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1 SVILUPPO ECONOMICO E SOTTOSVILUPPO 1. La politica di sviluppo economico 1.1 Concetto e importanza di una politica di sviluppo economico Quando si parla di politica di sviluppo economico, non si intende tanto un intervento dello Stato in un particolare settore dell’economia, quanto una serie di interventi in senso più generale. Si tratta di una politica che assume un’importanza basilare in quei Paesi economicamente sottosviluppati o in via di sviluppo, oppure nei Paesi industrializzati dove sussistono aree depresse che devono affrontare situazioni di congiuntura o di crisi economica o di recessione. Il concetto di sviluppo economico, dunque, è piuttosto complesso da definire proprio perché investe tutta una serie di fattori che appartengono alla macroeco-nomia. Lo stesso problema di una politica di sviluppo ha spesso dimensioni sovranazionali e può coinvolgere sia i Paesi economicamente più arretrati, sia quelli industrializzati, che giungono ad influenzarsi reciprocamente. Il problema del sottosviluppo ha raggiunto dimensioni tali per cui, da molte parti e per motivi diversi, si sollecitano i Paesi sviluppati a intervenire per avviare processi di sviluppo anche nei Paesi sottosviluppati. A questo scopo, alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) è stato assegnato il compito con lo scopo di avviare processi di crescita economica in quei Paesi ad economia fortemente depressa, attraverso la concessione di prestiti a basso tasso di interessi. Sarà inoltre importante tenere sotto controllo l’andamento economico e il grado di sviluppo applicando gli indici di carattere sia economico (il PIL, il reddito medio pro capite, ecc.) sia extraeconomico (la durata media della vita, l’istruzione, la sanità, ecc.). Infine, è bene ricordare che il progresso economico è strumentale al raggiungimento da parte della popolazione del più ampio sviluppo civile e sociale. 1.2 I fattori dello sviluppo economico Un primo indice di sviluppo economico è dato dall’incremento della produzione nazionale. Quando la produzione nazionale aumenta, significa che l’economia è in espansione e, pertanto, crescono i livelli occupazionali, aumenta il reddito medio annuo pro capite e, in definitiva, si ha un aumento di ricchezza dell’intero Paese. Essendo la produzione uno degli elementi fondamentali dello sviluppo, in ultima analisi gli stessi fattori della produzione costituiscono anche i fattori dello sviluppo: il capitale e gli investimenti, che sono i fattori determinanti per ogni sviluppo economico, anche in presenza di crisi economica. Quanto più aumentano gli investimenti diversificati nei vari settori produttivi, tanto più cresce la produzione e, per l’effetto moltiplicatore per cui l’economia in espansione in un determinato settore trascina inevitabilmente molti altri settori produttivi, si innescano processi a catena che garantiscono la massima espansione dello sviluppo economico. È ovvio che gli investimenti sono possibili in presenza di risparmio secondo il seguente circolo: risparmio - investimenti - produzione di beni e servizi - redditi che, a loro volta, generano nuovamente risparmio e così via. (Come si vedrà tra poco, è proprio già a questo primo livello fondamentale che sorgono le difficoltà, spesso insormontabili, per una politica di sviluppo nei Paesi sottosviluppati); il miglioramento delle infrastrutture, quali i trasporti, le reti stradali e autostradali, per favorire migliori contatti a livello internazionale e consentire una maggiore espansione dei mercati; una politica dell’industrializzazione che, attraverso l’impianto di piccole e medie imprese (PMI), gradualmente favorisca il passaggio della manodopera dal settore agricolo a quello industriale, avviando cioè un vero processo di sviluppo economico;

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SVILUPPO ECONOMICO E SOTTOSVILUPPO 1. La politica di sviluppo economico

1.1 Concetto e importanza di una politica di sviluppo economico Quando si parla di politica di sviluppo economico, non si intende tanto un intervento dello Stato in un particolare settore dell’economia, quanto una serie di interventi in senso più generale. Si tratta di una politica che assume un’importanza basilare in quei Paesi economicamente sottosviluppati o in via di sviluppo, oppure nei Paesi industrializzati dove sussistono aree depresse che devono affrontare situazioni di congiuntura o di crisi economica o di recessione. Il concetto di sviluppo economico, dunque, è piuttosto complesso da definire proprio perché investe tutta una serie di fattori che appartengono alla macroeco-nomia. Lo stesso problema di una politica di sviluppo ha spesso dimensioni sovranazionali e può coinvolgere sia i Paesi economicamente più arretrati, sia quelli industrializzati, che giungono ad influenzarsi reciprocamente. Il problema del sottosviluppo ha raggiunto dimensioni tali per cui, da molte parti e per motivi diversi, si sollecitano i Paesi sviluppati a intervenire per avviare processi di sviluppo anche nei Paesi sottosviluppati. A questo scopo, alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) è stato assegnato il compito con lo scopo di avviare processi di crescita economica in quei Paesi ad economia fortemente depressa, attraverso la concessione di prestiti a basso tasso di interessi. Sarà inoltre importante tenere sotto controllo l’andamento economico e il grado di sviluppo applicando gli indici di carattere sia economico (il PIL, il reddito medio pro capite, ecc.) sia extraeconomico (la durata media della vita, l’istruzione, la sanità, ecc.). Infine, è bene ricordare che il progresso economico è strumentale al raggiungimento da parte della popolazione del più ampio sviluppo civile e sociale.

1.2 I fattori dello sviluppo economico Un primo indice di sviluppo economico è dato dall’incremento della produzione nazionale. Quando la produzione nazionale aumenta, significa che l’economia è in espansione e, pertanto, crescono i livelli occupazionali, aumenta il reddito medio annuo pro capite e, in definitiva, si ha un aumento di ricchezza dell’intero Paese. Essendo la produzione uno degli elementi fondamentali dello sviluppo, in ultima analisi gli stessi fattori della produzione costituiscono anche i fattori dello sviluppo:

• il capitale e gli investimenti, che sono i fattori determinanti per ogni sviluppo economico, anche in presenza di crisi economica.

Quanto più aumentano gli investimenti diversificati nei vari settori produttivi, tanto più cresce la produzione e, per l’effetto moltiplicatore per cui l’economia in espansione in un determinato settore trascina inevitabilmente molti altri settori produttivi, si innescano processi a catena che garantiscono la massima espansione dello sviluppo economico. È ovvio che gli investimenti sono possibili in presenza di risparmio secondo il seguente circolo: risparmio - investimenti - produzione di beni e servizi - redditi che, a loro volta, generano nuovamente risparmio e così via. (Come si vedrà tra poco, è proprio già a questo primo livello fondamentale che sorgono le difficoltà, spesso insormontabili, per una politica di sviluppo nei Paesi sottosviluppati);

• il miglioramento delle infrastrutture, quali i trasporti, le reti stradali e autostradali, per favorire migliori contatti a livello internazionale e consentire una maggiore espansione dei mercati;

• una politica dell’industrializzazione che, attraverso l’impianto di piccole e medie imprese (PMI), gradualmente favorisca il passaggio della manodopera dal settore agricolo a quello industriale, avviando cioè un vero processo di sviluppo economico;

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• l’impiego di nuove e avanzate tecnologie, in quanto le scoperte scientifiche, spesso frutto della ricerca finanziata, sia pubblica sia privata, comportano nuove e sempre più sofisticate applicazioni nel campo tecnologico e questo costringe le aziende ad un costante ammodernamento, il cui risultato è spesso costituito da un incremento della produzione, in quantità e qualità, a costi inferiori;

• il potenziamento delle aziende, soprattutto di quelle minori, che devono tendere ad ampliarsi sempre di più, riducendo in tal modo i costi di produzione ed essere in grado di reggere la concorrenza, diventando competitive sul mercato;

• la preparazione professionale, che è indispensabile per realizzare il massimo di efficienza, efficacia e progresso tecnologico all’interno delle aziende. Quanto più si procede in questo senso, tanto più occorrono addetti, operai, impiegati, dirigenti, maestranze con elevati gradi di formazione e di specializzazione professionale;

• la programmazione economica, che dovrà fissare gli obiettivi da conseguire a breve, medio e lungo termine, i mezzi, le risorse e i progetti specifici da realizzare.

1.3 Le conseguenze dello sviluppo economico Il concorso simultaneo di tutti questi fattori nella produzione favorisce lo sviluppo economico dell’intera nazione, con i seguenti effetti: • aumento dei redditi medi pro capite e conseguente allargamento del risparmio da trasformare in capitale da

investire. Il risparmio è, quindi, sia causa sia effetto dello stesso sviluppo economico; • incremento della domanda di prodotti (effetto dell’aumento sia dei redditi pro capite sia dei consumi) per cui

le aziende sono costrette ad aumentare la produzione; • incremento dell’occupazione; • diminuzione dei costi di produzione, che si possono ottenere utilizzando moderne attrezzature.

2. Il sottosviluppo e la qualità della vita

2.1 Le cause del sottosviluppo • Il colonialismo A partire dalla prima metà del Cinquecento (in seguito alla scoperta dell’America) e fino all’inizio del Novecento,

più della metà della popolazione mondiale viveva sotto la dominazione coloniale. Alcuni Paesi europei (Inghilterra, Spagna, Portogallo, Belgio) avevano intrapreso una forte colonizzazione in Africa, in Asia e nelle Americhe per la produzione e l’importazione di numerosi prodotti (caffè, cacao e spezie). La colonizzazione era basata su un’economia agricola ridotta a monocolture, cioè a pochi prodotti, che ha impedito lo sviluppo di altre colture, assai più importanti per la sopravvivenza in quei Paesi e per avviare un minimo di indipendenza dagli Stati colonizzatori.

• Il clima e il divario Nord-Sud La gran parte dei Paesi sottosviluppati sono situati nel Sud del mondo, dove vi sono temperature elevate, spesso

lunghi periodi di siccità e gravi difficoltà di approvvigionamento idrico. In molti Paesi, particolarmente in Africa, esistono vaste zone desertiche e inutilizzabili anche per una coltura agricola.

• L’incremento demografico

Un fattore che è in stretto rapporto con lo sviluppo economico è l’incremento demografico della popolazione. Si osserva, infatti, che: 1) aumentando il reddito medio pro capite in misura superiore al tasso di incremento demografico, si ha una fase

di sviluppo economico;

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2) aumentando il reddito medio pro capite in misura inferiore al tasso di incremento demografico, si ha una diminuzione del reddito medio pro capite.

È facile osservare, quindi, come in certi Paesi la linea di tendenza dello sviluppo economico sia stata la prosperità, per la concomitanza dei fattori esaminati nel primo caso. In altri Paesi, in modo particolare nei Paesi poveri, al contrario, la linea di tendenza è stata la miseria. Infatti, in questi Stati, spesso si ha un tasso di incremento demografico di gran lunga superiore all’incremento del reddito complessivo.

• La situazione politica In molti Paesi del cosiddetto Terzo Mondo non si è ancora affermato alcun principio di democrazia. L’intolleranza

tra le varie etnie e i motivi religiosi sono spesso la causa di gravi conflitti. Per tali motivi, in questi Paesi si spendono notevoli risorse per l’acquisto di armi, con conseguente crescita dell’indebitamento verso l’estero.

• L’emigrazione In presenza di grave sottosviluppo, ai limiti della sopravvivenza, numerose persone emigrano verso i Paesi più

ricchi nella speranza di trovare lavoro e benessere. Il fenomeno emigratorio si acuisce ulteriormente in presenza di conflitti o di Governi totalitari nei Paesi di origine, per cui vi sono anche profughi che chiedono asilo politico nei Paesi democratici. Questo fenomeno, in larga espansione, da una parte fa sì che la nostra società diventi multietnica e, dall’altra, metta a dura prova, nei fatti, i principi della tolleranza e della solidarietà nei Paesi ospitanti.

• Il circolo vizioso della povertà In molti Paesi sottosviluppati, non vi è alcuna possibilità di avviare attività produttive autonome. I redditi

estremamente bassi consentono al massimo la sopravvivenza, per cui non è possibile dedicarne parte al risparmio (e quindi agli investimenti). Questi Paesi pertanto cercano finanziamenti all’estero, che dovranno essere restituiti con gli interessi e che assorbono pressoché tutte le entrate relative alle esportazioni. Di conseguenza, essi richiedono ulteriori finanziamenti, aumentando l’indebitamento verso i Paesi ricchi, e così di seguito, in un circolo vizioso dal quale non riescono ad uscire, con un conseguente costante impoverimento.

2.2 La misura del sottosviluppo Il reddito medio pro capite e gli indici meramente economici hanno dei limiti e, a volte, potrebbero costituire una grossolana distorsione della realtà, se non fossero integrati da altri indici altrettanto importanti (ad esempio, la mortalità infantile, la vita media e il grado di scolarizzazione). Infatti, i soli indici economici e, in particolare, il reddito pro capite non sono “l’essenza assoluta” della vita umana. L’integrazione con altri indici diventa, quindi, indispensabile per avere un quadro più completo dello sviluppo, non inteso nella sua dimensione strettamente economica, ma nel senso di benessere psico-fisico dell’individuo e della collettività. Per questo motivo, il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), a partire dal 1990, ogni anno pubblica, per ciascun Paese, ricco o povero, il Rapporto sullo Sviluppo Umano, nel quale lo sviluppo viene indicato nell’Indice Composito Generale tramite l’Indice di Sviluppo Umano (ISU). A partire dal Rapporto sullo Sviluppo Umano del 1997, è stato introdotto l’Indice, sempre composito, di Povertà Umana (IPU). Mentre l’ISU misura i risultati medi raggiunti nelle dimensioni di base dello sviluppo umano, l’IPU misura la privazione esistente in quelle stesse dimensioni (si veda la tabella nella pagina seguente). Questo indice viene applicato nelle stesse dimensioni, ma con diversi indicatori, ai Paesi sottosviluppati (IPU-1) e ai Paesi dell’OCSE (IPU-2). Sulla base delle risultanze dell’analisi dei vari indici (ISU, IPU-1 e IPU-2) vengono formulate le graduatorie di sviluppo umano e di povertà umana dei Paesi presi in considerazione.

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2.3 Paesi ricchi e Paesi poveri Dall’XI Rapporto sullo Sviluppo Umano del 2000 risulta la seguente situazione rispetto all’indice ISU. Dei 174 Paesi per i quali è stato calcolato l’ISU: • 46 Paesi sono nella fascia alta di sviluppo umano (con un ISU uguale o superiore a 0,800); • 93 Paesi sono nella fascia media di sviluppo umano (0,500-0,790); • 35 Paesi sono nella fascia bassa di sviluppo umano (meno di 0,500). A partire dal 1990 (prima edizione del Rapporto sullo sviluppo umano), 20 Paesi, quasi tutti dell’Africa sub-sahariana, si sono ulteriormente impoveriti a causa della grande diffusione dell’AIDS, che colpisce milioni di persone per la mancanza di qualsiasi prevenzione e di adeguati servizi sanitari, e a causa dei conflitti spesso in atto in quei Paesi. Calcolato su 85 Paesi, l’IPU-1 del 1999 varia dal 3,9 dell’Uruguay al 64,7% del Niger. 29 Paesi, cioè più di un terzo di quelli per i quali è stato calcolato l’IPU-1, supera il 33%, il che significa che più di un terzo della popolazione di quei Paesi soffre di povertà umana. In Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Etiopia, Guinea-Bissau, Mali, Mozambico, Nepal e Niger, l’IPU-1 va dal 50% al 64,7%. Oltre la metà della popolazione soffre di povertà umana (cioè ha speranza di vita inferiore ai 40 anni, ha un elevato tasso di analfabetismo adulto, non ha accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari). I 18 Paesi per i quali è stato calcolato l’IPU-2 sono indubbiamente quelli più ricchi con un indice ISU di almeno 0,800, che indica il raggiungimento di un elevato grado di sviluppo umano. Tuttavia, per quanto concerne i valori dell’indice IPU-2, si nota che la povertà umana non è circoscritta ai Paesi poveri. Infatti, come si può osservare nella graduatoria riportata nella tabella che segue, anche nei Paesi industrializzati vi sono sacche di povertà. In Norvegia soffre di povertà il 7,3% della popolazione, in Italia l’11,9%, negli Stati Uniti il 15,8%.

Graduatoria IPU-2 (Indice di povertà nei Paesi più industrializzati)

N. PAESE IPU-2 N. PAESE IPU-2

1 Norvegia 7,3 10 Spagna 11,6

2 Svezia 7,6 11 Canada 11,8

3 Olanda 8,2 12 Italia 11,9

4 Finlandia 8,6 13 Australia 12,2

5 Danimarca 9,3 14 Belgio 12,4

6 Germania 10,4 15 Nuova Zelanda 12,8

7 Lussemburgo 10,5 16 Gran Bretagna 14,6

8 Francia 11,1 17 Irlanda 15,1

9 Giappone 11,2 18 Stati Uniti 15,8

Il problema mondiale della fame Come abbiamo visto, un notevole numero di Paesi a livello mondiale soffre di povertà umana ed è toccato dalla piaga della fame. Per fame si intende il fabbisogno calorico e proteico giornaliero di cui ogni individuo abbisogna per una “soddisfacente nutrizione”. Tale fabbisogno varia tra un popolo e l’altro, tra una persona e l’altra a seconda del sesso, dell’età, della corporatura, del genere di attività svolta, delle condizioni climatiche. Tenendo conto di tutte queste variabili, studi e indagini svolte dalla FAO hanno individuato il fabbisogno alimentare giornaliero in calorie e proteine nei vari Paesi a livello mondiale, che varia da 2.700 calorie e 75 g di proteine nei Paesi settentrionali, a 2.400 calorie e 65 g di proteine nei Paesi centrali fino a 2.200 calorie e 55/60 g di proteine nei Paesi dell’Asia e dell’estremo Oriente.

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Di fatto, sempre secondo i dati della FAO, alcuni popoli consumano più del fabbisogno richiesto (anche oltre 3.000 calorie al giorno) e, quindi, sono ipernutriti; altri popoli, quelli sottosviluppati o in via di sviluppo, consumano molto meno (in molti casi dalle 1.600 alle 1.800 calorie) per mancanza di sufficienti alimenti, e quindi sono denutriti. Raimund Schaven, esperto dell’ONU per i Paesi sottosviluppati, ha dichiarato che l’umanità può essere paragonata a tre uomini: il primo muore letteralmente di fame, il secondo è affamato in modo da non essere preoccupato di niente altro che del cibo quotidiano, il terzo è anch’egli ammalato, non per la fame, ma per il troppo mangiare. Infine, osservava Joseph Wresinski: “Laddove gli uomini sono condannati a vivere nella miseria, i diritti dell’uomo sono violati. Unirsi per farli rispettare è un dovere sacro”.

(J. Klatzmann, Nutrire un miliardo di uomini, Edizioni Paoline)

2.4 La difficoltà per una politica di sviluppo Il rapporto delle Nazioni Unite non ci presenta una situazione rosea dei Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo. È quindi indispensabile una seria analisi da parte dei Paesi industrializzati per intraprendere, nei Paesi del Terzo Mondo, una politica di sviluppo economico che sia più efficace di quella perseguita fino ad ora. Per iniziare occorrono tuttavia alcuni prerequisiti, quali: • la presa di coscienza del diseguale sviluppo dell’economia a livello mondiale, che ha creato una minoranza

ricca o molto ricca e una maggioranza povera o in estrema povertà; • la considerazione che la ricchezza di molti Stati è avvenuta o avviene con le risorse di Stati poveri (molte

materie prime non riproducibili come il petrolio, il carbone e i metalli preziosi); • l’attenzione alla salvaguardia dell’ambiente e al suo sfruttamento in termini di risorse (che non sono

inesauribili), per cui si impone e si aggrava il problema a livello mondiale di una vera e propria politica di sviluppo sostenibile;

• la stessa scienza economica postula un’interdipendenza tra la situazione economica di uno Stato con quella di un altro per cui, a lungo andare, l’estrema povertà dei Paesi poveri potrebbe incidere negativamente sulle economie dei Paesi ricchi;

• una naturale riflessione sui consumi eccessivi, sul consumismo nell’acquisto di generi del tutto o quasi superflui (si pensi alla martellante pubblicità di generi alimentari o di capi d’abbigliamento).

Fatte queste premesse, si dovrebbe abbandonare la filosofia degli aiuti sociali sporadici, basata su interventi di emergenza sull’onda di questo o quell’avvenimento che suscita a livello emotivo profonda pietà e comprensione o, peggio ancora, come mezzo per smaltire le eccedenze sotto forma di “regalo ai poveri”. Occorre affrontare seriamente una politica di sviluppo che preveda tutta una serie di interventi scientificamente calcolati. I Paesi sottosviluppati, infatti, potranno procedere autonomamente sulla strada dello sviluppo soltanto quando saranno messi in grado di possedere redditi complessivi tali da consentire risparmi e investimenti, che garantiscano redditi medi pro capite annui in costante aumento. Solo in questo modo, un Paese potrà procedere a tutte le riforme sociali e all’istituzione di tutti i servizi pubblici indispensabili (casa, scuola, assistenza malattia e pensioni).

2.5 Risolvere il problema dei capitali e degli investimenti Si può osservare che gli Stati ad economia più forte, essendo in grado di risparmiare di più e, quindi, di destinare sempre nuove quote agli investimenti, diventeranno presumibilmente sempre più ricchi. Negli Stati poveri ad economia debole vengono, al contrario, ad instaurarsi dei meccanismi perversi che favoriscono un costante declino, fino allo scivolamento nella più totale povertà. Infatti, nei Paesi sottosviluppati, i redditi sono spesso sufficienti alla sola sopravvivenza e non è possibile alcuna forma di risparmio da destinare agli investimenti. Diventano pertanto indispensabili finanziamenti che provengano dall’esterno; diversamente, questi Paesi non saranno mai in grado di far decollare un’economia autosufficiente. Un’altra difficoltà è costituita dalla scarsità di un adeguato reddito pro capite che impedisce la domanda di consumi bloccando, quindi, la produzione. Per lo stesso motivo, non c’è progresso tecnologico e nemmeno un adeguato sfruttamento delle risorse.

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Esempio Se i lavoratori percepiscono salari miseri, li possono utilizzare solo per acquistare beni strettamente necessari per la sopravvivenza. Se i salari dovessero aumentare, allora potrebbero acquistare altri beni per soddisfare i bisogni primari (ad esempio, la casa e gli elettrodomestici) e accantonare anche qualcosa per il risparmio. Soddisfatti i bisogni primari, potrà aumentare la domanda di “beni economici” la quale, a sua volta, farà crescere la produzione, determinando il pieno sfruttamento sia delle risorse sia della tecnologia.

È quindi assai importante che i Paesi industrializzati forniscano aiuti in termini di capitali da investire e diano l’assistenza tecnica per innescare quel circuito economico che gradualmente faccia partire lo sviluppo, fino a quando questi Paesi saranno in grado di procedere in modo autonomo. In questa ottica, è di fondamentale importanza che i Paesi ricchi mantengano l’impegno assunto da tempo di destinare lo 0,7% del PIL ai Paesi sottosviluppati e che trattino concretamente la remissione dei debiti contratti da questi Stati.

2.6 Politica monetaria Diventa importante anche una politica monetaria che: • metta i Paesi poveri in condizione di avere un ruolo autonomo nel commercio internazionale, creando dei fondi ai

quali possano attingere per importare quanto necessario per avviare una politica di sviluppo; • miri alla stabilizzazione dei prezzi delle materie prime, in modo da creare condizioni favorevoli per gli scambi

internazionali. Infatti, qualora i prezzi relativi alle materie prime esportate dai Paesi poveri dovessero oscillare continuamente, non si potrebbero fare progetti sicuri a medio e lungo termine, se non con conseguenze negative per lo sviluppo economico.

2.7 Il piano HIPC (Heavily Indebted Poor Countries, Paesi poveri altamente indebitati) La maggior parte dei Paesi poveri in questi anni si è fortemente indebitata, per ragioni varie, con i Paesi ricchi tanto che, in molti casi, l’intero reddito nazionale è addirittura inferiore all’ammontare dei debiti contratti. È un problema molto grave che, come visto precedentemente, concorre notevolmente ad innescare il perverso circolo vizioso della povertà. Il problema è stato affrontato già alla fine degli anni Ottanta, quando il FMI (Fondo Monetario Internazionale) ha proposto ai Paesi altamente indebitati la cancellazione di tutto o di una parte del debito, a condizione che gli stessi mettano in atto quelle politiche economiche che consentano, in seguito, di essere in grado di fare fronte ad eventuali debiti futuri con le proprie risorse. Nel 1996, nel vertice dell’allora G7 svoltosi a Lione, è stato predisposto il piano HIPC per alleggerire il debito estero dei Paesi poveri nel medio e lungo periodo. Si tratta di un programma attivato dal G7, con la collaborazione del FMI e della BIRS (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo), a favore di una quarantina di Paesi con basso reddito medio pro capite (inferiore ai 300 dollari), che non riescono a fare fronte ai creditori esteri. È previsto l’annullamento graduale dell’80% del debito estero, a condizione che questi Paesi adottino serie misure per contrastare la povertà. Nel 1999, il vertice del G8 tenutosi a Colonia ha rafforzato l’impegno internazionale per l’attuazione del piano HIPC, aumentando non solo il numero dei Paesi ai quali è rivolto il piano stesso, ma anche l’ammontare del debito totale cancellabile, con l’obbligo di legare le risorse finanziarie, liberate con la cancellazione del debito, a specifici programmi nazionali di riduzione della povertà mediante: • l’adozione, da parte del Paese debitore, di un programma di aggiustamento economico triennale; • la messa in atto di un piano triennale di riduzione della povertà.

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Soddisfatti tutti i punti di cui sopra, si consegue il diritto alla cancellazione del proprio debito multilaterale (cioè contratto con i vari Paesi industrializzati). I Paesi che nel 2002 hanno soddisfatto tutte queste aspettative sono 37, dei quali 31 appartengono all’area subsahariana, 4 all’America Latina e 2 all’Asia. Questi Paesi potrebbero, quindi, usufruire della cancellazione del 100% del debito, almeno in linea teorica, ma si profilano tempi burocratici piuttosto lunghi.

2.8 Gli interventi dell’Italia L’Italia, per quanto concerne la propria quota di debito multilaterale (è infatti al quinto posto dopo Giappone, Francia, USA e Germania), ha allargato la propria disponibilità a condonare anche i debiti commerciali che non rientrano nelle decisioni assunte al vertice di Colonia. Con l’approvazione della legge 25 luglio 2000, n. 209, l’Italia è stata infatti il primo Paese a prevedere la cancellazione del debito estero contratto dai Paesi in via di sviluppo per una somma di 6 miliardi di euro. Il 22 ottobre 2001, in attuazione della legge citata, l’Italia cancella il debito della Guinea per una somma di 50 milioni di euro. Ma non solo: vengono infatti cancellati anche gli interessi e i rimborsi dovuti da qui a tre anni e, quindi, l’intero ammontare del debito, a condizione che la Guinea utilizzi i risparmi ottenuti per abbassare il tasso di povertà e innescare un processo di sviluppo. A tal proposito, si osserva che 50 milioni di euro rappresentano una cifra abbastanza ininfluente nella spesa del bilancio italiano, tanto più se si tiene conto che al momento, nei fatti, l’Italia ha cancellato solamente gli interessi, che ammontano a 15 milioni di euro, mentre il totale sarà cancellato solamente nel 2004.

Il caso dell’Uganda L’Uganda è stato il primo Paese africano a soddisfare tutte le richieste del piano HIPC, ottenendo una minima remissione parziale nel 1998, e una seconda nel 2000, per un totale del 48% dell’intero ammontare del debito e degli interessi, pari a circa 2 miliardi di dollari. In concomitanza con questi interventi del piano HIPC, l’Uganda ha abbassato il tasso di povertà di 15 punti percentuali e il reddito pro capite annuo è salito da 260 a 320 dollari. Inoltre, si è innescato un processo di sviluppo che ha influenzato anche le condizioni sociali e sanitarie, radicalmente cambiate. Ciò sta a significare che la strada della cancellazione del debito ai Paesi poveri è utile e percorribile e che la povertà non è solo una questione economica, ma di rispetto e di affermazione dei diritti umani.

Diritti umani e... sviluppo Nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 4 dicembre 1986, sono state poste le fondamenta di uno sviluppo economico non disgiunto dall’affermazione dei diritti umani. Infatti, lo sviluppo è definito come “un ampio processo economico, sociale, culturale e politico, che mira al costante miglioramento del benessere dell’intera popolazione e di tutti gli individui sulla base della loro attiva, libera e significativa partecipazione”. Allo sviluppo è dunque riconosciuto lo status di diritto umano inalienabile, in virtù del quale “ogni persona umana e tutti i popoli sono legittimati a partecipare, a contribuire e a beneficiare del progresso economico, sociale, culturale e politico, in cui tutti i diritti umani e tutte le libertà fondamentali possono essere pienamente realizzati”. La persona umana (non lo Stato, né le imprese multinazionali) è “il soggetto centrale dello sviluppo”. Gli Stati “hanno l’obbligo individualmente e collettivamente, di adottare misure per elaborare politiche internazionali di sviluppo e di incoraggiare la partecipazione popolare in tutte le sfere, quale importante fattore nello sviluppo e nella piena realizzazione di tutti i diritti umani”.

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A questi principi si è attenuto anche l’XI Rapporto sullo Sviluppo Umano del 2000 delle Nazioni Unite che, accanto ai numeri e all’entità dello sviluppo e del sottosviluppo, ha dedicato un maggiore spazio all’analisi dei diritti umani, la cui affermazione deve procedere di pari passo, vista la stretta correlazione con lo sviluppo economico.