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1 TENSIONE SUPERFICIALE La tensione superficiale è un fenomeno alla cui esistenza possiamo risalire dall'osservazione di molti fatti sperimentali. Ad esempio una goccia d'olio d'oliva, posta in una miscela di acqua e alcool di densità eguale a quella dell'olio, assume una forma sferica. La goccia può essere deformata con piccole sollecitazioni, ma appena abbandonata a se stessa riassume la forma sferica. L'esperienza mostra inoltre che la superficie libera di un liquido, in prossimità dei bordi del recipiente che lo contiene, assume una concavità verso l'alto o verso il basso, con un angolo di raccordo che dipende dal liquido e dal materiale con cui è fatto il recipiente. Numerosi altri esempi potrebbero essere ricordati, come il galleggiamento degli insetti sulla superficie dell'acqua o le bolle di sapone. Consideriamo il liquido contenuto nel recipiente di fig.1. Fra le molecole di un liquido agiscono delle forze di coesione (attrattive), più deboli di quelle che impongono ai solidi una forma propria, ma più forti di quelle che permettono ai gas di assumere la forma e il volume del recipiente che li contiene. I liquidi infatti hanno un volume proprio, ma assumono la forma del recipiente che li contiene; tuttavia, in alcuni casi la superficie libera del liquido, a causa di tali forze di coesione, assume una forma propria. In figura 1 su ogni molecola agiscono forze attrattive (di coesione) dovute a tutte le molecole vicine, forze che decrescono rapidamente con l'aumentare della distanza. In particolare ogni molecola viene attratta dalle molecole che si trovano entro la sfera di azione molecolare (il cui raggio massimo è di circa 100 nm). Le due molecole in figura, la cui sfera di azione è completamente interna al liquido, sono in equilibrio perché è nulla la risultante di tutte le forze che si esercitano su di loro. Nel caso della molecola in superficie una parte della sfera d'azione delle forze di coesione si trova in aria. E' evidente che su tale molecola si esercitano anche forze attrattive dovute alle molecole dell'aria sovrastante (forze di adesione), ma tali sono forze più deboli di quelle di coesione; infatti nel disegno sono state tracciate forze di intensità minore e con sfera di azione di raggio minore (n.b.: la proporzione fra le lunghezze dei vettori in acqua e in aria è arbitraria). Perciò, su tutte le molecole che si trovano in prossimità della superficie libera del liquido la risultante delle forze attrattive è diversa da zero come mostrato in figura 1: le molecole all'interfaccia liquido-aria sono attirate verso l'interno del liquido e per portare molecole in superficie è necessario compiere lavoro. Esiste in sostanza una tensione superficiale che tende ad opporsi ad ogni aumento della superficie libera del liquido, che quindi assume all' equilibrio una forma caratterizzata dalla minima area e dalla minima energia potenziale. Un esperimento che mette in evidenza la direzione e il verso delle forze dovute alla tensione superficiale è descritto in fig.2: acqua aria R R=0 R=0 Fi g. 1 a b Fi g. 2

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TENSIONE SUPERFICIALE

La tensione superficiale è un fenomeno alla cui esistenza possiamo risalire

dall'osservazione di molti fatti sperimentali.

Ad esempio una goccia d'olio d'oliva, posta in una miscela di acqua e alcool di densità

eguale a quella dell'olio, assume una forma sferica. La goccia può essere deformata con

piccole sollecitazioni, ma appena abbandonata a se stessa riassume la forma sferica.

L'esperienza mostra inoltre che la superficie libera di un liquido, in prossimità dei bordi del

recipiente che lo contiene, assume una concavità verso l'alto o verso il basso, con un

angolo di raccordo che dipende dal liquido e dal materiale con cui è fatto il recipiente.

Numerosi altri esempi potrebbero essere ricordati, come il galleggiamento degli insetti

sulla superficie dell'acqua o le bolle di sapone.

Consideriamo il liquido contenuto nel recipiente di fig.1. Fra le molecole di un liquido

agiscono delle forze di coesione (attrattive), più deboli di quelle che impongono ai solidi

una forma propria, ma più forti di quelle che permettono ai gas di assumere la forma e il

volume del recipiente che li contiene. I liquidi infatti hanno un volume proprio, ma

assumono la forma del recipiente che li contiene; tuttavia, in alcuni casi la superficie libera

del liquido, a causa di tali forze di coesione, assume una forma propria.

In figura 1 su ogni molecola agiscono forze attrattive (di coesione) dovute a tutte le

molecole vicine, forze che decrescono rapidamente con l'aumentare della distanza. In

particolare ogni molecola viene attratta dalle molecole che si trovano entro la sfera di

azione molecolare (il cui raggio massimo

è di circa 100 nm).

Le due molecole in figura, la cui sfera di

azione è completamente interna al

liquido, sono in equilibrio perché è nulla

la risultante di tutte le forze che si

esercitano su di loro. Nel caso della

molecola in superficie una parte della

sfera d'azione delle forze di coesione si

trova in aria. E' evidente che su tale

molecola si esercitano anche forze

attrattive dovute alle molecole dell'aria

sovrastante (forze di adesione), ma tali

sono forze più deboli di quelle di

coesione; infatti nel disegno sono state

tracciate forze di intensità minore e con

sfera di azione di raggio minore (n.b.: la proporzione fra le lunghezze dei vettori in acqua e

in aria è arbitraria). Perciò, su tutte le molecole che si trovano in prossimità della superficie

libera del liquido la risultante delle forze attrattive è diversa da zero come mostrato in

figura 1: le molecole all'interfaccia liquido-aria sono attirate verso l'interno del liquido e

per portare molecole in superficie è necessario compiere lavoro. Esiste in sostanza una

tensione superficiale che tende ad opporsi ad ogni aumento della superficie libera del

liquido, che quindi assume all' equilibrio

una forma caratterizzata dalla minima area e

dalla minima energia potenziale.

Un esperimento che mette in evidenza la

direzione e il verso delle forze dovute alla

tensione superficiale è descritto in fig.2:

a cq u a

a r ia

R

R=0R=0

→→

Fig.1

a b

Fig.2

2

sulla lamina liquida delimitata dal telaietto rigido viene posato un leggero filo chiuso ad

anello, e ripiegato in modo qualsiasi (a); con uno spillo si rompe la membrana racchiusa

dal filo, che subito assume forma circolare (b). Ora all'interno della circonferenza si trova

l'aria ed all'esterno la lamina liquida che evidentemente tiene teso il filo con forze dirette e

orientate come indicato in figura (tangenti alla lamina liquida, dirette perpendicolarmente

al contorno e orientate verso la lamina stessa).

Per definire operativamente la tensione superficiale possiamo ricorrere a un telaietto con

un lato scorrevole (fig.3) sul quale sia stata depositata una lamina liquida molto sottile.

F

A

B

l

A

B

a) b)

F

∆x

l

Fig.3

Il lato AB di lunghezza l può scorrere liberamente sul telaietto rigido e la forza F applicata

è necessaria per equilibrare le forze di tensione superficiale e quindi per mantenere

invariata la superficie della lamina liquida (fig.3a). A parità di area del telaietto, variando

la lunghezza del lato scorrevole, si vede sperimentalmente che la forza necessaria per

mantenere l'equilibrio varia in maniera direttamente proporzionale ad l, mentre

mantenendo costante l e variando la superficie della lamina la forza F non cambia.

Aumentiamo ora di una quantità infinitamente piccola e per un intervallo di tempo

infinitamente breve l'intensità della forza F in modo da mettere in movimento il lato

mobile AB e manteniamolo poi in movimento con velocità costante riportando la forza al

valore F che equilibra le opposte forze di tensione superficiale; se AB si sposta di un tratto

∆x, la superficie della lamina aumenta di ∆s = 2l ∆x (il fattore 2 sta ad indicare che la

lamina liquida ha due facce e che la superficie di ciascuna aumenta di l ∆x) ed il

corrispondente lavoro è ∆L = F∆x.

E' evidente che aumentando ∆S aumenta ∆L: sperimentalmente si trova che le due

grandezze sono direttamente proporzionali; sarà quindi:

1) τ = ∆L∆S

I1 coefficiente di proporzionalità ττττ prende il nome di tensione superficiale.

Esso rappresenta il lavoro necessario per l’aumento unitario di superficie della lamina

(oppure l’energia potenziale dell’unità di superficie libera) e nel sistema S.I. si misura in

J/m2.

Ricordando che ∆L = F∆x e ∆S = 2l ∆x si può anche scrivere: F∆x = τ.2l ∆x

da cui si ottiene:

2) τ = F / 2l

3

Quindi la tensione superficiale si può anche definire come la forza agente per unità di

lunghezza del contorno della lamina e nel sistema S.I. si misura in N/m. Dall'esperimento

descritto in fig.2 si nota che tale forza è tangente alla superficie libera del liquido e

perpendicolare al contorno. Tornando alla figura 1 è chiaro che la tensione superficiale di un liquido all'interfaccia di

due mezzi dipende dalla natura di entrambi i mezzi, infatti, considerando di nuovo la

molecola in superficie, la risultante delle forze che attira tale molecola verso l'interno del

liquido dipende sia dalle forze di coesione (che si esercitano fra le molecole del liquido) sia

dalle forze di adesione (che si esercitano fra le molecole del liquido e quelle del mezzo con

cui il liquido si trova a contatto, aria in questo caso).

La tensione superficiale di un liquido diminuisce all'aumentare della temperatura e può

cambiare notevolmente se nel liquido sono presenti anche solo piccole tracce di sostanze

disciolte. Per es. l'acqua saponata ha una tensione superficiale inferiore a quella dell'acqua

pura: per questa ragione si ottengono facilmente lamine e bolle di acqua saponata, mentre

con acqua pura esse si rompono subito per l'elevato valore di τ.

Le sostanze che in soluzione abbassano la tensione superficiale del solvente sono dette

"tensioattive". Sono di questo tipo i saponi, gli alcool, gli idrocarburi e le proteine.

Anche la diversa miscibilità di due liquidi, dipende dalla loro tensione superficiale. In due

liquidi completamente miscibili tra loro, l'energia superficiale delle superfici di contatto è

infatti uguale a zero, mentre è notevolmente elevata se i liquidi non sono miscibili, come

per esempio nei miscugli acqua/olio. In questo caso la miscibilità può essere favorita

facendo intervenire all'interno dei liquidi delle altre forze, per esempio di tipo centrifugo o

elastico, che si ottengono rispettivamente per centrifugazione o per irraggiamento con

ultrasuoni.

Questi metodi sono utilizzati nella preparazione delle emulsioni ed in molte tecniche

industriali per la detergenza di superfici, la formazione di schiume, la flottazione ecc.

Formula di Laplace Molti fenomeni di cui è responsabile la tensione superficiale trovano la loro spiegazione

nel fatto che quando la superficie limite non è piana, la risultante delle forze dovute alla

tensione superficiale è normale a tale superficie ed è orientata verso il centro di curvatura.

Questo si può dimostrare facilmente se la superficie limite è sferica, sia nel caso di una

lamina liquida (goccia, bolla di sapone), che nel caso di una membrana elastica

(palloncino) .

4

Consideriamo un punto P di una

superficie limite di forma sferica in

equilibrio ed immaginiamo attorno ad

esso una calotta sferica S (fig.4). Sulla

circonferenza limite della calotta sono

evidentemente applicate le forze dovute

alla tensione superficiale, in direzione

tangente alla superficie sferica e

perpendicolare al contorno della calotta

sferica: ciascuna di queste forze ha una

componente diretta secondo il raggio OP

della sfera e una perpendicolare ad esso.

Le componenti perpendicolari ad OP

hanno risultante nulla perché sono a due

a due eguali ed opposte; le altre hanno

invece una risultante diversa da zero, diretta verso il centro della sfera e come tale

perpendicolare in P alla calotta. In sostanza, per effetto della tensione superficiale, la

calotta è sollecitata verso il centro della sfera cui appartiene.

Quindi le forze di tensione superficiale hanno in ogni punto della superficie sferica una

componente diretta verso il centro della sfera e l' equilibrio per un dato raggio della lamina

sferica è assicurato da una sovrappressione ∆p esistente all'interno della sfera rispetto

all'esterno (le forze dovute alla sovrappressione sono dirette dall'interno verso l'esterno).

[L'esistenza della sovrappressione fra l'interno e l'esterno della sfera è chiaro se si pensa

che per gonfiare un palloncino o una bolla di sapone è necessario soffiare].

La legge di Laplace definisce la relazione che lega la tensione superficiale della lamina alla

sovrappressione all'interno della sfera ed al raggio della sfera.

Consideriamo una superficie limite di forma sferica (ad esempio una goccia di liquido) e

teniamo presente che all'equilibrio la risultante delle forze sull' interfaccia acqua/aria deve

essere nulla. Immaginiamo di tagliare la sfera mediante un piano equatoriale: otteniamo

l'emisfero in figura 5.

P

O

S

Fig. 4

5

Fsi = p ∆Si

Fli = τ ∆li

Fsi = p ∆Si

rpint

p=pint-pest

P

=Fsicosαi

αi

αi

∆Soi

∆Si

Fsi//

∆li

Fig. 5

Sul bordo circolare di raggio r agiscono le forze di tensione superficiale esercitate dall'altro

emisfero: su ciascun tratto ∆l si esercita una forza Fli=τ∆li; la risultante di tali forze è:

3) Fl = τ Σ∆li = τ2πr

A questa forza fa equilibrio una forza dovuta alla differenza tra la pressione interna e la

pressione esterna: p=pint-pest. Dividiamo la superficie emisferica in tante superfici

elementari ∆Si, abbastanza piccole da poter essere ritenute piane e fissiamo la nostra

attenzione su due di esse diametralmente opposte. Il modulo della forza che si esercita su

ciascuna delle superfici considerate è Fsi=p∆Si. E' chiaro che le forze sulle singole piccole

superfici hanno direzioni diverse; scomponiamo ciascuna forza nelle sue componenti

perpendicolare e parallela al raggio disegnato. Le componenti perpendicolari al raggio si

annullano, mentre le componenti paralleli si sommano.

Il modulo di ogni componente parallela è:

Fsi =Fsicosαi = p∆Si cosαi

e, notando che ∆Si cosαi è uguale a ∆Soi, cioè uguale alla proiezione di ∆Si sul piano

equatoriale, si ottiene la risultante:

4) Fs=ΣFsi// =ΣFsicosαi =Σ p∆Si cosαi = pΣ∆Soi = pπr2

All'equilibrio R=0, cioè Fl=Fs:

τ•2πr=pπr2 da cui

5) p = 2τ/r

che è la formula di Laplace. Essa dice che la pressione che per effetto della tensione

6

superficiale si esercita su una superficie limite curva (diretta lungo il raggio verso il centro

della stessa superficie) è inversamente proporzionale al raggio di curvatura di tale

superficie. Tale pressione è equilibrata da una sovrappressione p=pint-pest diretta in verso

opposto. Ovviamente p e τ sono inversamente proporzionali solo se la tensione superficiale

non varia al variare del raggio, circostanza che non è sempre vera (ad esempio τ non è

costante nel caso degli alveoli polmonari).

La (5) è valida per bolle liquide piene come ad esempio una goccia di acqua o di mercurio;

nel caso di una bolla di sapone che è vuota al suo interno, essa diventa p = 4τ/r perché

bisogna tener conto non solo della superficie esterna, ma anche della superficie interna.

Inoltre per una membrana elastica di forma elissoidale si ha:

6) p = τ/r1 + τ/r2

dove r1 ed r2 sono i raggi delle sezioni principali. Per le membrane di forma cilindrica,

quando uno dei raggi può essere ritenuto infinitamente grande (come nel caso dei vasi

sanguigni) si ha:

7) p = τ/r

Forze di contatto

Quando un liquido è contenuto in

un recipiente, le sue molecole

sono attratte verso le pareti da una

forza detta di adesione. Allo stesso

tempo esse sono soggette anche

alle forze di coesione che le

tengono legate al liquido stesso.

Quando le forze di adesione

superano quelle di coesione, il

liquido bagna le pareti del recipiente e la superficie libera mostra una concavità rivolta

verso l'alto come si vede in fig. 6; è questo il caso dell'acqua a contatto con il vetro.

Quando invece le forze di adesione sono minori di quelle di coesione, ed è questo il caso

del mercurio a contatto con il vetro, il liquido non bagna le pareti del recipiente e la

concavità è rivolta verso il basso (fig.7). L'angolo α formato fra la parete del recipiente e la

tangente alla superficie del liquido nel punto di contatto con la parete prende il nome di

angolo di raccordo. Per un dato liquido e per un dato materiale del recipiente esso assume

un valore costante; nel caso di contatto acqua-vetro è α = 25°. Il fenomeno si spiega

ammettendo l'esistenza, lungo la linea di contatto dei tre mezzi, di tre tensioni superficiali:

aria-liquido τla, aria-solido τsa e liquido-solido τsl.

In condizioni di equilibrio, lungo la verticale deve essere:

8) τsa = τsl + τla cos α come si ricava dalle fig. 6 e 7.

Se τls > τsa allora cosα deve essere negativo e quindi α > 90° (fig. 7), come nel caso del

α

τsa

τsl τla

Fig.6

τsa

τla

τslα

Fig.7

7

mercurio. Se invece τls < τsa allora cosα è positivo e quindi α < 90°, come nel caso

dell'acqua (fig. 6).

Si spiega così perché quando cade del mercurio su una lastra di vetro si formano tante

piccole gocce, magari distorte per effetto della forza di gravità, ma con superfici di contatto

mercurio-vetro ridotte al minimo. Il contrario succede invece per l'acqua, le cui gocce su

una lastra di vetro si espandono il più possibile rendendo grande la superficie di contatto

acqua-vetro.

Capillarità

Quando le forze di adesione superano quelle di coesione, il liquido contenuto in un

tubicino sottile, aperto alle due estremità, sale ad una certa quota h rispetto al livello dello

stesso liquido contenuto in una bacinella nella quale il tubicino si trovi immerso (fig. 8a); il

contrario succede se le forze di adesione sono più piccole di quelle di coesione (fig. 8b).

Questi effetti prendono il nome di effetti di capillarità.

Il valore di h si può facilmente calcolare.

Consideriamo il caso in cui il liquido bagna la parete: in figura 8a, è mostrato molto

ingrandito un capillare tanto sottile da consentire al menisco di assumere la forma di una

calotta sferica di raggio r e con angolo di contatto α. Indicando con R il raggio del tubo

capillare e considerando l'inserto di fig.8 (ingrandimento dell'interfaccia liquido-aria nel

capillare di fig.8a) si vede che:

9) cosα = R/r

Fig.8b

h

Fig.8a

h

B

C D

A

α

Sappiamo che per la legge di Laplace la caduta di pressione fra i punti A (in aria) e B (nel

liquido), entrambi in prossimità dell'interfaccia, è 2τ/r, dove r è il raggio di curvatura della

superficie. Inoltre l'aumento di pressione fra i punti B e C è ρgh. E' evidente che la

pressione nei punti A, C e D è la stessa ed è uguale alla pressione atmosferica; perciò la

caduta di pressione tra i punti A e B deve uguagliare l'aumento di pressione fra i punti B e

C (poiché la differenza di pressione fra i punti A e C è zero):

10) 2τ/r = ρgh

ricavando r dalla (9) e risolvendo rispetto ad h si ottiene la legge di Jurin:

8

10) h = 2 τ cos α

ρgR

Quando la forza di adesione è minore di quella di coesione (fig.8b) vale ancora la (10), ma

con un valore negativo di h perché α > 90° e cos α < O. L'altezza a cui si porta il liquido è

in definitiva inversamente proporzionale al raggio del tubo capillare.

In alternativa, si può considerare la condizione di equilibrio fra la forza verticale dovuta

alla tensione superficiale sul contorno del menisco e la forza peso della colonnina liquida:

τ cosα⋅ 2πr = ρπR2hg da cui: h = 2 τ cos α

ρgR

Se il capillare è molto sottile e il liquido bagna perfettamente la parete il menisco é

emisferico, l'angolo di contatto è uguale a zero e la (10) diventa:

h = 2 τ

ρgR

9

SOLUZIONI

Una soluzione è una miscela fisicamente omogenea costituita da due o più

sostanze, le cui relative quantità possono variare con continuità entro certi limiti. In genere

si considera uno dei componenti della soluzione come solvente e l'altro (o gli altri) come

soluto (o soluti). Bisogna osservare che questa distinzione non indica una effettiva

differenza funzionale fra i componenti.

Di solito viene chiamato "solvente" il componente a concentrazione maggiore e

"soluto" quello a concentrazione minore e si parla di soluzione del soluto nel solvente.

La distinzione fra soluto e solvente diventa significativa nel caso di due sostanze

che allo stato puro si trovano in stati fisici diversi. Si assegna allora il nome di solvente al

componente che conserva nella soluzione lo stato fisico proprio dello stato puro.

Sono comuni le soluzioni in cui un gas è miscelato ad un altro gas (ad esempio

l'aria), e le soluzioni di un solido in un liquido, di un liquido in un liquido, di un gas in un

liquido; ne sono esempio rispettivamente una soluzione di zucchero in acqua, di alcool in

acqua, di ossigeno e anidride carbonica in acqua.

Consideriamo ora una soluzione di due o più componenti definiamo concentrazione

c di un suo componente il rapporto fra la massa m di tale componente e il volume V del

solvente o della soluzione:

c = m/V .

l'unità di misura della concentrazione nel sistema internazionale é Kg/m3, ma molto

spesso si usa:

a) la molalità, ovvero il numero di moli di soluto per kg di solvente;

b) la molarità, cioè il numero di moli di soluto per litro di soluzione;

c) la frazione molare, cioè il rapporto fra il numero di moli di soluto ed il numero di

moli totali della soluzione.

DIFFUSIONE E LEGGE DI FICK

Nei liquidi e nei gas le particelle (atomi, molecole e ioni) sono libere di muoversi

in tutto il volume occupato dal fluido.

Questo moto avviene a zig-zag a causa

dei continui urti e la energia cinetica media

dipende dalla temperatura assoluta.

Se due liquidi miscibili, inizialmente

separati da un setto, sono messi a contatto si

osserva la diffusione di un liquido nell'altro:

più o meno velocemente i due liquidi

finiscono per mescolarsi.

Il fenomeno può essere favorito dai

seguenti fattori:

1) scosse meccaniche o vibrazioni;

2) gradienti termici che determinano delle

correnti convettive;

∆x

c 1

c 2

s

c 1 > c 2

Fig.1

10

3) agitazione termica delle molecole.

Si parla di diffusione quando il fenomeno avviene esclusivamente a causa

dell'agitazione termica.

In una soluzione, ogni componente diffonde spontaneamente verso zone in cui si

trovi a concentrazione minore; il fenomeno evolve verso una situazione di equilibrio, in

cui la concentrazione è la stessa in ogni punto ed il flusso netto, attraverso una qualsiasi

superficie ideale in seno alla soluzione, è nullo.

Nel recipiente schematizzato in fig. 1 è contenuta una soluzione non in equilibrio.

Consideriamo uno strato ideale di sezione S e spessore ∆x; siano c1 e c2 le

concentrazioni della sostanza che diffonde ai due lati dello strato ∆x. Se c1 > c2, la massa

di soluto che passa per diffusione nel tempo ∆t, attraverso lo strato considerato, è:

∆m = D

c1 - c2

∆x S ∆t ∆m = -D ∆c

∆x S ∆t

dove

∆c = c2 - c1 = - c1 - c2

(1) MS = ∆m

S∆t = - D

∆c

∆x (legge di Fick)

dove MS è il flusso di diffusione e D è il coefficiente di diffusione. Nel sistema

C.G.S. tale coefficiente rappresenta la quantità di sostanza espressa in grammi che

attraversa la superficie di 1 cm2 in un secondo, quando la concentrazione varia di un

grammo per cm3 in un cm. Il coefficiente di diffusione dipende dalla sostanza che

diffonde, dalla viscosità del solvente, dalla temperatura e, se la diffusione avviene

attraverso una membrana permeabile, dipende anche dal tipo di membrana.

Notiamo che l'agitazione termica non è orientata (tutte le direzioni hanno la stessa

probabilità) mentre la diffusione è orientata.

Cerchiamo quindi di esprimere la legge di Fick in forma vettoriale.

La concentrazione è una grandezza scalare, il gradiente di concentrazione è, per

definizione, un vettore che ha modulo ∆c/∆x, direzione quella in cui la variazione di

concentrazione per unità di lunghezza è massima, verso quello delle concentrazioni

crescenti, quindi ∆m/S∆t è il modulo del vettore flusso M S , definito come:

(2) MS = - D grad c

Il flusso di diffusione è orientato verso le concentrazioni decrescenti quindi ha la

stessa direzione del gradiente di concentrazione e verso opposto.

La diffusione non concerne solo il soluto; anche il solvente diffonde a causa di un

gradiente di concentrazione. Alla diffusione del soluto corrisponde quella del solvente con

verso opposto: i due flussi di diffusione espressi in volumi per secondo sono uguali.

Diffusione attraverso una membrana

Se la diffusione avviene attraverso una membrana permeabile di spessore δ il

flusso, ricordando la (1), diventa:

11

M S = − D∆c

δ= − p ∆c, p =

D

δ

dove con p abbiamo indicato la permeabilità della membrana per la sostanza considerata.

E' opportuno aggiungere che tutte le sostanze in soluzione attraversano le

membrane con una velocità molto più bassa di quella con cui diffondono nell'acqua. La

velocità di diffusione attraverso una membrana varia molto da un soluto ad un altro; per

certe grosse molecole ad esempio il coefficiente di diffusione può essere nullo attraverso

membrane i cui pori non siano abbastanza grandi: tali membrane risultano allora

impermeabili a quelle molecole e si comportano come membrane selettive.

Occorre tuttavia precisare che non si può ridurre il discorso della permeabilità

selettiva ad un paragone fra dimensioni delle molecole e dimensioni dei pori.

Vi sono problemi infatti di affinità chimiche fra membrane e molecole diffondenti.

Inoltre, data la struttura a dipolo permanente delle molecole d'acqua, c'è un fenomeno di

idratazione ionica e molecolare o solvatazione: per esempio lo ione Li dovrebbe essere

circondato da 15 molecole di acqua, Na da 8, K da 4 ecc.

Così è il diametro degli ioni solvatati che influisce sulla loro mobilità attraverso la

membrana.

Quando una membrana è selettiva, la diffusione si complica con fenomeni che non

esistono in diffusione libera e che sono gli effetti osmotici.

OSMOSI E PRESSIONE OSMOTICA

Consideriamo la situazione sperimentale schematizzata in figura 2: un recipiente B

contenente una soluzione acquosa è immerso in un recipiente A contenente acqua

distillata.

Il recipiente B ha il fondo costituito da una membrane semipermeabile, permeabile

cioè alle molecole d'acqua ma non a quelle del soluto, e termina superiormente in una

canna manometrica.

Inizialmente il livello della soluzione in B e quello del solvente puro nel recipiente

esterno A coincidono.

Sperimentalmente vediamo però che il sistema non è in equilibrio: infatti c'è un

flusso netto spontaneo di solvente attraverso la membrana dal recipiente A al recipiente B,

con conseguente diluizione della soluzione ed innalzamento del livello nella canna

manometrica (é evidente che dei due flussi di diffusione discussi nel paragrafo precedente,

il primo, quello del soluto, é bloccato dalla membrana semipermeabile, ma il secondo,

quello dell'acqua, avviene normalmente). Questo fenomeno è detto "osmosi" ed evolve in

tempi anche molto lunghi verso una condizione di equilibrio.

Infatti, il livello della soluzione nel recipiente B aumenta via via, creando una

pressione idrostatica addizionale che si oppone alla osmosi. Per un certo dislivello h, la

pressione idrostatica raggiunge un valore ρ gh, in corrispondenza del quale la osmosi si

interrompe: da questo istante il flusso netto attraverso la membrana diventa nullo.

Poichè il sistema è in equilibrio, è necessario che tale pressione idrostatica sia

bilanciata da un'altra pressione rivolta verso l'interno della soluzione, che indichiamo con

la lettera π e chiamiamo pressione osmotica.

In fig. 2 è schematizzata una situazione di equilibrio.

12

h

A

p Α + π

p Α + ρgh

p A + ρgh = p A + π

π = ρgh

B

Fig. 2

A livello del setto semipermeabile, di cui a lato è ingrandito un poro, agiscono dall'alto verso il basso una pressione pari alla somma della pressione atmosferica e della

sovrapressione idrostatica ρgh e dal basso verso l'alto una pressione pari alla somma della pressione atmosferica e della pressione osmotica (le due superfici libere sono entrambe a pressione atmosferica).

E' chiaro che una volta raggiunto l'equilibrio il dislivello misura la pressione osmotica di una soluzione più diluita di quella originale. Si può rendere questa diluizione trascurabile utilizzando un tubo di diametro molto piccolo per l'ascensione del liquido.

In queste condizioni, si può dire che la pressione idrostatica dovuta al dislivello, misura la pressione osmotica della soluzione primitiva

(4) π = ρ gh

E' questo il principio su cui si basa il funzionamento degli osmometri. Van't Hoff studiò sperimentalmente il fenomeno della osmosi e stabilì per soluzioni

diluite e ideali, alcune leggi che così possiamo riassumere: i La pressione osmotica, ad una data temperatura, è proporzionale alla concentrazione espressa come numero di moli di soluto per unità di volume della soluzione

c = n/V; ii La pressione osmotica è proporzionale alla temperatura assoluta T:

π = R T c = nRT

V

dove R è la costante dei gas perfetti. iii A uguale temperatura, soluzioni contenenti lo stesso numero di particelle, (atomi, molecole, ioni) di soluto nello stesso volume di soluzione, hanno uguale pressione

osmotica. La legge si può scrivere:

(5) πV = n R T

equazione analoga a quella dei gas perfetti.

13

Questa analogia non deve far pensare ad una identità di fenomeni fisici: il soluto

infatti è allo stato liquido e non gassoso, inoltre la nozione di pressione osmotica ha senso solo in caso di opposizione effettiva della soluzione al suo solvente attraverso una membrana semipermeabile.

La pressione osmotica di una soluzione è comunque "numericamente" uguale alla pressione che eserciterebbero le particelle del soluto, se occupassero, allo stato gassoso, il

volume a disposizione della soluzione. E' da notare che se una sostanza in soluzione si dissocia in ioni, bisogna introdurre il coefficiente di dissociazione elettrolitica, che è il numero di ioni in cui si dissocia in

media una molecola di soluto (σ = 1 se la sostanza non si dissocia)

(6) πV = σ n R T

L'effetto osmotico è quindi raddoppiato per gli elettroliti forti in soluzione diluita

(es. NaCl, σ = 2).

La pressione osmotica si può misurare in atmosfere o in N/m2 o in dine/cm2.

L'unità di misura più usata è la osmolarità: una soluzione si dice osmolare quando esercita la stessa pressione osmotica esercitata da una soluzione molare di una sostanza

non elettrolitica (σ = 1), a 0 °C. Oltre alla osmolarità si usa spesso anche la osmolalità.

Per semplificare notiamo che: una soluzione che ha molarità uguale a 1, ha anche osmolarità uguale a 1, se il soluto non è dissociato; una soluzione che ha molalità uguale a 1, ha anche osmolalità uguale a 1, se il soluto non è dissociato.

Se la costante di dissociazione è σ ≠ 1, la osmolarità è la osmolalità si ottengono

moltiplicando per σ il numero che esprime rispettivamente la molarità e la molalità della soluzione.

Per chiarire meglio il concetto precisiamo che una osmole è data da 6,023 • 1023

particelle siano esse molecole, atomi o ioni. Ad una mole di soluto corrispondono σ osmoli

dello stesso soluto, se σ è la costante di dissociazione elettrolitica. La osmolarità è quindi il numero di osmoli di soluto per litro di soluzione, la osmolalità è il numero di osmoli di soluto per Kg di solvente.

Ricordando che la legge di Vant' Hoff è πV = n R T, calcoliamo ora quanto vale in

N/m2 e in atmosfere la pressione osmotica di una soluzione la cui osmolarità sia unitaria.

Se la soluzione è osmolare, n/V = 1 osmole/litro = 103 osmoli/m3, T = 273 °K, R = 8,31 Joule/mole °K

π0 = n R T

V = 10

23 • 8,31 • 273 = 2,269 10

6 N/ m

2

sapendo che 1 atm = 1,013 • 105 N/m2

π0 = 22,4 atmosfere.

Questo significa che una soluzione ideale di osmolarità 1 (contenente perciò 6,023

• 1023 particelle disciolte per litro di soluzione) opposta al suo solvente attraverso una membrana semipermeabile sviluppa secondo la legge di Vant'Hoff a 0 °C una pressione

14

osmotica di 22,4 atmosfere. Ricordiamo però che questa legge vale per soluzioni ideali e

che le soluzioni reali hanno un comportamento previsto dalla legge di Vant' Hoff solo se sono molto diluite. Come esempio applichiamo la legge di Vant' Hoff al plasma:

poichè le particelle per litro di soluzione sono ~ N/3, se il plasma fosse opposto all'acqua

attraverso una membrana semipermeabile svilupperebbe una pressione osmotica

(7) π = 22,4/3 = 7,43 atmosfere.

Più comunemente si dice che il plasma è circa 0,3 osmolare. (Il dosaggio chimico dà N/3 particelle di soluto per litro di soluzione del plasma, il valore calcolato della pressione

osmotica (7) é tuttavia maggiore del valore misurato, che é =0.296 osmoli, valore usato per determinare la concentrazione delle soluzioni isotoniche con il plasma. Questa differenza non deve stupire, perché il plasma non é una soluzione ideale)

Aggiungiamo ancora che se in una soluzione sono contenuti diversi tipi di soluto per cui la membrana è impermeabile si ha:

π = π1 + π2 + .....+ πi +.......... + πn = Σσi Ci R T

dove con πi si indica la pressione osmotica che l'iesimo componente eserciterebbe se si

trovasse da solo nel volume della soluzione. Evidentemente una soluzione contenente più componenti può avere più pressioni osmotiche corrispondenti a membrane differenti. Per parlare correttamente di pressione osmotica di una soluzione occorre che essa sia opposta

al suo solvente attraverso una membrana selettiva e bisogna specificare qual'è il tipo di membrana e per quali soluti essa è impermeabile. La parete dei capillari ad esempio è permeabile oltre che all'acqua, anche agli acidi, ai sali e alle basi (cristalloidi) ed

impermeabile ai colloidi (le proteine del plasma). Se di una soluzione è indicata la pressione osmotica, senza altra precisazione, si intende considerare il caso in cui la soluzione è opposta al suo solvente attraverso una

membrana rigorosamente semipermeabile, cioè permeabile solo al solvente. Due soluzioni sono isoosmotiche quando opposte al proprio solvente puro

attraverso una membrana rigorosamente semipermeabile, hanno la stessa pressione osmotica. Quando due soluzioni acquose sono separate da una membrana selettiva ed è

soddisfatta la condizione di equilibrio, per cui il flusso netto di solvente attraverso la membrana è nullo, si dice che le due soluzioni sono isotoniche. Se non c'è equilibrio, il flusso di solvente va dalla soluzione ipotonica a quella ipertonica.

I concetti di isoosmoticità e di isotonicità non sempre coincidono, perchè le membrane biologiche non sono perfettamente semipermeabili, e per la isoosmoticità si tiene conto di tutte le particelle di soluto presenti, mentre per la isotonicità si tiene conto

solo di quelle che non diffondono attraverso la membrana che separa le due soluzioni. E' interessante quello che succede nel caso di cellule. Infatti cellule immerse in soluzioni ipotoniche si gonfiano (turgore) anche fino alla rottura (lisi), mentre cellule

immerse in soluzioni ipertoniche si afflosciano (raggrinzimento). Soluzioni isoosmotiche ed isotoniche con il plasma (a t = 37°C) sono ad esempio:

1) soluzioni di NaCl, 0.160 moli/l σ = 1.86 (soluzione fisiologica)

2) soluzioni di Glucosio, 0.296 moli/l σ = 1

15

Le stesse soluzioni con concentrazioni minori provocano turgore delle emazie ed anche emolisi ipotonica. Dobbiamo aggiungere che se la concentrazione salina del plasma varia molto

lentamente non si ha crisi emolitica, perchè la membrana degli eritrociti è permeabile non solo all'acqua, ma anche ai piccoli ioni e molecole, che l'attraversano però molto più

lentamente dell'acqua. Come esempio di soluzione isoosmolare alla precedente ma non isotonica con il contenuto delle emazie consideriamo una soluzione di urea a 20 g/l.

Le emazie immerse in essa vanno incontro ad emolisi immediata, perchè la loro membrana è permeabile all'urea. Tale soluzione è quindi equivalente all'acqua pura dal punto di vista della tonicità.

Concludiamo osservando che la pressione osmotica del plasma é stata prima calcolata supponendo che una membrana rigidamente semipermeabile lo separi dall'acqua; tuttavia la membrana dei capillari, che separa il plasma dal liquido interstiziale, é una membrana

selettiva permeabile all'acqua e a piccoli ioni e molecole (che insieme all'acqua fanno quindi parte del solvente) ed impermeabile alle proteine, che si trovano nel plasma e non nel liquido interstiziale. Sarebbe quindi logico pensare che la differenza di pressione

osmotica fra il plasma e il liquido interstiziale dipenda solo dalla concentrazione delle proteine (pressione oncotica). Essendo la concentrazione delle proteine nel plasma di circa 1 mM/litro, mediante la legge di Van't Hoff si trova per la pressione oncotica il valore

π =19 mmHg, mentre il valore sperimentale é più alto di circa il 50%. Come vedremo più

avanti (equilibrio di Donnan Gibbs) per la presenza di elettroliti e di proteine in forma ionica e per l'esistenza di un potenziale transmembranario, in condizioni di equilibrio la concentrazione degli ioni che diffondono attraverso la membrana non é la stessa nel

plasma e nel liquido interstiziale; quindi anche gli ioni diffusibili contribuiscono alla

pressione oncotica elevandone il valore a π = 25 - 30 mmHg.

LA FILTRAZIONE

Se consideriamo due soluzioni acquose separate da una membrana semipermeabile,

il passaggio di acqua da una soluzione all'altra può avvenire per osmosi e per filtrazione.

Occupiamoci ora di quest'ultima.

16

c A > c B

πA>πΒ

c A > c B

Α Β

h

πA>πΒ

a) b)

Α Β

Fig.3

Consideriamo due soluzioni acquose di diversa concentrazione nei rami A e B di

figura 3a, separate da una membrana semipermeabile; per il fenomeno dell'osmosi ci sarà

un flusso di solvente proveniente dalla soluzione a concentrazione minore (cB) verso

quella a concentrazione maggiore (cA). La quantità di acqua che attraversa la membrana

nell'unità di tempo è

∆M/∆t = k (πA - πB) = k' (cA - cB)

dove le costanti k e k' dipendono dal tipo di soluzione, dal tipo di membrana e dalla

temperatura. Come è noto l'aumento di pressione idrostatica dovuto all'innalzamento del

livello in A bilancia, all'equilibrio, la pressione osmotica. Infatti quando comincia ad

instaurarsi il dislivello dovuto alla differenza di pressione osmotica, il gradiente di

pressione idrostatica tra i compartimenti ai due lati della membrana semipermeabile

determina un flusso di solvente attraverso la membrana in verso opposto a quello dovuto

alla differenza di pressione osmotica. Dunque il flusso netto sarà:

∆M/∆t = k (πA - πB) - k (pA - pB) = k (∆π - ∆p)

e all'equilibrio dinamico si ha ∆M/∆t = 0 da cui segue che

∆π-∆p=0 e quindi ∆π=∆p.

Se si applica una pressione in A (fig. 3b) mediante uno stantuffo, può accadere che

il gradiente di pressione annulli gli effetti del gradiente di concentrazione (prima del

raggiungimento del dislivello raggiunto in assenza di pressione esterna) portando il sistema

all'equilibrio (flusso netto nullo) oppure determini addirittura un flusso nel verso opposto

cioè una filtrazione dei componenti, per i quali la membrana è permeabile, dalla soluzione

17

A alla soluzione B contro il gradiente di concentrazione.

Se ∆p>>∆π, la quantità di acqua che filtra nell'unità di tempo attraverso la

membrana vale

∆M/∆t = k(pA - pB)

(in questo caso il flusso dovuto al gradiente di concentrazione è trascurabile rispetto a

quello dovuto al gradiente di pressione idraulica). Occorre precisare che la quantità ∆M

può riferirsi anche ad una quantità di "acqua e soluto", se nella soluzione è contenuto un

tipo di soluto per il quale la membrana è permeabile. Le membrane biologiche, ad

esempio, possono permettere il transito anche ad un certo numero di piccoli ioni o

molecole come sodio, potassio, cloro, urea, ecc.

ESTREMO ARTERIOSO

ESTREMO VENOSO

∆p > ∆π

∆p < ∆π

flusso dovuto a gradiente

di pressione idrostatica

flusso dovuto a

gradiente

di pressione osmotica

Fig.4

Come esempio consideriamo la circolazione sanguigna nei capillari: la differenza di

pressione osmotica fra plasma e liquido interstiziale é ∆π = 25 - 30 mmHg, valore che può

essere stimato usando la legge di Van't Hoff e l'equilibrio di Donnan-Gibbs (come

vedremo in seguito). Affinchè ci sia una situazione di equilibrio (flusso netto nullo

attraverso la membrana), occorre che esista una differenza di pressione idrostatica ai due

lati dell'endotelio che per filtrazione faccia passare in senso inverso attraverso la

membrana la stessa quantità di acqua che passa per osmosi (ovvero ∆π =∆p). La pressione

idrostatica nei capillari é maggiore di quella nei tessuti: Pcapillari > Ptessuti (~ 0); tuttavia

la ∆P varia da circa 40 a circa 20 mmHg passando dall'estremità arteriosa a quella venosa

dei capillari. Dunque all'estremità arteriosa si ha ∆P > ∆π (∆P = 40 mmHg e ∆π = 25 - 30

mmHg) perciò c'é un flusso netto di solvente verso i tessuti (ultrafiltrazione); all'estremità

venosa ∆P < ∆π, per cui c'é flusso netto di solvente verso l'interno dei capillari

(riassorbimento). Si instaura quindi una microcircolazione di solvente attorno ai capillari,

che trasferisce sostanze nutritive dal sangue ai tessuti e sostanze di scarto dai tessuti al

sangue, mantenendo nullo il flusso netto complessivo lungo tutto il capillare. Se

l'equilibrio descritto dovesse rompersi si avrebbero notevoli alterazioni come ad esempio

l'edema.

18

LAVORO DI CONCENTRAZIONE - POTENZIALE CHIMICO

Consideriamo il sistema in equilibrio in

figura 5, formato da due soluzioni con soluti

non elettroliti, aventi la stessa concentrazione

(c1 = c2) e separate da una membrana

semipermeabile. E' facile convincersi che per

far passare solvente dall'una all'altra soluzione e

quindi per concentrare una della due soluzioni e

diluire l'altra occorre compiere un lavoro contro

le forze di pressione osmotica (lavoro

osmotico).

Se, ad esempio, esercitiamo una pressione sulla

superficie libera della soluzione contenuta nello

scomparto A, otteniamo un flusso di solvente da A a B, quindi una riduzione di volume in

A con aumento della concentrazione c1 e diminuzione della concentrazione c2.

In analogia con la termodinamica consideriamo positivo il lavoro fatto dal sistema

verso l'esterno e pensiamo che concentrare una soluzione equivale a comprimere un gas.

Immaginiamo di provocare una variazione ∆Vi di volume talmente piccola da poter

ritenere costante la pressione osmotica. Il lavoro di concentrazione sarà Li = π∆Vi e sarà

negativo perché il volume va diminuendo. Riscrivendo l'equazione (6) per un soluto non

dissociato: πV = nRT, sommando il lavoro di tutte le microvariazioni di concentrazione e

passando al limite per ∆Vi→ 0 si ottiene:

lim Σi πi∆Vi = lim ΣinRT

Vi

∆Vi = nRT ⋅lim Σi

∆Vi

Vi

= ∆Vi →0 ∆Vi →0 ∆Vi →0

L =

= nRT ⋅lnV2

V1

= nrT ⋅lnπ2

π1= nrT ⋅ln

c2

c1 = nRT ⋅ln c 1 - nRT ⋅lnc 2

Poiché il lavoro osmotico dipende solo dalle concentrazioni iniziale e finale,

tenendo presenti le analogie meccaniche ed elettriche, si definisce differenza di potenziale

chimico il lavoro necessario per trasportare una mole da un punto in cui la concentrazione

è c1 ad un punto in cui la concentrazione è c2 contro un gradiente di concentrazione:

definiamo perciò, a meno di una costante, il potenziale chimico µ :

µ = RT 1n C + µ0

dove µ0 è una costante che dipende dal tipo di soluto e di solvente

Si ottiene L=µ1-µ2 = - ∆µ

In una situazione di equilibrio i potenziali chimici sono uguali (µ1 = µ2), essendo

c 1 c 2

Α Β

Fig.5

19

C1 = C2 , quindi L = 0.

LEGGE DI NERNST

Consideriamo ora una membrana biologica ed analizziamone il funzionamento (figura 6).

Per definizione essa separa lo spazio in due domini distinti: liquido interstiziale e

liquido intracellulare.

.

liquid

o

intr

acel

lula

re

liquid

o i

nte

rsti

zial

e

K+

Cl - Cl -

K+

-

-

-

-

+

+

+

+

c1 >c 2

E

Fig. 6

Sperimentalmente si misura tra questi due domini una differenza di potenziale [potenziale

di stato stabile della membrana, Vm = - 90 mV (interno negativo, esterno positivo), se si

tratta di una membrana muscolare]. Per capire come sia possibile la presenza di tale d.d.p.

in condizioni di equilibrio, prendiamo in considerazione una soluzione elettrolitica di

cloruro di potassio (KCl). Facciamo ora l'ipotesi che la membrana permetta il passaggio

dello ione K+ (che è più piccolo), ma non di quello Cl- e supponiamo che C1 > C2 (fig.6) ;

ne segue che il potassio tenderà a diffondere verso la parte con concentrazione minore e

questo flusso di cariche positive attraverso la parete creerà una asimmetrica distribuzione

di carica responsabile della d.d.p. in questione. Di più: questa stessa d.d.p. costituisce una

barriera di potenziale all'ulteriore diffusione del potassio e fa evolvere l'intera situazione

verso l'equilibrio, quando il flusso di ioni potassio dovuto al gradiente di potenziale

elettrico diviene uguale e opposto al flusso di ioni potassio dovuto al gradiente di

concentrazione. Il valore stesso della differenza di potenziale all'equilibrio è un indice di

quanto grande fosse la differenza di concentrazione all'inizio del processo.

Ora, per fare delle ulteriori considerazioni quantitative, occorre ricordare che il

lavoro osmotico ed il potenziale chimico sono stati calcolati per un soluto non dissociato.

Quando sono presenti degli ioni sottoposti all'azione di un campo elettrico è necessario

tener conto anche dell'energia potenziale elettrica: come si può vedere in figura 6, il

potenziale elettrico varia in modo opposto a quello chimico, in altre parole se µ1 > µ2 ,

perchè C1 > C2, allora V1 < V2, come risulta dal verso del vettore campo elettrico.

Nasce così il concetto di potenziale elettrochimico µµµµel:

µel = µc + Vel

20

dove Vel è l'energia potenziale elettrica per grammoione e µc è il potenziale

elettrochimico:

Vel = V Qmole = ZeNV = VZF

essendo Z la valenza degli ioni, 'e' la carica elementare, N il numero di Avogadro, V il

potenziale elettrico e F = 96.300 C la costante di Faraday.

Dunque

µel = µc + VZF = µo + RT 1n c + VZF.

L = µel1 - µel2 = (RT 1n c1 + V1ZF) - (RT 1n c2 + V2ZF).

All'equilibrio i due potenziali devono essere uguali (L=0):

RT 1n c1 + V1ZF = RT 1n c2 + V2ZF

RT 1n c1 - RT 1n c2 = ZF (V2 - V1) e

RT 1n (c1/c2) = ZF (V2 - V1)

L'ultima relazione può essere messa nella forma

V2 - V1 =

RT

ZF.1n

c1

c2

che prende il nome di legge di Nernst.

Torniamo ora alla nostra membrana biologica e scriviamo (ponendo: 1 = est, 2 =

int)

Vint - Vest = RT

ZF 1n

cest

cint

dove Vint - Vest = Vm è il potenziale di membrana (negativo nello stato stabile ):

Vm = RT

ZF 1n

cest

cint .

In condizioni di equilibrio il potenziale di stato stabile della membrana è negativo

all'interno, dove sono presenti ioni negativi che non diffondono attraverso la membrana, e

positivo all'esterno (E' chiaro che essendo Vm negativo gli ioni positivi avranno

concentrazione maggiore all'interno e gli ioni negativi all'esterno).

21

EQUILIBRIO DI DONNAN-GIBBS

H+int

Cl-int Cl-ext

H+ext

E

A- ++

+

+

-

-

-

-

flusso dovuto a gradiente di concentrazione

flusso dovuto a gradiente di potenziale

Fig 8

Consideriamo due soluzioni contenenti HCl separate da una membrana selettiva; nelle

soluzioni sono dunque presenti ioni H+ (Z=1) ed ioni Cl- (Z=-1), supponiamo inoltre che

tali ioni possano diffondere attraverso la membrana e che nella soluzione indicata come

interna (in analogia con il liquido intracellulare) sia presente un grosso ione (ad esempio

uno ione proteico A-) per il quale la membrana è impermeabile. In queste condizioni è

presente fra i due lati della membrana una differenza di potenziale: per l'equilibrio degli

ioni H+ e Cl- avremo:

Vm = RT

F 1n

[H+]ext

[H+]int

e Vm = - RT

F 1n

[Cl-]ext

[Cl-]int

e quindi:

- 1n [Cl-]ext

[Cl-]int

= 1n [H+]ext

[H+]int

, cioè

[Cl-]int

[Cl-]ext

= [H+]ext

[H+]int

[Cl-]int⋅[H+]int = [Cl-]ext⋅[H

+]ext

Le ultime due equazioni caratterizzano l'equilibrio di Donnan-Gibbs.

Quando la membrana é impermeabile anche ad un solo tipo di ione presente in una delle

soluzioni oppure presente in entrambe ma con diversa concentrazione (ad esempio allo

ione proteico), la presenza di cariche elettriche che non possono diffondere attraverso la

membrana determina una differenza di concentrazione degli ioni diffusibili ai due lati della

membrana e genera un potenziale transmembranario.

TRASPORTO ATTIVO: POMPA SODIO-POTASSIO

I liquidi interstiziali e intracellulari sono soluzioni elettrolitiche separate da un

isolante, la membrana, che ha una resistenza ohmica molto elevata. La tabella che

riportiamo fornisce le concentrazioni ioniche approssimative dello stato stabile per i

22

principali ioni presenti nei due liquidi. La linea tratteggiata indica la membrana cellulare

dei muscoli.

Vm = Vint - Vest = - 90 mV

liquido interstiziale ioni conc. mM / litro Na+ 145 Ka+ 4

Cl- 120

A- 0.11

liquido intracellulare ioni conc. mM / litro Na+ 12 Ka+ 155

Cl- 4

A- 4.11

membrana

Vm = -90 mV

+ + + + + + + + + + + + +

- - - - - - - - - - - - -

flusso dovuto a gradiente di concentrazione

flusso dovuto a gradiente di potenziale

Fig.9 (A- indica lo ione proteico)

In condizioni di equilibrio il flusso netto attraverso la parete della membrana per

ciascun tipo di ione deve essere nullo ed il potenziale di membrana costante.

Ora, tenendo presenti la tabella sopra esposta e la polarità del potenziale di

membrana, si può concludere che per gli ioni K+ e Cl- l'equilibrio è possibile, essendo i

due meccanismi di trasporto passivo (gradiente di concentrazione e di potenziale) in

competizione, mentre per lo ione Na+ questo non avviene. Ci deve quindi essere, perchè si

possa raggiungere una situazione di equilibrio, un meccanismo di trasporto attivo che,

competendo con i due passivi, possa mantenere le concentrazioni ioniche indicate nella

tabella (pompa sodio-potassio).

23

LA CIRCOLAZIONE DEL SANGUE

Descriviamo ora le proprietà del sistema

circolatorio considerando il circuito

idraulico ed il fluido che vi scorre, cioé il

sangue.

Il muscolo cardiaco fa circolare il sangue

nelle arterie, nella rete capillare ed infine

nelle vene. Esso subisce delle contrazioni

ritmiche che, unitamente alla elasticità dei

vasi sanguigni, contribuiscono alla

instaurazione di un fenomeno circolatorio.

Esisterà quindi una differenza di pressione

sui vari tratti della rete vascolare che ha lo scopo di garantire lo scorrimento del sangue;

tale differenza di pressione tende progressivamente a diminuire lungo il sistema

circolatorio. Nella figura si possono

distinguere i circuiti sistemico e

polmonare, che sono i principali, ed

anche le varie connessioni e vie interne

che completano il sistema. Il flusso

sanguigno unidirezionale ha il compito di

nutrire i tessuti con sangue ricco delle

sostanze indispensabili ai processi

metabolici cellulari e di asportare i

residui delle reazioni, dai quali

l'organismo si deve poi liberare.

E' dunque evidente che la composizione

del sangue arterioso che va ad irrorare i

tessuti fin nelle parti più remote del

corpo non é la stessa del sangue venoso,

che dai tessuti stessi ritorna al cuore.

Quindi non si potrebbe neanche supporre la omogeneità del sangue.

CORPO POLMONI

CUORE SXCUORE DX OD

OS

VD

VS

V1

V2

V2

V3

V3

V3

V3

V1 > V 2 > V 3

→→

→→

Fig. 2

Fig. 1

24

Il volume medio di

sangue di una persona

adulta é di circa 6 litri,

mentre la portata media

é di circa 5 litri/min. E'

chiaro che ci possono

essere significativi

scostamenti da questo

valore medio: ad

esempio un atleta che

esegue degli esercizi

fisici generalmente

subisce un aumento

della frequenza cardiaca

e della gittata nella fase di sistole, quindi un aumento della portata.

Consideriamo il sistema cardiovascolare come un sistema idrodinamico chiuso e

supponiamo per semplificare che i vasi sanguigni siano rigidi ed il sangue un liquido

omogeneo; per la portata cardiaca che é costante vale la relazione Q = vmS (vm è la

velocità media e S la sezione). Come é noto la sezione dei condotti sanguigni va

restringendosi dalle arterie ai capillari per poi riampliarsi dai capillari alle vene; però se

consideriamo la sezione complessiva dei vasi possiamo osservare che essa va aumentando

passando dalle arterie ai capillari e invece diminuendo ritornando dai capillari alle vene.

Ne risulta che, come si vede nelle figure 2 e 3, essendo costante la portata, la velocità di

scorrimento del sangue raggiunge i suoi valori più elevati nell'aorta e nella vena cava

e quelli più bassi nella rete capillare dove infatti devono avvenire importanti scambi di

O2, CO2 e sostanze nutritive.

Se il sangue fosse un liquido ideale con = 0, non occorrerebbe fare del lavoro per

mantenere la circolazione ed il teorema di Bernoulli sarebbe sufficiente per calcolare punto

per punto i valori della pressione e della velocità. A causa della viscosità invece i vasi

sanguigni

offrono una

resistenza al

passaggio del

sangue che é

tanto maggiore

quanto più

piccola é la

sezione del

vaso stesso; il

cuore deve

perciò compiere

un lavoro per

contrastare

l'attrito viscoso.

E' dunque, con

alcune riserve,

la legge di

Hagen - Poiseuille a governare il fenomeno della circolazione sanguigna.

Curva della

velocità

Andamento di

alcune sezioni del

sistema vasale Arterie Arteriole Capillari Venule Vene

arterie arteriole capill. vene

P

Pre

ssio

ne (

mm

Hg)

0

100

50

venule

Fig. 3

Fig.4

25

Occorre infatti una caduta di pressione proporzionale all'inverso della quarta potenza del

raggio del vaso per mantenere il moto di scorrimento alla velocità vm = Q/s:

p1-p2= 8 η l Q

π r4

Nella figura 4 si può vedere come la pressione sanguigna diminuisca nel passare dal

ventricolo sinistro all'atrio destro. Facciamo osservare che la pressione del sangue é da

ritenersi espressa in mm di Hg in eccesso alla pressione atmosferica, che i valori riportati

sono da ritenersi medi tra quelli della pressione nella fase di sistole e quelli di diastole per

via del comportamento elastico dei vasi, specialmente delle grosse arterie; e che, se il

soggetto non giace orizzontalmente, ci sono anche effetti non trascurabili dovuti alla

pressione idrostatica del sangue stesso.

Seguendo la evidente analogia con la legge di Ohm, possiamo definire la resistenza

idraulica come:

R = p1-p2

Q R = V

i dove R =

8 η l

π r4 ha unità di misura N m-2/(m3 s-1) ed

è in notevole analogia formale con la legge: R = ρ lS

E' chiaro quindi che anche i

classici concetti di resistenza in

serie e parallelo possono essere

estesi al caso di restringimenti

e diramazioni dei vasi.

E' chiaro altresì che tutta la rete

vascolare può essere

considerata come un enorme

circuito serie-parallelo di tutti i

vasi sanguigni (Fig. 5).

Ricordando la figura 4, si può

allora notare come la caduta di

pressione a livello dei capillari

sia piccola rispetto a quella in particolare osservata a livello delle arteriole e quindi come

la resistenza complessiva dei capillari, nonostante il piccolissimo raggio degli stessi, sia

inferiore a quella complessiva delle arteriole; questo perché il numero dei capillari in

parallelo é molto più grande di quello delle arteriole e ciò rende piccola la loro resistenza

complessiva. Ricordiamo infine che la regolazione vasomotoria si basa proprio sulla

possibilità di variare il numero totale di arteriole e di capillari aperti al flusso del sangue e

di conseguenza la resistenza complessiva del sistema vascolare.

VISCOSITA' ANOMALA DEL SANGUE

Il sangue é una sostanza eterogenea costituita dal plasma (che é a sua volta costituito per il

90% di H2O e di altre piccole parti di proteine e di altri costituenti organici ed inorganici)

che contiene dispersi globuli rossi (eritrociti), globuli bianchi (leucociti) e piastrine. I

globuli rossi hanno nei soggetti normali una densità media di distribuzione uguale a 5

milioni/mm3: essi possono giungere fino ai più piccoli capillari, di dimensioni anche

inferiori agli stessi globuli rossi, grazie alla loro deformabilità ed al potere fluidificante

R = R1 + R2

R1

R2

R3

R2

R1

R R2

1 1

R1

+ 1 + 1

R3

R

Fig. 5

26

della membrana che li avvolge. Il rapporto tra il volume totale degli eritrociti ed il volume

del sangue che li contiene prende il nome di ematocrito e si indica

Hct = Veritrociti

Vsangue che li contiene

e in condizioni normali vale circa a 0,4.

Il numero dei leucociti, sempre in individui normali, varia mediamente fra 4000 ed 8000

per mm3; essi hanno compiti di difesa dell'organismo. Le piastrine, che hanno un valore

medio normale di 250.000 - 300.000 per mm3, intervengono soprattutto nei processi di

coagulazione. Evidentemente la fisiologia della circolazione é estremamente influenzata da

una composizione così complessa e variabile. Si considerino in particolare gli effetti sulla

viscosità del sangue. La figura 6 riporta la viscosità ematica in funzione dell'ematocrito.

La dipendenza é tale che quando si

supera il valore medio normale

(punto P, la cui posizione può

variare in considerazione dell'età e

della condizione fisio-patologica del

soggetto), la viscosità aumenta; con

un valore di Hct > 70%, comincia

a crescere così rapidamente che

addirittura il sangue non può essere

più schematizzato neanche come un

fluido non-Newtoniano; gli eritrociti

sono ora così addensati che il cuore

deve compiere un super lavoro per mantenere stazionaria la circolazione. Dal punto di

vista fisico il sangue é divenuto un mezzo materiale quasi plastico.

Quando invece il fattore Hct scende al di sotto del valore normale (anemia), poichè la

pressione sanguigna rimane sostanzialmente la stessa, deve necessariamente aumentare la

portata cardiaca per compensare la diminuizione della viscosità, come si può stimare con la

legge di Hagen-Poiseuille.

Si osserva inoltre che la viscosità nel sangue dipende dalla sezione vascolare e dalla

velocità di scorrimento.

Nelle grosse e medie arterie abbiamo una sostanziale costanza della viscosità, mentre nelle

arteriole di diametro minore di 100 m, decresce al diminuire della sezione,

allontanando così il sangue dal comportamento Newtoniano. Il valore di diminuisce

anche all'aumentare del gradiente di velocità; questo fatto dipende principalmente dalla

forma degli eritrociti che tendono ad orientare il loro asse maggiore parallelamente alle

linee di flusso e ad addensarsi lungo l'asse centrale dei grossi vasi, provocando una

variazione radiale del valore di nello stesso vaso. Da ultimo osserviamo che, come tutti i

liquidi ricchi di acqua, il sangue ha una viscosità che cresce al diminuire della temperatura.

Il congelamento degli arti é appunto una conseguenza dell'aumento di in ambiente

freddo che fa diminuire il flusso circolatorio del termovettore ematico.

Concludiamo ricordando che non sempre il moto del sangue è laminare; infatti in alcuni

punti ci sono le condizioni per l'instaurarsi di un complesso moto turbolento e vorticoso.

Inoltre il sangue talvolta non può essere considerato neanche un fluido Newtoniano (un

fluido cioè che risponde alla legge di Poiseuille). Infatti l'acqua ed il plasma normale hanno

il coefficiente di viscosità praticamente indipendente dalla velocità di scorrimento, mentre

particolari soluzioni di macromolecole, le miscele organiche contenenti particelle in

sospensione, molti olii e grassi lubrificanti ed il sangue stesso hanno a temperatura

plasma

H2O

sangue

valore

normale

1

2

5

p

η (centipoise)

10 50 % Hct x 100

Fig. 6

27

costante un coefficiente di viscosità che diminuisce all'aumentare della velocità: dunque si

comportano come liquidi non Newtoniani (quando il coefficiente di viscosità dipende dalla

velocità di scorrimento il liquido si dice tixotropico). Aggiungiamo infine che il sangue per

raggiungere vasi di sezione molto piccola si comporta come un corpo di Bingham: questo

vale a dire che gli aggregati corpuscolari in esso presenti sotto l'azione della pressione, che

deve comunque superare un certo valore di soglia po, si deformano per poter scorrere

attraverso sezioni di dimensioni più piccole di quelle che gli stessi aggregati posseggono in

condizioni normali.

Il lavoro del cuore La pressione del sangue nell'aorta prodotta durante la contrazione (sistole) del ventricolo

sinistro é di circa 120 mmHg e scende a 80 mmHg durante il rilassamento del cuore

(diastole). Nel circuito polmonare, come abbiamo già detto, le pressioni sono minori, 27

mm Hg nella sistole e 10 mm Hg nella diastole, perchè il circuito polmonare é molto meno

esteso ed offre meno resistenza di quello sistemico.

28

Calcoliamo ora il lavoro

eseguito dal ventricolo

sinistro (per quello destro il

calcolo é analogo e bisogna

solo cambiare i valori delle

pressioni), riportando i valori

sperimentali in un

diagramma pressione -

volume (fig.7, p é la

pressione ventricolare, V é il

volume del ventricolo).

All'inizio del ciclo, il sangue

arriva dai polmoni e si

immette (dall'atrio sinistro)

nel ventricolo sinistro il

quale, riempiendosi, si dilata

da un volume VA a un

volume VB senza un

aumento sensibile della pressione, che passa da un valore P0 a un valore P1 molto vicino a

P0 (circa 5 mm Hg). Quando il ventricolo é pieno di sangue, la valvola bicuspide si chiude

e le fibre muscolari si contraggono facendo aumentare la pressione del sangue da P1 a P2

(circa 85 mm Hg). Poichè il sangue é praticamente incompressibile il volume del

ventricolo durante questa fase resta inalterato. A questo punto si apre la comunicazione

con l'aorta e il sangue viene iniettato nell'arteria mentre il cuore continua a contrarsi e

quindi a far crescere la pressione che raggiunge il valore di 120 mm Hg. Durante la

contrazione il volume del ventricolo diminuisce e da VB si riporta a VA. Finita l'eiezione

del sangue e tornato il volume da VB a VA si inizia una rapida fase di rilassamento

(diastole). La comunicazione con l'aorta si chiude e le fibre muscolari si rilassano sicchè la

pressione all'interno del ventricolo scende al valore iniziale P0 e si chiude il ciclo.

L'area individuata dalla curva chiusa ABCDA rappresenta il lavoro fatto dal cuore perchè,

essendo in ascisse rappresentati i volumi e in ordinate le pressioni, il prodotto:

pressione • volume = F

l2 • l3 = F • l

ha le dimensioni fisiche di un lavoro (forza per spostamento).

Se assimiliamo l'area ABCD a un rettangolo di altezza media Pv (pressione ventricolare

media) e di base VB - VA (P0 e P1 possiamo considerarli uguali a zero) si ha:

L = Pv (VB - VA).

Il volume VB - VA si calcola in base alla portata Q del sangue e alla frequenza di

pulsazione del cuore n:

VB - VA = Qn

.

Ad esempio per un individuo normale in cui Q = 5 litri al minuto e n = 60 pulsazioni al

minuto si ha che il volume di sangue emesso ad ogni pulsazione é:

80 160 V (ml)

AB

CD

P0

P1

P2

Pv

120

100

80

p( mmHg)

29

VB - VA = 5000 cm3

60 ~ 83 cm3

Sostituendo a VB - VA il rapporto Q/n, il lavoro del cuore diventa:

L = Pv Qn

.

Ciò che é possibile misurare (con uno sfigmomanometro) però non é la pressione

ventricolare Pv ma la pressione arteriosa Pa. In genere poi la pressione sistolica é di 120

mm Hg mentre quella diastolica é di 80 mm Hg per cui come pressione arteriosa media si

prende Pa = 100 mm Hg. Applichiamo allora il teorema di Bernoulli supponendo che il

sangue sia un liquido ideale e che il ventricolo sinistro e il primo tratto dell'aorta siano alla

stessa altezza, in modo da eliminare i termini ρgh.

Si ha:

Pv + 12

ρ vv2 = Pa + 1

2 ρ va

2

Il sangue nel ventricolo può considerarsi fermo, quindi vv = 0, mentre nella aorta si muove

con una velocità media di 30 cm/sec. Allora:

Pv = Pa + 12

ρ va2

e per il lavoro del cuore si ottiene:

L = Qn

⋅ Pa + 12

ρ va2

Ponendo:

Qn

= 83 cm3, Pa = 100 mm Hg = 1,33 • 105 dine/cm2, ρ = 1 gcm-3, va = 30 cm/sec,

si ha che il lavoro del ventricolo sinistro Ls é:

Ls = 83 (133.000 + 450) erg = 1,17 • 107 erg = 1,17 joule

Si noti come il termine 12

ρv2 risulti piccolo (450 erg) rispetto al termine Pa (133.000 erg);

ciò sta ad indicare che il lavoro fatto dal cuore per aumentare la velocità é trascurabile

rispetto a quello necessario per innalzare la pressione. Per il cuore destro invece, dato che

la pressione arteriosa media nell'arteria polmonare é circa un quinto di quella media

nell'aorta (20 mm Hg), si avrà che anche il lavoro é ridotto a un quinto, cioé a circa 0,2

joule.

Complessivamente, quindi, ad ogni pulsazione il lavoro compiuto vale:

L = Ls + Ld = 1,1 +0,2 = 1,3 joule.

Poichè si ha una pulsazione al secondo, la potenza dissipata é di 1,3 watt.

30

ASPETTO ONDULATORIO E CORPUSCOLARE DELLA RADIAZIONE ELETTROMAGNETICA

1. CONSIDERAZIONI GENERALI

La fisica classica adotta per la radiazione elettromagnetica un modello ondulatorio,

secondo il quale in ogni punto dello spazio sede di un campo elettromagnetico vibrano un

vettore campo elettrico ed un vettore campo magnetico, tra loro ortogonali.

Questo modello è in grado di rendere conto di molti fatti sperimentali. La

propagazione rettilinea, la riflessione, l'interferenza, la diffrazione, sono infatti

perfettamente interpretate alla luce del modello ondulatorio.

Tuttavia esistono altri fatti sperimentali che non riescono ad essere inquadrati in

questo modello. Sono quei fenomeni nei quali risulta, in un modo o nell'altro coinvolta la

materia. Così quelli per cui la radiazione si origina dai corpi (emissione) o viene da questi

assorbita (assorbimento) o comunque modificata (per es. la diffusione).

Ebbene questi fenomeni possono essere interpretati quando si adotti per la

radiazione un modello corpuscolare.

Secondo questo modello la radiazione elettromagnetica è costituita da "granuli" di

energia, detti quanti (o fotoni) che viaggiano con la velocità della luce.

Ad ogni fotone corrisponde l' energia ε = hν, la massa equivalente m = hν/c2, la

quantità di moto q = ε/c = hν/c = h/λ e lo spin s = 1.

Va subito ricordato che, se è vero che il modello ondulatorio non riesce a

descrivere tutte le proprietà della radiazione elettromagnetica, è altrettanto vero che

neppure il modello corpuscolare è in grado di spiegare i fenomeni di interferenza e di

diffrazione che sono caratteristici della propagazione per onde.

Insomma la radiazione elettromagnetica si presenta ora con un aspetto ondulatorio

ora con un aspetto corpuscolare, a seconda del fenomeno nel quale è coinvolta.

Questi due aspetti, corpuscolare e ondulatorio, che appaiono come due

manifestazioni inconciliabili e contraddittorie di un'unica realtà fisica trovano una

spiegazione ed una descrizione completa e soddisfacente nella meccanica quantistica. Qui,

di seguito, vengono illustrati alcuni fatti sperimentali di particolare rilievo che mettono in

evidenza la duplice natura della radiazione elettromagnetica.

ASPETTO ONDULATORIO: DIFFRAZIONE DEI RAGGI X

Nello stato solido gli atomi, interagendo intensamente fra loro, costituiscono una

struttura compatta e ordinata nella quale essi risultano disposti in modo geometricamente

regolare in modo da formare uno schema tridimensionale che si ripete nello spazio.

Questa struttura ordinata si chiama reticolo cristallino.

Esistono diversi tipi di reticoli cristallini. Uno dei più semplici è il reticolo

monometrico cubico in cui gli atomi sono disposti nei vertici di un cubo che si ripete per

traslazione lungo le direzioni dei tre spigoli che concorrono in uno stesso vertice (fig. 4).

Consideriamo ora un fascetto di raggi X paralleli e monocromatici provenienti

dalla sorgente S che colpiscono in O un cristallo C formando un angolo θ con i piani

reticolati.

Un opportuno dispositivo rilevatore R messo sulla direzione OP raccoglie i raggi X

diffratti dai piani reticolari dei cristalli.

31

L'esperienza mette in evidenza che l'intensità di questi raggi è apprezzabile

solamente quando fra la distanza reticolare d, la lunghezza d'onda λ dei raggi X e l'angolo

θ passa la relazione

1) 2d sen θ = n λ

essendo n un numero intero positivo. Questa relazione è nota come legge di Bragg. Per

interpretarla è indispensabile adottare per la radiazione elettromagnetica il modello

ondulatorio.

S

F

C

O

θ

2θθ

P

M

R

Fig.1

Infatti, considerando i raggi X come un fascio di onde elettromagnetiche piane e

monocromatiche che investono il cristallo in una data direzione, si deve ammettere che gli

elettroni di ogni atomo colpito, sotto l'azione della componente elettrica del campo,

entrano in vibrazione ed emettono, a loro volta, onde elettromagnetiche.

Queste onde si diffonderanno in tutte le direzioni interferendo fra loro e risultando

rinforzate solamente in quelle direzioni in cui saranno in concordanza di fase. E' facile

convincersi come le onde che giungono in P da due atomi qualsiasi A e B dello stesso

piano reticolare (vedi fig. 2a) sono sempre in concordanza di fase, e quindi si rinforzano,

indipendentemente dal valore dell'angolo θ.

Siano ora A e B due atomi disposti su due piani reticolari successivi (figura 2b) e

sulla normale comune (distanza tra A e B è pari a d). E' evidente che le onde diffratte

dall'atomo A per giungere al rivelatore posto in P, devono percorrere il cammino SAP,

mentre quelle provenienti dall'atomo B devono percorrere il tratto SBP. La differenza di

cammino è espressa da LB + BM. Essendo ALB e AMB due triangoli rettangoli con gli

angoli in A uguali a θ in entrambi i casi, si ha:

LB = AB sen θ = d = BM

perciò risulta

LB + BM = 2d sen θ

32

Le onde provenienti da A e da B giungeranno in P in concordanza di fase e, quindi

rinforzate, se la differenza dei cammini percorsi è uguale ad un multiplo intero di λ. Cioè

la condizione perchè il rilevatore indichi una intensità apprezzabile di raggi X diffratti è

che risulti

2d sen θ = n λ

E questa è appunto la relazione di Bragg.

Dunque il modello ondulatorio riesce perfettamente a spiegare la diffrazione dei

raggi X.

o

o

o o

o

o

oo

o

o

oo

S

P

A Bo

o

o o

o

o

oo

o

o

oo

SP

B

θL

Md

θ θA

n

Diffrazione da atomi dello stesso piano reticolare

Diffrazione da atomi di piani reticolari contigui

a)

b)

θ

Fig.2

ASPETTO CORPUSCOLARE: EFFETTO FOTOELETTRICO

Quando una radiazione elettromagnetica colpisce una superficie metallica è

possibile ottenere una emissione elettronica. Gli elettroni espulsi sono detti "fotoelettroni".

Nel caso di metalli alcalini è sufficiente una radiazione compresa nella regione

visibile dello spettro a produrre l'effetto; nella maggior parte dei metalli, invece, è

necessario ricorrere alla radiazione ultravioletta o X.

Più precisamente, per ogni metallo esiste una frequenza di soglia νo al di sotto

della quale non si ha emissione di elettroni.

Esperienze molto accurate hanno messo in evidenza:

a) l'energia cinetica massima con la quale sono emessi i fotoelettroni non dipende dalla

intensità, ma è proporzionale alla frequenza ν della radiazione;

b) il numero dei fotoelettroni emessi nell'unità di tempo dall'unità di superficie del

metallo è proporzionale all'intensità della radiazione incidente.

La figura 3 illustra la dipendenza della energia cinetica massima Tmax dei

33

fotoelettroni dalla frequenza della radiazione incidente .

Questa dipendenza, dedotta empiricamente, viene espressa dalla relazione:

2) Tmax = m(ν - νo)

dove m = tg α è il coefficiente angolare della retta.

Questa relazione non trova alcuna giustificazione nella teoria classica

dell'elettromagnetismo che adotta per la radiazione un modello ondulatorio. Infatti secondo

la teoria classica le onde elettromagnetiche, penetrando negli strati superficiali del metallo,

sottopongono gli elettroni che vi sono contenuti all'azione del campo elettrico rapidamente

alternato, trasferendo ad essi energia fino a consentire loro di essere espulsi dal metallo. E'

evidente che, secondo queste idee, l'energia trasferita agli elettroni è tanto più grande

quanto maggiore è l'ampiezza del campo elettrico e quindi quanto è maggiore l'intensità

della radiazione.

Secondo queste idee, dunque, non

esisterebbe una frequenza di soglia e

l'energia cinetica con la quale sono emessi

gli elettroni dipenderebbe dall'intensità

della radiazione contrariamente ai dati

sperimentali che la vogliono

proporzionale alla frequenza. Questa

difficoltà può essere superata se,

seguendo Einstein (1905), s'immagina che

una radiazione monocromatica di

frequenza ν è costituita da un insieme di

corpuscoli (quanti di energia

elettromagnetica) detti fotoni che si

muovono con la velocità della luce. A ciascun fotone spetta l'energia

ε = hν

essendo h la costante di Planck (h = 6.6·10-34 Js).

Ogni fotone, interagendo con un elettrone di conduzione cede a questo tutta la

propria energia. Solo se questa risulta maggiore dell'energia di legame E1 può avere luogo

l'effetto fotoelettrico.

Questa condizione corrisponde dunque a hν ≥ E1 e quindi ν ≥ E1/h. Il valore del

rapporto E/h corrisponde proprio alla soglia fotoelettrica νo trovata sperimentalmente.

Quando ν > νo l'energia cinetica massima con la quale può essere liberato

l'elettrone è data dalla differenza fra l'energia ricevuta hν e l'energia E1 = hνo spesa per

uscire dal metallo, cioè

3) Tmax = hν - E1 = h (ν - νo)

Il valore di h concorda entro i limiti degli errori con quello trovato

sperimentalmente per il coefficiente m della (2).

Tmax

α

Β

m νo

νo

34

Inoltre, essendo evidentemente l'intensità della radiazione uguale al numero di

fotoni che colpiscono in ogni secondo la unità di superficie del metallo, al crescere

dell'intensità, aumenta proporzionalmente il numero degli elettroni emessi, appunto come

mette in evidenza l'esperienza. Si vede così che il modello corpuscolare riesce

perfettamente a spiegare l'effetto fotoelettrico.

COMPORTAMENTO ONDULATORIO DELLE PARTICELLE

LE ONDE DI DE BROGLIE

Per quanto riguarda la radiazione elettromagnetica, abbiamo visto che esistono dei

fenomeni, come l'interferenza e la diffrazione, che possono essere interpretati solamente

alla luce di un modello ondulatorio, mentre ne esistono altri, come l'effetto fotoelettrico e

l'effetto Compton che richiedono l'adozione di un modello corpuscolare. La radiazione

elettromagnetica presenta così un duplice aspetto: può essere considerata sia come un

fascio di fotoni, sia come un insieme di onde.

Nel 1924 De Broglie, partendo dall'osservazione che la formulazione matematica

delle leggi che regolano il moto di un fascio di particelle è assai simile a quella delle leggi

che governano la propagazione di un fascio di onde, fece l'ipotesi che anche per le

particelle potesse presentarsi un analogo duplice aspetto, corpuscolare e ondulatorio. Così

ad ogni particella (elettrone, protone, neutrone, ecc.) egli attribuì una lunghezza d'onda

data dal rapporto tra la costante di Planck e la quantità di moto:

4) λ = h/mv

Questa notevole intuizione fu poi puntualmente confermata da numerose

esperienze; la prima delle quali fu la famosa esperienza di Davisson e Germer che permise

nel 1927 di evidenziare fenomeni di diffrazione con gli elettroni come già si faceva con la

radiazione elettromagnetica. Così le particelle dotate di massa come gli elettroni, i protoni,

i neutroni, ecc., potevano non solo provocare collisioni e muoversi come palle da bigliardo

(come avviene nell'effetto Compton, qui non trattato) ma erano anche accompagnate da

un'onda, caratterizzata dalla lunghezza d'onda λ= h/mv e detta, appunto, "onda di De

Broglie".

Va subito sottolineato che le onde di De Broglie non sono da confondere con le

onde elettromagnetiche della teoria di Maxwell, ma costituiscono un fenomeno del tutto

nuovo.

Il loro significato fisico va ricercato nell'ambito della "meccanica quantistica" che è

un corpo di dottrina organico e logicamente coerente in grado di interpretare la

fenomenologia microscopica.

RADIOGRAFIA (Assorbimento dei raggi X)

Supponiamo che una radiazione monocromatica X incida su una lastra di materiale

omogeneo il cui spessore vale x (fig. 4a).

35

I0 I∆x i

xI i

Ii + ∆Ii

b)a)

Fig.4

Se l'intensità incidente della radiazione vale I0 dalla lastra emerge un fascio che ha

un'intensità attenuata I. Immaginiamo di suddividere la lastra in tante fettine molto sottili

ciascuna di spessore ∆x. Consideriamo in figura 4b la fettina iesima. Se l'intensità

incidente della radiazione X vale Ii, essa subirà un'attenuazione ∆Ii (<0). Sperimentalmente

si vede che per una lastra molto sottile l'attenuazione vale:

∆Ii = - µ Ii ∆xi ∆Ii

Ii

= - µ ∆xi

cioè ∆Ii è proporzionale allo spessore ∆xi, all'intensità iniziale Ii e ad un coefficiente µ che

dipende dalla frequenza della radiazione incidente e dal materiale.

Sommiamo ora le attenuazioni relative ∆Ii/Ii su tutte le fettine successive, fino a prendere

in considerazione lo spessore x della lastra:

Σi

∆Ii

Ii

= - µΣi∆xi

Passando al limite si ottiene (∆I e ∆x tendono al limite contemporaneamente):

∆Ii →0lim

∆IiIi1

n∑ = −µ

∆x i→0lim ∆x i

1

n∑

lnIx

I0

= -µx e quindi Ix

I0

= e-µx e infine I x = I0 e-µx

che ci dà la legge esponenziale di assorbimento della radiazione X nei materiali e che ha la

seguente rappresentazione grafica:

36

I

x

I0

Fig.5

Occorre qui ricordare che il coefficiente di assorbimento µ dipende dalla lunghezza

d'onda della radiazione incidente e dal tipo di materiale usato. Nella radiografia X ad uso

medico i vari organi hanno coefficienti di assorbimento differenti, per cui, essendo

differente la "trasparenza" ai raggi X, ne risulterà un contrasto che può mettere in evidenza

le varie parti. Quando il contrasto naturale è debole si può agire in modo da aumentarlo

facendo ingerire o iniettando particolari sostanze "opache".

37

PRINCIPI FISICI DELLA TOMOGRAFIA A RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE 1. INTRODUZIONE

Verranno qui di seguito riportati i principi fisici su cui si basa la moderna tecnica di

tomografia a risonanza magnetica nucleare, che permette di ottenere delle immagini

riguardanti la struttura interna del corpo umano o di altri organismi viventi in maniera

poco invasiva. In particolare possono essere ottenute immagini di sezioni orientate a

piacimento.

La caratteristica principale di questa esposizione sarà l'estrema semplificazione e

schematizzazione di una tecnica complessa e sofisticata, la cui comprensione non é affatto

banale neanche per i laureati in discipline tecnico-scientifiche. Lo scopo é quello di fornire

agli studenti la conoscenza del concatenamento logico dei vari fenomeni fisici su cui si

basa tale straordinaria tecnica.

Infatti, tenendo conto che il tempo disponibile per esporre tale tecnica in un corso di

FISICA é estremamente ridotto e che una trattazione piu' completa e piu' tecnica verrà data

nel corso di RADIOLOGIA, si é cercato di minimizzarne la lunghezza espositiva,

privilegiando gli aspetti fisici essenziali della "filosofia" di funzionamento della macchina.

Nella prossima sezione verrano richiamati nella prima parte i concetti di fisica classica già

studiati che sono necessari in questo contesto, e presentati nella seconda parte i concetti di

fisica piu' avanzata che sono pure necessari per l'esposizione succinta della tecnica che

avrà luogo in seguito.

2. RICHIAMI DI FISICA

2.1 Concetti convenzionali.

Con la denominazione concetti convenzionali si definiscono quei concetti fisici che sono

già stati svolti nel corso di FISICA e che sono riportati in particolare nel volume

"Introduzione alla Fisica Biomedica" di S. MELONE and F. RUSTICHELLI (Ed. Ragni,

Ancona).

2.1.1 Dipolo magnetico.

Una spira percorsa da corrente costituisce un dipolo magnetico, il cui momento magnetico

m é definito da

(1) m = isn

dove i é l'intensità di corrente che circola nella spira, s é la superficie del cerchio associato

alla spira ed r n é un vettore unitario perpendicolare al piano della spira e rivolto verso

l'osservatore che vede circolare la corrente nel senso antiorario (fig.1).

2.1.2 Campo magnetico generato da una spira percorsa da corrente.

38

Una spira percorsa da corrente genera un campo magnetico B che nel

centro della spira é un vettore parallelo al momento magnetico m

(fig.1), dato da:

(2) B = µ0 i

2r n

essendo µ0 la permeabilità magnetica nel vuoto e r il raggio della spira.

N.B. Tale campo magnetico non é da confondere con il momento

magnetico. E' da notare, tra l'altro, che il momento magnetico é direttamente proporzionale

al quadrato del raggio della spira, mentre il campo magnetico é inversamente

proporzionale al raggio.

2.1.3 Spira percorsa da corrente in un campo magnetico esterno.

Una spira percorsa da corrente (dipolo magnetico) immersa in un campo magnetico esterno

B0 si orienta in modo che il suo momento magnetico m sia parallelo a B0. L'energia

potenziale associata alla spira immersa in B0 é

(3) U = - m x B0 = - m • B0 • cosα

dove α é l'angolo compreso tra m e B0.

Tale energia potenziale é minima quando m é parallelo a B0 (fig.2). Infatti in questo caso

si ha dall'eq. 3:

(4) α= 0 → cosα = 1 → U min = - m • B0

L'energia potenziale é invece massima quando m e B0 sono antiparalleli (fig.2). Infatti in

questo caso si ha:

(4bis) α = π → cosα = -1 → U max = m • B0

In questa configurazione basta una piccola perturbazione per determinare una rotazione del

dipolo magnetico che si dispone parallelamente al campo magnetico B0.

B

m

i

FIG. 1

39

U = mB

U = - mB

∆∆∆∆U = 2mB

B

m

B

m

FIG. 2

Si hanno quindi due livelli energetici (fig.2): il

primo corrisponde ad una situazione di equilibrio

stabile con m e B0 paralleli tra di loro ed energia

potenziale minima Umin= - m•B0; il secondo

corrisponde ad una situazione di equilibrio instabile

con m e B0 antiparalleli ed energia potenziale

massima Umax = m • B0.

La differenza di energia tra i due livelli é:

(5) ∆U = m • B0 - (-m • B0) = 2 m • B0.

2.1.4 Forza elettromotrice indotta; La legge di

Faraday.

Quando un filo metallico chiuso é concatenato con

un flusso variabile del campo magnetico, nel filo

nasce una corrente indotta. Questa é prodotta dal

campo elettrico indotto la cui circuitazione lungo il

filo misura la forza elettromotrice. Il valore di tale

forza elettromotrice é dato dalla legge di Faraday:

(6) f.e.m. = - ∆ΦS(B)

∆t

dove ∆ΦS(B) é la variazione nell'intervallo di tempo ∆t del flusso del campo magnetico

B attraverso la superficie S delimitata dal filo chiuso.

2.2 Concetti non convenzionali

L

µ

↓↓ ↓↓

↓↓ ↓↓

FIG. 3

40

2.2.1 Momento angolare e momento magnetico dell'atomo di idrogeno.

Il nucleo atomico dell'idrogeno possiede un momento angolare L poiché ruota su se stesso

(fig.3).

Poiché tale nucleo é carico positivamente e le cariche che si muovono su percorsi circolari

sono equivalenti a spire percorse da corrente, sarà associato ad esso un momento

magnetico che da ora in poi indicheremo con il simbolo µ invece che con m (fig.3).

2.2.2 Energia dei fotoni.

Un'onda elettromagnetica di frequenza ν é costituita da entità elementari chiamate fotoni,

aventi ciascuno un energia ε data da:

(7) ε = hν

dove h é una costante universale, chiamata costante di Planck, il cui valore é

h = 6,6256 x 10-34 J.s.

3. LA TOMOGRAFIA A RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE

La tomografia a risonanza magnetica nucleare (detta anche NMR da "Nuclear Magnetic

Resonance") fornisce delle immagini di sezioni del corpo umano, che sono basate sulla

diversa concentrazione di acqua, o più esattamente di atomi di idrogeno nei diversi tessuti.

41

.

Bo

↓↓ ↓↓

FIG.4FIG.5

Se consideriamo un elemento di volume del corpo umano, in assenza di un campo

magnetico esterno, i momenti magnetici dei nuclei di idrogeno in esso contenuti sono

orientati nello spazio in modo del tutto casuale (fig.4).

L

ωωωω0

↓↓ ↓↓↓↓ ↓↓

B0

↓↓ ↓↓

L

ωωωω0

↓↓ ↓↓

↓↓ ↓↓

↓↓ ↓↓

g

FIG.6 In

presenza di un campo magnetico esterno B0 secondo la fisica classica tutti i nuclei

dovrebbero orientarsi parallelamente a tale campo B0 (fig.5) in accordo con quanto visto

nella sez. 2.1.3 e secondo la configurazione di equilibrio stabile indicata in basso nella fig.

2.

42

In realtà avviene qualcosa di diverso. Innanzitutto

nella configurazione di minima energia potenziale il

momento magnetico del nucleo di idrogeno non è

esattamente parallelo al campo magnetico B0, ma

poichè il nucleo ruota su se stesso, esso compie un

moto di precessione attorno a B0 (cioè il vettore L

descrive un cono, o meglio la sua punta descrive un

cerchio girando attorno a B0 come mostrato in

fig.6) analogamente a quanto fa una trottola attorno

al campo gravitazionale (fig.6).

Una situazione simile si ha per la configurazione

antiparallela che è sostituita in realtà da quella

mostrata nella parte inferiore della fig.7.

L'angolo θ tra il momento magnetico µ del nucleo

di idrogeno ed il campo magnetico B0 non può

variare a piacere, ma, secondo la meccanica

quantistica, può assumere solo due valori

corrispondenti o alla configurazione "parallela",

caratterizzata da un angolo θ1 acuto (pari a 60°),

oppure alla configurazione "antiparallela"

caratterizzata da un angolo θ2 ottuso (pari a 120°).

La componente di µ lungo B0 è µB = 1/2 µ

nella configurazione parallela e µB = -1/2 µ

nella configurazione antiparallela (fig.8).

Di conseguenza i due livelli energetici

corrispondenti alle due configurazioni

corrispondono alle energie potenziali U= -

1

2µB0 e U=

1

2µB0 (fig.9), così che la

differenza di energia potenziale è data da

(8) ∆U =

1

2 µB0 - (

1

2 µB0) = µB0.

Ci si aspetterebbe che, in presenza di un

campo magnetico esterno B0, tutti i nuclei

di idrogeno si dispongano nella configurazione "parallela" indicata in fig.10.

Ciò in realtà avviene solamente alla temperatura zero assoluto. Infatti, a causa

dell'agitazione termica, ad una temperatura ordinaria, diversi nuclei acquistano energia

sufficiente per saltare nella posizione "antiparallela", così che in pratica se immergiamo un

corpo umano in un campo magnetico uniforme una maggioranza di nuclei N1 si disporrà

nella configurazione "parallela" ed una minoranza N2 nella configurazione "antiparallela"

(fig.11).

FIG.7

B0

↓↓ ↓↓

→→→→

1

2µµµµ

FIG.8

B0

µµµµθθθθ

θθθθ

µµµµB

=-

µµµµB

=1

2

µµµµ

→→→→

43

Il valore del rapporto N2/N1 dipende dalla temperatura assoluta T del corpo umano ed è

previsto dalla meccanica statistica essere

(9) N2

N1

= e-

µ BO

KT

dove K è la costante di Boltzman data da

K = R/N

dove R è la costante universale dei gas perfetti ed N è il numero di Avogadro.

0B

↓↓ ↓↓

µµµµ ↓↓ ↓↓

1

2µµµµ

µµµµ-1

2

U =

0U =

B

B

B0

↓↓ ↓↓

0B

FIG.9

µµµµ ↓↓ ↓↓

Per un valore di B0 pari a 1 Tesla, ossia a 104 Gauss, si ha che a temperatura ambiente

(10) N2/N1 = 0,9999993,

ossia le due popolazioni sono quasi uguali. La leggera differenza esistente è tuttavia

sufficiente a far sì che la tecnica di tomografia a NMR funzioni egregiamente.

44

B0

FIG.11FIG.10

B0

Tale disposizione spaziale é del tutto fittizia: infatti in ogni elemento di volume, ad

esempio in ogni millimetro cubo del corpo umano, esistono mescolati intimamente sia

nuclei disposti "parallelamente" che nuclei disposti "antiparallelamente", come indicato in

fig.11. La fig.12 serve solo a ricordare che i nuclei disposti "antiparallelamente"

possiedono una energia potenziale superiore di µB0 rispetto ai nuclei disposti

"parallelamente".

B0

FIG.12

N2

N1

∆U= µB0

ASSORBIMENTO DI ENERGIA

EMISSIONE DI ENERGIA

45

Al fine di rendere più chiari gli argomenti che seguiranno si é costruita la fig.12, in cui

sono disegnati in basso, in corrispondenza del livello di energia minima, gli N1 nuclei di

idrogeno disposti "parallelamente" al campo magnetico B0, ed in alto, in corrispondenza

del livello di energia massima, gli N2 nuclei di idrogeno disposti "antiparallelamente".

Di conseguenza se vogliamo invertire la direzione di un nucleo, passando dalla

configurazione parallela a quella antiparallela (fig.12), dobbiamo fornirgli un'energia pari a

µB0, ad esempio investendolo con un fotone di energia ε che soddisfi l'equazione:

(11) ε = µB0

Nell'equazione (11) si suppone che tutta l'energia del fotone sia assorbita dal nucleo di

idrogeno, fenomeno questo che é previsto dalla meccanica quantistica. Tale fenomeno é

analogo a quello mostrato in fig.13.

Se abbiamo una biglia A in quiete sul fondo di una buca ad una profondità h e vogliamo

portarla in superficie dobbiamo fornirgli un'energia pari alla differenza di energia

potenziale tra i due livelli:

(12) ∆U = mgh.

B AvB

h ∆U = mgh

U = 0

U = - mgh

FIG.13

Ciò può essere realizzato facendo urtare la biglia A da una biglia B di uguale massa, che

possieda inizialmente una energia cinetica

(13) 1/2 m vB2 = mgh.

Se l'urto é centrale, dopo l'urto la biglia B rimane in quiete al posto della biglia A, che

assorbe pertanto tutta l'energia cinetica posseduta dalla biglia B.

Secondo la meccanica classica se la biglia B possiede un'energia cinetica iniziale superiore

al valore fornito dall'eq. (13), la biglia A riesce ugualmente a portarsi in superficie ed anzi

vi arriva mantenendo un'energia cinetica diversa da zero. In altre parole la condizione (13)

può essere sostituita da:

(14) 1/2 m vB2 ≥ mgh.

46

Nel caso invece dell'assorbimento di un fotone da parte di un nucleo di idrogeno, affinché

possa aver luogo il salto dal livello energetico più basso a quello più elevato occorre,

secondo la meccanica quantistica, che l'energia del fotone sia esattamente uguale alla

differenza di potenziale ∆U tra i due livelli, cioé a µB0. In altri termini l'eq. 11 vale solo

con il segno di eguaglianza e non di maggiore o uguale.

Se indichiamo con ν0 la frequenza dell'onda elettromagnetica che é capace di fare invertire

la direzione dei momenti magnetici di alcuni nuclei di idrogeno, l'equazione 11, tenendo

conto dell'eq.7, diventa:

(15) hν0 = µ B0 da cui si ottiene

(16) ν0 = mB0

h

L'eq. 16 ci fornisce il valore ν0 della frequenza della radiazione elettromagnetica che

investe il corpo umano, per la quale si ha il capovolgimento della direzione dei momenti

magnetici dei nuclei di idrogeno. Se immaginiamo di variare con continuità, partendo dal

valore zero, la frequenza ν di tale radiazione, quando si raggiunge il valore ν0 si avrà un

forte assorbimento di fotoni, che si ridurrà notevolmente per valori più grandi della

frequenza.

Se riportiamo in grafico il numero di fotoni assorbiti per unità di tempo in funzione della

frequenza ν della radiazione, otterremo un picco alla frequenza ν0, come riportato

nell'esempio di fig.14.

Tale fenomeno di assorbimento di una radiazione avente una frequenza ben determinata si

chiama risonanza e ν0 prende il nome di frequenza di risonanza.

Si può ora capire la terminologia risonanza magnetica nucleare: si hanno nuclei di

idrogeno che risuonano in un campo magnetico esterno con i loro momenti magnetici.

E' da notare come in fig.14 la risonanza dei nuclei di idrogeno avvenga per ν0 = 42,6 MHz,

per un campo magnetico esterno B0 = 10 KGauss, cioé di 1 Tesla. In effetti é importante

precisare il valore del campo magnetico esterno B0 perché, come appare dall'eq.16, il

valore di ν0 é proporzionale a B0: tale fatto fondamentale può essere sfruttato, come si

vedrà in seguito, per ottenere la tomografia, cioé un'immagine che ci fornisce la

distribuzione spaziale della densità di nuclei di idrogeno. In genere le frequenze delle

radiazioni assorbite in risonanza nei tomografi reali corrispondono a delle radiofrequenze e

pertanto sono poco invasive, contrariamente ai raggi-X, utilizzati sia nelle radiografie che

nella Tomografia Assiale Computerizzata (TAC), i quali producono ionizzazione e quindi

danno biologico nei tessuti attraversati.

Immaginiamo ora che un certo numero di nuclei di idrogeno siano passati dal livello

energetico 1 al livello 2, cioé da una configurazione "parallela" ad una "antiparallela".

Interrompiamo poi il flusso di radiazione elettromagnetica di frequenza ν0 che investe il

corpo umano, mantenendo invariato il campo magnetico esterno.

Ora i nuclei passati alla configurazione antiparallela si trovano in equilibrio instabile, per

quanto detto nella sezione 2.1.3, e quindi progressivamente ritornano nello stato di

equilibrio stabile (configurazione "parallela"), saltando dal livello 2 al livello 1.

47

S

N

GENERATORE RF

RICEVITORE RF

VARIATORE DI FREQUENZA

REGISTRA - TORE

SCHEMA A BLOCCHI DI UNO SPETTROMETRO A RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE

FIG.14: a)

Se poniamo nei pressi del campione una semplice bobina elettrica provvista di voltmetro

(fig.15), quando un nucleo di idrogeno inverte la direzione del momento magnetico

passando dalla configurazione "antiparallela" (2) a quella "parallela" (1), si ha che il

campo magnetico B creato dal nucleo ruotante, espresso in generale dall'eq.2, e

rappresentato nella fig.1, inverte anche lui la direzione.

40 42;6

ννννοοοο

Ia

Ii

19F

1H

Bo = 10 KG

νννν (MHz)

FIG 14 b) Registrazione "ideale "di un esperimento RMN su di un campione contenente nuclei di fluoro e idrogeno. In ordinata é riportato il rapporto tra fotoni assorbiti e fotoni incidenti Ia/Ii, ed in ascisse la frequenza ν.

48

Pertanto il flusso di B concatenato con la bobina varia nel tempo durante il

capovolgimento e per la legge di Faraday, espressa dall'eq.6, determina una forza

elettromotrice indotta V nella bobina che può essere misurata mediante il voltmetro.

B

↓↓ ↓↓

1

2

V

1

2

f.e.m. = -∆Φs(B)

∆∆∆∆ t

FIG.15

Ogni nucleo che decade dal livello 2 al livello 1 produce una certa differenza di potenziale

indotta nella bobina. Più nuclei che decadono contemporaneamente determinano una

differenza di potenziale multipla di quella prodotta da un solo nucleo. La differenza di

potenziale V0 al tempo zero ai capi della bobina é proporzionale quindi al numero di

nuclei di idrogeno che si diseccitano per unità di tempo al tempo zero, che é rappresentato

da - ∆N2

∆t 0

(il segno meno é necessario perchè ∆N2 é negativo, dato che N2 diminuisce

nel tempo). Si può scrivere quindi:

(17) V0 ∝ - ∆N2

∆t 0

Si osserva sperimentalmente che una volta che si interrompe il flusso di onde

elettromagnetiche di frequenza ν0 sul corpo umano, la forza elettromotrice V decade in

maniera esponenziale in funzione del tempo secondo l'equazione:

(18) V(t) = V0 • e-

t

τ

dove τ é il tempo di rilassamento che dipende dal nucleo che decade1. L'eq.18,

(rappresentata nella fig.16), sta a significare, se si considera l'eq.17 (che è valida per un

1(In verità nei tomografi reali la situazione è molto più complicata: in particolare invece di avere un solo

tempo di rilassamento se ne hanno due.)

49

tempo qualsiasi e non solo all'istante iniziale), che il numero di nuclei che si diseccitano

per unità di tempo diminuisce in maniera esponenziale in funzione del tempo.

SEGNALE

V (t)

Vo

TEMPO ( t )FIG.16 Ora possiamo facilmente immaginare che se ripetiamo l'esperimento raddoppiando il

numero di nuclei N1 e N2, raddoppierà anche il numero di nuclei che si diseccitano per

unità di tempo e quindi la differenza di potenziale V, per cui possiamo scrivere:

(19) - ∆N2

∆t 0

∝ N2

così per le eq. 17 e 19 si ha:

(20) V0 ∝ N2.

D'altro canto è evidente che N2 è proporzionale al numero totale di atomi di idrogeno n,

per cui la (20) diventa

(20 bis) V0 ∝ n

Dall'eq. 20 si può vedere che, in condizioni di risonanza magnetica nucleare, misurando la

forza elettromotrice ai capi della bobina al tempo zero, cioé subito dopo aver cessato

l'irraggiamento del campione con le onde elettromagnetiche di frequenza ν0, possiamo

avere informazioni (sia pure a livello relativo) sul numero di nuclei di idrogeno contenuti

nel campione. Ad esempio se abbiamo due scatolini di alluminio A e B di 1mm3 ciascuno,

di cui il primo sia riempito di acqua e contenga nA nuclei di idrogeno, mentre il secondo

sia riempito solo parzialmente e contenga nB nuclei di idrogeno, se inseriamo i due

scatolini in tempi successivi nella macchina avremo:

(21) V0A

V0B

= nA

nB

50

Se ad esempio il secondo scatolino é riempito a metà, avremo

V0A

V0B

= 2 .

In altri termini la macchina é capace di compiere una "pesata", relativa tra due campioni,

del numero di nuclei di idrogeno.

Si tratta ora di vedere come sia possibile ottenere delle immagini del corpo umano. Se noi

potessimo scomporre il corpo del paziente che vogliamo esaminare in tanti cubetti di

1mm3 ciascuno, allora utilizzando l'eq. 21 potremmo ottenere la densità dei nuclei di

idrogeno di un cubetto B qualsiasi riferita a quella di un cubetto A preso come riferimento.

Poiché la concentrazione di acqua, e quindi di nuclei di idrogeno, varia da tessuto a

tessuto, la distribuzione n(x,y,z) di densità dei nuclei di idrogeno così ottenuta (definita ad

esempio come numero di nuclei di idrogeno per mm3 nel punto P(x, y, z)) potrebbe fornire

facilmente immagini dei vari organi.

Ad esempio se moltiplichiamo tutte le densità relative ottenute n (x, y, z) per un fattore tale

che il valore massimo di n sia uguale a cento, potremmo assegnare un colore bianco ai

cubetti il cui valore di n sia compreso tra 0 e 10, un colore nero ai cubetto il cui valore di n

sia compreso tra 90 e 100 e dei colori grigi variabili dal chiaro allo scuro per gli insiemi di

cubetti il cui valore di n risulti appartenere alle bande intermedie (10-20); (20-30) e così

via.

A questo punto se vogliamo ottenere l'immagine di una sezione qualsiasi del corpo del

paziente, ad esempio del cranio, basta che riportiamo su di un foglio i colori dei cubetti che

appartengono a quel piano. E' ovvio che possiamo ottenere immagini di sezioni orientate

arbitrariamente. Questa tecnica, che funzionerebbe perfettamente, presuppone però di

sminuzzare in tanti cubetti il corpo del paziente, che probabilmente non sarebbe molto

contento.

Al fine di ovviare a tale inconveniente i fisici hanno escogitato un "trucco" di natura fisica

che consente di ottenere lo stesso risultato, in modo non distruttivo. Immaginiamo di

scomporre (ma questa volta idealmente) il corpo del paziente in tanti cubetti da 1 mm3: se

riuscissimo a "marcare" ogni cubetto in maniera fisica avremmo lo stesso risultato di cui

sopra. Questa marcatura è possibile grazie all'eq. 16, da cui appare che la frequenza di

risonanza dei nuclei di idrogeno dipende dal campo magnetico. Se riusciamo a far sì che

un cubetto qualsiasi, situato nel punto P(x, y, z), si trovi in un campo magnetico diverso

dagli altri esso assorbirà radiazione elettromagnetica ad una frequenza νP diversa dagli

altri. Per cui riuscendo a separare (e questo è possibile agevolmente con metodi fisici-

matematici classici), ai capi della bobina di cui sopra, il segnale V0(νP) corrispondente a

quella data frequenza, potremmo ottenere, grazie all'eq. 21, il numero di nuclei di idrogeno

nP, contenuti in quel cubetto rispetto ad un cubetto di riferimento. Così sarà possibile

ottenere n (x, y, z) e quindi le immagini.

Cerchiamo ora di precisare meglio questi concetti. Per ottenere un campo magnetico

diverso in ogni cubetto si introducono dei gradienti di campo magnetico, cioè campi

magnetici variabili nello spazio. La fig. 17 mostra un gradiente lineare di campo

magnetico in una dimensione, da cui appare che B dipende da x, ossia

51

(22) B = B(x).

Dalla (22) e dall'eq. 16 otteniamo

(23) ν = ν(x).

Dalla (23) si ha che un cubetto generico che si trovi ad una distanza x dall'origine

assorbirà radiazione elettromagnetica di frequenza ben determinata ν(x), che produrrà ai

capi della bobina un segnale V0 [ν(x)], che dipende da x ed é proporzionale al numero dei

nuclei di idrogeno n(x) contenuti nel cubetto.

Ad esempio due cubetti situati in x1 e

x2 sono immersi in campi diversi B1 e

B2 (fig.16) ed assorbiranno radiazioni

di frequenze ν1 e ν2 (vedi eq.16), che

daranno luogo a segnali diversi V01 e

V02 ai capi della bobina, così che

(24) n1

n2

= V01

V02

.

Se si applicano tre gradienti di campo

magnetico nelle tre direzioni

perpendicolari x,y,z, ogni cubetto si

trova in un campo magnetico diverso,

così che l'eq.22 é sostituita da

(25) B = B(x,y,z)

e l'eq. 23 da

(26) ν = ν (x,y,z).

L'eq. 26 significa che ogni cubetto che si trovi nella posizione x,y,z, assorbirà radiazione

elettromagnetica di frequenza ben determinata ν (x,y,z), che produrrà ai capi della bobina

un segnale V0 [ν (x,y,z)], che dipende da x,y,z ed é proporzionale alla densità di nuclei di

idrogeno n(x,y,z).

Dalla densità n(x,y,z) si può ottenere le immagini secondo quanto esposto in precedenza.

La fig. 18 mostra uno schema del tomografo NMR. Le bobine del magnete principale sono

indicate con A, mentre B, C e D sono le bobine che producono i gradienti di campo

magnetico rispettivamente lungo x, y e z. La bobina che trasmette gli impulsi di

radiofrequenza ed eventualmente riceve il segnale nucleare è indicata con E.

B(x)

B1

B2

x1 x2 x

FIG. 17

52

53

APPENDICE

ESEMPIO DI IMMAGINE DI UN SISTEMA BIDIMENSIONALE

Due campioni di acqua si trovano nel piano x,y (fig. 19).

Con un gradiente di campo magnetico lungo l'asse x si ottiene la distribuzione di densità

di nuclei di idrogeno n(x) lungo la sola dimensione x, che contiene i due picchi riportati in

fig. 20, che selezionano le due bande riportate in figura.

FIG.19

y

xn(x)

xFIG.20

La posizione dei due campioni resta imprecisata: essi possono trovarsi in qualunque punto

entro le due strisce.

Creiamo un gradiente anche lungo l'asse y (fig. 21).

La posizione dei due cilindri non é ancora univocamente determinata: ognuna delle quattro

regioni scure é ugualmente probabile. Se introduciamo un terzo gradiente (fig. 22) la

posizione dei cilindri resta univocamente determinata dalle due regioni più scure.

x

yFIG. 21

x

yFIG. 22