Sulle orme della salamandra - Cristiano Bravi

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Cristiano Bravi S S u u l l l l e e O O r r m m e e d d e e l l l l a a S S a a l l a a m m a a n n d d r r a a

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bozza preliminare completa trama "La tranquilla vita di Robert sta per essere infranta da un episodio agghiacciante. L'ombra del passato si intromette nella monotonia della quotidianita' rivelandosi attraverso il macabro ritrovamento di cinque dita amputate. Queste sotto forma di indizi lo trasportano in un viaggio denso di insidie. Da Miami alla regione piu' sperduta della Namibia, dalle coste del Peloponneso alle terre mistiche della Macedonia, fino in Italia. Sullo sfondo amore e vendetta muovono le sorti determinando le circostanze della storia piena di ostacoli, rebus e colpi di scena."

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K r i s d e b r a v i

C r i s t i a n o B r a v i

Sulle Orme della Sa-

lamandra

C r i s t i a n o B r a v i

SSSuuulllllleee OOOrrrmmmeee

dddeeellllllaaa SSSaaalllaaammmaaannndddrrraaa

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Il pollice fa il capo

l'indice è ubriaco

il medio è il poliziotto

l'anulare fa fagotto

il mignolo piccolino al

pollice fa l'inchino.

Antica cantilena

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Prologo

La stanza, nel seminterrato, era stata chiusa a chiave.

Adibita a obitorio, era stata completamente blindata; fatta

eccezione per un’intercapedine in alto sulla parete da cui filtrava

un’aria gelida. Gli attrezzi chirurgici erano rimasti su carrello ac-

canto al corpo paralizzato. Sugli scaffali, dentro quattro ampolle

di vetro, quattro diverse salamandre avevano osservato immo-

bili tutta l’operazione e adesso avevano preso a muoversi fa-

cendo vibrare i barattoli.

L’individuo con la tuta mimetica si accostò accarezzandole

da dietro il vetro.

“Buone, piccole. Si parte per un lungo viaggio.”

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Capitolo I

Quattro dita

Gansevoort Hotel, Miami Beach 2:35 A.M. “E’ tardi Robert, vattene a dormire!” “Da quando mi dai consigli Jim?” “Siamo rimasti solo noi Robbie, tornatene in camera e fammi

smontare da questo turno.” “Riempimi il bicchiere e ti accontento.” Era stata una giornata piuttosto impegnativa e più logorante

del solito per Robert. O almeno, così gli sembrava. Non imma-ginava che il peggio, quella notte, dovesse ancora capitargli. Per quanto, a dire il vero, la sua esistenza non fosse già stata irrime-diabilmente compromessa. Per i fatti che arriveranno, potremo dire che più che su uno sgabello di un lounge bar in uno degli alberghi più sfarzosi di Miami, egli sedeva, inconsapevolmente, sopra un’incudine su cui stava per abbattersi, con imprevedibile violenza, un devastante martello.

Robert Christian Duvall, titolare unico della Duvall Entrerpri-

se, holding finanziaria a capo di diverse compagnie sparpagliate lungo tutto il territorio statunitense; società madre a controllo di svariate commodities come avena, soia, cacao, caffè, cotone, legname, rame, nichel, alluminio, etanolo e nafta. Già da qual-che mese cominciava ad avvertire la fatica accumulata negli ul-timi anni trascorsi solo ad inseguire gli affari, da quando era ve-

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nuto a mancare Gerard, suo padre, a causa di un incidente d’auto. Il suo vecchio aveva curato quell’azienda alla perfezione dopo che l’aveva, a sua volta, ereditata dal suo, che però lo ave-va avviato al mestiere fin da giovane con meticolose istruzioni e precetti. Dopo neanche un paio di settimane dall’incidente se ne era andata anche sua madre, Eloise, suicidandosi.

Per lui quell’impiego, seppur l’immediatezza del repentino passaggio di consegne lo cogliesse impreparato, rappresentava, in effetti, tutto ciò che rimaneva della sua famiglia; e gli garanti-va anche una valida occasione che gli permettesse la giusta di-strazione per l’elaborazione del lutto, come gli consigliò anche Philip, il suo psicologo. Robert non era per niente avvezzo a quel genere di situazioni, ma ci mise quanto più impegno potes-se per riuscirci. Nonostante ciò, dimenticare per lui non fu mai facile.

Fino all’ultimo dei suoi nervi contratti, adesso, poteva rico-noscere ad uno ad uno tutti gli sforzi spesi durante gli incessanti viaggi di lavoro a cui si era sottoposto; nonché le energie di-sperse per i frenetici spostamenti intercontinentali, tesi ad in-centivare i profitti degli ultimi investimenti avanzati per pro-muovere le società rifondate che avrebbero garantito al gruppo rinnovato di resistere alle difficoltà dei mercati emergenti e alle insidie finanziarie derivate della crisi economica. Come un dro-gato era arrivato perfino a convincersi che in fondo quegli im-pegni gli procurassero un enorme piacere; anzi, che rappresen-tassero la sola forma di piacere.

“Merda, come sono invecchiato, Jim!” - Sospirò, cogliendo il

suo volto riflesso sulla specchiera, non appena il cameriere ri-

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collocava la bottiglia sul ripiano. Il suo commento però non ri-guardava la sua immagine, non quella esteriore. E non era rivol-to al barista.

“Jim, ti ho mai raccontato della mia esperienza nei Balcani?” - Bevve un sorso e vide dalla triangolazione degli specchi il vol-to di Jim che, girato di spalle, ruotava gli occhi al soffitto emet-tendo un rumoroso gemito di stanchezza mentre fingendo di asciugare dei bicchieri puliti cercava in tutti i modi di non inne-scare la conversazione.

Jim poi guardò l’orologio, erano le due e cinquantacinque, grugnì un’imprecazione e si immaginò la sua compagna a casa che sotto le lenzuola, senza di lui, si stesse addormentando.

Robert, intanto, senza un interlocutore osservava ipnotizzato la propria immagine che gli appariva oblunga nella superficie sferica del bicchiere di bourbon tenuta con entrambe le mani, a pochi centimetri dal naso.

“Si chiama Yasmîn, non è vero?” - Gli chiese poi. Sicuro di catturare la sua attenzione.

“Co Cosa?” - Il cameriere reagì di scatto come se avesse pre-so una scossa elettrica tra le chiappe.

Robert si passò la prima falange dell’indice ad asciugarsi il labbro inumidito.

“T-tu come cazzo fai a sapere come si chiama?” - Jim sem-brava più indispettito che sorpreso. Robert invece si mostrava distrattamente concentrato ad analizzare il cerchio perfetto del bordo del bicchiere.

“E’ la tua ragazza, non è vero?” - Robert amava prendere le persone di sorpresa. Non poté fare a meno di concedergli un sorriso amichevole.

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“Sì, è la mia ragazza! Che scherzo è mai questo, io e te non ci vediamo da oltre un anno, come fai a sapere di lei?”

“Rilassati, marinaio!” - Robert allontanò di qualche centime-tro il bicchiere dalle mani - “Non è poi così difficile, vediamo.. dall’ultima volta mi sembri troppo dimagrito, come se fossi re-duce da un digiuno forzato tipo ramadan, non è vero? Chissà magari per compiacere qualcuno oppure.. qualcuna?” - Robert sollevò gli angoli della bocca mostrando una dentatura tanto smagliante quanto sarcastica.

“Poi, vediamo.. ho notato che porti un bracciale, sì, ti usciva appena appena quando mi versavi da bere.. lo porti al polso de-stro e tu invece.. usi la mano destra non è vero?”

“Continua” - Jim cominciava a capire dove volesse arrivare ma non poteva a capacitarsi di come ci fosse riuscito.

“Dunque ti fai aiutare da qualcuno, oh pardon, qualcuna per allacciarlo.. devo riconoscere che è davvero un bell’esemplare, e anche se si tratta di finta bigiotteria è finemente lavorato; tu hai gusti da yankee, quindi deve avertelo regalato una ragazza, le donne hanno gusti più raffinati.” - Jim appoggiò il peso del corpo sorreggendosi su un braccio nella cui mano teneva lo strofinaccio, poi accavallò un piede incrociandolo le caviglie e, inclinando il lungo busto leggermente in avanti, rimase ad ascol-tarlo incuriosito.

“C’è appesa una lettera, e qui arriva la parte più interessante” - Jim si toccò il braccialetto come se avesse dimenticato che lo stesse portando e riconobbe, strofinando tra le dita, il simbolo metallico.

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“Come anche tu saprai, Jim, quella è una iniziale araba, uti-lizzata per diversi nomi femminili.”

“Ce ne saranno almeno un centinaio che iniziano in quella maniera e tu ti chiederai, dunque come potevo sapere esatta-mente il suo nome. Devo ammetterlo, è stata un po’ la fortuna, che vuoi farci, aiuta gli audaci, non ti pare? Non ti pare, già, ed hai ragione mio caro giovanotto!” - Proseguì inspirando dal na-so simulando il verso di un cane da fiuto.

“Mi sarei arreso, se non fosse che sulla manica destra hai un buon profumo, gradevole ma si percepisce appena; è da donna, diciamo anche, ipotizzando, che sia della tua ragazza.” - Jim si annusò i vestiti.

“Ebbene, potrei anche sbagliarmi ma quella mi è parsa un’essenza di gelsomino.” - Lo aiutò Robert. - “In oriente era molto in voga tra le geishe. In diverse regioni della terra invece lo indosserebbe chi ha per iniziale questa lettera e che si chiami Yasmîn, e che sappia che questa parola di origine persiana la si traduce con gelsomino.” - Robert bevve fino all’ultima goccia e tirò il bicchiere verso Jim facendolo scivolare sopra il bancone - “Adesso puoi andare dalla tua Yasmîn, cowboy!”

Robert fu arruolato nei corpi scelti dopo che, finiti gli studi si era presentato come volontario agli addestramenti militari della CIA nel reparto U.A. Undercover Agents dove le sue elevate capa-cità di elaborazione logica e la sua prestanza atletica furono ri-conosciute, apprezzate e potenziate. Per lui fu un’occasione per emanciparsi dall’impero economico della famiglia e da quegli agi che, per indole, non gli appartenevano.

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Nella fase iniziale precedente alle battaglie, che vedranno poi coinvolta in guerra tutta la ex Jugoslavia, venticinquenne prese parte ad una missione militare ad alto rischio. Nascosto in un rifugio segreto situato tra le alpi dinariche a 2.400 metri di altez-za sulla vetta del monte Maglić, assieme ad un suo collega, do-veva studiare i movimenti e i piani tattici delle truppe serbe. All’interno la base era dotata delle apparecchiature più sofistica-te. Ma ciò che dava importanza alla riuscita delle operazioni e-rano le azioni sul campo. Uomini come lui riuscivano ad arriva-re a poche decine di metri dai raduni che i generali nemici orga-nizzavano nelle boscaglie a fondo valle e adeguatamente mime-tizzati captavano e registravano direttamente le conversazioni segrete oppure, se c’erano troppi soldati lasciati a sorvegliare, piazzavano le microspie. Alla CIA arrivava il resoconto di tutta la documentazione che quel reparto dalle montagne inviava via satellite con la strumentazione di cui era dotato il loro nascon-diglio. Tutto ciò era tanto pericoloso quanto eccitante, ma Ro-bert, in fondo, era un idealista; non lo faceva per ricevere una medaglia, egli era convinto che le cose si potevano cambiare sul campo e che le guerre, con l’aiuto della tecnologia, potessero e dovessero essere evitate.

Le cose, purtroppo non andarono così. Rimase inerme, im-potente e paralizzato da un profondo senso di ingiustizia quan-do si rese conto che, nonostante tutte le informazioni raccolte descrivessero in modo inconfutabile riguardo un imminente at-tacco militare verso la popolazione civile, il suo governo non faceva nulla per fermare gli attacchi. A che erano serviti tutto il lavoro svolto e i rischi che aveva affrontato se poi non si inter-veniva subito per scongiurare simili perdite? Come potevano

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permettere che tutti quei civili indifesi venissero attaccati? Lui stesso si era fatto tradurre le ultime registrazioni di Mladic da Aleksija, la ragazza che li aiutava nelle traduzioni e sapeva per-fettamente riguardo a quanto di atroce era stato pianificato da parte del generale. Nonostante la delusione e lo sconforto a Robert non fu possibile disertare all’istante, come avrebbe volu-to. Quella collocazione in cima alle montagne, seppur valida come rifugio spionistico, risultava parecchio critica sotto l’aspetto difensivo e la situazione da delicata si stava facendo sempre più tesa; una mossa sbagliata e presto si sarebbe trovato accerchiato dalle milizie serbe. Poi, passate alcune settimane, arrivò la notizia dell’incidente accaduto a suo padre. Cambiò lo scenario della guerra. Gli attacchi, spostati dai confini periferici delle campagne a ridosso delle vallate e concentrati sui centri abitati, gli permisero di raggiungere inosservato la vicina base alleata, ai confini con quello che poi sarebbe diventato territorio Croato.

Poté dunque rimpatriare, preoccupato soprattutto di poter dare conforto a sua madre di cui conosceva la fragilità. Ma quando arrivò trovò Eloise che era già nella camera ardente, vit-tima di una letale miscela di barbiturici ingurgitati appena la sera precedente il suo arrivo.

La hall era praticamente vuota. Molto più lontano, in fondo

alla sala, vicino all’ingresso gli addetti alla reception si erano riti-rati nel retro. Alcuni ospiti rientrando stavano risalendo nelle loro camere facendo risuonare l’avviso acustico degli ascensori.

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“Dimmi che almeno tu riesci a dormire, Terence” - disse ri-volto verso l’alto come se riuscisse a vedere oltre il soffitto mol-ti piani sopra di lui.

“Mi sono dimenticato di farmi gli auguri.” Il giorno precedente del suo arrivo a Miami Robert aveva ol-

trepassato la soglia dei quaranta in quella che, sotto l’aspetto la-vorativo, per lui fu una giornata memorabile. Si trovava nella sala riunioni della sede centrale della Duvall a Los Angeles e a-veva da poco concluso un affare decisivo con una società Belga emergente. Ciò avrebbe determinato l’incremento negli utili delle esportazioni che da mesi viaggiavano in ribasso a causa della globale svalutazione dei mercati internazionali. Quei nego-ziati iniziati con tutta una serie di presentazioni e grafici che ne descrivevano tutti gli aspetti economici e analizzavano accura-tamente le fasi che avrebbero coinvolto entrambe le società, e-rano andati a buon fine. Tuttavia, tutte le trattative, concluse so-lo in quel tardo pomeriggio, lo avevano stravolto e assorbito completamente; ragione per cui non aveva potuto leggere né dare conferma alle varie proposte che erano arrivate al suo pal-mare per festeggiare il suo compleanno da parte dei pochi amici interessati solo a trarre qualche vantaggio dalla sua posizione sociale.

Gli venne da ridere. Né, tanto meno, si era degnato lui stesso di organizzare o di dare disposizione affinché si allestisse nella sua villa il classico party sfarzoso a bordo piscina. Quanto ba-stava per l’immediato tornaconto che quel tipo di gente gli a-vrebbe sempre e comunque garantito. Quant’ anche egli fosse riuscito a presenziare alla sua festa, riconosceva che quella sera non gli sarebbe rimasto abbastanza fiato per spegnere tutte e

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quaranta le candeline. Ma era soddisfatto. Si era, perciò, conces-so in quella occasione, il lusso di brindare in solitaria nel sedile posteriore della sua limousine con gli alcolici a disposizione del frigo bar, che fino a quel giorno non aveva neanche notato.

Robert non era astemio ma beveva solo in rare occasioni che immancabilmente diventavano veri strappi alla regola. Cullato dal lieve movimento oscillante dell’auto spense il cellulare, al-lentò la cravatta e stappò la prima di una lunga serie di minibot-tigliette che, nel tratto tra la il distretto di Culver City e Beverly Hills bevve fino all’ultima goccia.

L’euforia immediata e la stanchezza accumulata gli provoca-rono scoppi alternati di risate e farneticazioni, molto simili a quelle che si concedeva quando al college, di nascosto, ogni tan-to si fumava la marijuana.

Terence Julio Gutierrez, il suo autista cinquantacinquenne, originario di Santa Cruz de la Sierra, uomo umile, mite e tradi-zionalista lo ascoltava da dietro il vetro divisorio e con rapide occhiate benevoli dallo specchietto retrovisore gli faceva capire che ne stava seguendo il suo ragionamento. Il povero autista, educato fin da piccolo con una forte impronta cattolica, si tro-vava in difficoltà per via di quelle confidenze e di tanto in tanto accennava una mezza risposta in lingua spagnola come a dire, per il fatto che in fondo era straniero, che in realtà non stesse capendo realmente tutto quello di cui parlava e che una volta che il señor si fosse ripreso dai fumi dell’alcool, forse quell’espediente sarebbe tornato utile a mitigare il conseguente imbarazzo di entrambi. Quasi alla fine del lungo tragitto Robert si addormentò e arrivati alla soglia della sua villa, Terence trovò Bernard che li stava aspettando sulla soglia d'ingresso.

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Bernard McLeod era il maggiordomo della famiglia Duvall da diverse generazioni. Giovanissimo, iniziò a lavorare per il nonno di Robert appena emigrato dalla Scozia con una corna-musa (disposto anche a suonarla se non avesse trovato subito un lavoro decente). Bernard era molto volenteroso e il nonno di Robert, Christian Duvall lo assunse subito. Si adoperò dappri-ma nella villa come giardiniere e, pressoché coetanei, lui e il pa-dre di Robert, Gerard Duvall, crebbero, nonostante tutto, come fratelli. Per Robert, in più di una occasione, però, Bernard fu più padre del vero padre, visto e considerato che Gerard era sempre e troppo impegnato fin da giovanissimo.

Parcheggiata la macchina a lato del grande ingresso formato dall’ampio colonnato della villa, Terence spense il motore e, come d'abitudine, scese ad aprire lo sportello. A Robert, che gli regalava ampi sorrisi e parole di ringraziamento frammisti ai va-ri odori di marche rhum (che se avesse potuto sarebbe stato an-che in grado di riconoscere), Terence inclinò leggermente il bu-sto, ma non abbassò il capo in gesto di congedo. Gli disse inve-ce - “buonanotte, si riguardi” - dopodiché richiuse delicatamente lo sportello con tutta la grazia di cui era capace e rimase con di-screzione ad osservarlo allontanarsi a piccoli, passi incerti.

Rientrato in macchina Terence per continuare a godersi quella scena fece finta di sistemarsi il berretto da dietro il fine-strino. Poi, mentre con tutta calma rimetteva in moto il dodici cilindri della lussuosa vettura e si avvicinava all’uscita che confi-nava con la sua dependance, inclinò quanto bastava lo spec-chietto retrovisore verso destra per riuscire vedere meglio alle sue spalle. L’immagine rifletteva quella del señor che barcollando si era avvicinato a una decina di passi dal portone, e che rima-

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neva immobile di fronte agli scalini. Poi, poco prima di uscire dal vialetto, approfittò della semicurva per dare un’ultima oc-chiata; chissà, magari lo avrebbe visto steso o abbracciare la sie-pe laterale. Scena che non si sarebbe mai voluto perdere. Vide, invece, Bernard che aiutava Robert in difficoltà a salire i gradini, quindi impietosito Terence ripartì lasciandosi quella immagine alle spalle. Terence aveva sempre apprezzato il señor per il suo potere e le sue capacità, ma quell’uomo a lui, ex bracciante, non andava a genio più di tanto. Nonostante costituisse la sua unica e seppur considerevole fonte di reddito, era arrivato con gli an-ni perfino a disprezzarlo, non tanto perché avrebbe voluto esse-re come lui o perché la sua vita non somigliava neanche lonta-namente a quella, di successo, del suo capo, quanto perché non gli aveva quasi mai rivolto una parola di riconoscimento e grati-tudine per i suoi servizi ad eccezione di quella sera in cui, com-plice l’alcol, Robert si era lasciato andare a confidenze di cui, a dirla tutta poi, Terence non conosceva neanche l’attendibilità. L’autista entrò nella sua dependance e si distese accanto a sua moglie Rocio che dormiva. Rimase un po’ ad osservarla illumi-nata dal chiarore della notte. Aveva una decina d’anni meno di lui. Le stagioni passate sempre a lavorare, prima come braccian-te nei campi e attualmente come addetta alla biancheria, non ne avevano intaccato la bellezza selvaggia. Solo le sue mani tradi-vano il suo lavoro contadino. Da subito lei aveva “ sedotto lui “ e tutti gli abitanti di quel piccolo paese della Bolivia. Si era sem-pre domandato cosa avesse trovato di piacevole in lui che era basso, tarchiato e tozzo. Forse la risposta la conosceva: era uno dei pochi che voleva andarsene a lavorare in America e che quindi le avrebbe permesso di lasciare per sempre la sua fami-

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glia, quei posti e cosa più importante, quel lavoro. La vide girar-si verso di lui e per un istante fu tentato di svegliarla; avrebbe voluto raccontarle di quella serata e della conversazione avuta con il señor, ma non sarebbe servito a niente poiché era convin-to che l’indomani lo avrebbe ritrovato così come lo conosceva, irriconoscente, preso dai suoi affari, nella sua abituale austerità e che avrebbe continuato a servirlo e a disprezzarlo.

Mentre Robert meditava sul fare rientro in camera, Terence,

nella sua stanza cercava di fare il possibile per prendere sonno, senza riuscirci. Benché non fosse la prima volta che accompa-gnando Robert alloggiasse in una camera che costava quattro-centosettanta dollari a notte (esclusa la colazione), dormire gli sembrava alquanto sprecato. Se Rocio lo avesse visto! Forse a-vrebbero fatto l’amore come quella volta che erano appena ar-rivati negli Stati Uniti in cui era convinto che agli occhi di lei lui fosse improvvisamente diventato affascinante, come gli attori dei film sottotitolati che vedevano al cinema del paese, con cui impararono la lingua e per cui sognavano lo stesso sogno. Quel ricordo e l’immagine di sua moglie che nell’intimità aveva un orgasmo autentico insieme a lui gli provocò un’erezione. Acca-rezzandosi riuscì a distendere la sua agitazione. Immaginò i seni di Rocio tra le sue mani e i carnosi capezzoli tra le sue dita e pian piano si addormentò; e infine ne fu contento, voleva essere in forma il mattino seguente e cosa più importante non si sa-rebbe mai perso la colazione.

Robert si alzò dallo sgabello e si diresse verso il corridoio che

conduceva al salone centrale. La musica in filodiffusione passa-

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va quasi impercettibile alcune canzoni di Elvis tra cui gli parve di riconoscere Are you lonesome tonight. La parete a vetri in fondo alla stanza rifletteva il gioco di colori al neon dei locali sulla Col-lins Avenue.

Immaginò che stesse per piovere poiché udì il frastuono di un fulmine in lontananza. Rifletté per un attimo sul fatto che c’era sempre poco da scherzare con la pioggia in Florida. Chia-mò l’ascensore e diede un ultimo sguardo verso l’esterno. “La tempesta si sta avvicinando” - osservò. Ci fu un forte bagliore e il tuono fu immediato. Subito dopo un fulmine si abbatté poco distante e fu così potente che illuminò a giorno l’intero quartie-re. Quel boato lo sorprese e reagì di soprassalto, poi per un i-stante rimase immobile davanti la porta aperta dell’ascensore guardando oltre la parete a vetri. La sua mente allenata a scor-gere i particolari e a notare le differenze gli aveva fatto rilevare qualcosa.

Dritto davanti a lui, sul lato destro della spessa vetrata, di là della strada, seppur indistinguibile c’era una figura che agitava un braccio e bussava con qualcosa per attirare la sua attenzione.

Robert gli si fece incontro e riconobbe che si trattava di un barbone anziano che si gli mostrava un sorriso privo di dentatu-ra. Sulla mano destra teneva una bottiglia avvolta nel cartone con la quale aveva bussato sul cristallo antiproiettile. Quel men-dicante continuava a guardalo e a Robert sembrò che stesse lì a fissarlo come per cercare di riconoscerlo. D’un tratto appoggiò la bottiglia a terra e si infilo le mani dentro le tasche dell’impermeabile frugando alla ricerca di qualcosa. Estrasse di-verse cianfrusaglie, alcuni avanzi di cibo che gettò dietro di sé imbronciato.

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Rovistò un po’ e infine recuperò un fazzoletto blu annodato come un fagotto. Gli tornò il buonumore e spalancò la bocca. Robert poté osservare che, seppur guasti e ben nascosti, forse almeno un paio di denti quel senza tetto ce li avesse.

Il poveraccio sollevò quella specie di cimelio e lo mise con soddisfazione all’altezza degli occhi di Robert, quasi fosse un trofeo.

Passarono alcuni istanti mentre Robert osservava la scena cercando di capire cosa quel vecchietto cercasse di comunicar-gli. Poi con grande meticolosità e dedizione l’anziano riuscì ad allentare il nodo per poi scioglierlo mostrandone con entusia-smo il contenuto.

Al suo interno si trovavano, disposte una accanto all’altra, quattro dita umane mozzate e da come si presentavano l’amputazione doveva essere avvenuta di recente. Robert non si mosse di un centimetro. Perplesso scrutava il viso di quell’uomo che di là dal vetro sembrava farsi una grassa insono-ra risata.

L’anziano si guardò intorno vigilando con fare losco se stesse arrivando qualcuno dopodiché distese accuratamente il lembo di stoffa sul marciapiede su cui giacevano leggermente distacca-te tra loro le quattro dita. Ne raccolse uno che portò con estre-mo riguardo all’altezza della bocca.

Robert era sempre più convinto che quell’individuo avesse dei forti problemi ma che non fosse necessario allarmare nes-suno.

Era altrettanto consapevole che non avrebbe assistito alla scena disgustosa di quel poveretto che si mangiava tutte e quat-tro le dita.

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Robert gli fece cenno che se ne stava andando ma l’uomo torno serio e gli spiaccicò quel moncone sulla lastra invisibile come se stesse prendendone le impronte digitali.

Robert si accostò al vetro e rilevò che sul polpastrello c’era inciso una specie di simbolo. Guardò meglio e vide che si trat-tava di una lettera. Si mise a pochi millimetri per cercare di di-stinguerla meglio e, nonostante la distorsione della pelle schiac-ciata e la mano tremante con cui veniva sorretta, riconobbe una evidente E maiuscola in stampatello.

Quell’operazione venne ripetuta con tutti gli arti mancanti e le lettere successive furono L, A e infine sul mignolo, quasi in-distinguibile lesse qualcosa che somigliava vagamente alla lettera G.

Non trovando un cenno di compiacimento sul volto di quel-lo che nel suo immaginario sarebbe dovuto essere il suo interes-sato osservatore quel mendicante prese le sue cose, le rimise in tasca e scappò via in gran velocità finendo per poco sotto un’auto che stava svoltando per immettersi sul lungomare.

Certo che si fosse trattato di uno squilibrato a cui dare poco credito e molto più preoccupato per le incombenze che lo ri-guardavano al suo risveglio, Robert rimase per un po’ a guarda-re la pioggia cominciare a scendere così copiosa che sembrava volesse lavare e ripulire il lerciume delle miserie umane; poi la tempesta se ne andò, e così anche lui.

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Capitolo due Ritorno a casa

Scongiurato l’arrivo di un possibile uragano, che da quelle parti rappresentava una seria minaccia almeno fino al 30 no-vembre, il sole quella mattina del 22 settembre spandeva un te-pore velato, quasi primaverile.

Malgrado ciò Terence, destatosi con largo anticipo per far man bassa dell’abbondante buffet, fuori nel parcheggio teneva acceso il motore da 505 cavalli della Bentley Mulsanne per rin-frescarne l’abitacolo. Mancavano pochi minuti all’orario che Robert aveva stabilito la sera prima per la partenza. Alle 8 e 30 avrebbe dovuto accompagnarlo al Miami Beach Convention Center. Il software del sistema di navigazione satellitare in dota-zione in quell’autovettura era per lui complicato come per un orango imparare a destreggiarsi nella compilazione di un sudo-ku. Ignaro del luogo esatto destinazione e di come arrivarci, poco prima di lasciare l’hotel si era perciò adoperato per indivi-duarla perlustrando invano nella mappa turistica pieghevole. Si rivolse perciò ai giovani addetti responsabili della reception che, presi nei convenevoli ossequiosi tra i vari check-in e check-out, gliela indicarono sbrigativamente come a solo pochi isolati da lì. “Roba da poter fare anche a piedi” - risposero infastiditi una volta individuato il suo accento e riconosciuta la classe sociale di appartenenza. Palesemente sdegnati, lo invitarono ad allonta-narsi da solo e con la cartina in mano. Non dandosi per vinto si mise a consultarla cercando nelle aree limitrofe . Infine rico-nobbe che il luogo in linea d’aria doveva trovarsi molto vicino.

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Il giorno precedente Robert lo aveva condotto istruendolo pas-so passo lungo le svolte con cui arrivarono dall’aeroporto ma ciò, più di ogni altra cosa, aveva ferito il suo orgoglio.

Fece dunque leva sull’istinto dei suoi avi minatori. Si mise al volante e andò a vuoto verso la meta girandoci intorno, per si-curezza, un paio di volte. Si era immesso con la massima con-centrazione sulla Pine Tree Drive, poi con gli occhi vigili e la prontezza di uno scoiattolo aveva svoltato a sinistra nella Dade Boulevard. Bisognava fare circa settecento metri, leggere i car-telli e, prestando molta attenzione alle auto che arrivavano nel senso opposto, infilarsi a destinazione nella Washington Ave-nue.

Stava facendo comunque un ultimo disperato tentativo con il GPS ma non c’era verso e, imprecando, si arrese. Si affrettò poi a comporre un breve messaggio SMS che Rocio avrebbe visto solo al suo risveglio. In California infatti erano quasi le cinque e ventotto.

Rocio mi amor ¿cómo estás? Te echo de menos. Este es un lugar maravilloso. Yo vengo esta noche. Besos. Su Julio

Lo inviò nel momento in cui Robert oltrepassava la porta gi-

revole del Gansevoort con il passo svelto e l’andatura “decisa” tipica degli uomini d’affari. Gli passò accanto ammiccando con un misurato distacco, il che apparteneva alla categoria di chi non si intrattiene in futili convenevoli. Terence, per nulla offe-so, si drizzò in tutta la colonna vertebrale mantenendo il torace

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gonfio portando le quattro dita unite della mano alla visiera del berretto come fanno i militari. Appena partiti l’autista sudame-ricano notò che il traffico d’improvviso era aumentato conside-revolmente. Miami con i suoi cinque milioni e mezzo di abitanti sembrava essersi riversata sulle strade in quello stesso preciso istante. Procedendo a passo d’uomo armeggiava con ostentata disinvoltura sul touch screen del satellitare dissimulando una certa dimestichezza allo scopo di catturare l’attenzione del suo principale che però notava quanto in realtà quell’uomo fosse impacciato con la tecnologia. Ciò lo lasciava comunque del tut-to indifferente. Stava dando una veloce occhiata, infatti, ai fa-scicoli preparati da Jessica, la sua segretaria. Per ogni cartella veniva illustrata, con meticolosa perfezione, la sintesi dei bilanci delle principali aziende che esponevano quel giorno all’Americas Food and Beverage Show; nonché la scaletta progressiva degli in-contri e una serie di nozioni accessorie utili sul profilo persona-le dei vari soggetti. Il primo appuntamento sarebbe stato con la General Mills, l’ultimo, il più importante, a pranzo con la Proc-ter&Gamble.

Il suo cellulare emise un suono. “Buongiorno Jessie.” “Buongiorno capo, mi domandavo..” “Sì, Jessie - la interruppe - c’è tutto ed è tutto chiaro, a quan-

to pare..” “Perfetto! Solo un paio di precisazioni.” - Il suo tono era

come al solito pimpante. Emanava energia pura. Robert rimase in ascolto tenendo d’occhio Terence che approfittava della tele-fonata per riuscire in tutti i modi a spegnere il display del com-puter di bordo. “..Poi c’è il responsabile della Fresh Drinks Inc.

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che compie gli anni oggi, questo ho dimenticato di metterglielo tra le note, se gli facesse gli auguri..”

“..Ne rimarrebbe sorpreso?” - Robert sorrise. “Esatto!” - Continuò vibrando come una palla da baseball

scagliata a tutta velocità sciorinando una lista particolareggiata di ulteriori notizie raccolte solo in extremis, dalle sue parti era notte fonda - “..Poi, vediamo, ah ecco! C’è l’amministratore de-legato della Grambling Inc. che tra una settimana festeggia le nozze d’oro con sua moglie, faccia attenzione, magari potrebbe invitarla a Toronto..”

“Ho capito inventerò una bella scusa, grazie Jessie” “Dovere!” - Jessie era un segugio, in molte occasioni Robert

doveva a lei la buona riuscita dei suoi interventi nei consigli di amministrazione, la sua preparazione non aveva eguali - “..Se non ci sono ulteriori cose per cui posso esserle utile la saluto e le auguro una buona giornata.” - Il suo timbro era fresco, fan-ciullesco, vivace. - “..Le lascerò il rapporto sulle energetiche come mi aveva chiesto e il resoconto della giornata di borsa nel-la sua scrivania.”

Sapeva perfettamente che Robert non amava ricevere infor-mazioni così riservate per via telematica sul suo I-Pad, in fondo era più di un retaggio degli addestramenti trascorsi, il fenomeno degli hacker era diventato lo spauracchio per diverse società. “Perfetto, le prenderò al mio rientro. Il volo è previsto per que-sto pomeriggio alle diciassette e trenta.”

Richiuse la cartella e la infilò dentro la sua valigetta, poi guardò il suo orologio e sospirò volgendo lo sguardo verso il traffico intenso. Osservò oltre la lunga fila di macchine ricono-scendo l’incrocio con la Beach Drive dove aveva visto fuggire

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l’uomo con le quattro dita e per un attimo gli parve di averlo solo sognato. Si incupì. Non poteva fare a meno di essere in pena per le persone che soffrivano. Questa sensibilità l’aveva ereditata da sua madre. L’empatia, oltre che un tratto caratteri-stico derivato dall’educazione, che si configurava su un piano di idee completamente in antitesi con quelle di suo padre, era an-che un istinto; rappresentava un lascito che da generazioni ve-niva tramandato dal ceppo materno. Guardandolo per il verso più “nobile” era, o sarebbe potuto essere a tutti gli effetti, un dono. Dall’esterno, per chi non lo conosceva, il suo carattere appariva come quello di un uomo schivo e introverso. Promise a se stesso che avrebbe dato disposizioni a Jessica affinché in-viasse dei fondi al centro di accoglienza per senzatetto delle vi-cinanze. Non gli riusciva, però, a capire fino in fondo la ragione di quelle lettere incise, stampate oppure tatuate nelle dita; per quanto, neanche il fatto che un barbone se ne andasse in giro con quei cimeli avesse un suo senso logico. Per come se li im-maginava quegli individui raccattavano le cibarie avanzate che trafugavano tra i rifiuti nella spazzatura. Di giorno elemosina-vano spiccioli per la strada che poi ogni sera investivano in una bottiglia di whisky da quattro soldi. Forse quel tizio aveva assi-stito ad un crimine? Sarebbe potuto trattarsi di una vendetta? Un regolamenti di conti della mafia? Magari aveva assistito a quella scena da gangster mentre se ne stava rintanato in un sot-terraneo a farsi i fatti suoi scolandosi il risultato della sua gior-nata. Poi, chissà, rimasto solo e per niente sobrio deve averli raccolti andandosene portandosi dietro indisturbato le iniziali di quella banda che adesso controllava il traffico della droga del

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quartiere. In fondo quella la chiamavano tutti Miami Vice ovve-ro la città del vizio.

Tante cose potevano essere ma in quel momento Robert a-veva davanti a sé una intera giornata in cui avrebbe dovuto cu-rare i “suoi” di traffici per i quali, benché legalizzati, conosceva gente disposta a fare carte false.

Rimase assorto socchiudendo un po’ gli occhi. Riconobbe che non aveva dormito un granché. Rifletté sul fatto che tutto ciò a cui aveva assistito negli ultimi anni era altro che una fottu-ta guerra. Una cinica lotta tenuta in piedi dagli affari dei potenti e in quel tragico scenario l’inconsapevole malcapitato senza denti gli si configurava come un’incolpevole comparsa.

L E A G, oppure G A E L. Continuò cercando di disporre le lettere in tutti i modi pos-

sibili che assemblati potessero formare una sigla che conoscesse ma in ogni combinazione gli acronimi risultavano privi di un apparente nesso logico. Eppure aveva la sensazione che qualco-sa gli sfuggiva.

“Señor! Siamo arrivati” - disse Terence arrestando l’auto nel piazzale antistante l’ingresso balzando fuori ad aprirgli lo spor-tello per poi risalire a bordo.

“Ok” - disse Robert - “..ci ritroviamo qui..” - indugiò un at-timo uscendo dall’auto - “..diciamo, verso le quattordici e tren-ta” - fece una pausa allungandosi come un periscopio sopra il tetto della Bentley girando la testa in varie invisibili direzioni come per fare il punto della situazione - “..se mai dovessi tarda-re l’avvertirò, vada a farsi un giro, vediamo..” - attese qualche istante sempre con lo sguardo rivolto verso le palme - “..le con-siglio una passeggiata dalle parti del Coconut Grove oppure una

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visita al Jungle Island, che è qua vicino.” - mise in bocca un chewingum alla clorofilla, poi meravigliando l’altro per il tono amichevole - “..veda lei, questa è una città che merita molto più che leggere il giornale dentro una Bentley.” A Terence in realtà la cosa non sarebbe affatto dispiaciuta ma sapeva che non a-vrebbe vinto la sfida con quel sofisticato navigatore. “Oh! No! Señor, no, no! Non si preoccupi, l’aspetto qua.” - Robert gli al-lungò quattro banconote da cento dollari - “Prenda un taxi.” - “E compri qualcosa per sua moglie!” - Gli urlò che era già lon-tano.

Terence per un po’ non si mosse da lì. Stava immobile, con i

soldi in mano e con lo sguardo fisso davanti a sé ragionando sul da farsi. Vide che erano da poco passate le dieci. Infilò i soldi nel taschino della giacca da cui trasse il suo Nokia sul cui display non trovò nulla. Rocio si alzava tutte le mattine alle set-te. Non era certo abituata a ricevere messaggi così presto, si dis-se. Cercò un posto sicuro dove parcheggiare e chiamò un taxi con un sonoro e poco elegante fischio.

- “Dalle parti di Coco-e-qualcosa-grove” - disse anticipando la domanda. Guardò in alto e lesse memorizzando la grande scritta Hall-A perché poi sapesse ritornare nello stesso ingresso di quell’enorme complesso che da quanto aveva capito poteva avere più accessi.

Si fece lasciare sulla Grand Avenue di fronte al celebre Co-

cowalk. Attorno a se, immerse nella vegetazione esotica tra gli ampi viali, lussuose abitazioni in stile Old Florida si alternavano

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ai numerosi locali, negozi, bar e ristoranti che gli ricordavano il Rodeo Drive a Los Angeles.

Diverse coppie di turisti stranieri, benestanti, dal tipico passo lento di chi si sta godendo le vacanze e dal caratteristico atteg-giamento compassato di chi ha avuto molto dalla vita, entrava-no nelle varie boutiques, facevano i loro acquisti e uscivano commentando su come avrebbero passato la serata sostando davanti ad altre vetrine griffate dei negozi che si trovavano dalla parte opposta della via descrivendo un percorso con un anda-mento a zig-zag.

Lui rimase per un po’ ad ammirarli; fisso come fosse il palo su cui la giostra gira, e grazie al quale essa stessa può girare. Stretto nella sua giacchetta di servizio, le corte braccia lungo i larghi fianchi, la pancia sporgente abbottonata a fatica nella ca-micia bianca consunta dai troppi lavaggi. Quei baffi folti sulle guancie grassocce e la corporatura da tracagnotto lo rendevano la copia perfetta del sergente Garcia, il celebre personaggio che era nello stesso momento acerrimo nemico di Zorro e amico di Don Diego della Vega, che erano in realtà la stessa persona.

Ammaliato da quell’andirivieni immaginava trasognante di partecipare a quel viavai in compagnia di Rocio. Come nel film Pretty Woman lei era la sua Julia Robert che sperperava di ne-gozio in negozio il saldo inestimabile della sua carta di credito.

Schivando all’ultimo istante il getto di urina di un barbonci-

no deciso a svuotarsi la vescica sui suoi pantaloni, Terence ri-tornò con i piedi per terra e, borbottando, si allontanò a piccoli passi incamminandosi girato di schiena mormorando una scia di insulti dialettali che la padrona riuscì a comprendere almeno

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quanto il suo cane. Riprese poi sempre agitando le braccia e voltandosi inciampò sul dorso del marciapiede rovinando pe-santemente a terra strappandosi un po’ di tessuto attorno ai gomiti della giacca. Scappò tra le risa svoltando infuriato per una traversa laterale piena zeppa di ristoranti e wine bar, con-fondendosi tra i turisti. Sfilò davanti un locale, poco lontano, in cui un tizio con gli occhiali da sole stava cantando Unforgettable con lo stesso timbro di Nat King Cole e, rapito, si fermò ad a-scoltarlo beato. Constatò che altro non era che un manichino, un lontano parente del clown della McDonald, che muoveva solo la bocca trasmettendo i brani che ventriloquiava dal giradi-schi che aveva al posto del corpo; la cosa lo prendeva mag-giormente, aveva sempre amato i juke-box. Sapeva anche che l’origine di quello strumento fosse leggendariamente attribuita ad Al Capone che era arrivato a diffidare della stessa orchestra che allietava le sue serate, sostituendola con quella macchina di cui, si narra, fosse stato l’artefice.

L’aria che proveniva da quella tavola calda era dolciastra ed emanava una fragranza di cheesecake il cui aroma allertò, acca-rezzandoli, tutti i suoi sensi. Benché fosse già alquanto sazio, il suo olfatto allenato a fiutare le cibarie ne distingueva diverse specialità, tra cui riconoscibilissima quella ai frutti di bosco. Gli parve una buona scusa per accomodarsi. Si fece portare un caf-fè con panna e già che c’era ordinò anche una fetta di torta ai mirtilli. Quella sì che era la vita! La vita che amava condividere con Rocio.

Prese il cellulare. Non vide niente. Entrò nella cartella dei messaggi. Non che fosse molto pratico ma dal canto suo, anche lì, non c’era niente. Erano, da lui, le undici e trentacinque. Forse

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sua moglie si era già recata nella lavanderia e magari presa dagli impegni non aveva notato il suo messaggio. Polverizzato il pa-sto e saldato il conto riprese placidamente la sua passeggiata. Camminò parecchio arrivando fino dalle parti del Coral Glabes quando notò che erano quasi le dodici e, guardandosi intorno cercò un taxi.

Imbottigliato nella colonna di macchine si decise a chiamarla.

Dall’altra parte però il telefono squillava a vuoto. Fece una de-cina di tentativi consecutivi che risultarono inutili. Cominciò ad arrovellarsi cercando di darsi una spiegazione. La sua iniziale preoccupazione era diventata angoscia e questa, via via, stava prendendo le forme di un vero tormento.

Disperato non poté fare altro che disturbare Bernard. Il mite maggiordomo, dall’altro capo dell’apparecchio, ascoltò pazien-temente la concitata spiegazione della situazione descritta da Terence garantendogli che si sarebbe egli stesso attivato per cercarla.

Intanto il taxi era già arrivato all’ingresso della Hall-A. Il cellulare squillò e vibrò. “Pronto! Bernard! L’ha trovata?” - gli domandò subito ansi-

mando tanto che il maggiordomo ne riconobbe il tono sempre più allarmato. “Purtroppo no.” - gli disse amareggiato - “..sì, sì, ho cercato dappertutto” - rispose cercando di confermare tutte le domande che Terence gli poneva - “..certo, anche nella la-vanderia, poi nelle cucine e anche nei garage.” - Terence rimase avidamente in ascolto cercando di verificare se mancasse qual-cosa all’elenco dei luoghi possibili - “Sono andato a controllare alla serra poi sono risalito fino al maneggio..” - cominciava a

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grondare di sudore - “..ma niente. Infine mi sono diretto verso la vostra dependance, ho suonato il campanello, ho cercato di guardare da dietro le finestre e la casa appariva vuota” - fece una piccola pausa - “..magari è possibile che sia dovuta andare in città, ha preso l’autobus, se così fosse dovrebbe rientrare con uno di quelli, immagino..” - “Oh! Sì! Sì, non c’è altra spiegazio-ne, la prego per cortesia mi richiamarmi se ha notizie..” - cercò di trattenere le lacrime - “..mi scusi per il disturbo.”

“Non deve assolutamente preoccuparsi per questo, poteva chiamarmi prima, adesso sono in pena quanto lei, controllerò la tabella degli autobus per vedere quando potrebbe rientrare, poi la ricontatterò stia sicuro.”

“Gracias, muchas gracias.” Si buttò dentro la Bentley cercando la giusta concentrazione

per controllare la tensione ma in quello stesso istante arrivò Robert. Mise in moto senza dire nulla e si avviò verso il Miami International Airport seguendo attentamente i cartelli. Arriva-rono che erano quasi le sedici. Robert l’osservò prendere le va-lige e dirigersi verso al check-in. Poi lo vide incamminarsi a te-sta bassa verso il parcheggio e consegnare la macchina al depo-sito noleggi dove lasciò la chiave introducendola nell’apposita cassetta. L’imbarco era previsto per le sedici e trenta. Robert gli propose di seguirlo per prendere un caffè insieme. Il volo sa-rebbe durato più di cinque ore ma quella gli sembrò l’occasione migliore per domandargli - “C’è qualcosa che non va Terence?” - gli chiese sorseggiando.

“Oh, no señor, cioè forse sì señor..” - proseguì - “..vede è per via di mia moglie..”

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Terence gli mostrò il cellulare - “E’ tutto il santo giorno che la cerco e non so dove sia finita” - gli rispose con il volto cor-rucciato.

“Ha già contattato Bernard?” - gli domandò immaginando la risposta.

“Sì señor, ha cercato ovunque, mi ha detto che avrebbe con-trollato l’orario degli autobus da Beverly Hills che magari è su uno di quelli”

“Mi dispiace, non conosco bene sua moglie ma a occhio e croce non mi sembra un tipo che possa lasciare delle persone in allerta, tantomeno lei.”

“Infatti, però sa come sono fatte le donne, a tutte piace an-dare a fare shopping ogni tanto e può darsi che voglia farmi una sorpresa per questa sera.” - si sforzò a fatica di emettere una finta risata. Robert annuì - “Forza! Finisca il suo caffè e avvici-niamoci alla gate, questa giornata è stata troppo intensa per en-trambi”.

“Sì, señor, gracias señor.” I passeggeri del volo American Airlines AA-541 con destinazione Los

Angeles sono pregati di avvicinarsi all’imbarco F5, ripeto, i passeggeri del volo American Airlines AA-541 con destinazione Los Angeles sono pre-gati di avvicinarsi all’imbarco F5.

Dentro l’aeromobile Robert seguiva con lo sguardo Terence

che a causa della sua bassa statura maldestramente cercava in tutti i modi di fare entrare l’ingombrante bagaglio a mano pieno di souvenir nella cappelliera rifiutando l’aiuto della hostess che molto più alta di lui cercava invano di dargli una mano. Poi lo

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vide ergersi appoggiandosi con un piede nel poggiabraccio e ri-filare un’energica manata sul portello richiudendo con veemen-za. La chiusura al botto provocò un boato simile a uno scoppio destando il panico tra i passeggeri delle file addietro, mentre quelli della prima classe commentavano la scena divertiti. Gof-famente sì incastrò nella sua poltrona lato finestrino reclinan-done subito lo schienale. Un’altra hostess gli si avvicinò infor-mandolo che ciò non era possibile, almeno fin quanto non fos-se terminata la manovra di decollo. Lo invitò a riporlo in posi-zione eretta e gli suggerì di allacciarsi la cintura di sicurezza. Approfittando della presenza della donna le chiese se, intanto, poteva portagli qualcosa da mangiare. L’assistente di volo ac-consentì e tornò quasi subito consegnandogli un pacchetto di salatini. Li sbafò all’istante e gli venne parecchia sete. Si attaccò ripetutamente al campanello finché non si presentò una terza hostess, molto meno giovane. Alla domanda se era possibile che gli portasse un bicchiere di vino o magari un’intera bottiglia, o se per caso avessero quelli originali della Bolivia lei alzò i tac-chi ritornando con una diet coke e con uno sguardo torvo che non lasciava spazio a ulteriori richieste; quindi andò a posizio-narsi di fronte a quella esigua platea di privilegiati per dettare, scandendo con aria rigorosa, le tradizionali istruzioni di emer-genza mentre il Boeing 787 effettuava la manovra di rollaggio.

..vi invitiamo inoltre a spegnere tutti i dispositivi digitali compresi i tele-foni cellulari..

Terence stava cercando il suo, non trovandolo. Sì perquisiva tastandosi lungo i vestiti scambiando alternativamente a scatti la posizione dei palmi della mano, come un ballerino di flamenco a cui hanno appena infilato una vedova nera nella camicia. Per

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un istante temette di averlo lasciato nella cappelliera. Frugò poi nelle tasche dei calzoni e infine lo trovò. Lo sollevò in prossimi-tà del suo sguardo presbite e premette schiacciando a fondo il tasto di spegnimento ma in quel preciso istante l’apparecchio prese a squillare a tutto volume. La melodia, impostata da suo cugino Ernesto era quella della cucaracha eseguita da un coro di gitanos che erano in voga dalle sue parti, qualcosa di molto si-mile ai Gipsy King. Come se non bastasse, la vibrazione attivata a livello alto, particolarmente efficace nel ridestarlo durante i suoi lunghi momenti di siesta, con la complicità delle mani su-date glielo fecero balzare tra le dita madide come un’anguilla che tenta di fuggire da una debole presa. Il cellulare si fiondò roteando e guizzò rotolando infilandosi di lato oltre il sedile e il finestrino. Bloccato dalla cintura di sicurezza, stretta oltre il li-mite sopportabile per compiacere la hostess che lo aveva appe-na sfamato, Terence si sporse con tutte le sue forze distenden-do il braccio senza riuscire a prenderlo. Con una mano appog-giata sul microfono, cercando di non farsi notare dai trecento-trenta passeggeri, la hostess gli sillabava gridandogli in tono basso con ampi gesti delle labbra - “SPEN-GA-QU-EL-CO-SO!” - cosa che fu del tutto inutile. La suoneria, indisturbata, era arrivata al noto ritornello “LA CUCARACHA, LA CU-CARACHA, YA NO PUEDE CAMINAR” e continuava im-perterrita con i vari assoli strumentali. Temendo di non riuscire a rispondere Terence si slacciò la cintura e la forza cinetica ac-cumulata lo catapultò carponi con tutto il busto sotto il sedile. Con la punta delle dita avvertiva che riusciva a toccare a mala-pena il guscio mentre, agitando le gambe massicce che uscivano oltre il corridoio cercava di darsi una spinta come se stesse nuo-

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tando. La gente arrivata dalla business class e i passeggeri più for-tunati della economy, insieme a tutta la first class in quel momento erano tutti uguali, uniti di fronte alla stessa comune risata. Infi-ne lo prese, riuscì a portarlo all’orecchio e da li sotto parlò con Bernard mentre gli addetti alla sicurezza lo tiravano a forza per le gambe strappandogli dalle mani l’oggetto, requisendolo. Li lasciò fare. Bernard aveva già chiuso dall’altra parte e non gli aveva comunicato alcuna novità.

Robert capì e non gli domandò niente. Lo vide buttato su quel sedile privo di vita, con lo sguardo indifferente rivolto ver-so il finestrino. Non poteva vederlo in volto ma era sicuro che stesse piangendo. Mise in bocca una caramella alla menta e ri-fletté sugli esiti della giornata e sul fatto che forse non avrebbe più chiesto a Terence di seguirlo. Poi aprì un libro mentre l’aereo a tutta velocità si staccava da terra.

Dopo cinque ore e venticinque minuti di volo erano atterrati

all’aeroporto di Los Angeles. Erano le diciannove e cinquanta-cinque minuti ora locale. Robert non disse nulla riguardo al fat-to che sarebbero dovuti passare per il suo ufficio a Culver City benché si trovasse esattamente a metà strada per arrivare a Be-verly Hills. Dopo quarantacinque minuti erano davanti l’ingresso centrale della residenza Duvall. Terence prese il baga-glio e fece per entrare in casa ma Robert gli prese la valigia dalle mani e lo rassicurò invitandolo ad andare nella sua e accertarsi riguardo dove si trovasse sua moglie. Terence annuì. Parcheggiò la limousine nel garage e si precipitò verso la sua abitazione in fondo al vialetto alberato, poco distante. Bernard accolse con un sorriso Robert che gli si faceva incontro e prima che Robert

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gli rivolse il saluto gli chiese - “Ha saputo della moglie di Te-rence, suppongo..” - Robert fece sì con la testa appoggiando le sue cose ai piedi della scalinata centrale. “La cosa è alquanto strana, mi pare che fosse parecchio ligia ai suoi doveri.” - “In-fatti” - continuò Bernard - “Non solo si è allontanata, diciamo pure scomparsa, ma ha lasciato tutto com’era in lavanderia.” Robert rifletteva sul fatto se fosse opportuno avvertire la polizia mentre saliva la suntuosa scalinata. Arrivato in cima si voltò verso Bernard - “Vado a farmi una doccia, durante la cena cer-cheremo una soluzione, a meno che Terence non ci comunichi qualche novità.” - “Convengo con lei, informo il cuoco che può iniziare a preparare la cena..” - “Ah!” - lo interruppe - “Cosa c’è per cena Bernie?” - domandò Robert avvertendo un certo appe-tito - “Ballottine di formaggio alle mandorle con insalata, boc-concini ai carciofi e il suo piatto preferito, cannelloni al radic-chio e noci, come dessert ananas fresco caramellato.”

“Casa dolce casa..” - canticchiò ritirandosi nella sua stanza. Robert era vegetariano.

Uscito dalla doccia e avvolto nel suo accappatoio Robert di

avvicinò alla finestra che dava sul cortile. Guardò la sera imbru-nirsi sullo skyline di Beverly Hills. Frizionò i capelli con l’asciugamano e d’un tratto scorse in lontananza Terence che usciva dal suo alloggio a gambe levate madido e con la camicia sbottonata lungo i calzoni tutta zuppa di sudore. Come un cen-tometrista consumato teneva la schiena eretta e gli si potevano vedere le guance rotonde che gli si spiaccicavano sugli zigomi, le narici dilatate con gli occhi spalancati orientati in direzione del portone principale perpendicolare alla sua stanza verso cui

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stava correndo tutto febbricitante. Capì che era successo qual-cosa di grave. Si vestì velocemente mentre dal campanello arri-vavano lunghi e intermittenti suoni. Scese rapido nel pianterre-no dove trovò Bernard che dall’alto osservava quell’altro che boccheggiava disteso a terra di schiena.

“Cosa è successo!” - chiese Robert guardando uno sbigottito Bernard.

“Riprenda fiato!” - continuò accasciandosi. “Bernie, per piacere vai a prendere un bicchiere d’acqua.”

Robert intanto aiutava Terence a sedersi sul pavimento. Ingur-gitando grosse boccate d’acqua cercò di parlare alternando frasi ansimanti a improvvisi scoppi di tosse - “..Mia moglie, mia mo-glie!” - Bernard guardava Robert che intanto fissava Terence che li scrutava entrambi scuotendo la testa con le lacrime agli occhi.

“..Oh! Mia moglie, mia moglie..” “..sì, Terence, Rocio, cosa le è accaduto..” Terence proseguì in lingua spagnola. “..Terence! Non capisco..” - lo rimproverò garbatamente

Robert. “..Dentro casa, sul tavolo da pranzo ho trovato, ho trovato

un, un suo dito..” Robert fu percorso da un brivido lungo la schiena. “..Un.. dito?” - intervenne Bernard strabuzzando gli occhi. “..Oh! sì, un dito della mano.. señor..” “Come può affermare che è quello di sua moglie?” - analizzò

Robert temendo di conoscere la risposta.

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“Porque” - proruppe in un pianto a singhiozzi - “Porque c’è la fede che gli ho regalato, tiene la scritta Julio sobre, yo soy Te-rence Julio Gutierr..” - appoggiò il dito a terra e perse i sensi.

“Bernie!” “Sì, vado a chiamare un’ambulanza” Robert si alzò rimanendo immobile in tutto il suo metro e

novanta. Teneva lo sguardo fisso per terra a pochi centimetri dai suoi

piedi nudi. Gli apparve nitida la scena agghiacciante della notte precedente. Si disse che non era possibile. Non poteva essere vero. Cercò di ricordare analizzando quali fossero le quattro di-ta che egli aveva già potuto vedere. Indice, medio, anulare, pol-lice o mignolo? Non aveva prestato abbastanza attenzione o forse si era concentrato solo sul barbone e sulle lettere. Qual’era il dito mancante? Era davvero quello ai suoi piedi? Non aveva dubbi sul mignolo. Era stato facile distinguerlo. Ad ogni modo quello davanti a sé era un anulare di certa appartenenza. Non esitò oltre. Lo prese con il medio e il pollice con estrema e cal-colata lentezza. Lo girò ruotandolo in modo da poter vedere o, meglio, leggere qualcosa. Infatti. Distinguibilissima sul polpa-strello c’era tatuata una lettera E.

E, elle, a, gi, e. E L A G E. Rifletté. No. Non era possibile. E A G L E. Eagle!. Eagle.

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“L’ambulanza sarà qui a momenti” - lo informò Bernard ar-rivando a grandi falcate mentre Terence stava via via ripren-dendo conoscenza.

“Pare che non ce ne sia più bisogno. Bernard richiamali e di-gli che c’è stato un falso allarme.” - gli ribadì non distogliendo lo sguardo da Terence che da supino lo vigilava con misurato sospetto tenere tra le dita tutto ciò che gli rimaneva di Rocio. Quindi si abbassò su un ginocchio mettendosi di lato conse-gnandogli l’anulare della donna nel suo palmo. Terence lo ri-chiuse tra le dita con la sensibile dedizione con cui una conchi-glia custodisce la sua perla.

Robert, toccato, abbassò gli occhi, fece un lungo sospiro, poi lo guardò a lungo.

“L’uomo che ha rapito tua moglie si chiama Ruprecht, Ru-precht Wiedemeyer, e io soltanto posso aiutarti a trovarla”

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Capitolo tre Salamandra

Lago Oker-Stausee Repubblica Federale Tedesca, 1970 Tutta tremante, in preda agli ultimi singhiozzi, non ancora

maggiorenne, giaceva a terra, incappucciata, una donna. Forse una dei 297 abitanti del vicino borgo di Schulenberg im Ober-harz, unico centro abitato nel raggio di svariati chilometri, ar-roccato nella parte nord della catena montuosa Harz.

Le sue grida, strazianti e solitarie come ululati di una specie senza branco, si erano da poco spente; inghiottite dalla notte limpida. Le fitte pareti boscose che abbracciavano quel bacino artificiale, unico pubblico presente a quello strazio, avevano as-sorbito anche l’eco. I suoi occhi, sbarrati, sperduti sul volto de-vastato, fissavano immobili il gorgoglio causato dal flusso inin-terrotto che fuoriusciva dalle rocce che brontolavano impertur-bate la loro indifferenza alle questioni umane. Come un rubinet-to lasciato aperto quel getto inondava la vasca sottostante che colma trasbordava in quella contigua che a sua volta si riversava in quella adiacente che confluiva abbondante allungandosi in uno stretto ma considerevole ruscello.

Aveva da poco partorito ma più che il travaglio trascorso era il viaggio a cui aveva destinato il suo neonato a contorcerla da una cocente desolazione. Probabilmente ignorante non sapeva che la parola travaglio traesse origine da uno strumento di tor-tura, Tre-palium, o che in inglese to travel fosse “viaggiare”, ne’

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che in francese travail fosse “lavoro”. Si era perciò adoperata avvolgendo la povera creatura negli stracci imbracandola con gli stessi ad una tavola di legno che incastonò nell’incavo di un ce-stino portavivande alla cui base aveva fissato una tela imperme-abilizzata. Lo aveva poi adagiato in acqua spingendolo in dire-zione di quel ruscello che, nella parte settentrionale del lago, i-nizia il suo percorso dando poi origine al fiume Oker; condotto navigabile fino alle coste del mare del nord. Fu con questo sco-po azzardato e in quel preciso luogo che la giovane lo abban-donò verso un’incerta destinazione, ovunque fosse, qualunque fosse. La rudimentale culla galleggiante avrebbe toccato diverse città, tantissime, e di sicuro qualcuno l’avrebbe notata, chiunque fosse purché quella responsabilità non toccasse a lei e le sue di-sgrazie non ricadessero su di lui. Questo era il piano ma, da di-stesa, con il braccio proteso e la mano spalancata, come estre-mo e inutile gesto di pentimento, implorante, cercava di ripren-dersi ciò che il profluvio aveva per sempre rapito.

Dalle acque amniotiche, dunque, calde e protettive a quelle gelide della vita, così, sospinto dalla brezza leggera di fine mag-gio, poco prima dell’alba, veniva trascinato quel corpo senza un nome. Il padre del bambino poteva essere chiunque, e quindi nessuno.

Di ciò che sarà di lei non si sa un granché; un anziano rac-conta che per alcuni anni continuò ad essere trattata come la scema del paese, poi stanca di essere malmenata oppure violen-tata da chi la trovasse a tiro pare si fosse scaraventata da un di-rupo sfracellandosi le ossa per poi cadere in acqua ancora viva annegando.

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Qualcuno narra invece che in quella stessa notte i lupi attirati dal forte odore della placenta la divorarono litigandosi le mem-bra e disperdendo le ossa tra i boschi.

La cesta trasportata dallo scivolo d’acqua discese a fondo val-le in un ripido slalom, tenendo perfettamente nonostante gli ur-ti continui sulle rocce e i continui incagli tra i rami; fortunosa-mente aveva superato l’impervio itinerario cambiando improv-visamente traiettoria dribblando il pericolo talvolta ruotando vorticosamente per lo più orizzontalmente ma pure su se stessa inondandosi ma detergendo il neonato dei liquidi fetali. Sobbal-zò a lungo finché le sponde del torrente, distese, si allargarono a fiume e l’esile scialuppa poté navigare perfettamente spedita co-steggiando le prime città che si svegliavano al sole tiepido. Per-corse intere vallate, pianure e centri abitati. Passò poco distante da contadini concentrati nella semina; incrociò su entrambi i lati diversi gruppi intermittenti di persone che pedalando risalivano il fiume; invisibile intersecò più di un ponte su cui c’erano grap-poli di governanti riunite che andavano al mercato discorrendo tra loro scambiandosi divertite gli ultimi pettegolezzi.

Nessuno si accorse di lui. A dirla tutta aveva smesso di strillare. Poteva essersi addor-

mentato o forse stava morendo; o entrambe le cose. Non era stato attaccato da subito al seno, va specificato, e non era altresì bastata l’acqua reflussa a inumidirgli la bocca e a nutrirlo incon-sapevolmente di microscopici organismi ricchi di proteine come le larve di ditteri, di tricotteri e ragni d’acqua.

Aveva infine percorso la bellezza di settanta chilometri quando una sanguisuga gli si attaccò al braccio e capì che era ar-

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rivato il momento di strillare. Si accorsero di lui e accorsero da lui alcuni operai che uscivano dalle fabbriche alla periferia della cittadina di Braunschweig. Uno, tra loro, un emigrato di origine italiana, si tuffò all’istante e lo portò in salvo al più vicino ospe-dale.

Padre Elliot stava scendendo le scale dell'ala est della clinica

rileggendo in mano la ricetta delle pillole che il primario, suo amico, gli aveva prescritto per la malaria, quando vide la folla accalcarsi davanti all’entrata del pronto soccorso.

"E' vivo?" - Chiedeva qualcuno. "Come si può fare un gesto del genere?" - Commentavano

bisbigliando due donne. "Lo stanno portando in pediatria!" - spiegava un tizio davanti

in prima fila. "Dovrebbero darti una medaglia." - Sogghignava un ragazzo

robusto dall’accento olandese mollando una spinta ad un gio-vane alto e magro fradicio dalla testa ai piedi.

"Questo non fa di me un uomo ricco.”- Replicò borbottando ironicamente dentro la tuta inzuppata. - “Se poi non posso ri-venderla e comprarmi un vestito più decente."

"Vorrà dire che ti dedicheremo una quota della nostra busta paga." - Risposero canzonandolo in gruppo i colleghi.

"Che volete farci..” - assunse una posa teatrale, fingendo di darsi delle arie - “..dalle nostre parti, in Italia, siamo un po' tutti degli eroi!" - E tutti reagirono in una fragorosa risata.

"Quindi, adesso, dovresti adottarlo TU, mio e-r-o-e italiano." - Intervenne da dietro una giovane molto carina con le lentiggi-ni che scuoteva le ciglia e faceva una bolla con la gomma da

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masticare. Era in fondo, quello, il modo più semplice per allen-tare la tensione; darsi a scroscianti sghignazzate da birreria. Ma erano tutti un po’ preoccupati. Le condizioni dell’essere che a-vevano recuperato non erano affatto confortanti.

Padre Elliot, intanto, con rapidi passettini laterali e con gli occhi di un camaleonte attenti a sbirciare il labiale laddove non arrivasse con le sue orecchie, di soppiatto si era già intrufolato in infermeria; usando il potere identificativo della sua veste ave-va superato il cordone umano arrivando lungo il corridoio cen-trale. Non trovando ascensori disponibili, prese a salire le scale a gruppi di tre e quattro gradini per volta aiutandosi spasmodi-camente con il corrimano. Concluse la rampicata con il fiatone al quarto piano dell’edificio. Con i palmi appoggiati alle ginoc-chia piegate a sorreggere il peso di oltre 130 chili, ansimante fermò con braccio un'inserviente chiedendole informazioni su dove avessero portato il bambino che era appena salito dal pronto soccorso. La donna, che stava masticando un cracker, gli rispose aiutandosi con la mano che non portò alla bocca in-dicandogli una stanza con la scritta “isola di rianimazione”. Entrò, senza esitare ma con cautela, trovandosi addosso gli oc-chi di un gruppo di medici che indossavano guanti in lattice e mascherine al volto. Si guardarono un attimo tra loro poi quello al centro riprese le attività con le braccia gommate manovrando dentro la bara di vetro. Cercando di fare il minimo rumore il parrocchiano assisteva da una poltrona dosando il fiato per ar-recare meno seccature possibili.

"Il respiro é spontaneo ma l'aspetto é cianotico; presente brachicardia; passare alla somministrazione dell'ossigeno a flus-so libero.”

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Passarono attimi interminabili. Il prelato assisteva con trepidazione. Si tamponava il sudore

sulla fronte con il fazzoletto che e intanto recitava bisbigliando alcune frasi che erano il suo modo di partecipare a quel salva-taggio.

“Aumento rischio ipotermia; Intubazione endotracheale.” - Padre Elliot incapace di seguire quel lessico, addormentandosi, cadde in un sonno profondo e presto cominciò a russare.

"Reverendo, Reverendo!" "Eh! Si! Cosa?" - Rispose destandosi di fronte ad una dotto-

ressa che gli parlava con lo sguardo da dietro la mascherina. "Reverendo deve uscire, mi spiace ma dobbiamo andare in

sala operatoria, stanno arrivando gli inservienti." Adeguandosi il religioso si allontanò lungo il corridoio con le

braccia incrociate dietro la schiena; teneva il labbro inferiore a cavallo di quello superiore e procedeva assorto nei suoi ragio-namenti. Uscì da una stanzetta il primario dell'ospedale, suo a-mico, accompagnato dal direttore del reparto.

"Padre Elliot!" - Gli disse l’anziano dottore scostandosi dal collega che proseguiva verso la sala operatoria.

"Cosa ci fai, qui?" - Gli sussurrò rivolgendogli un’alzata di sopracciglia.

"Un trovatello!" - Gli rispose prendendolo sottobraccio. "Un trovatello venuto nel mio gregge." - Sembrava estasiato. "Nel nostro gregge!" - concluse dandogli una spallata facendo

l'occhiolino. "Zitto, piantala!” - Rispose il medico sistemandosi la cravat-

ta.

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“Vuoi farti sentire?" - Continuò fissandolo nel vano tentativo di dominarne l’enfasi sapendo perfettamente dove volesse an-dare a parare.

"Io non me ne vado da qui finché non saprò che sta bene e che venga affidato a qualche buona famiglia!" - Gli replicò in tono solenne.

"Se non si trova nessuno me ne prenderò cura io stesso!" - Gli sussurrò l’ecclesiastico avvicinandosi. Poi prese a scrutarlo in volto.

"Bada che se mi metti i bastoni tra le ruote stavolta dirò a tutti cosa vieni a fare con me in Africa e cosa succede quando ti lascio spiare negli spogliatoi dei ragazzi del catechismo!" - Te-neva arricciato il labbro superiore sopra i piccoli denti bianchi e lo minacciava con aria di sfida.

“Vedrò cosa si può fare.” - Rispose l’altro deglutendo. “Sono un po' complicate le pratiche per l'affidamento." "E tu vedi di falsificarle finocchio!" - Lo tirò a sé per il bave-

ro. "Tu-a moglie é vice sindaco e tu stai qua dentro grazie a lei;

se si venisse vieni a spiare i culetti dei ragazzini puoi dire addio al tuo bel lavoretto in questo ospedale e ficcarti le tue gloriose onorificenze in quel posto che ti piace tanto!"

“Il piccolo è fuori pericolo!” - disse il direttore uscendo dalla sala operatoria.

“Oh! Che bella notizia! - Rispose il sacerdote sfoderando un sorriso raggiante.

Il primario non disse nulla, si sistemò la giacca e si avviò die-tro i suoi spessi occhiali verso il suo ufficio.

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Terminato il ricovero e passati alcuni mesi, il bambino fu af-fidato alla parrocchia.

“Ruprecht Wiedemeyer, come il mio docente quand’ero negli

Stati Uniti, Henry Anthony Wiedemeyer.” disse elettrizzato a quelli dell’anagrafe mentre teneva tra le braccia il suo Ruprecht.

Ruprecht non conobbe mai Henry che mori nel 1980 nel Wi-sconsin. Ne' seppe mai le vere ragioni per cui padre Elliot fu al-lontanato da quella diocesi. Noi possiamo immaginarle. Si dice che un uccello nato e cresciuto in gabbia non conosca il concet-to di libertà.

Il piccolo Ruprecht fu oggetto, nel senso letterale, di tutte le attenzioni morbose, le sevizie, le crudeltà e le violenze che pa-dre Elliot era in grado di infliggergli fin da subito. Anno dopo anno egli concentrò tutta la sua perversione su quel giocattolo e man mano che cresceva le torture si configuravano come umi-liazioni sul piano psicologico. Per timore che il ragazzino gli sfuggisse di mano e che se ne andasse in giro a raccontare qual-cosa il parroco lo educò istruendolo sotto una visione distorta del mondo che aveva per assioma il presupposto cardine per cui le donne rappresentavano il peccato. Sua madre lo aveva ab-bandonato alle rive di un fiume. L'unica persona di cui poteva fidarsi era lui. La gente lo avrebbe solo fatto soffrire.

Ruprecht passava le sue giornate rinchiuso nella sua stanza. Imparò a leggere presto ma temendo che incappasse in letture “sbagliate” padre Elliot lo aveva riempito di trattati che riguar-davano solo argomenti di geografia. Ruprecht, chiuso in se stes-so, aveva sviluppato il talento autistico che consisteva in una fenomenale memoria fotografica. Aveva memorizzato e imma-

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gazzinato le forme dei contorni di tutti gli stati e sapeva ricono-scerli con una sola occhiata. Di quelli sapeva con formidabile precisione la densità di popolazione, le principali città e provin-cie, e tutte le notizie che li riguardavano. Ogni tanto mentre se-devano insieme a cena chiedeva notizie sulle sue origini e il re-verendo gli ripeteva sempre la stessa storia. Non potendo rac-contare la frottola che fosse stato lui a gettarsi nel fiume gli par-lò del tizio con accento italiano che l'aveva tratto in salvo. Co-me gesto di riconoscenza Ruprecht cominciò a leggere il dizio-nario tedesco italiano. Impiegava circa una settimana a sfogliar-lo tutto e poi ricominciava. Così fece per diversi mesi, senza so-sta, poi passò al latino. Esaurito il suo interesse per le lingue straniere concentrò le sue energie sulla parte della libreria par-rocchiana che trattava di etimologia. Tutti i pomeriggi dalle in-tercapedini della finestra della sua cella spiava i coetanei che giocavano nel cortile dell’oratorio. Li osservava a lungo stu-diandone il comportamento nel momento in cui le madri anda-vano a riprenderseli. Come potevano essere allegri in compa-gnia di quelle donne che mostravano anch’esse piacere? Per lui il “padre” era Elliot o il ragazzo italiano, o magari entrambi; cioè chi gli riservasse premure, attenzioni, amore o piacere. Po-teva anche avere più “padri” ma la donna era per lui un essere impuro.

Eppure si domandava della sua nascita. Non sapendosi dare una risposta egli cominciava ad avvertire un vuoto dentro, ri-scopriva una profonda amarezza che era difficile da colmare e che non gli era mai appartenuta; seppur avesse imparato a rico-noscere e a convivere anche con il disagio e le sofferenze di quella prigionia a cui, suo malgrado, era riuscito perfino ad abi-

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tuarsi. Al confronto le punizioni di Padre Elliot erano molto più sopportabili. Si affidò ai soli strumenti che aveva a disposizione. La risposta se l'era data risalendo il tracciato del fiume seguendo con il dito il percorso sulla cartina geografica della bassa Sasso-nia; vide che quello prendeva origine dal grande lago sul mas-siccio del monte Harz. Rimase a lungo ad ammirarlo cercando una risposta e d’un tratto notò che quel bacino aveva forma e figura di una salamandra stilizzata, anfibio che aveva studiato solo pochi giorni prima; quindi lui doveva essere il figlio della sa-lamandra. Ne era certo. Sempre più certo.

“Sono il figlio della salamandra!” - disse correndo spalancan-do la porta dell'ufficio del parroco pieno di gente. Poi si pisciò nei calzoni.

“Cosa vai dicendo!” - Lo rimproverò padre Elliot alzandosi tra lui e i suoi ospiti - “Fila in camera tua!”

Egli se ne andò ma lo fece buttandosi a terra strisciando ed emettendo versi gutturali.

Quella sera a cena si presentò con una salamandra in bocca ancora viva che era riuscito a catturare nel giardino. Intrappola-ta muoveva le zampe posteriori e la coda. Padre Elliot furente lo frustò e lo chiuse a chiave in uno sgabuzzino. Passò quattro giorni e quattro notti a pane e acqua con padre Elliot che lo minacciava di riprendere un comportamento adeguato. Solo quando lo vide annuire e riscontrò l’ubbidienza lo ricondusse nella sua stanza. Una volta preso possesso del suo mondo Ru-precht si mise a leggere tutto ciò che poteva trovare sulle sala-mandre. Tornò sul capitolo che riguardava la salamandra pezzata che aveva chiazze gialle sul corpo nero e che quelle tinte vivaci sulla pelle e le colorazioni appariscenti erano da avvertimento

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che non fosse commestibile; fu per quello che sfidò la morte poche sere prima cercando di ingoiarla, per cui il fatto che non gli fosse accaduto niente era la conferma che lui appartenesse a quella specie. Secondo una leggenda popolare la salamandra sa-rebbe anche capace di resistere al fuoco. Continuò a leggere i-ninterrottamente finché gli occhi non gli bruciarono e le sue si-napsi non andarono in cortocircuito. Cominciò a non dormire. Il giorno rimaneva sulla sponda del letto in stato catatonico con la testa rivolta alla parete. In quello stato di incoscienza scriveva un diario, che conserverà per tutta la vita, scrivendoci sopra senza guardare. Durante le funzioni a cui era stato impeccabile assistente da anni, nelle ultime settimane rimaneva immobile re-spirando l'incenso a piene boccate e con la bocca spalancata fis-sava le pareti degli affreschi. Distante da tutto ciò che gli capi-tava intorno, irrimediabilmente immerso nel suo mondo, vede-va trasfigurate le immagini dei santi distorcersi trasformandosi in grosse salamandre pezzate che feroci azzannavano le colom-be. Poi li vedeva come mostruosi giganti scendere dagli intonaci e abbattersi sui fedeli per divorarli rigurgitando solo i vestiti. D’un tratto gli parve di ardere nelle fiamme, poi cadde a terra stremato in preda a forti convulsioni. Aveva sedici anni quando entrò nell'istituto psichiatrico. Uscì che ne aveva diciannove. Era il 9 novembre 1989 là fuori era appena crollato il regime della guerra fredda. Sì respirava un’aria di cambiamento, i citta-dini di Berlino Est si erano riversati invadendo tutte le regioni dell'ovest. Per lui, invece, la vita aveva sempre la stessa nausean-te puzza. Rimasto solo e non sapendo dove andare se ne stava tutto il giorno al parco. Una volta il pallone con cui stavano giocando un gruppo di bambini finì in mezzo alle sue gambe.

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Un ragazzino si avvicinò per riprenderlo poi scappò piangendo inorridito quando lo vide alzarsi minaccioso. Era alto almeno due metri, capelli rasati biondi, le spalle larghe e tra le mani stringeva una salamandra da cui erano saltate le budella che gli penzolavano tra le dita. Qualche giorno più tardi aveva trovato lavoro come facchino; lì nessuno gli faceva troppe domande e lui non parlava con nessuno. Le sue giornate si alternavano pressoché uguali. Quando non lavorava divorava montagne di libri e scriveva il suo diario. La sera aveva preso l’abitudine e si ritirava in birreria dove se ne stava sempre nel solito tavolo, scrivendo note sul quaderno. La gente del posto aveva imparato che era meglio accontentarlo. La notte di San Silvestro nel po-sto vicino a lui si erano seduti quattro individui tra cui riconob-be almeno un paio con un accento straniero.

"Ehi voi, da dove venite?" - Si volsero tutti e quattro, mezzi ubriachi.

“Scusa?” “ Sì! Voi due, siete americani?” - Confermò guardandoli e al-

zando il mento. "Io e Frank veniamo dall'Indiana, lavoriamo per il governo

americano." "Indiana” - disse Ruprecht enunciando tutta una serie di in-

formazioni - “Stato dell’Indiana, capitale Indianapolis, gli abi-tanti vengono chiamati hoosiers la superficie è 94.321 chilometri quadrati, le principali città sono Fort Waine, Evansville, Blo-mington..” - proseguì parlando della economia e delle caratteri-stiche più insolite.

“Carino questo giochetto e, vediamo, se ti chiedessi di rac-contarmi qualcosa anche di Colorado Springs dove è nata mia

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moglie?” - Ruprecht rispose anche a quella domanda fin nei minimi particolari.

"Figliolo, sei portentoso!" - Dissero quelli strabiliati - "Come ti chiami?"

Ruprecht sembrava vagare, assente. Poi gli venne in mente il simbolo degli Stati Uniti d’America. "Se mi portate con voi, potete chiamarmi Eagle."

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Capitolo quattro Rapaci tra le montagne

Bernard udì le parole di Robert e ci mancò poco che non

cadde a terra pure lui. Conosceva tutta la storia, o almeno così gli sembrava; per quanto ne sapeva, infatti, quello doveva essere un capitolo chiuso. Per questo Robert capì perfettamente il suo disagio ma preferì sul momento non dire nulla.

Gli chiese invece di procurargli alcuni cleenex insieme a delle zollette di zucchero. Poi, insieme, presero Terence sotto braccio e lo scortarono, claudicante, verso la biblioteca dove lo distese-ro sul divano.

La stanza, alta quasi cinque metri, aveva per soffitto un sun-

tuoso affresco di inizio secolo raffigurante uomini a cavallo re-duci dalla guerra di indipendenza illuminato e intervallato da quattro fastosi lampadari in vetro di Murano con intelaiatura in oro e bronzo.

La sala era pervasa da un odore dolciastro per via della mobi-lia antica di origine francese per lo più composta da elementi in palissandro, chiamato anche legno di rosa, finemente intarsiato con legni pregiati e avorio. Le centinaia di copertine dei libri, conservati nelle rilegature originali, il composto chimico delle numerose riviste d'epoca assieme agli elementi in gommalacca delle collezioni complete di musica classica raccolte nelle lun-ghissime file di vinili, contribuivano a condensare, miscelando tutte quelle esalazioni, diffondendo nell’ambiente un sapore tut-

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to particolare, che a Robert ricordava prepotentemente quello di sua madre.

Terence era stordito. D'improvviso catapultato in un incubo, i suoi piccoli occhi

appena socchiusi cercavano riparo proiettando immagini ap-pannate, distorte e sempre più offuscate, come a cercare sollie-vo nell'oblio; finché non svenne.

Bernard si impressionò mostrando tutta la sua agitazione ma Robert, già con la testa altrove, riconobbe quella come un’episodica crisi lipotimica passeggera.

La sua attenzione era per lo più concentrata a scrutare lungo le pareti della libreria. Nel farlo intanto sollevava le gambe di Terence appoggiandole sopra il bracciolo. Gli slacciò poi il col-letto della camicia e gli inclinò il busto leggermente di lato cal-colando che di lì a poco avrebbe preso a vomitare.

Infatti, riprendendo per un attimo i sensi, proruppe in un conato, e poi un altro. Con il volto arrossato e le labbra tremo-lanti Terence sputò sul pavimento le ultime stalattiti di succhi gastrici e muco oltre le labbra livide. Robert gli ripulì la bocca e gli rinfresco la fronte con una salvietta inumidita mentre lo ve-deva perdere gradualmente conoscenza. Gli rifilò un paio di schiaffi. Osservò che rimaneva incosciente quindi gli aprì la bocca stringendogli le guance infilandogli un paio di zollette sotto la lingua. Valutò che ci avrebbe impiegato almeno una mezz’oretta a riprendersi.

Si mosse, dunque, in direzione della libreria finché osservan-do tra gli ultimi ripiani non gli sembrò di riconoscere ciò che stava cercando. Prese la scaletta mentre da sotto Bernard, con

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sguardo paziente, lo vedeva elevarsi fino alla cima e da lì allun-garsi con il braccio di oltre un metro.

“Eccoti, ti ho trovato!”

Scese mettendo qualcosa in tasca poi cercò Philip Deforait sul-la rubrica del suo iPhone. Rispose al primo squillo una donna.

“Pronto! Robert!”- Dal suono smorzato sembrava stesse par-lando con una mano davanti alla bocca.

“Ciao Brenda” - Robert si morse il labbro, sapeva che la mo-glie di Philip amava intrattenersi giornate intere al telefono - “Cercavo Phil, puoi passarmelo?”

“Oh! Caro Robbie, siamo a Sidney ad una conferenza” - bi-sbigliò - “Phil sta per fare il suo intervento, stavo mandando una e-mail con l’indirizzo IP della diretta dal suo cellulare ai suoi contatti, sono la solita sbadata e me lo ero dimenticato.”

Philip aveva lavorato per trent’anni come psicologo al reclu-tamento della CIA e adesso se ne andava in giro per il mondo insegnando ciò che gli era permesso diffondere; sua moglie in-vece, corrispondeva al perfetto esemplare di donna che amava trascorrere i suoi pomeriggi tra estetiste, acido ialuronico e bo-tulino ma nonostante questo appariva molto più vecchia di lui.

“E’ abbastanza urgente, ti prego digli di richiamarmi appena avrà concluso.”

“Robert, aspetta!” - Gli sembrava di immaginarsela, con il trucco pesante imbacuccata in opulenti abiti sgargianti; per quanto fosse diversa dal marito, tuttavia, quella coppia funzio-nava a meraviglia. - “Scriviti l’indirizzo e collegati, così potrai vedere quando ha finito e parlarci in videoconferenza con il suo iBook”

“Ok dimmi” - Non aveva bisogno di prendere nota.

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Robert digitò alcune cifre sul tastierino sopra il tavolo centra-le della stanza poi pronunciò la parola “Eloise”. Si aprì una fes-sura da cui uscì un monitor olografico tridimensionale con schermo sensibile al tatto da cinquanta pollici. Il display al led si accese illuminandosi in cartelle, finestre, icone e files fluttuanti in un sofisticatissimo sistema operativo personalizzato. Robert allargò con un impercettibile movimento delle dita una pagina di navigazione vuota che rimase sospesa. Sulla barra dell’indirizzo pronunciò il link di cui aveva appena memorizza-to la sequenza. Apparve una schermata ad alta definizione in cui si vedeva una sala ristorante adibita ad auditorium gremita di gente in abito da sera. La telecamera era orientata su una specie di palco, che sembrava per lo più una tavola non apparecchiata su cui erano disposti alcuni relatori in smoking tra cui riconob-be Philip. Alle loro spalle uno schermo gigante sormontato da un cartello rettangolare che riportava la scritta Australian Psycho-logical Association of Graduate Students.

Un giovane oratore aveva appena terminato il suo intervento, tra gli applausi. Un anziano prendeva in mano il microfono.

“E adesso, cari colleghi, passo la parola al dottor Philip De-forait, psicologo uscente dagli uffici della CIA.” - Philip si alzò e la platea interruppe gradatamente il brusìo.

“Salve a tutti, per me è un onore essere qui stasera e ringra-zio gli organizzatori per avermi dato l’opportunità per portare il mio contributo.” - Philip diede un tenue colpo di tosse poi si accarezzò la barbetta brizzolata rivolto agli studenti - “Ho lavo-rato per la CIA e mi occupavo della selezione del personale per quanto riguarda i servizi segreti di intelligence. Come sapete, il termine Intelligence deriva dal latino inter-legere e vuol dire cono-

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scere, comprendere, apprendere e avere nozione su qualcuno o qualcosa. Intelligence in pratica sta per informarsi e capire. La semplice notizia da sola alle agenzie non basta. Dopo essere sta-ta raccolta, deve essere analizzata, valutata, interpretata e quindi compresa come informazione utile per i fini operativi. Il termi-ne di intelligence è stato adottato per la prima volta dai servizi di sicurezza inglesi e viene usato non solo per indicare lo spionag-gio, o il servizio segreto in genere, bensì tutto quel complesso di attività che ruotano intorno alle informazioni riservate e alla si-curezza civile e militare.” - il microfono scricchiolò un istante emettendo un suono stridulo nella stanza taciturna, poi prose-guì.

“L’attività di raccolta delle informazioni concernenti gli altri, chiunque essi siano, può svolgersi a vari livelli. Da quello elet-tronico e satellitare può arrivare benissimo anche sul piano in-dividuale e persino possono essere considerate delle utili fonti anche le “chiacchiere dei portieri” o i “pettegolezzi dei barbie-ri”. Nella realtà operativa l’agente di spionaggio il più delle volte è un uomo comune, “grigio”, anonimo, sicuramente non un superman o un personaggio alla James Bond.” - Fece una pausa guardando il “suo” pubblico.

“Qualche domanda?” “Sì, chi sono gli uomini dell’intelligence e come vengono ar-

ruolati?” - chiese un tizio seduto poco distante. “In tutto il mondo i servizi di informazioni si basano sulle

capacità di astuzia, intelligenza e scaltrezza dei propri agenti. Nell’arruolamento dell’agente non si può quindi prescindere dal riscontro, nella personalità, di queste caratteristiche.” - sullo

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schermo dietro di lui apparve una diapositiva con una mappa planetaria.

“Tutte le nazioni, oggi, si servono dei servizi di intelligence per difendere o favorire i propri interessi vitali, utilizzando al me-glio tutte le risorse disponibili, offerte dalle sempre più sofisti-cate conoscenze scientifiche, tuttavia affidandosi sempre in modo prevalente all’elemento umano. Nel corso degli anni, mentre i mezzi hanno subito una progressiva evoluzione tecno-logica, le risorse umane, cioè le persone utilizzate sul campo, non hanno evidenziato molti cambiamenti. In genere l’arruolamento di questi agenti comporta una attenta valutazio-ne da parte dei medici, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto psicologico. Aspetto che certamente ha una sua caratteristica peculiare che lo differenzia rispetto ad altri ruoli o ad altri me-stieri e che può, in certi casi, sconfinare anche in autentiche psi-copatie. “Psicopatie” che possono essere già richieste come condizione preliminare per l’assunzione in servizio. Si riporta il caso degli Stati Uniti: all’inizio della seconda Guerra Mondiale, dopo l’attacco giapponese alla flotta statunitense a Pearl Har-bour, gli americani si sentirono umiliati per il fatto di non avere un servizio di intelligence in grado di prevedere un attacco mili-tare contro le proprie basi navali. Il generale Donovan, dell’esercito degli Stati Uniti, fu immediatamente incaricato dal Presidente USA, di organizzare e mettere su con urgenza un servizio informazioni di spionaggio e di controspionaggio mili-tare. Servizio di cui l’America era priva per una vecchia conce-zione moralistica sulle questioni private e diplomatiche. Il gene-rale Donovan in pochissimo tempo creò l’O.S.S. (office of strategic service), un servizio informazioni molto attivo ed utile durante la

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guerra e che nel 1949 sarà poi trasformato nella C.I.A. All’ingresso dell’OSS, sistemato in alcune baracche sulle rive del fiume Potomac a Washington, il generale fece installare una tar-ga con la dicitura “per entrare in questo servizio non è indispensabile essere un po’ pazzi, ma può tornare utile”. A qualcuno che lo criticò per tale scritta, Donovan precisò che si richiedevano persone “un po’ pazze”, ma non pazze del tutto.” - sorseggiò dell’acqua e guardò verso il pubblico in cui c’era una ragazza che aveva ap-pena alzato la mano - “Sì, mi dica.”

“Dott. Deforait, quali tipi di controlli specifici devono essere effettuati su un agente operativo?” - Philip sorrise e si congratu-lò per la domanda.

“Diciamo che dal punto di vista medico, l’agente operativo del servizio di intelligence deve subire un attento controllo sanita-rio, non solo di tipo fisico, bensì soprattutto psicologico. E questo controllo non deve essere limitato alle fasi iniziali dell’arruolamento, ma deve essere effettuato con periodicità an-che durante il servizio. Da sempre le persone utilizzate dai ser-vizi di intelligence sono delle persone astute, scaltre, intelligenti, molto colte, ma anche spregiudicate, ciniche, immorali, ingan-natrici, pronte a cogliere il vantaggio e l’opportunismo persona-le in qualsiasi occasione.”

“L’agente segreto, la spia diciamo, è sempre rimasto nella considerazione dell’opinione pubblica come l’infame della so-cietà. Qual è il suo parere?” - domandò la stessa ragazza.

“Montesquieu disse una volta che lo spionaggio potrebbe essere tollerabile se fosse praticato da uomini d’onore, ma l’infamia che inevita-bilmente si attribuisce all’agente segreto diviene l’elemento di giudizio della professione stessa. L’operatività in un servizio di intelligence suscita

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dunque l’affiorare nell’agente non solo delle migliori qualità umane, ma anche degli aspetti non positivi. Vede, l’agente se-greto potrebbe essere chiamato a funzionare ed operare proprio in virtù non delle qualità, ma di ben altro. Per la dottrina FBI ad esempio si può scavalcare la morale, l’etica, la legge, quando a dominare è una superiore Ragione di Stato.”

“Mi scusi” - alzò il braccio uno studente sulla sedia a rotelle. “Come può essere definito il sistema di reclutamento anta-

gonista per eccellenza, quello della ex unione sovietica?” “Bella domanda, come si chiama?” “Mi chiamo Joe, Joe Cliffard” “Vede Joe, passando nel campo avversario si riscontra che il

profilo psicologico degli uomini reclutati dai servizi di sicurezza ex-sovietici è molto più sofisticato di quello americano. Il KGB cercava ed arruolava soggetti con tratti di personalità di tipo pa-ranoideo, perché solo i paranoidei sono dei soggetti diffidenti, sospettosi, introversi ed emotivamente freddi. Dissociano util-mente le prestazioni intellettive dagli stati emozionali.”

“La valutazione della parte psicologica ed attitudinale, per concludere, deve essere centrata sulla struttura della personalità, sia nelle aree di forza dei meccanismi dell’Io, sia nelle aree di debolezza in cui si potrebbero presentare le falle psicopatologi-che, i disturbi psichici fino a delle vere e proprie psicopatie. Questo tipo di valutazione è la più delicata di tutto il complesso delle ricerche selettive che si effettuano sulla persona all’atto dell’arruolamento. L’agente segreto potrebbe sviluppare un sen-so di onnipotenza in grado di farlo sentire al di sopra della legge e quindi non più tenuto a rispettarla liberando dei nuclei nevro-tici interni caratterizzati da frustrazioni ed aggressività: i soggetti

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aggressivi cercano ogni forma di alibi o di giusta causa per ag-gredire.”

“Il controllo medico e psicologico quindi non può essere ef-fettuato solo nelle fasi iniziali dell’arruolamento e della forma-zione, ma dovrebbe essere periodicamente mantenuto anche durante la permanenza in servizio?” - riprese Joe.

“L’addestramento in sé, per poter parlare di adeguata forma-zione, dovrebbe durare circa due anni e dovrebbe essere artico-lato in un addestramento alle funzioni operative, un addestra-mento all’analisi ed all’uso delle apparecchiature tecnologiche e in un addestramento dottrinale, anche di tipo politico. Successi-vamente al reclutamento, durante il periodo operativo del servi-zio e durante tutta la carriera, ogni agente, ogni funzionario, ogni direttore, dovrebbe essere continuamente monitorato sul suo stato psicologico e attitudinale, con continue verifiche e controlli, anche incrociando rapporti e controlli fra di loro.”

“Quale dovrebbe essere dunque la caratteristica psicologica predominante di ogni agente?” - interrogò la sala Philip, veden-do che nessuno rispondeva proseguì.

“La capacità più determinante è quella del controllo emotivo. Negli Stati Uniti è stato per questo scopo messo a punto un nuovo indice di valutazione dell’efficienza operativa della per-sona: il Quoziente Emotivo. In Europa invece sono abituati a sondare l’intelligenza della persona tramite il Quoziente Intellet-tivo, tuttavia sempre più spesso si osservano individui molto in-telligenti che falliscono nelle loro azioni per problemi di con-trollo emotivo. Ai servizi di intelligence non interessano perso-ne solo molto intelligenti, interessano le persone intelligenti che

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siano anche emotivamente fredde. Se non ci sono altre doman-de, io avrei concluso. ”

“Grazie dottor Deforait”- dichiarò accendendo il microfono l’anziano docente dal tavolo.

Ci fu un lungo applauso poi il pubblico si alzò accalcandosi in fila presso il buffet.

Robert se n’era rimasto intanto seduto a sfogliare le pagine di

una specie di taccuino; pur seguendo distrattamente la videata. Scorse Brenda che si avvicinava al marito parlandogli all’orecchio.

Philip accese il suo portatile. Dopo qualche istante sul computer di Robert apparve il vol-

to sorridente di Philip. “Phil, come sono contento di rivederti!” “Robert, caro mio, Brenda mi ha appena informato della tua

telefonata, come hai potuto vedere mi hai colto nel bel mezzo di un convegno.”

“Non ti preoccupare, è sempre bello sapere che c’è gente in-teressata a questioni così importanti”

“Robert, mi sembri preoccupato, cosa posso fare per te?” Gli raccontò tutta la vicenda fino alla scoperta delle lettere

che portavano a Ruprecht. “Sapevo fosse morto.” “Così sembrava anche a me, evidentemente non è così.” “Deve avervi seguito e sicuramente ti stava spiando da mesi,

o forse da anni cercando un tuo punto debole.”

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Terence si stava risvegliando, mostrava agitazione mentre Bernard cercava di tranquillizzarlo.

“E’ lui?” “Sì, lui è il marito.” “Sarà bene che gli racconti tutta la storia così che possa capi-

re con chi avete a che fare e accettare il da farsi.” Robert sapeva che senza il consenso di Terence non avrebbe

potuto condurre alcuna indagine autonomamente. Quindi co-minciò.

“Terence, quest’uomo che vedi in videoconferenza si chiama Philip Deforait, è stato lui a farmi il test di ingresso e fu sempre lui ad ammettere al corso anche Ruprecht.”

Terence lo ascoltava, confuso, sforzandosi di capire cosa c’entrasse sua moglie in tutto questo.

“Fui costretto.” - intervenne Philip - “Piacere di conoscerla, innanzitutto.” - Robert si girò e lo guardò meravigliato.

“Sì Robert, il capo della CIA dell’epoca prese la decisione nonostante il mio esito negativo.”

“Devi sapere che da quando fu rifondata la vecchia OSS, dopo la seconda guerra mondiale tramite il presidente Roose-velt, la CIA ha sempre subito una forte opposizione da parte del Dipartimento di Stato, dei militari ma soprattutto da parte dell’FBI. Per dirla in parole semplici, il successo delle operazio-ni è stato conseguito laddove i rami del governo non avevano esercitato controlli esasperati. La principale concorrente, per capirci, il KGB diversamente da noi aveva sempre lavorato in-disturbata fuori dalle regole. Dal 1953 Iran, Guatemala, Cuba, Vietnam, Cile fino ad arrivare alle disastrose rivelazioni nello scandalo Watergate, per l’agenzia ci fu sempre un’attenta super-

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visione da parte del governo; tant’è che in diverse circostanze si pestavano i piedi a vicenda pur avendo in comune l’obiettivo di contenere il comunismo. Paradossalmente, tra le principali ac-cuse ci fu chi sostenne che la CIA arruolasse ex nazifascisti. Ed era vero. Tra questi il generale Reinhard Gehlen che prese parte all’attentato ad Hitler nel 20 luglio del 1944. Gehlen fondò la Bundesnachrichtendienst meglio conosciuta come BND a cui face-vano capo 400 spie infiltrate nell’unione sovietica provenienti dalle forze armate tedesche della Wehrmacht. Fonti non ufficiali descrivono di un vasto piano organico alla base della risoluzio-ne della guerra fredda conclusa formalmente solo nella fine del 1989. Il successo fu attribuito e riconosciuto alla CIA e in que-gli anni io stesso potei constatare che chi dirigeva non si faceva scrupoli nell’arruolare soggetti ad alto rischio. Ruprecht fu uno di questi. Per loro era il candidato ideale. Per me era una mac-china priva di emozioni ad eccezione della forte aggressività, capace di immagazzinare quantità colossali di dati, certamente bisognoso di cure.”

“Mi ero sempre domandato con che criterio infatti.. Quindi non fosti tu a convalidarlo” - disse Robert.

“Sì e la cosa non mi piacque affatto, tant’è come sai che diedi le dimissioni.”

Robert fece un cenno con il capo stringendosi nelle spalle

poi si rivolse verso Terence. “Appena finito l’addestramento io e Ruprecht fummo inviati

a gestire un centro di monitoraggio situato tra le montagne po-co distanti da Sarajevo, la nostra era una funzione di controllo,

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il governo americano voleva informazioni sul nazionalismo im-perante dietro cui si nascondevano gli interessi e le ambizioni dei principali leader politici delle diverse repubbliche che tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 facevano parte della Repubblica Socialista Federale della Jugoslavia e che con la ca-duta di Tito cominciavano a contrapporsi scontrandosi nelle a-ree rurali e presto avrebbero cominciato anche in quelle urbane. L’operazione si chiamava rapaci tra le montagne, io ero il Condor e lui Eagle”

Bernard rabbrividì mentre Terence ascoltava con preoccupa-to interesse, mordendosi le unghie.

“I metodi di Ruprecht erano barbari ma efficaci. Già durante gli addestramenti aveva mostrato una riguardevole dimestichez-za per le varie tecniche di tortura.”

“Aveva seguito con scrupolo le lezioni e appreso alla perfe-zione la loro lingua e quindi se ne andava in giro da solo per e-storcere le informazioni camuffandosi da saldato Serbo. Entra-va in contatto con chiunque potesse essergli utile ma di quelle persone poi non se ne sapeva più niente.”- Terence sbarrò gli occhi e deglutì.

“Quando faceva rientro alla base comunicava i dati raccolti e nel giro di qualche mese i corrispondenti della sede centrale co-noscevano pressoché tutto di ciò che riguardava le operazioni del nemico.” - Robert si volse verso lo schermo e poi tornò su Terence.

“La cosa però non piacque molto agli analisti perché la con-sideravano un’unica fonte, non confrontabile, in buona sostan-za a loro mancava il contraddittorio, la mia versione sugli stessi episodi.”

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“Mandarono una ragazza, una certa Aleksija, un agente mol-to in gamba che non era operativa ma aveva solo la funzione di tradurre le mie registrazioni.” - Fece una pausa mentre Bernard lo guardava compassionevolmente. Cercando le parole più adat-te Robert levò lo sguardo al soffitto e anche Philip non poté non rilevare quanto quel racconto fosse per per lui fonte di grande tormento.

“Possiamo immaginare - intervenne Philip - che in quel mo-mento quella cosa non piacque affatto a Ruprecht che gli sem-brava di essere scavalcato, umiliato dal suo stesso governo che non aveva fiducia in lui.”

“Infatti.” - Continuò Robert prendendo tra le mani il taccui-no che teneva sul tavolo. - “Ruprecht protestò a modo suo e smise di lavorare. Rimaneva tutto il giorno vicino ad una roccia e prendeva appunti su un diario guardando il cielo e osservando piccoli animaletti che catturava e richiudeva in ampolle di vetro. Rientrava in casa solo dopo cena per farci capire che digiunava. Quasi fosse un trofeo ogni sera consegnava ad Aleksija un ba-rattolo con una salamandra. Nonostante ciò lei sembrava saper-lo prendere. I suoi modi erano gentili con lui. Non era accondi-scendente, lo rimproverava talvolta, ma con una certa affabilità. Facevano lunghe passeggiate e lui vicino a lei appariva tranquil-lo. Cominciava ad incupirsi solo se la vedeva vicino me per aiu-tarmi nelle traduzioni, e se mostrava anche la minima attenzio-ne nei miei confronti. Come dargli torto? Quella ragazza era davvero incantevole. Era snella, alta, proporzionata. Aveva lun-ghi capelli biondi, leggermente mossi. Un viso delicato come un petalo di rosa, innocente, su cui brillava il blu cobalto degli oc-chi leggermente a mandorla. Aveva sempre un bellissimo sorri-

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so con cui mostrava una dentatura armoniosa e scintillante. Era radiosa, luminosa e sembrava il solo essere capace di illuminare e ammansire il tenebroso Ruprecht.”

Philip sullo schermo sembrava assorto nella lettura di qual-cosa. Robert continuò.

“Ruprecht un giorno scomparve e io fui costretto a coprirlo sperando che tornasse.” - Robert fissò un mobile su cui c’era incorniciata un’immagine con Gerard e sua madre Eloise che si tenevano abbracciati.

“Io e Aleksija rimanemmo soli per tutto il resto della stagio-ne. La sera parlavamo a lungo. Ci divertivamo a raccontarci le storie più singolari che ci erano fin lì capitate.” - Pose lo sguar-do sul taccuino su cui stava tamburellando le dita. Poi riprese.

“La nostra conoscenza divenne sempre più stretta. Comin-ciavamo ad avvertire un certo legame reciproco, un affetto e ci fu più di un’occasione che le nostre labbra non rischiarono di baciarsi. Sapevamo entrambi che sarebbe stato contro il rego-lamento. Sapevamo anche che alla lunga non ci sarebbe stato modo di arginare i nostri sentimenti.”

“Ci fu una notte. Una notte in cui piombavano più fulmini che gocce dal cielo. Il vento soffiava forte e aveva spalancato le finestre facendole urtare e riaprire violentemente. Le dovetti perfino bloccare con chiodi e martello. La pioggia intanto pene-trava nella baita nella parte del tetto scoperta e gocciolava dal soffitto del piano superiore su tutte le stanze. Aleksija tutta fra-dicia entrò nella mia camera e vide me che cercavo inutilmente di arginare le fessure con degli indumenti e stracci. Il pavimento si stava allagando quindi presi i materassi e li portai nel piano terra. Anche se era contro il regolamento accesi il camino e ri-

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manemmo un po’ accovacciati davanti al fuoco che divorava crepitando un grosso tronco di acacia. Lei si accostò e mi strin-se forte. In quel movimento il bavero della sua camicia da notte si allargò e il suo seno uscendo andò a premere con il capezzolo sul mio braccio. Mi voltai. La guardai come se stessi sognando, socchiusi gli occhi avvicinando la mia bocca alla sua protesa verso un bacio che non ci fu mai. In quel preciso momento udì una raffica di mitra. La porta d’ingresso fu crivellata da fori di proiettile e immediatamente abbattuta con un forte calcio. En-trarono due soldati serbi.” - Terence ascoltava terrorizzato, Bernard si massaggiava la schiena per il riacutizzarsi della sua lombalgia.

“Urlarono alcune frasi nella loro lingua e Aleksija si rivolse a loro piangente presumibilmente implorandoli di lasciarmi anda-re. Quelli sembravano non accontentarsi e le chiesero qualcosa toccando con le canne degli AK-47 sulle plance degli strumenti radar sopra il tavolo. Lei, immagino stesse cercando di imbro-gliarli con qualche scusa ma questi continuavano a ripetere ur-lando la stessa domanda. American?”

“Temendo che le accadesse qualcosa mi alzai con le mani in alto per attirare l’attenzione su di me e girandomi di schiena feci gesto di consegnarmi a loro incrociando le braccia per permet-tergli di ammanettarmi i polsi. In quel preciso momento udì una forte raffica di mitra, un frastuono che mi rese sordo per qual-che istante; quei bastardi avevano sparato insieme spaventati che quella fosse una tecnica per disarmarli. Caddi a terra. Piom-bando violentemente sopra il materasso. A spingermi non era-no stati i colpi da 54 millimetri di cui vedevo i bossoli rimbal-zarmi di lato. Aleksija si era tuffata per proteggermi e il suo

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corpo era finito sopra di me. Urlando cercai di alzarmi per sca-raventarmi contro quei due, incurante se avessero o meno ter-minato i caricatori ma appena mi volsi vidi Ruprecht che da die-tro li teneva appesi, trinciandone le teste con gli avambracci. Era immobile. Quei due pendevano rialzati a una trentina di centimetri dal pavimento. Erano ancora vivi. Come se al posto degli arti avesse uno schiaccianoci, Ruprecht strinse con tutta la sua forza emettendo un urlo terrificante che si concluse con il rumore delle scatole craniche che andavano in frantumi, poi li lasciò cadere cadaveri. Non li guardò neppure. Il suo sguardo inferocito era rivolto verso di me. Ai suoi occhi quella appariva come la scena madre di un tradimento. Lo vidi avvicinarsi e immaginai una contromossa per difendermi ma lui si chinò sulla ragazza.

“La pagherai per questo!” - Disse. Poi se ne andò caricandosi Aleksija su una spalla. Arrivato in fondo alle scale esterne si fermò. Si girò su se stesso e tornò indietro risalendo fino alla soglia. Estrasse la pistola. Immediatamente chiusi gli occhi e rimasi immobile, paralizzato mentre partivano diversi colpi che mi lambirono il corpo rasentandomi la maglietta. Dietro di me si ruppero tutte le ampolle su cui erano intrappolate le salaman-dre che balzarono via scodinzolando in tutte le direzioni.”

“Dove stai andando?” - “Eagle!” - “Gli urlai.” Ma era già lungo il sentiero. Le ultime immagini che vidi fu-

rono un bagliore di un fulmine e lui che scompariva dentro il bosco, in direzione dell’accampamento nemico, dove, immagi-no, avrebbe cercato di trarre in salvo Aleksija. Fonti ufficiali mi informarono del suo decesso avvenuto il giorno stesso che

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condusse la povera ragazza dai suoi concittadini; la quale stando agli stessi informatori arrivò già morta.”

“Quando riuscì a partire, presi le mie cose e distrussi tutte le apparecchiature. Prima di andarmene presi con me il suo dia-rio.” - Robert alzò e mostro il taccuino che teneva sul tavolo.

“Robert, mentre parlavi ho aperto il file delle mie annotazio-ni su Ruprecht.”- disse Philip emettendo un suono stridente dal video. La linea sembrava disturbata.

“C’è poco segnale, Phil, Phil!” - la connessione si spense. Terence, intanto, aveva cominciato a singhiozzare. “Stai calmo, Terence, intanto dimmi hai trovato qualcosa, in

casa, vicino al dito?” Il cellulare di Robert squillò e lui distese il braccio verso Te-

rence mostrando il palmo in gesto di attesa mentre rispondeva. - “Sì, Phil, eccomi, ci deve essere un problema con il server.”

“Ti stavo dicendo che ho dato un’occhiata al fascicolo dell’agente Eagle.”

“C’è qualche informazione che potrebbe tornarci utile?” “Non so, con precisione, ma stavo leggendo sul fatto che

annotai, oltre alla questione che nutrisse un acceso risentimento per il genere femminile, che dal test è emerse una diagnosi ab-bastanza insolita, ovvero che il soggetto soffre di una grave forma di eurotofobia.”

“Sarebbe a dire?” “Vuol dire che Ruprecht ha una forte, diciamo così, avversione

verso gli organi genitali femminili.” “E questo cosa ci spiegherebbe?” “Possiamo ipotizzare che nel suo immaginario, la donna co-

me ripugnante rappresentazione del peccato andasse punita con

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l’amputazione delle dita che sarebbero, nel suo modo distorto di vedere le cose, la principale causa e strumento della mastur-bazione. Lui poi ha impresso a fuoco le lettere che compongono il suo pseudonimo su ognuna di esse, come a purificarle dopo la mutilazione.”

“Le dita sarebbero dunque l’oggetto usato dal soggetto per compiere il peccato?”

“In un certo qual modo, sì, le mie comunque sono solo sup-posizioni affrettate.”

“Potrebbe darsi” - proseguì Philip - “che Ruprecht abbia spiato la donna nell’intimità dopo aver magari anche constatato che non avesse rapporti con il marito.”

“Questo potrebbe anche essere” - confermò Robert ruotan-do gli occhi verso Terence. - “Quindi il fatto che le abbia ampu-tato le dita potrebbe essere non affatto casuale?”

“Stando alla lettura di questo rapporto è l’unica spiegazione logica. Magari mi sbaglio, sto cercando di ragionare insieme a te.”

“Fermati un attimo, Phil!” - Robert trasalì. “Leggendo tra i suoi appunti, su questo taccuino, ho riscon-

trato che la parola dita viene ripetuta in diverse circostanze.” Bernard e Terence si alzarono e si avvicinarono. Robert prese a sfogliare velocemente. “E’ riportata accostandola a diverse località geografiche,

sparse un po’ per tutto il mondo, Phil saranno un centinaio.” - Robert girò la testa come a cercarle dentro la stanza.

“Di sicuro ha lasciato qualche indizio” - intervenne Philip - “Ciò in cui vuole condurti è un gioco perverso, il suo gioco.”

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Terence tirò fuori una pagina di giornale tutta stropicciata da dentro la tasca dei pantaloni.

“Señor, lei prima mi ha chiesto se avevo trovato qualcosa vi-cino al dito di Rocio, ecco, il dito era appoggiato su questo.”

Robert impallidì. Lo prese e lo distese sul tavolo. “Phil, forse c’è uno spiraglio.” “Osserva con attenzione” - gli suggerì Philip. Robert lesse tutta la pagina. “E’ la pagina di una rivista per donne, c’è un articolo su una

crema idratante.” - continuò a leggere. “Questo parla della ritenzione idrica.” - girò dall’altro lato. “Phil, qua c’è una pubblicità su una questione umanitaria..

inviare fondi.. parla della Namibia.” “Namibia?” - disse Bernard e ripeté subito dopo Philip

dall’altro capo. “Sì, Namibia, in Africa” - ragionò Robert. “Namibia, Namibia, Namibia..” - ripeté mordendosi un lab-

bro. Robert aprì il diario di Ruprecht, girò alcune pagine e si fer-

mò a leggere. “Qui parla della missione che padre Elliot organizzò in Afri-

ca, nel 1978 in cui portò anche Ruprecht” Ci mise un po’ a leggere, Ruprecht scriveva non solo da de-

stra verso sinistra, ma anche dal basso verso l’alto. ivirpaC id otiD atamaihc aera’nu ni ogoul aveva enoissim ar-

tson al .aibmaZ ol e alognA’l art atautiS .aibimaN alled atudreps enoiger anu ni ommavirrA

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Arrivammo in una regione sperduta della Namibia. Situata tra

l’Angola e lo Zambia. La nostra missione aveva luogo in un’area chiama-ta Dito di Caprivi.

“Il Dito di Caprivi” - rilesse Robert concentrato. “Il dito, dunque sembra essere la parola chiave.” - suggerì

Philip. “A proposito.” - continuò l’analista. “Robert, hai guardato attentamente il dito?” “Guardato, attentamente?” - sobbalzò Robert. I tre si guardarono e in quell’istante il gelo sembrò impadro-

nirsi della stanza. “Siete ancora lì?” - domandò Philip dall’altro capo.

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Capitolo quinto Il Dito di Caprivi

Terence consegnò l'anulare nelle mani di Robert. "Solo una curiosità - chiese prendendolo con estrema cautela

- tua moglie è mancina?" "Sì, señor, porque me lo chiede?" "Niente di così importante." - Cercò di rassicurarlo. Robert ruotando quel piccolo arto che accoglieva la fede nu-

ziale osservò che dalla parte dei legamenti collaterali da cui era stato amputato dal metacarpo con chirurgica precisione, in cor-rispondenza dell'alloggiamento tra l'osso della prima falange e le carni molli circostanti risplendeva, sporgendo appena, un ogget-to metallico. Sfregò premendo con i polpastrelli attorno al lem-bo di pelle in cui terminava il moncone. Non appena una di-screta parte di quel corpo estraneo fu visibile lo rimosse con delle pinzette estraendolo delicatamente.

"Trovato qualcosa Robert?" "Sembra una chiave Phil. Sembrerebbe, una minuscola chia-

ve." "Una chiave? Una chiave apre qualcosa, ma cosa? E' plausibi-

le che all'interno di questo qualcosa ci sia nascosto il dito suc-cessivo." - Dedusse Philip al telefono, ma udirono tutti i pre-senti.

"Temo che questo sarà solo il primo di una lunga serie di viaggi, prima che Ruprecht vi conceda di rivedere la donna." - li ammonì poi, non celando la sua preoccupazione.

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"Almeno quattro posti diversi." - lo riprese garbatamente Ro-bert. Philip era un valido psicologo ma sulle analisi operative era meglio che non si cimentasse. Su una cosa però aveva ra-gione: Ruprecht non avrebbe concesso loro di trovare Rocio al primo colpo.

"Questa non è esattamente una chiave." - aggiunse Robert. "Eloise-attiva-ricerca-google-maps." - disse rivolgendosi al video. Il

pannello del monitor in stand by si accese e caricò la cartina ge-ografica della California di default.

"Eloise-visualizza-Africa-Namibia." - il software la individuò e mostrò l'area con ingrandimento standard dal satellite a duecen-to chilometri.

"Visualizza-mappa." "Rileva-regioni-rileva-area" "Separa-regione-Caprivi" Area selezionata: Regione di Caprivi, superficie 19.532 chilometri quadrati. "Eloise-ricava-contorno" "Seleziona-copia-incolla" Sullo schermo apparve il contorno della regione di Caprivi. "Ci siamo, la sagoma di questa chiave corrisponde perfetta-

mente al perimetro della regione ma siamo ad un vicolo cieco." "E' un'area molto estesa." - constatò Bernard accigliato. "Già." - Confermò Robert confrontando le due figure. "Troppo grande e trovare un dito nascosto in un territorio

così vasto sarebbe impossibile. Temo anche che della struttura che accoglieva la missione del 78 non sia rimasta neanche una capanna."

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Terence si mise gli occhiali da lettura cercando di dare il suo contributo accostandosi alla sottile lastra metallica lisciandosi i baffi e aggrottando le ciglia; il che suggerì a Robert di prendere una lente di ingrandimento.

"Si vede qualcosa?" - volle sapere Bernard vedendo i due che

si passavano lo strumento. "Pare ci sia una microincisione." - Robert gli passò la lente,

poi uscì a grandi falcate dalla stanza tornando con un micro-scopio digitale.

"Lo comprai qualche anno fa sapendo che mi sarebbe torna-to utile."

Lo accese e in pochi istanti Eloise tramite collegamento blue-tooth riconobbe lo strumento e installò automaticamente il dri-ver della periferica.

Robert posizionò il frammento disponendolo in posizione delle lenti. Rimasero tutti a bocca aperta. Phil dall'altro lato, chiedeva informazioni. "Trovato niente?"

Robert si portò una mano alla fronte facendo trasparire una certa preoccupazione. Il suo nemico era tornato. Il suo nemico lo stava sfidando. Il suo nemico era un soggetto pericoloso.

"Una mappa, Phil. Una specie di mappa. Non so come ci sia riuscito ma quel bastardo ha inserito sigle e linee della grandez-za di una cinquantina di micron o addirittura meno."

"E' tracciata la rotta che va da due località che corrispondo-no a Windhoek e Katima Mulilo su cui c'è una scritta."

"KALUNGA" - lesse Bernard. "Kalunga?" - ripeté Terence. "Tutto qui?" - domandò Philip.

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"Affermativo" - Confermò Robert. "Eloise-ingrandisci-evidenzia-seleziona-invia-iPhone" Il cellulare si accese confermando l'avvenuta ricezione. "Questi sono gli indizi, sarebbe meglio muoverci in fretta." "Terence devi dirmi se vuoi chiamare la polizia oppure la-

sciare che me ne occupi io." "Senor, io amo mia moglie, più di ogni altra cosa. Vengo con

lei." "Terence, qua non si tratta di una gita in Africa.." "Sono disposto a tutto." - lo interruppe Terence. "Tieni gli occhi aperti, Robert e buona fortuna." "Grazie Phil, farò del mio meglio. Salutami Brenda" "Buon viaggio, tienimi informato." "Robert" - intervenne Bernard con fare paterno. "Sì lo so, ma non ho scelta. Portami la pistola e chiama Jessi-

ca dille di prenotare due posti sola andata per il primo volo su Windhoek."

"Bernard" - gli domandò mentre stava uscendo bloccandolo sulla soglia della porta.

"Se non dovessi tornare, ti prego prenditi cura dei miei geni-tori, preoccupati di portare sempre delle calle a mia madre e se avranno modo di recuperare il mio corpo seppelliscimi accanto a loro." - disse questo anche per cercare di dissuadere Terence che invece, irriconoscibile, lo guardava con pieno sprezzo del pericolo.

L'aereo Air Namibia su cui viaggiavano Robert e Terence stava effettuando la manovra di discesa dopo aver ricevuto dalla torre di controllo l'autorizzazione per l'atterraggio.

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Nell'aeroporto internazionale di Windhoek, intanto, un indi-viduo con la tuta mimetica, berretto e spessi occhiali da sole era in fila nella sala degli imbarchi tenendo in mano il passaporto e un biglietto sola andata per Francoforte. Aprì il pesante borso-ne e diede un'ultima occhiata ai barattoli con le salamandre che come risvegliate guizzarono intrappolate dentro le tre diverse ampolle.

L'aereo proveniente da Los Angeles toccò terra mentre un altro aereo diretto in Europa prendeva quota.

Appena fuori montarono su un taxi e Robert chiese di ac-compagnarli alla più vicina guida turistica nazionale. Arrivarono in un hangar poco distante nei pressi di un'aerea industriale. Si avviarono verso un ingresso su cui c'era scritto "ufficio infor-mazioni" sopra un pannello con la frase Voli per tutte le destina-zioni, Biglietti autobus e noleggio auto e caravan.

Prima di entrare Robert aveva notato una persona che li sta-va spiando da dietro una siepe.

L'ufficio era formato da alcune cassettiere e da ampi scaffali costruiti con diversi ripiani su cui giacevano accatastate nume-rose riviste turistiche sormontate da un considerevole strato di polvere. In fondo al locale, di fronte ad un rumoroso ventilato-re, erano disposte in modo simmetrico quattro scrivanie vuote tranne una dietro cui sedeva stravaccato un impiegato calvo dai tratti europei che stava leggendo un quotidiano davanti ad una fumante tazza di caffè. Il tizio non li sentì entrare e non li vide in piedi di fronte a sé fin quando non abbassò il giornale per bere. Li squadrò dalla testa ai piedi verificando con un certo rammarico che si trattava di turisti.

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Bevve un sorso manifestando un gesto di disgusto apparen-temente nei confronti della bevanda. Poi sfoderò un tiepido sorriso.

"Prego accomodatevi" - ripiegò il quotidiano sul tavolo. "Cosa posso fare per voi?" - disse stropicciandosi gli occhi. "Siamo in due, la vostra compagnia effettua collegamenti su

Katima Mulilo?" - chiese Robert "Avete una prenotazione?" "No, siamo appena arrivati" - il debole cenno di affabilità

scomparve rapidamente dal volto dell'impiegato. "Mi dispiace siamo al completo è già tutto prenotato." Prese

il giornale ma prima che potesse aprilo Robert glielo tolse dalle mani con un rapido gesto.

"Ci sono altri mezzi?" "C'è un autobus, fanno duecento bigliettoni a cranio, ci im-

piega una giornata intera, soste comprese. Parte domani. Se c'é posto."

"Non mi dire, é tutto prenotato anche quello?" "Temo di sì, c'é solo un posto e voi siete in due quindi, spia-

cente." "Sarebbe così gentile da dirmi quando sarebbe invece il pros-

simo volo disponibile?" - Robert gli avrebbe mollato volentieri un bel cazzotto fra i denti ma cercò di contenersi. Da come lo scrutava era come se glielo stesse rifilando.

"Quattro giorni - rispose l’impiegato deglutendo - ma deve lasciarmi l'ottanta per cento di caparra. Le regole.."

"Ti lascio il cento per cento di un bel niente. Vieni Terence, andiamocene." L'addetto riprese a leggere, o meglio, mise il

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giornale davanti la faccia da cui spiava sincerandosi che quei seccatori uscissero.

"Fanculo te e la tua caparra!" "Come facciamo adesso Senor?" "Che ne so Terence, che ne so." Estrasse la pistola e si rivolse verso il cespuglio. "Vieni fuori di lì con le mani in alto!" "Non sparare non sparare" - uscì con le braccia alzate un ra-

gazzino di colore alto, magro e con il volto terrorizzato. "Cosa ci facevi nascosto là dietro?" - Robert ripose la pistola

nella fondina. "No parlare qua capo, venire con me." - Sussurrò. Robert e

Terence lo seguirono fino al parcheggio degli autobus. "Su andiamo parla, perché ci stavi seguendo?" "Sì capo, voi due avere faccia di chi ha bisogno di un passag-

gio. Capo." "Capisco, mentre tu ha quella di chi potrebbe darcelo?" "Affermativo capo!" "Ho mio trabiccolo." "Hai il tuo trabiccolo?" "Que es trabiccolo?" - Chiese Terence. "Sì capo, un Cessna 150. Capo." "É un aereo monomotore Terence." "Io lavorato per la compagnia capo, come guida turistica ca-

po, ho imparato a guidare quei cosi all'età di dieci anni capo." "Un autodidatta, e adesso quanti anni avresti?" "Sì Capo. Quasi diciassette capo" "Quasi diciassette! Siamo a cavallo."

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"Quelli della compagnia pagare poco, capo, io stanco di fare solo guida turistica capo."

"E hai messo su un traffico tutto tuo, diciamo al volo." "Sì capo, io adesso lavorare per conto mio capo, con rispar-

mi comprato aereo capo, ultimo modello. Capo." "Ok andiamo a vedere questo ultimo modello" - Robert

strizzò l'occhio a Terence che rispose imitandolo anche se a di-re il vero non stava capendo un granché. Il ragazzo li fece salire nel suo furgone e li portò nelle campagne. Vicino la sua capan-na in un ripostiglio adibito a garage nascosto da un telone rat-toppato si trovava il velivolo. Il giovane africano rimosse la co-pertura mostrandolo con orgoglio e soddisfazione.

"Questo sarebbe l'ultimo modello?" - domandò Robert men-

tre Terence esaminava la superficie arrugginita. "Sì, capo dal 48 non li producono più capo." "Già, con questo ci hanno fatto la guerra, cade a pezzi." "Fatto ottimo affare capo, quasi regalato capo." "Immagino - rifletté - e suppongo che se ti chiedesse di non

chiamarmi capo tu continueresti a chiamarmi capo vero?" "Sì capo" "Señor que facciamo?" "Terence non ti ci mettere pure tu, chiamami Robert, Rob-

bie, Rob ma non chiamarmi più señor per piacere." "Soy preoccupato, tengo miedo señor, oh, mi scusi,volevo

dire Robert." "Anche io, Terence, anche io.”

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“Anche se questo coso é più lento di un autobus trainato dal-le renne e a dirla tutta sarei più a mio agio sulla slitta di babbo natale purtroppo é l'unico mezzo disponibile adesso."

"Quando possiamo partire?" - domandò al ragazzo. "Se si accende anche subito capo." "Se si accende?" "Dipende capo." "Cosa vuol dire dipende?" "Elica certe volte non girare capo." "Vuoi dire che gli ingranaggi sono arrugginiti, oppure che

manca il gasolio?" "Anche capo, un po' vecchio trabiccolo, ma dipende anche

da Kalunga, capo." Robert spalancò gli occhi e rimase a fissarlo. "Cosa, puoi ripetere?" "Ripetere, cosa capo?" "Kalunga. Chi è? Dove si trova?" "Kalunga essere divinità, capo. Nostra religione ovambo si di-

vide in spiriti buoni e cattivi, Kalunga essere spirito supremo, Kalunga essere divinità, capo.”

Robert scrollò le spalle e si grattò la fronte. "Bella fregatura. Siamo al punto di partenza." "La gente delle tribù ovambo é convinta che Kalunga può

assumere sembianze umane e che si muove tra gli uomini inos-servato. Ha il compito di proteggere ovambo da epidemie e ca-restie. Ma essere come dite voi essere solo superstizione, capo."

"E se volessi, diciamo, parlare con questa superstizione?" "Deve parlare con capo famiglia reale tribù Ovambo aakwa-

nekamba, capo."

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“Puoi portarmi da lui?” “Io portare te da lui ma tu dire me dove volere andare, Na-

mibia terra molto grande, capo. Tante tribù, tanti aakwanekam-ba.”

“Che tu sappia, esiste una tribù indigena dalle parti di Katima Mulilo?”

“Essere più grande accampamento, capo, ma vivere nascosta in grande foresta quasi al confine, tanto camminare, capo. Noi dovere risalire fiume, capo.”

"Partiamo domani non mi fido a viaggiare al buio, di solito mi piace vedere il grosso culo dell'elefante su cui mi vado a schiantare. Tu preoccupati di fare il pieno. Noi cerchiamo un posto dove passare la notte."

"Potete dormire in mia casa, capo, Ubekwenisha fare voi sconto, capo."

"Molto gentile da parte tua, come hai detto che ti chiami?" "Ubekwenisha, capo" "Ti spiace se ti chiamo Ube?" "Ube é ok capo" "Datti una ripassatina al libretto di istruzioni del Cessna Ube,

anche se è solo da una settimana che ce l'hai ho fiducia in te." "Ok capo!" "Ube, tu sai leggere?" "No capo" "Ok lo leggo io." Ube entrò nell'apparecchio per recuperare il manuale delle i-

struzioni.

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"Come ha fatto a capire che ce l'ha da una sola settimana?" - chiese Terence.

"Nella bacheca vicino l’ingresso dell'hangar c'era un annun-cio datato che proponeva l'acquisto dello stesso velivolo da cui era stato strappato un solo recapito. L’hanno rifilato ad Ube che lavorando per la compagnia avrà visto decollare quegli apparec-chi in diverse occasioni e magari glielo hanno anche lasciato guidare ogni tanto ma di sicuro non ha mai fatto un solo volo completo e noi siamo le sue prime cavie."

"Misericordia!" "Conosce la strada, Terence, dobbiamo muoverci per circa

duemila chilometri in direzione nord est, per la navigazione a vista la bussola non è sufficiente. Può esserci utile."

"Chi guiderà quel coso?" "Lui guiderà ma io lo aiuterò, o almeno cercherò." "Lei ha mai guidato un aereo?" "No, ma ho tutta una notte per imparare e domani vedremo

se teoria e pratica avranno il loro successo." “Non ci sono alternative?” "Non ne vedo. Dì le tue ultime preghiere marinaio, domani

si parte all'alba." Il mattino seguente Ube portò per colazione una bottiglia di

latte appena munto e alcuni biscotti al cacao. Poi tutti insieme montarono sul Cessna. Terence si mise dietro e ripeteva come in un mantra tutti gli scongiuri che conosceva. Robert e Ube sedevano davanti.

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"Ci siamo, una veloce ripassata agli strumenti e agli interrut-tori che ci saranno d'aiuto. Ube tu procedi con ordine e con molta calma, io controllerò che farai i passaggi giusti."

"Ok capo" "Indicatore carburante serbatoio sinistro e destro, ok, livelli

pieni e qui ci siamo. Adesso prendiamo confidenza con la stru-mentazione. Non deve essere così difficile."

"Dovrebbero seguire nell'ordine, vediamo, indicatore pres-sione dell'olio, interruttore accensione, interruttore batteria, pompa carburante, pannello luci, ok, poi qui a destra troviamo, interruttore avionica, manetta, controllo miscela, indicatore giri motore, trim elevatore, e questo vediamo, sì questo dovrebbe essere il selettore serbatoio, ok c'è tutto."

"Ube eseguiamo la checklist prima di avviare il motore: posi-ziona su off gli strumenti elettrici e interruttore avionica, bravo, così, adesso il selettore serbatoio mettilo su entrambi. Così, per-fetto. Ci siamo."

"Adesso accendiamo il motore, ok? Perfetto, metti la manet-ta a un quarto, ok, valvola carburante aperta, così, interruttore batteria on, pompa ausiliaria carburante on, perfetto! Lo hai già visto fare un migliaio di volte, bravo Ube."

"Ruota i magneti lì, nell'interruttore di accensione, ok. Moto-re acceso."

L’elica cominciò a ruotare al minimo facendo vibrare tutto l’apparecchio. Terence intensificò i gesti scaramantici, improv-visandone anche di nuovi.

"Vediamo, vediamo, vediamo. Ecco qua, dopo l'accensione, controllare indicatore olio, spegnere la pompa ausiliaria del car-burante, ok, accendere nell'ordine, luci beacon, luci di naviga-

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zione, prima e quarta leva, perfetto, adesso accendi l'avionica. Ok."

"Adesso dovremmo chiedere alla torre l'autorizzazione al de-collo ma questa parte qui non serve quindi la saltiamo." - Sì vol-tò sorridendo verso Terence che però teneva gli occhi semi-chiusi fingendo di non vedere.

"Pronti per il rullaggio? Ube togli i freni di parcheggio e fer-mati al centro della pista."

"Checklist pre decollo, controllo quantità di carburante ok, trim, flap, luci stroboscopiche. Devo ammetterlo sono emozio-nato." - Robert da sempre amava le situazioni di pericolo.

"Adesso stai concentrato, mantieni posizionati i freni par-cheggio e aumenta i giri del motore a 2400. Così."

"Ok adesso disattivali.” L’aereo cominciò a muoversi prima lentamente, poi a scos-

soni. “Wow, ci stiamo muovendo." - Urlò Robert. Terence non

disse nulla e strinse ancora più forte gli occhi. Gli scongiuri era-no diventati preghiere solenni.

"Ube, fai attenzione, con la pedaliera dovresti bilanciare la spinta dell'elica verso sinistra con brevi correzioni verso destra. Ube! Ube! Più a destra. Troppo! Ube! Sì. Ecco, così.."

L’aereo attraversò rapido il rettilineo. "Mi farai prendere un colpo! Ok al mio via tira leggermente il

volantino verso di te, così. Adesso! Via!” Terence aprì istintivamente gli occhi, vide che si staccavano

da terra e li richiuse all’istante. “Si decolla!"

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L'aereo un po' traballando si staccò dolcemente da terra e Ube sembrava a suo agio nel ricoprire quel compito.

"Bravo ragazzo, conosci la strada, portaci dritti a Katima Mulilo. Non ti alzare troppo ma non ti abbassare eccessivamen-te. Fai attenzione agli elefanti!"

“Vuoi due salatini, Terence?” Terence abbandonò le preghiere e diede uno sguardo al pae-

saggio. In vita sua non aveva assistito a niente di simile. Gruppi di giraffe, zebre, elefanti popolavano intere praterie selvagge. Laghi con fenicotteri, ippopotami. Ghepardi che inseguivano gazzelle. Rinoceronti. Il suo terrore per una eventuale caduta aumentò e nel delirio preferì morire in uno schianto piuttosto che sbranato dalle iene e sgranocchiato da qualche avvoltoio. Si concentrò su sua moglie. Strinse i pugni e trovò dentro di se la forza di combattere contro chiunque.

Sorvolate distese interminabili di deserti e praterie brulle, Ube mostrò a Robert la sagoma della città. Ube fece planare l’aeroplano seguendo le istruzioni di Robert e con una manovra un po’ avventata riuscirono ad atterrare su una pista naturale pianeggiante completamente libera.

Si incamminarono verso il centro abitato dove noleggiarono un furgone. L’area urbana si interrompeva e il cemento lasciava spazio al terreno brullo e polveroso. Risalirono il fiume proce-dendo verso est finché fu possibile. Poi dovettero scendere.

Presero zaini e borracce e si incamminarono seguendo Ube. “Eccoci nella regione di Caprivi - disse a Terence - più co-

munemente definita Ovamboland.” “Ube - domandò sorseggiando un po’ d’acqua - in che dire-

zione si trova la tribù aborigena degli Ovambo?”

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“Seguire fiume capo, Ube portare da grande capo aakwane-kamba.”

Camminarono a lungo attraverso un impervio sentiero che costeggiava il fiume nella periferia nord-est di Katima Mulilo.

La vegetazione, alta e rigogliosa attorno al tratto di pianura adiacente alla riva del fiume oscillava appena, forse per via di una brezza leggerissima che però risultava impercettibile ai tre a causa della fortissima umidità e della temperatura elevata.

Oltre l’ultima sporgenza di terra del fronte abitato che stava-no lasciando, una palude si perdeva a vista d’occhio oltre una fila di lampioni, ultimo baluardo della città.

Risalendo per un lunghissimo tratto in direzione contraria al-la corrente arrivarono a ridosso della foresta pluviale da cui proseguirono per un sentiero che si addentrava nella boscaglia. Addentrandosi si trovarono immersi in una folta e selvaggia piantagione. Tant’è che non c’era più un sentiero davanti a loro Ne’ potevano dire con esattezza quando un uomo fosse mai passato di lì, se mai ci fosse passato. Erano immersi nella fore-sta.

I tre si guardarono reciprocamente negli occhi, scambiandosi la medesima percezione di allerta. Un frullo d’ali improvviso li fece voltare all’istante scattando all’indietro con un riflesso spontaneo. Avevano tutti l’impressione di essere spiati. Senza dirsi una parola capirono che non dovevano muoversi da quella posizione. Per un attimo incalcolabile udirono solo il respiro af-fannoso che usciva dalle loro bocche, poi pian piano le loro o-recchie si abituarono all’ambiente e l’unico suono avvertibile di-venne il crepitare dell’assestamento dei ramoscelli sotto i loro stivali. Poi alcuni rumori dall’alto. Videro sfilare, saltando tra i

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rami, alcune figure sulle cime degli alberi, immagini indistingui-bili se non fossero state accompagnate dall’inconfondibile verso degli scimpanzé. Sospirarono.

“Seguire loro.” - disse Ube incamminandosi. “Loro andare verso Ovambo.” - Proseguì. Facendosi largo con un bastone tra il denso fogliame Ube si

addentrò nella fitta parete boscosa. Robert e Terence tenendo il passo gli stavano dietro; non riuscivano neanche a vedere dove mettevano i piedi. Avanzarono alla cieca per un lunghissimo tratto che a Robert parve fin troppo eccessivo. Terence, aveva i piedi gonfi e doloranti. Ube si fermò. Aveva dipinto sul volto lo smarrimento che non lasciava dubbi sul fatto che si fossero per-si. Robert non gli chiese nulla temendo la risposta. Ube chiuse gli occhi pronunciando alcune frasi incomprensibili, ad eccezio-ne della parola Kalunga. Allargò le braccia portando i palmi delle mani verso l’alto. Robert lo scrutò con sospetto e diffidenza.

Ube riaprì gli occhi e, senza riprendere il bastone, girò bru-scamente verso sinistra camminando in una direzione invisibile e apparentemente illogica. Lo seguirono e si ritrovarono ai piedi di un albero enorme. Ube guardò in alto. I due lo imitarono. Un indigeno in piedi sopra un tronco li teneva a tiro con l’arco teso e una freccia innescata pronta a scattare su di loro.

“Siamo arrivati, capo.” - Terence deglutì. L’indigeno fece un balzo e dai cespugli uscirono diversi O-

vambo.Da come erano conciati erano sicuramente guerrieri. Terence drizzò le braccia in alto e istintivamente si mosse

all’indietro urtando contro lo scudo di un aborigeno; erano cir-condati. Ube rivolse loro alcune frasi nella loro lingua, poi, quello che sembrava il loro capo perlustrò gli stranieri dalla te-

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sta ai piedi. Disse qualcosa. Chiese qualcosa. Ube rispose e il gruppo scoppiò in una fragorosa risata guardando Terence.

Li invitarono a seguirli. Arrivarono in un accampamento dove li accolsero festosi un

gruppo di bambini ovambo. In un attimo tutta la tribù si radu-nò intorno agli stranieri che erano arrivati a fargli visita.

La situazione appariva tranquilla. Le donne e i bambini cominciarono a ballare. Robert si guar-

dò intorno; in tutta la sua vita non aveva mai visto niente del genere. Quella era la sua prima tribù indigena. Non era prevista negli addestramenti. Quella gente non rappresentava alcuna mi-naccia per nessun governo in fondo. Ma adesso doveva trarre dall’osservazione tutti i vantaggi per il suo scopo.

D’un tratto il brusio delle danze si quietò e la calca si allargò in due tronconi. Stava arrivando il loro capo.

Con passo misurato, accompagnato dalle sue quattro mogli, si presentò loro l’aakwanekamba ovvero il capo tribù.

Fatte le dovute presentazioni l’aborigeno scambiò qualche frase con Ube, domande che poi il ragazzo tradusse a Robert.

“Capo chiedere perché voi essere qui capo.” “Digli che dobbiamo parlare con Kalunga.” “Kalunga?” - Tuonò il capo tribù. “Kalunga, Kalunga” - ripete mormorando la platea. Terence stava cominciando a tremare. “Kalunga - ripeté Robert - è molto importante che parliamo

con lui.” Ube tradusse la richiesta di Robert.

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Ci furono risa sparse, le quattro mogli si coprirono la bocca e il capo tribù le ammonì con un cenno del capo dopodiché par-lottò bisbigliando una lunga spiegazione a Ube.

“Grande capo dice voi seguire lui.” Si avviarono verso la parte opposta dell’accampamento che

era formata da una costruzione di rocce rettangolari disposte a semicerchio al cui centro c’era una cisterna di argilla dentro cui ardeva un fuoco debole. L’aakwanekamba prima di entrare fece un cenno a Ube che si rivolse ai due “estranei”.

“Noi togliere stivali” “Che sta succedendo Ube?” “Tradizione Ovamba dice che straniero non può entrare nel

kral del capo senza togliere sandali oppure membro famiglia re-ale morirà.”

L’aakwanekamba vigilò con scrupolo che tutti rimanessero a piedi nudi.

“Capo tribù dire che se fuoco kral spegnere pericolo per tut-ta tribù grande capo dire voi fare molta attenzione.”

Robert inclinò in avanti il capo confermando la sua attenzio-ne, lo stesso fece Terence ma con gesti un po’ più ampi a con-ferma di tutta la sua disponibilità a rispettare quella regola.

La fila di pietre continuava formando un corridoio stretto che terminava all’ingresso di una cupola costruita con terra e fango. Dentro il maleodorante igloo l’aakwanekamba spiegò qualcosa a Ube in tono bassissimo. Con altrettanta premura, come se stesse dormendo qualcuno, Ube bisbigliò la traduzione ai due “ospiti”.

“Quello essere Kalunga.” - disse mostrando il totem in fon-do alla parete. Robert annuì e poi uscirono lentamente.

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“Una maschera di legno.” - disse Terence guardando Robert che si guardava l’alluce con cui descriveva linee confuse sul ter-riccio sabbioso del kral.

“Ebbene sì Terence, a quanto pare quello è Kalunga.” “Grande capo dire voi ospiti cena.” “Puoi dire al grande capo che ne saremo onorati.” Servirono involtini di cavallette e polpette di larve. A poco valse la suadente spiegazione intrapresa da Robert

circa l’elevato apporto proteico, la mancanza di grassi e il fatto che quelle cibarie fossero in realtà molto saporite, a Terence, che già vedeva Ube riempirsi il piatto, la vista di quegli insetti fritti diede subito il voltastomaco. Oltretutto vedeva svanire la possibilità di ritrovare Rocio.

“Guarda che poi si offendono.” - Robert gli tese il piatto di legno sotto il naso.

“Non ho molta fame.” - Disse e il rumore che seguì fu un brontolio di stomaco.

L’aakwanekamba domandò tramite Ube informazioni circa il luogo da cui provenissero e chiese poi ai due stranieri di sceglie-re le femmine con le quali avessero piacere di accoppiarsi e con cui avrebbero passato la notte. Robert che si aspettava quel tipo di proposta declinò l’invito giustificando il rifiuto con la spiega-zione che erano entrambi sposati e che ciò andava contro le lo-ro tradizioni. Il capo tribù annui e si accese una grossa pipa, dopodiché attorno al fuoco tutti presero a cantare e a ballare.

“Ascoltami bene Terence.” “Sì, Robert, come dite voi sono tutto orecchia.”

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“Si dice orecchio. Comunque ecco il piano. Quasi sicuramen-te ciò che stiamo cercando si nasconde dietro la maschera che è in cima al totem.”

“E come facciamo ad entrare nella caverna?” “Dovremo aspettare che tutti dormano, entrare insieme..” “Insieme?” “Sì, insieme. Quella maschera è troppo pesante mi dovrai a-

iutare. Io prenderò il nostro indizio e poi ce la daremo a gam-be.”

“A gambe? E la foresta?” “Ah ah, bravo Terence. A gambe è un modo di dire. Vicino

la sponda del fiume ci sono due canoe. Noi saliremo su una di quelle e ci porteremo via l’altra. Quando loro arriveranno, se mai dovessero sorprenderci non potendo salire ci inseguiranno per un tratto di strada tirandoci le frecce. Quasi sicuramente sono avvelenate quindi come prima cosa dovremo portare a bordo almeno un paio di scudi che tu, mentre io e Ube cerche-remo di remare a tutta forza, dovrai tenere sollevati per evitare che ci colpiscano. Tutto chiaro?”

“N-No.” “Vuol dire che è un piano perfetto.” Robert rimase ad osservare gli indigeni che ballavano e di

tanto in tanto applaudiva per stimolarli a continuare. “Ballate ballate che tra un po’ crollerete esausti.” “Sì da bravo tu fumati la tua bella pipa che poi le tue quattro

mogli ti terranno impegnato.” - disse tra sé scambiandosi un sa-luto con l’ aakwanekamba che sedeva all’altro capo del banchet-to immerso in una densa nuvola di fumo.

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Le danze terminarono e pian piano tutto il nutrito gruppo degli ovambo si ritirò nelle capanne. Robert scambiò alcune fra-si con Ube circa le modalità del piano. Una coppia di guardiani li scortò nel loro riparo per la notte e poi rimasero soli.

Terence stremato si addormentò quasi subito. Ube rimase per un po’ sveglio, almeno abbastanza per conoscere la somma stabilità perché prendesse parte all’operazione. Fu soddisfatto. Gli sarebbe bastata per mettere a posto l’aeromobile e rifarsi ca-sa o quanto meno comprarsene un altro e rimanere a vivere nel-la sua vecchia dimora. Robert invece non chiuse occhio.

“Terence, svegliati. Svegliati!” - Robert lo spintonò mostran-

dogli il dito davanti la bocca. Terence chiuse gli occhi e poi li riaprì, vide anche Ube in piedi che sbirciava fuori da dietro l’ingresso della tenda.

“Forza alzati Terence.” “Via libera Ube?” - il giovane namibiano rispose con un cen-

no del capo. “Terence non devi fare il minimo rumore togliti le scarpe.” “Andiamo.” Uscirono e rimasero fermi guardandosi intorno. Là fuori non

c’era nessuno. Il focolare del convivio era spento e ridotto in cenere. Grilli e cicale erano i soli rumori avvertibili. Un leggeris-simo vento trasportava l’umidità della foresta. Anche il fiume sembrava che dormisse. Arrivarono alla riva, Ube caricò i due scudi e legò l’estremità della corda di una delle piccole imbarca-zioni all’altra facendone una unica scialuppa.

“No Ube.” - osservò Robert.

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“Questo ci farà solo rallentare, ho cambiato idea.” - Prese un remo e lo tirò al centro del fiume dove la corrente lo fece di li a poco scomparire. Poi mise l’altro nella prima scialuppa.

“Quando avranno finito le frecce remeremo in tre.” . disse rivolgendosi a Terence.

Tornati all’accampamento si avvicinarono al kral. Sostarono un attimo in prossimità dell’accesso e si girarono per controllare la situazione. Robert entrò per primo. Dietro di lui Ube seguito a piccoli passi da Terence che guardava, con fare assonnato, la cisterna di terracotta con il fuoco. Robert decise di fare in fretta. Sapeva che con intervalli regolari qualcuno si sarebbe alzato a vegliare sulla fiamma per ravvivarla. Ci avvicinò l’estremità di un ramo a cui aveva avvolto un lembo di stoffa che si accese. Con la rudimentale torcia entrò dentro la cupola d’argilla e la consegnò a Ube. Fece cenno a Terence di avvicinarsi e insieme afferrarono l’enorme maschera per alzarla. Il primo tentativo fu del tutto inutile.

“Ube dacci una mano.” - il ragazzo spense la torcia che aveva già bruciato quasi tutto il lembo e nel buio pesto si avvicinò ai due. La maschera si alzò di qualche centimetro oltre il totem e poi ripiombò sulla sua base di appoggio.

“Dobbiamo buttarla a terra” - sussurrò Robert. “Spostatevi.” - disse mentre Ube usciva a controllare che

non arrivasse nessuno e per riaccendere la torcia. La pesante scultura rovinò nella terra sabbiosa che ne assorbì

il rumore nel tonfo. Ube rientrò in fretta con la piccola fiaccola tremolante.

“Stanno arrivando capo.” “Passami la torcia.”

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“Non c’è niente” - esclamò Terence. “Zitto.” - lo redarguì Robert mettendogli una mano davanti

la bocca e poi spense la fiaccola. I tre rimasero immobili mentre le guardie all’esterno riforni-

vano la cisterna di pezzetti di legname essiccato. Per un po’ rimasero a sorvegliarlo verificando che la fiamma

tornasse ad ardere, intanto parlavano tra loro nella loro lingua. Terence, probabilmente per via della polvere inalata, fu colto

da una incontenibile necessità di starnutire. Con gli occhi gonfi di lacrime e terrorizzato che potessero

accorgersi di loro, il povero uomo pregò che quelli se ne andas-sero all’istante. Per un attimo riuscì a contenere quel bisogno ma poi fu più forte di lui. Le guardie smisero di parlare e si vol-tarono verso la cupola. Entrarono al buio. Robert prese il primo e lo immobilizzò all’istante. L’altro si precipitò fuori urlando e Ube lo afferrò per una caviglia facendolo cadere dentro la ci-sterna con i tizzoni ardenti. Quello prendendo fuoco cominciò a strillare svegliando tutto il vicinato che, uscendo dalle tende diede subito l’allarme.

“Seguitemi.” - fece Robert girando dietro il kral. Arrivarono a fronde un po’ tutti e si ritrovarono con il gran-

de capo di fronte alla cisterna spenta. Urla, grida, schiamazzi. L’aakwanekamba interrogò il giovane

soldato poi ordinò di andare a controllare nella tenda degli ospi-ti. Intanto Robert, Terence e Ube si erano rifugiati in un ripo-stiglio. L’alba stava quasi per sorgere e all’interno del magazzino Robert cercò, frugando, di trovare qualcosa di utile per una di-sperata difesa da quella tribù inferocita.

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Attorno a lui c’erano scorte di cibo, carni essiccate, barattoli con insetti vari.

“Oh santi numi! - esclamò. Davanti a lui c’era un contenitore di vetro diverso. Lo prese e si avvicinò alla parete. Divaricò la paglia per illu-

minarlo con il bagliore della notte, quanto bastasse per vedere cosa stava cercando. Una piccola salamandra balzò sul vetro mostrando il ventre perfettamente aderente alla superficie. Scosse e rilevò che c’era qualcosa oltre all’anfibio che, nono-stante gli urti rimaneva perfettamente incollato alla parete del barattolo.

“Ci siamo.” - si rivolse ai due ansimante. “Terence ho trovato il nostro indizio.” - Era appoggiato a

terra e rideva nervosamente. “Dobbiamo uscire e scappare.” - Terence adesso era più de-

terminato che mai. “Ovambo essere molto arrabbiati capo.” “Lo so, lo so.” “Dobbiamo uscire prima che arrivino.” “Ci stanno cercando dappertutto. Uscirò per primo e mi

metterò dietro quell’albero, poi vi farò un cenno e mentre io andrò dietro quei vasi voi prenderete il mio posto. Ci siamo ca-piti?”

Non c’erano alternative perciò risposero sì all’unisono. Robert balzò fuori facendo una capriola arrivando di spalle al

grosso tronco dell’albero. Si guardò intorno e non appena vide campo libero si mosse nascondendosi dietro i vasi permettendo ad Ube e Terence di uscire allo scoperto. Sbirciò tra le fessure e vide che stava arrivando un gruppo di indigeni. Non si mosse.

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La piccola truppa sorvegliò con attenzione ma non vide che dietro la fila di vasi era sdraiato Robert. Una guardia, più scru-polosa tornò indietro. Robert udì i passi. L’indigeno si affacciò allungandosi oltre i vasi per controllare ma non vide nulla. Ro-bert era riuscito a coprirsi con un telo. Non appena le ricerche della maggior parte del gruppo degli ovambo si concentrò den-tro la foresta Robert prese la decisione.

“Al mio tre diritti verso le canoe.” - Non era neanche sicuro che non avessero scoperto il loro trucco. Ma forse il fatto di non averle legate tra loro gli era tornato utile. Avrebbero dovu-to capire, eventualmente come mai in una c’erano tre remi e in una nessuno. Comunque era la loro unica salvezza.

“Uno, due, via.” Robert e Ube andarono come saette mentre Terence, causa il

suo peso, rovinò a terra un paio di volte attirando l’attenzione degli aborigeni che erano rimasti a sorvegliare. Robert arrivò per primo alla canoa e ci tirò dentro il barattolo. Vide che sta-vano per arrivare a Terence quindi prese la pistola e sparò un paio di colpi. Gli inseguitori si fermarono, il che diede a Teren-ce un minimo vantaggio e poi ripresero l’inseguimento. Terence rotolò arrivando con la faccia a ridosso della riva del fiume. Ube e Robert lo aiutarono a salire mentre dall’alto cominciavano ad arrivare le prime frecce in acqua.

“Terence, prendi gli scudi.” “Oh sì, gli scudi, dove sono gli scudi?” “Ci stai seduto sopra!” Una freccia finì sul remo di Ube che la tolse e continuò a

remare come non aveva mai fatto. Altrettanto faceva Robert, così forte che gli bruciavano le spalle.

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Tutte le altre finirono nelle fiume. Spinta dalla corrente la canoa era già lontana mentre Terence

stava ancora cercando di capire da quale parte si infilassero e come andassero tenuti quegli insoliti aggeggi primitivi.

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Capitolo sesto Le dita del Peloponneso

L’individuo con la tuta mimetica guardava fuori dalla vetrina

del Cafesonderbar sulla Färberstrasse a due passi dal fiume Me-no dove aveva passeggiato tutta la mattina. Davanti alla sua taz-za di caffè fumante tamburellava con le dita sul bancone e ve-deva dilatarsi la macchia del vapore oltre la parete sulla via dove sfrecciavano silenziose le Audi, le Mercedes e le BMW tede-sche. Nessuno sapeva niente di ciò che stava accadendo, di cosa contenesse il suo borsone. Si immaginò i suoi inseguitori lungo le rive di un fiume diverso e si domandò se tutto stesse filando come stabilito. Prima di muoversi doveva attendere il segnale. Poi avrebbe preso il taxi e sarebbe tornato all’aeroporto per prendere l’ultimo volo disponibile per Atene.

Una macchina della polizia di Francoforte passò davanti al bar lentamente. Gli agenti, un uomo e una donna, gettarono lo sguardo al suo interno poi rallentarono. Parcheggiarono l’auto e si diressero verso l’ingresso. Entrarono e diedero una rapida oc-chiata all’individuo e al borsone. Poi arrivò il barista.

- Ehi Helga - esclamò il barista asciugandosi le mani. - Buongiorno tesoro - rispose la poliziotta tirandogli un ba-

cio. - Temevo non passaste oggi. - Un incidente caro, non so come ho retto senza il tuo caffè. - Ok ne preparo uno anche per Gert così affrontate meglio la

giornata. - Grazie Ditrich

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- Mi diceva Helga che siamo a cena da voi mercoledì. - E’ il compleanno della cugina di Linda che è ospite da noi - Ho capito, c’è anche la partita, ti serve una scusa per ritirarti

davanti alla televisione, - Ditrich! - sbottò Helga. - Saggia osservazione mio caro. - Sorrise Gert. - Porterò io il vino. - I tre rimasero a chiacchierare per un

po’. L’individuo con la tuta mimetica temette che la conversazio-

ne durasse troppo a lungo. Doveva chiedere al barista di resti-tuirgli il ghiaccio portatile che aveva messo in frigo che serviva al suo portavivande termico per mantenere in temperatura le di-ta. Non voleva correre rischi inutili. Non poteva permetterselo. Immaginò una scusa, se l’argomento fosse uscito fuori in pre-senza dei poliziotti, avrebbe finto che aveva una contusione. Sapeva che i piani migliori cadevano per le più semplici banalità. Sorseggiò il caffè per non destare sospetti con la sua eccessiva immobilità. Prese un giornale dal tavolo e lo aprì sulla pagina del gossip. Finalmente i due uscirono. Pagò il conto, ritirò le sue cose, uscì e si diresse su una panchina di fronte al fiume.

Sul fiume Zambesi, benché controcorrente, Robert, Terence

e Ube avevano preso il largo mentre vedevano sparuti gruppi di indigeni che li inseguivano dalla foresta. Robert sparò un colpo a vuoto per dissuaderli dall’inseguimento. Dopo un po’ scom-parvero. Robert controllò le munizioni, gli erano rimasti pochi proiettili, sapeva che il fiume era funestato di vari animali peri-colosi tra cui lo squalo zambesi, capace di addentrarsi nelle ac-que dolci, il più temuto in assoluto per l’uomo. La lunghezza

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nelle femmine è di circa tre metri e cinquanta centimetri per un peso di oltre duecento chili; se fossero stati attaccati, vista l’aggressività della specie e le dimensioni esigue della canoa, a-vrebbe potuto affrontare il pericolo facendo affidamento solo sulla sua semiautomatica.

Fortuna volle che non ci furono impedimenti e sul fare della sera arrivarono sulla sponda poco distante da Katima Mulilo. Robert prese il barattolo di vetro e mentre si incamminavano verso la radura dove avevano lasciato il velivolo diede uno sguardo al suo interno.

La salamandra appariva un po’ grassottella per come se le immaginava, era in stato di quiete aveva il corpo prevalente-mente nero chiazzato irregolarmente di giallo. Si domandò se ci potessero essere delle differenze tali tra le specie che ne identi-ficassero l’origine. Dentro il barattolo c’era anche una rosa es-siccata. Cerco una corrispondenza tra il simbolo della rosa e la salamandra ma non gli venne niente di utile. Non resistette e aprì il barattolo per prendere il dito. L’osservo sul fondo prima di prenderlo. Sembrava un medio, data la lunghezza. Non pote-va esserne certo o per lo meno poteva anche essere un indice. Viste nel loro insieme le dita sono facilmente distinguibili, ma separate potevano confondersi, fatta eccezione per il pollice e il mignolo. Rifletté che se fosse stato il medio, visto oltretutto che l’anulare era il dito precedente recuperato, questo poteva avere qualche traduzione simbolica. Ragionò sul numero tre, sul fatto che da qualunque parte si cominciassero a contare le dita della mano il dito medio contava sempre per tre. Ma anche que-sto non lo portò subito a nessuna conclusione. La rosa, il nu-

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mero tre e la salamandra. Fece l’ultima cosa sensata che gli ri-manesse di fare e per cui stava esitando, prese il dito.

Lo girò e senza sorprendersi più di tanto lesse sul primo pol-pastrello della prima falange la lettera E che aveva già visto in Florida.

Notò poi che sulle parti restanti delle falangi erano impresse due lettere, una N e una E.

E - N - E. Mentre Terence, più tramortito che esausto lo seguiva e Ube,

più veloce che interessato, lo precedeva, Robert sembrava con-centrato in un complicatissimo calcolo da cui non riusciva a trarre il minimo indizio.

Una rosa, un dito molto probabilmente medio, il numero tre, una scritta, forse un acronimo E - N - E. Ah, si fermò, e una sa-lamandra.

Arrivarono all’apparecchio. Montarono e mise da parte le sue teorie sull’interpretazione

degli indizi per assistere Ube nella procedura del decollo. L’aereo si staccò da terra e Ube riuscì a farlo alzare quanto

bastava per effettuare una lunga virata che li portasse indietro. Terence riprese gli scongiuri e Robert sistematosi le cuffie

rimase assorto grattandosi il mento con lo sguardo fermo sulla strumentazione che già conosceva alla perfezione. Vide il piano della bussola galleggiare dentro al vetro protettivo oscillare tan-to gradatamente quanto ampia era la lunga manovra in volo che stava effettuando Ube. Sull’asse centrale ruotavano come in un carillon i punti cardinali con le loro abbreviazioni.

- Corpo di mille balene! - Urlò strappandosi le cuffie. Ube reagì spaventato, Terence non si accorse di nulla.

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Robert aveva visto passare tutte le sigle e immediatamente ri-conobbe quella che sta per Est - Nord - Est, E - N - E.

Cercò di calmarsi. Ma non poteva essere diversamente. La rosa in quel contesto era dunque una Wind Rose ovvero una rosa dei venti. Ruprecht stava indicando loro una direzione.

Robert consegnò uno guardo rassicurante agli occhi di Ube che aveva eseguito l’intera manovra e posizionato la prua del monomotore verso sud ovest.

La combinazione tra l’elemento “rosa” e l’acronimo possibile per est nord est si sposavano alla perfezione. Molto più di quanto egli era riuscito di ottenere precedentemente. Non era certo un grande passo in avanti ma era comunque qualcosa.

Wind Rose, rosa dei venti. Perché Ruprecht? Si ricordò qualcosa che sapeva già a proposito dell’origine

della rosa dei venti e che anche nel manuale d’istruzione del Cessna era addirittura riportata una breve spiegazione storica. Leggendolo la cosa gli era apparsa futile, forse scritta da un fa-natico dell’aereonautica ma adesso gli tornava utilissima.

Prese in mano il manuale e cercò il capitolo “Bussole mo-derne da nautica e orientamento terrestre” nella cui introduzio-ne si parlava appunto dell’origine storica della rosa dei venti.

Nelle prime rappresentazioni cartografiche del mediterraneo - lesse - la rosa dei venti veniva raffigurata vicino l’isola di Mal-ta.

In questo modo l’isola divenne il punto di riferimento per indicare la provenienza dei venti portanti principali. Le navi la cui prua fosse orientata verso malta erano spinte dal vento che proveniva dalla loro terra e quindi prendevano il loro nome.

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Stando alla disposizione delle lettere est nord est rispetto all’isola di Malta quindi la direzione descritta da Ruprecht indi-cherebbe il grecale dunque la Grecia? Un territorio molto esteso anche questo - rifletté - possibile che non abbia voluto restrin-gere il campo di ricerca? Sapendo che Ruprecht era un fanatico di particolarità Robert continuò a leggere cercando ulteriosi in-dizi. Il paragrafo terminava con un accenno al mondo antico. Robert si chiese per un attimo seriamente se per i test del bre-vetto di volo facessero davvero simili domande e che utilità po-tessero mai avere, soprattutto osservando con che disinvoltura un poco erudito Ube stava maneggiando un velivolo. Stava at-tingendo informazioni che per la sua causa invece avrebbe po-tuto trovare solo in una biblioteca molto fornita e dopo aver scartabellato a lungo.

Si ritenne fin troppo fortunato ma continuò a leggere. Quanti tipi di rosa dei venti si conoscevano nel mondo anti-

co? Chiedeva retoricamente un ipotetico esaminatore che subito si dava la risposta. La prima rosa risalente ad Omero era estre-mamente rudimentale e indicava due soli punti cardinali e raffi-gurava un solo vento Zefiro per indicare l’ovest. Est si chiama-va Eos cioè l’aurora per specificare da dove sorgesse il Sole. Con il passare dei secoli lo schema greco divenne la rosa ventorum tracciata e riscritta in diversi tipi da autori famosi come Aristo-tele, Seneca e Tolomeo. Poi venne ripresa da autori meno noti come Timotene, Aulo e Vegezio che suddivisero i quattro qua-dranti in modo da ottenere modelli più articolati fino a venti-quattro venti come fece Vitruvio nel De Architectura

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Poi la lettura continuava con ulteriori cenni storici poco atti-

nenti a ciò che poteva riguardare Ruprecht e la mappa che ave-va ideato.

Stando alla rosa vitruviana infatti a Robert parve subito evi-dente l’analogia della parola latina Aquilo con Eagle. E ciò gli bastò. Prese in mano la cartina generale e sfogliò avidamente fi-no all’area del mediterraneo che mostrasse l’isola di Malta. De-scrisse un cerchio aiutandosi con un bicchiere facendo atten-zione che l’isola rimanesse posizionata perfettamente al centro. Poi descrisse quattro quadranti da 90 gradi che portò ad una suddivisione di 4 punti. Tracciò ulteriormente delle linee con cui suddivise i quadranti ottenuti. Una di esse passava diago-nalmente lungo Aquilo. Da lì cercando di andare il più dritto possibile formò un lungo tratteggio per ottenere le possibili in-tersezioni. La lunga linea tratteggiata approdava inconfondibil-

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mente in Grecia. Per l’esattezza nel Peloponneso. Robert si ri-cordo che fin dalle elementari era un grande appassionato del mondo greco e che quel tratto di terra per il fatto che ha forma della mano ha la parte inferiore denominata le dita del Peloponne-so. Il campo di ricerca si era ulteriormente ristretto e adesso Ro-bert aveva più certezze. Chiuse gli occhi un istante non inter-rompendo il suo ragionamento sui passi successivi. Solo la sa-lamandra poteva fornirgli ulteriori spiegazioni. Era urgente tro-vare un biologo esperto in zoologia.

Atterrarono senza grossi intoppi anche questa volta. Robert

congedò Ube con un grosso abbraccio e la solenne promessa che gli avrebbe inviato quanto si era meritato. Ube dal canto suo ricambiò con un commosso sorriso salutandoli con ampi gesti del braccio finché non li vide scomparire. Arrivati a Win-dhoek la mattina seguente si recarono subito presso l’università della Namibia. La struttura si presentava molto grande e acco-gliente, più di quanto entrambi avessero immaginato. Lessero i cartelli che descrivevano i vari dipartimenti finché non trovaro-no le indicazioni utili per la facoltà di scienze biologiche.

- Buongiorno, abbiamo appuntamento con Percy Maruwa Chimwamurombe - domandò Robert alla reception dopo aver letto di sfuggita l’organigramma dello staff accanto alla porta.

Furono invitati a salire. Percorsero l’intero atrio leggendo i nomi dei ricercatori finché non arrivarono all’ambulatorio del dott. Percy.

L’uomo, molto giovane, sulla trentina sentì bussare e senza troppi indugi li fece accomodare.

- Buongiorno Dott. Percy

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- Buongiorno a voi stranieri, come posso esservi utile? - Spero tanto di non averla disturbata, siamo americani, stia-

mo seguendo un’indagine per il ritrovamento di una persona la cui riuscita è legata alla complicata risoluzione di alcuni indizi.

- Nessun disturbo, ha a che fare con la mia materia suppon-go.

- Per l’esattezza - Robert estrasse il barattolo con la salaman-dra.

- Un raro esemplare - osservò subito il ricercatore nella sua lingua dimenticandosi d’un tratto che fosse in compagnia di due individui.

- Come dice ? - intervenne Terence. - Sì, scusatemi, dicevo, questo è un rarissimo esemplare di sa-

lamandra, se non sbaglio, scusatemi un attimo.. - pose il barat-tolo sul tavolo e andò a prendere un fascicolo contenente delle riviste specializzate.

- Pochi giorni fa leggevo qualcosa a proposito delle recenti classificazioni tra le specie di salamandre.

- Vedete - continuò nella spiegazione digitando l’indirizzo http di un link e girò lo schermo del suo portatile in modo che potessero leggere entrambi - le salamandre in tutto il pianeta si dividono in specie e in sottospecie. Ognuna è stata analizzata e classificata in base a delle macro e a delle minime differenze, ol-tre che in base al luogo del loro avvistamento e ritrovamento.

- Questo aspetto mi interessa sapere dott. Percy. - Solo in spagna ce ne sono dieci specie diverse, completa-

mente differenti tra loro. Questa che vedete qui invece si trova nei Pirenei, questa qua solo in un’area specifica nel sud del Por-togallo. In Italia ne esiste soltanto una specie ed ha la caratteri-

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stica particolarissima di avere più giallo che nero. Per farla bre-ve questo urodelo è distribuito prevalentemente in Europa. Questo esemplare che mi avete portato, per forma e colori mi sembra appartenga ad una sottospecie che è attualmente in fase di discussione scientifica circa l’attendibilità delle fonti.

- Vorrebbe dirmi che non siete completamente certi della sua origine ?

- Non esattamente. Come è riportato in questo articolo il suo ritrovamento è stato inizialmente attribuito alla Grecia del Sud..

- Grecia del Sud - ripeté Robert annuendo - vada avanti la prego.

- Salamandra Werneri, ci sarebbero quattro diverse fonti che riportano il suo riconoscimento tramite la forma della testa, timbro e conformazione dei colori, un leggero prognatismo e il ventre allargato. Il primo esemplare risale al monte Pilio, dove risulterebbero in abbondanza. Alcuni ricercatori invece ritengo-no che sia originaria dell’isola greca di Euboea. Di diversa opi-nione sono quelli che sostengono le sue radici tra le montagne del Peloponneso, sul Monte Cyllene.

- Montagna del Peloponneso? - Sì ma guardate, per completezza c’è un ultimo recentissimo

ritrovamento, si tratta sempre del Peloponneso. Nel monte Ta-ygetus.

- Monte Taygetus? Mi faccia vedere. Robert guardò la cartina. - E’ in prossimità di un “dito” del Peloponneso, a ridosso di

Sparta. Osservò. - Spero di esservi stato d’aiuto. - Sì, senza dubbio. - Si congratulò Robert.

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- Andiamo Terecene, grazie dott. Percy. - Si tenga pure la salamandra. I due andarono all’aeroporto e insieme presero il primo volo

disponibile per l’Europa. L’unica destinazione possibile era Francoforte. Da lì si sarebbero imbarcati per la Grecia. Il cam-po di ricerca si era notevolmente ristretto.

Intanto con un giorno di vantaggio l’individuo con la tuta mimetica era atterrato in Grecia, disposto il barattolo in un se-greto nascondiglio e stava facendo ritorno ad Atene da cui sa-rebbe partito verso l’Italia.

Durante il viaggio Robert rifletté su tutta la situazione. Vede-

va Terence dormire ma agitarsi durante il sonno disturbato da-gli incubi.

Durante la permanenza a Francoforte ne approfittò per ripo-sare e recuperare le energie psicofisiche. Nell’imbarco il mattino seguente comprò un libro sulla magna Grecia nell’edicola dell’aeroporto.

Guardava le immagini riprese dal satellite e riconosceva la forma della mano nel contorno dei confini dell’isola del Pelo-ponneso. Una mano con quattro dita. Il monte Taygetus dove sarebbero state avvistate quelle salamandre con molta fantasia poteva appartenere al dito medio che avevano recuperato e che rappresentava con buona probabilità anche il luogo del ritro-vamento del dito seguente. Ma dove? Come cercare un dito in una superficie tanto estesa. Dove poteva aver nascosto Ru-precht il terzo dito? Guardò la conformazione rocciosa. L’estremità con cui si concludeva quell’appendice di terra era

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sormontata da una diversa catena rocciosa come ultima propag-gine, la regione del Mani. Lesse a riguardo:

Morfologicamente inospitale, storicamente bellicoso, mitologicamente si-

nistro: là dove le acque dell’Egeo incontrano lo Ionio si narra vi fossero le bocche dell’Ade. Un posto inospitale con spiaggie rare o nascoste.

Ade. Rifletté Robert. Con sua moglie Persefone sono i cu-

stodi degli inferi nella mitologia della Grecia! Ruprecht ci sta portando all’inferno. Constatò amaramente.

Lesse a lungo riguardo le origini delle vicende di Ade e Per-sefone alla ricerca di qualche indizio ma non trovò nulla di inte-ressante. Era comunque convinto che c’entrasse qualcosa il concetto dell’oltretomba. Appena arrivati all’aeroporto di Atene si collegò alla rete e cercò più notizie. Sapeva che Ruprecht era un grande studioso della cultura latina più di quella greca. Cerco attinenze tra la parola Mani e gli antichi romani. Trovò un col-legamento. Nella tradizione degli antichi romani, Mani, nella lingua latina Manes, erano le anime dei defunti identificate con le divinità dell’oltretomba.

Rabbrividì. Mentre Terence usciva dal bagno e cercava di rendersi utile

in qualche modo Robert riprese a leggere. Le feste principali del culto dei Manes erano due, i Parentalia e i Rosa-

ria durante i quali i defunti venivano adornati di viole e rose.

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Rosaria, rose! Rosa, come rosa dei venti, ma soprattutto co-me la rosa essiccata, per cui morta, che Ruprecht aveva intro-dotto nel barattolo della salamandra.

- Dobbiamo cercare un cimitero, andiamo Terence! Come al solito egli lo seguì. Viaggiarono per circa 3 ore in direzione Sparta. Poi presero

verso sud per la regione del Mani. Avvicinandosi all’area mon-tuosa il percorso diventava sempre più aspro e la strada per lunghi tratti impraticabile. Cominciò a piovere generosamente. Robert si rese conto solo in quel momento che non aveva una destinazione precisa. Decisero di fermarsi presso una taverna per rifocillarsi e fare il quadro della situazione. Ordinarono pie-tanze tipiche del posto. La gente, notò subito Robert, era dav-vero come descritta nei libri a riguardo degli antenati che la po-polavano e che di quella terra avevano assimilato le caratteristi-che. Robert aprì la cartina sul tavolo, diede due colpi di tosse ed assunse una posa che gli dava verosimilmente le sembianze di un turista improvvisato. La regione del Mani, osservò, era costi-tuita da una trentina di cittadine, più o meno della stesa gran-dezza che si trovavano per lo più lungo i tratti costieri a stra-piombo sul mare. Se avessero perlustrato tutti i rispettivi cimite-ri avrebbero impiegato settimane. Cercando oltretutto di non infastidire troppo i poco ospitali residenti. Un americano e un boliviano in giro per i loro camposanti avrebbe destato un giu-stificabile sospetto.

Robert rilesse ad una ad una tutte le città. Nessuna sembrava dargli un’ipotesi adeguata per il ritrovamento. Brancolava nel

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buio. L’entusiasmo iniziale cedeva il passo alla consapevolezza di essere ad un vicolo cieco. Cominciava a temere di essere completamente fuori strada. Si pentì di essere stato troppo pre-cipitoso. Si portò le mani alla fronte e si chinò sul tavolo. Te-rence lo guardava con rammarico e partecipazione ma non osò disturbare quella quiete pronta ad esplodere. Un cimitero, una rosa. Ripeteva. Mani, un cimitero, una rosa. Ma dove? Dove!

Fuori la pioggia continuava incessantemente. Le strade erano allagate. Il suo cellulare non aveva campo. Non aveva idee. Non aveva modo di capire dove andare. Si alzò e si avvicinò alla fi-nestra cogliendo la sua immagine opaca riflessa nell’ombra geli-da del vetro. Guardava le goccioline d’acqua unirsi in rivoli e poi separarsi. Il giorno stava finendo, come le sue idee. Di fron-te a sé una campagna desolata, pietrosa e priva di ogni illumina-zione confinava tragicamente la scena descrivendone un’impietosa sconfitta.

Dove erano finiti? Entrò nella taverna un ragazzo. Scambiò qualche frase con il

titolare e andò a sedersi ad un tavolo. Aprì un libro e rimase a leggerlo finché la cameriera, presumibilmente sua madre, gli portò una moussaka fumante. Consumò il pasto con lentezza e negli intervalli in cui sorseggiava dell’acqua minerale dava rapide occhiate al suo libro da cui era assorto. Robert si mosse per an-dare alla toilette passando accanto al giovane. Il libro che stava leggendo non era un semplice romanzo ma un testo scolastico. Robert spostò una sedia e si sedette davanti a lui. Il ragazzo, magro in volto, si pulì la bocca con il fazzoletto poi lo fissò come se niente fosse. Il suo temperamento mite ed arrendevole

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era una ulteriore conferma per Robert che si trattasse di un sec-chione. E ciò nutriva maggiormente il suo interesse nei suoi confronti. Prima che egli potesse presentarsi e rivolgergli alcune semplici domande dalla cucina uscì il padre del ragazzo, avverti-to dalla madre, anch’essa preoccupata che lo straniero rappre-sentasse chissà quale pericolo per il loro sapientone.

Robert sfoderò il suo migliore sorriso allargando le braccia in gesto di non belligeranza, ma il cuoco greco non sembrava ca-pire una virgola delle parole di Robert. Il ragazzo invece lo capì, intervenne e il genitore sbottando fece passo indietro verso il posto da cui era venuto; contando sulla vedetta di sua moglie perfettamente appostata oltre la porta basculante.

- Perdonateli - disse. - Perdonati - rispose sorridendo, come suo solito, Robert. - Come sapete vi trovate nella regione del Mani. La gente di

qua è molto ostile con gli abitanti stessi dello stesso comune. E’ un posto bellissimo ma le persone da sempre si azzuffano tra loro per ogni questione. Qua ci sono le Vendete che sono vere e proprie guerre tra le famiglie. Ci sono persone che hanno perso familiari, parenti e anche conoscenti per le vendete. Ma questo forse se vi siete documentati lo sapevate già.

- Sì, in parte almeno, diciamo che ho dovuto fare un corso accelerato. Mi chiamo Robert Duvall e sono americano, vengo dalla California, quel mio amico seduto la in fondo è Terence, lui è boliviano.

- Molto lieto di conoscerla Mr. Robert - il ragazzo per la prima volta sorrise e mostrò tutta la sua disponibilità all’ascolto - il mio nome è Aris Papadopoulus, e quelli che ha visto prima

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sono i miei genitori. - Si girò verso Terence che alzo una mano svogliatamente per salutarlo.

Robert raccontò tutta la vicenda al ragazzo e spiegò tutto il ragionamento che lo aveva condotto in quel posto seguendo gli indizi della salamandra. Poi chiese il suo parere.

- Mi sembra che il ragionamento non faccia una piega - con-cluse in un perfetto inglese il giovane.

- La teoria dell’oltretomba mi sembra la più plausibile. - Con-tinuò.

- Sta di fatto che non possiamo girare per tutti i cimiteri, o meglio, non mi sembra che ci siano particolari collegamenti che conducano ad uno in particolare. - Robert era rinfrancato dalle conferme dell’unica fonte che aveva a disposizione ma notava che egli non gli stava dicendo molto più di quanto già non aves-se rilevato.

Aris sfilò il suo MacBook dallo zaino e digitò alcune frasi sui campi di ricerca.

- Ecco qua. - Sembrava avesse trovato qualcosa ma Robert non poteva seguirlo perché le pagine aperte erano tutte con i caratteri grechi.

- Stando a come mi ha descritto il profilo del vostro nemico - Aris utilizzava una terminologia idonea, degna di Scotland Yard, mostrando una calma inossidabile - i parallelismi con il mondo latino sono il principio attivo che favorisce la conclu-sione del tassello precedente. - Robert aggrottò le ciglia, visiva-mente spaesato e, sorpreso da tanta perspicacia le inarcò, mera-vigliato, lasciando che continuasse.

- Mi spiego meglio - sorrise Aris - Ade, per la mitologia greca è padrone dell’oltretomba ma anche il regno degli inferi stesso.

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Nella mitologia latina l’alter ego di Ade è Plutone e in pratica svolgono la stessa funzione ma in luoghi diversi. Il luogo corri-spondente in Italia si trova a Cuma vicino Pozzuoli, il lago di Averno. Per i latini il luogo di accesso agli inferi era dunque questo lago. Avernus deriva dal latino avis la cui traduzione eti-mologica è “senza uccelli” per via del fatto che per le esalazioni sulfuree tutti gli uccelli che volavano sopra di esso morivano. - Aris bevve un sorso d’acqua e sorrise.

Robert rimase perplesso e preoccupato. - Mi stai dicendo che dovremo essere in Italia anziché in

Grecia? - Ah ah ah ah - esplose il giovane, poi ritrovando il solito a-

plomb si scusò. - Perdonatemi, manca la conclusione. - riprese. - Tutti i suoi calcoli, quelli che vi hanno condotto qua sono

ineccepibili, e li condivido, ma la conclusione a cui siete arrivato è sbagliata, quella del cimitero. Oltretomba nella letteratura è raffigurato come un mondo sotterraneo. - Robert seguiva con attenzione.

- Poco distante da qua - sì alzò per prendere un depliant - ci sono le cave di Dyros, uniche in tutto il pianeta sono considera-te uno dei luoghi più affascinanti del Peloponneso, per caratte-ristiche e per la singolarità di essere di origine lacustre.

- Per cui il collegamento tra il lago Averno e il lago che ha scavato le grotte di Dyros migliaia di anni fa. - Concluse Robert che stava leggendo il depliant che descriveva come fossero tra le più suggestive e impressionanti al mondo, luogo in cui sono stati anche ritrovati i giacimenti fossili più grandi d’Europa.

- Elementare Robert! - Aris sempre più eccitato per essere stato all’altezza del ruolo ridendo mostrava l’apparecchio

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sull’arcata dentale superiore canzonando il suo interlocutore in un eccesso di confidenza che adesso poteva permettersi. Robert fu preso dalla tentazione di parlargli dei suoi contatti nella Cia e di come avrebbe potuto fargli conoscere alcune persone ma in-crociò lo sguardo protettivo e severo della madre che comincia-va a manifestare una certa insofferenza per ciò che non capiva e per ciò che poteva immaginare. Le madri hanno sempre ragio-ne.

- Si è fatto tardi, le grotte adesso sono chiuse, aprono doma-ni mattina al pubblico, potete alloggiare qua, sopra ci sono delle camere libere.

- Non so come ringraziarti Aris. - Portami con voi e lasciatemi la salamandra come regalo. - I tuoi genitori non ne saranno entusiasti. - Dyros si trova dall’altra parte della costiera ed è vicino alla

mia scuola, ci vediamo all’ingresso verso mezzogiorno. - Una guida ci può essere utile, d’accordo. Robert era preoccupato. Non perché quella spedizione rap-

presentasse qualche pericolo, quanto perché tutto da troppo difficile stava diventando fin troppo semplice. O almeno così gli sembrava.

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Capitolo settimo Le dita di Calcidica

Il percorso che da Kamares arrivava fino a Pyrgos Dirou era

lungo all’incirca una trentina di chilometri. La strada non era perfetta ma agevole. Aris era già partito con l’autobus delle 7 e 30 mentre Robert e Terence si avviarono che erano da poco passate le 10. Pochi nuvoloni alti sparsi in cielo erano lo sfuma-to ricordo del passaggio del violento nubifragio della notte tra-scorsa. Il sole brillava con tutta la sua energia.

Intanto, da poco atterrato all’aeroporto di Fiumicino e diret-

to nel luogo più estremo dell’Italia peninsulare, l’individuo con la tuta mimetica aveva appena iniziato il suo viaggio in treno.

“Ci siamo quasi Terence, accosta fammi leggere quel cartel-

lo.” Era scritto in greco. Πύργος Διρού si traduceva con Pyrgos

Dirou. Svoltarono a destra. Lungo il sentiero in discesa in dire-zione Diros trovarono un altro cartello che riportava la scritta in maiuscolo DYROS CAVERNS e più in basso alcune infor-mazioni turistiche con un semplice schema che specificava il luogo dove parcheggiare sormontate da una frase scritta in gre-co. Scesero dall’auto, il vento forte scuoteva il pannello facen-dolo vibrare. Robert fu rapito dall’intensità del blu che lo cir-condava. Il mare mediterraneo, il mare in mezzo alla terra.

“Eccoti nella patria di Odisseo, straniero!” I due sobbalzarono.

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“Da dove scappi fuori?” - chiese sorprendendosi Robert - “Non ti ho neanche visto arrivare!”

“Avevo il vento a mio favore” - replicò dietro l’apparecchio per i denti Aris.

“Sapevo che sareste arrivati fino a qua.” “Quella frase..” “Eccoti nella patria di Odisseo, Oh straniero?” “Sì, esattamente.. Stavi leggendo sul cartello, non è vero?” Robert si volse e Aris si avvicinò mettendosi di fronte al

pannello posizionandosi in mezzo ai due. “Poi cosa c’è scritto?” - Aggiunse Terence. “Nulla di così importante.” - Intervenne Aris con sufficienza

ma consapevole della sua importanza e della sua cultura. “..qui la natura detta le sue leggi all’uomo, che soccombe di

fronte alla propria grandezza e forza e diventa timido spettatore ed audace esploratore delle sue manifestazioni materiali.”

“Tutto qui?” - allargò le braccia spazientito Terence. Il ragaz-zo annuì.

“E’ solo un semplice cartello, Terence, messo lì apposta per i turisti, o volevi davvero già risolvere il mistero prima di arrivare alle grotte?” - lo riprese un po’ seccamente Robert, che intanto stava fiutando il pericolo. La sua voglia di scherzare era im-provvisamente scomparsa e Terence, che un po’ lo conosceva, poteva leggergli tutta la concentrazione in volto. Anche Aris capì al volo che non era più il momento di giocare e che la fac-cenda stava diventando sempre più delicata. Erano vicini alla meta. Non erano più permesse distrazioni o cali di attenzione. Si incamminarono a piedi.

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“Le grotte sono state scoperte circa quarant’anni fa e si tro-vano all’interno di quella montagna, vicino al mare.” - Aris li anticipava di qualche metro e camminando faceva sobbalzare il suo zainetto dietro il quale ogni tanto si girava a guardare i due inseguitori attenti ad ogni sua singola sillaba.

“C’è un complesso di corridoi e cunicoli che si estende per 1500 metri visitabile con delle semplici imbarcazioni accompa-gnati dalle guide turistiche. E questa è la parte superficiale.”

“Parte superficiale?” - Chiese Robert. “Sì, la parte più interessante in realtà è in profondità.” “Servono particolari permessi per le immersioni?” “Chiunque potrebbe, o meglio, chiunque dichiari di essere

uno speleologo.” - Aris strizzò l’occhio a Robert che aggiunse - “E che consegni una banconota da 500 euro magari.” - Aris confermò con una risatina.

“Quanto meno per giustificare il noleggio dell’attrezzatura da sub.” - intervenne rapidamente lo studente.

“Vedete, - continuò - ci sono quattro livelli: uno a profondità comprese tra 0 e 10 metri, uno tra 10 e 25, uno tra 25 e 60 me-tri e infine c’è un ultimo pozzo verticale che scende fino a quasi 100 metri.”

Robert impallidì. Se era già visto tutta la scena e non c’erano dubbi per dove si trovasse l’indizio. La cosa che lo terrorizzava però era la collocazione stessa. Robert aveva la fobia del mare e dell’acqua. Un terribile ricordo d’infanzia mai rimosso ne’ supe-rato. Fu tentato a cercare altre possibili soluzioni mentre un vortice di brividi gli percorreva lungo la schiena. Ruprecht co-nosceva il suo limite. Avrebbe volutamente collocato l’indizio rischiando che poi non venisse recuperato? Eppure Robert a-

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vrebbe pagato profumatamente chiunque per scendere al suo posto. E se poi, invece, la persona che avesse ingaggiato non si fosse preoccupata di cercare con meticolosa attenzione a quelle profondità? Come poteva essere sicuro, avere la certezza che qualcun altro al suo posto si sarebbe adoperato per cercare in-dizi che potevano sfuggire anche a lui stesso? Nessuno avrebbe rischiato la vita neanche per tutto l’oro del mondo. Nessuno, tranne Terence.

“Come sarebbe a dire Terence?” - Sbottò Robert. “Alle elementari ho vinto la gara di nuoto durante le vacanze

estive.” “Terence, non scherziamo, qua si tratta di scendere ad un

profondità almeno di 80 metri, ci vogliono anni di addestra-mento!” - lo redarguì.

“Posso farcela..” “Non se ne parla neanche, mi servi vivo..” “Scusate..” - arrivò Aris con il responsabile del noleggio delle

attrezzature subacquee. “Lasciaci un momento da soli..” - Lo ammonì Robert. “Senor..” “Terence! Morirai..” - gli urlò. “Non ci sono alternative, Senor..” - Robert abbassò il capo. Robert si morse il labbro inferiore. Poi dopo numerosi ten-

tennamenti fu costretto a sborsare oltre la cifra stabilita per guadagnarsi la complicità del negoziante che era anche un vete-rano istruttore subacqueo che non si faceva grossi scrupoli per sbarcare il lunario.

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Andarono al deposito delle tute da immersione. Appese c’erano decine di tute, alcune piuttosto malconce, e poi guanti, calzari, bombole e ogni genere di accessorio.

“Se il suo amico vuole scendere a quella profondità, gli serve una muta semistagna..” - sputò sul pavimento - “spessa almeno 7 millimetri..” - sputò pezzetti di tabacco, spense il sigaro e lo ripose in tasca non curandosi dei frammenti dello stesso che gli erano rimasti appiccicati alle labbra. Non erano neanche le do-dici quella mattina e quel tipo sembrava già sbronzo.

“Anzi diciamo, una muta stagna..” - nonostante le apparenze quel vecchio sapeva il fatto suo. Si arrampicò su una vecchia scala e tirò a terra una scatola impolverata. “Ecco qua - tossì a-prendola - la mia vecchia muta da immersione profonda, ci so-no anche i calzari e i guanti. Dovrai stringere un po’ la pancia..”

Si adagiò su un divano vicino l’ingresso e invitò tutti a seder-si. Prese alcuni oggetti sul tavolinetto di fronte a se usandoli come esempi di sub fluttuanti in un immaginario mondo sot-tomarino che poteva capire soltanto lui.

“Man mano che scendi in profondità nel mare la temperatura scende. In quel posto dove ti stai ficcando le temperature sono ancora più estreme e rigide.” - fece una pausa e si accertò che tutti lo stessero seguendo.

“Avremo bisogno di una zavorra, che ci permetta anche una facile risalita..” - Si alzò per frugare dentro il ripostiglio poi si mise seduto.

“Se permette, bisogna calibrare con accuratezza ogni partico-lare.. non deve accadergli nulla, intesi?” - Robert lo scrutò in modo che non lasciava fraintendimenti e il vecchio che parlava

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un decente inglese gli rispose solo - “Accuratezza?” - Aris in-tervenne per la traduzione.

“Ah, ok!” - pronunciò una lunga serie di “ok” poi si accese il sigaro. Ricominciò a parlare dietro una nuvola di fumo.

“Immersione profonda!” - Sentenziò con fare solenne. “Tra tutte le immersioni, quelle che si avvicinano ai 100 me-

tri devono sempre essere supportate dalla superficie.” “Adesso veniamo al primo problema: come calibrare le

bombole.” “Il consumo del gas a 80 metri è dodici volte superiore a

quello che avviene quando stiamo in superficie; escludendo quando sto fumando il mio sigaro.” - Tossì dentro una impre-cazione uscendone con una sguaiata risata.

“Adesso statemi tutti molto attenti..” - Tornò serio. “Il vostro amico dovrà seguire alla lettera le istruzioni che gli

spiegherò fino a che non me le avrà ripetute come uno scolaret-to riguardo le tappe di decompressione. Ad esempio, se un sub scendesse a 40 metri senza estendere le soste prudenziali avreb-be non più di 10 minuti a disposizione. Ad esempio per una permanenza di 40 minuti a 30 metri è necessaria una sosta di 3 minuti a 15 metri. Quindi che non si azzardi a risalire immedia-tamente qualunque cosa gli capiti la sotto perché rischia un ma-lessere da decompressione e ce lo ritroviamo cadavere.” - Notò che tutti, Terence incluso, lo stavano ascoltando con la massima attenzione.

“Bisogna programmare accuratamente l’immersione e prepa-rare riserve d’aria tali da poter fare tutte le fermate per poter ri-salire in sicurezza.” - Cercò di intervenire Robert.

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“Esattamente..” - lo guardò di traverso l’istruttore che diede una intensa boccata.

“Ad ogni modo, il vostro amico non potrà rimanere su un fondale così estremo per l’eternità, dovrà anzi affrettarsi sapen-do che la risalita non può superare i dieci metri al minuto..”

Il vecchio si portò Terence nel suo ufficio per spiegarli tutto daccapo e assicurarsi che seguisse tutto alla perfezione, Robert stava valutando l’ipotesi di scendere al suo posto. Ma sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta. Nuotare era il suo grande limite.

Passarono almeno un paio d’ore poi la porta dell’ufficio si aprì. Terence, stretto nella muta in neoprene, aveva la testa infi-lata in un elmo da palombaro; prudentemente rimediato in e-xtremis dal sempre più saggio istruttore. Vedeva, più che senti-va, le sillabe degli ultimi accorgimenti che quel maestro gli im-partiva, da dietro la visiera e come un astronauta di pessima ge-nerazione abbozzava qualche cenno di conferma dentro il casco di vetro, bronzo rame e ottone rinforzato. Robert lo guardò se-riamente preoccupato; dentro quello scafandro sembrava che dovesse imbarcarsi per una missione spaziale.

Lo aiutarono a togliere l’elmo. Si avviarono verso le caverne, introducendosi con una modesta imbarcazione in legno mossa da un 50 cavalli fuoribordo pilotato a mano con l’acceleratore sul manubrio sapientemente dosato dal vecchio istruttore di sub che girava per i cunicoli come se fosse a casa sua. Lo scenario che si apriva ai loro occhi fu stupefacente. Stalattiti e stalagmiti maestose che uscivano dall’acqua e che piovevano dal soffitto. Un percorso di 1400 metri pieno di grotte da esplorare; era si-curamente la grotta europea più ricca di concrezioni, causate dalla corrosione dell’acqua sulla roccia.

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“Stiamo quasi arrivando!” - dichiarò il vecchio al timone. “La circolazione idrica della grotta è molto complessa - ag-

giunse e sputò il mozzicone in acqua - l’acqua è salmastra e probabilmente esistono punti di unione tra il mare e l’interno della montagna. Sono state rinvenute parecchie ossa di animali preistorici..” - Terence udì e deglutì dentro la muta attillata.

“Siamo arrivati..” - disse spegnendo il motore e aiutandosi con una torcia ausiliare.

“Non ti ho detto una cosa ragazzo mio..” - disse a Terence porgendogli l’elmo.

“Cosa?” - replicò Terence gridando e sillabando. “Ragazzo mio.. La conformazione della grotta è formata da

una serie insidiosa di cunicoli e gallerie.. E’ molto facile perdere l’orientamento e la via d’uscita..”

Robert aiutò Terence a mettersi l’elmo da palombaro; lo guardò per l’ultima volta e poi lo vide immergesi e lentamente scomparire tenendosi alla corda che gradualmente l’istruttore misurava calcolando i metri e le tappe stabilite. A poco a poco la corda finì.

“Siamo quasi a 80 metri, circa..” “Come, circa?” - lo guardò di traverso Robert. “Metro più metro meno, ma cosa vi sembra a voi americani

che qui vi basta pagare e trovate tutto?” - Si alterò - “Non ho mica le corde misurate in base ai fondali, io.”

“Ascoltami attentamente astuto pezzo di merda.. Dimmi e-sattamente quanto è lunga questa fune!” - Robert lo prese per il bavero e lo alzò di qualche centimetro oltre la barca - “Oppure ti spedisco io a controllare..” - “FORZA!” - Gridò.

“Una cinquantina..” - sussurrò l’istruttore impaurito.

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“COSA?” - “Stai scherzando? - “Vuoi dire che il mio amico ha almeno altri 30 e passa metri sotto di lui?”

“Ma io speravo che trovasse ciò che cercavate un po’ prima, nessuno è in grado di posizionare niente a quelle profondità..”

“Quell’uomo sta cercando sua moglie.” - “sarebbe disposto a fare qualunque cosa.” - “Anche a segare la corda contro la pare-te.”

Non finì la frase. La corda che era in tensione, improvvisa-mente si allentò.

“Era esattamente ciò che temevo..”. Passarono i minuti. Il vecchio tirò a sé tutta la corda e videro che era spezzata. Robert scoppiò a piangere. Senza la corda per risalire, a quelle profon-dità, con quella scarsa visibilità, Terence era sicuramente rima-sto incastrato da qualche parte. Dopo un po’ emerse anche la torcia, spenta.

“La da quella parte..” - Urlò Aris. “Dove?” - Rispose Robert. “In fondo, dietro quelle rocce..” “Che mi venga un colpo..” “Accendi la torcia svelto..” “Hai sentito anche tu quel rumore..” “No! Dove?” “Passala a me..” - Aris la prese e posizionò il fascio luminoso

nella direzione in cui era appena emerso Terence, poco distante, se ne stava aggrappato ad una stalagmite da cui molto proba-bilmente era risalito chissà da quale scappatoia.

Si avvicinarono per aiutarlo a salire e non notarono il barat-tolo di vetro che gli era scivolato dalle mani e che lentamente

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galleggiava in direzione opposta alla loro. Robert gli levò l’elmo per assicurarsi che stesse bene e appena lo tolse lo sentì gridare - “SALAMANDRA!”. - Buttando un braccio dentro l’acqua.

Robert si guardò intorno, capì subito di cosa stesse parlando. Prese la torcia e vide il barattolo a pochi metri, che rimbalzava tra due stalagmiti; dentro di esso, una salamandra ignara di tutto quanto, balzava tra le pareti di quella che era stata fino a quel momento la sua casa di vetro a cento metri di profondità.

Aris, Robert e Terence cercarono un riparo sicuro. Robert non aprì subito il barattolo. Volle condividere quella circostanza con i suoi amici. La sua stima per Terence era decisamente au-mentata. Se non fosse stato per lui non avrebbero trovato quell’ulteriore indizio.

Entrarono in un bar. Si misero seduti. Si guardarono negli occhi. Occhi in cui traspariva soddisfazione. Robert prese il ba-rattolo e lo mise sul tavolo. Non lo aprì. Al suo interno c’erano solo una salamandra e un dito umano. La salamandra era la stessa dell’ultima volta. Avvicinarono le teste per guardarla da vicino. Lei stessa faceva altrettanto. Robert riconobbe che si trattava dello stesso identico esemplare trovato in Namibia. E aveva una specie di minipergamena arrotolata legata ad una zampa anteriore. Il dito era indiscutibilmente un mignolo di donna riconoscibile seppur in evidente stato di decomposizio-ne.

“Dici sul serio?” - domandò Aris. “Non ho dubbi..” “Sì, Senor, anche per me..” “Questo potrebbe voler dire..”

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“Sì, Aris, Salamandra Werneri. Vuol dire che dovremmo ri-manere sempre in Grecia..”

“Leggiamo che c’è scritto sul quel foglietto..” - consigliò A-ris.

Robert aprì il barattolo, sfilò il bigliettino arrotolato dalla zampa della salamandra e consegnò il trofeo al ragazzo.

Robert teneva il foglietto in mano. “Che c’è scritto?” - chiese Terence. Robert lo gettò in mezzo

sul tavolo e si alzò volgendo loro le spalle. La minuscola per-gamena si arrotolò su se stessa. Terence lesse il contenuto e passò il rotolo ad Aris che poté leggere.

TRAGOS 512

“Ti dice qualcosa?” - domandò Robert, a cui quella sigla non

diceva assolutamente nulla, rivolgendosi ad Aris. “Tràgos, sì ma con l’accento, in greco vuol dire capro. 512

non so cosa possa essere. Mi dispiace..” - il ragazzo alzò le spal-le sconsolato.

“Una salamandra, un dito mignolo, un capro e la cifra 512..” - Robert fece leva su tutta la sua capacità elaborativa. Serrò le mascelle e guardò Terence che gli restituì due occhi pieni di perplessità. La stessa, più o meno fu la reazione di Aris mentre con fare interrogativo Robert si rivolgeva anche a lui. Ma poi intervenne.

“Al termine tràgos, mi pare di ricordare, ma potrei sbagliarmi, è attribuita la misteriosa origine dalla parola greca tragedia, che sarebbe appunto l’unione tra tràgos = capro con oidè = canto,

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letteralmente canto per il capro ma non vorrei dilungarmi troppo su cose poco utili..”

“Dilungati..” - lo pregò Robert. “Le origini della tragedia greca risalgono a 2500 anni fa

quando contrariamente a ciò che divenne in seguito ad Atene essa rappresentava una vera festa, con tanto di danze e canti, in onore di Dioniso, per cui si organizzavano delle vere gare cano-re in cui il vincitore veniva premiato con un capro.”

“Tragedia 512..” - rifletté Robert. “512 potrebbe essere l’anno, oppure l’abbreviazione per

1512..” “Potrebbe - rilevò Robert - ma anche così a me non risulta

niente..” “Analizziamo gli elementi - proseguì - una salamandra Wer-

neri dovrebbe indicarci che il luogo di ricerca rimane sempre il suolo greco, il mignolo non lo sappiamo, a meno che non com-baci con un tratto di costa sempre qua nel Peloponneso che sia in relazione con un fatto tragico accaduto nell’anno 512 oppure nel 1512..”

Aris accese il potente MacBook e digitò la parola TRAGOS 512 sul motore di ricerca.

“Non ti da niente, vero?” - constatò Robert che già sapeva che Ruprecht non gli avrebbe reso neanche quella ricerca così semplice.

“No purtroppo..” confermò Aris. “Dobbiamo calarci nel ragionamento di Ruprecht..” - disse

Robert - “guardiamo la cartina della Grecia..” - Aris avviò il programma Google Earth.

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“Abbiamo a che fare con un uomo per cui i contorni geogra-fici hanno un nesso con le configurazioni umane e in questo ca-so con gli arti..” - Robert ed Aris scrutarono il perimetro di ogni isola, di ogni regione facendoli ruotare e cercando di interpreta-re tratti che avessero sembianze di mano o di dita, di capro o di chissà quale astratta figura potesse aver condizionato Ruprecht.

“Che mi venga un colpo!” - esclamò Robert catturando l’attenzione di Terence che si avvicinò al monitor.

“Aris ingrandisci quell’area..” “E’ la regione della Calcidica!” - rispose Aris sosprendendosi

con sé stesso - “Come ho fatto a non arrivarci prima quelle propaggini vengono definite le dita di Calcidica per via della loro conformazione..”

“Le dita di Calcidica!” - lo interruppe Robert che crollò come esausto sulle sue ginocchia.

“Già, scusate, ma a me non era affatto venuto in mente..” “Non preoccuparti, Aris, ti stai rendendo molto utile inve-

ce..” Robert rimase a fissare la sagoma di quella regione e osservò

con che precisione sbalorditiva Ruprecht aveva organizzato tut-to: escludendo il mignolo appena recuperato rimanevano esat-tamente tre dita a seguito del ritrovamento dell’anulare in casa di Terence e del medio in Namibia. Il risultato macabro di quell’immagine residua era una mano trasfigurata con tre dita in cui l’ultimo pezzo, il mignolo rappresentava combaciando, l’area per il successivo indizio.

“Una mano con tre dita. Se il mignolo è l’indizio che ci in-troduce al recupero del seguente dito, ed essendo la mano con le amputazioni la sinistra per via della fede nuziale sul dito anu-

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lare, vuol dire che delle tre dita di calcidica l’area corrispondente è quella più ad est..”

“le tre dita della calcidica da sinistra verso destra si chiamano Cassandra, Sitonia e quella più ad est è Agion Oros meglio co-nosciuta come la penisola sacra del Monte Athos..”

“Monte Athos..” “..la repubblica monastica del Monte Athos..” “Monastica?” “sì, è un territorio abitato esclusivamente da monaci orto-

dossi, 1500 per la precisione e per tradizione è vietato l’ingresso alle donne..”

“..il soggetto soffre di una grave forma di eurotofobia..” - rifletté Ro-bert guardando verso Terence che subito ricordò le parole di Philip.

“Ruprecht soffre di una particolare avversione per le don-ne..” - rispose poi ad Aris che adesso capiva il ragionamento.

“..è una patologia, sembra che ci sia di mezzo l’infanzia di Ruprecht, gli abusi subiti, la costante concezione che il sesso sia un atto sporco, la colpevolizzazione della figura materna perpe-trata dal suo genitore adottivo, da cui l’identificazione delle sue origini e la similitudine con il lago da cui prende origine il fiume da cui fu recuperato dopo l’abbandono dei genitori, lago a for-ma di salamandra, stando ai deliri riportati in questo suo taccui-no.” - Robert fece scivolare il block note verso Aris che prese a sfogliarlo.

“Bene..” - osservò Robert dissetandosi e distogliendo Aris dalla lettura degli appunti di Ruprecht - “..cos’altro sappiamo di questo Monte Athos?” - disse sfoderando un insolito sorriso.

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“Ci sono decine e decine di pagine che parlano di questo ar-gomento, molti collegamenti storici.. vediamo.. alcune informa-zioni turistiche o per meglio dire logistiche, dato che per acce-dervi c’è bisogno di uno speciale permesso che viene rilasciato almeno due mesi prima del ricevimento.. dice che c’è un tra-ghetto che parte tutti i giorni da Uranopoli e fa scalo a Dafni, unico centro abitato insieme a Karyes, il capoluogo, dove stan-no gli alloggi dei vari monasteri, la tesoreria, le poste, la farma-cia, un ospedale..”

“..notizie su Karyes?” - chiese Robert accostandosi al moni-tor.

“..vediamo, è stata costruita nel 1800 su una collina e oggi conta 238 abitanti, fu il rifugio dei pochi monaci sopravvissuti quando nel 1238 i Crociati su autorizzazione dell’Imperatore Bizantino devastarono il Monte Athos, i monaci morti durante quell’invasione sono commemorati come martiri della chiesa ortodossa il 18 dicembre..”

“..il 18 dicembre del calendario Giuliano..” - dedusse Robert. “..sì..” - Confermò Aris - “..il 18 dicembre del calendario

Giuliano.. corrisponde.. vediamo.. ecco al 5 dicembre del calen-dario Gregoriano..”

“5, 12” - chiarì Robert. - “5 dicembre 1238, 512 indica la data di una tragedia accaduta nel 1238.”

“..non solo..” - continuò Aris - “..leggi qua..” “Che mi venga un colpo!” “.. a Karyes è conservato il Tragos, antico rotolo di pergamena redatto

dagli Igumeni che sancisce l’indipendenza perpetua del Monte Athos..” “..TRAGOS 512..”

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“l’indizio ha una duplice valenza, ha un valore semantico se abbinato alla data e quindi restituisce il luogo esatto ma rappre-senta anche l’oggetto in sé..”

“..una pergamena..” - constatò Robert. “Una pergamena conservata in un luogo sacro, inaccessibi-

le..” “inaccessibile? Come ha fatto Ruprecht..” “..non so, i visitatori sono ospitati dai vari monasteri, per

questo l’autorizzazione può richiedere molti mesi.. per entrare è necessario un particolare permesso di soggiorno, il Dhiamoniti-rion, la seleziona avviene in maniera molto accurata e la perma-nenza non può essere superiore ai 4 giorni..”

“..non c’è altra via per accedere all’isola?” - domandò Teren-ce.

“..alla penisola, vorresti dire, anche se in passato Serse fece costruire un passaggio, un canale per evitare la circumnaviga-zione che la rese per qualche anno una vera isola.. durante l’inverno sì c’è solo un battello che va a Dafni..”

“..e se fossimo in estate?” - lo anticipò Robert. “..una piccola imbarcazione effettua collegamenti tra il porto

di Ierissos con la costa in cui si trovano i vari monasteri della parte est, viaggia solo in condizioni di mare calmo e a quanto riportato qua soltanto nella stagione estiva..”

“Ecco come ha fatto Ruprecht..” - suggerì Terence a Robert che annuiva.

“Mettiamo qualcosa in pancia e poi mettiamoci in viaggio..” - disse Robert - “Aris.. ti siamo immensamente grati..”

“Non c’è di che, è stato un piacere conoscervi, spero di ri-sentirvi presto..”

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“Quando tutta questa brutta storia sarà finita..” - gli rispose e avrebbe voluto aggiungere “se sarà finita” ma per Terence quel-la ipotesi, per quanto plausibile, sarebbe stata un colpo troppo duro. Egli nutriva ancora la speranza ma Robert intuiva che il mostro che aveva rapito sua moglie sarebbe andato molto oltre la sua tragica scomparsa ed eventuale recupero. La povera don-na altro non era che un’esca con cui Ruprecht in realtà voleva attirare a sé solo Robert.

Fecero ritorno a Kamares e accolsero l’invito per passare la

notte nella stanza allestita per gli ospiti nella trattoria dei genito-ri di Aris. Il mattino seguente lasciarono il Peloponneso alla volta di Atene e poi proseguirono il lunghissimo viaggio fino a Ierissos attraversando tutta la Grecia peninsulare per un tratto di oltre 800 chilometri quasi senza soste alternandosi alla guida. Arrivarono in Macedonia sul fare della sera ed entrarono a Ie-rissos che era notte fonda quando scelsero un alloggio disponi-bile vicino al porto.

“Ahhhh finalmente una bella giornata, affacciati alla finestra

Terence!” - Robert si stiracchiò e continuò lo sbadiglio entran-do nel bagno. Terence si stropicciò gli occhi e prese gradual-mente contatto con la realtà. Il sogno che lo aveva accompa-gnato per tutta la notte in cui era presente sua moglie adesso gli restituiva l’amara realtà. Si alzò avvertendo un forte bisogno di bere. Aprì il frigo bar. Niente. Appoggiò il viso alla finestra. Una lingua di mare circondata da una barriera artificiale costi-tuiva il porticciolo; un paio di moli completava quella rudimen-

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tale costruzione, decine di barche sparse, per lo più pescherecci dai colori sbiaditi.

Quando Robert aprì la porta del bagno uscendo da una nu-

vola di vapore Terence non era più nella stanza. Si affacciò alla finestra guardando in diverse direzioni finché non lo vide in lontananza oltre le banchine. Camminava con le mani in tasca. Ondeggiava leggermente e teneva il volto fisso a terra. Lo vide allontanarsi finché non scomparve dietro una barca. Robert eb-be una strana sensazione. Si vestì, prese le sue cose, saldò il conto e corse a cercarlo. Controllò subito dietro la barca. Nes-suna traccia di essere umano. Si guardò intorno. Quel posto sembrava abbandonato a sé stesso più che malridotto. I locali che si affacciavano sul lungomare erano tutti chiusi ma le deco-razioni e lo stato delle vetrine facevano capire che tutto era pronto ad entrare in scena per la calda stagione. Finalmente passò un furgone. Il conducente marciava a velocità spedita tant’è che senza troppi indugi e dosando poco il freno sparì in-trufolandosi in un viottolo trasversale che dava verso il centro della città. Decise di seguirlo, se non altro qualcuno andava da qualche parte e forse da quella parte molto probabilmente c’era dell’altra gente.

La piazza di quella cittadina aveva una grande fontana al cen-

tro, case vecchie dai muri scrostati facevano da perimetro. Dalle poche finestre rimaste aperte si affacciavano in perlustrazione teste canute di anziani, unici abitanti, la cui attenzione era stata attirata dal camioncino. Un uomo calvo scese dal mezzo e spa-lancò il portellone laterale in prossimità di un negozio che aveva

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tutte le sembianze di un’alimentari adibito a trattoria. Robert capì all’istante dove si trovasse Terence.

“Euphemia!” - esclamò l’autista vedendo arrivare una donna. Euphemia, appunto, era appena uscita e rispose con un sor-

riso che valeva un’esclamazione. L’uomo faceva avanti e indie-tro nel locale trasportando la merce con lei che lo seguiva chiacchierando poi entrambi si abbandonarono in una conver-sazione che andava dal governo ai prodotti, dai prezzi del car-burante alla stagione passata che era andata peggio della prece-dente finché non si congedarono tra qualche risata e le firme sulle bolle. Euphemia diede un’occhiataccia alle imposte dietro cui scomparivano ad una ad una le facce dei vecchietti quando vide Robert avvicinarsi. Rivolse anche a lui uno sguardo ostile. “Oggi è il giorno degli stranieri!”

“A quanto pare..” - rispose garbatamente Robert abbassando lo sguardo e attutendo il più possibile ogni accenno di possibile sarcasmo poiché era chiaro che alla donna non andasse partico-larmente a genio nessuno. Guardò dentro e vide Terence. “Ha già fatto conoscenza con il mio amico..” - abbozzò un sorriso a quella donna che sembrava non nutrire particolare interesse neppure per i clienti.

Lei si scostò il ciuffo di capelli rossicci dalla fronte prece-dendo Robert che la seguì sedendosi vicino a Terence. Il suo corpo era esile ma atletico, era alta e dalle forme proporzionate. Aveva un seno sviluppato che sporgeva prepotentemente sul grembiule bianco su cui era ricamata una scritta greca identica a quella che identificava quella taverna.

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“Cosa vi porto?” - Terence elencò tutto ciò che il suo stoma-co reclamava aiutandosi con le illustrazioni riportate sul menù.

“Per me un caffè americano” - “Se, c’è..” - aggiunse Robert. La donna lo guardò manifestando una certa irritazione. I suoi

occhi verdi sembravano quelli di una tigre a cui era stato sot-tratto il cibo. Le sue labbra non troppo carnose si tesero. Sem-brava scoppiare da un momento all’altro. “Ok quello della casa andrà benissimo” - cercò di smorzare il clima. Non capiva cosa avesse quella donna che doveva avere pochi anni meno di lui.

Consumarono la colazione mentre la donna riponeva la mer-ce negli scaffali nel retro bottega lasciandoli soli. Robert guar-dava Terence che divorava le fette di torta più per allentare la tensione emotiva che per una vera fame. La stanchezza comin-ciava a farsi sentire. Lo stress accumulato doveva fare i conti con la necessità di affrontare una missione di li a poco. Una missione che aveva scarse possibilità di riuscita. Questo, riflet-teva Robert, doveva ammetterlo anche lui.

La donna fece ritorno al bancone sedendosi dietro la cassa, accese la televisione che trasmetteva il notiziario. Robert vide dietro di lei diverse fotografie che la ritraevano in compagnia di un giovane. In tutte erano sorridenti. Si immaginò che fosse il suo uomo e che il suo comportamento ostile fosse la logica conseguenza del fatto che egli fosse scomparso oppure decedu-to. In tutte lei appariva di qualche anno più giovane quindi la cosa non era molto recente. Il fatto poteva risalire anche a una decina d’anni ma si sa che le donne conservano un dolore più a lungo. Oppure il broncio di quella donna era dovuto a diversis-sime cause che comunque poco avevano a che vedere con le ra-

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gioni per cui loro erano finiti in quel posto. Per cui smise di preoccuparsene.

“Ho controllato al porto, Senor..” “Sì, ho visto anche io.” “Non ci sono barche, i collegamenti sono attivi da Maggio..” “Gli abitanti di questa città hanno lasciato questo posto, è un

paese che vive di turismo, probabilmente sono rimasti solo gli anziani e la ragazza..” - Robert notò che la donna li stava ascol-tando perché aveva abbassato, anche se di pochissimo, il volu-me della televisione.

“Io non so guidare una barca, anche perché dovremmo ru-barla e poi come facciamo ad arrivare al Monte Athos?”

“Chiederemo in giro Terence non disperare, vedrai che qual-cuno lo troveremo..” - “Anzi..” - aggiunse scolando il caffè - “muoviamoci!” - Dopodiché si alzarono, pagarono e si allonta-narono.

I due si avviarono verso il porto. Terence camminando con-

sultava con una certa attenzione la cartina delle tratte in cui in

estate le barche da turismo facevano il loro quotidiano andiri-

vieni. Per questo era rimasto un po' indietro mentre Robert era

quasi arrivato alla banchina dove stavano ormeggiate alcune

imbarcazioni che si muovevano oscillando sospinte da una

brezza leggera ma costante. Nonostante ciò la scena si presen-

tava a qualunque osservatore come un teatro spento; come se

tutto, cioè, perfettamente impacchettato, fosse rimasto li per

entrare da li a poco in scena. Robert sopraggiunse e voltandosi

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scorse con la coda dell'occhio Terence. Rimase qualche istante a

guardare il vicolo dacché era passato Terence come figurandosi

qualcosa che sarebbe accaduto. Infatti vide la sagoma di un

corpo che a piccoli passi, ma rapidi, si era accostata sotto il car-

tellone di un negozio di articoli nautici. Dalla chioma rossastra

agitata dal vento riconobbe la donna dell'alimentare. Lei gli fece

un cenno con il braccio e lui le andò incontro.

"Si è dimenticata di darci lo scontrino?" - fece lui mostrando-

le un cordiale sorriso.

Lei non rispose ma ricambiò abbassando lo sguardo un po'

imbarazzata. Poi accese una sigaretta e dopo un po' trovò la

forza per dire ciò che avrebbe voluto dire facendosi subito seria

in volto, recuperando d'un tratto tutta quella energia, o po-

tremmo meglio dire, quella ferocia che comunicava con lo

sguardo.

"Vi ho ascoltato prima mentre parlavate" - disse e i suoi oc-

chi si accesero di un verde più vivace.

"È vero che state andando sul monte Athos?" - domando

poi senza troppi giri di parole la donna. Alla risposta affermati-

va di Robert e al susseguente ampio racconto che egli le fece, a

cui la donna pareva perfettamente concentrata, ella proseguì di-

cendo : "Anche io ho qualcosa di molto importante riguardo al

posto in cui volete andare."

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"Quell'uomo nelle foto, quelle in cui sorridete, è vostro mari-

to, oppure vostro fratello?"

"Mio fratello, Gerardo." - Fece lei appoggiando con vigore

le spalle alla vetrata del negozio, tanto la cosa sembrava bruciar-

le, che per l'urto Robert, assorto più per il fatto di come fosse

per una bussola che loro si trovassero lì, vide infatti ondeggiare

di qualche grado le quattro bussole esposte in vetrina.

"Gerard e io crescemmo insieme, dopo la morte dei nostri

genitori avvenuta per mano di un rapinatore mentre eravamo in

vacanza all'isola di Cipro. Lui aveva circa dieci anni e io solo

cinque. Ci stabilimmo presso la casa dei nostri nonni paterni

che ci educarono sotto rigorosa disciplina ortodossa. Il che vo-

leva dire continue punizioni durante le quali il più delle volte

Gerard faceva il possibile per fare in modo che a me quelle tor-

ture ed espiazioni venissero risparmiate. Lui si adattava al me-

glio a quel regime mentre io ne fui da sempre ribelle." - così

proruppe veementemente senza accorgersi che stringeva i pu-

gni. Distolse poi lo sguardo dal pavimento come vi leggesse la

trama di quel passato alla guisa di chi si desta dal sogno ponen-

do di riflesso quegli occhi vitrei verso Robert che la ascoltava

con una partecipata comprensione. Poi proseguì. "A distanza di

due anni tra loro morirono uno dopo l'altra anche i nostri non-

ni. All'epoca Gerard era quasi maggiorenne. Contro la sua vo-

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lontà, seguendo le istruzioni dei nostri affidatari, fu condotto in

un convento all'isola, separandosi da me che in invece tramite le

istituzioni fui spedita presso l'orfanotrofio femminile ad Atene."

- mentre parlava una lacrima le attraversò lentamente lo zigomo

trascinandosi dietro una sottile riga del rimmel. Subito un'altra

crollò sulla precedente accelerandone la discesa oltre la guancia

e prima che quel rivolo arrivasse alla mandibola e declinasse alla

mascella, ella confondendosi con il dolore, scoppiò in un sin-

ghiozzo che esplose in un pianto. Robert si sentì divorare l'ani-

ma. Terence che si era avvicinato e ascoltava appoggiato alla ba-

laustra vacillò percependo molto bene quel dolore per la perdi-

ta, o quantomeno per la distanza, poiché così atrocemente vici-

no al suo che questo lo coglieva così nel vivo che pareva vi par-

tecipasse direttamente.

"Più mai arrivarono notizie. Per quanto scrissi, supplicai. Le

mie lettere avevano come destinatari tutti i monasteri. Alcuno

mi rispose. Cercai la fuga. Mi scoprirono. Dopo diversi tentativi

mi minacciarono di mettermi in carcere minorile, cosa che fece-

ro quando mi sorprese la polizia senza scarpe e documenti

mentre elemosinavo le risorse necessarie per ritornare a casa.

Vagabondaggio fu l'accusa. Dopo pochi mesi mi rilasciarono.

Ero diventata maggiorenne. Arrivai qua dove presi in gestione il

negozio di mio nonno che faceva il pescivendolo. Siccome della

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pesca non ne sapevo niente mentre negli istituti dove ero stata

avevo partecipato sempre con interesse ai corsi di cucina, aprii

una tavola calda con annesso negozio di alimentari. Gli affari

andarono bene grazie anche all'afflusso dei turisti. Il che mi

permetteva lunghi periodi di ferie durante i quali escogitavo un

modo per entrare nell'isola vietata alle donne. Quella del camuf-

famento non si rivelò una grande trovata. Nonostante ottenni

documenti falsi tramite i quali ebbi dopo qualche settimana il

permesso di accesso limitato. Il mio travestimento non durò a

lungo. Speravo che mi mettessero in qualche loro prigione,

all'interno dell'isola, di modo che avrei avuto la possibilità di in-

formarmi, supplicando, che qualcuno mi desse notizia di mio

fratello. Purtroppo mi spedirono indietro e di ritornare la non ci

fu mai verso. Assoldai delle persone amiche ma queste non tro-

varono nessun abate Gerard o qualche individuo che potesse

corrispondere alla descrizione approssimativa, per come lo ri-

cordavo."

"Si capisce, l'odio e il risentimento che lei debba nutrire per

quell'isola e per ciò che rappresenta." - la interruppe Robert

passandole la mano sulla scapola. Lei fece un cenno di confer-

ma con il capo.

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"Se mi fate entrare con voi" - proclamò con risolutezza a-

sciugandosi le lacrime - "se mi farete entrare" - ripeté con impe-

to ancora più forte - "io posso esservi d'aiuto!"

"E come?" - si intromise Terence meravigliato. Robert lo

guardò poi girandosi verso la donna, come a confermare quella

stessa perplessità, vide il viso di lei accendersi luminescente.

"Ecco come. Una volta entrati, perché voi facciate libera-

mente quel che dovrete fare, dunque, se ho ben capito, cercare

dei documenti, degli indizi, vi servirà un diversivo." Terence fe-

ce un salto avanti e quasi un impercettibile balzo indietro come

finì di ascoltare la frase. Robert rimase immobile ma interessato.

La pregò di proseguire. Ella spiegò di come entrambi loro aves-

sero bisogno di un abito con cui potessero confondersi alla per-

fezione tra quella gente, e lei, certamente, questo poteva facil-

mente recuperarlo. Il piano, o meglio, la sua efficacia e la sua ri-

uscita, dipendeva dalla sua stessa entrata in scena. Avrebbero

preso un cavallo, dato che nell'isola era da sempre il solo mezzo

di trasporto, poi, lei sola avrebbe cavalcato l'animale percorren-

do le vie dell'intero borgo, spogliandosi del suo travestimento e

per accentuare il trambusto, si sarebbe tolta la camicetta e sciolti

i lunghi capelli rossi. Lei avrebbe ottenuto le attenzioni e forse

anche suo fratello l'avrebbe riconosciuta, seppur in quel gesto

disperato. Per loro, Terence e Robert, questo avrebbe garantito

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minuti fondamentali per muoversi tra le stanze del palazzo mo-

nacale. Fu così che andò: i due di camuffarono alla perfezione

con abiti da archimandriti, lei utilizzò una semplice tunica e un

semplice copricapo che le permettesse di disfarsene velocemen-

te nel suo ardito intento di sconvolgere l'intera piazza austera

esponendo agli occhi di quegli uomini devoti tutta la prospero-

sità del suo seno.

Arrivò la notte e montarono su una di quelle barche attracca-

te munite di un motorello entrobordo molto silenzioso. Lei, a-

bituata fin da piccola ad armeggiarne, educata la nonno pescato-

re, lasciò agilmente il porticciolo, deviando un po' a largo di ti-

mone, costeggiando sempre il litorale dell'isola che nel buio e

privo in gran parte di energia elettrica, risultava quasi indistin-

guibile alla vista di una persona che non fosse cresciuta in quei

posti. Navigando ad una velocità modesta raggiunsero il punto

programmato per lo sbarco dopo circa un'ora.

L'isola pareva dormisse, disabitata tanto non si udiva il mi-

nimo rumore e non si scorgeva in quel posto misterioso alcuna

traccia umana benché sparse qua e la piccole abitazioni rudi-

mentali in roccia solcavano le pendici talvolta morbide, talvolta

aspre di quel promontorio famoso per la sua inaccessibilità. In-

fatti per un momento i tre si guardarono, stupiti e consapevoli

della loro impresa e per l'estrema facilità, fin a quel mentre, per

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averla conseguita. Poi, passati alcuni minuti, nonostante la cal-

ma apparente, man mano che proseguivano a piedi, quel luogo

sembrava che li stesse spiando coi sui mille occhi. La costa da

cui proveniva lo scrosciare costante delle onde appariva sempre

più lontano e quasi non se ne udiva più il rumore tanto che

quando Terence deglutì gli sembrò che loro lo avessero ascolta-

to mentre con quel gesto incondizionato il suo corpo manife-

stava indistinguibilmente la sua paura per la pericolosità

dell'impresa.

"Ci siamo quasi!" - esclamò lei. Si scorgevano in lontananza i

bagliori delle lampade che circondavano le mura della città. Po-

co più avanti vi era una fattoria. Perfettamente addormentata

sotto una luna brillante. Robert vide alla sua estremità una vasca

in legno da cui si abbeverano i cavalli e i somari. Perlustrò pas-

sando con lo sguardo un po' più avanti distinguendo, gli parve,

una piccola stalla. Erano cavalli poiché poco distante c'era un

carretto con le imbracature fatte apposta per il loro uso da tra-

sporto merci e passeggeri.

Robert espose il suo piano e di li a poco quel carretto, già ca-

rico di ortaggi dalla sera prima, lasciava la fattoria facendo un

lieve rumore che però, per gente disabituata all'imprevisto del

furto, quel brusio passò inaudito. Probabilmente il fattore stava

comodamente russando e i suoi aiutanti, magari, dormendo

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anch'essi, erano ormai completamente assuefatta da quel ranto-

lo familiare che si propagava per l'abitazione. Così rifletteva

Robert, che scongiurava l'ipotesi di ogni imprevisto, cosa che

fino a quel momento non era accaduto. Attesero insieme l'alba,

momento in cui si sarebbero diretti a destinazione.

Infatti, mentre i due dormivano, Robert aveva approfittato

per fare un primo sopralluogo. Si era sporto sopra le mura, ave-

va percorso un lungo tratto oltre il torrione, si era calato e aveva

appreso dalla disposizione delle tavole in legno che il giorno se-

guente ci sarebbe stato il mercato nella piazza centrale. Li, deci-

se, ci sarebbe stata la scena. Sarebbero entrati confondendosi

con i contadini che arrivavano dalle campagne e nella ressa ge-

nerale, nascosti tra le verdure lui e Terence si sarebbero defilati

camminando e fingendosi assorti in preghiere, con il volto ri-

volto in basso mentre la donna avrebbe montato uno dei due

cavalli liberandolo dalle briglie galoppando, seminuda inseguita

da quei poveri disperati che avrebbero cercato in tutti i modi

per fermare quell'oltraggio peccaminoso.

Il giorno arrivò con un’alba tiepida sfumata in un bagliore

rossastro confuso nella nebbia mattutina. Euphemia aprì gli oc-

chi e scorse Robert in piedi che le sorrideva e la invitava a guar-

dare Terence che supino stava russando. Lei ricambiò con uno

sbadiglio accondiscendente. I tre mangiucchiarono qualcosa dal

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carretto, pomodori, mele. Terence addentò anche una cipolla

che poi sputò dietro una imprecazione. Arrivati ad una trentina

di metri dalla coda che procedeva a passo d’uomo Robert e Te-

rence si misero il cappuccio mentre Euphemia si accasciò na-

scosta da un telo tra le cassette di ortaggi e frutta. Entrarono

dentro le mura della città e mentre tutti erano impegnati ad alle-

stire le bancarelle con meticolosità e silenziosità religiosa. Ro-

bert scese dal carretto e completamente inosservato sciolse deli-

catamente le briglie al cavallo che gli sembrava più prestante.

Diede tre colpi di tosse il cui segnale avvertiva Euphemia che

poteva uscire allo scoperto. La donna scivolò sotto il carretto,

aveva già tolto la camicetta. Rotolò dalla parte dei due che acco-

stati fingevano di sistemare le cassette la cui sagoma ingom-

brante dei loro vestimenti le favorì il passaggio al pari che se

fosse invisibile fino alla sella del cavallo libero. Rapida saltò sul-

la groppa e con un urlo feroce scalciò l’animale che nitrendo sa-

lì impennando appoggiandosi sulle due zampe posteriori scal-

ciando le anteriori come un pugile nella fase di riscaldamento.

Quando gli arti pesantemente ridiscesero al suolo, piombando

con un rumore cupo, una nuvola di polvere si materializzò ad

altezza d’uomo nel raggio di qualche metro. Dietro di essa i vol-

ti dei contadini esterrefatti al pari degli occhi pietrificati dei

primi monaci che si avvicinavano reduci dalle preghiere mattu-

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tine mettevano a fuoco scongiurando, nella foschia polverosa,

ciò che la vista gli presentava. Il volto fiero della donna li domi-

nava dall’alto. Il suo seno nudo dalla forma eccellente favoriva

all’osservatore, qualunque fosse, una visuale perfetta sul roseo

corpo dei capezzoli, inturgiditi dalla rigida frescura del mattino.

Come un’amazzone guerriera sfidava quel pubblico paralizzato

nelle cui facce la meraviglia presto si trasformò in sbigottimento

e rapidamente in un repentino disgusto animato da un tenue

brusio che diventava sempre più forte. Ella attese invano che

alcuno trovasse il coraggio di fare qualcosa ma sapeva che nes-

suno sarebbe intervenuto personalmente; anzi vedeva la gente

scostarsi e allontanarsi, poi rifugiarsi come a proteggersi dal

peccato così sfacciatamente esposto. Tra questi due che appro-

fittando della calca si muovevano dileguandosi oltre il cortile

verso quella che doveva essere, per ampiezza e dimensioni, la

strada principale. Con passo svelto e leggero percorsero il sen-

tiero rettilineo che si sviluppava gradualmente in salita. Arriva-

rono in cima scorgendo ai lati solo abitazioni. Stettero per un

istante in perlustrazione per verificare con lo sguardo dei por-

toni che potessero somigliare ad ingressi di biblioteche o cose

analoghe. Riconobbero nello stesso istante un passaggio più

grande con un’apertura suntuosa. Terence fece per dirigersi ma

Robert lo fermò tenendolo per un braccio. La campana stava

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suonando con vigore per dare l’allarme e dalle vie laterali stava-

no giungendo ondate di abati in uniformi militari che salivano

verso loro. Sostarono un attimo dando loro le spalle e proce-

dendo con andatura misurata accennarono di seguirli, poi, come

videro passare l’ultimo procedettero invertendo la marcia acce-

lerando presso la biblioteca la cui porta era fortunatamente a-

perta.

Entrarono e per un attimo ebbero l’impressione di essere so-

li. Robert osservava la lunga scalinata che portava al piano supe-

riore. Fece un cenno a Terence portandosi un dito davanti le

labbra, poi lo prese per un braccio e lo spinse tirandoselo a sé

nascondendosi sotto la scalinata. Presto udirono un rumore di

passi. Un gruppo di monaci che discuteva animatamente si ap-

prestava a discendere, ansimante, probabilmente informato del-

la donna nella piazza centrale. Quando questi uscirono final-

mente poterono salire al piano della biblioteca. La sala era

composta da diverse stanze. Dentro ognuna di essere vi erano

leggii, scrittoi e una moltitudine di scaffali che arrivavano fino al

soffitto su cui si ergevano lampadari ad olio che nonostante

l’abbondante illuminazione che si diffondeva uniforme per tut-

to l’ambiente, erano accesi. Entrambi rimasero incantati da quel

contesto. Vi era una sensazione di pace che trasmetteva una

quiete sovrannaturale. Nonostante l’immenso numero di ogget-

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ti, penne, calamai, sedie in pelle, divanetti, quadri, animali im-

balsamati, vetrine chiuse a chiave contenenti diversissimi cimeli,

riproduzioni di monete, pietre e minerali dalle forme più insoli-

te, tutto era perfettamente in ordine, in un modo talmente per-

fetto da risultare all’osservatore che passasse tutti i suoi giorni

in quel luogo di poter individuare ogni spostamento. Le teste di

Robert e Terence, roteando in verso opposto, si incontrarono

fissandosi reciprocamente. Robert fece un passo per dirigersi

verso una porta finestra che dava su un finto balconcino. Sotto

di sé il pavimento a listoni di legno, perfettamente levigato ma

invecchiato dagli anni, scricchiolò riproducendo un rumore che

in quel profondo silenzio suonò come un rombo forte.

Aprì le imposte e si allungò oltre la balaustra per dare uno

sguardo dall’alto. Attese qualche istante poi udì il fragore di-

stante del galoppo di un cavallo che aumentava finché non vide

sulla cima della via, laddove iniziava la discesa, configurarsi la

sagoma di Euphemia e poi il cavallo. Come se si divertisse a

giocare con i suoi inseguitori quella donna si era fermata su

quella sommità facendo impennare il cavallo come per dare lo-

ro qualche metro di vantaggio, Riprese poi la corsa e dietro di

lei vi vedevano affluire uomini in varie divise che annaspavano,

chi cadendo a terra, chi urlando, chi supplicandone l’arresto.

Robert poi notò che alcuni di quegli uomini stavano sbarrando

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la strada con tutto ciò che gli capitava ergendo una parete abba-

stanza alta perché il cavallo non la superasse con un balzo. Ro-

bert poi perlustrò il giro che facevano quelle vie e constatò che

presto per Euphemia non ci sarebbero state vie di fuga. Si do-

mandò se almeno le sarebbe stato possibile raggiungere il suo

scopo. In quel preciso momento si preoccupò se lui avrebbe

potuto raggiungere il suo. Chiese a Terence di controllare nella

stanza adiacente, minuziosamente e di cercare la pergamena at-

traverso la parole chiave tragos. Di li a poco Terence rientrò tra-

felato. Robert lo seguì nella stanza al cui centro c’era un tavoli-

netto in vetro con la pergamena. Una scritta con la dicitura tra-

gos identificava in modo indistinguibile la sua autenticità ma la

struttura completamente trasparente li metteva di fronte ad una

realtà: non c’era traccia della salamandra.

Lo sconforto presto assalì entrambi amplificato dalle grida

che provenivano dalla strada sottostante dove la gente urlante

gridava la resa della donna: le contromisure avevano avuto il lo-

ro effetto. Si sporsero a guardare. I militari avevano preso il ca-

vallo e i monaci avevano messo una coperta sulle spalle di Eu-

phemia piangente che implorava che le permettessero di parlare

con il fratello. Come la donna fu allontanata alcuni rimossero le

transenne e gradualmente tutto riprese la normalità. Mentre

Robert si ricordava che il numero cinquecentododici si ricon-

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duceva alla circostanza storica del millecinquecentododici, capì

che non avrebbe potuto cercare un documento tra i tanti tra gli

scaffali perché i libri erano troppi e perché i monaci stavano ri-

salendo. Il loro travestimento non avrebbe ingannato quelle

persone che erano tutte a volto scoperto. Posti in cui nascon-

dersi non ce n’erano e Robert non vedeva altra soluzione che la

resa.

Dopo un breve e inutile interrogatorio, nel quale invano Ro-

bert espose le loro motivazioni, furono condotti nelle prigioni,

come soluzione momentanea, gli disse una guardia, prima che

venissero espulsi dall’isola. Passarono un paio di giorni in celle

divise, a cui seguirono diverse interrogazioni. Robert capì che i

guardiani del posto erano più preoccupati del loro coinvolgi-

mento con la donna e si domandò se sarebbero arrivati all’uso

delle torture. Tutte le sere gli facevano le stesse domande alle

quali dava sempre le stesse risposte. Arrivò un giorno un abate

diverso, all’apparenza meno severo in volto. Le guardie seguen-

do i suoi ordini aprirono la cella e lui vi entrò sedendosi vicino

a Robert. Egli lo guardava con interesse.

- “Faccia attenzione abate Theodor!” - gli disse una delle

guardie.

- “Sarò attento, grazie” - rispose quello.

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- “Sua sorella sta bene?” - gli domandò Robert non mostran-

do il disagio per quei giorni di prigionia.

- “Dovete scusarci per il trattamento” - lo rassicurò il giova-

ne abate, poi aggiunse - “Sì, mia sorella sta bene.”

- “Non ha mai accettato questa mia scelta..”

- “Scelta?”

- “Sì, scelta. Che le piaccia o no. Ma non vorrei parlare di

questo..”

- “Già..” - lo interruppe Robert che per quanto rammaricato

non voleva coinvolgersi nelle faccende che non lo riguardava-

no.

- “Siete piuttosto interessati alla nostra ricerca che a che fare

con la vostra pergamena.. Come ho già spiegato ai suoi colle-

ghi..”

- “So tutto.” - lo interruppe - “ho anche parlato con Euphe-

mia che mi ha confermato. Di lei mi fido..”

- “Se solo potessimo controllare tra gli scaffali..” - cercò di

spiegarsi Robert.

- “Non ce n’è bisogno..” - lo anticipò l’abate e trasse dalla

sua tunica il barattolo che aveva recuperato.

- “Dove lo avete trovato, come avete fatto!” - Esclamò Ro-

bert.

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- “Stava esattamente dove dicevate, dietro il volume che par-

lava della battaglia del millecinquecentododici.” - gli disse que-

sto consegnandogli l’oggetto recuperato tra le mani.

- “Oggi stesso sarete trasportati fuori dell’isola con il divieto

di entrarvi per sempre..” - Robert quasi non lo ascoltava mentre

guardava l’inaspettato dono con la salamandra che lo osservava

da dietro un vetro ignara del suo stesso valore.

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Capitolo Ottavo

Fünffingerspitze, Punta delle cinque dita

In quale parte del mondo andremo adesso? Rifletteva Robert

mentre scendeva dalla barca e allontanandosi dagli occhi indi-

screti dei monaci che li avevano scortati abbandonava il portic-

ciolo con Terence dirigendosi al ristorante dove li aspettava

Euphemia.

Lei li accolse con un sorriso mentre Robert estraeva il barat-

tolo con la salamandra dal suo zaino per riporlo su un tavolo.

Questa volta il contenuto era molto povero, osservarono:

una salamandra e un dito, sicuramente, come appariva dalla sa-

goma ciò che nella forma stava accuratamente avvolto nella

garza protettiva. Robert lo prese seguito dallo sguardo dei due

per riporlo sulla tavola. Rimosse i fissaggi e tolse lentamente la

benda a cui faceva seguito una protezione in tessuto impermea-

bile. L’arto appariva perfettamente conservato, molliccio al tat-

to, come se fosse stato imbevuto di un particolare liquido pro-

tettivo. Era un mignolo. Come i precedenti l’amputazione era

perfetta all’ultimo metacarpo. L’unghia conservava lo smalto

che Terence riconobbe. La parte superiore non mostrava un

minimo indizio o traccia. Robert aggrottò le sopracciglia e lo fe-

ce ruotare mettendolo sul dorso in modo che fosse visibile a

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tutti. Lessero le evidenti linee tatuate verticalmente dalla prima

all’ultima falange. 5 A L B O S.

Nessuno disse una parola.

Euphemia si alzò per preparare il caffè. Quando tornò con

tre tazze fumanti, ascoltò i due che parlottavano scambiandosi

alcuni pareri, facendo delle supposizioni tanto astratte da indur-

la a ritenere dal cambio repentino delle ipotesi che essi non sa-

pessero trarre da quegli indizi alcuna spiegazione che li confor-

tasse. Robert ringraziò per il caffè e ne approfittò, sorseggiando

per meditare per conto suo. D’un tratto egli estrasse il suo cellu-

lare che aveva ancora una discreta carica.

- Ho intenzione di chiamare il dott. Percy - rispose automati-

camente a Terence prima ch’egli gli rivolgesse la domanda.

- Il Dott. Percy, il biologo di Windhoek - proseguì immagi-

nando la domanda seguente a cui Terence rispose spalancando

la bocca.

Il telefono squillò sul tavolo del dott. Percy che si trovava

due scrivanie più lontano ad esaminare dei campioni al micro-

scopio, tanto era concentrato che decise di non rispondere. Ro-

bert richiamò consecutivamente altre quattro volte. Lasciò pas-

sare alcuni minuti e poi chiamò finché il giovane ricercatore

non rispose.

- Dott. Percy, come sta?

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- Non c’è male, posso sapere con chi parlo? - il tono era infa-

stidito, quella telefonata l’aveva distolto da un lavoro che ri-

chiedeva la massima attenzione. Poi, riconosciuto

l’interlocutore si scusò, e offrì tutta la sua disponibilità.

- La pelle non è maculata? - chiese.

- Affermativo dott. Percy, pelle scura e senza macchie.

- Mi dica - proseguì domandando il giovane africano - le di-

mensioni sono alquanto ridotte?

- Per quanto ne so, è molto meno grande delle precedenti,

vuol dire qualcosa questo?

- Oh, sì! - esclamò - eccome! E’ una specie che vive sulle Al-

pi.

- Non potrebbe essere più preciso.. -

- Alpi centro orientali, versante Italia e Austria, purtroppo

non posso essere più preciso di così, l’area è quella.

- La ringrazio professor Percy, buon lavoro.

- Buona fortuna Robert, spero che troverete presto la moglie

del vostro amico.

Ok. Disse Robert. E’ un inizio. Rifletté. Mettiamoci al lavo-

ro. Ordinò perentoriamente ponendo le nocchie dei pugni chiu-

si rovesciati sulle anche per darsi un atteggiamento volitivo ma

con così poca convinzione che all’udire le sue stesse parole va-

cillò. Si mise a sedere. Sorseggiò ancora un po’ del caffè perce-

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156

pendo che si era raffreddato. Euphemia intuì e gli prese la tazza

dalle mani restituendogli un sorriso affettuoso e ponendo le sue

mani sulle sue. Quel gesto lo riscaldò. Accese una lanterna nella

sua anima. Affievolì in un attimo tutta la pesantezza, quel bloc-

co di cemento gelato che si portava dietro da anni. La guardò a

lungo cercando in quegli occhi sofferenti ma mai vinti la solu-

zione oppure era solo un modo per aggrapparsi ad un semplice

palliativo che sostituisse la sua amarezza con quel porto sicuro

che è per ogni uomo il caldo sguardo di una donna che ama. Lei

lo amava? Confuso e stanco, non ricordava più cosa fosse

l’amore. Rivide il suo grande amore. La donna che gli aveva sal-

vato la vita e per cui lui adesso stava scontando tutto quello.

Un’altra donna era stata rapita per via di ciò che era capitato alla

sua. Ruprecht aveva architettato tutto. Chissà dove li avrebbe

portati. Immaginò luoghi che avessero a che fare con le mani.

Tremò all’idea di un ricordo che all’istante gli suggerì

un’immagine che vide mentre sfogliava una rivista in una sala

d’aspetto mentre era dal dentista. In Uruguay a punta de l’Este.

Ne era certo. Uno scultore aveva inserito in una spiaggia una

scultura che rappresentava una mano che fuoriusciva dalla sab-

bia da cui emergevano solo le cinque dita. Ma non poteva esse-

re. In fondo Ruprecht non poteva essere così scontato. Quella

scultura la conoscevano anche i ragazzini. No! Quel 5 ALBUS

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157

tatuato sul palmo in verticale dava delle coordinate di un luogo,

preciso e non così comune. Difficile da trovare senza dubbio,

ma non impossibile. Ruprecht aveva lasciato indizi in modo che

loro arrivassero in una trappola. Ma quando? Sicuramente dopo

essersi preso gioco di loro, dopo averli fatti roteare nel suo

mondo, del suo dolore, per la sua vita tormentata, solitaria e per

l’atroce morte della donna che anche lui, e forse più di lui, ama-

va.

5

A

L

B

U

S

Il mignolo molliccio era oggetto della sua fredda analisi.

5 AL era inciso nella prima falange, LB nella seconda e infine

le lettere U e S nell’ultima. C’era un nesso nella collocazione?

Oppure no? La combinazione lettere e numeri cosa faceva capi-

re? I suoi mezzi, o meglio le sue risorse personali non gli dava-

no sul momento una risposta per cui passò, così come già aveva

sospettato, alle risorse del world wide web. Pregò Euphemia di

portargli il suo portatile ma la digitazione su Google di 5 AL-

BUS non diede alcun risultato utile. Un attimo, rifletté. Doveva

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158

entrare nella testa di Ruprecht. Socchiuse gli occhi, poi li chiuse,

infine li serrò con energia. Sparì per un attimo che per chi lo os-

servava fu molto più lungo. Rilesse a mente gli appunti di Ru-

precht, vide il mondo con quelli di Ruprecht bambino, le ango-

sce, le paure le sofferenze. Percepì la sua disperazione e il dolo-

re. Immaginò i pomeriggi estivi in cui egli aveva come solo ami-

co un libro o un dizionario. Come era strutturata la sua mente?

Ruprecht fin da piccolo era molto meticoloso e preciso nei suoi

appunti. Riportava notizie in modo analitico. Quando affronta-

va argomenti nuovi i testi avevano uno schema lineare, la calli-

grafia lasciava un’impronta più marcata nella carta, lo stile, in

corsivo rovesciato, diventava in stampatello maiuscolo, orienta-

to in modo normale, non più speculare. Per cui ciò che aveva

stampato sulle dita doveva essere chiaro e semplice nella sua a-

strazione, andava interpretato come un rebus, scindendo nume-

ri, lettere e oggetti. Il dito era una parte grafica del rebus. Ades-

so gli elementi erano diventati tre, oltre la salamandra originaria

delle Alpi, la catena montuosa più estesa d’Europa. Questi era-

no il dito, dunque, il numero cinque e la scritta A L B U S presa

nella sua interezza. Ah! Come gli sarebbe tornato utile il giova-

ne erudito Aris adesso. Decise di chiamarlo, ma solo dopo aver

cercato lui stesso la parola su Google. Ciò che trovò su Wikipe-

dia fu che ALBUS è una parola latina che si traduce con “bian-

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159

co” oltre ad essere un nome di famiglia dell’antica Roma, nei

secoli trasformato in Albinus, infine riscontrò pochi collega-

menti che riguardavano famiglie di animali per cui albus nella

classificazione specificava la colorazione della specie. Alcuni

personaggi famosi, o presunti tali, di cui non aveva mai sentito

parlare. Chiamò Aris.

- Pronto! Robert! - esclamò il giovane entusiasta rispondendo

dall’altro capo.

- Ciao Aris! Come stai? Sono qua con Terence. Ti saluta.

- Sto bene, grazie. Che piacere sentirvi. Come procedono le

ricerche? Siete riusciti a trovare la salamandra sulle dita di Cal-

cidica?

- Sì, Aris. Non è stato facile ma grazie al tuo aiuto.. Il posto

era esattamente quello.. Aris, per questo ho bisogno del tuo aiu-

to.

- Del mio aiuto? Oh! Non mi sembra possibile! Spiegami,

cercherò di rendermi utile..

Robert descrisse in modo accurato ogni particolare. Concluse

confrontandosi le sue deduzioni e il fatto che si fosse arenato

sulla ricerca su Google.

- ALBUS! - esclamò Aris a cui subito apparve efficace il ri-

scontro tra il latino e il modus operandi del rapitore.

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160

- Sì, ALBUS è una parola latina. Vuol dire “bianco”. La sa-

lamandra è originaria delle Alpi.

- Sulle Alpi c’è il monte “bianco”. - Osservò Aris.

- Ho già controllato - intervenne Robert - Ma non è rilevante

poiché la salamandra “abita” solo la parte centro orientale del

massiccio.

- Risolto il mistero, almeno in parte.. - accennò il ragazzo

greco che stava controllando sul suo iBook.

- Spiegati..-

- ALBUS altro non è che la conferma che stiamo parlando

esattamente delle Alpi.. Come sospettavo, infatti, con una sem-

plice ricerca ho trovato che l’origine del nome è stata affrontata

da un grammatico romano dell’anno duecento, tale Sextus

Pompeius Festus che attribuisce ai Sabini il titolo della catena

montuosa ALBUS perché sempre innevata..

- Ciò non ci dice niente di più..

- Ma neanche niente di meno..

- Hai ragione..

- Albus, benché già sappiamo che la salamandra identifica il

luogo approssimativo, accostato al numero cinque ci porta un

po’ più avanti nella lettura del rebus..

- Il rebus si legge dunque adesso in questo modo:

5 Alpi

Page 161: Sulle orme della salamandra - Cristiano Bravi

161

- Cinque Alpi.. - Rifletterono.

- Osserviamo la cosa nell’insieme. - suggerì Aris.

- Già. - Confermò Robert.

- Cosa abbiamo? - Domando retoricamente Robert.

- Un dito, il numero cinque e la parola Alpi.

- Più nell’insieme.. - si sforzò Aris assorto nella concentra-

zione.

- Un dito mignolo, il numero cinque e la parola Alpi o bian-

co.

- Come sono collocate le lettere, come sono disposte e dove

si trova il numero cinque?

- Il numero cinque si trova.. Che mi venga un colpo! In cima!

Aris! Il numero cinque ci trova sopra il testo, all’inizio del testo

disposto in verticale..

- Non deve essere un caso.. - Rilevò il giovane.

- Cinque in cima alle Alpi.. ti dice niente?

- Mi spiegavi che il numero cinque è tatuato sulla prima fa-

lange..

- Sì, ma guardando meglio, in effetti, inizia esattamente dove

finisce l’unghia, sembrava che..

- Sembrava che lo avesse fatto per questioni di spazio, invece

la posizione è in punta..

- Sì, punta, cima, vetta o cose del genere..

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- Attinente al “dito” si accosta meglio la parola “punta” sem-

brerebbe..

- Punta, dito, cinque, alpi..

- Robert! - urlò Aris - Scrivi, Robert! Scrivi!

- Sono pronto! - Robert aveva già il cursore intermittente sul-

la barra di ricerca di Google.

- Punta delle Cinque Dita! E’ una vetta delle Dolomiti!

- Sto cercando.. Sbalorditivo!

- Hai visto?

- Fünffingerspitze.. Dal tedesco, la sua lingua madre..

- Una montagna a forma di mano!

- Con il pollice in risalto..

- Il pollice.. è il dito mancante?

- Sì manca solo quello e poi..

- E poi?

- Non lo so, stiamo soltanto seguendo gli indizi, sperando sul

recupero.. Aris, ti tengo aggiornato.. Per adesso ti ringrazio.. Sa-

luta i tuoi..

Robert si rivolse a Terence.

- Sì parte..

- Italia?

- Val Gardena, Passo Sella.. Punta delle Cinque Dita è la vet-

ta centrale del Sassolungo..

Page 163: Sulle orme della salamandra - Cristiano Bravi

163

- In montagna?

- Fünffingerspitze è una delle cime principali del Sassolungo, si

trova a quota tremila metri.. E’ a forma di mano e la scalata

conduce al pollice partendo dal mignolo..

- Ci servirà un’attrezzatura da scalata..

- In questo posso essere utile io.. Tu mi aspetterai a valle..

- Sì io soffro di vertigini..

- Adesso mettiamoci in viaggio.. Cercheremo ulteriori infor-

mazioni quando saremo in Italia.

Lasciarono Euphemia e si diressero ad Atene e poi Venezia.

Il giorno seguente con un’auto a noleggio lasciarono Venezia

per Verona e proseguirono per il Brennero salendo oltre Trento

e Bolzano svoltando per la Val Gardena tra le Dolomiti diretti

verso il gruppo montuoso del Sassolungo che costituisce il con-

fine con la Val di Fassa. Ai piedi della Valle si trovarono innanzi

ad uno spettacolo sovrannaturale. Le pareti rocciose imponenti,

la natura incontaminata, la rigogliosa flora, il cielo stesso, diafa-

no, vibrava e ribolliva di quella maestosità imperturbabile a cui

la neve restituiva una brillantezza accecante. Verso sera cerca-

rono alloggio presso la località di Santa Cristina dove dopo un

po’ di ricerche trovarono disponibilità per il pernottamento.

Il mattino seguente all’alba uscirono alla ricerca di una scuola

di alpinismo. Alcuni paesani li indirizzarono al centro Catores

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164

non molto distante da dove si trovavano. Giunti sul posto non

fu difficile riconoscere la struttura. La scuola era una grande

baita costruita con pietre e grossi tronchi in legno massiccio di

abete rosso disposti orizzontalmente. Un cartello riportava la

doppia scritta Alpinschule - Scuola di alpinismo, diversi stemmi

delle varie associazioni gemellate, poco distante un termometro

che nonostante indicava una temperatura di meno dieci gradi

sotto lo zero Robert e Terence non percepivano un grande

freddo.

- Meno dieci in Val di Fassa sono più tollerabili di meno un

grado in pianura padana! - Disse in un uomo che sopraggiunge-

va alle loro spalle con un accento italo austriaco. I due si volta-

rono all’istante e videro un uomo sulla quarantina che si rialzava

dopo aver disposto a terra del legname. Robert lo aveva visto

arrivare ma aveva finto di niente. Assunse un atteggiamento di

sorpresa poi si presentò e per sua fortuna egli rispose nella loro

lingua presentandosi con il nome di Markus Kostner. La guida

alpina, come testimoniavano targhe appese al suo giubbotto,

sfilò un pesante mazzo di chiavi con cui aprì il portone di in-

gresso quindi tornò verso il suo furgone con un nuovo carico di

legname, questa volta più pesante del precedente. Robert e Te-

rence raccolsero la legna rimasta a terra e lo seguirono.

Page 165: Sulle orme della salamandra - Cristiano Bravi

165

Il locale era intriso di odori residui dalle ceneri del camino

dove probabilmente la sera precedente era stato arrostito qual-

che animale. C’era una piccola cucina e un tavolo abbastanza

grande da accogliere una dozzina di persone. Qualche divanetto

in pelle e tappeti di varie colorazioni in stoffa. Alle pareti teste

di alce e cinghiali imbalsamati, mensole con trofei, medaglie e

coppe, libri di alpinismo e quadri con varie fotografie che ritra-

evano Markus fotografato sulle cime di qualche montagna.

L’uomo chiese ai suoi ospiti di accomodarsi e si diresse verso la

cucina a preparare il caffè. Robert si domandava se egli fosse

solo a dirigere il centro mentre sfogliava distrattamente una ri-

vista di alpinismo ma la risposta arrivò quasi subito poiché

l’uomo, di spalle, cominciò a parlare di come era organizzata la

scuola e di quanto, tra l’estate e l’inverno, ci fosse un calo dovu-

to alla difficoltà e per come il ghiaccio e la neve rendevano la

rampicata più difficile. Concluse spiegando quanto tutto ciò lo

annoiava. Finalmente arrivò e tanto era preso nella presentazio-

ne della sua attività che fu l’unico a non bere il caffè. Portando

alle labbra la tazzina e avvertendo la bevanda tiepida la ripose.

- Scusatemi - disse - quando comincio a parlare non mi fer-

mo più, voi siete, siete due scalatori professionisti? - rimase per

un po’ a guardarli mantenendo un fresco e genuino sorriso sulle

labbra.

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166

Noi - intervenne Robert sorridendo a sua volta - non siamo

alpinisti, noi siamo qua perché abbiamo un assoluto bisogno del

suo aiuto. Il volto dell’uomo dapprima si incupì poi man mano

che ascoltava con stupore e meraviglia tutto il racconto nei mi-

nimi particolari rimase sbigottito. Era una persona molto umile.

Aveva passato tutta la sua vita sui monti, tra le mucche al pa-

scolo, aveva viaggiato ogni tanto ma non si era mai sporto oltre

l’Europa, certe storie le aveva viste solo nei film o lette nei libri.

Si preoccupava più che altro per la sua incolumità. Se li aiutava

avrebbe corso qualche pericolo? Quel losco figuro magari si na-

scondeva ancora nei paraggi. Che colpa ne aveva lui in fondo

delle disgrazie altrui? Robert intuendo il suo tentennamento gli

disse:

- Se mi da le istruzioni andrò da solo. - Notando più smarri-

mento che perplessità proseguì - Vede, per noi è di vitale im-

portanza il ritrovamento di questo oggetto, è fondamentale per

il ritrovamento della persona scomparsa.

- Rapita.. - disse Terence.

- Sì, rapita - soggiunse Robert amaramente - e chissà cosa le

potrebbe capitare se non la troviamo prima che sia troppo tardi.

Robert, sapendo che l’uomo pavido se messo davanti al pe-

ricolo richiama a sé tutte le sue forze accentuò il tono facendo

leva sulla paura del suo interlocutore, quindi proseguì.

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- Abbiamo a che fare con una persona molto pericolosa. Ci

siamo messi sulle orme di questo individuo due mesi fa. Le as-

sicuro che sarà molto peggio per tutti se quel dito mancante

non venisse ritrovato. Se non continuiamo il suo sporco gioco è

la fine. - Lo vide che aveva cominciato a tremare e a guardarsi

intorno come alla ricerca di un appiglio invisibile per uscire da

quell’impiccio.

- Allora. Allora, - fece gesticolando - vediamo, vediamo, pun-

ta delle cinque dita, - si alzò, si voltò un paio di volte, - dove

l’ho messo? - guardava sulle pareti, poi, mordendosi il labbro e

portando la mano al mento rimase assorto. Destandosi d’un

tratto dalla concentrazione scattò salendo le scale. Robert tese

l’orecchio, non udendo rumori provenire dal piano superiore

temeva che quello se la fosse data a gambe. Dopo alcuni minuti

ridiscese con un grosso rotolo di carta che spiegò sul tavolo del-

la cucina. Era una cartografia del massiccio del Sassolungo con

le mappe dei percorsi in chiave tridimensionale.

La carta mostrava in otto sezioni tutto il Sassolungo specifi-

cando con tutta una serie di simboli e numeri le difficoltà di

rampicata per le cime principali, nonché l’altitudine e la nomen-

clatura delle vette. Robert lesse Fünffingerspitze dove puntò il di-

to.

- Esattamente - rispose in automatico Markus febbricitante.

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Punta delle cinque dita sorgeva al centro del massiccio. Co-

me una mano protesa verso l’alto.

- Mignolo, anulare, medio, indice.. - tracciò Markus.

- ..e pollice! - Sobbalzò anticipandolo Terence.

- Duemilanovecentonovantotto metri.. - Aggiunse Robert.

- Sì, sono circa tremila metri - precisava la guida alpina incro-

ciando le braccia al petto - dei quali per vostra fortuna ne an-

dranno risaliti solo gli ultimi trecentoquindici. - Poi guardando

la cartina si spiegò meglio:

- A ridosso del pollice delle cinque dita c’è il rifugio Demetz,

parliamo di una quota di duemilaseicentoottantacinque metri.

Arrivare là sarà semplice, è sufficiente prendere la cabinovia dal

passo Sella. Ma non farti prendere dal troppo entusiasmo. Ti

troverai ai piedi di un unico blocco dolomitico monumentale

dalla forma conica. Immagina di dover scalare il grattacielo più

alto del mondo. Tanto per farti un’idea. Lassù in questa stagio-

ne ci sono condizioni di ghiaccio, vento e temperature a meno

venticinque gradi centigradi. Arrivare alla sommità è pratica-

mente impossibile per chi non si è mai trovato in simili situa-

zioni. Il vostro nemico vi vuole morti! Adesso mi capite? Nes-

suno è in grado di prendere un cavolo di barattolo e metterlo in

un posto del genere! Qualunque cosa sia stata portata lassù a-

desso è stata spazzata via dalla tormenta oppure finita chissà

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169

dove. La vostra è una missione impossibile! - Markus non aveva

affatto torto, constatava Robert, che sapeva dal canto suo che

un uomo come Ruprecht avrebbe trovato il modo di mettercela

lo stesso.

- Andrò lassù ad ogni costo, se non troverò niente, avrò ten-

tato.

- Mi serve un goccio di grappa.. - Disse Markus riempendosi

il bicchiere dopodiché trangugiò in un sorso il contenuto. Dila-

tò la bocca emettendo sonoramente una vocale ampia e soffe-

rente. Corrugò la fronte, digrignò i denti e accigliato come chi

fosse pronto ad accettare la sfida tuonò - Ebbene! - stridendo in

tono quasi minaccioso - Se questo è ciò che volete, seguitemi!

Uscirono fuori e entrarono nel deposito delle attrezzature;

una rimessa contenente da un lato un paio di macchine spala-

neve e dall’altro tanto di quell’equipaggiamento che poteva fare

invidia ad un esercito di alpini per quantità e assortimento; ca-

schi, tende, sci, racchette, imbraghi, corde, piccozze, viti, ram-

poni e poi tute, guanti, pantaloni ed ogni genere di accessorio.

Markus illustrò minuziosamente ogni oggetto non tralasciando

alcuno strumento che serviva e arricchì ogni sua spiegazione

descrivendone l’utilizzo. Robert capì che la materia era alquanto

complicata oltre che complessa. Arrivò alla conclusione che,

considerata la pericolosità dell’impresa, avrebbe partecipato a

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170

diverse lezioni a cominciare da quello stesso pomeriggio, pur di

arrivare preparato all’evento. Nonostante l’opera di dissuasione

del maestro Robert e Terence parteciparono alle lezioni teori-

che con regolarità per circa una settimana. Più cose imparavano

e più aumentava la paura e la perplessità della riuscita di un im-

pegno così arduo. Terence, intimorito per le sorti dell’amico, fu

sul punto di chiedere più volte a Robert di rinunciarvi ma, an-

che se egli stesso avvertiva la pericolosità, gli ripeteva sempre la

stesa cosa, che erano arrivati fino a tanto e che non voleva mol-

lare per nessuna ragione al mondo. La determinazione di Ro-

bert rinfrancava Terence che, anche se non capiva quali real-

mente sarebbero stati gli sviluppi, si sentiva a un passo non tan-

to dal rivedere sua moglie, egli certo non era un fesso, ma quan-

to a scoprire una chissà quale verità a proposito della sua scom-

parsa, o per meglio dire, rapimento.

Le notti Robert le passava pressoché insonni, cercava sempre

di capire la logica perversa con cui Ruprecht avesse ordito quel

piano contorto, quanto fosse grande la sua sete di vendetta per-

ché coinvolgesse delle persone innocenti solo per una questione

che riguardava soltanto loro due. Perché non sfidarlo in duello?

Perché ridursi a una ridicola fuga a guardia e ladri. Dove sareb-

be arrivato? Cosa ci sarebbe stato in seguito al ritrovamento

dell’ultimo dito. Era forse la sua morte quella che voleva? Sa-

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pendo in che condizioni estreme avrebbe affrontato la rampica-

ta? Un barattolo con una salamandra a circa tremila metri in

mezzo ai ghiacci? No, non era possibile, ma sapeva che non si

poteva sottrarre a quell’ultima sfida. Se ultima fosse stata.

Il Sole risvegliò l’orizzonte increspato delle cime innevate

dando inizio ad una settimana in cui su una parete artificiale e

con ripetute simulazioni veniva messo in pratica quello che era

stato un accelerato corso di teoria rudimentale. Markus interve-

niva con pazienza nel correggere i movimenti di Robert il quale

sconfortato convenne che non gli sarebbero bastati mesi per

svolgere quel compito senza lasciarci le penne. Alla fine della

settimana vedendolo ancora convinto per la scalata Markus de-

cise che sarebbe salito insieme. Per due giorni nevicò senza tre-

gua. Il terzo giorno partirono.

Quella mattina il cielo era terso e la forte nevicata dei giorni

precedenti faceva crepitare la neve sotto i loro passi. La teleca-

bina si trascinava con un passo molto lento, poiché datata spie-

gava a Terence che non la smetteva di fare domande.

- Al rifugio preparano dei piatti di ottima cucina tirolese - ag-

giunse sorridendo. Ma egli non sorrise.

Robert che leggeva la preoccupazione nel volto dell’amico lo

salutò abbracciandolo e rivolgendogli uno sguardo che per

quanto si sforzò più che un arrivederci sembrava un commiato.

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Terence fremette non tanto perché era colpito dalla una grande

ammirazione per quell’uomo che rischiava la vita per salvare

quella di sua moglie quanto perché si sentiva inutile e impoten-

te. Li vide allontanarsi dietro gli zaini finché rimpiccioliti alla

sua vista scomparvero confondendosi con l’imponente masso

innevato.

Arrivarono alla parete verticale. Mentre il veterano estraeva

le attrezzature Robert contemplava la natura circostante. Come

in un paesaggio fiabesco immacolato in una melodia classica si

ergevano monumentali le cime dolomitiche colme di neve come

cosparse di zucchero a velo. Gli abeti nella valle carichi di neve

si confondevano nel panorama bianco candido. Un filo di vento

spruzzava dai loro rami minuscoli fiocchi che si polverizzavano

al sole come nuvole fluorescenti. Robert si domandò se il para-

diso fosse quello o se quello fosse il suo ultimo giorno sulla ter-

ra.

I preparativi andarono per le lunghe, entrambi volevano sin-

cerarsi che tutto fosse sistemato perfettamente. Nuvole dense si

affacciarono sopra le loro teste e Robert intuì dallo sguardo di

Markus che la salita sarebbe stata più veloce delle aspettative.

Infatti la guida alpina procedeva in modo spedito. Salirono

alternando ramponi e piccozze eseguendo movimenti simulta-

nei. Markus procedeva testa al monte mentre Robert seguendo

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173

scrupolosamente le istruzioni e cercando di prendere confiden-

za con la lastra ghiacciata effettuava movimenti con la velocità

di un bradipo al rallentatore. Muoviti! Gli urlò il compagno

dall’alto ma non gli riusciva di prendere confidenza con quel la-

strone duro come la roccia. Entrambe le piccozze non facevano

presa. Tentò una progressione a triangolo come gli aveva inse-

gnato il maestro. Finalmente capii il grado di forza da applicare

con lo scarpone destro e si sporse con cautela tendendo il brac-

cio sinistro infilando la punta della piccozza nella parete ripida.

Robert cercava di tenere il passo ma la fatica e lo sviluppo

dell’acido lattico nelle gambe di Robert meno allenate di quelle

del suo predecessore chiedevano un attimo di tregua. Il vecchio

acconsentì approfittando anch’egli per rifocillarsi con una bar-

retta energetica. Lo stesso fece Robert prima di riprendere a sa-

lire.

Arrivati ad una altezza di centro metri Robert si volse a

guardare attorno. Avvertì un brivido lungo la schiena ma si fece

coraggio, Markus che andava a passo spedito era una cinquanti-

na di metri vanti a lui. Aumentò il ritmo applicando tecniche

diverse alternando l’uso delle braccia a quello delle gambe per

non affaticarle contemporaneamente, nonostante ciò la sua

progressione era lenta. Sì sentì perso, smarrito, scoppiò in la-

crime tanto fu colto dalla disperazione. Il volto gli si stava con-

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174

gelando, aveva sete e non sapeva come fare per prendere la

borraccia. Decise di avanzare ancora un po’ e cercare un pas-

saggio in cui fosse più comodo. Controllò l’altimetro che gli ri-

velò l’altezza di centocinquantaquattro metri.

Improvvisamente una densa foschia lo imprigionò dentro

una nuvola. Sembra va fosse arrivata la fine. A tentoni cercava

appigli utili ma adesso una mano adesso un piede sentiva che gli

scivolavano. Gridò con tutte le sue forze mentre i tendini e le

ossa gli prendevano fuoco. Esplose in un urlo rabbioso che su-

perava i limiti dell’istinto di sopravvivenza. Alla cieca picconava

e forzava gli scarponi sprigionando una forza che non conosce-

va. D’un tratto aprì gli occhi e si ritrovò a mezzo busto dentro

una nuvola, Markus pochi metri sopra di lui, rimasto ad aspet-

tarlo, lo informava che erano ad una quota di mille metri. Lo

raggiunse scendendo e lo aiutò nel prendere da bere. La vici-

nanza di quell’uomo gli diede un conforto paragonabile al nau-

frago sperduto nell’isola deserta che riceve una visita dopo

trent’anni di solitudine. Quel nuovo entusiasmo gli garantì e-

nergia a sufficienza per affrontare il cammino consapevole che

avevano ancora tanto da scalare.

La terra era lontana, intorno a lui pilastri di ghiaccio e pendii

innevati. Il vento sibilava spruzzando e spargendo nuvole di

polvere bianca. Una sensazione di pace gli giunse osservando il

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cielo che si configurava oltre le cime. Un’aquila reale volteggia-

va descrivendo ampi semicerchi. Robert l’osservava con beati-

tudine e ammirazione, ne apprezzava la fierezza e la nobiltà, ne

riconosceva la sua stessa solitudine. La vedeva sporgere la testa

in ricognizione come fosse una vedetta di confine che esamina-

va gli intrusi. Aveva l’impressione di essere entrato in una nuo-

va dimensione.

D’un tratto l’aquila scese in picchiata avvicinandosi così tan-

to che Robert chiuse gli occhi temendo di essere attaccato ma

poi quando li riaprì, forse spaventata dalle sue urla, egli la vide

allontanarsi emettendo a sua volta un sinistro grido. Nel ripren-

dere quota il rapace gli era arrivato talmente vicino e aveva sbat-

tuto le ali con tanto vigore benché con tale leggiadria che alle

orecchie di Robert, immerso da ore in quella quiete assoluta,

quel fracasso sembrava il frastuono di mille cannonate. Osservò

l’aquila dileguarsi contraendo e distendendo le lunghe ali e nel

mentre si allungavano egli notava come le ultime penne si apri-

vano più delle altre assumendo la forma di una mano con le dita

distese. L’immagine delle dita pennute balenarono istantanea-

mente la similitudine con la figura di Ruprecht il cui sopranno-

me in codice presso il governo americano era Eagle, l’aquila

dunque, e poi le dita troncate, la donna rapita. Robert rifletteva

con sdegno quanto quella similitudine beffarda era cinicamente

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176

surreale. Il volatile che sembrava non voler perdere quella sfida

volteggiava come a testimoniare la sua indiscutibile autorità sul

suo habitat. Quasi percependo la vulnerabilità del suo avversa-

rio come ulteriore provocazione l’uccello spalancò il becco gial-

lo emettendo un lungo verso stridulo e minaccioso ma con sua

sorpresa Robert reagì istintivamente mostrandogli la piccozza e

agitandola furentemente accompagnando i gesti con un latrato

furibondo il cui boato lo mise in fuga.

Le risa di Markus, poco più in alto, che aveva paura di tutto

ma non della montagna, al cessare di quel baccano resero evi-

dente a Robert l’eccessivo impeto che aveva profuso. Ritrovan-

do la calma, si accorgeva infatti che si era stirato un tendine.

La salita proseguì a fatica. I dolori erano diventati insoppor-

tabili. Si sentiva allo stremo. L’altimetro indicava un’altitudine di

circa duemila metri. Robert contorceva tutti i muscoli del viso

dalla tribolazione.

- Ce la fai a continuare? - Gli chiese senza indugi.

Sì, cercò di rispondergli ma emise solo una esse seguita da un

ahhhhh. L’infiammazione interessava tutta l’articolazione della

spalla. Markus sospettava anche una lesione. Cosa che li avreb-

be bloccati inesorabilmente. Lo aiutò a sbottonarsi la tuta e sfi-

larsi il braccio. Nonostante il gelo Robert non avvertiva il fred-

do a causa delle sofferenze. Fu colto da svenimento. Markus lo

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prese a schiaffi urlandogli di resistere. Frugò nel suo zainetto e

prese un antinfiammatorio. Glielo mise in bocca e gli verso da

bere con la sua borraccia. Poi gli prese il braccio nudo metten-

dolo a diretto contatto con la parete. Robert sentiva l’arto con-

gelarsi. Non percepiva più la pena per lo stiramento ma adesso

era la rigidezza della temperatura estrema a farlo tremare. Con

un movimento balbettante si volse verso l’uomo che lo stava

aiutando e con le labbra livide emise un rantolo spettrale. Ciò

che l’altro udì fu, andiamo!

Cercando di risparmiare l’arto dolorante ma comunque fun-

zionante Robert seguiva la scalata non preoccupandosi più di

guardare l’altimetro. La sua consapevolezza, pari alla sua arren-

devolezza era inferiore alla sua determinazione.

A piccoli passi risaliva. Guardò in basso e vide il rifugio poco

più grande dell’unghia del suo dito mignolo. Sono a circa due-

cento metri. Disse tra sé controllando l’altimetro. Forza Robert

manca poco. Pronunciò guardando verso l’alto.

L’articolazione riprese a fargli male. Su bella non mi mollare

adesso. Distese il braccio e lasciò riposare la spalla. Cinque mi-

nuti, solo cinque minuti. Passarono velocemente. Quella pausa

gli aveva permesso di riprendere a muoversi. Dosava le forze

finché non riprese gradualmente una buona andatura. Non

guardava più né in alto né in basso. Notava invece come le pa-

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reti del costone a forma di dito più che saliva più si avvicinava-

no. Duecentotrentacinque metri.

Dense nuvole si addensarono improvvisamente facendo di-

ventare il cielo da azzurro a bianco e poi plumbeo. Rombi e

tuoni precedettero la bufera. Il vento misto a neve aumentando

di intensità diventarono una tormenta. Per chi avesse potuto

vedere da lontano avrebbe osservato un enorme cappello con-

densarsi su quelle cime imponenti. Protetti dalla carcassa della

cabinovia che saliva dalla val di Fassa un gruppo di turisti com-

posto da una coppia di famiglie con figli al seguito stava incolla-

to ai vetri a godersi lo scenario. Solo i bambini ne erano affasci-

nati. Mamma mamma, disse la piccola Caroline, che cosa gli

succede agli abitanti della montagna? Possiamo andarli a trovare

? Oh Tesoro, le rispose rinfrancandola, non c’è nessuno che sta

in cima alle montagne. Poi la prese in braccio per assicurarsi che

non cadesse a causa dei forti scossoni.

Robert cercava di proteggersi il volto dalle raffiche di vento

miste a neve e grandine ma da ogni lato era bersagliato da sca-

glie che sembravano proiettili. Come se non bastasse la corrente

lo sbalzava con un tale impeto che gli fece sganciare entrambi

gli scarponi dall’appoggio. Come un portachiavi ballonzolava e

più agitava le gambe e i piedi verso l’esterno per ritrovare un so-

lido aggancio e più quegli arnesi non ricevendo la forza suffi-

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ciente scivolavano sulla superficie scivolosa. Poteva contare so-

lo sull’ausilio delle braccia ma ecco che una delle due, quella in-

dolenzita cominciò a dolergli più di quanto poteva resistere. Era

convinto che non ce l’avrebbe fatta. Tramortito sganciò il guan-

to dalla presa di sicurezza con cui teneva la piccozza. Lasciò

scendere il braccio lungo il fianco. Adesso poteva contare solo

sulla tenuta dell’altro braccio e sulla resistenza dello strumento a

sopportare tutto il suo peso. Disse le sue ultime preghiere. En-

trò in uno stato di trance. Dalle sue orecchie non percepiva più

le sferzate del vento come ululati feroci. Come un sordo cieco

tutto gli appariva ovattato, era involucro galleggiante in una di-

mensione parallela. Rivide il suo volto da bambino, sua madre

che gli andava incontro in giardino, il volto sorridente di Ber-

nard che annaffiava il giardino, sul pianerottolo quello del pa-

dre, austero, corrucciato, poi vide i suoi giochi, le vacanze, il

suo primo giorno di scuola, il giorno in cui presa la patente, la

sua prima fidanzata. Lei che lo aveva baciato con tanta espe-

rienza quanta era stata la sua goffaggine nel risponderle in mo-

do convincente. Sognava di essere aggrappato al ramo di un al-

bero e che la presa pian piano scivolava. Sentì il bisogno di ab-

bandonare la presa e di lasciarsi andare. Svegliati! La colazione è

pronta. Sua madre Eloise lo chiamava. Aprì gli occhi e si ritrovò

nella realtà. La tormenta era passata e le nuvole si stavano dira-

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dando. Prese coscienza immediatamente che la mano gli era ri-

masta incastrata nel guanto nella cinghia di sicurezza della pic-

cozza ma notò con spavento che quasi tutti i bottoni del cintu-

rino si erano sganciato. La sua vita dipendeva dalla tenuta degli

ultimi due prima di piombare da quella altezza per sfracellarsi al

suolo. Cercò di allungarsi per afferrare con il braccio libero

l’altro rampino ma per quel movimento si sganciò il penultimo

bottone. Sentiva la sua mano sudata che inesorabilmente un

centimetro alla volta lo consegnava ad una tragica fine. Come

ultimo gesto disperato appoggiò entrambe le ginocchia alla pa-

rete, le raccolse al petto più che poté distribuendo il peso in

modo omogeneo per non perdere l’unico appiglio. Vide il bot-

tone sul punto di staccarsi allora decise di tentare l’impossibile.

Si spinse all’indietro e ricadendo sulla parete simultaneamente

allo sganciarsi del bottone agganciò i ramponi sul ghiaccio. Con

un movimento istintivo della mano nuda che fuoriusciva dal

guanto afferrò la piccozza per la parte superiore. L’impeto di

quell’azione fece rompere lo strato di gelo su cui era agganciata,

ma non tanto immediatamente da permettergli di afferrare con

l’altra mano la piccozza rimasta sopra lui. Adesso poteva conta-

re u tre appoggi. Aiutandosi con la bocca si rimise il guanto, lo

infilò nella cinghia di sicurezza e mentre le nuvole finalmente

scomparvero ricominciò la sua risalita.

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L’altimetro per differenza gli rivelava che aveva scalato quasi

trecentro metri. C’era quasi. Poteva scorgere la sagoma della

guida che gli faceva cenni con il braccio. Egli stava in piedi. La

parte ultima di quella roccia si concludeva con una parte conca-

va, un piano naturale utile di appoggio da cui si accedeva alla

cima. L’impresa era al suo termine.

- Avevi ragione! Proclamò Markus allungandogli il braccio

aiutandolo a risalire nella parte pianeggiante.

Un cerchio di vernice arancione evidenziava il punto in cui

con un diametro di cinquanta centimetri era stato effettuato un

carotaggio.

Senza neanche approfittare per la sua abnorme fatica e di-

menticandosene Robert si fiondò come un ragazzino si precipi-

ta ai piedi dell’albero di natale scivolando sul pavimento.

Non c’è niente! - Esclamò esterrefatto.

Cercavi questa? - Disse l’altro tenendo il barattolo in mano.

Robert gli si parò davanti con enfasi improvvisa prendendo-

glielo con una foga che lo rendeva irriconoscibile. Poi si acca-

sciò a terra e scoppiò in lacrime.

Ehi ragazzo! Non volevo rovinarti la festa, sono trenta minu-

ti che ti aspetto. Ah per tua informazione l’animaletto è schiat-

tato. Per cui, ne valeva la pena?

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Robert si distese pancia in su. Mise il recipiente sull’addome

e poi distese le braccia lungo il corpo. Guardò in alto il cielo, le

poche nuvole rimaste dileguarsi, i suoi nemici invisibili, le senti-

nelle del vento che proteggevano la solennità di quel luogo im-

pervio, chiuse gli occhi e si addormentò, l’ultima immagine che

vide fu il passaggio dell’aquila che volteggiava in lontananza.

Robert guardava lo strapiombo. Sotto di lui la guida alpina

procedeva nella discesa. Si calò seguendo il tracciato e la discesa

fu veloce. Arrivati a terra, al rifugio c’era Terence ad aspettarli,

infreddolito anch’egli ma ansioso di ricevere buone notizie.

L’ampio e rassicurante sorriso di Robert gli anticipò il risultato.

Il buon boliviano in un attimo sciolse tutta la tensione accumu-

lata manifestando tutta la sua voglia di decifrare quello che, si

augurava, sarebbe stato l’ultimo indizio prima di ritrovare la po-

vera Rocio.

Entrarono al rifugio e ordinarono più di quanto potessero

consumare. La voracità con cui Robert divorava il pasto era

comunque inferiore alla trepidazione con cui Terence aspettava

il verdetto della risoluzione del rebus che era sigillato nel barat-

tolo che stava ancora dentro lo zaino.

Finalmente, dopo aver bevuto un litro di acqua, Robert e-

strasse il contenitore dallo zaino. Come già sapeva la salaman-

dra giaceva morta. Accanto a lei, avvolto in una membrana pro-

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tettiva ciò che dalla forma e per esclusione doveva essere inevi-

tabilmente il pollice. Capovolse il recipiente facendoli rotolare

entrambi sul tavolo. Il cameriere sparecchiando osservava con

ribrezzo la particolare reliquia e non si degnò di chiedere se vo-

lessero qualcosa e neppure il conto. Prima ancora di scartare il

dito dalla sua protezione, Robert con misurata disciplina scattò

una foto all’anfibio riprendendolo da diverse posizioni. Inviò

una mail al biologo. Mandò Terence ad ordinare i caffè e la

grappa per Markus, il quale partecipava allo scopo di assicurarsi

che si era tolto definitivamente quella rogna dai piedi e che ogni

suo minimo coinvolgimento fosse dileguato.

Robert, nell’attesa di ricevere la mail, teneva una conversa-

zione di carattere generale a proposito delle montagne e del fat-

to che in una rivista nella scuola di alpinismo aveva letto a ri-

guardo di come nell’epoca paleolitica le dolomiti fossero rico-

perte dal mare. Mentre parlava e giocherellava con noncuranza

facendo ballonzolare tra i palmi il dito si accorse ad un tratto,

incrociando lo sguardo di Terence, di quanto egli lo guardava

fare quel gesto poco rispettoso con ciò che in quel momento,

per lui, era tutto ciò che gli apparteneva delle moglie.

Le Dolomiti, - si affrettò a rispondere l’anziano che aveva

una sconfinata preparazione in materia - derivano dal materiale

con cui sono composte, la dolomia un calcare ricco di magnesio

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che fu classificato per la prima volta dal geologo Deodat De

Dolomieu. La dolomia conferisce alle rocce delle sfumature ro-

sate che le rendono davvero uniche. Questo perché le monta-

gne che ci circondano e questa in cui ci troviamo adesso altro

non sono che i resti di una grande barriera corallina in cui

nell’era preistorica si agitavano i flutti dell’oceano Tetide, in se-

guito ritiratosi a causa dei movimenti geologici.

Robert ripose il dito sul tavolo garantendosi la ritrovata tran-

quillità sul volto suo aiutante.

- Un oceano, qui? Ribadì poi fingendosi interessato.

- Stiamo parlando di duecentocinquanta milioni di anni fa,

giorno più giorno meno. - Fece l’altro concludendo in una so-

bria risata prima di scolarsi il bicchierino.

Robert stava cercando di ricambiare sorridendo quando

d’improvviso il suo viso assunse un repentino cambio di atteg-

giamento. La sua attenzione era stata catturata dalla ricezione di

una email. Subito aprì il messaggio e lesse quelle poche righe tra

sé, poi spiegò sintetizzando:

- Salamandra salamandra gigliolii anfibio lungo dai 20 ai 30 cen-

timetri, corpo robusto dal colore nero con evidenti macchie

gialle che tendono a fondersi invadendo tutto il dorso, secerne

una sostanza irritante per le mucose a scopo difensivo, endemi-

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ca del territorio italiano per quanto riguarda le alpi marittime,

tutto l’Appennino, fino alla Calabria.

- Finito? Domandarono i due all’unisono.

- Tutto qui.

- Stiamo parlando di un’area che si estende per una lunghez-

za di millesettecento chilometri ad occhio e croce. - Proseguì

poi senza scomporsi speranzoso che avrebbe ritrovato ulteriori

elementi dall’analisi del dito. Purtroppo non fu così.

Liberando dal suo involucro il pollice ancora imbevuto della

sostanza oleosa era incisa, tatuata, solamente la lettera E. La

stessa che aveva già visto la prima volta in mano al senzatetto a

Miami.

Lo sconforto in cui cadde il povero boliviano si tradusse in

minuscole goccioline gelide sulla bassa fronte solcata da rughe

profonde, Come fredde lacrime di sudore, condensandosi, si ri-

versarono inumidendogli il contorno degli occhi, vitrei, spalan-

cati ma unici testimoni, nel loro battere frenetico di ciglia, della

presenza di vita in quel volto pallido tendente al funereo, così

vicino alla morte. Con delusione ma anche tanta dedizione stava

adesso anch’egli esaminando minuziosamente quella parte che

era stata della sua amata, che chissà quante volte aveva baciato,

ammirato, adorato, arrivando inutilmente alle stesse identiche

amare conclusioni. Non c’erano altri indizi. Singhiozzi rapidi e

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alternati precedettero un pianto a dirotto, incessante. Robert si

alzò mosso da compassione.

- Terence, sai benissimo che Ruprecht non ci avrebbe mai

condotto fino a qua per non farci arrivare da qualche parte.

Dobbiamo solo assemblare i pezzi. Anche se non ci sono tanti

elementi.

Entrambi guardarono il corpo della salamandra. L’idea che

dovessero scuoiarla non l’avevano considerata. In quel preciso

istante per entrambi quella era l’unica soluzione.

- Non qui - Li anticipò la guida alpina. - Abbiamo già attirato

l’attenzione fin troppo. Muoviamoci, andiamo nella scuola. La

sarete tranquilli.

Arrivati smontarono lo specchio nel bagno e munito di una

taglierina Robert cominciò a vivisezionare l’animale. Oltre a

budella e liquidi organici dal povero animaletto non risultò

niente. Fece a brandelli zampe e coda. Il tentativo fu del tutto

inutile.

- Potete passare qui la notte. -

- Va bene, siamo molto stanchi -

- Al piano di sopra c’è una stanza, seguitemi. Lì ci sono le

coperte e là c’è un bagno di servizio.

- Buonanotte

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Il giorno seguente Robert rimase tutta la mattina a leggere il

diario di Ruprecht. Lo aveva sfogliato in lungo in largo speran-

do di trovarvi qualche cosa che poteva essergli utile. Sfinito poi

si addormentava recuperando il sonno perso delle ultime setti-

mane. Quindi riprendeva a leggere. Erano passate quattro set-

timane da quando erano arrivati in Italia. Si domandava se Ru-

precht non si fosse stancato di aspettarli ma poi si diceva che

sicuramente egli non gli avrebbe mai teso una trappola in cui

non fosse stato certo che sarebbero caduti. Ma perché così po-

chi indizi questa volta? Che si fosse limitato a giocare? No que-

sto era impossibile, il suo gesto gridava vendetta. L’epilogo si

sarebbe concluso solo in modo tragico. Più leggeva stralci del

diario e più se ne rendeva conto. Un’ultima parte, a cui non a-

veva dato molta importanza, presto catturò il suo interessamen-

to e lo fece riflettere. Riguardava aspetti della mitologia greca

sull’argomento delle mani e delle dita. La passione e la sua os-

sessione. Il capitolo iniziava in questo modo:

ıן ɯıʇo nɐsɔondǝ ın sé ןɐ ʌǝɹıʇà, ɟɹɐnɔǝsɔo bɐɔonǝ (xʌıı sǝɔoןo)

Robert ruotò la pagina e prese uno specchio per continuare a

leggere.

Il mito nasconde in sé la verità, Francesco Bacone (XVII secolo)

E poi,

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Il mito è un prodotto storico dell’antichità, esso contiene i simboli origi-

nari che racchiudono l’eterna verità dell’uomo cui si accede soltanto con

l’intuizione immediata, Gianbattista Vico

Tutti filosofi, rifletteva. Il tema dominante era sempre corre-

lato alla questione greca, o romana, ai simboli e alla geografia

più che altro. Anche se questa ultima parte metteva l’accento

più sulla mitologia e sul tema delle dita.

La scrittura procedeva lineare, delicatissima, come se la mano

calcasse con leggerezza. D’un tratto invece i caratteri diventa-

vano in corsivo, irregolari, come incisioni sulla carta tanto che il

foglio ne risultava forato in molti tratti. Questa parte conteneva

ciò che segue:

Mitologia romana, Rea è Magna Mater deorum Idaea, la sua identità

è Opi.

Mitologia greca, durante il travaglio del parto Rea per alleviare il suo

dolore conficcò le dita nel terreno. Da questi fori nacquero degli esseri chia-

mati Dattili, cinque maschi e cinque femmine. Questi l’aiutarono a parto-

rire. Il nome Dattilo deriva dalla parola greca Daktylos, dita.

Dattili, rifletteva Robert. Dattili, Italia, pollice, dito. Dattilo,

dito, dito dattilo. Rifletteva. Pollice. Meditava. Pollice. Control-

liamo l’etimologia di Pollice.

Pollice, dal latino pollex.

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Diverse valutazioni sull’origine. Tra le più accreditate quella

che attribuiva a pollice e alluce, pollex et allex, la stessa radice Lic

o Lac, a sua volta derivato dal verbo Lego, ovvero prendo, sele-

ziono. Entrambi i prefissi Pol et Ad con l’accezione di “verso” e

“a favore”. Robert prendeva appunti.

Dattilo, il numero 5, pollice. Poi continuò a leggere.

Locuzione latina premere pollicem “favorire qualcuno” e vertere

pollicem “a svantaggio di qualcuno” dal costume dei gladiatori

che giravano il pollice in alto o in basso.

Poi lo colpirono le ultime frasi:

In ultimo l’ipotesi che lo descrive come la forma contratta di

Po-tis-Lect-um ovvero, “che può scegliere” eppure “che può

prendere”.

Che può prendere. Rifletteva. L’istinto gli fece annotare quella

frase. Prendere, prendere in sposa, oppure rapire, prelevare.

Qualcosa collegava i suoi ragionamenti con il fatto del rapi-

mento, con il fatto della donna che amavano entrambi, con il

fatto che lui, Robert, l’avesse “rapita” e portata via da lui. Ovve-

ro il motivo dominante della sua ira e della sua vendetta. La

moglie del suo autista. Rapita anch’essa, vittima la cui sola colpa

era quella di essere fedele all’uomo che lavorava per lui.

Queste cose le sapeva già. Che la donna fosse stata presa e

rapita e che lo stavano inseguendo per questo. Allora perché

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questa definizione lo allertava? Forse era solo suggestione, una

risposta alla necessità di trovare in tutti modi una soluzione. La

spiegazione in realtà non era magari più semplice? Questi indizi

lasciati così, nella loro presunta semplicità, non erano sufficien-

ti?

Aveva quasi perso la speranza quando digitò su google: Dat-

tilo, cinque, E, pollice, rapimento

I risultati erano diversi e non attinenti.

Digitò di nuovo sostituendo “cinque” e la lettera E, in quan-

to la quinta lettera dell’alfabeto, con penta.

Si portò subito la mano alla fronte. La ricerca aveva dato la

risposta che stava cercando.

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Capitolo Nono

Pentedattilo

Robert spiegava sommariamente l’esegesi che lo aveva porta-to a quella conclusione e insieme cercarono notizie a proposito di quel luogo. Pentedattilo, era il titolo dell’articolo, Luogo natu-rale di una tragedia, il sottotitolo.

Da Wikipedia: La località si trova in Calabria. E’ una frazione del comune di Melito Porto Salvo. La caratteristica da cui pren-de origine il nome derivava dal fatto che il borgo medioevale, ad oggi abbandonato, era arroccato sulla rupe del monte Calva-rio la cui forma ricorda quella di una ciclopica mano a cinque dita da cui il nome penta dactylos cinque dita. Sempre dal web numerosi articoli associavano il paesino spettrale, ad una vicen-da accaduta nella notte di pasqua del 1686 in cui nel castello de-gli Alberti si consumò una terribile vendetta. La vicenda narra come i protagonisti di questa vicenda furono i protagonisti di due nobili famiglie: gli Alberti che erano i marchesi di Pentedat-tilo e gli Abenavoli, baroni di Montebello Jonico ed ex feudatari di Pentedattilo. Con il passare degli anni le accese rivalità tra le due famiglie, che si contendevano la spartizione dei confini co-muni, si placarono per via degli interventi del Viceré sempre più zelante nel pacificare la zona, ma soprattutto perché il caposti-pite della famiglia Abenavoli, il barone Bernardino era intenzio-nato a convolare a giuste nozze con Antonietta, figlia del mar-chese Alberti con cui aveva preso accordi. Nel 1865 il barone morì e gli succedette il figlio Lorenzo che alcuni mesi più tardi sposò la figlia del Viceré di Napoli tale Caterina Cortez. In oc-

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casione del matrimonio da Napoli, con la sposa arrivò con il vi-ceré, sua moglie e il figlio del viceré Don Petrillo Cortez. Ter-minate le nozze Don Petrillo dovette rimanere a Pentadattilo a causa di una improvvisa malattia della madre. Nell’occasione Don Petrillo ebbe modo di frequentare Antonietta di cui rimase estremamente affascinato. Chiese al marchese Lorenzo Alberti la mano della sorella e questi si dichiarò onorato e favorevole. La notizia del fidanzamento ufficiale e dell’imminente matri-monio tra Antonietta e il figlio del viceré fece andare su tutte le furie Bernardino che decise di vendicarsi su tutta la famiglia Al-berti. Nella notte di pasqua, con la complicità di un servo infe-dele alla famiglia Alberti, il barone radunò un manipolo di uo-mini armati e fece irruzione nel castello. Quasi tutti furono tru-cidati, solo pochi furono risparmiati. Tra questi Caterina Cor-tez, Antonietta Alberti con la sorellina Teodora e Don Petrillo Cortez preso come ostaggio.

- “Preso” “rapimento” - borbottò Robert, poi riprese a leg-

gere. Bernardino fece rinchiudere nel suo castello Don Petrillo

imprigionandolo a monte bello Jonico come garanzia delle ine-vitabili ritorsioni del Viceré dopodiché andò a sposarsi con la amata Antonietta. Saputa la notizia dopo pochi giorni il Viceré inviò l’esercito che attaccò il castello degli Abenavoli e liberò il figlio. I membri della spedizione che causò l’eccidio, compreso il servo traditore, furono prima catturati e poi decapitati, le loro teste furono appese attorno al castello di Pentedattilo. Bernar-dino e Antonietta fuggirono. La donna fu affidata ad un con-

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vento mentre il barone scappò in Austria dove si arruolo come capitano nell’esercito. Nel 1692 durante una battaglia navale Bernardino morì colpito da una palla di cannone. Antonietta, invece, a cui fu annullato il matrimonio perché costretta con la forza, finì i suoi giorni in un convento di clausura consumata dal dolore per essere stata la causa di tutta la tragedia.

- Santi numi! - Esclamò Robert sbalordito, rilevando le ana-

logie. Infatti, le similitudini erano fin troppo evidenti. Così come la

scelta del luogo per lo scontro finale. Era lì che Ruprecht lo stava aspettando. Aveva tramato tutto affinché capisse fino in fondo l’affronto che egli, Ruprecht aveva subito nel momento in cui lui, Robert, aveva iniziato la sua relazione con Aleksija.

Rifiutando l’invito a rimanere ancora una notte, cosa per cui la guida alpina fu segretamente riconoscente, Terence e Robert partirono per quella che, con forte probabilità e sicurezza, era la loro ultima destinazione. Viaggiarono tutta la notte e gran parte del mattino seguente alternandosi alla guida. Transitarono per Roma che era l’alba. A Reggio Calabria che erano da poco pas-sate le due del pomeriggio. Mancavano poco più di una trentina di chilometri per Melito Porto Salvo. Pentedattilo era a neanche otto chilometri.

Arrivati nel paese di Melito Porto Salvo, riscontrarono che

tutte le strutture, per lo più villaggi turistici, causa la stagione invernale erano tutti chiusi. Passarono la giornata percorrendo a piedi il lungomare nell’inutile ricerca e poi notte in macchina.

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Dormirono come mai avevano dormito. Non fu il sorgere del giorno a risvegliarli ma una pattuglia dei carabinieri che bus-sò ripetutamente al finestrino. Eseguite le formalità e spiegate le circostanze che riguardavano l’impossibilità di trovare un allog-gio, i due esponenti delle forze dell’ordine li lasciarono andare, affidandoli agli sguardi vigili degli esigui abitanti di quel mode-sto posto turistico.

Si rifugiarono in un ristorante. Mangiarono a sazietà compiacendo quelle che in un primo

avviso erano espressioni pressoché arcigne conquistandosene, ad ogni pietanza che apprezzavano, la stima.

Nessuno però parlava la loro lingua. Robert accennò comunque al castello e a pentadattilo. - Ohhhhhh - fecero gli anziani - Spettri, pericoli, nel castello! - Dissero nella loro lingua aiu-

tandosi con la gestualità tipica di chi tenta di farsi capire silla-bando.

- No an-da-re nel ca-stel-lo voi in pe-ri-co-lo! Leggenda dice.. - Non ci interessano le leggende. E’ solo una superstizione, il

vero pericolo lo conosciamo bene e poi.. - Non poté terminare la frase diretta a Terence che guardando oltre la finestra si ac-corse che era sparita la loro macchina.

Rubata. Disse uscendo. L’auto era stata tubata. Ciò che lo preoccupava non era il mezzo che avrebbe risarcito all’agenzia di noleggio, bensì che dentro il cruscotto aveva lasciato la sua semiautomatica. Era sicuramente opera di Ruprecht che già si aggirava nei paraggi. In fondo la sua ira si sarebbe placata solo con la sua morte. Armato o a mani nude avrebbe cambiato po-

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co le cose. La vita della donna era in scambio con la sua morte. Lo sapeva bene.

La sera stava pian piano calando sulla costa. Il castello an-dando a piedi era abbastanza distante. Si incamminarono a quel-la che era l’ultima sfida. Consapevoli entrambi che in un modo o nell’altro avrebbero saputo la verità. Terence sapeva che l’unico scopo che Ruprecht aveva era quello di vendicarsi su Robert. Ma temeva. Temeva che la furia di colui che gli aveva rapito la moglie forse non si sarebbe placata e non l’avrebbe la-sciata in vita, così come quasi certamente la stessa sorte sarebbe capitata a lui. Tuttavia per il povero autista, ardentemente legato alla sua compagna, la vita senza la moglie sarebbe stata inutile. Con passo lento ma costante procedevano verso il rudere. La sera piombò velenosa, il castello da lontano appariva buio, co-me se non ci fosse anima vita. Anche se entrambi potevano percepire un aspetto sinistro già dalla sua forma che pian piano si faceva sempre più maestosa, lasciando loro un brivido di in-quietudine arroccata così com’era in quella rupe scoscesa. Il sentiero si concludeva con una salita più ripida. Certamente nel passato la inaccessibilità serviva a proteggerlo da possibili attac-chi. Oltretutto il luogo era abbandonato a se stesso, il selciato era composto di rocce che a malapena si scorgevano. Si muo-vevano cauti e taciturni come una nave pirata che esplora le rive di un’isola sconosciuta circondata dagli scogli, taciturni come ladri che si apprestano a scassinare una serratura cercando di dare meno vantaggi possibili al nemico dell’imminente loro ar-rivo sebbene già li stesse certamente aspettando. Il termine ca-stello deriva da castrum “accampamento militare, e questo i due lo appurarono nonché si trovarono davanti a quel che rimaneva

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delle torri principali. Da quel poco residuo delle merlature ave-vano la sensazione che qualcuno dall’alto li stava spiando. Dal cortile laterale urlava un vento gelido che sibilava nelle interca-pedini dei mattoni. La porta di accesso aveva un ponte levatoio appoggiato al terreno privo di travi e tiranti. Lo attraversarono. Il legno macero scricchiolava sotto i loro passi. Come misero il piede al suo interno capirono di essere dentro una creatura vi-vente che durante i secoli aveva conservato tutto il suo potere agghiacciante. Tesero l’orecchio non udendo alcunché. Dentro la pancia del mostro si ritrovarono privi di difese e un facile bersaglio. Robert fece un cenno per essere seguito sotto il co-lonnato. Da lì una scala conduceva a piani superiori. Salirono per due piani girandosi spesso di scatto per paura di essere colti alla sprovvista. Si addentrarono nei corridoi ma più si allonta-navano dalla scalinata e più la visibilità scarseggiava. Robert trovò un portacandele, si strappò un lembo della camicia e lo accese. Il fuoco faceva scorgere stanzoni orfani di ogni genere di arredo. Grossi roditori si arrampicavano sulle pareti e infi-landosi in angusti pertugi.

- Ci deve essere un piano superiore. - Osservarono. Strappatosi un altro po’ di tessuto Robert ravvivò la fiamma.

La mise vicino la parete finché non trovò un passaggio segreto. Fecero forza insieme e la roccia si spostò aprendo un varco da cui uscì una nuvola di polvere e fili di ragnatele. Il cunicolo era completamente al buio. Robert entro per primo. A quattro zampe anche Terence lo seguiva. Completamente a tentoni. Tenendo la torcia spenta in bocca Robert sentiva con le mani un primo gradino. Quel passaggio segreto adesso aveva un pic-cola scalinata in mattoni che conduceva ad una stanza di due

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metri per due che altro non era che un cunicolo verticale da cui si saliva per mezzo di una scaletta in ferro. Nel salire non vede-vano niente. Ma udivano il forte squittire dei ratti. A metà salita Robert riaccese la fiamma. Nell’entrare nella stanza segreta vide centinaia di roditori accalcati alle pareti spaventati ma pronti ad attaccare. Robert salì completamente. Disse a Terence di aspet-tarlo. Cercava di guardarsi intorno cercando sempre di sferrare la fiaccola in direzione dei topi che mentre era di spalle cerca-vano di aggredirlo. La stanza non aveva uscite. Come era possi-bile? Avevano girato tutto il castello e lì non c’era nessuno? Constatò che la fiammella era quasi esaurita e si concentrò an-cora un po’ nella speranza di trovare un qualsiasi ulteriore pas-saggio. La fiamma si spense.

- Scendi, Terence! Si precipitò anch’egli all’istante temendo il morso di

quell’esercito affamato. Per loro fortuna ridiscesero incolumi ri-trovandosi nella stessa precedente situazione. Da lì si intrufola-rono nel condotto ma con loro stupore la porta non si aprì.

- Ci ha teso una trappola, forza torniamo indietro Terence! A ritroso si ritrovarono nella stanza con la scala che portava

nella stanza segreta. - C’è una finestra che da sul cortile, io ti passerò la torcia tu ti

preoccuperai di tenere lontano quelle belve mentre io cercherò di sfondarla. - Terence annuì.

Robert si tolse la camicia e l’avvolse ben salda tra le scanala-ture del ferro battuto dello strumento arcaico, prese l’accendino ma fece cilecca.

- Non mi abbandonare adesso, ti prego..

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Dentro il cilindro della scala in ferro, scintille incandescenti illuminavano intermittenti il volto affranto di Robert.

- Su andiamo.. click click - niente. Lo impugnò saldamente tra le mani per riscaldare il liquido

infiammabile, così gli suggeriva un vecchio episodio di gioven-tù.

La fiamma partì leggera e uno spiffero di vento la fece spe-gnere.

Tentò una seconda volta e una lingua flebile spuntò sulla sa-goma protettiva dell’accendino. L’avvicinò alla stoffa ma non fu sufficiente e si spense ancora. Rimasero lì per una decina di mi-nuti. L’accendisigari faceva scintille nei disperati tentativi di ac-cenderlo richiamando l’attenzione dei roditori che si affacciava-no oltre l’apertura mostrando i loro volti famelici.

Robert a quel punto fregò con le mani con tutta la forza che poteva, pregando più che potesse ed infine una debolissima fiammella comparì. Con tutta la lentezza di cui era capace avvi-cinò un filo che usciva dallo strappo alla fonte di calore e, nel momento in cui si spense una scintilla impercettibile si arrampi-cò lungo il filamento di cotone invadendo poco a poco tutto il lembo arrotolato.

Salì all’istante facendosi scudo dell’unica arma di cui dispo-nevano quindi la passò al suo compagno. Terence faceva una fatica disumana per tenerla con entrambe le mani. La paura di essere morsicato dal quel covo di sorci gli regalò una forza im-provvisa. Saranno stati un centinaio, calcolava mentre indie-treggiava a proteggere Robert che aveva cominciato a prendere a spallate la finestra con inserti in metallo arrugginito. Come sventolava l’attrezzo da una parte, una schiera di pantegane in-

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ferocite gli ruzzolavano sotto i piedi. Un paio gli si aggrapparo-no con i denti sulla scarpa ma se ne liberò scalciando. Impugnò la torcia che stava per spegnersi alla base e ruotò su se stesso vorticosamente garantendosi una buona libertà di manovra. Quel gesto tuttavia lo aveva spossato e disorientato. Udì a ma-lapena le urla di Robert che lo invitava ad uscire dalla finestra ma egli non ne era in grado. La fiamma si spense. Come dentro un caleidoscopio, barcollando, cercò di centrare tuffandosi una delle tre finestre che il bagliore esterno gli suggeriva. Per sua fortuna uscì da quella reale. Robert lo sostenne per un braccio evitandogli di precipitare da trentacinque metri. Entrambi sta-vano sulla sporgenza delle mensole che una volta veniva usata come cammino di ronda. Quel che ne era rimasto, corroso dagli anni erano una trentina di centimetri scarsi di mattoncini oltre-tutto friabili. Robert essendo adiacente alla torre teneva una mano su una merlatura, anch’essa logorata.

- Al mio tre salta e aggrappati a quelle sporgenze.. - Uno, due e tre.. - con un salto Terence si aggrappò nelle

scanalature della piombatoia, in epoca medioevale usate per co-spargere gli assalitori di olio bollente. Ansimante vide dissolver-si in un cumulo di frantumi l’appoggio da cui si era staccato. Erano nella parte esterna del castello. Robert analizzò i possibili appigli e istruì l’amico per scavalcare il perimetro. Passati dall’altro lato utilizzarono una scala in legno rimasta pressoché intatta.

Erano al punto di inizio. - Non siamo soli, questo è certo, ma dove si nasconde? - Dove ti nascondi? - Urlò Robert. Ciò che udì in risposta fu

una eco lugubre che sembrava venisse dal regno dei morti.

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- Un attimo, riflettiamo.. Non c’è da cercare “sopra” ma “sotto” - guardando Terence che non non aveva capito.

- Le prigioni! - Terence si guardò intorno, e così anche Ro-bert.

- Troviamo l’ingresso per le segrete.. Percorsero l’area del cortile da cima a fondo fino a che non

trovarono una grossa botola. - Guarda Terence, la serratura è stata rimossa da poco. La

aprirono. Un forte odore nauseante da far venire il voltastomaco pro-

veniva dalle stanze sottostanti. Un bagliore di fiaccole a parete testimoniava la presenza di qualcuno. Un gradino alla volta arri-varono al corridoio. Sopra di loro sentirono il rumore della bo-tola che si richiudeva.

- RUPRECHT! Siamo qua! - gridò Robert. - Lascia libera quella donna, sono qui.. E’ questo che volevi,

no? Nessuna risposta. Robert fece cenno a Terence di mantenersi a una certa di-

stanza. In fondo al corridoio si intravedevano le sbarre delle celle. Alcune con le porte aperte, alcune chiuse. Tutte erano al buio. Tranne l’ultima da cui, avvicinandosi vedevano agitarsi delle ombre. I due rimasero in ascolto. E’ impressionante come l’orecchio umano capti nel momento del pericolo ogni singola vibrazione. Ciò che si udiva, man mano che si avvicinavano era come quello di una persona imbavagliata che si sforzasse di par-lare.

- Rociò! - si allarmò Terence. Robert gli fece cenno di rima-nere dove stava. Con cautela avanzò di qualche metro.

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La donna aveva i capelli sul volto. Si dimenava poiché li ave-va sentiti arrivare. Singhiozzava e piangeva. Robert seppur irri-conoscibile aveva identificato in quella donna la moglie di Te-rence. Aveva le braccia e gambe legate alla sedia e la mano de-stra avvolta da una benda.

- Aiutatemi! - sembrava la traduzione più verosimile che l’intuito potesse riconoscere di quel rantolo AAUUAEI.

Robert vedendo che non c’erano particolari pericoli si avvi-cinò alla cella ma fu anticipato da Terence che si era precipitato alle gambe della compagna. Le scostò i capelli e subito le slegò il bavaglio. Dagli occhi di lei fiorirono delle lacrime calde che egli deterse con le sue guance tremolanti. Robert osservava con misurata circospezione. Terence ubriaco per il ritrovamento si era dimenticato di slegare la donna. Continuava a dirle, oh po-vero amore cosa ti è successo, adesso ti ho ritrovato, oh mia Rociò..

- Adesso ti slego.. poi scappiamo.. Si udirono dei passi, poi una figura si accosto alla cella. Ave-

va un enorme mantello. E si parò davanti alla porta. - Voi non andate da nessuna parte. - Che mi venga un colpo.. - A Robert parve di svenire. Ro-

bert lo riconobbe anche senza vederlo. Non era Ruprecht. Era Bernard! - B.. Ber.. Bernard? - In carne ed ossa.. - Terence si alzò a guardarlo che si toglie-

va il cappello sbigottito. Entrambi rimasero a fissarlo. - Bernard, che ne è di Ruprecht.. Vu.. Vuoi dirmi che sta

succedendo?

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- Ruprecht? - Disse con la solita flemma sbottonandosi il so-prabito - Ruprecht, non c’è mai stato nessun Ruprecht.

- Aspetta un attimo, vuoi dirmi che tutto questo è opera tua? - Esattamente. - E saresti venuto qui disarmato, con che scopo hai fatto tut-

to questo? - Io no, ma lei sì. - Voltandosi videro Rocio con in mano una

pistola. Il suo volto era sorridente. Estasiato. Terence diventò pallido.

- Lo scopo, è poco nobile, se ti dicessi soldi? - Soldi? Ma di che cosa stai parlando, lurido vecchio schifo-

so.. - Eh, eh, fai attenzione, hai una pistola puntata contro.. Devo ammetterlo, - continuò il maggiordomo - mi sono an-

che divertito, adesso su, mettetevi comodi. - Bernard indicò lo-ro una brandina. Poi liberò Rocio dai finti legacci alle gambe. Lei si alzò tenendo di mira entrambi.

- Vedi, far fuori tuo padre è stato un gioco da ragazzi. Un la-voretto semplice. Studiato a tavolino per carità. Ma fu solo l’inizio. Con tua madre devo dire che la cosa fu ancora più faci-le. Lei è stata la mia amante, non ha retto al colpo, sapeva quale era il mio piano e ha avuto un crollo. Non ho fatto altro che metterle il materiale per suicidarsi a portata di mano. Poi c’eri tu. L’ultimo erede. Forse tu neanche sai che tuo nonno, povero ingenuo, fidandosi di me aveva stipulato nella eredità una clau-sola che mi permetteva, se fossi rimasto solo, di prendermi cura di te, cosa che ho sempre fatto e come gratitudine egli mi per-metteva, se ti fosse successo qualcosa, di prendere il pieno con-trollo sulla compagnia. Fu una scrittura privata fatta in gran se-

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greto. Giace sepolta negli archivi di un vecchio notaio ma è pur sempre valida. Con questa splendida donna, molto più giovane di me, condividiamo la stessa passione per l’ambizione. Non avete idea di quanto siano lunghe le giornate in quella casa, in cui eravamo soli entrambi. Il piano è stato escogitato a tavolino minuziosamente in ogni particolare. Ci sono voluti due anni.

- E’ stata tutta una messa in scena.. Le dita, Ruprecht.. - Era l’unico modo per isolarti e far si che la tua scomparsa

fosse del tutto estranea alla questione ereditaria.. Le dita sono quelle di una giovane donna trafugata dal cimitero, una ladra emigrata che non avrebbe ricevuto visite dopo la sua sepoltura, amputarle le dita metterle addosso l’anello è stato un gioco da ragazzi.. La figura di Eagle calzava a pennello..

- Quindi sapevi che egli era morto.. - Ne avevo la certezza assoluta. Fu Aleksija a confermarlo. - Aleksija? - Sì, durante gli ultimi anni lei ti ha scritto lettere in continua-

zione. Prima di rispedirle sempre al mittente lessi del fatto che ti spiegava di ciò che era accaduto quando Ruprecht la condusse all’accampamento per salvarle la vita. Egli fece in modo che lo-ro lo scambiassero per un bosniaco che aveva rapito una ragaz-za serba a cui aveva sparato.

- Quindi lui morì.. - Lui venne fucilato quello stesso giorno. Lei fu curata nel

campo medico e fu dichiarata fuori pericolo dopo una prognosi di tre mesi.

- Ma come avete fatto a organizzare tutto, a posizionare gli indizi in posti così inaccessibili..

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- Rocio si è camuffata da uomo, passaporto falso, e abba-stanza contanti da arruolare in ogni posto delle persone che io avevo ingaggiato. Esperti per ogni ruolo in base alla situazione che avrebbero garantito oltre la discrezionalità delle operazioni anche la loro perfetta elaborazione. Devo dire che questa donna ha del talento, è per questo che dividerò con lei i frutti del no-stro lavoro..

- Bastardi! - Sbraitò Robert mentre i due si baciavano. Rocio aprì la bocca passandogli la lingua sulle labbra. Come Terence scattò in piedi lei si staccò dalle braccia di quello che poteva es-sere suo padre e paralizzò il marito mostrandogli in faccia con fermezza la canna della pistola.

- Non fare un passo e rimetti il culo dove lo avevi lasciato, lurido schifoso! - i suoi occhi erano avvelenati. Terence ricadde seduto non tanto per ciò che poteva uscire dalla pistola ma per ciò che aveva udito dalla donna che amava. Adesso avrebbe po-tuto anche sparargli. Bernard vide lo stato di agitazione in cui riversava il boliviano, anticipando una comprensibile reazione estrasse anche lui la sua pistola.

Prendendo Rocio per un braccio la invitò a fare un passo in-dietro.

- E’ arrivato il momento, dite le vostre ultime preghiere, vol-tatevi, le mani dietro la schiena..

- Vuoi spararmi Bernard? Perché non lo fai guardandomi in faccia? Almeno in questa occasione cerca di essere uomo, non come hai fatto con mio padre e mia madre..

Terence vinto era già di spalle aspettando quella morte che solo lo avrebbe liberato da una sofferenza insopportabile. Ro-bert, memore degli addestramenti, sapeva che qualunque cosa

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poteva succedere, come ad esempio il fatto che si inceppasse almeno una delle armi, e che bisognava approfittarne per tenta-re l’impossibile. Bernard accolse la sfida con implacabile distac-co. Anzi la cosa lo solleticava. I due complici si diedero uno sguardo di conferma e insieme sollevarono le braccia caricando-le..

Robert istintivamente si chiuse gli occhi ma nell’istante im-percettibile in cui lo stava facendo nella retina si configurò l’immagine di un enorme ratto che mordeva Rocio al polpaccio. Riaprì gli occhi e come al rallentatore vide in effetti ciò che gli sembrava apparso solo nella sua fantasia. Come se fosse l’istinto a guidarlo, nell’attimo esatto velocissimo che passò tra l’urlo della donna che sparava muovendosi un colpo al soffitto, Ber-nard che si girava a guardarla spalancando la bocca, e Terence che nel rimbombo del colpo cadeva a terra, in quel preciso i-stante, Robert sferrò un calcio circolare al volto del maggior-domo con tutta la forza che aveva addosso. Il vecchio udì solo il crack della mandibola che si frantumava e poi cadde tramorti-to. La donna indietreggiando inciampò sparando tutto il carica-tore ad occhi chiusi. Quando finì rimase sola accovacciata con il suo arnese in mano fumante e i capelli che gli cadeva sul viso. Quando riaprì gli occhi vide Terence che giaceva a terra sangui-nante. Robert cercò di disarmarla ma prima che lui potesse fare qualcosa lei si era già sparata un colpo mortale. Robert la guar-dava senza un minimo di pietà. Intanto Bernard da terra disten-dendo il braccio stava prendendo la sua pistola. Terence cercò di avvisare Robert ma fu troppo tardi, il vecchio la prese le ma anch’egli si sparò. Robert andò subito a sincerarsi delle condi-zioni del suo amico. Aveva una brutta ferita alla gamba ma si

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sarebbe salvato. Erano altre le ferite da cui non sarebbe presto guarito, ma Robert si disse che non lo avrebbe mai abbandona-to. Uscirono e si appoggiarono sulla scala esterna del castello. L’alba spumeggiante stava sorgendo in quel giorno. Robert ave-va tante domande e una risposta: lei era viva.

Mentre gli uccelli cominciavano il loro canto alti nel cielo Robert abbassando lo sguardo vide una salamandra guizzare tra le sue gambe e poi scappare via.