l’unicità del cervello umano è la unica, vera differenza. Vediamo questi tre livelli: il cervello rettiliano che svolge le funzioni più primi-tive, il sistema limbico che equivale allo sviluppo cognitivo di un e-quino, la neurocorteccia celebrale che ci permette di manovrare i sim-boli. Alla luce di ciò è cultura tutto quello che viene prodotto dalla no-stra neurocorteccia. Questo ha implicazioni sulla pubblicità, sul mar-keting e sul management strategico e ciò significa che il gladiatore di un colossal può avere un Rolex al polso e non per dimenticanza. La gioconda con i baffi è il tipico esempio di rielaborazione della nostra conoscenza in base alla funzioni svolte dalla nostra neurocoteccia. Questo significa che non possiamo definire in termini assoluti cosa sia rilevate e cosa non. Possiamo farlo solo in termini relativi, e quindi relativamente al soggetto che abbiamo di fronte. Rispetto al KWF, questo vuol dire che la conoscenza non è qualcosa di oggettivamente classificato o classificabile. Intervengono tutta una serie di variabili solo parzialmente prevedibili come mode e trend. La conoscenza non è gestibile su una scala assoluta. Qui si gioca il lavoro del comunicato-re che deve definire scale di priorità della conoscenza che siano conte-stuali e non assolute, imparando a dosarle rispetto ai singoli soggetti con cui comunica. Allora il quesito è quali procedure di know how servono e rispetto a chi? Torniamo un attimo al terzo punto del KWF: forme giuridiche della proprietà intellettuale. La conoscenza può esse-

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Kwf: una possibile mappa strategica per il nostro tempo

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re tutelata con brevetti. Il quarto step, come anzidetto, è quello delle strategie di comunicazione: propaganda che funziona in regimi di mo-nopolio, persuasione che funziona in base al codice binario (giu-sto/sbagliato) in duopolio, l’agevolazione serve persone diverse in modo diverso.

Quando un’economia è in crisi si taglia la pubblicità poiché il suo valore aggiunto non è facilmente misurabile, siamo nel cuore delle en-tità inferenziali fittizie.

L’eduinfotaiment creativo è uno degli strumenti più indicati per creare valore aggiunto e dare legittimità ad un’entità fittizia inferen-ziale.

Pensiamo ad un’opera d’arte moderna: il valore di tale opera è una costruzione sociale del consenso attorno all’arte, è una condivisione sociale dell’opera il cui valore, quindi, non corrisponde più a canoni artistici definiti. Il suo valore è il risultato del trendsetting, quindi. Nell’ottica di Smith il passaggio dal valore d’uso al valore di mercato dipende dalla mano invisibile, il problema è che nel processo di defi-nizione del valore entrano tutta una serie di soggetti che incidono sull’aumento di costi, in primo luogo (pensate ad avvocati, sindacati, ecc.). Si tratta di soggetti che non producono realmente valore aggiun-to ma creano plus valore perché la loro azione significa profitto per qualcuno e ciò incide sulla produzione di ricchezza. Ciò riporta alla costruzione strategica della ricchezza. La vera sfida degli anni a veni-re.

Pensiamo ad un’opera d’arte moderna: il valore di tale opera è una costruzione sociale del consenso attorno all’arte, è una condivisione sociale dell’opera il cui valore, quindi, non corrisponde più a canoni artistici definiti. Il suo valore è il risultato del trendsetting, quindi.

Vediamo come il Lean Thinking e il Gemba Kaizen si inseriscono nelle procedure di know how.

Nel Gemba Kaizen prevale l’importanza di tagliare gli sprechi, nel Lean Thinking prevale invece l’importanza di come creare valore ag-giunto.

Pur non essendo nate in questo senso Lean Thinking e Gemba Kai-zen sono potenziali procedure da inserire all’interno del modello KWF. Ovviamente ogni punto (soprattutto relativamente alle procedu-re di know how e alla fine del processo nella valutazione preorganiz-zativa del trendsetting) degli otto descritti ha bisogno di procedure e tecniche per essere implementato.

Un punto teorico (convertibile a livello strategico) sul quale mi so-

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Capitolo III

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no precedentemente soffermato e che va ulteriormente sottolineato è la distinzione tra plusvalore e valore aggiunto.

Per riprendere questo argomento passeremo da Adam Smith a Marx fino ad arrivare ad Atto di Forza (Total Recall) film con Arnold Schwartzenegger.

Ricorderete che Adam Smith sosteneva, sostanzialmente, che la somma delle parti fa il totale. Marx si è reso conto che quella somma era una moltiplicazione e che questa moltiplicazione fa entrare in sce-na il plusvalore, la cui redistribuzione costituisce la porta di ingresso della politica e della sociologia, diciamo così, nell’economia.

Mi spiego meglio. Se voi pensate che la somma dei redditi degli i-taliani dia la ricchezza nazionale avete sbagliato i calcoli. Le variabili che non funzionano, infatti, sono tantissime.

Approfondiamone solo una: la variabile tempo. Tale variabile è relativa non solo a quanto una persona percepisce

rispetto a un salario o a uno stipendio, ma anche a quando riceve l’onorario. Pensate, ad esempio ad una consulenza governativa che va dai 1000 ai 1100 Euro al giorno ed è equivalente allo stipendio di un impiegato, ma la consulenza verrà percepita dieci mesi dopo. Capite che la variabile tempo presuppone uno scarto tra il reddito fisso e il reddito variabile e un sistema di interessi passivi e interessi attivi a se-conda di chi tiene, metaforicamente parlando, quei soldi in conto cor-rente.

Mettiamo l’esempio di un fornitore che percepisca dopo dieci mesi 50.000 Euro, il cliente pagherà 50.000 Euro meno gli interessi che ha maturato in quel periodo (ad esempio). Non c’è un 50000 (–) in un conto corrente e un 50000 (+) in un altro conto corrente, ma ci sono dei flussi di X (per). Le variabili in gioco sono moltissime, formaliz-zando potremmo ottenere il seguente enunciato:

(x+y+j) x (w+k+j) x (t-s-r). Per cui abbiamo un’addizione di elementi che vanno poi a molti-

plicarsi. Adam Smith avrebbe invece detto che sommando: (a+b+c) = d. Ma, per citare Totò la somma non fa il totale! Il merito di Marx, in questo senso, è stato quello di dire: attenzione

non è una somma ma una moltiplicazione! Il grande paradosso è stato quello di dire: attenzione questa molti-

plicazione crea un valore che è un qualcosa in più di un lavoro prodot-to!

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Kwf: una possibile mappa strategica per il nostro tempo

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Il paradosso sta nel fatto che Marx afferma con la sua teoria che Smith ha torto ma sarebbe bello se avesse ragione. Il problema diventa interessante se prendiamo queste riflessioni che si collocano tra fine Settecento inizio Ottocento e le trasponiamo nella new economy.

Il famoso jeans che senza la griffe costa 10 Euro e con la griffe 200 Euro ha un plusvalore di 190 Euro. Questo plusvalore è un valore ag-giunto. E se lo è … per chi? Sicuramente è valore aggiunto nel senso che genera un plusvalore per chi produce e fattura. L’altro aspetto che ci interessa è capire se queste 190 Euro di griffe creano bolle specula-tive. Naturalmente, in base allo stipendio o salario, il costo di un jeans (mettiamo di 300 Euro) avrà un significato diverso a seconda del livel-lo di reddito. Se in processi di comunicazione, di coolhunting e di trendsetting si crea con la griffe una lievitazione eccessiva dei prezzi, perché il gioco funzioni devono lievitare anche gli stipendi delle per-sone.

Di solito non succede. Per cui si rischia di avere una paralisi dei mercati per il semplice

motivo che i prezzi sono talmente alti da essere, a causa dell’inflazione, al di fuori della portata del portafoglio dell’acquirente potenziale. Il problema è vedere come il plusvalore nella comunica-zione genera valore aggiunto. Nella misura in cui non porta valore ag-giunto genera bolle speculative. In una economia che va male, rispetto ad una economia che va bene, accade spesso che non si riesca addirit-tura a piazzare sul mercato un prodotto perché non si riesce a far per-cepire al consumatore il valore aggiunto di un prodotto che, di conse-guenza, egli non acquista.

Un esempio è quello che i sociologi chiamano il “consumo distor-to” che all’apparenza potrebbe non sembrare in linea con il discorso. Si chiama “consumo distorto” quel meccanismo di consumo che ap-partiene a quelle persone che, per categoria di reddito, non possono permettersi determinati prodotti o beni propri (casa di proprietà, mac-china, ecc.) e con la loro ricchezza/povertà stanno troppo bene per non morire di fame, ma stanno troppo male per poter seriamente pensare ad un salto di qualità. Queste persone, quindi, (che spesso abitano in roulotte ma possiedono playstation e pay tv) preferiscono continuare a vivere alla giornata. Dal loro punto di vista, per il loro status, il tipo di prodotto da loro acquistato è portatore di un chiaro valore aggiunto che può essere anche un momento relazionale.

Trasliamo in un discorso più tecnico. Quando andate a ragionare all’interno del sistema di procedura KWF (vedi figura) avete il pro-

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Capitolo III

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blema della costruzione sociale della ricchezza. Molto spesso ciò che crea valore a livello sociale non crea valore a livello economico e, molto spesso abbiamo dei comportamenti sociali che distruggono va-lore economico e, naturalmente, comportamenti economici che di-struggono valori sociali. Cambiamento di mentalità organizzativa e culturale. Cambiamento culturale, prima dell’economia.

Andiamo adesso a vedere il nostro processo, nei suoi punti salienti. Abbiamo il problema della conoscenza che discerne cosa all’interno del nostro bagaglio formativo ci occorre e non ci occorre. Abbiamo un momento di procedure di know how in cui noi organizziamo ciò che sappiamo, in teoria, modelli, procedure e strategie funzionali a degli obiettivi. Gemba Kaizen e Lean Thinking sono degli esempi di proce-dure, ma ce ne sono anche altre.

Segue il momento del sapere organizzato che deve essere in qual-che modo applicato e gestito tramite la comunicazione. Abbiamo, quindi, il problema di vedere cosa si riesce a comunicare in una logica di know how strutturato e proceduralizzato e che ci permetta di creare valore aggiunto e plusvalore insieme. Dopodichè c’è il problema del trendsetting. Il passo successivo consiste nel vedere che cosa genera ricchezza, per esempio eliminando investimenti che non sono andati bene. Tali passaggi servono a creare ricchezza in senso economico, ma anche valore aggiunto a livello sociale.

“Total recall”, il film con Schwartzenegger solleva un problema che nel cinema si era avuto precedentemente in Blade Runner, ma che in Total recall diventa palese: esistono sistemi di simulazione (come il KWF) che rendano superfluo l’esperire una situazione prima di intra-prendere una iniziativa?

Pensate ai simulation games, o ai modelli attraverso i quali si simu-la un modello di investimento finanziario. Tramite la simulazione si simula l’investimento vero. Facciamo un esempio: Atto di Forza (il film è ambientato nel 2084 ed è tratto da un libro di P.K. Dick) il pro-tagonista si prende una vacanza da se stesso collegandosi ad un siste-ma virtuale iperavanzato e diventa un agente segreto su Marte. Il bello è che lui non sa di essere in “vacanza”. Il suo corpo è fisicamente sulla terra, la sua mente su Marte. Naturalmente è tutto simulato e il prota-gonista ne uscirà vincitore e incolume. Questo perché “l’agenzia turi-stica” sulla terra ha programmato e pianificato il tutto, ma lui non lo sa! Questo cosa significa? Significa che strumenti di questo genere e-vitano di fare l’esperienza simulandola. Quando parliamo del KWF e di modelli di questo tipo, parliamo di modelli che hanno il compito di

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ridurre gli sprechi, oltre a quelli esperienziali. Strumenti di questo ge-nere servono a simulare l’esperienza per evitare di farla e a ridurre il numero degli sprechi esperienziali. Si vanno a creare dei vincoli de-terministici evolutivi, dei meccanismi di autopoiesi, di autoriprodu-zione, tali per cui, una volta che si entra nel modello, non si è più con-sci di essere nel modello e il modello va avanti in automatico. Il KWF e gli altri “software cognitivo-evolutivi” presentati in questo libro hanno la funzione di ridurre in termini probabilistici il margine di er-rore, di creare dei vincoli evolutivi precisi, che portino al risultato de-siderato. Ciò ha implicazioni anche dal lato giuridico.

Quando Bill Gates conquistò il mercato dei computer lo fece con la Microsoft Foundation, non con l’azienda Microsoft, perché iniziò a regalare software per i computer dell’IBM da donare alle scuole pub-bliche. Con un messaggio che era da foundation e non da azienda e relativo a “clienti” futuri che accettarono.

La logica del KWF è quella di abituare ad un approccio procedura-le e strategico che permetta di valutare il valore aggiunto. La logica è abituare a valutare diverse variabili, quelle del lobbying, quelle giuri-diche, quelle economiche, senza le quali le nostre esperienze tecniche e professionali non possono servire a molto.

Il nocciolo di quest’ultimo punto. Questa procedura serve a defini-re le battaglie che serve combattere e quelle che non vale la pena in-traprendere, postulando un’impostazione che permetta di capire ciò che veramente è rilevante per la crescita. Quando parliamo di management strategico dell’autore globale parliamo della capacità di capire quando agire sul piano delle meta preferenze. Non su quello che sapete fare ma, sul perché è importante quello che sapete fare. Ogni know how acquisito è relativo alla proceduralizzazione contin-gente nell’ambito della metodologia di problem solving che vi trove-rete ad attuare. È quindi importante avere una vision strategica. […]

Una teoria che funziona come teoria e riesce a mettere a sistema le varie procedure.

Ognuno degli steps del KWF coincide e va a far confluire le proce-dure. Il KWF è, quindi, un processo strategico che ha il compito di coordinare sia le procedure tattiche (come possono essere Lean Thin-king e Gemba Kaizen), sia gli strumenti operativi. Per completare tutta una serie di relazioni che derivano da questi tre livelli ho preparato una serie di punti (15) che illustro sinteticamente e che non saranno del tutto nuovi, ma avranno la funzione di completare il quadro. Que-sti punti non hanno pretesa di esaustività e meno che mai pretendono

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Capitolo III

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di risolvere il dibattito, ma hanno la funzione di far riflettere sul livel-lo socioculturale.

Andiamo ad elencarli. 1) Crescita e ambiente sono sinergici. Certo ci sono dei fenomeni di crescita orripilanti (pensiamo alle di-

scariche abusive, non si può negare l’evidenza). Ma è anche vero che la crescita in quanto tale non è né ecologica né antiecologica, dipende da come si impostano la strategia, le procedure e i mezzi. La crescita non è altro che una variabile del modello di sviluppo sostenibile teo-rizzato già negli anni sessanta dal Club di Roma. La crescita ha però un problema: richiederebbe un’economia sempre più “pulita” e molto più lenta.

Questo solleva due problemi: a) verso quei paesi (estremo oriente) che non hanno alcuna inten-

zione di avere una crescita più lenta; b) sviluppo ecologico sostenibile (che a detta di un manager strate-

gico orientato agli obiettivo potrebbero anche non avere nessuna rile-vanza).

Tenete presente che ci sono dei modelli che presentano delle siner-gie tra sviluppo ambientale e crescita. Questi modelli partono dall’assunto che se si va in un’ottica di decrescita si ha un estremo o-riente inferocito e, nel vostro caso, entrare nel mondo del lavoro non prima dei 40 anni, per il semplice motivo che l’andamento del mercato non crea posti, non crea ricchezza, non c’è bisogno di incremento di risorse umane.

Crollando di conseguenza, per una serie di effetti a catena, il ri-sparmio, crollano i consumi e i posti di lavoro sono naturalmente in calo. Quindi si avrà, in un certo senso, decrescita versus sensibilità e-cologica. Il problema è questo.

2) Ricchezza uguale investimenti in infrastrutture. Una volta che c’è una crescita si può discutere su come rendere la

crescita il più ecologica possibile. Se non c’è crescita non c’è neanche il problema ecologico perché

non ci sono proprio risorse. Pensate all’esempio della California. Lì le classi sociali sono vera-

mente separate tra ricchi e poveri. Nonostante gli sforzi del povero Schwartzenegger.

Penasate, anche, al fatto che, nel periodo della bolla speculativa, il patrimonio personale di Bill Gates, non della Micorsoft, si è ridotto da 60 a 46 milioni di dollari. La mia è una cronaca amorale, non immora-

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le, nel senso che mi astengo dal dire se ciò sia giusto o sbagliato. Con il suo patrimonio personale Gates è liberissimo di intraprende-

re una serie di iniziative, sia a carattere economico che di tipo filan-tropico. La nostra è sempre una questione di ordine etico che presup-pone l’esistenza di una crescita reale. In una ipotetica redistribuzione della ricchezza una 46 milioni di persone con un dollaro a testa, rispet-to a migliaia di piccole imprese, o centinaia di medie imprese, decine di grandi imprese avrebbero effettive difficoltà a gestire un potere di investimento reale.

3) C’è bisogno di persone capaci di inventare e applicare nuove conoscenze.

È chiaro che non tutti quelli che inventano e applicano conoscenze fanno qualcosa di rilevante e ricco di valore aggiunto. Arriviamo al quarto punto che è più legato al mondo dell’Università, ma si sta spo-stando, speriamo, sempre più al mondo dell’impresa.

4) La conoscenza genera le innovazioni tecnologiche di base che moltiplicano la ricchezza concetto collegato al concetto delle “strate-gicità della remunerabilità della ricerca di base”.

Sono concetti collegati perché la tecnologia gioca un ruolo chiave nell’organizzare il sapere, renderlo più veloce e rendere più efficace il sistema di ricchezza economica che c’è dietro. È chiaro che chi consi-dera le conoscenze per generare tecnologie dà un fortissimo contributo alla generazione della ricchezza. Perché si collega alla strategicità del-la remunerabilità della ricerca di base. Perché per fare un software, ad esempio, occorre andare anche per tentativi, occorre uno spirito appli-cativo. Pratico, strategico alla conoscenza. Ma sarei fuorviante se so-stenessi che ogni forma di conoscenza umana diventerà strategica, pratica ed applicabile. I ricercatori, infatti, hanno l’esigenza di “gioca-re”. Lo scienziato rimane un bambino che gioca tutta la vita, perché va per tentativi. Per arrivare, ad esempio, ad una crema antirughe che funzioni permaneti, ne hanno già provate trenta che hanno fallito il ri-sultato. La ricerca di base in un sistema che funzioni deve essere rico-nosciuta e remenurata, mentre molto spesso si commette l’errore di pagare il risultato ottenuto. Per questo motivo la ricerca di base è così compenetrata con la ricerca tecnologica e con tutti gli aspetti sum-menzionati. Pensate a come sono stati ideati i “post it” della 3M. Un semplice errore. L’operatore che doveva ideare una colla destinata a funzioni diverse, si è accorto, casualmente delle potenzialità di un “er-rore” di fabbricazione e da lì si è passati in sviluppo e produzione. Una colla estremamente blanda che era esattamente l’opposto

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dell’obiettivo preposto al dipartimento Ricerca e Sviluppo. Una dimo-strazione dell’importanza della fortuna, anche se è un’eccezione in un campo in cui la ricerca di base non può certamente essere collegata dalla costruzione della ricchezza. Ma anche dell’importanza della re-munerazione e del riconoscimento della ricerca di base rispetto alla ricerca applicata che limita la sperimentazione. Passiamo adesso al quinto punto.

5) C’è bisogno di individui in grado di riconoscere nuove busi-ness ideas e implementarle che si collega al concetto “solo i veri im-prenditori sono veicoli di cambiamento”.

Questa seconda parte contiene anche una buona dose di retorica. Come sappiamo dalle lezioni precedenti il diritto ha una funzione al-locativa importante per le risorse. Per cui quando il diritto rialloca ri-sorse non è imprenditoriale ma, molto spesso, ha un impatto sulla cre-azione e distribuzione di ricchezza molto maggiore di un piccolo im-prenditore che, ad esempio, ha intrapreso una piccola iniziativa. Si parla, quindi, di imprenditori che creano in quantità massiccia valore aggiunto e innovazione. Altri due aspetti importanti sono il sesto e il settimo punto che ci fanno vedere la differenza tra un imprenditore e un non imprenditore.

6) L’imprenditore, o l’organizzazione imprenditoriale, eventual-mente è pronta a cannibalizzarsi per salvarsi.

Immaginate un’azienda che si occupa di tre settori di prodotto di-versi. Il negoziante, imprenditore nel senso giuridico del termine, ma che in realtà è più un intermediatore nel processo cerca di spremere fino all’osso l’attività. È molto raro, però che un dettagliante riesca a riconvertire la propria attività. Il caso più famoso di autocannibalizza-zione è stato la Nokia che, nel giro di sei mesi, ha cancellato tutto il suo personale e lasciato solo il capitale, sommandolo in quella che og-gi è la Nokia e prima era un’azienda specializzata in stivaloni di gomma per pescatori. La Nokia nasce così. Questione di scelte di mercato relative alla business idea dei telefonini, legata alle nuove tecnologie. Non ha chiuso perché le cose andavano male nel settore precedente, ma per il semplice motivo che nel giro di 6 o 7 anni in quel settore sarebbe andato in saturazione, anche se i bilanci erano di-screti.

7) Approfittare degli squilibri. Se c’è una strategia che permette di vedere degli squilibri, dei dise-

quilibri economici in un settore (ci colleghiamo al settimo punto), do-ve ci sono ottimi spazi per gli investimenti, si chiude un’attività solo

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perché non ci sarebbe stato il tempo per seguire il nuovo settore. 8) Chiarezza e tutela della proprietà intellettuale in generale e del-

le forme giuridiche dell’organizzazione. Pensate all’esempio precedente della Microsoft (prima fondazione,

poi azienda). Molto spesso può però essere un’azienda multibusiness che diversifica il proprio portafoglio, a volte può esserci un’organiz-zazione che si smembra giuridicamente per diventare un network di organizzazioni diverse (profit, no profit) per avere l’abito giusto per ogni situazione.

9) Produrre strumenti per investire nel futuro. Da un lato abbiamo strumenti statistico-economici previsionali e/o

di simulazione, dall’altro abbiamo tutto l’impianto di trendsetting cui abbiamo già accennato in precedenza.

10) La fortuna è necessaria, non sufficiente, ma si può creare. Il decimo punto è il più chiaro di tutti. Nel senso che il caso gioca

la sua parte ma il fatalismo non è mai un grande alleato di chi fa il manager, analogamente al discorso trendsetting e al meccanismo di profezia autoavverantesi, un meccanismo potentissimo che “crea” la fortuna.

11) L’organizzazione non è da intendere come mezzo burocratico, ma funziona se ha un contributo importante di creatività.

L’undicesimo punto è il rapporto innegabile tra organizzazione e creatività. Non cascate nella trappola che l’organizzazione sia un mez-zo burocratico, l’organizzazione è un mezzo che funzione se ha un “bel carburante” di creatività. L’esempio che vi ho fatto è quello di Florida e della creative class.

12) Meglio l’inflazione che la deflazione. Meglio un’economia in cui la ricchezza gira, anche a costo di bolle

speculative, piuttosto che una economia nella quale i prezzi sono crol-lati (tipo il Giappone primi anni novanta). È vero che i prezzi sono molto più bassi, ma è anche vero che tutto il resto è crollato: stipendi, salari. La deflazione è un momento di paralisi economica.

13) Nessuno è mai diventato molto ricco risparmiando. Potrebbe contraddire quanto ho detto prima. Se non si innesca il ri-

sparmio c’è un consumo istantaneo, quello che entra esce e non si rie-sce ad accumulare. È chiaro che il risparmio in sé è difficile che crei molta ricchezza se non viene trasformato in investimento, se non è collocato in una strategia di rischio più o meno prevedibile. Si passa da una logica di risparmio ad una logica di investimento. Se non avete risparmiato non potete negoziare su cosa fare dei vostri investimenti, a

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Capitolo III

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meno che non prendiate dei rischi molto alti indebitandovi in maniera massiccia. Cosa che alcuni imprenditori fanno in start up, come Ru-pert Murdoch che ha chiesto in prestito 2 milioni di dollari avendo in tasca 20 dollari.

14) Riconoscere i propri limiti e investire dove i propri limiti non sono rilevanti.

Un pedagogista potrebbe dire sia meglio bilanciare le proprie lacu-ne. Ma quello che è vero per il profilo psicologico di una persona non è vero nel business. Nel business è meglio puntare al massimo sulle cose per le quali si è già portati al massimo. Passiamo al penultimo punto.

15) Capacità di organizzare il capitale sociale e i relativi servizi. Significa che quando si implementa un’attività economica bisogna

mettere insieme una serie di attività apparentemente intangibili ma di innegabile importanza che servono per la gestione emotiva relazionale e psicologica della situazione. Senza arrivare alla ginnastica obbliga-toria per i managers delle aziende giapponesi degli anni ottanta. Giun-giamo così all’ultimo punto.

16) Carriera (criteri giuridici) su scelte e ambizioni generali. Nelle strategie manageriali è fondamentale che sia chiaro il concet-

to di carriera. Voi sapete che l’apparato burocratico universitario ha una sua ge-

rarchia. Un po’ meno rigida di quella militare, ma poco ci manca. I professori universitari sono, tra le altre cose, pubblici ufficiali. La leg-ge, almeno, lo prevede. Nel mondo del settore pubblico le gerarchie sono abbastanza definite. Nel mondo aziendale, un po’ per i cambia-menti nel mondo del lavoro, il concetto di carriera è diventato molto evanescente. Le alternative di carriera di un agente immobiliare sono due: prima lavorare per terzi; poi mettersi in proprio. La differenza sta nel successo che avrà quella iniziativa rispetto ad un’altra.

Ci sono poi le situazioni borderline, i lavori a progetto. Bisogna avere idee chiare su cosa si intende per carriera. Pensate alla costru-zione di una carriera di un regista cinematografico. Avete la possibili-tà di girare un documentario come primo assistente alla regia di un re-gista affermato a livello regionale. Nello stesso tempo, per assurdo, Spielberg vi propone di aiutarlo nella regia, ma vi mette a fare il caffé. Nel primo caso eravate primo assistente, nel secondo facevate il caffé, ma a Spielberg. Il nocciolo della questione quando si lavora per pro-getti richiede degli standard che sono più nella vostra testa, nella vo-stra strategia che nella realtà. Mentre un colonnello, un capitano, un

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sergente oppure un preside e un professore associato hanno una diffe-renza certificata a livello giuridico, la situazione paradossale prece-dente è relativa al vostro piano di manovra, alla vostra agenda, alle vostre priorità. Il manager strategico propone ai suoi collaboratori e stabilisce con loro le regole del gioco. Il collaboratore ha solo il potere di non stare al gioco, o al massimo di proporre qualche regola del gio-co, ma non può stabilire le regole del gioco.

Finché non sarete voi a condurre il gioco vi sarà più facile adattare il vostro stile organizzativo a quello della leadership piuttosto che provare a perseguire il vostro stile.

Tanto più siete lontani dal modello di management o di leadership, tanto più sarà difficile per voi.

Tenete presente, e con questa riflessione ci salutiamo, che nel management strategico il concetto di carriera diventa tanto strategico quanto difficile da formalizzare. Ci sono persone che entrano da subi-to allo stesso livello di un “anziano” ma, quando c’è da decidere, ci sono una serie di contingenze e attori del mondo del lavoro che posso-no influenzare decisivamente il concetto di carriera. Tutto sta nell’individuare, il più velocemente, quale è quel 20% paretiano di no-stri talenti, relazioni, di attività che ci possono coinvolgere per arrivare agli obiettivi che ci siamo prefissi.

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CAPITOLO IV APPUNTI PER UNA TEORIA SOCIOGIUSECONOMICA DEL

MUTAMENTO GLOBALE

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Capitolo IV

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4.1 Un riepilogo a mo’ di premessa

L’algoritmo evolutivo selezionerà in maniera non equiprobabile e invece discontinua tra i 32788 scenari che potrebbe generare fino a de-finire la direttrice funzionale del terzo millennio o almeno di una buo-na parte di esso. Tale selezione implicherà che ogni fatto sociale nel gestirsi come schematismo binario di una biforcazione attiverà mappe strategiche per produrre procedure formalizzate applicabili e, dal pun-to di vista di un osservatore umano, finalizzate anche se l’evoluzione è in se ateleologica.

Nella prospettiva del quadro teorico che sto sviluppando con inten-ti di modellizzazione costruttivista e di cashvalue pragmatico, la map-pa strategica ricorsiva per ogni biforcazione è il KWF mentre i pro-cessi decisionali di ogni step del KWF e del KWF nel suo complesso sono i nove codici binari da me concettualizzati quando ideai il sof-tware CHRP 512 AS per l’analisi dei processi decisionali (Pitasi 2003b: capitolo 6, e Pitasi 2005) sottolineo, i nove codici da me con-cettualizzati non il CHRP 512 AS.

Elenco, come promemoria, i nove codici in questione: avventura /non avventura straniero/non straniero complessità/non complessità costruzione non costruzione edonismo/non edonismo relativismo /non relativismo pragmatismo/ non pragmatismo ordine/disordine autocoscienza/non autocoscienza

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale 141

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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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*Schema1 Knowledge and Wealth Flow (KWF) 1) Conoscenza (C) 2) Procedure di know how (PdiKH) 3) Forme giuridiche della proprietà intellettuale (FGdellaPI) 4) Strategie di comunicazione (SdiC) 5) Strategie di trendsetting (SdiT) 6) Eduinfotainment creativo (EC) 7) Valutazione e misurazione della ricchezza prodotta (VeMdel-

laRP) 8) Costruzione strategica della ricchezza (CSdellaR) **Schema2 CHRP Vediamo i criteri di questa strategia [per una prima elaborazione

cfr. Pitasi 1994 e 2001]: 1. Avventura/non avventura [Simmel 1985]: la vita stessa diviene

un’avventura, ovvero un’isola energetica di vissuti che non han-no una sequenzialità logica o cronologica tra loro, ma soltanto una carica energetica che li attiva o disattiva a seconda della pro-pria intensità. (a/non a)

MAC1
Rettangolo
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Appunti per una teoria sociogiuseconomica del mutamento globale

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2. Straniero/non straniero: l’osservatore è colui che partecipa ad un contesto ma nondimeno rimane consapevole che quel contesto è contingente, anche soprattutto per la propria biografia. (s/non s)

3. Complessità/non complessità: la varietà dei possibili altrimenti eccede le possibilità connettive intrasistemiche, per cui diviene necessaria la selettività. (m/non com)

4. Costruzione/non costruzione: l’osservatore è consapevole di es-sere impossibilitato a cogliere la realtà noumenica e di essere in grado di cogliere solo la realtà fenomenica che la propria specifi-ca autoreferenza può concedergli. (cos/non cos)

5. Edonismo/non edonismo: l’operazione di osservazione elimina autoreferenzialmente ogni possibile via alla sofferenza, e dunque crea un piacere che è in primis assenza di dolore. (e/non e)

6. Relativismo/non relativismo: l’osservatore è conscio della rela-tività del proprio punto di vista ma al contempo sa di essere il centro del proprio specifico mondo, della propria microsfera, contingenza tra altre contingenze. L’osservatore sa anche che la propria «realtà» è contestuale ma che non può modellare il conte-sto, piuttosto può scegliere un contesto più aderente alla propria autoreferenzialità. (r/non r)

7. Pragmatismo/non pragmatismo: l’osservatore è consapevole che il possibile è altamente implosivo senza un’adeguata strate-gia decisionale per decidere l’indecidibile [Luhmann 1990a], e che tale decisione è poggiata sulla verità funzionale del cashva-lue [James 1994]. (p/non p)

8. Ordine/disordine: come nel celebre metalogo batesoniano [Ba-teson 1976] l’osservatore si trova innanzi ad un orizzonte indefi-nito di possibili ordini ed un numero pressoché infinito di possi-bili disordini. Il problema è che ciò che in via contingente è ordi-ne, per l’osservatore è statisticamente una normalissima impro-babilità, per cui l’autoreferenzialità dell’osservatore genera un ordine sempre reversibile, contingente ed improbabile. (o/d)

9. Autocoscienza/non autocoscienza: l’osservatore opera su diffe-renti livelli di realtà, funzionalmente alla propria autocoscienza della propria specifica combinazione di intelligenze multiple [Gardner 1997]. (auto/non auto)

Lo schema sopra illustrato è chiaramente la rappresentazione di un modello concettuale, non è evidentemente una - strettamente matema-tico o altro). Per poter compiere questo salto, che è l’ambizione prin-

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cipale del successivo e ultimo volume della quadrilogia, occorre ad esempio agganciare i concetti del modello ad adeguate definizioni o-perative premesse indispensabili per costruire quegli indicatori dai quali poi elaborare variabili e dati. E quel che peggio è che la costru-zione di un simile impianto concetti-definizioni operative-indicatori-variabili-dati se da un lato è necessario dall’altro è insufficiente ed i-nadeguato ad esempio a causa della temporalizzazione. Mi spiego me-glio: la teoria dei sistemi evolutivi è fondativa del mio lavoro sul mu-tamento globale ma è al contempo una teoria che abbisogna di solide basi sperimentali ed empiriche. Il problema è che sperimentazione ri-cerca empirica non possono essere sociologiche in senso stretto perché una ricerca empirica anche integrata e quanti-qualitatitva sarebbe co-munque incompleta e soprattutto tardiva nei suoi risultati rispetto all’evoluzione dell’algoritmo dennettianamente inteso ovvero ci sa-rebbe il rischio che osservatore, già heisenberghianamente vincolato, ed orizzonte osservato si trovassero ad “anni luce” di distanza e che l’osservatore si trovasse ad osservare un orizzonte già vecchio. L’obsolescenza, soprattutto quando si parla di analisi del mutamento globale, è certamente un punto debole della ricerca empirica. Ogni ti-po di osservazione induttiva è, ad esempio, in tal senso perdente in partenza. Attualmente sulla scorta di Gallino (1992) sto pensando ad un software cognitivo-evolutivo di modellizzazione per simulated evolutionary games (SIMEG) e sto avvalendomi di World03 (quello usato da Meadows-Randers-Meadows 2004, per capirci) come ben-chmark.

4.2 Per una memetica del senso*

Concetto chiave di questo paragrafo è che la risposta alla domanda “Constructivism, Autopoesis, Cybernetics - What’s next?”, posta nel titolo del mio intervento in occasione dell’ISCT World Conference, sia: la struttura epistemologica costruttivista della memetica unisce l’evoluzione culturale e biologica nelle nuove forme post-umane. Au-topoiesi, algoritmi evolutivi, selezioni naturali ed artificiali e molti al-tri concetti radicati nelle origini biologiche della teoria dei sistemi, oggi stanno diventando sempre più rilevanti per indagare più a fondo in un argomento non recente ma di cardinale importanza come le in-fluenze ambientali e genetiche sui costrutti sociali. Utilizzando come risorse chiave D.C. Dennett, R. Dawkins, i lavori della Edge Founda-tion (www.edge.org), Darwin insieme con i contributi di fondamentali

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pensatori costruttivisti come H. von Foerster e Nikllas Luhmann (i quali rappresentano due approcci differenti al costruttivismo e alla si-stemica) questi quadri teorici ambiscono a concettualizzare e costruire i modi in cui i cambiamenti organizzativi, i modelli di leadership e molti altri aspetti delle strutture organizzative complesse possono es-sere assunti quali algoritmi evolutivi i cui modelli non richiedono in-telligenza in teoria; tuttavia, in pratica, considerando anche organizza-zioni umane, dobbiamo far fronte anche alla selezione artificiale e ai suoi modelli “intelligenti”.

Il prossimo passo verso la società postumana, ad esempio, a prima vista deve comportare, un progetto “intelligente” (secondo una pro-spettiva umana) che non è “intelligente” in senso operativo ma si rive-la solo una selezione se osservata teoricamente da una prospettiva si-stemica postumana anche se questo termine è inesatto in quanto la sfi-da oggi è il salto evolutivo dell'umano oltre l'umano.

Ad un primissimo sguardo, si deve considerare questo lavoro come incentrato sul livello epistemologico della ricerca costruttivista: l’epistemologia gioca ovviamente un ruolo chiave in queste pagine, ma questo scritto aspira a trattare alcune idee concrete che riguardano la ricerca applicata. Ad esempio, leggendo la storia del pensiero poli-tico (Hobbes, Locke, Roussau, citando alcuni illustri pensatori del passato), potremmo accettare la fuorviante idea secondo cui natura e cultura siano due “universi paralleli” che in qualche modo assai indi-retto si influenzino a vicenda pur rimanendo separati e presentando caratteristiche differenti.

Alcuni lavori molto recenti e attuali (ad esempio Richerson - Boyd 2005) mostrano chiaramente che natura e cultura sono facce diverse della stessa medaglia chiamata evoluzione: non può esistere evoluzio-ne biologica scissa dalla storia culturale e non può esistere storia cul-turale scissa dall’evoluzione biologica. Non c’è alcun organismo supe-riore ma solo biologia e cultura che appartengono entrambe all’evoluzione del genere umano.

Questa evoluzione organica è una ricombinazione creativa di mo-delli e variabili configurati in algoritimi complessi che potrebbero da-re la falsa impressione all’individuo di essere un “decision maker” completamente libero. Detto ciò non si vuole avallare una visione de-terministica dell’evoluzione, bensì asserire che la libertà dell’individuo nel prendere le proprie decisioni consiste nel stare al passo con questa, integrando teoria e pratica e strategia ed azione nelle caratteristiche principali della propria evoluzione autoreferenziale, co-

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sì che la mente possa costruire modelli capaci di realizzare concreta-mente le proprie idee.

La biologia e la cultura sono entrambe incorporate nel processo evolutivo. La teoria del gene egoista di Richard Dawkins (caratterizza-to dai suoi tre tratti: longevità, fecondità e fedeltà di copiatura) mi sembra cardinale per focalizzarsi sull’idea chiave del mio scritto: c’è qualche differenza tra la selezione naturale e quella artificiale? La mia risposta è no, e la teoria di Dawkins integrata con un approccio epi-stemologico costruttivista è il modo per dimostrarlo. La genetica ha largamente spiegato il lato biologico dell’evoluzione (benché essa sia ancora una scienza che cresce in fretta e non una disciplina che ha gia conquistato un proprio approccio finale), mentre il lato culturale in qualche modo è ancora una “black box”.

Dawkins ha teorizzato la Memetica per spiegarlo, concependo il meme quale equivalente funzionale per l’evoluzione culturale del gene per l’evoluzione biologico-genetica. A mio parere la memetica per-mette di guardare verso il futuro dell’evoluzione del genere umano, ma non funziona ancora perché è impegnata a cercare il meme al po-sto di progettarlo e costruirlo: ecco perchè un’epistemologia costrutti-vista potenzierebbe la memetica più di una ricerca empirico-induttiva, anche perché il concetto di “meme” presenta confini troppo indefiniti (è una canzone? un concetto? un’idea? l’intera produzione letteraria mondiale?). Come possiamo costruire l’unità memetica in termini di longevità, fecondità e copiatura fedele considerando la cultura come una funzione dell’essere umano, come possiamo considerare le diffe-renziazione funzionale del meme che durante il suo processo di repli-cazione genera, per scelta, per sbaglio, o propositamente un meme di-verso che potrebbe generare cioè che, secondo una prospettiva umana, potrebbe essere definito come cambiamento sociale e culturale?

Per evolvere a tutti gli effetti, la memetica dovrebbe sposare la pro-spettiva dell’epistemologia costruttivista, progettando un modello di viabilità dell’unità memetica. Ciò non implica l’assunzione del meme quale, metafisicamente parlando, espressione di un progetto “intelli-gente”, ma è implicito che lungo la catena evolutiva vi sono progettisti (più o meno) intelligenti anche se si crogiolano delle proprie limitate capacità e, sopraffatti dalla “visione tunnel”, non hanno una visione globale di presente, passato e futuro. Non è il caso di discutere in que-sta sede del dibattito creazionismo-evoluzionismo perché la vita è troppo breve per permettere agli esseri umani di sprecare il proprio tempo: si tratta di un falso problema, poiché non vi è alcuna prova che

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attesti l’esistenza di un progettista “intelligente” ed universale, e dan-dola per scontata saremmo conseguentemente forzati ad accettare pas-sivamente tutto ciò che ci viene detto. L’evoluzione favorisce, d’altra parte, la creazione di “trucchi” che po-trebbero essere definiti come costruzioni “intelligenti”: si tratta, so-stanzialmente, delle produzioni neocorticali (ad es. la moda o l’architettura), ossia di creazioni provenienti dalla parte del cervello umano più recentemente sviluppatasi, la neocorteccia appunto, che permette di concettualizzare ciò che non è visibile e, quindi, di produr-re simboli. Si sta assistendo, inoltre, al proliferare di contributi che hanno il fine di capire la creazione di modelli memetici (http://cfpm.org/jom-emit/1998/vol2/edmonds_b.html), ma spesso questi pensano in termini di verifica metodologica mentre l’unità memetica funzionerebbe me-glio come modello di viabilità che genera profezie di autosoddisfazio-ne che sarebbero la migliore testimonianza della sua longevità, fecon-dità e copiatura fedele. In questi contributi è ancora possibile riscontrare la volontà di stimare l’impatto dei cambiamenti apportati dalla memetica in termini di van-taggi/svantaggi per le classi sociali (http://cfpm.org/jom-emit/2001/vol5/boyd_g.html #Blackmore99): personalmente non ri-conosco alcuna funzionalità alla questione ideologica, innanzitutto perché è impossibile prevedere il futuro (a meno che non lo si voglia inventare) e poi perché normalmente dietro predizioni pessimiste circa l’introduzione di innovazioni radicali si nascondono interessi persona-li di difesa del proprio status quo.

La memetica sta crescendo ad un ottimo ritmo (http://www.aleph.se/Trans/Cultural/Memetics/,http://www.memecentral.com/, http://users.lycaeum.org/~sputnik/Memetics/), tanto da avere proprie pubblicazioni e manifesti, ad esempio il “Journal of Meme-tics” è un forum in cui si discute la seguente questione intellettuale: “nelle parole del suo inventore, Richard Dawkins, la parola “meme” si riferisce ad “un’unità di trasmissione culturale” o ad “un’unità di imi-tazione?”. Più precisamente un meme può essere definito come un modello di informazione, trattenuto nella memoria di un individuo o, al di fuori, in un artefatto (libro, disco, giocattolo), che ha alte proba-bilità di essere trasmesso o copiato nella memoria di un altro indivi-duo. Memi sono le idee, le tecnologie, le teorie, le canzoni, le mode e le tradizioni, tutto ciò che insomma copre credenze, valori e compor-tamenti che normalmente sono mutuati dagli altri anzichè scoperti in

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chiave indipendente. La memetica è la scienza teorica ed empirica che studia la replicazione, la diffusione e l’evoluzione dei memi: idea cen-trale è che i memi si differenziano per il loro valore di “fitness”, intesa come adattamento all’ambiente socioculturale nel quale si diffondono. A causa della selezione naturale, i memi adatti avranno più probabili-tà, in termini di successo evolutivo, di essere comunicati, “infettando” un numero più ampio di individui e/o sopravvivendo per un tempo più lungo all’interno della popolazione.

Scopo della memetica è, dunque, capire quali sono le effettive ca-ratteristiche che permettono ai memi “adatti” di vincere la selezione memetica e come questi si trasmettono attraverso individui, organiz-zazioni, culture e società in generale. Il meme, nella sua definizione originale e generica, viene presentato come unità base dell’evoluzione culturale umana: ne consegue che focalizzarsi sulla costruzione dell’unità memetica secondo un approccio epistemologico costruttivi-sta rappresenta il punto di partenza per favorire l’evoluzione di equi-valenti funzionali (secondo la terminologia Luhmanniana) più forti e viabili, così che il “core” della memetica possa rappresentare un e-sempio avanzato della genetica originale, oscurando il potente continuum tra genetica e memetica, evitando di relegare il meme nell’eremo della metafora e di trasformare il trait de union tra genetica e memetica in una specie di disperato tentativo metafisico con il fine di accrescere la fiducia nella scienza (fortunatamente ci siamo lasciati alle spalle i confini del positivismo e della metafisica e non vi è alcun bisogno di farvi ritorno).

Una volta costruita un’unità memetica viabile, il secondo step pre-vede il suo utilizzo a fini dell’evoluzione dell’essere umano: in realtà si può affermare con assoluta certezza che il meme è specificamente umano e l’unità memetica è genericamente postumana in quanto nu-cleo del prossimo salto evolutivo della nostra specie.

In realtà considerare geni e meni come coprotagonisti dello stesso processo evolutivo, implica che i memi sono replicatori ad alta veloci-tà che seguono a propria volta un iter evolutivo al fine di intervenire sulle capacità di adattamento degli esseri umani, migliorandole. Ciò permetterebbe di tracciare un continuum che leghi gli esseri post-umani con gli umani e di comprendere che, in termini filosofici, mora-li ed etici, il passaggio dall’umano al post-umano ha fini meramente evolutivi, benché ciò non implichi l’assenza del rischio: questo è parte intrinseca dell’evoluzione, per cui la sfida non consiste tanto nel ge-stirlo, quanto nel minimizzarne gli effetti (non è possibile eliminare

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completamente il rischio, altrimenti si potrebbe paradossalmente asse-rire che finchè l’aria è inquinata la soluzione ottimale sarebbe quella di smettere di respirare). Ordunque, brevemente, i punti chiave di queste mie riflessioni sono: 1) riconfigurare la memetica in un’epistemologia viabile costrutti-

vista che sia in grado di creare l' unità memetica; 2) l’unità memetica potrebbe configurarsi, per l’evoluzione cultu-

rale, come un’effettiva equivalente funzionale del gene nell’evoluzione biologica;

3) l’unità memetica andrebbe ad agire sul gap esistente tra evolu-zione biologica e storia culturale, elementi in passato considera-ti erroneamente separati;

4) l’unità memetica sarebbe anche la migliore dimostrazione del mutamento sociale e culturale così come la genetica lo è dell’evoluzione biologica;

5) ciò andrebbe a testimoniare che non è esistito alcun creazioni-smo poiché non vi sono forme e modelli immutabili ed eterni;

6) se tutto è in evoluzione, allora la domanda da porsi è se questo processo dinamico è libero o rigidamente determinato. Le opere di Dennett (1997, 2004) a proposito dell’algoritmo evolutivo e del falso problema circa libertà/determinismo, costituiscono la prospettiva concettuale che io considero maggiormente viabile. Gli algoritmi evolutivi sono intrinsecamente deterministici co-me un orizzonte di variabili, tuttavia la “scelta” di una variabile al posto di un’altra tra quelle previste dall’orizzonte rappresenta il livello viabile di libertà. A tal proposito, è di cruciale impor-tanza ricordare che né i geni né il genoma sono ciò che i biologi tedeschi del XIX secolo hanno chiamato Bauplaene, poiché en-trambi non sono modelli stabili ed immutabili di entità specifi-che; infatti geni, genoma e ambiente evolvono in uno scenario dinamico e complesso di costrutti condizionali “if/then”: non vi sono modelli o entità metafisiche, immutabili ed eterne (Marcus 2006) ma solo selezioni di varietà di tali costrutti, ed il signifi-cato di queste selezioni dipende dal potere della cornice costrut-tivista;

7) nel caso dei processi decisionali degli esseri umani, la “scelta” tra variabili è un modello replicato del gene egoista (Selemy, 2004) funzionalmente potenziato dall unità memetica equiva-lente. Dunque non si deve assumere unicamente la cultura come specchio della biologia, ma anche il meme come replicatore dif-

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ferenziato del gene egoista, le cui differenziazioni funzionali conducono ad una selezione artificiale di modelli genetici;

8) la costruzione dell’unità memetica è il punto di partenza per collegare la trasmissione dell’informazione biologico – geneti-ca, e la trasmissione dell’informazione culturale nel nuovo sce-nario bioeconomico egregiamente descritto da Stan Davis (http://www.amazon.com/gp/explorer/1400046416/2/ref=pd_lpo_ase/104-9991616-1436703);

9) la bioeconomia rappresenta lo scenario potenziale nel quale es-seri post-umani ed organizzazioni posssono evolevere solo qua-lora:

a) l’unità memetica venga effettivamente costruita; b) la memetica sia effettivamente capace di gestire e coman-

dare la grande varietà di variabili richiesta (anche sul fronte genetico) per modellare gli esseri umani; il salto evolutivo che porterà al post-umano dipende proprio da questa capacità di trovare la procedura adatta a dominare più variabili ad un tempo, riducendo l’impatto del princi-pio di indeterminazione di Hesenberg.

A mio parere, sarà l’evoluzione dei punti chiave 9a e 9b a dirci concretamente “what is next”, cosa dobbiamo aspettarci in futuro ma, più in generale, la grande metasfida consisterà nell’individuare i memi all’interno dei processi decisionali dei nove codici previsti dal CHRP 512 As, a loro volta inseriti negli otto steps del KWF, a sua volta inse-rito come mappa strategica entro le biforcazioni dell’algoritmo evolu-tivo.

*Questo paragrafo è una traduzione del mio intervento per la ISCT World Conference dal titolo: Constructivism, Autopoesis, Cybernetics – What’s next? di Vienna del Novembre 2006, il mio intervento da programma si intitolava: ARTIFICIAL SELECTIONS: (RE) CONSTRUCTING DARWIN'S HERITAGE FOR THE EVOLUTIONARY SYSTEM THEORY ON THE DOORSTEP OF THE POST HUMAN AGE.

4.3 Uno sviluppo sostenibile e un taxista tailandese

Se si vuole considerare i prossimi salti evolutivi attraverso la se-mantica e la logica del senso comune, ci si trova subito di fronte ad un modello piuttosto manicheo di persuasione (che ho ampiamente de-scritto in precedenza, in Pitasi, 1997, 1999, 2003b) nella fattispecie

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composto da una visione apocalittica, tragica da “fine del mondo” ap-punto, per i vizi del genere umano di distruggere a gran velocità risor-se non rinnovabili. Oppure una visione paradisiaca di un mondo eco-logicamente redento, responsabile, sostenibile.

Dissolvenza. Bangkok, Gennaio 2000. Salgo al volo su un taxi, l’autista è gentile ma mi guarda un poco storto, gli indico l’Hotel dove alloggio e dove debbo appunto tornare. Vuole conversare e mi dice “Gran bell’Hotel e per voi Occidentali, assai a buon mercato col cam-bio così favorevole…” il tono della sua voce è gentile, pacato ma per niente amichevole. “Beh, si ma la vostra economia è di giorno in gior-no più forte e la lotta alla povertà qui da voi sta dando i suoi frutti an-che se ancora c’è da fare” gli rispondo…. “è vero, basta solo che il nostro governo non si faccia fregare da tutte quelle str… ecologiche e ambientaliste, qua vogliamo sviluppo, ricchezza… come del resto ave-te fatto voi Occidentali che adesso per frenare noi e mantenere il pote-re sui mercati mondiali, invocate l’ambiente e l’ecologia…” mi dice sempre in modo gentile ma con modi sempre meno amichevoli…. Non ho voglia di discutere di strategie economiche globali sia perchè la situazione è assai più complessa di quello che il mio taxista imma-gina, sia perchè al livello di senso comune tutti torti non li ha. Noi oc-cidentali siamo un poco quelli che hanno avuto avventure galanti per tutta la nostra giovinezza e vita adulta e poi ormai vecchi e impotenti predichiamo agli altri la castità. Mah. Qualcuno obietterà che è solo un aneddoto…. che rappresentatività e rilevanza statistica può avere? Assai poca, confermo, tuttavia, se questo taxista è un caso isolato chi mi sa spiegare perchè sono finiti in niente di fatto i due vertici mon-diali di Rio de Janeiro (1992) e di Johannesburg (2002)? Inoltre, chi sa spiegarmi la crescente diffidenza verso certe realtà ecologista (mica tutte, generalizzare è sempre rischioso e foriero di imprecisione) diffi-denza che ha avuto nel romanzo high concept (sottolineo, high con-cept) “Stato di paura” di Crichton il suo stendardo presso l’opinione pubblica mondiale? Inoltre, che dire degli innumerevoli alberi distrutti per pubblicare volantini, locandine, libri, brochure di movimenti eco-logisti di mezzo mondo e di dubbia efficacia ma sempre pronti ad ac-cogliere finanziamenti pubblici (e non solo). Di robaccia inutile, su-perficiale ed inattendibile in materia ecologica e di sviluppo sostenibi-le se nè è messa in circolo anche troppa ecco perchè occorre fare rife-rimento solo a fonti attendibili e scrupolose, intelligenti e ben docu-mentate come l’ormai celeberrimo Rapporto Meadows al Club di Ro-ma (giunto alla terza edizione riveduta, aggiornata e ampliata; la pri-

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ma è del 1972, la seconda del 1992 e la terza alla quale farò riferimen-to, del 2004 di cui ho consultato l’edizione spagnola del 2006). Se-condo questo Rapporto (Meadows - Randers -Meadows, 2006: 413-440), gli strumenti per uno sviluppo sostenibile sono:

1) l’informazione perché sia stimolante, rilevante, esatta, oppor-tuna, accuratamente selezionata e, infine, potente;

2) la visione strategica; 3) il coordinamento di rete; 4) la verità; 5) l’ apprendimento; 6) l’ amore. Il rapporto suddetto è uno dei più autorevoli al mondo, nondimeno

quando offre la cassetta degli attrezzi per lo sviluppo sostenibile a trat-ti pecca, a mio parere, di ingenuità, cercherò di riprendere i punti 1-6 e di discuterli in tal senso seppur io, in via tendenziale, li condivida.

1) Informazione e 4) Verità sono indissolubilmente collegati, possono funzionare se si ha come obiettivo la riduzione massima dell’asimmetria informativa per trasparenza reciproca e se per verità s’intende accessibilità a metodi che costruiscano conoscenza viabile e applicabile. Se invece informazione e, soprattutto, verità vengono on-tologizzate e consegnate a dibattiti etico-morali allora il rischio di cre-are nuovi Savonarola aumenta a dismisura.

2) Condivido appieno e in questo senso l’opportunismo di breve (ad esempio dei Paesi Arabi nel mandare in orbita il prezzo del petro-lio nel 2005 approfittando del fabbisogno di risorse per Cina, Brasile e India per svilupparsi o nel riprodursi biologicamente a un ritmo ben superiore dei 2 figli per coppia, ritmo adeguato invece alla sostenibili-tà) è un buon indicatore di come i processi decisionali potrebbero o-rientare l’opzione evolutiva tra gli scenari in quanto le scelte opportu-nistiche di breve esasperano la crescita (ad esempio della popolazione araba mondiale) ma distruggono lo sviluppo (si troveranno forse ad essere l’etnia più numerosa in un mondo assai povero e conflittuale ove si combatterà per un tozzo di pane, furbescamente avvolto da mi-sticismo religioso per chiudere gli occhi davanti allo squallore allora dilagante). L’occidente capitalista, a sua volta sta “suicidandosi” cre-ando o colossi finanziari (tramite fusioni, incorporazioni e abbondanti finanziamenti pubblici, specialmente laddove regna la Sozialmar-ktwirtschaft ecc.) sempre più simili a superstati e quindi modelli della razionalità burocratica nelle sue forme più attuali oppure sta generan-do lifestyle enterprises (piccole imprese, botteghe, piccoli studi di li-

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beri professionisti ecc.) che ragionano su profitti e obiettivi di breve-medio termine, standardizzazione di clienti, fornitori, tasse e redditi e quindi routine perché sotto sotto un grande successo che dovesse por-tare ad un ampliamento della struttura organizzativa sarebbe visto as-sai più come un rischio e una minaccia che un’opportunità. Le life-style enterprises, non avendo un impianto evolutivo, sono, sui grandi numeri, destinate a soccombere dato che la stragrande maggioranza delle “partite iva” alla fine cercherà probabilmente lavoro in una qual-che grossa realtà aziendale-finanziaria (di stato o meno) e troverà nel posto fisso a stipendio standard la sua naturale collocazione. Quello che il capitalismo occidentale (soprattutto europeo) non riesce più a creare è un’impresa evolutiva basata tendenzialmente sull’economia “reale” e non su bolle finanziarie.

3) Il coordinamento di rete richiede a mio papere un ampio inve-stimento tecnologico sulle ICT, sulla economia information rich e knowledge intensive ben sapendo però che la logica di rete è da inten-dere anche ma non solo nella sua eccezione tecnologica. Rendere sempre più profittable e-commerce, e-business, e-learning ecc. può avere un senso nella misura in cui l’intelligenza è si diffusa in rete ma sempre più concentrata in macchine che richiedano dinamiche molto user friendly metaforicamente in stile “you push the botton, we do the rest”. Il coordinamento in rete, se sempre più stabilizzato e non aleato-riamente weickiano, potrebbe diventare una chance per creare imprese evolutive. In un’economia sempre più “reale”. Un altro tassello dello sviluppo è il già menzionato passaggio d’epoca dall’economia del pe-trolio a quella del nucleare blended, solo infatti con queste nuove for-me tecnologico-energetiche si potrà avere sviluppo sostenibile e non mera crescita “bulimica” di breve destinata ad essere vittima di, ap-punto, rischiosi opportunismi di breve termine.

4) Vedasi quanto ho scritto di commento ai punti 1 e 4 congiun-tamente.

5) Apprendimento: anche qui occorre ben distinguere tra crescita e sviluppo.

Ritengo che la scolarizzazione obbligatoria di massa, diciamo spin-ta anche fino alla fine delle superiori e non solo fino alla terza media come era quando io ero seduto sui banchi di scuola, sia un fenomeno positivo nella misura in cui offre l’alfabetizzazione informativa, la Bildung minima e il minimo know how tecnologico per l’epoca e in prospettiva di medio-lungo purché vi sia un upgrading permanente so-stanziale. Sono sempre stato contrario invece alla massificazione dei

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titoli di studio facoltativi dalla laurea in su - in quanto essi dovrebbero essere lo stargate per i vertici evolutivi, dinamici, creativi e creatori della società a livello imprenditoriale, istituzionale, scientifico ecc. -Inflazionare i titoli “alti di studio” a livello scolastico è l’equivalente funzionale della lifestyle enterprise e del popolo dell’iva: tutti for-malmente esperti superqualificati i primi, tutti importanti professioni-sti e imprenditori i secondi, tutti sostanzialmente disoccupati e sottoc-cupati entrambi con un massiccio bumping effect inflattivo e dequali-ficante (si veda il discutibile caso italiano della legge 509/99, cosid-detta “Laureare l’esperienza”) laddove in nome della crescita di breve si sono distrutte e inflazionate risorse di medio-lungo.

6 ) L’amore. A questo riguardo non mi dilungherei, mi limiterei invece a conte-

stualizzare questo concetto nella mente di principiante dello Zen (cosa che i Meadows non fanno, a scanso di equivoci) ovvero “la via mi-gliore è praticare e basta, senza dir niente” (Suzuki, 1976: 73). Il mo-dello dello sviluppo sostenibile, comunque diventa una goccia nell’oceano se si pensa alla complessità dell’algoritmo evolutivo che sta orbitando sul e sta risucchiando il nostro tempo.

4.4 Verso il software evolutivo EG 32788 e una riflessione sulla funzione strategica della scienza

Sin dall’apertura di questo volume ho illustrato, seppur sintetica-mente, i tratti caratterizzanti l’epistemologia sottesa a questo mio la-voro intellettuale. In base ad essi, la scienza:

a) funge dunque da generatrice di varietà; b) modula biforcazioni ad alto valore aggiunto e sostenibili sul

lungo periodo; c) interpreta la propria funzione in termini kuhnianamente rivo-

luzionari; d) sistematizza e moltiplica (nel senso macroeconomico del ter-

mine) know how proceduralizzato, formalizzato e applicabile esemplarmente in forma di software;

e) funge da creatrice di cash value pragmatico; f) funge da attivatore di piattaforme tecnologiche di innovazione

radicale schumpeterianamente intesa. In particolare, come anzidetto, questa epistemologia latente mira a

valorizzare la formazione di menti scientifiche sistemiche pragmatiche (Gallino 1992: 9) in grado di gestire un’adeguatamente complessa e

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turbolenta concezione evolutiva delle organizzazioni umane (Laszlo e Laszlo, 1996). Dunque la connotazione evolutiva è una di quelle in grado di fare la differenza anche perchè secondo l’epistemologia evo-lutiva, nella sua prestigiosa variante piagetiana, “ogni atto di cogni-zione ha un fondamento biologico modellato dall’evoluzione per sele-zione naturale” (Gallino, 1992: 15). Lo sviluppo di una simile episte-mologia evolutiva abbisogna a mio parere tanto di interpenetrarsi con alcune discipline quanto di purificarsi dall’influenza di altre per que-sto motivo non assolutezze rei il codice interpenetrazione /purificazione (di cui parla Gallino 1992: 31-32) ma lo relativizzerei rispetto ai differenti referenti disciplinari. Ad esempio, grazie alla fondamentale lezione ardigioana (Ardigò, 1988) su heisemnberg, Tar-ski e Goedel, sono da allora convinto che l’unica vera arte del pensie-ro puro venga dalla fisica e dalla matematica. In questo senso condivi-do con Gallino (1992: 163-165) l’idea di un’epistemologia naturalista per le scienze sociali che punti verso una sintesi moderna di matrice evoluzionista in grado quindi di sistematizzare scienze sociali e natu-rali seppur al ragionevole costo di svuotare di contenuto le prime (Gallino, 1992: 166-168). Questo svuotamento, tuttavia, non deve comportare invettive dei pensatori più tradizionalisti circa presunte “crisi della modernità”, “crollo dei valori”, “perdite culturali” e “tra-monti di civiltà”. Questo svuotamento è infatti, a mio avviso, premes-sa dell’evoluzione sociale in quanto palesa che il senso soggettiva-mente, intersoggettivamente e sistemicamente inteso dipende dal con-senso pragmatico e non da assoluti di sorta. Che potrebbero impanta-nare l’evoluzione sociale nelle letali sabbie mobili dell’ontologia e, ancor peggio, della metafisica o intrappolare l’evoluzione nell’aracnide e mortale ragnatela dell’etica nelle sue più torve prescrit-tive varianti. Le trappole dell’ontologia, dell’etica e della metafisica vanno evitate anche per evitare rigidi confini tra discipline come se esse fossero entità concrete con confini fisici rigidi ed impenetrabili. In questo senso la lezione foucaultiana sull’ordine del discorso, lezio-ne che ho illustrato nel primo capitolo, è davvero magistrale. Ecco perché coerentemente con Gallino e proseguendo sulla scorta del mio volume precedente (Pitasi 2003) reputo strategica per uno scienziato una mentalità pragmatica. Il sociologo torinese la descrive nitidamente infatti “essa considera la scienza naturale e le singole discipline umane e sociali alla stregua di strumenti volti, ciascuno, a indagare un aspetto diverso dello stesso universo. Non esiste tra di essi un ordinamento gerarchico, ciò vale non solo in riferimento alle scienze socio-umane

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Capitolo IV

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raffrontate alle scienze naturali, ma anche in rapporto a campi che passano di solito per essere non affatto scientifici ad esempio la lette-ratura, l’etica o le arti” (Gallino 1992: 190). Questa mentalità si sposa ottimamente col feyerabendiano “anything goes” a cui ho dedicato più passaggi (Pitasi 2003). Le mie riserve sull’etica, la metafisica o sull’ontologia non derivano dal non essere scientifiche bensì dal non funzionare nella produzione del cashvalue jamesiano. Inoltre, ripren-dendo sempre la magnifica lezione del sociologo torinese (Gallino 1992: 197-208), reputo importante la sua riflessione sull’unificazione multidimensionale (ontologica, epistemologica, metodologica, nomo-logica, semantica e professionale) delle scienze e la condivido quasi completamente ove il quasi è, come si può facilmente intuire da quan-to ho scritto in precedenza, sul piano ontologico in quanto sono molto diffidente verso i processi di ontologizzazione a meno che essi non re-stino ad un livello jamesianamente pragmatico. L’unificazione delle scienze nella scienza è premessa indispensabile per la sua riproduzio-ne affinché non diventi mera ideologia, o “politica camuffata”, impu-tridendosi nella genericità dell’incompetenza e nell’incompetenza del-la genericità (Horowitz,1993). Proprio Gallino ci offre una grande le-zione sulla riproduzione della scienza “non vi è processo nell’universo scientifico che sia travisato sottovalutato dagli stessi attori che più e-nergicamente lo perseguono quanto la riproduzione socioculturale del-la scienza. Riprodurre significa, in sostanza, allevare discepoli che condividano in dettaglio la mentalità scientifica del maestro e si impe-gnino perciò lealmente a portarla avanti quando a loro volta divente-ranno maestri nella loro disciplina. Questo processo è causa dei più aspri conflitti che sia dato osservare e in cui può accadere di restare coinvolti in tutte le istituzioni scientifiche a cominciare dall’università. (…) Qualsiasi nuova scienza (...) che aspiri ad affer-marsi nell’estabilishment deve dimostrare di avere una propria indivi-dualità e una triplice identità cognitiva, sociale storica (…) vinta la sua battaglia (…) deve restare aderente alle forme di individualità e identi-tà che alla fine si sono imposte. La via più sicura consiste nel formare allievi devoti, a qualunque prezzo” (Gallino, 1992: 251) non bisogna però cadere nell’equivoco che identità e individualità siano in antitesi all’unificazione interdisciplinare. Le prime sono premessa della se-conda affinché si abbia appunto un’autentica unificazione non un guazzabuglio di sincretismi (Cipolla, 1988) ecco perchè, come scrive giustamente Gallino (1992: 282) “quando due esperti appartenenti a domini diversi faticano a cooperare allo stesso progetto, ciò non acca-

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de perché ormai entrambi sono andati troppo a fondo nelle rispettive cognizioni specialistiche ma perché ciascuno dei due ha una cono-scenza troppo superficiale dei processi che comportano la produzione e comunicazione di cognizioni”. Infine, un approccio unificato e mul-tidisciplinare, se davvero costruito ed evoluto strategicamente, do-vrebbe essere così potente che “ne dovrebbe scaturire un nuovo sche-ma, un nuovo orientamento mentale che darà modo ad ogni specialista di trovare più facilmente la via giusta per intrattenere un efficace dia-logo transazionale con qualunque altro specialista. Questa forma men-tale avrebbe a fondamento un nuovo tipo di libertà. La libertà di mo-dellizazione (…). Insomma, questo tipo di mente sarebbe quasi illimi-tatamente plastico e geloso di questa sua prerogativa. (….) Alla possi-bilità e alla speranza che si sviluppi quest’apertura e plasticità cogniti-va e collettiva della mente è dedicato questo saggio” (Gallino, 1992: 282-283).

4.5 Epilogo: Sistemi socio giuridici nell’orizzonte bioeconomico

La funzione allocativa del diritto gioca dunque un ruolo strategico per lo sviluppo di un catalogo planetario di diritti tra i quali fare shopping in condizioni di reciprocità, sostanziale - seppur sempre im-perfetta - simmetria informativa attraverso procedure di tendenziale azzeramento di moltiplicatori simbolici e dunque in condizioni di cre-scenti immediatezza e trasparenza. da questo punto di vista è bene rammentare che il SIMEG 322788 è un sistema reale, ancorché in fase progettuale, con ambizioni analitico descrittive di sistemi che esistono realmente oltre che pragmaticamente. Ma come si parla di sistemi che esistono realmente in un volume di matrice costruttivista-pragmatico? obietterà il lettore poco addentro al costruttivismo. Lascio rispondere ad uno dei più grandi maestri e teorici del costruttivismo, Niklas Lu-hmann che apre il primo capitolo di Sistemi Sociali con le seguenti pa-role: “le considerazioni che svolgeremo partono dal presupposto che i sistemi esistono. Esse non si aprono, quindi, con un dubbio gnoseolo-gico né fanno propria la posizione difensiva di chi attribuisce alla teo-ria sistemica una rilevanza puramente analitica. A maggior ragione e-viteremo di interpretare la teoria dei sistemi in modo limitativo quale puro e semplice metodo di analisi della realtà. Un enunciato non va, ovviamente, confuso con i propri oggetti; occorre essere consapevoli del fatto che un enunciato è solamente un enunciato e che gli enunciati scientifici altro non sono che enunciati scientifici. Ma essi si riferisco-

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Capitolo IV

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no, almeno nel caso della teoria sistemica, al mondo reale. Il concetto di sistema denota quindi qualcosa che è realmente un sistema e si as-sume con ciò la responsabilità di vedere confermati dalla realtà gli e-nunciati che formula” (Luhmann, 1990a: 81). Ecco dunque palesarsi l'idea che SIMEG 32788 sia un sistema reale e che abbia funzione analitico-descrittive nel vedere, entro l'algoritmo evolutivo, la funzio-ne allocativa del diritto incide sulle probabilità dei molteplici scenari potenziali di divenire a loro volt reali. Un ottimo esempio a riguardo ci viene dall'orizzonte bioeconomico entro cui la funzione allocativa del diritto si muove, anche se essa si muove anche su altri orizzonti. Mi spiego meglio anche attraverso una chiarificazione terminologica. Il significante bioeconomia “possiede almeno due significati differen-ti, non antitetici ma sufficientemente distanti da giustificare la mia chiosa.

1) Un primo significato è quello attribuitogli da Nicholas George-scu Roegen nel volume Bioeconomia - verso un’altra economia eco-logicamente socialmente sostenibile - apparso in Bollati Boringhieri (2003) ove appunto il significato del termine è ottimamente esplicitato dal sottotitolo. Seppur con le dovute limature, grosso modo questo si-gnificato del termine è riconducibile ai modelli concettuali che ho già discusso in precedenza riprendendo il trentennale lavoro dei Meadows e dei loro collaboratori (Meadows- Randers- Meadows, 2006).

2) Il secondo significato è quello conferitogli dal libro di Myers e Davis (2003) come nuova economia emersa dalle interfacce tra bioin-gegneria, scienze informatiche delle telecomunicazioni e nuove strate-gie knowledge intensive d’information rich di business. Ovviamente nel mio volume il significato portante di bioeconomia è proprio questo ma anche con un occhio analitico sui possibili impatti ecologici di questa bioeconomia. A mio parere dunque l'orizzonte bioeconomico è quello di Myers e Davis anche allo scopo ecologico di Georgescu. In-fatti la bioeconomia in questo secondo significato può essere analizza-ta anche solo attraverso T=R/W per comprendere come queste nuove interfacce, alle adeguate condizioni evolutive, possano innescare mu-tamenti globali in controtendenza rispetto alle attuali minacce ecologi-che. Ma questo è già un altro libro.

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Finito di stampare nel mese di giugno del dalla «ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.»

Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, per conto della «Aracne editrice S.r.l.» di Roma