TACCUINO DI VIAGGIO | Marocco Marocco...e assorbite il Marocco in maniera passiva…Vi rimarranno...

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. 84 - Avventure nel mondo 2 | 2012 .................. ....................................................... TACCUINO DI VIAGGIO | Marocco Marocco ...................................................... sono i negozianti dei souk in pausa, famiglie con bambini, coppie di fidanzatini e avventori del souk; io che ho mangiato qui tre giorni di seguito non ho mai incontrato un solo turista europeo. Nonostante sia un cibo modesto e sconosciuto ai più, è a mio dire, il posto che più ci ha fatto sentire parte del tessuto sociale. Anche solo per un panino… SOUK DELLE OLIVE Alle spalle del vicolo del Mechoui, è d’obbligo una sosta a provare le olive più buone del Mediterraneo. Rosse, nere, insaporite con spezie o erbe, dolci o piccanti. Olive luccicanti che invitano all’assaggio e sono una goduria per gli occhi e l’olfatto, disposte a piramidi in ciotole di varie fattezze. Le verdure e gli aromi sott’olio e in salamoia sono tutti preparati in casa, e seppur non saranno “a norma” con le regole igieniche delle nostre parti, regalano un colpo d’occhio colorato e invitante. LA MEDINA ALTA A Nord di Derb Debachi, per raggiungere la Medersa Ben Youssef, perdetevi senza timore nella zona centrale della Medina. Quella meno turistica, poco trafficata ma molto vivace e dove la presenza di cittadini europei è minima. Fermatevi qua e là ad acquistare uno yogurt fatto in casa, dolce e fresco come un budino e riceverete sguardi stupiti e compiaciuti sia di avventori che dei proprietari. Pochi si fidano, infatti, a consumare yogurt non-confezionato in questi negozietti tipici, quando invece la tradizione dello yogurt è nata proprio nei paesi arabi, per meglio conservare l’eccedenza di latte in assenza di frigoriferi… Nei vicoli più affollati, fermatevi anche in un angolo e guardate la gente che passa, come si saluta, come si comporta, cosa compra e assorbite il Marocco in maniera passiva…Vi rimarranno ricordi vividi e sinceri. LE CONCERIE DI MARRAKECH Lasciatevi “abbordare” da una guida improvvisata che, per una mancia che varia dai 5-10€ (a vostra discrezione), vi condurrà nelle concerie marocchine e poi quelle berbere ,nella zona Nord-Est della medina. Nella prima vengono conciate solo le pelli di mucca, nella seconda quelle di cammello, capra e montone. Le concerie di Marrakech forse non sono famose né altrettanto belle come quelle di Fèz, ma seguono ancora ritmi tradizionali dell’antica arte della conciatura sempre interessante da osservare. Le pelli subiscono un ciclo di quattro bagni: 5 giorni nella calce per levare i peli, 10 giorni nella cacca di piccione (ammoniaca naturale, raccolta soprattutto nelle Moschee…) per eliminare i residui di carne dalla pelle, 15 giorni nella sabbia per renderle morbide e infine 20 giorni nel tannino per la concia vera e propria. Finito il ciclo di 40 giorni le pelli vengono stese ad asciugare, “tosate” a mano con lame speciali e in fine tinte di 5 colori: rosso (o magenta), marrone, verde, ocra e nero. MAISON DE LA PHOTOGRAPHIE e DAR BELLARJ Questi due antichi Riad, restaurati finemente e poco distanti dalla Medersa di Ben Yussef, ospitano il primo una collezione di 5000 foto in B/N di fotografie del Marocco da fine ‘800 a metà del XX secolo: immagini di villaggi berberi e di Kasbah esposte a rotazione. Il secondo Riad ospita opere d’arte contemporanea di artisti marocchini che rivisitano la tradizione araba con metodi moderni. Da vedere entrambi. Sicuramente fare le foto a Marrakech – per chi ha come me questa passione - non è semplice: le persone non amano farsi ritrarre e spesso capiterà di ricevere insulti o facce arrabbiate. Alle volte saranno richiesti soldi per essere fotografati o negato il permesso di fair un photo. Ma se vi armate di santa pazienza e saprete sfruttare le ore della giornata quando il sole è ancora basso e i turisti chiassosi dormono ancora o sono a mangiare, scoprirete la magia di vicoli e luoghi poco noti e battuti, angoli dove il Marocco è ancora verace. Dunque, che amiate fare foto o meno, non rinunciate alla possibilità di vivere appieno odori e rumori di Marrakech passeggiando con calma per la città, perdendovi nelle vie o scambiando parole amichevoli con le persone che incontrate... TACCUINO DI VIAGGIO | Laos-Cambogia S to scrivendo da un tipico tavolino indocinese… un proverbio orientale suona più o meno cosi “gli occhi del viaggiatore vedono solo ciò che si aspettano di vedere”. Sarebbe un peccato visitare il Laos con questo approccio……finalmente il Mekong, l’immenso fiume che segna gran parte del confine tra Thailandia e Laos, una distesa color caffèlatte che taglia per 4000 km il Sud-Est Asiatico, dal Tibet al Vietnam. E’ sempre emozionante passare i confini via terra, ci si avvicina gradualmente all’altro paese, se ne assapora l’odore e più ci si avvicina più le differenze si mescolano, si parlano 2 lingue, si usano 2 monete e 2 cucine diverse. I bus e le strade mi fanno subito notare l’enorme differenza tra Thailandia e Laos…. insomma sono nel Laos e voglio gustarmelo con calma adeguandomi ai ritmi locali….dentro ho un brivido di gioia. Raggiungo il Laos volando con la Thai Airways via Bangkok. Nel Luang Prabang, la bella addormentata Testo e foto di Salvatore Francesco Bellisario dal viaggio Laos Cambogia 01

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Page 1: TACCUINO DI VIAGGIO | Marocco Marocco...e assorbite il Marocco in maniera passiva…Vi rimarranno ricordi vividi e sinceri. LE CONCERIE DI MARRAKECH Lasciatevi “abbordare” da una

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TACCUINO DI VIAGGIO | Marocco

Marocco......................................................

sono i negozianti dei souk in pausa, famiglie con bambini, coppie di fidanzatini e avventori del souk; io che ho mangiato qui tre giorni di seguito non ho mai incontrato un solo turista europeo. Nonostante sia un cibo modesto e sconosciuto ai più, è a mio dire, il posto che più ci ha fatto sentire parte del tessuto sociale. Anche solo per un panino…

SOUK DELLE OLIVEAlle spalle del vicolo del Mechoui, è d’obbligo una sosta a provare le olive più buone del Mediterraneo. Rosse, nere, insaporite con spezie o erbe, dolci o piccanti. Olive luccicanti che invitano all’assaggio e sono una goduria per gli occhi e l’olfatto, disposte a piramidi in ciotole di varie fattezze. Le verdure e gli aromi sott’olio e in salamoia sono tutti preparati in casa, e seppur non saranno “a norma” con le regole igieniche delle nostre parti, regalano un colpo d’occhio colorato e invitante.

LA MEDINA ALTAA Nord di Derb Debachi, per raggiungere la Medersa Ben Youssef, perdetevi senza timore nella zona centrale della Medina. Quella meno turistica, poco trafficata ma molto vivace e dove la presenza di cittadini europei è minima. Fermatevi qua

e là ad acquistare uno yogurt fatto in casa, dolce e fresco come un budino e riceverete sguardi stupiti e compiaciuti sia di avventori che dei proprietari. Pochi si fidano, infatti, a consumare yogurt non-confezionato in questi negozietti tipici, quando invece la tradizione dello yogurt è nata proprio nei paesi arabi, per meglio conservare l’eccedenza di latte in assenza di frigoriferi…

Nei vicoli più affollati, fermatevi anche in un angolo e guardate la gente che passa, come si saluta, come si comporta, cosa compra e assorbite il Marocco in maniera passiva…Vi rimarranno ricordi vividi e sinceri.

LE CONCERIE DI MARRAKECHLasciatevi “abbordare” da una guida improvvisata che, per una mancia che varia dai 5-10€ (a vostra discrezione), vi condurrà nelle concerie marocchine e poi quelle berbere ,nella zona Nord-Est della medina. Nella prima vengono conciate solo le pelli di mucca, nella seconda quelle di cammello, capra e montone. Le concerie di Marrakech forse non sono famose né altrettanto belle come quelle di Fèz, ma seguono ancora ritmi tradizionali dell’antica arte della conciatura sempre interessante da osservare.

Le pelli subiscono un ciclo di quattro bagni: 5 giorni nella calce per levare i peli, 10 giorni nella cacca di piccione (ammoniaca naturale, raccolta soprattutto nelle Moschee…) per eliminare i residui di carne dalla pelle, 15 giorni nella sabbia per renderle morbide e infine 20 giorni nel tannino per la concia vera e propria. Finito il ciclo di 40 giorni le pelli vengono stese ad asciugare, “tosate” a mano con lame speciali e in fine tinte di 5 colori: rosso (o magenta), marrone, verde, ocra e nero.

MAISON DE LA PHOTOGRAPHIE e DAR BELLARJQuesti due antichi Riad, restaurati finemente e poco distanti dalla Medersa di Ben Yussef, ospitano il primo una collezione di 5000 foto in B/N di fotografie del Marocco da fine ‘800 a metà del XX secolo: immagini di villaggi berberi e di Kasbah esposte a rotazione. Il secondo Riad ospita opere d’arte contemporanea di artisti marocchini che rivisitano la tradizione araba con metodi moderni. Da vedere entrambi.

Sicuramente fare le foto a Marrakech – per chi ha come me questa passione - non è semplice: le persone non amano farsi ritrarre e spesso capiterà di ricevere insulti

o facce arrabbiate. Alle volte saranno richiesti soldi per essere fotografati o negato il permesso di fair un photo. Ma se vi armate di santa pazienza e saprete sfruttare le ore della giornata quando il sole è ancora basso e i turisti chiassosi dormono ancora o sono a mangiare, scoprirete la magia di vicoli e luoghi poco noti e battuti, angoli dove il Marocco è ancora verace. Dunque, che amiate fare foto o meno, non rinunciate alla possibilità di vivere appieno odori e rumori di Marrakech passeggiando con calma per la città, perdendovi nelle vie o scambiando parole amichevoli con le persone che incontrate...

TACCUINO DI VIAGGIO | Laos-Cambogia

Sto scrivendo da un

tipico tavolino indocinese… un proverbio

orientale suona più o meno cosi “gli occhi del viaggiatore vedono solo ciò che si aspettano di vedere”. Sarebbe un peccato visitare il Laos con questo approccio……finalmente il Mekong, l’immenso fiume che segna gran parte del confine tra Thailandia

e Laos, una distesa color caffèlatte che taglia per 4000 km il Sud-Est Asiatico, dal Tibet al Vietnam. E’ sempre emozionante passare i confini via terra, ci si avvicina gradualmente all’altro paese, se ne assapora l’odore e più ci si avvicina più le differenze si mescolano, si parlano 2 lingue, si usano 2 monete e 2 cucine diverse. I bus e le strade mi fanno subito notare l’enorme

differenza tra Thailandia e Laos….insomma sono nel Laos e voglio gustarmelo con calma adeguandomi

ai ritmi locali….dentro ho un brivido di gioia. Raggiungo il Laos volando con la Thai Airways via Bangkok. Nel

Luang Prabang, la bella addormentata

Testo e foto di Salvatore Francesco Bellisario

dal viaggio Laos Cambogia

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Laos Cambogia

modulo da compilare mi colpisce la voce “razza”, una sorta d’ossessione per un paese ricco di etnie differenti. Nonostante il fuso e la notte insonne in aereo, l’entusiasmo per il nuovo paese mi spinge ad uscire subito all’esplorazione della nuova terra. Si viaggia con musica laotiana, che ti culla tra queste stradine di montagna, infatti il mio gruppo casca in un sonno profondo. Villaggi senza ombra di cemento, poche macchine, animali da cortile ovunque, trattori stranissimi, fanno si che il Laos sia considerato più un insieme di tribù che un vero e proprio Paese. Il minibus arranca per strade tortuose e non sempre asfaltate, e attraverso un paesaggio di dolci colline ricoperte di foresta pluviale intervallata da piane geometricamente suddivise da risaie si arriva a Luang Nam Tha, base di partenza per il nostro trek di 2 giorni nell’area protetta del Parco Nam Tha. Il sole è ancora alto, cosi noleggiamo delle bici e raggiungiamo il villaggio di Ban Nammat, Akha village, distante circa 5 km. Il villaggio ha un certo fascino, se non altro per il pensiero che a pochi chilometri dalla “civiltà”, una comunità possa ancora vivere in un suo mondo indipendente. I mong sono animisti e quindi devo fare attenzione a non accompagnare i “sabai dii” con il gesto delle mani giunte. Vicino ad un primo gruppo di capanne alcuni ragazzi giocano ad una sorta di pallavolo con i piedi: la palla è di bambù intrecciati e la rete un filo steso tra due pali. Una donna mi guarda senza staccare lo sguardo, vuole dirmi qualcosa…non capisco, indossa una gonna viola con sottili strisce orizzontali e una “camicetta” fantasia sotto una giacca di taglio classico occidentale. Il fazzoletto sulla testa è piegato più volte ad avvolgerle i capelli, con il risvolto colorato che cade di fianco. Alcune donne friggono nell’olio bollente saporiti dolcetti. Dietro il villaggio, sopra una collina, sorge un monastero buddista, il That Phum Phuk, testimonianza di una politica americana che non cambia nei tempi: bombardare e poi ricostruire. A fianco delle rovine dello stupa antico distrutto dalla solita bomba a stelle e strisce, si erge il nuovo stupa brillante d’oro, costruito con i finanziamenti americani. Con il Lao Lao “whisky di riso” festeggiamo la

nostra prima serata laotiana nel vivace “night market” di Luang Nam Tha. Dal villaggio Ban Nammat inizia il trek, con due portatori e una guida, gente cordialissima, ogni sguardo è un sorriso. Il percorso non è proprio una passeggiata. Si sale e si ridiscende attraverso colline di giungla primaria infestata di sanguisughe, senza presenza umana né animale. La foresta mi sembra più un bosco incantato che una giungla tropicale. Alberi solitari si stagliano come giganti sopra il verde. La nostra guida cucina divinamente, utilizziamo immense foglie di palma come tovaglie all’interno di una capanna dove mangiamo carne molto saporita, verdure piccanti e dello sticky rice, ovvero riso in bianco asciutto i cui chicchi si appiccicano l’uno all’altro formando un’unica poltiglia. Questo riso è alquanto utile a stemperare l’effetto del cibo piccante, tipico della cucina laotiana. Sembra che non si arrivi mai al villaggio dove passeremo la notte. Tuttavia, nel tardo pomeriggio, siamo finalmente nel villaggio, un villaggio in festa in quanto è arrivata l’energia elettrica da pochi giorni. Non c’è acqua e le donne percorrono diversi km a piedi per attingere acqua da un torrente ma il villaggio è traboccante di bambini che giocano alla versione laotiana di Mondo tra una capanna e l’altra, a giocare e a far giocare i fratellini. Passeggiando tra le capanne rudimentali del villaggio, dimora di galline, pulcini e cani, ho assistito ad una scena molto particolare: alcuni ragazzini si erano creati un gioco, in assenza d’altro, che consisteva nel far volare un grande scarafaggio legato con un spago alle zampine, dando l’impressione di portarlo a spasso al guinzaglio. Passeggiando per le polverose strade in terra del villaggio, m’infilo nel cortile di una casa dove le donne sono impegnate nella tessitura. Una vecchia dipana una matassa con un rudimentale arcolaio che utilizza il cerchione di una bicicletta. Una giovane lavora al telaio e mi soffermo a seguire i suoi pazienti movimenti per produrre l’intreccio: passa i fili avanti e indietro nella trama. Nella nostra capanna non c’è ancora la luce cosi ci illuminiamo con le candele. La guida e i portatori accendono il fuoco per preparare la cena. L’odore del

fuoco non è solo un profumo, si vede, si respira, è vivo come è vivo l’intero villaggio, brulicante di fiammelle. Si sente l’odore della legna che brucia, delle pentole calde, una leggera nuvola di fumo avvolge ogni cosa, come per dimostrare che il fuoco qui è l’anima di tutto, e che, mentre il sole scende e si fa buio, sarà di nuovo lui al centro di tutto, a fare luce. L’atmosfera ti entra nella pelle. Oriente, oriente, che richiami nel mio immaginario, misticismo e mistero. Nong Khiaw è un posto da favola: il fiume Nam Ou è circondato da alte ed appuntite montagne, coperte di vegetazione e irrorato dai raggi del sole. La visuale migliore si ha dal ponte ed il paesaggio, completato dalle capanne del paesino, sembra veramente rispondere all’immaginario dei tropici…insomma la natura mette in scena uno spettacolo di selvaggia maestosità, un mondo di bellezza primigenia che stordisce i sensi e instilla un acuto senso di estraneità. La barca di legno corre scivolando sulle sue acque verdi, si naviga da

una sponda all’altra per evitare le rocce che spuntano insidiose in questa stagione asciutta. Attracchiamo su un isolotto e facciamo un tratto a piedi mentre la barca attraversa delle rapide. Donne e bambini ci guardano dalla sponda; due ragazze sono intente al lavaggio dei capelli, una mamma con tre bambini trasporta un fascio di lunghi e pesanti bambù mentre una donna anziana sorride con la bocca “insanguinata” dalla masticazione del betel. La barca giunge al villaggio di Muang Ngoi Neua. Una lunga striscia di capanne di bambù si staglia, come trampolieri in fila. Le acque del fiume si sono ritirate e sulla riva scoscesa i pali delle palafitte innalzano ulteriormente le capanne. Il posto è incantevole e le barchette dei pescatori sparse qua e là, appaiono miseri gusci di legno. Il villaggio si estende lungo una sterrata che corre parallela al fiume e circondato da imponenti massicci calcarei immersi nel verde, con risaie punteggiate di bufali e mucche. Il lavoro dell’uomo ha diviso

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TACCUINO DI VIAGGIO | Laos-Cambogia

la pianura in tanti rettangoli separati da stretti argini rialzati. Il fascino del luogo non è sfuggito al turismo. Il “Paradiso” all’interno del paradiso del Laos, il villaggio della Pace. Tre bambine vengono a porgermi il loro “sabai dii”. Camminando verso l’interno tra grotte calcaree e rigagnoli di montagna, si visitano i villaggi di Huay Bo, Huay Sen, mentre nascosto e riparato sotto una parete verticale, il sonnacchioso villaggio di Ban na invita il viaggiatore a una lunga sosta, giusto il tempo di leggere con gli occhi un paesaggio quasi irreale. Sicuramente ci vuole molto tempo per entrare nella dimensione di questo villaggio, per calarsi lentamente in una diversa concezione del tempo. Il pensiero si rilassa, osservando la gente del villaggio intenta nei semplici lavori quotidiani, tessere, spaccare la

legna, curare l’orto. Ai pali laterali e a quello orizzontale di una capanna, pendono oggetti di legno, sicuramente densi di un significato arcano che a me sfugge: frecce puntate verso l’alto, catene di vimini intrecciati, reticoli quadrati attaccati obliqui, stelle di legnetti. Davanti alla porta è posta in diagonale una lunga canna di bambù, dalla quale pende un triangolo di legno, con appesi dei cestini ciascuno con un peperoncino. La carcassa di una bomba, uno dei tanti regali americani, è utilizzata come “elemento decorativo”. Nel centro del villaggio un recinto funge da lavatoio e da doccia. La semplicità della vita… le sottili delizie della vita che sfuggono. Il fiume è la gioia dei bambini, seminudi si lavano reciprocamente mentre una bimba fa il bucato come se si trattasse di un gioco, una donna indossa un copricapo interamente ricoperto di monete e oggetti di metallo mentre una vecchietta vende cestini per il riso. Risvegliato da un concerto di canti di gallo, mi alzo presto. “Sabai dii” Nong Khiaw; qui le attività iniziano molto presto, quando è ancora buio. Con l’avanzare del chiarore del giorno, la macchia di colore spicca sempre più nella fresca giornata del mattino. Le donne del villaggio arrivano al mercato per vendere le loro cose. Indossano vestiti dai colori accesi, avvolte nei loro costumi tradizionali. Le verdure distese per terra sopra dei teli, fanno bella mostra per attrarre gli acquirenti. Un chiosco, dedicato alla carne, è il regno degli

uomini e del sangue. Alcune donne si lavano insieme ai bambini sotto le fontane del villaggio, insomma sembra un teatrino vivente, una sorta di spettacolo estemporaneo. Raggiungiamo Luang Prabang in barca. Nella lancia sono collocate delle sedioline e si viaggia abbastanza comodi. Le rive del fiume sono scarsamente popolate e s’incontrano solo pochi villaggi. Qualche pescatore getta le reti da vecchie barche di legno. La tecnica di pesca è molto semplice: si lancia la rete e la si ritira, sperando di cogliere qualche pesce. Le acque, piatte come una tavola, riflettono il verde della vegetazione, ma ogni tanto si fanno impetuose per la presenza di rapide. Gli alberi e qualche banano ricoprono le rive mentre sugli isolotti rocciosi spuntano bassi cespugli. Ci addentriamo in uno dei luoghi di culto più sacri del nord del Mekong laotiano, che, secondo la tradizione, è la dimora di uno dei 15 naga, i mitici serpenti delle acque che proteggono tutto il Laos. Dal fiume la grotta di Pak Ou appare come una grossa apertura nella roccia, protetta da una bianca muratura merlata, qualche metro sopra il livello delle acque. Una lunga scala sale serpeggiando alla caverna superiore. La vegetazione la avvolge tutta: splendidi alberi formano una galleria naturale di rami e di liane. In cima la grotta, chiusa da una facciata scolpita di legno, è stata lasciata suggestivamente al buio. La grotta inferiore, altrettanto affascinante, riceve la luce del sole mentre uno stupa ed un Buddha con le mani protese in avanti, entrambi dorati, dominano la moltitudine di statue. L’impatto con le migliaia di Buddha è molto suggestivo. Statue di ogni dimensione, alcune più ricche, altre più grezze, lasciate qui da migliaia di fedeli nel corso del tempo. Navigando sul Mekong durante la stagione secca, gli alberi sulle sponde sembrano piovre avvinghiate al terreno. Le acque si sono ritirate lasciando in vista le radici tentacolari che si allungano in un fitto intreccio. Ecco, appare Luang Prabang, l’ombelico del Laos, il ritorno alla civiltà. A vederla di lontano sembra eterea, come se appartenesse al reame dei sogni. La principale eminenza architettonica della città consiste nei templi. Ogni complesso

è composto da più edifici preposti a varie funzioni sparsi in uno spazio spesso abbellito da alberi e fiori, nel quale si affaccendano i monaci in tonaca arancione nelle occupazioni quotidiane. La struttura più importante e “cuore” del luogo culto è il Sim, l’edificio in cui è custodita l’effigie principale del Buddha e al quale sono dedicate le continue cure degli artigiani decoratori e restauratori: secondo una credenza diffusa, è un modo per acquisire meriti religiosi. Oggi si da inizio ai festeggiamenti del nuovo anno Laotiano, il Bun Pi Mao Lao. Le case tutte curate o in ristrutturazione si ergono una accanto all’altra con diversi stili e colori. Il nucleo storico della città è stretto tra due fiumi, il Mekong e il Nam Khan, come in una penisola. Il mercato mattutino è piccolo ma si possono trovare in vendita cose incredibili, come ratti cotti pronti per una colazione luculliana, furetti, serpenti, calabroni, larve, zampe di cane, il tutto perfettamente mescolato a verdure, maiali, giocattoli, alghe di fiume essiccate e gelati. Il mercato serale invece è molto particolare. Tutte le persone stendono a terra le loro mercanzie composte di stoffe, argenteria, ciabatte, cuscini e borse, ma anche artigianato in legno e bambù, frecce o asce di pietra. A Luang Prabang è impossibile perdersi o ritrovarsi soli nelle sue molteplici strade, si è praticamente sempre affiancati da simpatici bonzi vestiti con i loro vivaci indumenti di colore arancione e giallo. Assisto a delle danze di minoranze etniche. Un gruppo mong indossa tuniche di velluto nero, due solisti suonano strani strumenti a fiato soffiando in un lungo bocchino che incrocia canne di bambù a forma di scimitarra. Un’altra minoranza indossa vesti blu con una fascia rossa sulla testa. Due uomini ed una donna sollevano con i denti delle grosse giare piene d’acqua e ballano con esse. Basta allontanarsi dalla piccola cittadina e si incontrano i contadini con i loro tipici cappelli a seguito di bufali d’acqua e donne che portano la legna per riscaldare le case. Per il tramonto decido di salire sulla collina di Phu Si. Il sole, un disco perfetto, rosso cremisi, tremola nell’aria incandescente. Pochi istanti e il cromatismo violento si impreziosisce di sfumature tenui

02 Gamberetti stesi ad essiccare al villaggio Chong03 Il gong della pace a Vientiane04 Il vialleggio di Chong Kneas05 Porcile galleggiante sul lago Tonlè Sap

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Cambogia

mentre il rosso si frastaglia in una girandola arancio, porpora, zafferano. Il tramonto scende come una cascata sulle acque del Mekong, la madre di tutti i fiumi, cariche di limo, miti e memorie. Immobile come una miniatura laccata, ora Luang Prabang sonnecchia nella policroma frontiera tra la penombra e la luce impetuosa. Raggiungo la strada che corre lungo il Nam Khan; le acque basse della stagione secca consentono la coltivazione delle sponde. Giovani novizi lavano le tuniche nelle acque verdi del fiume, mentre a poca distanza le ragazze, fasciate nei semplici ed eleganti sarong, fanno il bagno lasciando il seno quasi scoperto e lanciando sorrisi fuggevoli verso i novizi. I ragazzi indicano locande e ristorantini : “ca va ?”, “Très bien”, “Comme tu t’appel ?”, ahimè, vengo per la quarta volta inzuppato con secchiate d’acqua….è cosi che i laotiani festeggiano il nuovo anno. Giri di lao lao, l’alcolico locale, chiudono la mia serata nel Laos. Al mattino il gong del vicino monastero mi sveglia dal sonno; segue un concerto di canti di gallo. Mi alzo presto per assistere alla processione mattutina dei monaci per l’elemosina. Camminando m’infilo in uno dei tanti Wat, attratto dal suono di una dolce melodia; nel padiglione pensile, a fianco di un grosso tamburo sospeso, due tipi percuotono xilofoni di legno e metallo. Lo xilofono di legno ha un suono tintinnante mentre l’altro è veramente curioso, con i dischi di metallo disposti su una struttura ad anello. Finalmente ecco i monaci: la processione per la questua mattutina è una lunga striscia di tuniche arancione. Alcune laotiane attendono in ginocchio il passaggio dei monaci per versare nelle loro ciotole una manciata di riso. La mia peregrinazione per i templi mi porta al Wat Xiang Thong, il tempio più importante di Luang Prabang; siedo all’ombra delle palme sulle cui foglie per secoli i monaci hanno tramandato storie e tradizioni. Quanta grazia slanciata di linee hanno questi tetti. Il rosso annerito delle tegole contrasta con l’oro della facciata decorata mentre il nero delle pareti laterali è ingentilito da una miriade di figurine dorate. La Cappella Rossa ospita un’antica statua di Buddha disteso in

uno stile tipicamente laotiano. Uno spettacolo di astratta e raffinata serialità che sembra allestito da un geniale architetto-ricamatore. Le tonache arancione dei monaci sono stese ad asciugare dopo il bucato; una ragazza laotiana parla un po’ di inglese e mi insegna qualche parola di laotiano…..insomma Luang Prabang, la “bella addormentata”, si risveglia dal grande sonno e rimette a lucido i suoi tesori, costellati di ciuffi di buganvillee scarlatte e di ibischi rosso squillante, che incantano il viaggiatore. Il paesaggio che si attraversa per arrivare a Vientiane è caratterizzato da alture carsiche dal profilo seghettato che si stagliano sul fiume Nam Xong, uno scenario che ricorda per certi versi la baia di Ha Long in Viet Nam. Le strade si riempiono di biciclette, motorini e tuk-tuk, i pittoreschi taxi a tre ruote. La maggiore eminenza architettonica della capitale laotiana è senza dubbio il Wat Sisaket. Questo tempio fu l’unico che i siamesi non distrussero quando nel 1828 misero a ferro e fuoco la città. Una rotonda spartitraffico con aiuole ospita il Patouxai, il monumento eretto negli anni Cinquanta in onore dei caduti in guerra: niente a che fare con gli archi trionfali delle città europee, ma ha comunque una sua gradevolezza per le decorazioni di divinità indù che abbelliscono il soffitto dell’arcata e il vasto panorama che si ammira dalla terrazza sommitale. Con la luce del tramonto visito lo stupa buddhista dorato di That Luang considerato l’edificio di culto più importante di tutto il Laos. A parte il valore sacrale, può ispirare sensazioni contrastanti, con la guglia di 45 metri al centro di una corona di petali di loto stilizzati ironicamente definita di volta in volta un chiodo ferroviario capovolto o un missile sulla sua base: bisogna però dire che presenta un colpo d’occhio molto suggestivo, specie nell’insieme dei trenta stupa più piccoli cui si accede da quattro porte della cinta muraria esterna merlata. Il Wat Simuang, ubicato sulla Setthathilat circa un chilometro ad est della piazza Nam Phou offre, all’occhio mai sazio, scene di vita templare. Il Sim del tempio ha il suo “cuore” nel lak meaung, il pilastro sacro abitato secondo la tradizione dallo spirito guardiano della città; davanti ad esso, i fedeli pongono richieste o

chiedono grazie tentando al contempo di sollevare sopra la testa una delle due statue in pietra alte quanto un bambino situate davanti all’altare: riuscirci per tre volte è ritenuto di ottimo auspicio. Anche il giardino prospiciente il Sim è molto singolare, con una decina di statue fantasiosamente dipinte di animali, divinità e figure mitologiche, particolarmente gradite dai bimbi per il loro giochi. Un po’ come a Luang Prabang, c’è poi una miriade di altri Wat in cui passare piacevoli momenti di quiete e conversare con i monaci dove il sorriso magnanimo del Buddha regna sovrano è imperturbabile. Là dove il Mekong che scende dal Laos si biforca nel Tien Giang e nel Bassac, che si aprono a ventaglio per formare l’immenso delta, e si dirama il Tonlè

Sap che va a alimentare il Grande lago, in questo perfetto quadrivio fluviale sorse nel XIV secolo Phnom Penh, la cittá della “Collina di Penh” nel cuore della Cambogia. Le guglie dorate del Palazzo reale evocano i fasti della capitale del periodo coloniale e nelle austere sale del Museo Nazionale si allineano i capolavori dell’antica statuaria in pietra dei Khmer, fondatori di imperi. I grandi viali alberati esplodono di vita cancellando anche dagli occhi della mente ogni memoria dei tragici “tre anni, otto mesi e venti giorni” del regime dei Khmer rossi di cui resta

solo la rigorosa drammatica testimonianza del ex-carcere S21. Da Phnom Penh partono a raggiera le strade nazionali che raggiungono ogni punto cardinale: questa é la vera porta di ingresso in Cambogia, un paese che per noi Occidentali é soprattutto Angkor, ma che non è solo Angkor. L’esoticità dell’impero Khmer, con le sue antiche rovine, mi ha sempre incuriosito. I raggi di sole che colpiscono i templi creano un alone che li riflette come in una specie di apparizione. Siamo partiti da Angor Wat, il tempio più imponente. Veramente bello. Rappresenta la più alta capacità della cultura Khmer applicata ad architettura e urbanistica. L’occhio mai stanco si sazia davanti ai templi delicatamente cesellati di Banteay Srey, un gioiello rosato di intricati

bassorilievi e Banteay Samré, ma un tempio che mi ha lasciato veleggiare in un’atmosfera senza eguali è il Ta Prohm. Questo “tempio-monastero é oggi uno straordinario monumento creato dall’uomo e dalla natura insieme. Quando fu abbandonato in seguito al declino di Angkor, il tempio fu inghiottito dalla giungla. Alla sua scoperta però fu deciso di lasciarlo in parte come era stato trovato. Cosi, enormi alberi secolari e le loro stupende radici, ancora oggi avvolgono e crescono su alcune parti del tempio creando un’atmosfera incredibile, dando la sensazione di

06 Angkor Wat Tha Prom

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TACCUINO DI VIAGGIO | Laos-Cambogia

02 Gamberetti stesi ad essiccare al villaggio Chong03 Il gong della pace a Vientiane04 Il vialleggio di Chong Kneas05 Porcile galleggiante sul lago Tonlè Sap

Page 5: TACCUINO DI VIAGGIO | Marocco Marocco...e assorbite il Marocco in maniera passiva…Vi rimarranno ricordi vividi e sinceri. LE CONCERIE DI MARRAKECH Lasciatevi “abbordare” da una

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TACCUINO DI VIAGGIO | Etiopia-Kenia

trovarsi in un mondo perduto…… una bottiglia di birra di Angkor miracolosamente giunge fino a me. Quando si parla di bacini idrici di acqua dolce in Asia, non si può fare a meno di pensare anche al Tonlè Sap. Questo grande lago situato prevalentemente nella Cambogia centrale è un’oasi naturalistica di vitale importanza per moltissime specie di volatili a rischio di estinzione ed ovviamente per il

numero non indifferente di cambogiani (ma anche certi vietnamiti e cinesi) che vivono nei villaggi galleggianti o presso le acque del lago. Superato il molo e l’interno del villaggio Chong Kneas, il più vicino dei villaggi galleggianti a Siem Reap, tappezzato da gamberetti rosa messi a seccare su dei teli di nailon, si sfocia nel grande lago Tonlé Sap (che poi diventa il Tonlé Sap River fino a Phnom Penh); ci si

trova davanti a un’enorme distesa d’acqua, sembra di essere in mezzo al mare, non si percepiscono città o luoghi vicini, solo silenzio e acqua. In un villaggio galleggiante c’è tutto e, come dice il nome, è tutto galleggiante: la scuola galleggiante, la stazione di polizia galleggiante, l’arcinoto mercato galleggiante… forse un po’ più particolare risulta il porcile galleggiante. Insomma, la vita di questi straordinari villaggi “si

alza” e “si abbassa” in funzione del livello delle acque del Tonlé Sap. Qui termina il mio vagabondaggio in Asia vissuto insieme a compagni di viaggio che hanno avuto sempre il sorriso, il piacere di godersi scampoli di vita rurale e la voglia quanto me di lasciarsi cullare tra le braccia della piccola Luang Prabang, languida e mite, sotto una luna delicata come una lanterna di carta.

......................................................TACCUINO DI VIAGGIO | Etiopia-Kenia

L’oro nero di EL SODDall’alto si nota appena, ma basta sporgersi sul bordo del

cratere per vedere quell’occhio nero sul fondo.EL SOD, un vulcano poco lontano da Yabelo, nel sud dell’Etiopia. El Sod che significa in lingua aramaica “casa del sale”, una casa riempita da uno specchio d’acqua scura salmastra, come una lastra di ferro luccicante.La discesa è piuttosto ripida e segue una stretta strada sterrata, poco più di un sentiero. E’ battuta da asini che salgono e che ridiscendono ininterrottamente, carichi del pesante “oro nero” che trasuda dai sacchi e che riga di nero il loro dorso. E’ il sale che viene estratto da questo lago. Oro nero, in effetti, perché come tale deve essere considerato.Raggiungiamo la sponda di questo lago che da vicino è ancora più melmoso di come appare dall’alto. Ricorda quelle pozze scure, iridescenti, che a volte si creano sull’asfalto. Un liquido denso, oleoso, dall’odore forte.In questo lago nero si immergono di continuo dei giovani di etnia Borana. Quasi nudi, con gli occhi arrossati e gonfi, la pelle d’oca, entrano nell’acqua, che acqua non è, ed estraggono il sale. Si aiutano con

lunghi bastoni di legno, con i quali smuovono il fondo del lago. Dentro questo fluido, nero come il petrolio, staccano con il bastone la fanghiglia dal fondo e tirano su una melma nera che, riemergendo, cola in rigagnoli sul loro torace.E’ preziosa: da questo fango estraggono il sale scuro che sarà usato poi per alimentare gli animali, ed un altro sale più bianco, più prezioso, indispensabile per gli uomini in una zona dove non esiste in forma diversa.Questi ragazzi sembrano essere usciti da un girone dantesco. Prima di scendere in acqua, si fanno dei tappi per il naso con palline di plastica nera riempite di sabbia. Le narici sono dilatate, scorticate, così come piagato è gran parte del corpo. Piaghe che si aprono sulla pelle perché il sale ferisce, corrode. Soprattutto i piedi vanno protetti: li avvolgono con buste di plastica e li ricoprono poi con i calzini, sigillando tutto come è possibile. Lo sguardo scuro di questi ragazzi, giovanissimi, si perde nel riflesso nero dell’acqua che guardano, fissandola, prima di individuare il punto preciso dove si immergeranno di nuovo.Ad ogni estrazione, la montagnetta di sale che cresce ai bordi dell’acqua,

Acqua e sale amari…

Testo e foto di Beatrice Landucci

Da un Transetiopia-Kenia gruppo Paola Da Re

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