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Enrico Careri SULL USO VIVALDIANO DEI SEGNI DINAMICI Da diversi anni ormai i precetti filologici dell’Early Music Movement non rap- presentano più una legge inviolabile per gli esecutori di musica antica. Suonare solo ciò che è scritto, come si sosteneva un tempo, è infatti il modo migliore per tradire un testo spesso concepito per essere completato dall’interprete. L’ampia diffusione di quei precetti è certamente servita ad evitare l’arbitrio ingiustifica- to che caratterizzava molte esecuzioni novecentesche ed è un fatto che oggi nes- sun violinista si sogna più di eseguire il Trillo del diavolo accompagnato da un pianoforte. Eppure l’ortodossia filologica era ed è tanto errata quanto l’arbitrio, soprattutto nelle composizioni che prevedono l’aggiunta di note ed altri effetti da parte dell’interprete. Le critiche rivolte da Richard Taruskin alle forme più rigide di «fedeltà al testo» hanno contribuito ad indebolire quelle che sembrava- no certezze acquisite e a riaprire la discussione sull’interpretazione della musi- ca antica. 1 Oggi l’interprete si sente meno vincolato e più libero rispetto al pas- sato, ma non sempre ciò avviene nel rispetto di quanto il testo indica con chia- rezza e delle prassi esecutive. Una breve digressione per chiarire le linee guida di questo studio. In un mio recente lavoro sulla pausa espressiva nella musica di Schubert ho confrontato nove diverse interpretazioni del movimento finale della sonata in La maggiore D. 959. 2 Partivo dalla convinzione che Schubert avesse piena coscienza delle potenzialità espressive del silenzio e lo utilizzasse per ottenere effetti particola- ri. In quasi tutte le esecuzioni alcune importanti pause espressive vengono accorciate e talvolta eliminate. Significative eccezioni sono l’eccellente interpre- tazione di Maurizio Pollini, che come è noto è sempre stato sensibile al signifi- cato espressivo del silenzio, e quella della pianista russa Olga Tverskaya. Quest’ultima esegue Schubert su uno strumento d’epoca, un fortepiano Graf del 1820, e ciò rappresenta un chiaro indizio sui criteri che sottendono la sua inter- pretazione: l’utilizzo del fortepiano si accompagna difficilmente ad un’esecuzio- ne arbitraria, perché ha origine dal desiderio di recuperare il suono originale, ossia dalle stesse istanze dell’Early Music Movement. Dall’esame delle nove inter- pretazioni emerge che Pollini e Tverskaya sono dunque eccezioni e che la rego- la è di evitare quanto più possibile l’interruzione del flusso sonoro. Omettere – 319 – – 1 di 20 – Enrico Careri, via dei Convolvoli 5, 00052 Cerveteri (Roma), Italia e-mail: [email protected] 1 RICHARD TARUSKIN, Text and Act, Oxford, Oxford University Press, 1995. 2 ENRICO CARERI, Sull’interpretazione musicale del silenzio, in «Et facciam dolçi canti». Studi in onore di Agostino Ziino in occasione del suo sessantacinquesimo compleanno, Lucca, LIM, 2003, tomo II, pp. 1079-1090.

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Enrico Careri

SULL’USO VIVALDIANO DEI SEGNI DINAMICI

Da diversi anni ormai i precetti filologici dell’Early Music Movement non rap-presentano più una legge inviolabile per gli esecutori di musica antica. Suonaresolo ciò che è scritto, come si sosteneva un tempo, è infatti il modo migliore pertradire un testo spesso concepito per essere completato dall’interprete. L’ampiadiffusione di quei precetti è certamente servita ad evitare l’arbitrio ingiustifica-to che caratterizzava molte esecuzioni novecentesche ed è un fatto che oggi nes-sun violinista si sogna più di eseguire il Trillo del diavolo accompagnato da unpianoforte. Eppure l’ortodossia filologica era ed è tanto errata quanto l’arbitrio,soprattutto nelle composizioni che prevedono l’aggiunta di note ed altri effettida parte dell’interprete. Le critiche rivolte da Richard Taruskin alle forme piùrigide di «fedeltà al testo» hanno contribuito ad indebolire quelle che sembrava-no certezze acquisite e a riaprire la discussione sull’interpretazione della musi-ca antica.1 Oggi l’interprete si sente meno vincolato e più libero rispetto al pas-sato, ma non sempre ciò avviene nel rispetto di quanto il testo indica con chia-rezza e delle prassi esecutive.

Una breve digressione per chiarire le linee guida di questo studio. In un miorecente lavoro sulla pausa espressiva nella musica di Schubert ho confrontatonove diverse interpretazioni del movimento finale della sonata in La maggioreD. 959.2 Partivo dalla convinzione che Schubert avesse piena coscienza dellepotenzialità espressive del silenzio e lo utilizzasse per ottenere effetti particola-ri. In quasi tutte le esecuzioni alcune importanti pause espressive vengonoaccorciate e talvolta eliminate. Significative eccezioni sono l’eccellente interpre-tazione di Maurizio Pollini, che come è noto è sempre stato sensibile al signifi-cato espressivo del silenzio, e quella della pianista russa Olga Tverskaya.Quest’ultima esegue Schubert su uno strumento d’epoca, un fortepiano Graf del1820, e ciò rappresenta un chiaro indizio sui criteri che sottendono la sua inter-pretazione: l’utilizzo del fortepiano si accompagna difficilmente ad un’esecuzio-ne arbitraria, perché ha origine dal desiderio di recuperare il suono originale,ossia dalle stesse istanze dell’Early Music Movement. Dall’esame delle nove inter-pretazioni emerge che Pollini e Tverskaya sono dunque eccezioni e che la rego-la è di evitare quanto più possibile l’interruzione del flusso sonoro. Omettere

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Enrico Careri, via dei Convolvoli 5, 00052 Cerveteri (Roma), Italiae-mail: [email protected] RICHARD TARUSKIN, Text and Act, Oxford, Oxford University Press, 1995.2 ENRICO CARERI, Sull’interpretazione musicale del silenzio, in «Et facciam dolçi canti». Studi in

onore di Agostino Ziino in occasione del suo sessantacinquesimo compleanno, Lucca, LIM, 2003, tomo II,pp. 1079-1090.

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una porzione di silenzio è però un errore, se non altro perché gli effetti inaspet-tati – e tra essi l’improvvisa interruzione del suono – facevano parte del linguag-gio dell’epoca, che aveva perso la linearità e la maggiore prevedibilità di quellobarocco.

Se l’interprete di Schubert si prende la libertà di ignorare il silenzio, si puòben immaginare quali maggiori libertà si crede di poter concedere il musicistache affronta il repertorio barocco. Libertà prive di motivazioni stilistiche e ingenerale musicologiche che riguardano in particolar modo la dinamica. I segnidinamici sono grosso modo gli stessi, ma il fatto che il compositore settecente-sco se ne serva di meno invece di essere attribuito al profondo mutamento stili-stico avvenuto intorno agli anni Settanta del XVIII secolo viene generalmenteinteso dagli interpreti come una sorta di incapacità di sfruttare a pieno le risor-se già allora disponibili della notazione musicale. E ciò giustificherebbe l’ag-giunta di effetti assenti in partitura, che in realtà hanno il solo scopo di renderel’esecuzione più facilmente commerciabile. Una esecuzione bizzarra o in qual-che modo diversa dal solito ha infatti maggiori possibilità di ottenere l’interessedella critica e di «vendere» di più.

Se ho voluto citare Schubert, ossia un repertorio e uno stile così distanti daVivaldi, è perché – si tratti dell’omissione di una pausa espressiva o dell’aggiun-ta di un segno dinamico – l’errore di fondo è lo stesso: l’interprete sottovaluta ilcarattere intellettuale dell’atto compositivo, il fatto che il comporre è un’azioneconsapevole e non già il frutto di un’innata e ispirata musicalità.

Chiunque abbia curato un’edizione critica sa bene che prima di iniziare latrascrizione è necessario esaminare con cura la partitura per individuare gli ele-menti ricorrenti. Ciò permette in seguito di aggiungere tra parentesi quanto ilcompositore non ha indicato per fretta o semplicemente perché ritenuto ovvio.Qualsiasi aggiunta deve essere fortemente motivata sulla base di comportamen-ti analoghi: se Vivaldi indica abitualmente un «piano» nelle parti di sostegnoquando attacca il canto, sarà opportuno aggiungerle tra parentesi dove doves-sero mancare. E ciò non è raro, in particolare nelle arie sostitutive, composte ocopiate in gran fretta poco prima di andare in scena o anche in seguito alla pre-mière se l’aria originale non otteneva il successo sperato o non era adatta al can-tante. L’individuazione della norma è dunque essenziale per colmare le lacunee per evitare per l’appunto l’arbitrio, ossia le scelte non sostenute da serie moti-vazioni musicologiche. L’edizione critica dovrebbe essere il punto di partenzaessenziale dell’interpretazione. Per esperienza devo dire che ciò avviene di rado.Il curatore trascorre mesi e talvolta anni cercando soluzioni a tutti i problemifilologici che via via si presentano e poi li vede allegramente ignorati dall’inter-prete, che aggiunge legature, piani e forti dove capita. Nel caso del melodram-ma vivaldiano che ho curato personalmente, La verità in cimento (RV 739), ilmotivo di frustrazione nasce anche dal fatto che la registrazione pubblicata inCD da Opus 111, che dalle prime note getta il curatore nel più profondo sconfor-to, difficilmente sarà superata da una nuova interpretazione, perché questo

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repertorio non consente all’editore un simile rischio.3 Ne consegue che il fruttoforse più importante della faticosa realizzazione dell’edizione critica, ossia lasua esecuzione e registrazione, è inutilmente acerbo. Diverso il caso in cui l’in-terprete è egli stesso musicologo, nella migliore delle ipotesi impegnato nellacura di edizioni critiche: la splendida prima del Motezuma al Teatro De Doelendi Rotterdam, diretta da Federico Maria Sardelli l’11 giugno 2005, non è dovutasoltanto al suo talento di musicista ma a tutto il lavoro musicologico che c’è die-tro.

Questo studio si propone di dimostrare con esempi tratti da alcune opere diVivaldi – La verità in cimento, Giustino, La fida ninfa, L’Olimpiade, Griselda – maanche da note composizioni strumentali, che il compositore non risparmiavasegni dinamici se li riteneva necessari e che le lacune hanno luogo prevalente-mente nei luoghi in cui erano considerati superflui. Si tratta di composizionimolto diverse tra loro, se non altro per la loro destinazione. Da una parte melo-drammi, quindi fonti manoscritte composte spesso in tempi rapidi e destinatead un numero circoscritto di esecuzioni (La verità in cimento al solo carnevale del1720) e in seguito alla biblioteca personale di Vivaldi, dall’altra raccolte a stam-pa come L’estro armonico – alle quali peraltro accennerò solo brevemente in con-clusione – di ben maggiore diffusione. Nel primo caso Vivaldi può permettersiomissioni e lacune, perché lui stesso darà istruzioni a musicisti e cantanti com-pletando ciò che non è scritto durante le prove. Nel secondo il compositore sirivolge ad un pubblico molto vasto, non solo italiano e che dunque può nonconoscere ciò che a lui e ai suoi musicisti appare scontato. Ma c’è una differen-za ancora più importante: il melodramma dell’epoca è un genere ripetitivo nellesue forme di base ed è pertanto molto più soggetto ad abitudini stilistiche e anorme compositive. L’estro armonico già dal titolo rivela l’intenzione di stupirecon novità d’ogni sorta, e quindi anche con effetti dinamici non di routine.

Il 9 marzo del 2002 presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia è stata ese-guita per la prima volta in Italia una selezione in forma di concerto de La veritàin cimento diretta da Jean-Christophe Spinosi, che grande fortuna aveva avutonei mesi precedenti in Francia. Avendone come già detto curato l’edizione econoscendone dunque ogni singola nota ero particolarmente curioso di poterlafinalmente ascoltare. Fin dalle prime note è risultato chiaro che qualcosa nonfunzionava. L’allegro iniziale era semplicemente irriconoscibile. Nell’esempio 1

3 Il direttore dell’Ensemble Matheus che ha realizzato il CD, Jean-Christophe Spinosi, sostiene diaver lavorato su una sua partitura «corretta» sulla base dell’edizione critica. A pagina 4 del librettoche accompagna il CD ringrazia il Direttore dell’Istituto Vivaldi «de lui avoir permis de consulteravant publication l’edition critique du manuscrit de La verità in cimento, établie sous l’égide del’Istituto par le Professeur Enrico Careri». Ho potuto consultare la partitura a disposizione di Spinosie posso assicurare che era a dir poco incorreggibile per il numero impressionante di errori ed è fintroppo chiaro che è molto più semplice e rapido utilizzare direttamente la mia edizione. Ma se ancheciò non fosse avvenuto, la sostanza non cambia perché la «correzione» avrebbe comunquericostituito il testo vivaldiano.

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ho trascritto la dinamica di quella esecuzione servendomi del CD che lo stessoSpinosi ha realizzato nel 2003. I segni dinamici inventati da Spinosi si trovanosotto la linea del basso dell’edizione critica:Esempio1. La verità in cimento, Sinfonia, Allegro

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Come si vede Spinosi ignora completamente le indicazioni dinamiche pre-senti in partitura, sia quelle aggiunte dal curatore che quelle originali vivaldia-ne. L’ascolto di questo brano esemplifica bene ciò che l’interprete dovrebbesempre evitare, ossia l’arbitrio non sorretto da valide motivazioni stilistiche emusicologiche. Non è necessario essere esperti di musica barocca per avere lanetta sensazione che questa non sia musica di Vivaldi. I contrasti dinamici, ine-sistenti nel manoscritto autografo, sono enfatizzati senza una ragione che nonsia quella del puro esibizionismo. In partitura non c’è alcun segno che indichiquella sorta di effetto d’eco al contrario voluto da Spinosi, effetto peraltro fintroppo abusato e che comunque Vivaldi non manca di prescrivere nei luoghiche egli considera adatti. Sono invece indicati chiaramente i passaggi in cuisono previsti contrasti dinamici, ossia alle battute 32-34, 48-50 e 54-56. Ed è pro-prio questo il punto: se i segni di piano e forte fossero mancati, l’interpreteavrebbe potuto sentirsi libero di decidere di testa sua, prendendo naturalmen-te ad esempio gli altri melodrammi vivaldiani, ma in questo caso non manca-no affatto, come non mancano nel resto della partitura. Vorrei sottolineare find’ora che non si tratta di dettagli, perché i livelli sonori sono determinanti perla percezione della forma.

I luoghi abituali in cui Vivaldi indica «piano» e «forte» sono sostanzialmen-te due, il «piano» nelle parti strumentali ogni volta che ha inizio il canto e il

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«forte» nelle sezioni strumentali. Questa è la norma ed è qui che Vivaldi «scor-da» talvolta la «p» e la «f». Omette generalmente la «f» sulla prima battuta del-l’intro-duzione strumentale, ma è lecito immaginare un «forte», dal momentoche con l’inizio del canto gli archi devono suonare piano. In molte arie dell’ope-ra la dinamica è tutta qui, si riduce a due soli piani sonori legati ai due diversiruoli dell’orchestra, ossia di semplice sostegno del canto e di parte principale. Laprima aria, «Mi fe’ reo l’amor d’un figlio» può servire da esempio. Dopo leprime quindici battute introduttive l’orchestra tace lasciando per una battuta ilcanto privo di accompagnamento. Quindi i violini primi e poco dopo i secondicon l’accompagnamento minimo del basso riprendono gli arpeggi iniziali in«piano», in modo che la voce del tenore possa ben emergere dal sottofondoorchestrale. Conclusa a battuta 38 la prima intonazione dei tre ottonari che for-mano la prima strofa, c’è un breve interludio in «forte» dell’orchestra (battute36-42), quindi sugli stessi versi il cantante intona la seconda parte di A accom-pagnato in «piano» dagli archi. Quando il canto tace, dopo un nuovo interludiostrumentale in «forte» (battute 76-86), ha inizio la sezione B dell’aria col soste-gno strumentale in «piano», quindi ha inizio il «da capo». Le arie delle primequattro scene del melodramma seguono questo schema elementare e solo nellaquinta Vivaldi si concede qualche effetto dinamico in più. Ciò non significa chel’interprete non possa introdurre qualcosa di suo, ma sempre in piena armoniacon lo stile vivaldiano, evitando in particolare quegli effetti bruschi, talvoltaaddirittura violenti, presenti nell’esecuzione diretta da Spinosi (si veda proprio«Mi fe’ reo l’amor d’un figlio»).

Nell’aria della quinta scena, «Tu m’offendi», una delle più belle dell’opera,Vivaldi introduce per la prima volta contrasti dinamici di qualche interesse. Sianelle prime battute strumentali che nella loro ripetizione contratta tra le sezioniA e B (battute 23-25), il compositore alterna «forte» e «piano» per creare effettid’eco. Sappiamo bene che anche questo è assolutamente normale, e tuttavia ilfatto di riportare i segni dinamici dovrebbe scoraggiarne l’uso dove essi manca-no, come nell’allegro iniziale. Caso a parte sono le arie sostitutive – ben tre nellesole prime quattro scene – dove Vivaldi omette sempre i segni dinamici.4 L’ovviaspiegazione – come si è accennato – è la fretta in cui è costretto a comporre ilnuovo brano, confermata dalla scrittura meno chiara e in corsivo. In questi casil’interprete deve studiare per bene il testo e prendere poi decisioni coerenti consituazioni analoghe presenti nelle arie originali, ossia quelle composte nellaprima stesura dell’opera.

Solo nell’aria della sesta scena, «Là del Nilo sull’arene», assistiamo al primovero cospicuo utilizzo di segni dinamici. Già nell’introduzione strumentale,dove di solito non c’è alcuna indicazione, c’è un breve episodio in «piano» senzacontinuo. Poco oltre, dopo le prime battute di canto, per la prima volta nell’ope-ra Vivaldi prescrive il «pianissimo» nelle parti strumentali. La ragione di ciò sitrova nelle parole cantate dall’infelice Melindo e dall’effetto di singhiozzo che il

4 L’unica eccezione è l’aria «Se vincer non si può» dell’ottava scena del primo atto, doveperaltro ci sono solo le «p» quando ha inizio il canto.

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compositore vuole evidentemente sia ben percepito. La parola «sconsolato» èinterrotta da frequenti pause che evocano per l’appunto il gemito, il singhiozzo.Esempio 2. La verità in cimento, «Là del Nilo sull’arene», battute 12-20

Si noti a battuta 19 il rapido intervento in «forte» degli archi nel brevissimospazio in cui il canto tace, eccezione alla norma che limita il «forte» alle solesezioni strumentali. Situazione analoga a battuta 30 dove un improvviso arpeg-gio in «forte» dei violini introduce il passaggio melismatico sostenuto in«piano» dagli archi. La stessa rapida successione forte-piano ritorna a battuta 41sempre per preparare il passaggio virtuosistico, mentre a battuta 55 l’orchestra

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