Su ‘pensiero ed essere’ nel cominciamento della Hegel · quanto tale, è la dialettica di...

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Seminario per il Dottorato in Scienze Filosofiche (23/02/2012) Su ‘pensiero ed essere’ nel cominciamento della Logica di Hegel Nicola Russo (Università di Napoli “Federico II”) In questo seminario leggeremo alcune pagine della Logica di Hegel, con l’intenzione di dimostrare che essa è il testo chiave dell’ontologia moderna e la realizzazione ultima e in qualche modo definitiva del progetto ontologico platonico e, più in generale, antico 1 . Un compimento talmente integrale, che dopo di essa un’ontologia fondativa non è più possibile, sono possibili solo un’ontologia negativa, come è innanzitutto quella di Nietzsche, fenomenologica o ermeneutica. Un compimento nella sua natura ultima moderno e cristiano, non greco, e che tuttavia deve moltissimo agli antichi, dei quali Hegel aveva una conoscenza molto diretta e profonda, del tutto evidente già nel suo stesso progetto filosofico, più ancora che nella sue Lezioni di storia della Filosofia, dove anzi quella conoscenza è in qualche modo orientata e accomodata dialetticamente alle esigenze sistematiche della filosofia della storia (della filosofia). Ma nelle opere più speculative di Hegel, a partire proprio dalla Logica, e spesso nelle sezioni in cui polemizza contro la filosofia moderna, dimostrandone il tradimento delle questioni filosofiche fondamentali, emerge la sua familiarità soprattutto con i testi platonici e ancor più aristotelici. Familiarità e penetrazione tale – non comune ai suoi tempi –, che non credo sia azzardato dire, che proprio essa lo abbia messo in condizione di pensare in maniera più profonda e consapevole, più coerente e complessiva, i principi dell’idealismo, orientandoli in direzione della sua costruzione sistematica, il cui cardine è proprio la Logica 2 . Logica che è un’ontologia nel senso più rigoroso possibile, nel suo senso originario come teoria non dell’essere, ma del nesso ontologico: in essa, infatti, Hegel riprende del tutto esplicitamente e consapevolmente il compito antico di pensare l’unità di logos e on (che nei termini moderni è quella di soggetto e oggetto, forma e contenuto, pensiero ed essere, certezza e verità…): ossia legge il pensiero antico precisamente come luogo ove quell’unità è stata intuita e ricercata, seppure in maniera esteriore e incompiuta 3 . E come vedremo mette in relazione questo intento con una critica alla separazione moderna, che è radicale, ma cui pur riconosce, nella forma più compiuta del kantismo e poi della prima filosofia idealistica, il merito di aver fatto emergere e imposto una 1 Così anche M. HEIDEGGER, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 437: «L’ultimo e al tempo stesso più grandioso tentativo di pensare, percorrendole, le categorie, cioè i riguardi secondo i quali la ragione pensa l’ente in quanto tale, è la dialettica di Hegel, a cui egli ha dato forma in un’opera che reca il titolo genuino e adeguato di Scienza della Logica». 2 D’altro canto, si potrebbe argomentare a contrariis che proprio per questa sua coltivazione della metafisica antica, pur perseguendo Hegel una filosofia cristiana, abbia finito per immettervi elementi e per darle un orientamento in qualche modo comunque greco ed estraneo ad un principio della fede cui rimane intrinseco il credo quia absurdum: da qui le critiche al carattere di perfetta ostensività del divino, proprio dell’Idea assoluta della Logica, che finirebbe per rendere superflua la rivelazione. 3 Vedi Introduzione, p. 26 (I: 38). Si cita dall’edizione italiana Laterza, tr. di Moni, rivista da Cesa. Tra parentesi, preceduto dal numero del volume, il numero di pagina dell’edizione tedesca in due volumi della Suhrkamp, sulla base della quale ho modificato la tr. it. ogni volta che mi è parso necessario.

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Seminario per il Dottorato in Scienze Filosofiche (23/02/2012)

Su ‘pensiero ed essere’ nel cominciamento della Logica di Hegel

Nicola Russo (Università di Napoli “Federico II”)

In questo seminario leggeremo alcune pagine della Logica di Hegel, con l’intenzione di dimostrare che essa è il testo chiave dell’ontologia moderna e la realizzazione ultima e in qualche modo definitiva del progetto ontologico platonico e, più in generale, antico1. Un compimento talmente integrale, che dopo di essa un’ontologia fondativa non è più possibile, sono possibili solo un’ontologia negativa, come è innanzitutto quella di Nietzsche, fenomenologica o ermeneutica.

Un compimento nella sua natura ultima moderno e cristiano, non greco, e che tuttavia deve moltissimo agli antichi, dei quali Hegel aveva una conoscenza molto diretta e profonda, del tutto evidente già nel suo stesso progetto filosofico, più ancora che nella sue Lezioni di storia della Filosofia, dove anzi quella conoscenza è in qualche modo orientata e accomodata dialetticamente alle esigenze sistematiche della filosofia della storia (della filosofia). Ma nelle opere più speculative di Hegel, a partire proprio dalla Logica, e spesso nelle sezioni in cui polemizza contro la filosofia moderna, dimostrandone il tradimento delle questioni filosofiche fondamentali, emerge la sua familiarità soprattutto con i testi platonici e ancor più aristotelici. Familiarità e penetrazione tale – non comune ai suoi tempi –, che non credo sia azzardato dire, che proprio essa lo abbia messo in condizione di pensare in maniera più profonda e consapevole, più coerente e complessiva, i principi dell’idealismo, orientandoli in direzione della sua costruzione sistematica, il cui cardine è proprio la Logica2.

Logica che è un’ontologia nel senso più rigoroso possibile, nel suo senso originario come teoria non dell’essere, ma del nesso ontologico: in essa, infatti, Hegel riprende del tutto esplicitamente e consapevolmente il compito antico di pensare l’unità di logos e on (che nei termini moderni è quella di soggetto e oggetto, forma e contenuto, pensiero ed essere, certezza e verità…): ossia legge il pensiero antico precisamente come luogo ove quell’unità è stata intuita e ricercata, seppure in maniera esteriore e incompiuta3. E come vedremo mette in relazione questo intento con una critica alla separazione moderna, che è radicale, ma cui pur riconosce, nella forma più compiuta del kantismo e poi della prima filosofia idealistica, il merito di aver fatto emergere e imposto una

1 Così anche M. HEIDEGGER, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 437: «L’ultimo e al tempo stesso più grandioso tentativo di pensare, percorrendole, le categorie, cioè i riguardi secondo i quali la ragione pensa l’ente in quanto tale, è la dialettica di Hegel, a cui egli ha dato forma in un’opera che reca il titolo genuino e adeguato di Scienza della Logica».2 D’altro canto, si potrebbe argomentare a contrariis che proprio per questa sua coltivazione della metafisica antica, pur perseguendo Hegel una filosofia cristiana, abbia finito per immettervi elementi e per darle un orientamento in qualche modo comunque greco ed estraneo ad un principio della fede cui rimane intrinseco il credo quia absurdum: da qui le critiche al carattere di perfetta ostensività del divino, proprio dell’Idea assoluta della Logica, che finirebbe per rendere superflua la rivelazione.3 Vedi Introduzione, p. 26 (I: 38). Si cita dall’edizione italiana Laterza, tr. di Moni, rivista da Cesa. Tra parentesi, preceduto dal numero del volume, il numero di pagina dell’edizione tedesca in due volumi della Suhrkamp, sulla base della quale ho modificato la tr. it. ogni volta che mi è parso necessario.

volta per tutte il «principio soggettivo». Principio a partire dal quale una ricomposizione del nesso ontologico può darsi e deve darsi non più nello spazio dell’ente, ma in quello del logos, che però è destinato così a trascendere i limiti dell’intelletto soggettivo e a farsi ragione del reale e reale come ragione, logos con la lambda maiuscola, Logos come theos.

Questo il progetto complessivo: vediamo ora come si articola nei suoi momenti fondamentali, concentrandoci proprio sulla questione ontologica.

Cominciamo con alcune annotazioni introduttive, leggendo brani dalle due prefazioni e dall’introduzione alla Logica, e limitandoci per il momento a mettere in relazione una serie di nomi e di definizioni hegeliane, che poi approfondiremo entrando nel cuore del testo. Faccio comunque notare che già queste pagine sono molto importanti, sia per il loro contenuto, sia anche per il momento in cui sono state scritte: mi riferisco in particolare alla II Prefazione, scritta poco prima della morte di Hegel e che è la sua ultima parola intorno al sistema.

Nella prima Prefazione, Hegel si rifà subito, immediatamente, al nesso scolastico tra «ontologia, psicologia razionale, cosmologia e teologia naturale» (3), la cui unità è la Metafisica, un’unità che, in particolare nella sua forma wolffiana, era stata disarticolata nella Critica della Ragion pura di Kant. E mette in luce come, ai suoi tempi, alla completa dissoluzione dell’ideale metafisico, popolarizzata nella vulgata kantiana, corrisponda un analogo svilimento della logica, ridotta a una scarna dottrina formale delle argomentazioni. Il rapporto tra metafisica e logica è qui presentato ancora come quello tra due discipline differenti, ossia per come si era storicamente realizzato sin dal medioevo, ma nell’introdurre la Logica parlando di metafisica Hegel dà un primo segnale delle sue intenzioni.

Contro quei due eventi, infatti, è proprio quell’unità della metafisica, seppur profondamente modificata, che egli vuole rifondare, recuperandola dopo la sua dissoluzione kantiana in una forma del tutto nuova: non più quella del pensiero riflessivo o dogmatico, bensì di quello speculativo. E l’essenza di questo pensiero si dà nel modo più puro nella coincidenza, che egli vuole esporre, tra logica e metafisica, e più in particolare tra logica e ontologia: «la scienza logica costituisce la vera e propria metafisica ossia la pura filosofia speculativa» (5-6). Vale a dire, che essa non ha a che fare solo con la correttezza formale del collegamento tra proposizioni, né solo con le categorie dell’intelletto – come nell’analitica trascendentale di Kant –, ma che invece nel suo sviluppo dialettico – che egli qui chiama «metodo assoluto» e «sviluppo immanente del concetto» – articola in sé tutti i momenti ideali, ben oltre le sole idee trascendentali della dialettica kantiana – le «pure essenzialità» dice qui (7) – dell’unità tra razionale e reale, e quindi tutte le forme di quella vecchia metafisica in un’unità sistematica e speculativa, che attende poi di esplicarsi e compiersi nella filosofia della natura e in quella dello spirito.

La pretesa di Hegel, insomma, è che il «puro sapere» (ibidem) possa e debba contare solo su se stesso, senza presupporre nessun oggetto o nessuna legge, nessun metodo estrinseco alla sua pura esplicazione in sé, come «spirito che pensa la sua essenza»4.

Ma questa coincidenza di logica e metafisica, con cui Hegel apre anche la seconda prefazione, cosa significa esattamente? In chiave storica, Hegel asserisce che la metafisica e la logica antiche approcciavano il loro contenuto come un «materiale esterno»5, mentre la sua «nuova impresa» è quella di «esporre il regno del pensiero filosoficamente, vale a dire nella sua propria immanente attività, o, che è lo stesso, nel suo sviluppo necessario» (9; I:19). La Logica, dunque, è innanzitutto l’autoesposizione del pensiero a se stesso, nel suo movimento puro, in cui metodo e contenuto coincidono. Non dunque nella sua figura riflessa, come complesso di leggi e forme del pensiero, ma nella sua dinamica, ossia propriamente come «pensare». La Logica, in tal senso, non è l’esposizione di pensieri o di forme del pensiero – quale pur diviene depositandosi in parole –, bensì

4 Nell’Introduzione, p. 24 (I: 36), il pensiero è soggetto e oggetto della logica, nella misura in cui essa ha come proprio contenuto, come proprio “pensato”, quel pensiero stesso che lo pensa.5 Vedi anche l’introduzione, p. 24 (I: 36), intorno alla distinzione tra forma e materia della conoscenza.

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lo svolgimento puro del pensare, che nelle preposizioni del giudizio si consegna solo imperfettamente, in una figura statica, che non corrisponde alla sua natura speculativa.

Si comprende così sin da subito, che se lo scopo è descrivere il puro movimento del pensiero, la questione preliminare che si pone è quella dell’inizio: da dove prende inizio il pensare?

Domanda che si può anche porre, chiedendo cosa pensa all’inizio il pensare? E come lo pensa… – domande che come vedremo coincidono.

Troveremo più avanti una trattazione ampia della questione, tuttavia i termini della sua soluzione sono già presenti qui nella II Prefazione.

Innanzitutto Hegel riconosce nel linguaggio ciò che è propriamente umano dell’umano, linguaggio che attraversa e condiziona completamente ogni altra sua facoltà ed esperienza: tutto è intriso di linguaggio e in esso sono già depositate quelle essenzialità, o categorie, che la Logica ha il compito di esplicare compiutamente, passando dal pensare naturale a quello scientifico, ovvero, come scrive Hegel, «dal noto al conosciuto» (giacché «il noto, appunto perché è noto, non è conosciuto», come diceva già nella Fenomenologia). La filosofia è in tal senso una teoria dell’ovvio, che è contenuto nel linguaggio e che essa deve elevare a scienza.

Ma cosa è contenuto nel linguaggio?Hegel risponde qui svolgendo una considerazione volta a confutare la tesi che le categorie

dello spirito siano come «mezzi», per la «creazione e lo scambio delle rappresentazioni che vi si riferiscono»: da un lato come «abbreviazioni» (per la loro universalità), dall’altro come strumenti per «la più precisa determinazione e ritrovamento dei rapporti oggettivi» (13). In questa tesi, insomma, le categorie logiche sono distinte sia dalle rappresentazioni, sia dai rapporti oggettivi: poste due cose oggettivamente identiche, la categoria dell’identità sarà utile per determinare linguisticamente questo carattere e dunque ordinare e subordinare a tale universale la rappresentazione che abbiamo di quelle due cose. Di per sé, dunque, dipendendo integralmente «dal dato stesso», tale determinazione del pensiero non avrebbe «alcuna efficacia determinatrice del contenuto» (14).

Una simile concezione strumentale del pensiero – che è ancora quella dell’odierna filosofia analitica – trova espressione nella filosofia critica, così riassume Hegel, nella descrizione di una relazione a tre termini: noi, con le nostre rappresentazioni delle cose come mezzo tra noi ed esse, e le cose stesse.

A questa tesi oppone una considerazione estremamente importante, perché vi è insita la sua concezione della logica come ontologia, differenziando das Ding e die Sache. Due parole che, pur potendo anche essere tradotte entrambe con “cosa”, hanno valori semantici differenti, che in questo passo sono particolarmente rilevanti. In prima approssimazione, possiamo dire che Ding è la cosa concreta, oggettiva, quella “esterna” a noi, la cosa ogni volta nel suo qui ed ora, indipendentemente dal nostro apprenderla. Die Sache, invece, ha una sfumatura decisamente più astratta e richiama la cosa nel suo “essere così e così”, “la cosa stessa”, la cosa “in questione”, la “natura” di tal cosa, di un qualsiasi Ding che si trovi ad essere quella Sache, non semplicemente qui ed ora, nella sua singolarità indifferente, bensì nella sua propria, specifica determinazione.

Hegel, proprio nella Logica, darà poi determinazioni molto più precise, per esempio nel paragrafo intitolato Das Ding und seine Eigenschaften, della II sez. della Dottrina dell’essenza, dove definirà innanzitutto das Ding a partire dal concetto di «esistente», la cui esistenza si pone come «negative Einheit», unità negativa nella «determinazione immediata» dell’«uno del qualcosa, das Eins des Etwas». Come a dire: “una” cosa è una “cosa”, a prescindere da cosa sia, per questo das Ding come «il qualcosa esistente» è distinto dal «qualcosa essente», al quale non è invece indifferente l’essere ciò che è, la cosa che è, cui qui più da vicino possiamo riferire die Sache (542; II: 129).

Ma di tali determinazioni precise già interne alla Logica non abbiamo qui bisogno, ci è sufficiente tenere das Ding nella prossimità con il concetto di esistenza esterna e die Sache con quello di essenza e concetto, attendendoci che sia il passo stesso cui mi sto riferendo a darci altre

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indicazioni (tradurremo Ding con “cosa” e Sache con “cosa stessa”, pur consapevoli di una qualche arbitrarietà e insufficienza di questa scelta). Ebbene, qui Hegel scrive:

«Quando noi vogliamo parlare delle cose (von den Dingen), chiamiamo la natura o essenza di esse il loro concetto, e questo è solo per il pensiero; Ora dei concetti delle cose non diremmo certo che li dominiamo o che le determinazioni di pensiero delle quali essi sono il complesso ci servano. Al contrario, il nostro pensiero è costretto (muss) a delimitarsi rimanendone aderente (nach ihnen: verso di loro) e il nostro arbitrio o la nostra libertà non dovrebbero volersi volgere verso se stessi (nach sich). Nella misura in cui, dunque, il pensiero soggettivo è il nostro atto più proprio e intimo e il concetto oggettivo delle cose produce la Cosa stessa (der objektive Begriff der Dinge die Sache selbst ausmacht), noi allora non possiamo essere fuori da quell’atto, non starci sopra, e tantomeno possiamo elevarci sopra la natura delle cose (Natur der Dinge. scilicet: die Sache o der Begriff). Da quest’ultima determinazione possiamo però prescindere, essa coincide con la prima nella misura in cui darebbe una relazione dei nostri pensieri alla Cosa stessa, ma solo come qualcosa di vuoto, poiché in tal modo la Cosa stessa verrebbe sovrapposta come regola per i nostri concetti, ma proprio la Cosa stessa, per noi non può essere nient’altro che i nostri concetti di essa. Quando la filosofia critica intende la relazione tra questi tre terminorum, ponendo i pensieri tra noi e le Cose stesse come mezzo, nel senso che questo mezzo ci esclude piuttosto dalle Cose stesse, invece di unirci a loro, a tale punto di vista va contrapposta la semplice considerazione, che proprio queste Cose stesse, che dovrebbero stare all’altro estremo, al di là di noi e dei pensieri che si riferiscono a loro, sono loro stesse cose di pensiero (o cose pensate: Gedankendinge) e, nella loro completa indeterminatezza, solo una cosa di pensiero – la cosiddetta cosa in sé (Ding-an-sich) dell’astrazione vuota» (15).

È un passo fondamentale, per quanto complesso, poiché definisce in maniera netta la novità dell’idealismo rispetto alla filosofia critica.

Innanzitutto, Hegel distingue le cose dalla Natura o Essenza delle cose, quindi Ding da Sache, l’uno esistente dall’uno essente.

Poi dice che l’essenza delle cose è il concetto, Begriff, che è solo per il pensiero! Vale a dire, che non c’è una natura delle cose esterna al suo concetto, che il pensiero dovrebbe andare a cercare, tramite l’esperienza e l’astrazione6.

Tuttavia noi non siamo affatto i signori dei concetti, e quindi delle cose stesse: nel pensare le cose, dobbiamo volgerci verso il loro concetto oggettivo e non arbitrariamente verso di noi, ossia nel puro pensiero riflessivo o nell’immaginazione: qui ovviamente concetto oggettivo non significa un concetto esistente come oggetto esterno, Gegenstand, con cui dovremmo venire in contatto e conoscere. Significa piuttosto concetto dell’oggetto, della cosa (nel senso del genitivo sia soggettivo che oggettivo), la sua Natura ed Essenza, che è indipendente dal nostro arbitrio e che tuttavia rimane una determinazione del pensiero.

Infatti, continua Hegel, essendo questo concetto oggettivo a produrre – a portare fuori (ausmachen) – la cosa stessa, a ossia la natura e l’essenza delle cose, il pensiero soggettivo finisce per coincidervi, nella misura in cui la cosa stessa, l’essenza, non può più valere come un esterno al pensiero, che in quanto tale si imporrebbe come regola dei nostri concetti, non essendo invece null’altro che tali concetti – se appunto sono concetti e non solo rappresentazioni! Come poi vedremo meglio, in ultima analisi si tratta di un argomento alla Parmenide: se il logos è logos, e non mera doxa, allora è di un ente, poiché non si dà logos di niente, ma se di un ente allora anche sempre vero, poiché la verità non è altro che il logos dell’ente…

D’altro canto, nota in conclusione Hegel – ed è un’annotazione importante –, anche la cosa esterna al pensiero non è altro che una cosa di pensiero, ovvero non solo die Sache, ma anche das Ding è Gedankending, fino alla pura astrazione della Dingheit, della cosalità della cosa in sé. Vale a dire che anche la cosa posta come l’assolutamente altro del pensiero, rimane un prodotto del

6 Cfr. anche l’Introduzione, pp. 24 ss. (I: 36 ss.).

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pensiero stesso, tant’è che poi trova la sua specifica collocazione all’interno dei momenti della Logica.

Il superamento dell’interdetto kantiano circa l’uso speculativo della ragione si basa proprio su questo: la potenza speculativa della logica, ossia la sua capacità di trarre da se stessa, senza l’intervento dell’esperienza del fenomeno, contenuti oggettivi di sapere, si fonda precisamente sul fatto che il concetto non è di cose, NÉ DI SACHEN, ma è die Sache selbst, è la cosa stessa, è l’essenza e la natura delle cose. Come a dire che il logos non si limita a cogliere l’essenza, ma è l’essenza colta. Affidarsi dunque al puro movimento del concetto in se stesso, a partire dalle sue elementarissime determinazioni, non rappresenta più un uso dialettico e quindi illusorio della ragione, ma positivamente speculativo: l’autorispecchiamento del razionale espone la compiuta articolazione razionale del reale. È certo solo la prima parte del sistema, ma in essa è già racchiusa tutta la verità, la sua Idea.

A questa considerazione, già ricchissima di spunti e sulla quale torneremo, Hegel ne aggiunge un’altra, che la specifica e precisa. Abbiamo detto che il pensiero non si può porre come un medio tra noi e le cose, essendo queste, in qualche modo, sostanziate di pensiero. Tale natura logica delle cose, aggiunge qui Hegel, non può essere neppure pensata come mera «forma esterna» di un contenuto, «forme che sono al contenuto, ma non sono il contenuto stesso» [an dem Gehalt: aderenti al contenuto]. A tale tesi Hegel oppone, che se noi togliamo ad un contenuto concreto la sua determinazione universale – all’uomo Socrate il suo essere uomo, per esempio – di quel contenuto non rimane più nulla, non è più nulla: «se la natura, l’essenza più propria, il veramente permanente e sostanziale nella molteplicità e casualità dell’apparire e della transitoria estrinsecazione è il concetto della cosa, l’universale in essa stessa – così come ogni individuo umano, nonostante sia un infinitamente peculiare, ha in sé il prius di tutte le sue peculiarità nel fatto di essere uomo, e ogni singolo animale lo ha nell’essere animale – allora non si saprebbe dire cosa dovrebbe essere ancora un simile individuo, una volta sottrattogli questo fondamento, lasciandogli poi quanti altri predicati si volessero».

Il concetto universale è la Grundlage di ogni individuo, e non solo un’astrazione generalizzante: senza il mio essere uomo, non posso neanche essere quest’uomo. In effetti, Hegel sta riproponendo qui lo stesso movimento di pensiero, che aveva condotto Platone a porre nelle idee la verità dei sensibili, nell’essenza quella degli esistenti, innescando quel processo di progressiva separazione tra la cosa e la sua essenza, che è tipico di tutta la metafisica e rispetto al quale Hegel rappresenta, entro la metafisica, il più grandioso tentativo di ricomposizione. Una ricomposizione, come quella più generale tra logos e on, che non può più avvenire, però, sul piano oggettivo, della cosa, dello on; ma deve realizzarsi ormai puramente su quello concettuale, dell’essenza, del logos.

«Il fondamento indispensabile, il concetto, l’universale, che è lo stesso pensiero, nella misura in cui si possa astrarre dalla rappresentazione nella parola “pensiero”, non può essere considerato solo una forma indifferente, che sia applicata ad un contenuto [die an einem Inhalte sei]. Piuttosto questi pensieri di tutte le cose naturali e spirituali, lo stesso contenuto sostanziale, ne costituiscono pur nondimeno uno siffatto, da racchiudere in sé varie determinatezze e ancora la differenza di un’anima e di un corpo, del concetto e di una relativa realtà; il fondamento più profondo è l’anima per sé, il concetto puro, che è il più intimo degli oggetti, la loro semplice pulsazione vitale, così come del pensiero soggettivo degli stessi. Portare alla coscienza questa natura logica, che anima lo spirito, che in esso spinge ed agisce, questo è il compito».

La forma non può essere dunque considerata come semplicemente applicata, in maniera sostanzialmente arbitraria, ad un contenuto, né ci si può limitare a porre le forme in maniera indifferente e a stabilire le regole della correttezza delle loro relazioni, come fa la logica formale. La forma in realtà è il contenuto, poiché nessun contenuto rimane tale senza la propria forma. Tradotto in termini ontologici, il discorso si configura così: ogni ente ha il proprio fondamento, il veramente

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permanente e sostanziale, nella sua natura ed essenza, ovvero nel suo logos, poiché il logos non è altro che la verità di quell’essenza, nei termini hegeliani il suo Begriff. Ma se solo entro il logos si dà l’essenza e quindi l’essere della cosa, al di fuori non vi è più la cosa e basta, priva di verità, la molteplicità e casualità dell’apparenza, ma niente affatto, non vi è più niente. Il che, però, non significa che quella molteplicità sia mera parvenza, inconsistenza, ma proprio il contrario: se tutto ciò che è, è sul fondamento indispensabile del logos, allora tutto ciò che è, anche l’apparenza più labile, anche il contenuto più informe, deve essere già sostanziato di logos, già prodotto dal Begriff. Questo significa il compito hegeliano di reintrodurre il contenuto nella logica, e quindi tutta la molteplicità delle concrete determinazioni concettuali: riconoscere non solo che il contenuto essenziale è la forma, ma anche che ogni contenuto è già una forma.

«Si vede subito da sé che quello, che nella prima e più abituale riflessione viene separato, come contenuto, dalla forma, non deve essere in effetti informe, non privo di una determinazione in sé – così sarebbe soltanto il vuoto, come l’astrazione della cosa in sé –; ma che al contrario ha forma in se stesso, anzi una forma dalla quale soltanto riceve vita e sostanza, e che è questa forma stessa che soltanto si traspone nella parvenza di un contenuto e in tal modo pure nella parvenza di un che di esterno a tale parvenza. Con questa introduzione del contenuto, nella considerazione logica, non sono le cose [Dinge], ma la cosa stessa [die Sache], il loro concetto, quel che diventa oggetto».

Si comprende subito l’immensità di un tale compito, che rende grandioso già solo il progetto della Logica hegeliana: proponendosi di articolare sistematicamente l’intera molteplicità delle determinazioni concettuali degli enti, essa è in effetti, come Hegel scriveva proprio all’inizio, l’intera metafisica come sistema dell’ontologia generalis, cosmologia, psicologia e teologia. Ciò che poi la differenzia dalla Filosofia della natura e da quella dello Spirito è che, in essa, tale compito va interpretato nella forma di un’ontologia non più semplicemente generale, ma potremmo dire universale, la compiuta autoesplicazione del Logos come fondamento del tutto, del Logos come il tutto e quindi di tutto come logos. Ed è proprio in questa rifusione dell’unità tra logos e on, che si dà il criterio che rende possibile un compito così immenso: il problema, infatti, che ovviamente si pone di fronte ad una logica che voglia ricomprendere in sé tutta la molteplicità delle determinazioni concettuali concrete, è l’identificazione del principio in base al quale poter articolare e ordinare tale infinita molteplicità. Ed è proprio a ciò, che Hegel si riferisce qui immediatamente:

«In tale contesto, però, ci si può far anche rammentare, che vi è una moltitudine di concetti, una moltitudine di cose. Ciò attraverso cui però, una tale moltitudine viene delimitata, in parte è stato già detto prima: il concetto in quanto pensiero in generale, in quanto universale, è la smisurata abbreviazione a fronte della singolarità delle cose, così come esse oscillano nella loro moltitudine davanti all’indeterminato intuire e rappresentare».

Questa considerazione, però, rimane insufficiente, poiché seppur assicura la possibilità di pensare l’infinito nel finito – tema squisitamente hegeliano – non fornisce però ancora il criterio di tale pensiero, che ha a che fare, come dicevo, con la coincidenza di logos e on. Se infatti ogni contenuto è già la sua forma, se ogni Sache è già un Begriff, a prescindere dalla sua determinazione particolare ogni contenuto sarà innanzitutto null’altro che Begriff. Che non è affatto una tautologia, poiché qui si dà anzi un vero e proprio scarto categoriale: così come prima si è passati dalla cosa alla sua essenza, quel che si richiede ora è l’essenza di tale essenza, che è quel «concetto puro» come «il più intimo degli oggetti» di cui abbiamo appena letto. Vale a dire: se l’essere di ogni ente è il suo logos, l’essere dell’ente è logos, logos e on sono lo stesso. Ciò da cui dunque la Logica deve iniziare e solamente può iniziare, per poter riaccogliere in sé tutta la molteplicità delle determinazioni concettuali concrete, è il loro universale, ossia il concetto stesso nella sua pura coincidenza con l’oggetto, il logos come on, che è ciò da cui in effetti inizia, come vedremo. In tal senso diviene facilmente comprensibile quel che Hegel scrive subito dopo:

«In parte, però, un concetto è al tempo stesso innanzitutto in lui stesso il concetto, e questo è solo uno ed è il fondamento sostanziale; per un altro, però, è bensì un concetto determinato, la cui

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determinatezza è ciò, che appare come contenuto; ma la determinatezza del concetto è una determinazione formale di questa unità sostanziale, un momento della forma come totalità, del concetto stesso, che è il fondamento dei concetti determinati. Esso non viene intuito sensibilmente o rappresentato; è solo oggetto, prodotto e contenuto del pensiero ed è la cosa stessa essente in sé e per sé, il Logos, la ragione di ciò che è, la verità di ciò che porta il nome delle cose. Al minimo è il Logos che non deve esser lasciato fuori dalla scienza logica…» (18-19; I: 29-30).

È con questo passo che si conclude la parte più teoretica della seconda Prefazione – che ricordo essere l’ultima parola di Hegel intorno al suo sistema – ed è un passo tanto chiaro, quanto complesso e ricchissimo di spunti, di cui dobbiamo limitarci ad accoglierne solo alcuni.

Come ricordiamo, poche righe prima Hegel aveva distinto non la forma dal contenuto, ma l’anima dal corpo del concetto. Il corpo è ciò che ci appare come contenuto, essendo però invero la forma determinata del concetto. A prescindere però da ogni forma determinata il concetto è innanzitutto concetto, che qui viene detto: fondamento e unità sostanziale, forma come totalità, die Sache essente in sé e per sé, il Logos, la ragione di ciò che è, la verità di ciò che porta il nome delle cose. Qualcosa di al di là sia dell’intuizione sensibile, che della rappresentazione intellettuale, bensì oggetto, prodotto e contenuto del pensiero.

Tante definizioni, che alludono tutte ad uno stesso, al tempo stesso semplice ed estremamente complesso. Per cercare di districarcene, proviamo a partire da una di esse, riconnettendole mano mano le altre:

«Il Logos, la ragione di ciò che è»: die Vernunft dessen, was ist. Questo was ist (das ist), il “che è”, è l’ente, to on, sia come totalità degli enti, sia come entità degli enti, essenza dell’ente in quanto tale, ciò che è tutto quel che è. Non è dunque mai il singolo ente determinato per se stesso, né la semplice somma di tutti gli enti, bensì la loro verità, che è sempre la risposta alla domanda ti estin? Che è? Ti to on? Che è l’ente? In tedesco: was ist das, was ist? La verità dell’ente non è dunque un ente tra gli enti, ma è piuttosto il logos degli enti, il logos che dice (legei) il ti dello on, qui «la ragione di ciò che è». In questo primo senso, dunque, va inteso qui il Logos come Vernunft dessen, was ist, come afferramento di ciò che è, del «che è» ciò che è, come verità. Con l’avvertenza immediata, che tale afferramento non va ridotto, né in Hegel, né tantomeno negli antichi, al mero pensiero soggettivo, alla nostra singolare intelligenza delle cose, ma sia da intendersi come Logos oggettivo, ragione dell’ente stesso e non raziocinio intorno agli enti (ed è anche per questa ragione che Hegel lo scrive qui con la lambda maiuscola). Il dire del Logos, il suo legein, è un contenere e quindi comprendere originario e fondante ogni dire e comprendere singolare, è il suo fondamento.

Se è così, però, allora è anche il fondamento dell’ente: la ragione di ciò che è non è solo la sua verità soggettiva, la conoscenza della sua essenza, ma anche il suo Grund, la ragione per cui è, causa, ragion sufficiente, principio, ciò in grazia di cui ogni ente si dà, c’è e non solo è ciò che è (qui il was ist diviene o coincide con la ragione del dass ist, secondo la duplice articolazione dello stesso tema in Aristotele). L’essenza, in altri termini, ossia il che è una cosa che è, «verità dell’essere» come è definita nella Logica proprio all’inizio della dottrina dell’essenza, nel suo svolgimento ultimo, «è determinata in sé e per sé come il fondamento, nel quale l’essere si risolve». Vale a dire che la verità non rimane solo la mediazione dell’essere nell’intelletto, ossia solo afferramento soggettivo dell’essenza delle cose, ma si pone come loro oggettivo fondamento ed è in questa unità che diviene ciò che Hegel chiama concetto. In prima approssimazione, perciò, possiamo dire che il concetto è il logos dello on sia come essenza, che come principio dell’esistenza, la ragione di ciò che è sia come verità, che come essere.

Che qui Hegel chiama: «La verità di ciò che porta il nome delle cose: Die Wahrheit dessen, was den Namen der Dinge führt»: un’espressione molto ermetica, che facciamo bene a non torturare troppo per costringerla entro un’interpretazione univoca, giacché vuol essere evidentemente sin dall’inizio evocativa di tanti significati. Ma possiamo almeno aprirla ai suoi vari significati, notando un paio di cose. Ciò che porta il nome delle cose può valere sia come ciò che ha il nome di “cose”, ciò che noi chiamiamo con il nome di Dinge, gli esistenti, considerati nella loro verità; sia ciò che

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tiene in sé e porta a noi il nome di quelle cose, innanzitutto il semplice linguaggio, da elevarsi e purificarsi alla sua verità. La verità di ciò che porta il nome delle cose, dunque, è sia la verità della cosiddette cose singole, la Sache di ogni Ding, Sache che è espressa proprio nel nome, che è la prima elevazione dal singolare all’universale; sia la verità del linguaggio delle cose, la sua intima natura logica, il Logos universale che è incarnato in ogni linguaggio naturale e che, tramite esso, pervade ogni momento dell’esperienza soggettiva.

«Al minimo è il logos che non deve esser lasciato fuori dalla scienza logica», nota Hegel subito. Logos che, nella sua verità, non è né intuizione, né rappresentazione – che appaiono in prima approssimazione i due poli della denominazione delle cose: noi vediamo alcuni oggetti e attribuiamo loro nomi, che ci servono come abbreviazioni e note delle loro caratteristiche comuni – bensì concetto, che è termine che allude alla natura più concretamente essenziale del logos in quanto attività, concepirsi, generarsi: il concetto è ciò verso di cui il pensiero si volge, essendo sin dall’inizio un suo prodotto e tutto il suo contenuto: è l’interno, l’esterno e il movimento dall’uno all’altro; il sapere, l’essere e la verità dell’essere (in quella che è una vera e propria partenogenesi del logos).

Per tale ragione il concetto è al tempo stesso fondamento sostanziale e unità di tutto ciò che è così fondato, la cosa stessa essente in sé e per sé e al tempo stesso tutta la molteplicità delle determinazioni singole dei concetti (e delle cose), la totalità della forma e ogni suo singolo momento contenutisticamente determinato. Forma dinamica, come «pulsazione vitale», più avanti dirà «concreta unità vivente» (p. 29), dell’uno e del tutto, generatrice di ogni contenuto molteplice, che è in effetti null’altro, o nulla di meno, che l’identità infinita di logos e on.

Naturalmente, tutte queste considerazioni intorno alla Logica sono qualcosa di estrinseco e posteriore ad essa: come Hegel notava nell’Introduzione, la Logica non può presupporre nulla, né intorno al suo oggetto, né intorno al suo metodo, poiché entrambi, anzi l’unità di entrambi, deve prodursi solo nel e tramite il suo svolgimento come autoesposizione del pensare puro (23 e poi 37). Essa deve dunque «cominciare subito dalla cosa stessa». La cosa stessa, però – e Hegel è su ciò del tutto esplicito –, non è semplicemente il Sein del primo paragrafo, ma già quell’identità infinita di logos e on (che era il portato ultimo della Fenomenologia dello Spirito). Ma allora perché il primissimo momento della Scienza della Logica è invece «Sein»?

A ben vedere, ci ritroviamo di fronte a quelle domande che ponevamo, lasciandole in sospeso: da dove prende inizio il pensare? E cosa e come pensa all’inizio il pensare?

Anche al di fuori di un impianto hegeliano, anche nei termini di un’ontologia negativa, come sono quelli dell’ipotesi ontologica, l’inizio del pensare è la sua unità immediata con l’essente: essa è sempre all’inizio, prima di ogni pensiero, precondizione di ogni pensare. E tuttavia il cosa di tale inizio, se si vuole il primo pensiero in quanto il primo pensato (come più avanti Hegel concede), non è immediatamente tale unità, bensì solo uno dei suoi lati, quello appunto del «cosa», dell’essente, di cui il pensiero è pensiero.

Allo stesso risultato arriviamo anche seguendo l’impostazione generale di questa nostra lettura: come abbiamo detto, Hegel cerca di rifondare l’unità di logica, ontologia e metafisica sul fondamento dell’identità tra logos e on. Tuttavia, a differenza degli antichi, egli sposta il fulcro di questa identità dallo on al logos: poiché dunque è nel logos che va a cadere il baricentro di quell’unità, poiché è in esso che questa si mostra nella sua compiuta verità, e poiché questo mostrarsi è l’intero svolgimento della Logica stessa, è in qualche modo ovvio, che nel suo primo inizio essa debba rimanere sul versante apparentemente opposto, su quello che, pur essendo lo stesso, lo è nella forma più semplice e immediata e non in quella della mediazione assoluta, quindi sul piano dello on e non del logos (e teniamo presente che già in un’ottica di filosofia critica il logos è la potenza mediatrice rispetto a quella da mediarsi, che è l’essente come il dato, il sic et simpliciter immediato). Di uno on che, tuttavia, rimane sin dall’inizio tutto entro il logos, che è anzi solo on del logos: lo abbiamo già visto e Hegel lo ribadisce con forza proprio nell’Introduzione: «der Stoff des Erkenntnisses» non è nessuna «fertige Welt ausserhalb des Denkens» (25, I: 36), vale

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a dire che lo on non è affatto un immediato esterno, bensì l’immediatezza del logos stesso, quell’immediatezza dalla quale aveva preso le mosse Parmenide nel porre per primo l’identità dei due. In termini hegeliani lo on è solo il puro in sé del logos, non ancora giunto fino ad essere l’assolutamente «in sé e per sé essente» che è il «Concetto saputo», che si sa come l’essere, l’«assolutamente vero» che è insieme «wahrhafte Materie» e «absolute Form» (43).

È comunque proprio a tali questioni che in particolare sono dedicati l’Introduzione e poi tematicamente l’inizio del I libro: «Quale deve essere il cominciamento della scienza?», di cui ripercorriamo solo alcuni momenti, poiché quel che abbiamo detto contiene in sé già l’essenziale del discorso.

L’Introduzione si apre con un agile inquadramento storico, tramite il quale Hegel pone espressamente la sua Logica e, in generale, il sistema della scienza, come ripresa e compimento, al termine della modernità ossia nella sua perfetta maturazione, di quello che era stato il compito originario della filosofia. Egli definisce, infatti, l’antica metafisica a partire precisamente dal nesso tra logos e on e dal suo concetto di verità: «essa poneva come suo fondamento che ciò, che per mezzo del pensiero si riconosce delle cose e nelle cose, sia il solo veramente vero in esse, dunque non le cose nella loro immediatezza, bensì queste solo una volta elevate nella forma del pensiero, come pensate [Gedachte]. Quella metafisica riteneva perciò che il pensiero e le determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti, ma anzi fossero la loro essenza, ossia che le cose e il pensare le cose coincidessero in sé e per sé, che il pensiero nelle sue determinazioni immanenti e la vera natura delle cose fossero un solo e medesimo contenuto» (26; I: 38).

Qui dunque das wahrhaft Wahre, il veramente vero, non è né dal solo lato dell’ente, la sua entità ed essenza oggettiva, né dal solo lato del logos, il suo intendimento, intellezione e dichiarazione circa la cosa, bensì è l’unità dei due, la cosa in quanto Gedacht, pensato.

Un’unità, ancora statica, che viene distrutta nella modernità dall’«intelletto riflettente», che contro la ragione «fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri siano soltanto pensieri […] e che la ragione, nella misura in cui rimane in sé e per sé, produca solo spettri cerebrali [Hirngespinste]. In questa rinuncia della ragione a se stessa, il concetto della verità va perduto, la ragione è ridotta a conoscere soltanto una verità soggettiva, soltanto l’apparenza, soltanto un che cui la natura della cosa stessa non corrisponde. Il sapere è ricaduto nell’opinione» (26 s.; I: 38).

Come vediamo la questione gira sempre intorno agli stessi termini: logos, on, aletheia… E il suo punto chiave è proprio il fatto che «il concetto di verità è andato perduto»: è questa la critica fondamentale di Hegel tanto al razionalismo cartesiano, quanto a Kant (basta leggere, al riguardo, i primi par. dell’Enciclopedia). Quel concetto, che nella sua essenza la metafisica antica aveva colto: le cose e il pensare le cose coincidono, il pensiero e la natura autentica delle cose sono lo stesso, il logos che dice cosa sono le cose e l’essere delle cose sono uno, non vi è essere delle cose al di fuori del logos che lo dice, non vi è logos senza un esser-vero e un vero essere delle cose.

La perdita di questo concetto della verità, però, non è un fatto accidentale, ma riposa su una necessità del pensiero, o meglio su una sua aporia fondamentale, che la metafisica antica non era stata in grado di risolvere e che può venire in luce e così anche essere espressamente affrontata solo dopo l’esilio moderno del sapere nell’intelletto riflettente.

Nella metafisica antica, infatti, le determinazioni del pensiero rimangono una affianco all’altra e non risultano essere il prodotto del pensiero stesso nel suo movimento necessario e unitario: la ragione di ciò è nel fatto, che esse sono intimamente contraddittorie e che quella filosofia – basata sul principio di non contraddizione – non ha i mezzi dialettici per risolverla positivamente. Contraddizione di cui pur essa è certamente sin dall’inizio consapevole – l’opera cruciale, per lo stesso Hegel, è rispetto a ciò il Parmenide di Platone –, ma che rimane una vera e propria aporia, la mancanza di una via d’uscita, che comporta il continuo fallimento dei tentativi di dare una figura compiuta a quella unità: fallisce Platone con la sua teoria delle idee, che restano pure essenze negative rispetto alle cose (per usare qui i termini già della Logica), ma

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sostanzialmente fallisce pure Aristotele, poiché solo in Dio, l’ente sommo come pensiero di pensiero, quell’unità è perfetta, e non nell’essere in generale.

È in relazione a ciò, che acquista il suo senso e significato storico-filosofico l’opera dell’intelletto riflettente, grazie alla quale «venne scorto il necessario contrasto delle determinazioni dell’intelletto con se stesso» e si fece progressivamente chiara la potenza del negativo entro la ragione e anche il nuovo livello di sintesi che andava ricercato: la considerazione delle «forme logiche» non come «determinazioni fisse», che «cadono l’una fuori dall’altra», ma nella loro «unità organica», che deriva dallo «spirito» come «loro concreta unità vivente» (29; I: 41).

Qualcosa che, scrive Hegel, non abbiamo bisogno di anteporre alla Logica a mo’ di presupposizione estrinseca o arbitraria, poiché si è già mostrato nella sua necessità interna, come rigorosa deduzione, tramite la Fenomenologia dello spirito. Il cui risultato – ma andrà poi misurata la coerenza di quanto qui scrive Hegel con quanto scriveva nella Fenomenologia – viene qui così riassunto: «il sapere assoluto è la verità di tutte le modalità della coscienza, perché, come risultò dal suo svolgimento, solo nel sapere assoluto si è completamente risolta la separazione dell’oggetto dalla certezza di sé, e la verità è divenuta eguale a questa certezza, così come questa alla verità. La scienza pura presuppone perciò la liberazione dall’opposizione della coscienza. Essa contiene il pensiero nella misura in cui esso è insieme anche la cosa stessa in sé; ovvero la cosa stessa in sé nella misura in cui essa è insieme anche il puro pensiero. Come scienza, la verità è la pura autocoscienza che si sviluppa e ha la forma del Sé, che l’essente in sé e per sé è concetto saputo, il concetto in quanto tale, però, è l’essente in sé e per sé». «Pensare oggettivo», «assoluto vero» e «vera materia», «forma assoluta»… Ed è in grazia di tutto ciò, che la Logica è il «sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito» (31; I: 43 s.).

Sono pagine celebri, soprattutto nelle ultime loro affermazioni, che qui non è necessario commentare più di tanto, poiché nelle loro varie asserzioni o sono già sufficientemente chiare, o troveranno più avanti occasioni migliori per essere chiarite. Quel che è anche superfluo sottolinearvi, giacché vi è espresso in maniera così netta, quasi ridondante, è appunto il nostro assunto iniziale: la Logica, come Scienza pura, comincia, si fonda e si regge sul nesso ontologico, sull’unità di logos e on.

Ed è proprio su tale presupposto che Hegel costruisce la Partizione generale della logica, che qui espone nell’Introduzione, in un passo molto denso: la logica è «scienza del pensare puro», che ha per suo principio il «puro sapere, l’unità non astratta, ma nella stessa misura concreta e vivente, in cui l’opposizione della coscienza fra un soggettivo essente per sé [für sich Seienden] ed un secondo simile essente [solchen Seienden], oggettivo, viene in essa conosciuta in quanto superata e altresì l’essere viene conosciuto come puro concetto in se stesso e il puro concetto come il veramente essere [si legga più agevolmente «essente»: das wahrhafte Sein]. Questi perciò sono i due momenti contenuti nel logico. Ma essi, ora, sono conosciuti come inseparabilmente essenti [untrennbar seiend], e non come nella coscienza ciascuno anche come essente per sé; solo in grazia di ciò, ossia che nello stesso tempo sono conosciuti come differenti (e tuttavia non essenti per sé), la loro unità non è astratta, morta, immobile, bensì concreta. Questa unità produce [ausmacht] il principio logico al tempo stesso quale elemento [Element], in maniera tale che lo sviluppo di quella differenza, che è così egualmente in lui, soltanto all’interno di questo elemento si pone innanzi a sé [e avanza: vor sich geht]» (43; I: 57).

L’unità di logos e on, quindi, non è solo il principio e l’inizio, ma lo spazio complessivo, l’elemento, quasi l’atmosfera entro cui e di cui si nutre tutto lo sviluppo della logica, entro cui essa rimane, articolandone però tutte le forme molteplici e progressive: la differenza degli inseparabili si deduce a partire, entro e di fronte a se stessa (ausmachen, innerhalb, vor-sich-gehen). Forme che sono sempre anche quell’unità, pure laddove sia solo uno dei suoi lati a venire in evidenza, come

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avviene proprio nel primo momento della logica dell’essere. Come poi mostreremo da vicino, infatti, se così non fosse, se non vi fosse sin dall’inizio non solo l’essere, ma anche già il pensiero dell’essere, verrebbe a mancare il principio propulsore di tutto il movimento della Logica, il suo Lebenspuls. Ma è lo stesso Hegel a dirlo già qui esplicitamente:

«Le precedenti determinazioni per sé essenti, come soggettivo e oggettivo, o anche pensare ed essere, oppure concetto e realtà, o comunque le si possa determinare a partire da uno sguardo retrospettivo, ora nella loro verità, ossia nella loro unità, sono degradate a forme. Nella loro differenza, quindi, restano già in se stesse l’intero concetto, e questo viene posto nella partizione solo sotto le sue proprie determinazioni. Così è l’intero concetto, che una volta è da considerarsi come concetto essente e un’altra volta come concetto. Lì è solo concetto in sé, della realtà o dell’essere, qui è concetto in quanto tale, concetto essente per sé». Per cui la Logica si divide in «logica del concetto in quanto essere e del concetto in quanto concetto».

Sulla posizione specifica della Dottrina dell’essenza non è qui il caso di spendere molte parole, tanto più che rientra comunque nella logica del concetto come essere. È invece proprio su questa dizione che è opportuno soffermarci: la «dottrina dell’essere» – Die Lehre vom Sein: ciò a cui siamo soliti dare il nome di “ontologia” – viene infatti del tutto fraintesa, se non la si considera sin dall’inizio comunque come una logica del concetto, del concetto in sé in quanto essere, e non dell’essere sic et simpliciter, come qualcosa di separabile dal suo concetto (e come?). Essa è così certamente un’ontologia, occupa anzi propriamente, in questo suo primo momento, il posto che occupava l’ontologia generalis nella tradizione metafisica – Hegel lo dice esplicitamente poche pagine dopo: la logica oggettiva deve prendere il posto dell’«ontologia, la parte dell’antica metafisica che doveva ricercare la natura dell’ente (Ens) in generale» (47; I: 61) –, ma in nessun modo come discorso “intorno” o “sopra” l’essere, bensì già come discorso intorno all’unità dell’essere con il concetto. Il che, lo si è detto, non rappresenta affatto una forma derivata, peculiare, tarda, romantica dell’ontologia – per quanto ovviamente debba a ciò la sua particolare figura –, ma sin dall’inizio la sua vera natura.

Solo quando si è perso il senso della domanda antica intorno allo on, si può ritenere che l’ontologia sia stata e sia una mera teorizzazione astratta intorno all’essere, un discorso che parla dell’essere, così come la teologia è un discorso che parla di Dio. Se nella filosofia antica non esiste la parola “ontologia” forse è proprio per questo, se nella gigantomachia peri tes ousias ai physiologoi non si contrappongono gli ontologoi o ousiologoi o ideologoi, bensì «gli amanti delle idee», non è certo perché la lingua greca non fosse sufficientemente elastica da permettere tali termini, ma perché quei termini sarebbero stati insufficienti, giacché la prote philosophia non si è mai occupata dell’essere, dell’essenza o delle idee presi a sé come oggetti esterni di una considerazione teorica (così come avviene nella teoria dell’oggetto e nell’ontologia tassonomica in auge ai nostri tempi), bensì sempre del nesso ontologico, dell’unità ineludibile di logos e on, ovvero della verità.

È così in Parmenide, in Eraclito, in Platone, in Aristotele…: l’episteme che theorei to on kath’auto è episteme tes aletheias, sempre inscindibile, in tutte le sue varie forme, dalla considerazione dello on hos alethos…. La ousia, per non dire del to ti en einai (il ti estin…), e quindi già l’idea platonica (anzi essa ancor più univocamente), è proprio il logos dello on, è lo alethos ontos on, l’essenzialmente essente come veramente vero, che è solo per il logos, proprio come in Hegel il concetto, come natura ed essenza della cosa, è solo per il pensiero. Hegel espone così niente affatto una propria dottrina innovativa, ma pretende solamente di voler afferrare a fondo il modo in cui la filosofia ha pensato la natura della “verità”. Una comprensione matura e profonda, che ha come incarnato lo scopo di tutti gli sforzi ad essa precedenti e così si può porre, e si pone, costantemente in confronto con la storia della filosofia, avendo la piena consapevolezza della sua posizione entro quella storia, posizione sicuramente originale, ma che non è il mostrarsi di un nuovo principio, bensì l’inverarsi del primo, il suo giungere alla piena autotrasparenza e fondarlo, che si pone ad un tempo come inizio e fine del sapere e insieme del reale.

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Retrocedere fondante, Rückgang, che Hegel tematizza proprio nella Logica, che è anzi propriamente, e in un senso del tutto generale e universale, il suo movimento ed esito ultimo. Cosa che diciamo proprio in relazione alla circostanza che qui, pur avendo oramai chiarito il compito della Logica, i suoi presupposti e la sua struttura di fondo, Hegel inizia il primo libro della Dottrina dell’essere con ancora diverse pagine di carattere non solo espositivo (darlegend, ossia speculativo), ma di nuovo introduttivo (riflessivo), dedicate al problema del «cominciamento», che abbiamo detto essere un tema cruciale e che ritorna alla fine della Logica, dove essa viene definita proprio come quel progresso tramite il quale il concetto torna al suo cominciamento, fondandolo regressivamente e fondandosi in quanto quello stesso cominciamento7. Sono dunque pagine molto importanti, nelle quali, però, rispondendo preventivamente a certe critiche, a possibili fraintendimenti, e nel precisare il senso dei primi paragrafi, così come farà anche subito dopo di essi, in 4 lunghe annotazioni, pur mostrando grande sicurezza dei suoi mezzi speculativi, Hegel non riesce a sfatare del tutto, forse neanche di fronte a se stesso, un’impressione di ambiguità. Acuita dal fatto che, sia nell’Introduzione, che nelle Prefazioni, egli ha continuamente ribadito che il concetto della scienza si dà nella scienza stessa e che tutte le premesse non sono che anticipazioni di carattere più o meno storico e riflessivo. Ma se così è, perché la scienza, che dovrebbe avere in sé le ragioni del suo inizio, fatica tanto a cominciare? Perché tante pagine e tante anticipazioni prima dei tre paragrafetti che esauriscono il passaggio dall’essere al divenire? Tante parole sembrano avere qui il compito di nascondere qualcosa, piuttosto che di esporlo…

Proprio trattandosi, in una certa misura, di considerazioni a posteriori, per comprenderne il senso è necessario se non altro incominciare quel cammino già compiuto e leggere prima di esse almeno i paragrafi iniziali cui si riferiscono, ovvero precisamente il tanto evocato cominciamento.

A. ESSERE

Essere, puro Essere, – senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è uguale soltanto a se stesso e anche non diseguale contro Altro, non ha alcuna diversità né dentro di sé, né verso l’esterno […]. È l’indeterminatezza e il vuoto puro. Non vi è niente di intuibile in lui, se qui si può parlare di intuire; oppure è solo questo puro, vuoto intuire stesso. E vi è altrettanto poco in lui da pensare, ovvero è allo stesso modo solo questo pensare vuoto. L’Essere, l’immediato indeterminato è in effetti Niente e non più, né meno che Niente.

B. NIENTE

Niente, il puro Niente; è semplice eguaglianza con se stesso, vuotezza compiuta, mancanza di determinazione e di contenuto; indifferenza in lui stesso. Nella misura in cui l’intuire o pensare possa essere qui menzionato, allora vale come una differenza, se viene intuito o pensato qualcosa oppure niente. Intuire o pensare Niente ha dunque un significato. Entrambi vengono differenziati, così Niente è (esiste) nel nostro intuire o pensare; o piuttosto è lo stesso intuire e

A. SEIN

Sein, reines Sein, – ohne alle weitere Bestimmung. In seiner unbestimmten Unmittelbarkeit ist es nur sich selbst gleich und auch nicht ungleich gegen Anderes, hat keine Verschiedenheit innerhalb seiner noch nach außen […]. Es ist die reine Unbestimmtheit und Leere. – Es ist nichts in ihm anzuschauen, wenn von Anschauen hier gesprochen werden kann; oder es ist nur dies reine, leere Anschauen selbst. Es ist ebensowenig etwas in ihm zu denken, oder es ist ebenso nur dies leere Denken. Das Sein, das unbestimmte Unmittelbare ist in der Tat Nichts und nicht mehr noch weniger als Nichts.

B. NICHTS

Nichts, das reine Nichts; es ist einfache Gleichheit mit sich selbst, vollkommene Leerheit, Bestimmungs- und Inhaltslosigkeit; Ununterschiedenheit in ihm selbst. – Insofern Anschauen oder Denken hier erwähnt werden kann, so gilt es als ein Unterschied, ob etwas oder nichts angeschaut oder gedacht wird. Nichts Anschauen oder Denken hat also eine Bedeutung; beide werden unterschieden, so ist (existiert) Nichts in unserem Anschauen oder

7 Cfr. p. 954, ove si parla di «regressivo fondare il cominciamento».

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pensare vuoto, e quello stesso vuoto intuire o pensare che è il puro Essere. – Niente è così la stessa determinazione o piuttosto mancanza di determinazione e così in generale lo stesso, che è il puro Essere».

C. DIVENIRE

a. Unità dell’Essere e NienteIl puro Essere e il puro Niente è dunque lo stesso. Ciò che è la verità, non è né l’Essere, né il Niente, bensì che l’Essere in Niente e il Niente in Essere – non trapassa, ma è già trapassato. Ma altrettanto è la verità non la loro indifferenza, bensì che essi non sono lo stesso, che essi sono assolutamente differenti, e tuttavia altrettanto inseparati e inseparabili, e che immediatamente ognuno svanisce nel suo contrario. La loro verità è dunque questo movimento dell’immediato svanire dell’uno nell’altro: il Divenire».

Denken; oder vielmehr ist es das leere Anschauen und Denken selbst und dasselbe leere Anschauen oder Denken als das reine Sein. – Nichts ist somit dieselbe Bestimmung oder vielmehr Bestimmungslosigkeit und damit überhaupt dasselbe, was das reine Sein ist.

C. WERDEN

a. Einheit des Seins und NichtsDas reine Sein und das reine Nichts ist also dasselbe. Was die Wahrheit ist, ist weder das Sein noch das Nichts, sondern dass das Sein in Nichts und das Nichts in Sein – nicht übergeht, sondern übergangen ist. Aber ebensosehr ist die Wahrheit nicht ihre Ununterschiedenheit, sondern dass sie nicht dasselbe, dass sie absolut unterschieden, aber ebenso ungetrennt und untrennbar sind und unmittelbar jedes in seinem Gegenteil verschwindet. Ihre Wahrheit ist also diese Bewegung des unmittelbaren Verschwindens des einen in dem anderen: das Werden.

Notiamo innanzitutto che Sein e Nichts sono scritti entrambi da Hegel con l’iniziale maiuscola, il che equivale a porli in tedesco come sostantivi, cosa che è molto importante tenere presente sin da subito. Ciò che è in gioco – per quanto all’inizio, per ottime ragioni, sia detto solo Sein, e non das Sein; che però compare subito nello stesso paragrafo, in realtà ripetutamente (das, das…) – è insomma l’essere come un Essere, e non come “essere di un che”; e altrettanto niente come il Niente, e non niente di un che, come Hegel chiarisce a fondo nella I Nota al capitolo.

Per questa ragione, seppure non lo possiamo dire un Ente, tuttavia dobbiamo pensare questo Sein nella vicinanza all’Ens medievale, e quindi anche al to on antico, poiché è in questa vicinanza che esso nasce, come Hegel mostra quando paragona questi primi momenti al puro pensiero parmenideo dello on e all’ontologia medievale dell’Ens. Certo, enfaticamente, non dobbiamo pensarlo né come einai e assolutamente non come l’essere heideggeriano.

E per questa stessa ragione, analogamente non seguo l’uso di tradurre Nichts con nulla, poiché in quanto contrario dell’ente, esso è propriamente il Niente.

Inoltre, del tutto preliminarmente, faccio notare come in entrambi i primi due momenti, il passaggio all’altro, anzi l’esser già passato nell’altro, si realizza tramite il pensiero: nel primo caso in quanto «pensiero vuoto», nel secondo caso in quanto «pensare niente». Senza questa presenza immediata del pensiero, l’immediato svanire dell’essere in niente e viceversa non si darebbe. La ragione profonda di ciò, che è anche la ragione di tale immediatezza dello svanire, sta nel fatto che proprio il pensiero è la potenza del negativo, che fa di ognuno dei due il proprio opposto. Dal punto di vista del cominciamento, questo significa che l’unità infinita di logos e on è la stessa unità immediata di Sein und Nichts!!! Il logos, ponendosi immediatamente in sé come on, è già il niente di quell’Essere, è già la sua inquietudine concettuale, il suo movimento e divenire8.

Dicevamo, dunque, che in questi pochi passi e nelle tante pagine che Hegel scrive su di essi, rimane qualcosa di ambiguo, l’impressione di un non detto o non chiarito. Dico subito di che si tratta, in una semplice formula, cui poi cercherò di dare contenuto: della riduzione, necessaria e

8 È nell’attualismo gentiliano che tale carattere compare nella sua piena esplicazione, laddove il pensiero è detto enfaticamente «non-essere».

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tuttavia problematica, del concetto di essere, che non deve essere solamente spogliato dalla sua identità saputa con il pensiero (che qui si mostra come identità e differenza immediata con il niente), ma anche da ogni altra determinazione, finendo così, però, per svuotarsi talmente di significato, che la sua stessa posizione come cominciamento appare in un’ultima analisi arbitraria o coincidente sic et simpliciter con le condizioni formali di un cominciamento assoluto (questione che Hegel affronta esplicitamente dopo poche pagine).

Torniamo dunque a partire da tale premessa a quanto sul cominciamento Hegel scrive introducendolo. Senza affrontare un’analisi specifica ed esauriente del rapporto tra Logica e Fenomenologia, molto complesso, tuttavia qui un confronto tra le due opere è necessario: Hegel infatti pone esplicitamente la Fenomenologia come premessa della Logica e, tuttavia, giacché è con la Logica che inizia la Scienza propriamente detta, la «scienza pura» (53), il suo cominciamento deve essere al tempo stesso immediato. Coincidenza di mediazione e immediatezza che non è per nulla problematica, né per noi riguardo a ciò che stiamo cercando di comprendere, né tanto meno per Hegel, che scrive qui: «non v’ha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito né dovunque si voglia, che non contenga tanto l’immediatezza quanto la mediazione» (52). Quel che si tratta piuttosto di capire, ed è a tale scopo che riprendiamo qui gli esiti della Fenomenologia, è in che rapporto la premessa mediata della Logica sia con il suo cominciamento immediato, cosa avviene in questo cominciamento, rispetto al quale Hegel ha posto la condizione metodologica che esso debba coincidere con il Principio (Prinzip), nel senso che «quello che è il Prius per il pensiero deve essere anche il Primo nell’andamento del pensiero» (52).

Condizione che non parrebbe proibitiva: in fondo, il primum della Logica è stato già detto e ripetuto più volte: la coincidenza di logos e on, di Denken e Sein, che era appunto il portato della Fenomenologia dello Spirito. In queste pagine Hegel scrive – e lo fa nei termini di un’«esposizione» (Darlegung) speculativa e non di semplice riflessione –: «il cominciamento è logico, in quanto dev’esser fatto nell’elemento del pensiero che è liberamente per sé, cioè nel sapere puro. Esso è quindi mediato dal fatto che il sapere puro è l’ultima, assoluta verità della coscienza», quale è venuta in luce nella Fenomenologia, l’Idea che si «è determinata come la certezza fattasi verità, si è determinata cioè come la certezza che da un lato non sta più di contro all’oggetto, ma lo ha reso interno, lo conosce come se stessa, dall’altro lato poi ha anche abbandonato il sapere di sé come qualche cosa che stia di contro all’oggettività e ne sia soltanto la negazione, si è espropriata di questa soggettività ed è una con questo suo espropriarsi. […] In quanto è venuto a fondersi in quest’unità, il sapere puro ha tolto via ogni relazione a un altro e a una mediazione. È quello che non ha in sé alcuna differenza. Questo indifferente cessa così appunto di essere sapere. Quel che si ha dinanzi non è che semplice immediatezza», che nella sua «vera espressione» è il «puro essere»: «come per sapere puro non s’ha da intender altro che il sapere come tale, in maniera cioè affatto astratta, così anche per essere puro non s’ha da intender altro che l’essere in generale; l’essere, e niente più, senz’alcun altra determinazione e riempimento».

Ma il punto è proprio questo: – Che significa «Essere in generale, L’E ssere e niente più»? Niente più oltre cosa?– Ed è questo che la Fenomenologia ci ha consegnato o non piuttosto il «sapere assoluto»?

Vale a dire che l’identità di logos e on, l’unità perfetta dei due, è davvero tale da cancellare qualsiasi relazione tra essi e quindi ribaltarsi nel puro immediato e indifferente Essere?

– E ancora: questo essere come l’irrelato, immediato, indifferente e semplice, entro cui letteralmente collassa il Logos, piuttosto che alienarsi o oggettivarsi, è ancora quello della Fenomenologia? E se non lo è, perché non può più esserlo?

Sono tre domande differenti, le ultime due poste per cercare di dare una risposta alla prima, che è naturalmente quella decisiva: cerchiamo insomma dal confronto con la Fenomenologia indicazioni per comprendere cosa diviene l’Essere nel I momento della Logica. Tenendo presente innanzitutto proprio questo: che si tratta appunto di un momento nella forma del concetto. Al

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riguardo, leggiamo proprio nella Fenomenologia, insieme ad altre considerazioni importanti su cui torneremo tra poco, ciò che differenzia, da un punto di vista speculativo, le figure della coscienza dai concetti della scienza: «Se nella fenomenologia dello spirito ogni momento è la differenza del sapere e della verità e il movimento in cui lo spirito si supera, la scienza per contro non contiene questa differenza né il superamento di essa; anzi, siccome il momento ha la forma del concetto, il momento stesso unifica in immediata unità la forma oggettiva della verità e quella del Sé cui è intrinseco l’atto del sapere» (Fen. II, 303)9.

Su questa «immediata unità» di verità e sapere nei momenti del concetto torneremo, poiché è evidentemente una determinazione molto importante rispetto all’assunto di fondo su cui stiamo insistendo, ma cerchiamo ora di rispondere alle ultime due domande poste, ossia se il «sapere» e l’«essere» della Logica sono ancora quelli della Fenomenologia.

In essa, il primo momento è quello della certezza sensibile, ovvero del «Sapere dell’immediato o dell’essente», di un «puro essere della cosa», Sein der Sache, che è anche qui, come nel primo momento della Logica, «einfache Unmittelbarkeit», semplice immediatezza, se non che qui si tratta di «uno posto in quanto il semplice immediatamente essente, o in quanto un entità, l’oggetto [eines als das einfache unmittelbar seiende, oder als das Wesen gesetzt, der Gegenstand]», ciò che sta immediatamente di fronte alla sensibilità, di cui la certezza sa solo questo: che è, «es ist». Nella sua peripezia attraverso le varie figure dell’oggetto e della coscienza, questa fa l’esperienza – e noi acquisiamo così «la scienza» di tale esperienza –, che quella immediatezza esterna dell’oggetto come l’altro della coscienza è illusoria. Il sapere assoluto è innanzitutto il «superamento dell’oggetto della coscienza» (II: p. 287), che nel riconoscerne la nullità, non per questo lo distrugge, ma anzi propriamente lo pone, tramite il doppio movimento di alienazione di sé nella cosa e superamento di quell’alienazione nella consapevolezza di essere la cosa stessa.

Vale la pena citare per intero un passo dell’ultimo capitolo della Fenomenologia molto chiaro al riguardo: «L’alienazione dell’autocoscienza pone la cosalità (die Dingheit), onde l’alienazione ha un significato non solo negativo, ma anche positivo, e ciò non solo per noi o in sé, ma anche per l’autocoscienza stessa. Per essa il negativo dell’oggetto o l’autotogliersi di quest’ultimo ha un significato positivo, ovvero essa sa quella nullità dell’oggetto, perché, da una parte essa aliena se stessa: – infatti in questa alienazione pone sé come oggetto o, in forza dell’inscindibile unità dell’esser-per-sé, pone l’oggetto come se stessa. E, d’altra parte, in quest’atto è contenuto l’altro momento onde essa ha anche tolto e ripreso in se medesima quell’alienazione e oggettività, essendo dunque presso di sé nel suo esser-altro come tale». Tramite questo movimento della coscienza, essa stabilisce «una relazione all’oggetto secondo la totalità delle determinazioni di questo», totalità che «rende l’oggetto, in sé, un’entità spirituale» (ein geistigen Wesen e più oltre Wesenheit; II: 551s.). Tradotto nei termini che stiamo usando: to on kath’auto è logos o forse ancor meglio nous, intelletto come spirito.

Qualcosa che, però, nel contesto della Fenomenologia non può essere esposto nel puro elemento del concetto; – ed è qui che si apre lo scarto con la Logica, poiché la coscienza non è ancora il concetto unitario di quell’essenza spirituale nella sua totalità, ma solo le sue molteplici esperienze. Ancora nei termini del rapporto tra sapere ed essere, Hegel elenca così le determinazioni fondamentali di quella totalità che è l’oggetto, mettendo in campo tutta una serie di termini che ritroveremo nella Logica: «L’oggetto è in parte essere immediato o una cosa in genere (unmittelbares Sein oder ein Ding überhaupt), che corrisponde alla coscienza immediata; in parte un divenir-altro di sé, cioè la sua relazione o il suo essere per altro ed esser-per-sé, la determinatezza (Bestimmtheit), che corrisponde alla percezione; in parte Essenza (Wesen) o l’universale, che corrisponde all’intelletto. […] Secondo queste tre determinazioni la coscienza deve sapere l’oggetto come se stessa. Ma questo non è il sapere come puro concepire l’oggetto […]. Nella coscienza in quanto tale l’oggetto non appare ancora come l’essenzialità spirituale, quale fu

9 La Fenomenologia dello spirito (Fen.) è citata nell’edizione in due volumi de La nuova Italia, a cura di E. De Negri. Come per ogni altra opera, qualora il confronto con il testo originale lo richieda, la traduzione è stata modificata.

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da noi testé espressa; e il comportamento della coscienza verso l’oggetto non è la considerazione di esso in questa totalità in quanto tale, né nella pura forma concettuale di quest’ultima» (Fen. II: 288).

È tale considerazione propriamente il compito della Logica, in qualche modo ripetere il percorso della Fenomenologia, ricapitolando i momenti di quella totalità – questa volta però assumendoli sin dall’inizio come momenti del concetto, ovvero pensando sin dall’inizio quella totalità in quanto tale, come unità – avendo attinto la pura dimensione concettuale, e quindi superato del tutto l’opposizione e anche la ricomposizione tra una coscienza e il suo oggetto.

Il discorso è molto chiaro e da esso appare anche chiara l’esigenza di non procedere, nella Logica, tramite una progressione di relazioni di un sapere a un saputo, bensì lungo la dialettica dei momenti dell’unitotalità che è l’essere in quanto concetto. E così anche – giacché è il concetto in ultima istanza la vera natura dell’essente, ossia è il logos che, nell’identità di on e logos, rimane il baricentro – di partire dal puro essere, per andare a terminare, nell’esposizione compiuta della sua essenza, nel concetto puro: Hegel esprime spesso la cosa dicendo, come fa anche in queste pagine, che nello sviluppo della scienza «l’andare innanzi è un cammino all’indietro entro il fondamento, verso l’originario e il vero – ein Rückgang in den Grund, zu dem Ursprünglichen und Wahrhaften – dal quale quello, con cui si era incominciato, dipende ed è, infatti, prodotto – hervorgebracht: portato innanzi», originario e vero che è appunto il sapere assoluto che produce l’essere, il logos che si fa on: «così – scrive di seguito – si conosce lo spirito assoluto (che si mostra qual concreta ed ultima somma verità di ogni essere) come quello che al termine dello sviluppo liberamente si estrinseca e si emancipa nella forma di un essere immediato – si risolve cioè alla creazione di un mondo. […] L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l’intera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo e l’Ultimo anche il Primo»10.

Tutto questo è evidente, e tuttavia, per quanto possiamo comprenderne le esigenze diciamo anche sistematiche, dal punto di vista teoretico è comunque opportuno constatare come nel passaggio dalla Fenomenologia alla Logica, ciò che nella Fenomenologia vale senz’altro immediatamente come “essere” non è in alcun modo l’Essere che la Logica pone come suo primo momento ed il cui senso – o mancanza di senso – ci lascia perplessi. Nella prima opera, infatti, dove si parte dalla coscienza immediata di un che, di un dieses, abbiamo visto che essere è immediatamente l’essere di una cosa, l’essere come una cosa (unmittelbares Sein oder ein Ding überhaupt). Nell’Introduzione alla Fenomenologia, Hegel scrive che la coscienza «distingue da sé un alcunché al quale in pari tempo si rapporta», ove «l’essere di un alcunché per una coscienza è il sapere», da cui «distinguiamo l’esser-in-sé: il rapportato al sapere viene altrettanto distinto da esso e posto come essente anche fuori di questo rapporto; il lato di tale in sé dicesi verità». Momento della verità in realtà ambiguo: «la coscienza sa qualcosa (weiss Etwas); questo oggetto è l’essenza o l’in sé; ma esso è l’in sé anche per la coscienza; e con ciò entra in gioco l’ambiguità di quel vero» (Fen. I, 76), che è poi ciò che mette in movimento lo sviluppo dialettico.

Quel che però qui più ci interessa è altro e riguarda proprio questo Etwas, che Hegel scrive con l’iniziale maiuscola e in corsivo, per evidenziarne la rilevanza teoretica e indicarne la funzione logica, che non è riducibile a quella di un esistenziale, come avviene nella logica formale per le funzioni del tutto e del qualcuno, ma è quella di un sostanziale, ossia per sottolineare che in ogni etwas del pensiero è pensato un essente, un ente: Sein. Ebbene, questo essente, che si presenta innanzitutto nella figura del qualcosa, Etwas, dello hekaston, è immediatamente l’oggetto della coscienza, nelle varie forme in cui si dà ad essa un simile oggetto e che abbiamo enumerato: ein Ding überhaupt, Bestimmtheit, Wesen. Queste tre forme, a ben vedere, corrispondono a tre modi elementari in cui pensiamo l’essere, modi che nella filosofia analitica odierna sono distinti come diverse accezioni e funzioni logiche del verbo essere – esistenziale, copulativa, predicativa, identitaria… – mentre nell’ontologia classica e ancora qui in Hegel, per tutta una serie di ottime

10 Log. 56 s.; I: 70 (a p. 57 si legge che l’ultimo, che è il vero essere del primo, è tuttavia anche il suo risultato, «un’ulteriore determinazione del cominciamento stesso», diciamo il suo inveramento, con il quale il cominciante non è tolto, ma conosciuto nella sua vera essenza).

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ragioni, sono pensate inscindibilmente nell’unità dell’essere: l’esserci qui di “quest’uno qualunque”; il questo come ente determinato, come “questo e non altro”; l’essenza di tale ente, il suo essere “questo così e così”. Nei termini antichi to hen, to on e he ousia, l’uno, l’ente e l’essenza. In quelli medievali: existentia, ens ed essentia…

Nel primo momento della Logica non troviamo esplicitamente nessuno di questi termini, che vi compariranno solo successivamente, uno dopo l’altro, nelle loro varie articolazioni. Ciò che ci viene posto dinanzi è la «semplice immediatezza» nella quale si è capovolta la mediazione assoluta del sapere. Non abbiamo più a che fare con qualcosa, un uno, che è un ente, ossia un essente, bensì con «Sein überhaupt, l’essere in generale; l’essere, e niente più, senz’alcun altra determinazione e riempimento», non l’essere di una cosa o semplicemente ein Etwas, ein Ding, ma Essere e basta. Al di là, però, di quelle tre accezioni, tramite cui per noi, ossia al logos, si dà qualcosa come essere, che significa «essere e basta»? Se non è né l’esistere di uno, né l’individuarsi di un che, né l’entità di un ente, cos’è «essere e niente più»? «Senz’alcun altra determinazione», scrive Hegel, ma a parte quale determinazione? Poiché posto così, avendogliele tolte preliminarmente tutte, non ne ha alcuna. Se non, precisamente, quella dell’indeterminazione. Ma per quale ragione mai l’essere dovrebbe essere innanzitutto semplice immediatezza? E che significa semplice immediatezza? Non è l’immediatezza stessa, in fondo, un’espressione dell’intelletto (55), una riflessione e non un concetto puro? Tant’è che non può dirsi in termini positivi, ma solo come negazione, come il “non mediato” e quindi sempre in riferimento al suo opposto? Né possiamo semplicemente sfuggire a tali domande, rispondendo che, proprio come la Logica mostra subito, questo essere è precisamente niente: «quando si è astratto da tutto non resta nulla» (91), lo stesso Hegel critica tale riduzione dei primi movimenti della Logica, che renderebbe del tutto arbitrario cominciare dall’essere, piuttosto che dal niente.

Ogni serio tentativo di comprendere un pensiero essenziale, anche laddove si approssima ai limiti di quel pensiero, ossia laddove quel pensiero esperimenta i suoi propri limiti, entra in attrito con le sue aporie fondamentali ed è costretto a fingersi una via d’uscita e così pure a mostrarla, non può mai ridursi ad una confutazione sic et simpliciter. In filosofia, anzi, vi è tanto poco qualcosa come una confutazione, quanto poco vi è qualcosa come una dimostrazione. Accontentarsi di aver mostrato l’inconseguente, il vago o l’incompleto, il sottaciuto o seppellito, insomma, vuol dire spesso non aver compreso affatto la questione. Per questo, nel mettere anche noi il dito nella piaga, vi cerchiamo non l’assicurazione di una fede o di una malfidanza, ma anzi proprio il contrario: vogliamo capire cosa quel pensiero ha propriamente tentato, cosa gli è magari anche riuscito, seppure non sia quel che vogliamo tentare noi stessi. E la piaga, a dispetto di quel che lo stesso Hegel lamentava, e in gran parte a ragione, ossia l’accanimento dei suoi critici intorno ai primi due momenti della Logica, che offuscava tutto il suo ulteriore edificio, notevolissimo, entro il quale si dava, ai suoi occhi, il suo vero contenuto e guadagno, non è affatto marginale.

Il problema, certo, non era quello tanto stigmatizzato all’epoca, ossia il trapasso dell’essere nel niente, che è piuttosto un punto di forza, assolutamente essenziale non solo alla Logica, ma a tutta la dialettica hegeliana e, più in generale, alla dialettica filosofica tout court. Semmai, ma con diverse limitazioni, ciò che qui si presenta, per esprimerci nei termini di Heidegger, è una perplessità circa il «senso dell’essere», questione di cui Hegel aveva sentore, se proprio nel ragionare intorno alle aporie della posizione dell’essere in quanto il semplice immediato, nota come voler andare al di là di ciò, ossia attribuire all’essere una qualche altra determinazione, al di là di esso: essere e basta, significherebbe null’altro che voler dire l’essere dell’essere e quindi condannarsi ad un regresso infinito (82). Il che non implica che dovremmo prendere la sua soluzione come senz’altro adeguata, ma appunto cercare di comprendere cosa è stato tentato con essa, a quale difficoltà immanente del pensiero – che è proprio il suo non poter uscire dal circolo magico dell’essere – egli ha cercato di ovviare con la sua posizione dell’immediato indeterminato e cosa, in tale posizione, egli abbia effettivamente posto.

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Quel che, infatti, una lettura complessiva della Logica mostra, è che in questo “Essere e basta” con cui essa comincia, a dispetto della sua immediatezza e vuotezza in linea di principio, è già contenuta l’unità indifferenziata di quelle tre accezioni dell’essere che dicevamo, non ancora determinatasi, ma già presente, solo in base alla quale esso può già valere, pur nella sua piena indifferenza e completa astrattezza, come il «Positivo», come essere e non come niente. E insieme l’unità dell’essere con la potenza del negativo del Logos.

Nel semplice, infatti, che a ben vedere precede l’immediato, che è tale proprio a partire da quella semplicità, nell’Einfach: l’uno uno non affetto da null’altro, né internamente, né esternamente, è dato già questo: che il semplice è. Uno è…

Nei termini di un’ontologia già andata a ritroso verso le sue elementari condizioni di possibilità, ovvero di necessità, questo significa null’altro che aver posto quel che è imposto (in quanto preposto): ognuno è un uno come un ente (hekaston hen einai hos on). Il semplicemente immediato, il primo, ciò che è ancor prima di venire pensato, di essere visto, tuttavia già è: questo è il «puro Essere» dello Logica, l’esser già di tutto ciò che immediatamente… è. È tale la costrizione del pensiero, che anche il prima del primo occhio che si è aperto, come diceva al contrario Schopenhauer, lo pensiamo già immediatamente come essente, essente stato, anche il prima di ogni prima e il suo avvenire: la creazione ex nihilo come riempimento del vuoto originario – nei termini scientifici contemporanei il Big Bang – è per noi un essente nella forma di un evento localizzato da se stesso e temporalmente determinato (il «qui ed ora» della Fenomenologia come primi elementi dell’oggetto della certezza), il prima ancora non esitiamo a definirlo «nulla quantistico» e ad attribuirgli determinazioni d’essere –; e anche l’Idea assoluta in sé di Hegel, il Padre che è prima di tutto, prima del tutto, è propriamente Essere: Colui che è, di cui la Logica articola il pensiero. Niente di ciò che è pensabile, insomma, a partire dal niente stesso11, sfugge alla costrizione dell’essere. Essere è in tal modo, davvero, l’immediato indeterminato: ogni cosa, anche ogni non cosa, tutto e il contrario di tutto, immediatamente e del tutto a prescindere da come sia fatto, da cosa sia o non sia, da qualsiasi altra determinazione, «weitere Bestimmung», è…

Essere e basta, senza nessun’altra determinazione o riempimento…: si comprende facilmente l’abisso che è quest’inizio della Logica, il chaos che spalanca agli occhi. Cosicché nulla è più comprensibile del fatto che tale abisso divenga e sia immediatamente anche il Niente, proprio niente. E tuttavia si comprende anche come qui sia pensato l’assolutamente differente dal niente (cfr. il paragrafo del Werden e la II Anm., 79 ss.), tutta la positività dell’essere, la concretezza del mondo e del suo pensiero. Un tutto che innanzitutto, immediatamente, deve essere pensato prima di ogni sua ulteriore determinazione, specificazione e riduzione: überhaupt –; e questo prima di tutto, per il logos, è l’ente, to on, l’essente, nel lessico hegeliano Sein. Dove non solo non è pertinente, malamente riflessivo, ma del tutto impossibile distinguere valenze, significati o sensi: Sein è Sein und sonst Nichts. Niente è fuori dall’essente, del tutto in generale l’essere è essere o altrimenti niente12.

E tuttavia in questo essere e basta non c’è solo tale immediatezza del singolo e del tutto, del singolo che è tutto, c’è anche il suo modo, ovvero l’unità dei suoi modi, come “uno, ente ed essenza”: solo che qui essa è ancora occultata, ancora chiusa in se stessa, nel suo «interno non ancora evidente» per usare un’espressione della Fenomenologia (II, 289). E non ancora evidente non solo per le esigenze del cominciamento assoluto, non solo per metodo e in linea di principio, ma più fondamentalmente poiché quei modi devono imporsi incondizionatamente, ossia non come ipotesi del logos, bensì come autoteticità dell’essere! Vale a dire che il puramente affermativo di questo positivo che è il puro essere deve esporsi da sé e non come un’affermazione del logos. Questo è il Doppio gioco di Hegel: egli eguaglia on e logos, nell’asserzione fondamentale: to on è – essenzialmente: in verità – logos. E tuttavia richiede allo on stesso, che esso dimostri quell’equazione! È il semplice immediato, il prima di tutto del tutto indeterminato, che deve

11 Cfr. p. 91: «il pensiero del niente – vale a dire il suo cadere nell’essere».12 Propriamente neanche non-essere: cfr. I Anm., p. 71 ss.

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arrotolarsi su se stesso, in continui capovolgimenti, estraniazioni e reimpossessamenti, per arrivare al puro Logos e dimostrarsi Idea.

Da questo punto di vista, la ricapitolazione che la Logica è rispetto alla Fenomenologia dello spirito sottrae a questa ogni evidenza di soggettività per porre nel puro elemento dell’essere l’ipotesi del logos e così dimostrare a partire dall’essere, che esso è null’altro che pensiero e quindi sottrarre al pensiero l’onere della prova e con esso il dubbio, inestinguibile, che tale asserto corrisponda solo alle condizioni del suo proprio essere pensiero, ossia valga solo per lui e non immediatamente e indeterminatamente per ogni cosa.

Nessun altra posizione dello spirito può vantare una simile compiutezza, assolutezza e universalità: ogni altra, ossia ancora affetta da una qualche differenza tra il pensiero e la sua cosa, è continuamente esposta a tale differenza e non può mai farsene o fargliene completamente carico. Qui invece avvengono entrambe le cose: nella misura in cui la coscienza, con la Fenomenologia, si è fatta carico del differente, nella stessa misura o ancor più, con la Logica, a farsene carico è tutto il differente dallo spirito, che conferma così compiutamente la loro reciproca indifferenza.

Ma riprendiamo il testo dal punto dove lo abbiamo lasciato, ricordando solo preliminarmente la richiesta metodologica di Hegel: il Prius per il pensiero deve anche essere il primo nel suo andamento. Prius che è tale in vari modi: innanzitutto è quell’ente che, come abbiamo visto, il pensiero si trova sempre già davanti, sempre già prima di tutto. Ma il Prius di cui qui parla Hegel è anche inteso esplicitamente come il Principio, arche e fondamento del tutto, «cominciamento oggettivo», dice Hegel, e non solo soggettivo, ossia «cominciamento d’ogni cosa», il «vero» e l’«assoluta ragion d’essere di tutto» (51 s.). Nella Fenomenologia abbiamo visto che in prima approssimazione questo lato della Verità è quello dell’essere in sé di un essente per la coscienza, in termini antichi il ti estin che il logos enuncia di un on, il «che è» di un qualsiasi ente. Assunto però l’ente non come il singolo che ogni volta ho di fronte, ma nella sua totalità, quindi astraendo da qualsiasi determinazione particolare, la «ragion d’essere di tutto», il principio di ogni cosa e del vero – vero che nella sua stessa verità non è il semplice in sé, bensì concetto, ovvero l’intero in sé e per sé – è precisamente ragione d’essere, ragione dell’essere, ragion pura del puro essere: logos dello on kath’auto, in quanto tale.

Considerazione cui Hegel si approssima nella seconda parte della sua esposizione circa il cominciamento, dove, dopo aver mostrato il suo carattere mediato dal risultato della Fenomenologia, argomenta circa quello immediato: a partire dalla Fenomenologia «l’essere è il cominciante mostrato come quello che è sorto per via di mediazione, e propriamente per via di una mediazione tale, che è nello stesso tempo il suo proprio togliersi; colla presupposizione del puro sapere quale risultato del sapere finito, cioè della coscienza. Ma se non si deve fare alcuna presupposizione, se il cominciamento stesso si deve prendere immediatamente, allora esso si determina solo per ciò che esso deve essere il cominciamento della logica, del pensare per sé. Non si ha altro, allora, salvo la decisione, che si può considerare anche un arbitrio, di voler trattare il pensare come tale. Così il cominciamento deve essere assoluto o, ciò che in questo caso significa lo stesso, un cominciamento astratto. Non può così presupporre nulla [ovvero nessun ente in particolare], non deve essere mediato da nulla, né avere alcuna ragion d’essere. Anzi, deve essere esso stesso la ragion d’essere o il fondamento di tutta la scienza. Dev’esser quindi semplicemente un immediato [ein Unmittelbares] o, piuttosto, soltanto l’immediato stesso [das Unmittelbares selbst]. Come non può avere una determinazione di fronte ad altro, così non può nemmeno avere alcuna determinazione in sé, non può racchiudere alcun contenuto, perché comporterebbe una distinzione e relazione di diversi l’uno dall’altro e così una mediazione. Il cominciamento è dunque il puro essere».

In questa esposizione del cominciamento in quanto immediato, la risposta alla domanda sul primo pensato viene a coincidere con quella sul primo pensare, ossia come dicevamo oggetto e metodo, cosa e come, si dimostrano esattamente lo stesso. Il pensare in quanto tale, astraendo da tutto ciò che è, assolvendosi da qualsiasi contenuto e determinazione, non affidandosi a nulla, è

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innanzitutto l’immediato indeterminato e così puro essere. Un argomento che non appare del tutto ineccepibile: vediamo, infatti, che enunciata l’esigenza di cominciare immediatamente, la si traduce nella richiesta che il cominciante sia semplice immediatezza, «semplicemente un immediato», che poi viene subito elevato al rango dell’Immediato semplice, che ovviamente non è la stessa cosa. Si deduce, insomma, un po’ sofisticamente, dalla mancanza di determinazione del cominciamento del pensiero, che viene richiesta in linea di principio, la determinazione propria e primaria dell’essere quale l’immediato semplice, l’immediato indeterminato.

Per quanto problematica come deduzione, però, essa è ovviamente coerente con la precedente e quindi anche con la concezione della verità che sin dall’inizio è agente in entrambe: come abbiamo visto, infatti, Hegel pone la verità innanzitutto dal lato dell’essere e non dell’adeguazione dell’intelletto all’essere, che è invece definisce lato del sapere. Il movimento dello spirito, però, è proprio quello del toglimento di tale differenza, ove, come si diceva nella Fenomenologia, «la certezza si fa verità». Che non significa, semplicemente, che giunge al vero, bensì, molto più radicalmente, che è il vero ossia, come comunque continua a valere, l’essere stesso. Il sapere puro, come quello che ha tolto la differenza tra sapere e saputo, si fa dunque immediatamente verità, ossia essere puro. Apparentemente analoga alla tesi aristotelica della Metafisica circa il nesso tra ente e verità, quella di Hegel è piuttosto la riproposizione, speculare e assolutamente radicalizzata, dell’equazione parmenidea tra noein ed einai: lì pensare ed essere sono lo stesso poiché il pensiero non può pensare non-essenti, me eonta, e quindi ogni volta, in quanto necessariamente pensiero di un ente, è anche necessariamente vero (secondo la lezione del Sofista di Platone). Hegel pone esplicitamente e più volte Parmenide come il vero inizio della filosofia, il suo cominciamento storico, che è uguale a quello logico, ossia l’essere puro, cominciamento rispetto al quale il suo Sistema è esplicitamente il compimento, ossia l’inveramento di tutto il movimento del pensiero, inveramento che non è altro che l’avvenuto passaggio dall’einai al noein, che non cancella la loro identità, ma la traspone nell’ambito puramente logico, del pensare in quanto tale, il cui movimento assoluto, ovvero svolto solo entro se stesso, è nella sua interezza la verità stessa e, così, principio e fondamento di ogni essere. Questo capovolgimento è reso possibile proprio dal fatto che, a differenza di ciò che avviene nella filosofia moderna e, in particolare in quella critica, la verità è posta innanzitutto nell’in sé dell’oggetto e solo successivamente nel per sé della coscienza di quell’in sé. È infatti grazie a ciò che, quando il movimento si compie nel concetto, ossia ha annullato la differenza della coscienza, come qui nella Logica è assunto sin dall’inizio, la verità del pensiero non è più solamente il sapere vero della cosa, ossia adeguato ad essa, bensì la cosa stessa, invero la totalità di ogni cosa.

Nel primo momento della Logica questa equazione compare ancora nel suo grado elementarissimo, anzi come pura astrazione, quindi priva di verità, che per Hegel è sempre una verità concreta e mai il semplice frutto dell’astrazione o della riflessione. Nel discutere della dialettica di Essere e Niente, infatti, Hegel ribadisce ripetutamente il carattere del tutto astratto di questi primi due momenti e così la loro vuotezza di contenuti e determinazioni, che li rende, presi isolatamente ognuno per sé, propriamente irreali, meri Gedankendinge, cose di pensiero, così come lo è la «cosa in sé» kantiana. Ed è un’annotazione che non dobbiamo dimenticare, pena il fraintendimento del concetto di divenire, di cui essere e nulla non sono momenti reali. Tuttavia, come dicevamo all’inizio di tutto il nostro discorso sul cominciamento, l’ambiguità rimane, nel senso che quella vuotezza dell’immediato indeterminato che è l’essere, così come lo è il niente, in realtà non è proprio vuota, nella misura in cui quei due termini non cessano di avere un senso, di averne anzi molti e contrastanti, che però proprio per gli assunti metodologici, come abbiamo ripetuto, in linea di principio non possono essere esplicati. Nella lettura dei primi paragrafi si ha così l’impressione che essere e nulla siano nomi vuoti, indifferenti, dunque in ultima analisi arbitrari, quali però non sono e non possono essere, proprio se il concetto di divenire deve aver senso solo grazie a loro. In essi c’è qualcosa di dunque ben più determinato di quanto le esigenze del cominciamento non permettano di far emergere, qualcosa che bisogna arguire e dedurre dalla loro funzione speculativa e non limitarsi a presentire.

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Per questo il capitolo su «Quale deve essere il cominciamento della scienza?» è tanto significativo, così come lo sono le annotazioni al primo capitolo. In esse, per esempio, e precisamente nella III, leggiamo un passo molto indicativo: qui Hegel nota che, come puro risultato di astrazione l’essere è «als Unbestimmte bestimmt», determinato come indeterminato, tal che insomma sia «l’indeterminatezza a produrre la sua determinatezza», una contrapposizione che rende quell’indeterminatezza «il determinato o negativo, e invero il puro negativo, del tutto astratto. Questa indeterminatezza o negazione astratta, che così l’essere ha in se stesso, è ciò che la riflessione esterna, così come l’interna, esprime quando lo pone equivalente al niente, lo chiarisce come una vuota cosa di pensiero, niente. Oppure, si può anche dire, poiché l’essere è il privo di determinazioni, non è la determinatezza (affermativa) che è, non essere, bensì niente. Nella pura riflessione dell’inizio, come essa è prodotta in questa logica con l’essere in quanto tale, il trapasso è ancora nascosto; poiché l’essere è posto solo come immediato, il niente esplode in lui solo immediatamente».

È un passo notevole, squisitamente speculativo per tutte le contraddizioni dialettiche che contiene, il cui susseguirsi rende molto chiaro, piuttosto che il contrario, quel che Hegel qui pensa e ci aiuta a comprendere quel residuo ambiguo della dialettica dell’essere. Astrattamente il determinato e l’indeterminato sono entrambi sia positivi che negativi: il determinato è positivo poiché pone una determinazione (e in ciò finito), dunque negativo poiché nello stesso tempo nega quelle differenti, tutto ciò che quella determinazione non è (il genere infinito del me einai come heteron ancora del Sofista). L’indeterminato è positivo, poiché accoglie indifferentemente tutto, e tuttavia si determina così come mancanza di determinazione, e dunque è negativo. L’essere del primo momento della Logica vuol essere, nella sua semplice indeterminatezza, ossia appunto non escludendo niente, l’incondizionatamente affermativo e tuttavia proprio per questo patisce la negazione in se stesso. Ma è proprio questa sua natura affermativa che è intesa, ma non detta, nel primo momento della Logica: è questo il verborgen, che fa esplodere la contraddizione immediata del niente: «poiché l’essere è il privo di determinazioni, non è la determinatezza (affermativa) che è, non essere, bensì niente». In questa frase, che pur nella sua natura squisitamente speculativa rientra nelle annotazioni – a ragion veduta, poiché in essa non è taciuto ciò che nel primissimo inizio non poteva ancora essere pronunciato –, Hegel in sostanza sta dicendo cosa c’è veramente nel puro essere del cominciamento, ciò che in esso è celato, ma già pensato, pregiudicato: la pura affermatività della determinatezza, «la determinatezza (affermativa) che è».

Non un determinato, ma Bestimmtheit, determinatezza affermativa, “certità”, ossia è il darsi, porsi, affermarsi, esserci di un certo, di un qualche certo e di qualsiasi certo, ossia è insieme l’essere di questo e di ogni questo, è il così e così di ognuno, ogni qui e ogni ora, ogni forma e ogni mancanza di forma, è tutto in tutti i sensi e tutti i modi, totalità del tutto, che anche in ogni sua negazione afferma. Ma da un essere così inteso Hegel non poteva partire, poiché in esso avrebbe anche terminato, senza mai raggiungere il concetto, che è questo stesso essere solo alla fine della sua esposizione e, in quella fine, integralmente come concetto, che non è altro che il movimento stesso della sua esposizione, della sua autodeduzione. Ma non è solo per tale ragione, che al posto dell’essere come determinatezza affermativa Hegel pone uno straccio vuoto…: come ho detto sin dall’inizio, come Hegel ribadisce quando afferma che il cominciamento è logico, che nulla è premesso se non la decisione di affidarsi al pensare in quanto tale, come si legge quando si tiene presente che la «dottrina dell’essere» è la «logica del concetto come essere», sin dal primo momento, sin già nella sua semplice indeterminatezza, l’essere è quel concetto che si pensa, che è pensando se stesso, e che quindi non può più perdersi nell’immediatamente essente come unitotalità di ciò che è, non può lasciarsi negare dall’immediatamente essente, ma deve al contrario negarlo, per poterlo porre nuovamente come la propria verità: è questa potenza del negativo, l’elemento propriamente speculativo della Logica, che ha bisogno di abbandonare innanzitutto l’essere alla sua vuotezza astratta, per potersene reimpossessare alla fine come un proprio prodotto, alla sua nullità, per poterlo creare ex nihilo.

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Non è certo per nulla estraneo a tutto ciò l’elemento cristiano, che anzi Hegel espone esplicitamente, proprio rinviando alla creazione – e ricordiamo che la Logica vuole essere propriamente l’esposizione di Dio prima della creazione, ossia l’articolazione compiuta del Logos come Idea che si fa mondo della natura e spirito, liberamente…

Al di là, però, dell’elemento propriamente religioso, è nella stessa dinamica dell’ontologia moderna (e quindi in qualche modo comunque cristiana e post-cristiana) che vanno ricercate le ragioni più strettamente teoretiche di questa posizione: lo abbiamo visto, Hegel ha esplicitamente di mira la rifondazione di una metafisica come Scienza, unità organica e sistematica di ontologia, cosmologia, psicologia e teologia, ma una simile unità non può più fondarsi sull’elemento cosmoteologico degli antichi, non dopo Cartesio e Kant. Il che, però, in Hegel non comporta solamente o primariamente l’integrazione del «soggetto» nell’autoesposizione dell’essere: se per la Fenomenologia la definizione heideggeriana del sistema hegeliano come «onto-teo-egologia» può avere ancora le sue buone ragioni, rispetto alla Logica bisogna notare che l’elemento propriamente soggettivo, l’ego del cogito, non vi ha affatto la stessa centralità13. Il Logos che qui prende la parola, infatti, non è più quello della coscienza, ma spirito assoluto, ovvero intelletto divino, logos che si fa mondo e tuttavia in ciò rimane il Logos. Da tal punto di vista la Logica come ontologia, se proprio dobbiamo inventarci definizioni, è teo-logica e logodicea.

Il cuore pulsante della Logica, insomma, è l’identità logos-theos, identità che si mostra in quanto tale precisamente come unità di logos e on, ove è il logos il principio produttivo e quindi divino. Non vi è forse nulla di più chiaro di ciò, che la citazione dalla Metafisica di Aristotele (1072b18-30), che Hegel pone alla fine dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche e quindi a coronamento del sistema, citazione che ha in poche frasi il suo fulcro: tauton nous kai noeton. To gar dektikon tou noetou kai tes ousias nous, energei de echon. Una frase, che Hegel sottoscriverebbe integralmente con un’unica sostituzione: ponendo al posto del «dektikon»: paragon… Non semplicemente «Lo stesso è l’intelletto e l’intelligibile. Ciò che accoglie l’intelligibile e l’essenza è intelletto, che è in atto avendoli», bensì: «ciò che produce l’intelligibile e l’essenza…». E, infatti, nella Storia della Filosofia, commentando questo stesso passo, Hegel scrive: «il pensiero, essendo l’immoto che muove, ha un oggetto, che però si converte in attività, giacché il suo contenuto stesso è un pensato, cioè esso stesso un prodotto del pensiero, e quindi del tutto identico con l’attività del pensiero […]. Il più eccellente non è il pensato, ma è l’energia stessa del pensiero: l’attività dell’accogliere produce ciò, che appare come se dovesse essere accolto […]. Se noi nel nostro linguaggio designiamo l’assoluto e il vero come l’unità della soggettività e dell’oggettività, che perciò non è né l’una, né l’altra, come altresì è l’una e l’altra; Aristotele si è travagliato in queste forme speculative, anche ai giorni nostri profondissime, e le ha espresse con la maggiore determinatezza che si possa richiedere»14.

13 Indicative sono le critiche a Fichte, che punteggiano in vari luoghi questo testo, evidenziando l’insufficienza dell’Io come principio.14 Cfr. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 566 s. e Lezioni sulla storia della filosofia (1825-26), tr. it. di R. Bordoli, Laterza Roma-Bari 2009, pp. 309 ss.

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