Storie di Questo Mondo Anno 2 Numero 4

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INTERVISTA conversazione con Gianpiero Dalla Zuanna PROGETTI Piccoli Comuni Grande Solidarietà, l’inserimento dei rifugiati a San Lupo L’educazione interculturale: gli stranieri e l’inserimento nella scuola italiana Troppe storie sembrano storie dell’altro mondo, ma lo spazio in cui accadono è qui e ora. trimestrale del Consorzio Connecting People - reg. trib. di Trapani N° 323 del 17/07/2009 - distribuzione gratuita ANNO 2 - N° 4 - SETTEMBRE 2010 periodico di culture migranti e dell’accoglienza DOSSIER Report della presentazione del Pacchetto Integrazione Scopri i contenuti multimediali direttamente sul tuo smartphone con il QR Code

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rivista edita dal consorzio connecting people

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Page 1: Storie di Questo Mondo Anno 2 Numero 4

INTERVISTAconversazione con Gianpiero Dalla Zuanna

PROGETTIPiccoli Comuni Grande Solidarietà,l’inserimento dei rifugiati a San Lupo

L’educazione interculturale:gli stranieri e l’inserimentonella scuola italiana

Troppe storiesembrano storiedell’altro mondo,ma lo spazioin cui accadonoè qui e ora.

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anno 2 - n° 4 - SETTEMBRE 2010

periodico di culture migrantie dell’accoglienza

DOSSIER

Report della presentazione del Pacchetto Integrazione

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SETT

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editoriale 1La scuola di oggi è l’Italia di domanidi Giuseppe Scozzari

dossier 2Mettiamo le ali all’integrazionedi Serena Naldini

intervista 8Colmare le disuguaglianze. Una lotta per la mo-dernizzazione dell’Italia di Serena Naldini

punto di vista 12Alunni di origine straniera ed educazione interculturaledi Abdelkarim Hannachi

oltremare 16“La matita del buon Dio non ha la gomma”di Alessandra PIcciolo

progetti 18Piccoli comuni, grande solidarietàdi Giorgio Gibertini

progetti 20Ascoltare le storie per capiredi Sebastiano Pomona

progetti 21A me piace andare a scuoladi Monica Di Gioia

incontri 22A scuola d’integrazione tra Gradisca e Sagrado di Ndamnsah Blaise Nkfunkoh

news 24Notizie e curiosità da Acireale (Ct), Kiev, Roma

press 27Rassegna stampa di Connecting Peopledi Salvo Tomarchio

media connecting 28Recensione di “Fratelli d’Italia?”di Serena Naldini

Se hai una storia da raccontare, se vuoi segnalare progetti, idee o esperienze, se desideri indicare destinatari che vorresti ricevessero il nostro periodico, puoi inviare una email a: [email protected]

Editore/proprietàConsorzio Connecting People

Direttore responsabileGiorgio Gibertini

Coordinamento editorialeSerena Naldini, Salvo Tomarchio

Progetto graficoe illustrazioniGiancarlo Ortolani / Tribbù

Impaginazione e stampaStudio Tribbù di Coop. Soc. Sciarabba

Via Dafnica 90, 95024 Acireale (CT)

In redazioneFrancesco De Maria, Monica Di Gioia, Aurora

Giardina, Giorgio Gibertini, Abdelkarim Hannachi,

Serena Naldini, Ndamnsah Blaise Nkfunkoh,

Alessandra Picciolo, Sebastiano Pomona, Susanna

Rognini, Alessandra Santopadre, Salvo Tomarchio.

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Parlo da educatore ma anche da padre e sono assolu-tamente convinto che l’esperienza scolastica sia deter-minante per costruire l’uomo e la donna del domani. La società tutta è fortemente legata a ciò che si impara nei banchi scolastici e oserei dire che da quella posizione possiamo fare una previsione di ciò che sarà l’Italia di domani. Non so quanto ne siano consapevoli tutte le parti sociali, quanta attenzione e quale priorità venga data da questo o da quel governo. Fatta questa analisi non vorrei puntare solo l’attenzione sulla parte esterna, ma anche sugli operatori scolastici che dovrebbero leggere la realtà e con questa misurarsi per confron-tarsi e per creare uomini e donne che sappiano affrontare le sfide di ogni giorno e del futuro. La realtà sociale oggi è sicuramente molto frammentata, poliedrica. L’intercultura è di fatto già esistente, ma per non banalizzare le cose bisognerebbe dare un contenuto alle parole: solo così nascono dei valori che rimangono indelebili in ognuno di noi. Dico di dare contenuto perché all’accezione della frammentazione e del relativismo si dà solo una compo- nente negativa, come se i nostri ragazzi fossero disorientati e astratti, ma così non è. H a n n o una passione per la verità e per il confronto che non ha sorgente che li può dissetare;

l’evento formativo curriculare non basta, bisogna farsi carico tutti e bisogna sostenere la famiglia da tutti i punti di vista. La realtà interculturale, anche se tanto disprezzata è già presente; schernirla, non valorizzarla sarebbe un grosso errore, ma soprattutto andrebbe contro i ragazzi stessi che la desiderano e a modo loro la stanno interpretando. Bisogna dare strumenti e spazi per poter affrontare l’argomento, ma non chissà quali cose o alchimie. Bisogna dare soluzioni semplici, condivise e attuali; parlo di formazione ai docenti, di mediatori nelle classi, di ambienti educativi dove formarsi anche in modo leggero e dove attraverso la

conoscenza dell’altro la diversità smetta di fare paura. Oggi tutto questo è inar-restabile e chiudere gli occhi sarebbe un boomerang che prima o poi ritornerà con gravi conseguenze. Noi ci abbiamo messo il naso e come sempre cerchiamo di aprire un ragionamento che non si esaurirà oggi, ma vuole essere in conti-nua evoluzione. Abbiamo visto in questi anni ragazzi che, da esclusi dal sistema

scolastico, in quanto non si sentivano né italiani né stranieri, sono poi diventati attori, e adesso continuano serenamente il loro cammino. Questi tipi di interventi devono essere programmati: non sarà una mano invisibile a poterli decifrare e risolvere nella giusta direzione. Buon lavoro a tutti.

La scuola di oggi è l’Italia di domani

Giuseppe ScozzariPresidente

Connecting People

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dossier

“Le persone hanno bisogno di orizzonti di senso, di figurarsi come sarà la vita

nel futuro. E allora ci si allena a scrutare lontano, al lungo periodo; lavoro duro che richiede un’immaginazione saldamente ancorata all’oggi. Il Manifesto per un Pacchetto Integrazione è frutto di questa fatica”. Con queste parole Mauro Maurino - consigliere di Connecting People e coor-dinatore del percorso che ha condotto il consorzio alla stesura del Manifesto - spie-ga l’intento del progetto. Il 7 luglio scorso, a Roma, il Pacchetto Integrazione - al quale è stato dedicato interamente l’ultimo numero di questo trimestrale - è stato illustrato dallo stesso

Mauro Maurino e da Giu-seppe Scozzari, presidente del consorzio Connecting People, durante una confe-renza stampa svoltasi presso la Sala del Mappamondo alla Camera dei Deputati. Gli onorevoli Livia Turco e Fabio Granata hanno accompagnato la presentazione del documento con i loro autorevoli commenti di fronte a un pubbli-co costituito da numerose personalità del mondo politico e intellettuale. Dichiarando la piena condivisione dell’im-postazione complessiva della proposta, l’onorevole Granata, in apertura del suo intervento, ha sottolineato la distinzione tra politiche di integrazione e politiche di

sicurezza. La confusione tra i due ambiti, spesso strumentale, blocca il dibattito, arenandolo sui sentimenti di paura e sui luoghi comuni nei confronti dello straniero diffusi nell’opinione pubblica.

Il Manifesto per un Pacchetto In-tegrazione si inserisce invece nel solco di una sensibilità comune volta ad “ampliare il perimetro

pubblico della nazione” con la modifica della legge sulla

cittadinanza e altre misure che, secon-do l’onorevole, dovrebbero trovare da parte del mondo politico un “razionale e lungimirante accoglimento”; misure im-portanti “per chi vuole costruire un’Ita-lia fondata su una nuova solidarietà

Mettiamo le ali all’integrazione

di Serena NaldiniTrascrizione interventi a cura di Salvo Tomarchio Foto: Studio Tribbù

Presentato il Manifesto per un Pacchetto

Integrazione di Connecting People

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dossier

nazionale”. Quanto al finanziamento delle iniziative, Fabio Granata ha definito inte-ressante la forma di sussidiarietà nei con-fronti di imprese e Terzo settore proposta dal Manifesto - che prevede anche un coin-volgimento dei migranti stessi - opposta alla verticalizzazione ministeriale propria di molti progetti. L’onorevole Turco si è dichiarata piacevol-mente colpita dalla convergenza di idee riscontrata con il Manifesto, a livello sia di percezione del problema che di elaborazio-ne di proposte concrete. “Questo materiale - ha sostenuto - viene proprio al momento giusto e coglie nel segno. Il Manifesto - ha proseguito - è frutto di pratica ed esperien-ze di un’Italia della convivenza che dobbia-mo fare emergere e rendere visibile.” Oltre a esprimere la propria adesione all’idea di una sussidiarietà che coinvolga tutte le parti sociali nel processo di costruzione di questa “Italia della convivenza”, Livia Turco ha evidenziato la valenza culturale propria dell’approccio del Pacchetto In-tegrazione, legata in particolare al r i c o n o s c i m e n t o dell’immigrazione come fenomeno strutturale in grado di arricchire pro-fondamente l’Italia, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista culturale. L’onorevole ha concluso individuando nella mozione parlamentare lo strumento per sollecitare con determinazione il governo in riferi-mento alla legge sulla cittadinanza. Come affermato da Giuseppe Scozzari in apertura della conferenza stampa, il Mani-festo non intende dire l’ultima parola su un fenomeno, quello dell’immigrazione, che “non è un’emergenza, ma un fenomeno strutturale alla società italiana”. Si tratta piuttosto di fornire uno spunto, fondato sull’esperienza quotidiana di accoglienza svolta dal consorzio sul territorio italiano, per aprire un dibattito spesso frenato da incrostazioni ideologiche. Va quindi sottolineato, in questa ottica, il ricchissimo ventaglio di interventi da parte dei convenuti - rappresentanti di istituzioni locali, organizzazioni nazionali o internazionali, università, mass media - che

ha reso necessario posticipare la chiusura dei lavori. Evidenziamo in particolare l’intervento di Nadan Petrovic dell’OIM e di John Humburg dell’UNHCR che hanno riconosciuto la concretezza delle proposte delineate nel Pacchetto Integrazione. La lunga collaborazione tra Connecting Peo-ple e le organizzazioni da loro rappresen-tate ha creato un imprescindibile ambito di crescita e innovazione culturale sui temi dell’accoglienza e delle migrazioni. Tutti i commenti hanno messo in luce la pragmaticità del Manifesto, oltre all’am-piezza e alla lungimiranza della visione della società che esso esprime. A partire dall’idea che la promozione dell’integrazione non sia solo compito della politica, ma un processo che interpel-la tutti i cittadini, i luoghi del vivere sociale e i migranti stessi, “il Manifesto - sostiene Mauro Maurino - pone al centro la società civile con il Terzo Settore e il mondo im-prenditoriale”. Le imprese possono con-tribuire all’integrazione costruendo un

sistema di welfare aziendale, finan-ziato soprattutto attraverso lo stor-no di una quota percentuale dei contribuiti previ-denziali pagati dai migranti che, in tal modo, partecipano

direttamente al proprio progetto d’inse-rimento. “Al mondo politico - prosegue Maurino - chiediamo interventi importanti sia per consentire l’utilizzo di risorse quasi a costo zero per il bilancio dello Stato, sia per garantire status ai migranti”. “Con questa proposta - afferma Orazio Micalizzi, vicepresidente di Connecting People - si renderebbero disponibili oltre 100 milioni di euro all’anno. È una cifra im-portante che consentirebbe di realizzare molto più di quanto fatto sino ad ora”.Susanna Rognini, consigliere di Connec-ting People impegnata sullo sviluppo di progetti internazionali, conclude: “Il dibattito europeo punta molto sul tema integrazione. Speriamo che altri si uni-scano al lavoro di ricerca che abbiamo intrapreso per cercare una soluzione positiva alla richiesta di pace sociale che proviene dalle nostre città”.

Il Manifesto vuole fornire uno spunto fondato sull’esperienza

quotidiana di accoglienza svolta dal consorzio sul

territorio italiano per aprire un dibattito spesso frenato da

incrostazioni ideologiche

Le proposte del Manifesto

Il Manifesto per un Pacchetto Integrazione propone provvedimenti che generano op-portunità ai migranti attraverso:

· la modifica della legge sulla cittadi- nanza (L. 91/92)· la ratifica dell’art. 6 lettera C della Conven-zione di Strasburgo per garantire ai migranti residenti la partecipazione a livello locale· la modifica della legge sulle cooperative sociali con l’inserimento dei rifugiati tra le categorie svantaggiate e l’estensione per questa categoria dei benefici fiscali anche alle cooperative di servizi sociali (art.4 L. 381/91)· il finanziamento di un programma di edilizia religiosa

Provvedimenti che rendono disponibili risorse economiche:

· utilizzo di una parte dei contributi previden-ziali INPS dei migranti per destinarli a proget-ti d’integrazione promossi dalle aziende· utilizzo delle risorse dell’8 per mille a gestione diretta statale (L. 222/85)· inserimento del settore “integrazione” tra quelli previsti dalla normativa per le erogazioni delle fondazioni bancarie (art. 1 comma 1 lettera C D. Leg.vo 153/1999)

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dossier

Come ministro della Gioventù, ritengo siano diverse le pro-blematiche da risolvere e le

potenzialità di cui approfittare quando si parla di immigrazione: prima fra tutte la cittadinanza per coloro che sono nati in Italia o hanno compiuto nel nostro paese la gran parte del percorso scolastico, le cosiddette “seconde generazioni”. La cogenza di questo tema risiede essenzialmente nel fatto che questi gio-vani cittadini si sentono italiani e sono sostanzialmente italiani, poiché parlano la lingua italiana, hanno frequentato e frequentano scuole italiane. L’unica diffe-renza è rappresentata dalla loro origine, che spesso, poi, mettono da parte per sentirsi come gli altri.La prospettiva di genere è un’altra pro-blematica potenzialità che si deve tenere

in considerazione per varie ragioni tra cui, innanzitutto, gli aspetti numerici e di ruolo. La metà della popolazione straniera in Italia è, infatti, costituita da donne e sono proprio queste giovani donne che, oltre a trascorrere, nella maggior parte dei casi, molte ore della propria giornata con le famiglie italiane, accudendo minori, di-sabili e anziani, educano i futuri cittadini italiani di origine straniera. Un discorso a parte deve essere fatto per i minori non accompagnati, i giovani richiedenti asilo, beneficiari di protezione internazionale e i giovani Rom. Categorie di stranieri più vulnerabili e facile preda dello sfruttamento ad opera di organiz-zazioni criminali per l’accattonaggio, il mercato del sesso e quello del lavoro nero. Alle minoranze etniche va garantita una vita dignitosa, cosa impossibile con

la semplice tolleranza dell’esistenza di tali gruppi al di fuori dell’osservanza delle regole di convivenza pacifica e del reci-proco riconoscimento e rispetto.Insomma, garantire le pari opportunità ai giovani e alle giovani stranieri vuol dire innanzitutto eliminare quegli ostacoli legati alla loro origine che si frappongono all’accesso ai diritti, ovvero la barriera linguistica, quella culturale, l’autoesclu-sione, l’irrigidimento nelle tradizioni, la

xenofobia, la discriminazione nell’accesso ai servizi sociali, al mercato del lavoro regolare, alla formazione professionale e la difficoltà di mobilità sociale.Il Ministero ha iniziato a creare, fin dall’av-vio del suo mandato, una rete di operatori esperti nella materia dell’immigrazione e dell’integrazione, al fine di rilevare le esi-genze dei giovani cittadini stranieri e delle loro famiglie ed elaborare una strategia di intervento in questo ambito. L’impegno per l’integrazione sociale e lavorativa dei giovani più svantaggiati è una priorità del Ministero della Gioventù; sarà costante e utilizzerà tutti gli strumenti, i suggeri-menti e i contributi possibili per garantire a tutti le stesse opportunità di accesso ai diritti, per valorizzare le differenze e met-tere a frutto le potenzialità dei giovani. Di recente, abbiamo chiesto e ottenuto che tra i crediti relativi al nuovo decreto sull’integrazione fosse aggiunta anche la partecipazione ad associazioni di promozione sociale accanto a quella ad associazioni di volontariato, già prevista. Sono convinta che l’Italia appartenga esclusivamente a chi la ama, a prescin-dere dalla lunghezza del proprio albero genealogico, dal colore della pelle o dalla provenienza geografica. Ed è at-torno a questo principio di condivisione di principi, tradizioni, valori e leggi che bisogna costruire le basi solide di una nuova cittadinanza italiana.

La cogenza di questo tema risiede essenzialmente

nel fatto che questi giovani cittadini

si sentono italiani e sono sostanzialmente italiani

di Giorgia Meloni Ministro della Gioventù

L’Italia è di chi la ama

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Fabio GranataDeputato FLI

Le finalità del Manifesto a mio parere sono chiarissime, il percorso e il me-todo che traccia questo documen-to lo condivido

pienamente. I progetti di riforma della legge 91/92 sono costruiti attorno ad un’idea politica di una nuova cittadinan-za e di una nuova Italia. Questo percorso deve avere la forza di far emergere due questioni di fondo; la prima è che non si possono appiattire le politiche di sicurezza con quelle di integrazione e cittadinanza. Diversamente, se vengono sovrapposte strumentalmente, si conti-nuerà a far leva sulla paura e sui luoghi comuni legati allo straniero. La seconda questione è che sui temi della cittadinanza ci troviamo di fronte ad una crisi positiva delle culture po-litiche di appartenenza perché questo fenomeno migratorio non ha precedenti nella storia recente, è sconosciuto alle griglie interpretative della politica ed è dunque difficile da classificare. Ciò che conta è una sensibilità comune che deve

esserci verso una volontà di ampliare il perimetro pubblico della nazione facen-do pienamente partecipare i nuovi citta-dini con una modifica dello ius sanguinis in uno ius soli, temperato dalla presenza regolare dei genitori in Italia.L’impostazione complessiva del Mani-festo è apprezzabile per l’apertura ad alcune misure che mi sembra possano trovare razionale e lungimirante acco-glimento. Anche il finanziamento di

un programma di edilizia religiosa, che potrebbe allarmare qualcuno, mi sembra una proposta molto seria che riconduce ad una dimensione della cittadinanza come fatto laico e politico nel rispetto delle differenze religiose; anche con un certo legame con le nostre tradizioni storiche e culturali dell’Italia e dell’Occi-dente, con la capacità di considerare la cittadinanza come fatto laico e politico e definire la differenza religiosa come grande valore di una società plurale. Sulla possibilità di finanziare questo Pacchetto integrazione ritengo interes-sante una forma di sussidiarietà rispetto alle imprese e all’associazionismo e non semplicemente una verticalizzazione dell’intervento verso i ministeri. Interes-santi anche le proposte di reinvestire i contributi versati dagli stessi migranti all’Inps e l’utilizzo dell’8X1000. Credo dunque che attraverso proposte come queste si possa costruire un’Italia fondata su una nuova solidarietà naziona-le legata ai nuovi italiani. Sul piano legisla-tivo, oltre alla battaglia sulla cittadinanza che resta in primo piano, la proposta può essere seguita in raccordo continuo con la vostra realtà e con la collaborazione di parlamentari come l’On. Turco.

Jurgen HumburgSenior protectionassistant UNHCR

Rappresentando l’UNHCR, il mio interes-se è incentrato sui rifugiati, i “migranti forzati” se così si possono chiamare. Il Manifesto mi sembra un’iniziativa che può portare ad una discussione più ampia sui temi dell’ immigrazione, di-scussione che però sulla base di queste proposte può risultare allo stesso tempo molto concreta. Per quanto riguarda i rifugiati vorrei ricordare particolarmente due aspetti: il rifugiato non ha un preciso progetto di vita legato all’emigrazione. A differenza di chi sceglie di cambiare vita e paese, il rifugiato è costretto dagli eventi ad abban-donare la propria vita. Senza uno scopo previsto e specifico quale può essere il miglioramento delle proprie condizioni. Proprio per questo secondo noi ha bisogno di una particolare atten-zione e di particolari misure che devono permettergli di integrarsi e diventare membro attivo della società soprattutto nella fase iniziale.

L’impostazione com-plessiva del Manifesto è

apprezzabile per l’apertura ad alcune misure che misembra possano trovare razionale e lungimirante

accoglimento

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dossier

Secondo punto: manca una legge qua-dro che regoli il diritto d’asilo. Sono tantissimi gli aspetti, soprattutto a li-vello amministrativo, che sono scoperti e che invece dovrebbero costituire la base del cammino verso l’integrazio-

ne. Spesso ad esempio capita che la richiesta per un semplice nulla osta al matrimonio giunga ancora a noi. Questo è solo un esempio fra i tanti che necessitano l’attenzione del legi-slatore, del ministero, degli enti e inter-locutori competenti. Questa iniziativa porta questi problemi all’attenzione di un pubblico più ampio, nella speranza che queste lacune vengano colmate al più presto per favorire il difficile compito di chi opera con i migranti e rendere meno difficoltoso il cammino per l’integrazione.

nadan PetrovicOIM - Direttore servizio centrale SPRAR

Di solito quando si parla dei problemi legati all’integrazione emergono subito due que-stioni: manca una legge dedicata e mancano le risorse. Dalla mia esperienza con Connec-ting People, ormai decennale di colla-borazione a vario titolo, posso dire che spesso è vero il contrario. Abbia-mo sperimentato soluzioni di grande successo che costa-vano la metà rispetto a precedenti gestioni dei centri per migranti. A mio modo di vede-re il vero problema spesso è la mancanza di idee concrete, di contenuti. A questa assenza cerca di rispondere il Manifesto. Altra cosa che spesso manca è la capacità di creare un

sistema di programmazione, attuazione e ve-rifica delle tante idee e progetti che vengono attuati. Insieme a Connecting People invece stiamo sperimentando a più livelli progetti di collaborazione che puntano, ad esempio, all’inclusione sociale dei soggetti titolari di protezione internazionale. Questi soggetti, usciti dai centri di accoglienza, sono titolari di un permesso di soggiorno valido cinque anni che garantisce loro pieni diritti, ma sono poi costretti a dormire in stazione perché nessuno mette in collegamento l’offerta di lavoro di cui sono portatori e la domanda che pur in tempo di crisi è presente. In pochi mesi ci siamo resi conto di come sia possibile, anche con scarse risorse, dare risposte concrete a queste problematiche. Il Manifesto è dunque il risultato di un lungo lavoro di pratica sul campo ed è una propo-sta attenta di revisione dei modelli e delle politiche di intervento a livello nazionale.

Marco PetrelliCons. XX Municip. Roma

Quello del Manife-sto è un processo trasversale che necessita soste-gno per trovare ascolto in Parla-mento. Io faccio parte di un muni-cipio di 180.000 persone, il secondo mu-nicipio d’Italia per la presenza di persone non comunitarie. Come municipio noi non possiamo fare altro che sostenere singoli

progetti, io lancerei un’idea: diamo a Con-necting People uno strumento a sostegno del Manifesto, un mezzo di persuasione parlamentare. Da domani impegniamoci a far votare nei diversi municipi una serie di Odg a sostegno del Manifesto, così che quan-do verrà presentato alla Camera questo avrà il supporto di più enti, di diverse realtà.

A differenza di chi sceglie di cambiare vita e paese,

il rifugiato è costretto dagli eventi ad abbandonare

la propria vita

Il Manifesto è il risultato di un lavoro

di pratica sul campoed è una proposta

di revisione delle politiche di intervento nazionali

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dossier

Livia TurcoDeputato PD

Sono stata molto contenta di leggere il Manifesto, che arriva proprio al momen-to giusto e coglie nel segno. Spesso mi

sono sentita sola nel proporre un piano e dei fondi per le politiche per l’integrazione. Vedere che in luo-ghi diversi stiamo lavorando per uno stesso obiet-

tivo fa tanto piacere, perché da l’idea che c’è una comune percezione del pro-blema e una comune elaborazione. Nonostante i tempi difficili dobbiamo elaborare un piano per un’Italia della convivenza che deve basarsi sulla base delle esperienze maturate nel territorio. Sono convinta che questa via sia stata già sedimentata e tracciata nelle comunità locali del territorio, questo Manifesto è frutto di pratica ed esperienze di un’Ita-lia della Convivenza che dobbiamo fare emergere e rendere visibile. Dobbiamo dare parola a questa Italia e costruire una rete, affinché ogni pezzo concorra a costruire un nuovo grande progetto.Questo progetto può avere risvolti parla-mentari, ma la rete deve nascere anche

dall’impegno degli enti locali, può na-scere anche un appuntamento nazionale annuale in cui far emergere queste buone pratiche, perché diventino parte della cultura del nostro Paese per sconfiggere i luoghi comuni negativi sull’immigrazione con una battaglia culturale ancor più che con le leggi. È giusto però che anche la politica si as-suma le sue responsa-bilità nell’elaborare un piano per le politiche per la convivenza per il quale anche il governo deve essere sollecitato. Del Manifesto mi hanno convinta due cose in particolare, che attengono en-trambe all’approccio da assumere. La prima è l’assunzione che l’immigrazione è un fatto strutturale che contribuisce alla crescita economica e culturale dell’Italia. Per questa ragione è sbagliato parlare di politiche per l’immigrazione, è cor-retto invece pensare a politiche per lo sviluppo del Paese che facciano leva sulla risorsa dell’immigrazione e ne va-lorizzino gli effetti positivi. L’Italia può

tornare a crescere se investe fortemente sul fattore umano, sul capitale umano e sociale degli immigrati. C’è bisogno che si affermi il valore e la dignità del lavoro legale, dentro questa battaglia generale è giusto che si valorizzi il lavoro degli

immigrati. Facciamo dunque una grande alleanza per il lavo-ro, italiani e stranieri, evitiamo invece ste-rili contrapposizioni.Il secondo aspetto che mi ha colpito positivamente è quello di una sussidiarietà co-erente, che valorizzi il welfare locale e comu-nitario, che permetta a tutti di assumersi le proprio responsabili-tà, come un puzzle in

cui ognuno metta il proprio pezzo.Sul piano parlamentare possiamo solleci-tare il governo con lo strumento della mozione parlamentare e impegnarci ad insistere con determinazione sulla legge per la cittadinanza, con particolare atten-zione alla questione di chi nasce in Italia da genitori stranieri. Su queste questioni auspico anche una larga alleanza.

Questo Manifestoè frutto di pratica

ed esperienze di un’Italia della Convivenza che

dobbiamo fare emergere e rendere visibile.

Dobbiamo dare parolaa questa Italia e costruire

una rete, affinchéogni pezzo concorraa costruire un nuovo

grande progetto.

Un momento della conferenza stampa tenutasi nella Sala de Mappamondo , presso la Camera dei Deputati

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intervista

Quello che segue è l’estratto di un’intervista telefonica di Mauro Maurino - consigliere di ammi-

nistrazione del consorzio Connecting Pe-ople e coordinatore del recente lavoro del consorzio sul Manifesto per un Pacchetto Integrazione - a Gianpiero Dalla Zuanna, preside della Facoltà di Scienze Statitiche dell’Università di Padova, curatore di nu-merosi studi e ricerche sulle trasformazioni della società determinate dalle migrazioni.

Alla scuola si attribuisce un compito sia di integrazione che di promozione della mobilità sociale. Secondo lei oggi la scuola italiana si trova nelle condizioni di svolgere questa funzione?

Senza dubbio in Italia la scuola è il più for-te strumento di integrazione per i figli dei migranti. Questa è una delle caratteristiche che la rendono differente, per esempio, dalla scuola americana. La nostra è una scuola gratuita, non classista, imperniata sull’idea di integrazione. Questa imposta-zione comporta l’adozione di una serie di iniziative che tengono conto in maniera pregnante della presenza di studenti stra-nieri nelle classi.Negli Stati Uniti i migranti hanno paura di mandare i propri figli a scuola. Secon-do alcune ricerche questo è vero per più della metà dei genitori dei ragazzi di quindici anni. In Italia, situazioni del genere non si verificano. Questo non significa che non si possa far meglio dal punto di vista dell’inte-grazione. Occorre lavorare molto anche a livello

di patto condiviso, in modo da generare condizioni sempre più favorevoli a promuo-vere un incontro tra culture che non svili-sca nessuna delle tra-dizioni in gioco. Non fare il presepio perché un bambino in classe non è cristiano è una scelta sbagliata, a mio avviso. La presenza di nuove persone dovrebbe aggiungere e non togliere qualcosa all’incontro tra tradi-zioni. Occorre un grande rispetto, accom-

pagnato dalla forte consapevolezza che la storia non porta sconti. Essa deve essere sempre tenuta in grande considerazione, deve essere comunicata, deve essere vis-suta; le nuove generazioni ne devono far parte in modo profondo, altrimenti rischia-mo di creare persone senza radici. La logi-ca del “siamo tutti uguali” porta al “siamo tutti indistinti”, e non c’è niente di peggio. La reazione più probabile davanti a questa posizione è la rinascita di forti - ipotetiche, magari finte - identità che creano diversità, e non uguaglianza.

Secondo lei, il personale che lavora nella scuola è consapevole di svolgere un ruolo cruciale rispetto al futuro del nostro paese?

Dal punto di vista del processo di integra-zione, senza dubbio sì. C’è un aspetto, però, più critico che ho sottolineato spesso nel corso dei miei lavori: la scuola, ieri come oggi, non riesce a colmare le disuguaglian-

ze. Come ai tempi di Don Milani, chi è figlio di genitori più adusi alla cultura scolastica garantisce ai propri figli rendimenti molto migliori. Gli stranieri assommano a una pro-venienza da famiglie spesso culturalmente

meno fornite dal punto di vista scolastico anche difficoltà legate alla lingua e alla mancanza di aiuto nello svolgimento dei compiti a casa. Le ricerche indicano chia-ramente che i risultati dei ragazzi stranie-ri sono tendenzialmente peggiori, anche

Occorre lavorare per colmare le disuguaglianze,

non dimenticando che questa è una lotta per la

modernizzazione del paese e non una lotta

ottocentesca

Conversazione con Gianpiero Dalla Zuanna, preside della Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università degli Studi di Padova

di Serena Naldini

Colmare le disuguaglianze. Una lotta per la modernizzazione

dell’Italia

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intervista

molto peggiori, rispetto a quelli dei loro coetanei italiani. Spesso, i media sottolineano delle storie di successi sco-lastici da parte dei ragazzi migranti. Ma occorre ricordare sempre che i casi di eccellenza sono eccezioni. Di fronte alle buone riuscite, non bi-sogna perdere di vista le statistiche. Ci sono mi-gliaia di ragazzi che ve-dono frustrati i loro ta-lenti proprio perché la scuola non fa un sistematico lavoro per colmare le disuguaglianze, un lavoro che richiederebbe interventi specifici e azioni mirate ai ragazzi - sia italiani che stranie-ri - che rimangono indietro. Così come è previsto un piano per l’handicap, serve un piano per affrontare l’handicap, per così dire, culturale, laddove per cultura intendo cultura scolastica, ovviamente. Nella società globalizzata, devi essere capace di scrivere, conoscere la matematica, parlare l’inglese, relazionarti con tematiche astratte, altri-menti resterai sempre un passo (o molti passi) indietro nella scala sociale.

Le sue ricerche individuano alcune delle variabili che determinano il successo da parte dei ragazzi stranieri. Tra queste, l’età di arrivo in Italia, l’in-serimento nelle classi di coetanei o in classi di età inferiore e la possibilità di ricevere aiuto a casa. Riguardo all’ulti-mo aspetto, che cosa può fare la scuola? A suo giudizio, ci sono altri soggetti sociali (imprese, società civile...) che potrebbero intervenire per supportare nei compiti a casa i ragazzi di famiglie a bassa scolarità?

Gramsci negli anni ‘20 sosteneva che l’unico modo per colmare rapidamente le distanze sociali tra le generazioni fosse mettere i bambini in collegio… Le famiglie italiane, quelle più garantite, hanno una capacità tale di tutelare i propri figli che è molto difficile pensare a una bacchetta ma-gica per risolvere questo nodo, che è uno dei grandi problemi dell’Italia. In fondo, è una questione di perdita di competitività, perché molte persone si trovano costrette a fare un lavoro diverso da quello, più qua-lificato, per il quale avrebbero le doti.

Questo elemento di criticità che riguarda gli stranieri si inserisce in un quadro problematico molto radicato in Italia, meno presente in

altri paesi. Ritengo che alla base vi sia una motivazione - per usare un termine forte - antropologica. Tutti i dati mostra-no che il tipo di attenzione dedicato dagli italiani ai propri figli è molto superiore ri-spetto a quello che si evidenzia nei paesi nordeuropei. Questa caratteristica tipica-mente italiana ha determinato un notevo-le vantaggio competitivo, per esempio, per gli italiani emigrati. Nei paesi anglosassoni, non c’è questa abitudine, hanno un modo diverso di crescere i figli. Ciò non significa che non paghino loro gli studi universitari o cose simili, ma non hanno quello sguar-do attento tipico dei genitori italiani. Detto questo, intanto bisogna acquisire consape-volezza del problema. Il primo a metterlo in luce - e, se non il primo, colui che l’ha espresso in maniera più sublime - è stato certamente Don Milani. Inoltre, occorre la-vorare per colmare le disuguaglianze, non dimenticando che questa è una lotta per la modernizzazione del paese, e non una lotta ottocentesca. Se le di-suguaglianze perman-gono, si sprecano risorse umane. Cosa si può fare? Cose semplici, forse banali. Garantire i doposcuola, per esempio. Non è to-gliendo i compiti a casa - caratteristici del mo-dello italiano di studio - che si eliminano le disuguaglianze. È ne-cessario invece aiutare coloro che non han-no supporto a portare comunque a termine le consegne che vengono loro date. A tal fine, devono essere impegnate delle risorse.

Se non ce ne sono di aggiuntiva, si possono ottenere spostando risorse dedicate ad altro.

Contrastare le disugua-glianze dovrebbe esse-re uno dei pilastri della politica nazionale. Pur-troppo le incrostazioni ideologiche impedisco-no a questa posizione di imporsi. La lotta alla disuguaglianza viene considerata figlia di un atteggiamento buonista o anacronistico in con-trasto con l’obiettivo

“moderno” di puntare, valorizzare all’eccel-lenza. Si tratta invece della stessa cosa, della stessa lotta. Va ribadito che proprio cercan-do di eliminare gli handicap di partenza che si favoriscono le eccellenze.

Gianpiero Dalla ZuannaProfessore straordinario in Demo-grafia all’Università di Padova dal 2 gennaio 2005. Nei sei anni precedenti è stato professore associato, prima a Messina (1999-2001) e poi a Padova. Ricercatore di Demografia e Statistica presso l’Università “La Sapienza” di Roma nel periodo 1990-98; dal 1985 al 1990 sempre ricercatore presso l’IR SEV (Istituto per la Ricerca Sociale ed Economica del Veneto). Autore di numerose pubblicazioni, è consulen-te del Ministero per le Politiche della Famiglia. Si occupa, in particolare, dello studio del comportamento co-niugale e riproduttivo e delle seconde generazioni di immigrati nei paesi ricchi. Ha curato il coordinamento nazionale di una grande indagine sui “figli di italiani e di stranieri” svolta su un campione delle scuole medie in-feriori italiane. Tra le sue pubblicazio-ni: Fare famiglia in Italia, con M. Bar-bagli e M. Castiglioni, Il Mulino 2004 e Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, con P. Farina e S. Strozza, Il Mulino 2009.

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eOccorre lavorare molto anche a livello di patto condiviso, in modo da generare condizioni

sempre piùfavorevoli a promuovere un incontro tra culture

che non svilisca nessuna delle tradizioni in gioco

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intervista

Il suo discorso mette in luce il parados-so della famiglia italiana che, da un lato, struttura il welfare - volto a dimi-nuire le disuguaglianze - e, dall’altro, mantiene lo status quo attuale.

Ci sono croci e delizie. Si pensi per esempio al ruolo della famiglia nel contesto di questa ul-tima crisi. Abbiamo potuto garantire la cassa integrazione per 15 miliardi di euro, metten-do in sicurezza - per così dire - la nostra in-dustria manifatturiera, perché non siamo stati costretti ad aiutare i disoccupati i quali, molto spesso giovani, possono contare sul supporto

della famiglia d’origine. Questo è un meccani-smo italiano, per certi versi positivo, per altri negativo. Ma non è affatto semplice scardi-nare certe abitudini, perché si tratta di aspetti connaturati alla rappresentazione comune della società. La gente, per esempio, crede che sia normale che un genitore si occupi del figlio anche quando ha già 30 anni.

Un sistema di borse di studio potrebbe essere utile nel determinare la scelta di proseguire gli studi anche per coloro che tendono a brevi percorsi di scolarità?

Sono del tutto favorevole allo strumento delle borse di studio, anche per un motivo diverso. In Italia c’è una forte disuguaglian-za in relazione al rendimento scolastico non solo tra italiani e stranieri, ma anche tra ragazzi con pochi o molti fratelli. Diversi studi rivelano che il numero dei fratelli è in-versamente proporzionale alla lunghezza dei percorsi di studio. Alcune ricerche più sofisticate - i risultati delle quali saranno pubblicati a breve anche su riviste europee - dimostrano che sarebbe sbagliato pun-tare in maniera indistinta sulla leva fiscale, perché c’è il rischio che le famiglie numero-se non usino le risorse in più per migliorare la qualità della vita dei propri figli, ma per generare altri figli ancora…I risultati di analisi econometriche fatte su dati di confronto tra l’Italia ela Francia mo-strano chiaramente che la leva giusta sono proprio le borse di studio che favoriscono direttamente i giovani “capaci e meritevoli”. Questi strumenti vengono in parte già usati. Per esempio, l’Università di Pado-va, alla quale mi onoro di appartenere, ha rimodulato le tasse mettendo insieme un discorso di merito con un discorso di composizione familiare e di censo.

Ritengo inoltre che il sistema delle borse di studio possa essere veramente efficace se viene ampliato alle scuole dell’obbligo e alle scuole superiori. A 15 anni, un ragazzo ha già maturato le sue capacità di concentra-zione, le sue basi di fondo. Quando i buoi or-mai sono scappati, si rimedia difficilmente.

A suo avviso, su che cosa bisogna lavo-rare in futuro?

Sono convinto che in Italia debba entrare la cultura della valutazione. Bisogna trova-re il coraggio di dire più spesso: “questo è migliore di quello”, approntando contem-poraneamente strumenti che aiutino chi è più indietro ad avvicinarsi al migliore. Se-condo me, l’Invalsi sta facendo un grande lavoro. Gli studi compiuti mostrano che il problema dell’Italia non è che la scuola non funziona. All’interno della stessa città, all’interno della stessa provincia, ci sono scuole che danno livelli migliori della Sve-zia, della Finlandia (il top europeo nella formazione scolastica). Se esistono queste punte d’eccellenza, perché non possono funzionare anche le altre? Solo adesso, gra-zie appunto alle ricerche Invalsi, si comincia ad avere una percezione precisa del quadro, e senza questo tipo di dati è impossibile agi-re in modo sensato ed equilibrato.Si sta facendo inoltre strada la consapevo-lezza che una categoria finora garantita - quella dei figli degli italiani e dei figli delle famiglie benestanti, istruite e borghesi - si dovrà in futuro confrontare con questo nuovo sistema. Attorno ai migranti, ai nuo-vi cittadini, c’è tutto un mondo che deve cambiare.

Gli stranieri assommano a una provenienzada famiglie spesso

culturalmente meno fornite dal punto di vista

scolastico anchedifficoltà legate alla

lingua e alla mancanza di aiuto

Cosa si può fare? Cose semplici, banali. Garanti-re i doposcuola, per esem-

pio. Non è togliendo icompiti a casa - caratteri-stici del modello italiano di studio - che si elimina-

no le disuguaglianze

Il professor Della Zuanna durante una lezione

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intervista

Rielaborazione dei grafici da“La rivoluzione nella culla”

di Giampiero Dalla Zuanna e Francesco Billariedizioni UBE

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Johnny DottiPresidente Fondazione Solidarete

Chiara GiaccardiOrdinario di Sociologia Processi Culturali presso Università Cattolica di Milano

Abdelkarim HannachiDocente di Lingua Araba presso Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’ Università di Catania

Natale LosiDirettore Scuola di psicoterapia etno-sistemico-narrativa di Roma

Mauro MagattiOrdinario di Sociologia presso Università Cattolica di Milano

Padre Beniamino RossiMissionario ScalabrinianoPresidente A.S.C.S.

Comitato scientifico

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Rubrica a cura del comitato scientifico di Connecting People

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alunni di origine straniera ed educazione interculturale

di Abdelkarim Hannachifoto di Alessandra Santopadre

Pensando al tema “immigrazione e in-tegrazione scolastica”, mi soffermo bre-vemente su due tematiche essenziali la prima concerne il modo di denominare questi nuovi compagni di banco venuti da altrove, la seconda riguarda la diversi-tà e l’educazione interculturale.

A. Alunni stranieri o alunni di origine straniera?

Quando si parla di questa nuova po-polazione scolastica non autoctona, la denominazione che si usa spesso, persino nelle circolari del Ministero della Pubblica Istruzione, è quella di “alunni stranieri”. Altre volte si usano denomina-zioni come “alunni di cittadinanza non italiana”, “alunni immigrati”, “immigrati di seconda generazione”. Si tratta di de-nominazioni imprecise perché non tutti sono stranieri né tutti sono immigrati. Questa ambiguità può comportare delle difficoltà al momento della programma-zione delle attività e dell’individuazione dei destinatari. Questi nuovi compagni di banco appartengono a due grandi categorie: quella dei cittadini italiani e quella dei cittadini stranieri. La prima raggruppa coloro che:1) sono nati all’estero e immigrati in Italia attraverso il ricongiungimento o l’adozione e che hanno acquisito la cit-tadinanza italiana;2) sono nati in Italia da genitori immigrati che hanno acquisito la cittadinanza italiana

e che sono italiani in quanto figli di italiani;3) sono nati in Italia da genitori di cui uno è cittadino italiano.La seconda categoria comprende coloro che:1) sono nati all’estero e immigrati in Italia attraverso il ricongiungimento o l’adozione;2) sono nati in Italia da genitori immigra-ti con cittadinanza non italiana, ma fu-turi cittadini italiani in quanto potranno

chiedere la cittadinanza al raggiungi-mento del 18° anno di età;3) sono nati in Italia ma per motivi vari non potranno mai diventare cittadini italiani;4) sono apolidi, richiedenti asilo e rifugiati.La caratteristica che accomuna tutti questi alunni, siano essi cittadini italiani o stra-nieri, è la “loro origine straniera” ed è per questo che l’espressione “alunni di origine

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straniera” è la più appropriata. Nella scuola di queste nuove generazioni, il linguaggio non è un problema secondario perché è lo strumento della rappresentazione e dell’identificazione dell’Altro.

B. Diversità e educazione interculturale

Sono tematiche complesse che meritano approfondimenti ed un intervento a parte. Mi limito qui a fare alcuni accenni. Grazie alla presenza di individui e gruppi provenienti da altri paesi e portatori di tante culture diverse tra di loro, la società italiana si trasforma e non solo nel suo panorama demografico. La diversità che comporta questa trasformazione ci coinvol-ge, ci interroga, ci mette in difficoltà.In mancanza di una politica lungimirante in materia di immigrazione e integrazio-ne, la diversità rischia di essere, e spesso è, oggetto di manipolazione ideologica e

di strumentalizzazione politica. Ci si serve della diversità per alimentare paure, raz-zismo e forme di discriminazione.Considerata in modo positivo, la diversi-tà è invece una grande opportunità. Già nella circolare scolastica n. 295 del 1990, la diversità appariva come risorsa. “L’educazione interculturale avvalora il significato di democrazia considerato che la diver-sità culturale va pensata come risorsa positiva per i complessi processi di cre-scita della società e delle persone”. Grazie alla presenza di questi diversi, scopriamo il nostro villaggio glo-bale, la complessità dei rapporti interna-zionali, delle interdipendenze. Il centro del mondo non è più casa nostra, non è più il nostro quartiere, la nostra città, il nostro paese. “Noi viviamo in un’età planetaria con una coscienza neolitica”

(Padre Ernesto Balducci).Per superare l’impatto negativo con la di-versità, per affrontare questo pluralismo e questa complessità e per trovare la via di uscita in questa fitta rete di rapporti e di relazioni tra mondi e persone diverse

tra loro, abbiamo bisogno di nuovi strumenti educa-tivi. Per conoscere l’Altro, non basta più guardarlo dalla conchiglia della nostra cultura. Nel tenta-tivo di conoscere l’identità dell’Altro, c’interroghiamo sulla nostra. Per tutto que-

sto, abbiamo bisogno dell’educazione in-terculturale. Essa è il ponte tra l’identità e l’alterità, lo spazio delle dinamiche re-lazionali, della gestione del conflitto, del dialogo. L’educazione interculturale è, da un lato, la chiave di lettura e di interpre-tazione di questo pluralismo e di questa complessità, dall’altro, lo strumento

Per superare l’impatto negativo

con la diversità abbiamo bisogno

di nuovi strumenti educativi

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educativo per promuovere quelle intera-zioni positive tra individui e gruppi che abitano il nostro territorio o il mondo globale. L’educazione interculturale ci aiuta a non percepire negativamente la diversità e a trasformarla in una risorsa,

ad affrontare le sfide della società multi-culturale e del mondo globale.L’obiettivo principale dell’educazione interculturale è quindi l’interazione con l’Altro appartenente ad un’altra cultura. In questo processo, non è l’identità cul-turale che va valorizzata bensì la persona umana perché rincorrendo le culture rischiamo di perdere di vista l’uomo, l’immigrato della porta accanto o il com-pagno di banco di origine straniera.In Italia, dal punto di vista teorico, siamo sulla buona strada; lo dimostrano le ricerche, le pubblicazioni e i convegni sulle tematiche inerenti all’immigrazio-ne, i documenti e le circolari ministeriali sull’inserimento e l’integrazione degli alunni di origine straniera e sull’intercul-tura, la volontà degli insegnanti di for-mare il cittadino del mondo attraverso la promozione di una coscienza planetaria. Dal punto di vista politico e legislativo, c’è ancora molto da fare per realizzare quel-la parità tra autoctoni e nuovi cittadini. Per il momento, nel nostro paese, c’è la necessità di unire gli sforzi della scuola a

quelli della politica che sembrano a volte andare in due direzioni diverse, affinché lavorino insieme per realizzare la parità nei diritti e nelle opportunità e l’inclusio-ne che è la sfida di tutte le società plurali.

Abdelkarim HannachiDocente presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Uni-versità di Catania, sede di Ragusa e all’università Kore di Enna, già membro del Direttivo della Rete Europea contro il Razzismo con sede a Bruxelles, della Consul-ta Nazionale per l’immigrazione presso il Dip. Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Mi-nistri, del Comitato Scientifico per l’educazione interculturale presso il Ministero della Pubblica Istruzione.

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oltremare

Un proverbio ad Haiti dice “molte mani fanno il peso più leggero”. Molte mani che lavorano, molte

mani che sfamano, che si afferrano, che confortano. Forse ad essere una comunità, un insieme solidale e fraterno, gli haitiani lo hanno imparato tanto tempo fa. Lo hanno imparato quando, da schiavi sono stati por-tati su quest’isola caraibica a lavorare i campi e quando, sempre da schiavi, hanno preso in mano la loro storia invocando la libertà e diventando la prima repubblica nera del mondo. Ora, dopo che anni di disastri politici li hanno ridotti alla povertà, che la natura si è accanita ancora una volta su quest’isola, distruggendo con il terremoto la loro città - con i suoi simboli - e le loro fragili case ed esistenze, loro sono lì, dietro i baracchini ai

bordi delle strade, nei mercatini, nelle botte-ghe a cercare una loro dignitosa normalità. Questo è il reportage del viaggio che io e mio fratello Roberto abbiamo fatto come volontari in agosto, nella missione dei Padri Scalabriniani a Port-au-Prince. Inizia così, perché è stata dirompente la sen-sazione di umanità e di coraggio che mi ha trasmesso Haiti. Teniamolo presente: questo è un paese dove non è facile vivere. Non lo era prima del terremoto, non lo è adesso. Proviamo per un istante a immaginarci senza una casa confortevole, una bella tv, senza i nostri vestiti e le scarpe comode, senza le macchine in garage e le strade asfaltate. Ecco, e questa è solo immaginazione. Molte mani fanno il peso più leggero anche tra i bambini che ho conosciuto al campo

estivo della missione. Ho visto bambini di dieci, undici anni accudire i più piccolini, prenderli per mano se piangevano, tenerli in braccio addormentati. E non erano neces-sariamente fratelli o sorelle. Certo, litigano anche loro, come tutti i bambini, ma in tre settimane li ho visti molto più spesso rin-corrersi e giocare insieme. Erano più di 200, scelti tra i circa 400 che nel periodo invernale frequentano la scuola dei Padri Scalabriniani. Il campo è stato organizzato da un gruppo di psicologi ed educatori dell’Università Catto-lica di Milano, nell’ambito di un intervento psico-sociale post emergenza per i bambini vittime del terremoto. La mattina prevedeva attività in classe, concordate con i professori (haitiani). Il pomeriggio sport e gioco libero nel grande campo da calcio. E per i bambini

“La matita del buon Dio non ha la gomma”Volontari nella missione dei Padri Scalabriniani ad Haiti

di Alessandra Picciolo, volontaria ASCSfoto di Alessandra Santopadre

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oltremare

era un spremuta incontenibile di vitalità. Nemmeno il caldo torrido li sfiancava, nem-meno il pranzo sullo stomaco. “Ballon ballon” invocavano tirandoti per la maglietta mentre tu, con un carico di hula hoop addosso (e bambini aggrappati), cercavi di raggiungere il campo da calcio. Li ho visti correre dietro al pallone, far roteare mille volte i cerchi di plastica, saltare alla corda. Sono forti, sorri-denti, tenaci. Li ho visti con le braccia alzate al cielo per afferrare la macchina fotografica, splendido oggetto del desiderio. Chi la “vinceva” scappava via e tornava qualche minuto dopo con un reportage fotografico un po’ sbilenco da mostrare. Li ho visti saltare in groppa ai militari brasiliani dell’ONU e fare la coda per il giro di campo in “carro armato”. Ho sentito le loro manine addosso tante volte, sui miei capelli “troppo fini ma belli”, sul viso, tra le mani. Credo di aver sperimentato, qui più che altrove, quanto Watzlawick dice a proposito della comunicazione, che non è fatta solo di parole ma anche e soprattutto di “non parole”: ok, non ce la siamo potuta raccontare, ma gli abbracci e i sorrisi che ci siamo scambiati hanno oltrepassato le bar-riere linguistiche (il mio francese pressoché inesistente!) per dire molte, molte cose. La mia Haiti è stata questa, sono stati i bam-bini, innanzitutto, ma anche quel poco che ho visto le volte che siamo usciti dalla missio-ne. La casa di Padre Charles e i suoi bambi-ni di strada, la Port-au-Prince devastata, con le macerie ancora là dove le ha lascia-te il terremoto, con i fiumi di persone che camminano lungo le strade, le grandi ten-dopoli e le baracche di plastica e lamiera. Il quartiere degli artisti del metallo a Croix de Bouquet, le strade sterrate e polverose, i viaggi in macchina scomodi. La mia Haiti è stata anche quella che ho ascoltato dalla viva voce di chi, in quel Paese, ci sta e ci lavora da anni: Padre Giuseppe, che ha fatto della missione una piccola e sempli-ce oasi di pace in mezzo alla miseria. Nelle settimane in cui ci ho vissuto, ho imparato che è innanzitutto un luogo di accoglien-za. Lo è per i seminaristi che ci vengono a studiare, per i medici che lavorano nella clinica, per i bambini che frequentano la scuola, i volontari, e chiunque abbia un motivo per starci. “Qui ognuno deve fare quello che sente di poter fare meglio” è una delle prime cose che mi ha detto quando siamo arrivati. Haiti è anche nelle

parole di Suor Anna, missionaria delle Sa-lesiane di don Bosco, friulana come me, nell’isola da 55 anni. Ed è nelle storie delle persone che ho incontrato: funzionari ONU, militari brasiliani, carabinieri italiani. Non è facile farsi un’idea chiara di questo paese, compendio di vicende storico-poli-tiche disordinate e di tragedie naturali.Un altro proverbio haitiano dice che “la

matita del Buon Dio non ha la gomma”: cioè che quanto è stato scritto in cielo deve accadere comunque, quaggiù, e non può essere cambiato. Sono un popolo molto spirituale, gli haitiani, e anche fatali-sta, quasi rassegnato a subire una difficol-tà dietro l’altra. Ma spero che, oltre alle loro, molte altre mani possano darsi da fare per rendere il peso più leggero.

I bambini di Haiti e l’importanza della missionedi Alessandra SantopadreResponsabile progetti ASCS

La lista di violazioni e discriminazioni delle quali l’infanzia di Haiti è vittima è tristemente lunghis-sima. In modo particolare per le bambine. Come riportato dall’UNICEF nel Child Alert pubblicato nel marzo 2006, ad Haiti un bambino su quattor-dici non riuscirà a festeggiare il suo primo comple-anno; un bambino su otto non raggiungerà i 5 anni. Un minore su sette è orfano di almeno un genitore; elemento che, combinato con la situa-zione di povertà che affligge il paese, fa sì che moltissimi bambini vivano in una situazione di gravissima vulnerabilità, rendendoli facile preda di sfruttatori. A Port-au-Prince, la capitale, si sti-ma ci siano 2.500 bambini di strada che vivono di elemosina per guadagnarsi 20 gourdes con cui sfamarsi (meno di 50 centesimi di euro) e quindi ulteriormente vulnerabili allo sfruttamento, so-prattutto sessuale, o al traffico. Haiti è l’unico paese dell’America Latina in cui l’istruzione non è gratuita, con centinaia di mi-gliaia di bambini senza accesso alla scuola. La povertà diffusa, inoltre, costringe molti bambini a lavorare per contribuire al reddito familiare, o a prendersi cura dei fratelli minori o dei parenti anziani. Nelle zone rurali le distanze costituiscono un ulteriore ostacolo all’accesso a scuola, men-tre nelle aree urbane sono i fenomeni di disagio sociale - quali il crescente numero di bambini di strada o di orfani privi d’assistenza - a costituire barriere ulteriori all’accesso scolastico. Il sovraf-follamento delle scuole e la carenza di risorse per la formazione degli insegnanti pregiudicano infi-ne la qualità dell’insegnamento. Questa situazione si verifica anche nel quartiere

periferico di Croix de Bouquetes, dove i Padri Sca-labriniani operano. Un’area che ospita in condi-zioni precarie e degradate oltre 150.000 persone. Tale popolazione è composta prevalentemen-te da due classi nettamente contrapposte e a volte in forte tensione. In maggioranza vi sono vecchi contadini che abitano la zona già da molto tempo, in minoranza nuovi venuti, pro-venienti da altre parti della città o dalla zona rurale circostante Port-au-Prince. L’ iniziativa dei Padri è volta ad accogliere, soste-nere, aiutare e promuovere l’educazione e la cura integrale dei bambini e adolescenti che escono o fuggono da un regime di guerra e di violenza o che sono vittime dell’assenza di una politica socio-economico-culturale che fornisca loro la possibilità di un percorso educativo completo; ci si propone a tal fine di provvedere un sostegno ali-mentare e una attenzione specifica medico-sani-taria, ma anche una vicinanza morale e spirituale.L’obiettivo è far percepire loro la scuola come l’unico posto dove sentirsi a riparo dalla vio-lenza, spesso anche familiare, e incontrare in-segnanti formati alle situazioni d’emergenza, adeguati strumenti educativi e un clima di acco-glienza e di sostegno psicologico.

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Page 20: Storie di Questo Mondo Anno 2 Numero 4

progetti

Il consorzio Connecting People è l’ente aggiudicatario, insieme al socio Consorzio Amistade di Benevento,

del progetto “Piccoli comuni, grande soli-darietà” presentato dal Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del Ministero dell’Interno nell’ambito del PON Sicurezza per lo Sviluppo Obiettivo Convergenza 2007 - 2013 UE e avente come finalità il reinseri-mento e l’integrazione di 50 rifugiati eritrei. Il progetto si sta realizzando nel comune di San Lupo (BN) presso l’ex scuola ele-mentare e il nostro consorzio garantirà, per i 24 mesi del progetto, tutti i servizi e gli interventi di accoglienza, assistenza e formazione necessari per una reale inte-grazione socioeconomica dei destinatari e volti a garantir loro la maggiore indi-pendenza possibile. Oltre ai servizi base di

vitto e alloggio, verrà così assicurata agli ospiti della struttura un’assistenza costan-te tramite servizi di mediazione culturale, assistenza sociale, assistenza psicologica e infermieristica. Connecting People si occuperà inoltre della gestione e della realizzazione di attività di formazione, so-cializzazione ed accompagnamento degli ospiti. A tal fine stiamo realizzando per esempio attività di orientamento ai servizi del territorio, attività di formazione, corsi di lingua italiana, attività di job matching e conseguenti tirocini presso piccole aziende e realtà artigianali e turistiche della provincia di Benevento.Importantissima, come sempre, la collabo-razione con le Istituzioni ad iniziare dal co-mune di San Lupo e per questo motivo Sqm ha intervistato il sindaco Irma De Angelis.

Sindaco, come è arrivato a San Lupoquesto progetto?

Il progetto “Piccoli comuni, Grande solidarietà” è nato un po’ dalla mia “inco-scienza”, dato che non avevo idea inizial-mente di cosa comportava l’accoglienza dei migranti. Ho avuto entusiasmo e cu-riosità subito dopo un primo contatto con il Ministero dell’Interno (Diparti-mento Libertà civili) che ha sondato la nostra disponibilità per un progetto di accoglienza dei migranti.Sono andata a Roma dove ho conosciuto l’allora Prefetto Mario Morcone che ci ha da subito sorpresi per la sua positività, competenza e umanità; abbiamo preso conoscenza dei dettagli del progetto. Non ho nascosto al prefetto le mie perplessità iniziali legate al possibile impatto dell’arrivo di stranieri in un pic-colo comune dell’entroterra, soprattutto in relazione al messaggio negativo che spesso viene associato agli immigrati. Il progetto inizialmente era previsto per 50 rifugiati politici, un numero piuttosto importante per un centro di poco meno di mille abitanti, poco abituato agli scambi anche con i paesi vicini. Per cui alla curiosità iniziale sin da subito si era affiancato un po’ di timore. Dopo alcuni incontri pubblici con i citta-dini di San Lupo, debitamente informati, rassicurati sull’arrivo dei nuovi ospiti e sensibilizzati sull’arricchimento spiri-tuale ma anche economico che sarebbe potuto derivare da questo scambio, le perplessità non sono mancate soprat-tutto in una parte della cittadinanza, impaurita dalle possibili problematiche legate alla sicurezza. Non sono manca-te ovviamente le strumentalizzazioni politiche e di fondo c’è stata un po’ di diffidenza forse anche un po’ normale. Nonostante tutto, per la crescita del paese, abbiamo cercato di sfatare il pre-giudizio, tenendone conto, con atti con-creti di ospitalità. Ho sempre ritenuto, e i fatti me lo stanno confermando, che alla prova concreta dei fatti, la gente di San Lupo avrebbe manifestato la propria profonda generosità d’animo.

La struttura che accoglie i rifugiati eritrei a San Lupo

Piccoli comuni, grande solidarietà

Intervista a Irma De Angelis, sindaco di San Lupo

di Giorgio Gibertini, Direttore di Storie di Questo Mondo

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progetti

Il progetto è avviato da pochi mesi e non è ancora tempo di bilanci, ma abbiamo intuito che il trend è sicuramente positivo, per il paese e per gli ospiti. Secondo lei nel grande problema dell’im-migrazione, questa dei Piccoli comuni può diventare un modello di risposta concreta applicabile in altre realtà?

Lo spirito che ha animato questo proget-to di integrazione lo ritengo esportabile. Un amico di San Lupo, che vive ormai fuori, mi aveva avvisato sulle insidie che l’incontro tra due povertà poteva ge-nerare. Io ritengo invece che proprio la diversità di una realtà come San Lupo e il territorio del Sannio, povera di strutture e infrastrutture rispetto ad una grande città, ci garantisce un tessuto sociale ancora “vergine” privo di problematiche socio-culturali tipiche di grandi centri urbani. Ritengo dunque che in piccoli centri si possa puntare maggiormente sul contatto umano tra gli ospiti e i citta-dini che accolgono, che è quasi naturale. Nelle grandi città diventa invece inevita-bile e quasi automatico rinchiudersi in comunità di immigrati che non favori-scono certo l’integrazione. A San Lupo la piazza è ancora un Agorà, qui gli ospiti partecipano attivamente alla vita della comunità. Ecco perché ritengo che l’espe-rimento funzioni nelle piccole comunità.

So che avete festeggiato il 25 aprile con una festa dal titolo “Nasce una nuova vita”, nascita a nuova vita per noi italiani che ricordiamo la Liberazione e per i fratelli eritrei. Tra l’altro qualche giorno prima era nata una bambina proprio a San Lupo dalla mamma eritrea che aveva affron-tato l’avventurosa traversata in mare in gravidanza. Questo è un altro importante aspetto dell’immigrazione, si possono così far rinascere i tanti piccoli paesi del Sud che si spopolano o invecchiano?

Si anche questo è un buon motivo in più per cercare di farli star bene e farli rimanere a San Lupo. La convenzione con il Ministero dura 24 mesi. Noi auspichiamo che già da prima nascano nuovi bimbi, e altri bambini sono già presenti, di cui qualcuno in età scolare. Questo ci permette di arginare lo spopolamento, di salvare le nostre scuole e di ampliarla. Poiché ci sono anche giovani single, io mi auguro da donna che qualcuno possa innamorarsi di una ragazza italiana e che possa rimanere in condizioni dignitose, con un buon lavoro e una famiglia autonoma.

Quali sono le richieste che le giungono da questi fratelli eritrei? Li sente parte integrante del paese, come è avvenuto questo inserimento?

All’inizio è stato un po’ difficile capire il modo in cui era possibile incontrare lo spirito di queste persone. Poi, fidandomi dell’istinto, ho preferito un approccio diretto, non da amministratore ma come madre e donna. Alcune cose mi hanno davvero commosso, la storia della bambina, Milka, ad esempio che è stata la prima a venire a farmi visita a casa, che più di una volta mi ha raccontato di essere stata in carcere con la madre. Il mio approccio non è stato dunque tecnico, ma materno. A pelle percepisco buoni risultati. Anche dal sorriso dei ragazzi, dal loro modo di fare vedo che si fidano.

Qualche piccolo sogno o aspettativa per la continuazione del progetto?

Aggiustamenti ce ne sarebbero tanti da fare. Io dico che sono stati compiuti tanti sforzi soprattutto da CP, che è l’ente che meglio

conosce e ascolta le istanze degli amici eritrei. Quanto si sta facendo è già molto importante. Si sta cercando attraverso il Consorzio AMISTADE di Confcooperative di avviare gli ospiti al mondo lavorativo, anche se il momento di crisi mondiale si sente anche e soprattutto in un economia peri-ferica come quella del Sannio. Nonostante tutto sono già 4 le persone che lavorano, con grande sforzo da parte di tutti. Forse sarebbe il caso che il Ministero venisse a rendersi conto di quanto di buono si sta facendo qui, forse per dare anche qualche suggerimento sulle migliori strategie per ottimizzare il lavoro di Connecting People e dell’amministrazione comunale. Faccio inoltre un appello affinché il governo ob-blighi le regioni a legiferare per garantire agli immigrati regolari una piena assistenza sanitaria e la totale esenzione dal ticket.

Irma De Angelis, sindaco di San Lupo

Il progetto di “resettlement” di CPdi Edoardo Villari

Il 1 aprile del 2010 è iniziato il progetto di re-settlement “Piccoli comuni, grande solidarie-tà” in San Lupo (BN) di cui Connecting People è ente gestore. L’obiettivo dei programmi di “resettlement” è inserire i beneficiari del pro-getto nel tessuto socio-economico di piccoli comuni, tramite un percorso che si sviluppa dalla formazione linguistica a percorsi di edu-cazione civica, all’attività di orientamento la-vorativo, elaborazione del portfolio di ciascun rifugiato, work-experience e stage presso le aziende del territorio, per garantire alla fine il recupero di un’autonomia socio-economica. Il progetto dura 24 mesi e l’Autorità Respon-sabile è il Dipartimento per le Libertà Civili e Immigrazione del Ministero dell’Interno in collaborazione con l’ACNUR. Nel Centro ven-gono forniti vitto, alloggio, assistenza socio-psicologica, orientamento professionale, for-mazione linguistica e alla legalità, e formazione professionale.

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progetti

San Lupo. Ne avevamo tanto parlato condividendo timori e speranze, obiettivi realistici e sogni. Ed ora,

eccolo qui davanti a me, abbarbicato su una collina da cui quando non c’è nebbia, si gode un panorama stupendo. Manca il mare, certo. Ma l’aria frizzante della sera che si sostituisce a quella appiccicosa cui siamo più abituati, si fa certamente perdonare. Vi arrivo attraverso campi di ulivi ed una strada tortuosa che sale su da Benevento. Ed ecco il Centro. Piccoli comuni: Grande solida-rietà. Mi colpisce perché è la costruzione più imponente della piazza del paese. Entro e la vedo subito: è lì col suo bambino in braccio che fa avanti e indietro per il corridoio. Parla un po’ animatamente. Il primo saluto agli amici colleghi ed ai nuovi e giovani collaboratori. Ci si ricorda di altre circostanze, di altri luoghi e di altri lavori. Eh si, sono proprio tante e diverse le cose che ho fatto da quando ero poco più che ragazzo ad oggi che sono, solo professionalmente, più maturo. Tutte legate da un unico filo condut-tore: ascoltare le storie per capire, per condi-videre e, se possibile, per aiutare. Anche a San Lupo ascolto storie. Mentre vedo capannelli di gente all’ingresso del centro che chiedono di conoscere Hiyab nata a Benevento il 6 aprile scorso, ascolto storie. E vedo solida-rietà. Grandi Solidarietà. Lei, però è ancora lì, ogni tanto riappare col pupo in braccio. È bellissimo Yousef, faccione rotondo e due occhi scuri da mangiarselo. Ha imparato a guardare “in cagnesco”, imitando lo sguardo scherzoso della cuoca. Se lo guardi in quel modo, ti risponde. E sorride. Sorride anche lei. Per fare i colloqui al centro di San Lupo ci sono diverse possibilità: la prima è offerta

dallo stanzone dell’area psicosociale. Due fi-nestre grandi danno sulla piazza e ti permet-tono di vedere cosa succede all’esterno dove ogni tanto alcuni ragazzi giocano a pallone. Un’altra è garantita da uno stanzino meno luminoso ma più raccolto. La preferisco, i colloqui diventano più empatici e profondi. È

qui che ascolto la maggior parte degli ospiti. Storie di fughe, di carcere, di depri-vazioni. Col biberon pieno di latte, Yousef in braccio ed il solito vestito, Fatima è ancora lì. Ha qualcos’al-tro da chiedere, anima-tamente. Al solito. Gioco col bambino, chiedo se

posso baciarlo. Dice di sì. Grande abbraccio al piccolo, allora. Le sorrido. Mi invitano a pranzo alla mensa, pasta col pomodoro e hamburger con insalata. Ci vado quasi ogni

giorno. C’è un gruppo di ospiti che ama stare a tavola. Mangiano lentamente e scambiano battute. Sorridono. Una delle cuoche passa e chiede se il cibo è stato di gradimento. Non mi piace, risponde una signora in un italiano stentato. Ma come, se ha appena finito di pu-lirsi il piatto col pane non le piace? È questa una di quelle scene che, avendo lavorato per molto tempo nelle strutture di accoglienza, ho visto con una certa frequenza. Lei ha già finito. È su da un pezzo. Quando viene il suo momento Fatima racconta e non si fa prega-re. Scende nei dettagli descrive le scelte che ha fatto e ne rivela la motivazione. Parla del suo disagio. “I think, i think ….” Pensa Fatima, a sua madre e suo fratello rimasti in Somalia. Al marito che non sa dove si trovi. A suo figlio che manderà all’asilo con gli altri. E per lei? Le basta un lavoro, un qualsiasi lavoro. Grazie ai colleghi e buon lavoro a tutti quelli che ho, momentaneamente, lasciato lì.

Ed ecco il Centro.Piccoli comuni:

Grande solidarietà.Mi colpisce perché è

la costruzione piùimponente della piazza

del paese

Veduta del centro di San Lupo

Ascoltare le storie per capire

Impressioni da San Lupo

di Sebastiano PomonaAssistente sociale coordinatore degli operatori sociali

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progetti

Quando a fine giugno abbiamo chiesto a Milka se era contenta della fine della scuola ci ha rispo-

sto: “No, non sono contenta, a me piace an-dare a scuola”. In questa piccola frase, pro-nunciata a bruciapelo ed in italiano corretto da una bimba etiope di 8 anni, è racchiuso tutto il senso di uno dei primi risultati po-sitivi del progetto “Piccoli comuni, grande solidarie-tà”, attivato a San Lupo, un piccolo paese in provincia di Benevento, solo pochi mesi fa, in aprile. Milka e la sua famiglia, composta da mamma, papà ed una sorellina di 6 anni, Nolawit, è tra i 30 rifu-giati politici, in gran parte eritrei, ma anche etiopi e somali, destinatari di un progetto sperimentale ed innovativo di reinsedia-mento realizzato dal consorzio Connecting People, all’interno di un progetto di resettle-ment del Ministero dell’Interno – Diparti-

mento Libertà civili e immigrazione con la collaborazione del UNHCR. Un progetto ba-sato su metodologie innovative in tema d’integrazione: non più insediamenti nelle metropoli o nelle città, ma centri piccoli, con

meno di cinquemila abi-tanti. Contesti cioè più tutelati e con reali sboc-chi di autonomia socio-lavorativa. Piccoli centri e dunque piccole scuole, dove gli insegnanti han-no la possibilità di seguire

meglio gli alunni e capire a fondo le loro po-tenzialità. È stato così che Milka ha frequen-tato quest’anno con profitto la prima classe della scuola elementare di San Lupo, al ter-mine della quale è stata promossa diretta-mente in terza, data l’età ma soprattutto la velocità di apprendimento e la perfetta pa-dronanza della lingua italiana conquistata in pochi mesi, così come sua sorella Nolawit che dopo l’asilo, frequentato nello stesso

istituto, andrà in questi giorni in prima ele-mentare. Non sono queste le uniche con-quiste delle due bimbe, ormai perfettamen-te integrate con i loro coetanei, compagni di scuola e non, che girano spesso per il centro animando i suoi luoghi e la ludoteca, recen-temente allestita all’interno del nostro cen-tro e aperta anche a tutti i bambini del pae-se. Milka e Nolawit non sono le uniche bimbe ospiti del centro di San Lupo. Tra i più piccoli c’è infatti Yousef, ventidue mesi, che quest’anno ha frequentato la sezione “Pri-mavera” dell’asilo nido di un paese limitrofo, Guardia Sanframondi, dove per l’inizio del nuovo anno scolastico è stata iscritta anche Eva, quindici mesi. Quest’ultima, frequen-tando l’asilo, consentirà alla mamma Ruta di lavorare come parrucchiera presso un coif-feur di Telese Terme. Per le due ultime arriva-te, Hiyab ed Elinora, nate proprio a San Lupo, di appena quattro e tre mesi, è invece ancora presto. L’integrazione scolastica dei bambini è stata uno strumento molto effi-cace per l’integrazione socio-lavorativa dei loro genitori, non solo in termini di armoniz-zazione tra tempi di vita e di lavoro, ma an-che come opportunità d’integrazione tra gli ospiti del centro e le famiglie del paese. Re-cite, colloqui scolastici e feste di complean-no sono state occasioni utili a favorire l’in-contro tra gli ospiti e gli abitanti del luogo che, trovandosi a condividere ciò che hanno in comune, al di là delle differenze, cioè i propri figli, hanno iniziato a conoscersi e a comunicare. E come in molte storie di inte-grazione ben riuscita, essenziale è stato il ruolo dei bambini; i primi ad imparare la lin-gua e a rompere il velo di diffidenza che spesso gli adulti faticano a mettere da parte. Tutti, adesso, al centro di San Lupo attendia-mo l’inizio del nuovo anno scolastico, pro-prio qui al centro che, in passato, era la scuo-la elementare del paese.

L’integrazionescolastica dei bambini è stata uno strumento

per l’integrazionesocio-lavorativa dei

loro genitori

A me piace andare a scuola

L’inserimento a scuola dei bambini ospiti nel centro di San Lupo

di Monica Di Gioia, tutore Manuela Ianniello, formatrice alla legalità

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incontri

La presenza del CARA di Gradisca d’Isonzo nel territorio isontino sta creando delle sinergie positive che

hanno consentito di avviare un importante progetto di integrazione scolastica a favore degli ospiti del CARA Il progetto è nato dalla volontà degli attori coinvolti di dare una risposta immediata agli ospiti del centro che erano privi di punti di riferimento in un territorio che non era preparata a questa “invasione”; essendo il comune di Gradisca d’Isonzo un piccolo comune della provincia di Gorizia, la presenza degli immigrati non passava di certo inosservata. Il comune di Sagrado, la Chiesa metodista di Gorizia, la parrocchia San Niccolò Vescovo di Sagrado e l’EDA di Staranzano (Centro permanente per l’Educazione Degli Adulti) hanno deciso di stipulare una convenzione con Connecting People per collaborare alla realizzazione di questo progetto di integrazione offrendo servizi rivolti alla formazione dei bambini e degli adulti e supporto alle famiglie degli immigrati. L’idea di base è nata nel 2008, durante un corso di lingua italiana per stra-nieri e di computer organizzato dall’Anolf di Gorizia in collaborazione con lo IAL FVG e la partecipazione della stessa EDA di Sta-ranzano. In quell’occasione furono tante le difficoltà legate al costo del trasporto, nac-que così l’esigenza di trovare un posto più vicino al centro. Il nuovo progetto è nato con l’obiettivo di coinvolgere gli attori che po-tevano risolvere questo problema e si è così dato vita ad un ampio ventaglio di proposte legate al tema dell’educazione e della scuo-la: laboratori didattici per bambini, scuola di italiano per stranieri, internet point, dopo-scuola gratuito, ecc... Abbiamo incontrato alcuni degli attori che hanno dato vita a questa importante azione per l’integrazione dei migranti nel territorio di Gradisca che ci hanno illustrato alcuni aspetti del progetto.

Dott.ssa Elisabetta Pian qual è la sua strategia di accoglienza ed integrazione per gli ospiti del CARA? Quali sono gli obiettivi che intendete raggiungere?

Il Comune di Sagrado promuove già da molti anni un progetto di integrazione e di multiculturalità che coinvolge le scuole elementari e medie del nostro territorio. Finanziamo anche un labo-ratorio interculturale per permettere la conoscenza reciproca fra gli alunni delle scuole e gli alunni stranieri.Nell’ambito del progetto specifico il comu-ne di Sagrado ha offerto un internet point, un’aula e il materiale didattico per un corso di lingua italiana base ed avanzato per stranieri. Mettiamo anche a disposizione degli ospiti la biblioteca municipale, gli ospiti del CARA possono prendere in

prestito dei libri, hanno la possibilità di fare delle fotocopie e di consultare la loro corrispondenza su internet, per mantenere i legami con le loro famiglie d’origine.Quest’anno il comune di Sagrado ha anche ospitato “la festa dei popoli” promossa dalla CARITAS MIGRANTES che ha visto la parte-cipazione di molti ospiti. Finanziamo anche un doposcuola per consentire alle donne ospite del CARA di poter lasciare i bambini per frequentare un corso di lingua.Il consiglio comunale sta discutendo inol-tre della possibilità di attivare dei progetti di volontariato che coinvolgano gli ospiti in lavori socialmente utili al fine di prepa-rarli ad affrontare il mondo del lavoro.

Elisabetta Pian, sindaco di Sagrado (GO) I numeri del progettoIl “Progetto culturale e di alfabetizzazio-ne” è organizzato in maniera flessibile per coincidere con la durata del soggior-no degli ospiti. Per ogni gruppo di ospiti interessati a seguire un corso viene atti-vato un percorso che dura 40 ore. La breve durata consente a tutti di completare il corso prima di lasciare il centro e permet-te un rapido ricambio dei corsisti. I corsi partono a cadenza bimestrale. Il progetto non si esaurisce nei corsi di alfabetizza-zione ma prosegue con il monitoraggio del rendimento scolastico e il rilascio de-gli attestati di frequenza. Partecipano a questo protocollo Connecting People, il comune di Sagrado, l’EDA di Staranzano, la parrocchia di San Niccolò di Sagrado e la Chiesa metodista di Gorizia.

A scuola d’integrazione tra Gradisca e Sagrado

Corsi d’italiano, laboratori didattici e formazione per adulti nel territorio isontino

di Ndamnsah Blaise Nkfunkoh

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incontri

Dott. Fragiacomo quale sarà il ruolo dell’EDA in questo progetto educativo rivolto ai migranti? L’EDA di Staranzano, di cui sono preside, è un istituto statale d’istruzione tecnica molto sensibile alla questione dell’edu-cazione degli adulti e degli immigrati.

Siamo stati subito pronti ad offrire agli ospiti qualche opportunità formativa, immaginando anche soluzioni innovati-ve per favorire la possibilità di seguire i corsi. L’EDA offre dei corsi di lingua italiana base ed avanzata ed offre anche la possibilità di conseguire il diploma di scuola media e di imparare una profes-sione. Nell’ambito del progetto scuola e integrazione l’EDA ha fornito gli inse-gnanti qualificati e abilitati a rilasciare per conto dell’istituto dei diplomi e/o certificati con valenza nazionale.

Mario Colaianni ci spiega in che modo la Chiesa metodista partecipa al difficile percorso per l’integrazione nel territorio di Gorizia?

Come Chiesa metodista, in collabora-zione con la parrocchia San Niccolò di Sagrado, abbiamo accolto i bisogni e le esigenze degli ospiti e ci siamo attivati per trovare delle risposte. Molti ospiti del CARA erano anche di religione pro-testante e ci siamo fatti carica delle loro richieste. La chiesa metodista assiste economicamente alcuni ospiti per le loro spese legali in caso di rigetto della richiesta di permesso di soggiorno. Incontro personalmente gli ospiti una volta per settimana all’interno del Cen-tro, è stato quindi del tutto naturale che abbiamo partecipato e spinto per attiva-re questa convenzione.Abbiamo concluso il nostro giro di in-contri raccogliendo qualche parola di Olivier Huge, Costa D’Avorio, che ha par-tecipato al progetto: “Sono molto con-tento di aver partecipato a questo corso grazie al quale ho imparato un po’ d’ita-liano. Prima non riuscivo a comunicare con le persone in nessuna situazione, quando andavo in chiesa ad esempio non capivo nulla. Ora con il corso d’ita-liano base e avanzato me la cavo abba-stanza bene. Mi sono anche iscritto ad

un corso di formazione professionale per saldatori e ora aspetto fiducioso la decisione del tribunale e spero di poter lavorare. Credo che il progetto sia stato davvero una benedizione per la mia vita, perché sono riuscito a dare un senso alla mia vita e a lottare contro la noia che mi assaliva perché non facevo niente tutto il giorno nel centro”.

Mario Colaianni, presidente della Chiesa

metodista di Gorizia Marco Fragiacomo, preside EDA

Si è dato vita a un ampio ventaglio

di proposte legate al tema dell’educazione

e della scuola

Il corso di italiano per stranieri adulti che si svolge a Sagrado

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news

ACIreALe (CT)

Giornata mondiale del rifugiato:una casa in festadi Aurora Giardina e Francesco De Maria

Parlare degli occhi di chi ha tanto da rac-contare, di chi ha bisogno di comprensione o di una stretta di mano. Osservare occhi di tanti che sono venuti a conoscere una realtà tanto bella quanto nascosta, che un pomeriggio ha bussato alla loro porta. Que-sto, forse, il senso di una giornata, lo scorso 22 giugno, in cui si è festeggiata la Gior-nata Mondiale del Rifugiato 2010, indetta dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, e organizzata ad Acireale dal consorzio “Il Nodo” in collaborazione con il comune di Acireale, ente titolare del pro-getto SPRAR “Gueso Selam”. Il progetto, che è attivo sul territorio acese dal 2004, è stato presentato, insieme ai progetti di Catania “Sirat” e “Tafatal”, durante la conferenza che ha dato inizio alla manifestazione, alla quale hanno partecipato rappresentanti istitu-zionali come il vescovo di Acireale mons. Pio Vigo, l’assessore acese ai servizi sociali Alessandro Patanè, la dott.ssa Angela Saitta in rappresentanza del comune di Catania.

Il momento aggregativo svoltosi negli spazi all’aperto dell’ex Collegio Santa Venera di via Dafnica, dove è attualmente situato il centro d’accoglienza, ha avuto come tema “Home - Un luogo sicuro per ricominciare” scelto dall’UNCHR, per porre l’accento sul disagio e sulla difficoltà che questi migranti vivono quotidianamente. L’abbandono della propria casa, della propria famiglia, della propria terra, possono rappresentare un trauma che solo dopo molto tempo e non sempre si riesce a superare. Emigrare implica uno spostamento di relazioni, emo-zioni, identità che necessitano di una rico-struzione, di un riadattamento cognitivo che non è così semplice e automatico come a volte si pensa. È in questa direzione che ci si vuole muovere, dando la possibilità a queste persone di ricostruire un bagaglio di conoscenze e competenze tali da renderle autonome, consapevoli e coscienti del pro-prio destino. Un destino che riparte qui e ora, verso nuovi orizzonti o semplicemente verso il sogno di poter un giorno, non trop-po lontano, ritornare nel proprio paese.È con questa convinzione che gli operatori e i responsabili dei progetti SPRAR di Acireale e Catania hanno collaborato per la realizza-zione di questa giornata, organizzando due distinte attività: la creazione di un videoclip e un concorso fotografico. Uomini e donne rifugiati e richiedenti asilo hanno dato la propria voce ed il proprio volto per raccon-tare un po’ di sé, della nostalgia del proprio

paese e delle speranze per la nuova vita in Italia. Le interviste realizzate hanno dato la possibilità a tutti gli intervenuti di cono-scere direttamente i volti, i nomi e le storie di queste persone. Nei giorni precedenti la giornata, sono state invece messe a disposi-zione degli ospiti delle fotocamere, in modo da permettere a tutti di fare degli scatti e partecipare al concorso dal tema “Home”. Tutte le foto hanno poi formato una mostra fotografica, con tanto di votazione e pre-miazione delle tre foto più apprezzate. Altre foto scattate da professionisti volontari sono state esposte in una mostra, seguendo un percorso concettuale tra mondi e culture diverse. L’evento si è concluso con una me-renda fatta con i prodotti del commercio equo e solidale e con il ritmo incalzante e coinvolgente delle note suonate da un gruppo di musicisti senegalesi. “Gueso Selam”, che in lingua eritrea significa “Giorni di pace”, vuole essere un augurio af-finchè le risorse messe a disposizione siano in grado di fornire ai beneficiari tutti quegli elementi necessari e indispensabili per una loro corretta integrazione nel territorio; ma vuole essere anche l’augurio, per tutti noi, che ritmi, sapori e storie di paesi lontani possano impegnare non il tempo di una sola giornata, ma il tempo e l’entusiasmo di quante più giornate possibile.

Tra gli operatori e i piccoli ospiti subito sintonia

Lo spettacolo del gruppo di musicisti senegalesi presenti durante la serata

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news

KIeV

Connecting People alla conferenza oIMsui “Left Behind”di Susanna Rogniniresponsabile progetti internazionali CP

Nell’ambito delle collaborazioni che il Consorzio Connecting People porta avanti ormai da tempo con l’Unità Psicosociale dell’OIM, il 22 luglio scorso ho partecipa-to a Kiev alla conferenza internazionale organizzata all’interno del progetto “Inter-vento di capacity building in favore delle istituzioni locali ucraine per il rafforza-mento delle politiche migratorie e socio-educative rivolte ai bambini, alle donne ed alle comunità locali”. Il progetto, gestito dall’Unità Psicosociale di OIM e finanziato dal M.A.E., ha lavorato sul tema di cosiddetti “left behind”, di tutte le famiglie e specialmente i bambini che si trovano a vivere senza madre perché è all’estero, spesso in Italia, a lavorare, pro-prio per accudire le nostre famiglie nella cura degli anziani e dei bambini.Nella conferenza sono state tirate le fila del progetto che ha attivato una serie di servizi in loco e un osservatorio stabile sul tema, coinvolgendo sia istituzioni che rappresen-tati della società civile in Ucraina e in Italia.Connecting People ha portato la testimo-nianza, richiesta dal Ministero del lavoro ucraino, della cooperazione sociale come strumento di sviluppo locale. Questo primo incontro è un seme per una possibile collaborazione che interessa caldamente il nostro Consorzio: l’impegno nella cooperazione internazionale, in par-ticolare coi paesi di origine dei migranti, è infatti per noi una scommessa per uno sviluppo più equo e una possibilità di cre-scita in ottica di reciprocità, impegno che portiamo avanti parallelamente al nostro lavoro in Italia e che vogliamo far crescere nei prossimi anni.

rOMA

PresentazioneosservatorioCarta di Romadi Serena Naldiniredazione Connecting People

Martedì 20 luglio 2010 presso la sede dell’Associazione Stampa Estera si è svolta la presentazione delle ricerche realizzate nell’ultimo semestre dall’Osservatorio Carta di Roma, la struttura scientifica nata per mo-nitorare l’informazione italiana in materia di immigrazione. Particolare attenzione è stata dedicata al modo in cui i telegiornali delle sette reti generaliste e numerosi quotidiani nazionali hanno seguito i drammatici fatti di Rosarno, in Calabria, all’inizio di quest’anno. Con l’occasione ha preso vita un proficuo confronto - tra giornalisti, studiosi ed espo-nenti dell’associazionismo impegnati nel settore - su un tema di grande rilevanza professionale e civile. È con questo obiettivo che la Federazione della Stampa e l’Ordine dei Giornalisti, in collaborazione con l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), hanno varato due anni fa la Carta di Roma, cioè il “Protocollo deontologico concernente immigrati, rifugiati, richiedenti asilo e vittime della tratta”: non per produrre un testo in più

di buone intenzioni, ma per fornire alle reda-zioni uno strumento da mettere alla prova nel lavoro quotidiano. All’incontro hanno partecipato Roberto Natale (Presidente della FNSI), Laura Boldrini (Portavoce dell’Unhcr-delegazione italiana) e Mario Morcellini (Presidente della Conferenza Nazionale delle Facoltà e dei Corsi di Laurea in Scienze della Comunicazione) molti direttori di quotidiani nazionali come Di Gregorio, Calabresi, Toti, Meneghini e Tarquinio. Ottimo l’intervento di Mario Calabresi, direttore de “La Stampa”, che ha invitato ad uscire dagli schemi ideo-logici e a raccontare la normalità dell’integra-zione già in corso in Italia ed ha presentato la giornalista che da oggi in poi si occuperà, per il suo giornale, solo di immigrazione: Francesca Pali. Dalla ricerca presentata dal professore Morcellini risulta che, prendendo in considerazione l’anno 2008, su un corpus di 1540 notizie solo 85 sono state definite buone (con varie classificazioni) e di queste la netta maggioranza è stata pubblicata da e su Avvenire. Morcellini ha detto chiaramente che “Avvenire sposta in avanti la speranza”. La parola è quindi poi passata a Marco Tarqui-nio, direttore di Avvenire, che ha svolto un ottimo intervento sul senso dell’ informare (formare in, formare dentro) e sul lavoro di inchiesta della sua redazione che ha portato agli ottimi risultati esposti in ricerca. Per approfondire:www.slideshare.net/mbinotto/il-tempo-delle-rivolte-presentazione20luglio-online

Un momento della conferenza di presentazione delle ricerche

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news

rOMA

Povertà: giovani, stranieri e meridionali le prime vittime della crisidi Serena Naldiniredazione Connecting People

Nel passaggio dal livello finanziario a quello dell’economia reale, la crisi ha col-pito duramente il corpo sociale del paese, sia dal punto di vista dell’occupazione sia da quello della riduzione del reddito, creando nuove fasce di disagio e povertà. Dalla relazione che intercorre tra crisi e povertà prende le mosse il nuovo “Rap-porto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale”, che la Commissione di indagine sull’esclusione sociale ha presentato a Roma nella sede del Cnel, ultimo atto di questo organismo, scaduto a fine luglio. La crisi produttiva e la pesan-te contrazione del Prodotto interno lordo hanno creato una caduta occupazionale senza precedenti nella storia del nostro Paese dal dopoguerra ad oggi. Tra il primo trimestre del 2008 e il primo trimestre del 2010 l’occupazione è scesa, infatti, di oltre 600 mila unità, con un calo del 2,4%. An-cora maggiore, inoltre, è stato il calo delle ore lavorate che - a causa del taglio degli straordinari e del massiccio ricorso alla cassa integrazione - ha registrato un crol-lo del 4,9%. Ma è stato proprio l’uso della cassa integrazione, che ha permesso di attenuare, almeno in parte, l’impatto della crisi sui livelli occupazionali e sul reddito delle famiglie. La crisi, però, non ha col-pito tutti allo stesso modo. E i primi ad essere investiti sono stati soprattutto gli stranieri, i lavoratori del Meridione e i gio-vani. La popolazione straniera ha infatti registrato una flessione del tasso di occu-pazione pari al 2,5% il doppio rispetto alla media italiana. Mentre nel Nord - e nelle zone a più forte insediamento industria-le - si è registrato un più forte ricorso alla cassa integrazione con conseguente ridu-zione del monte ore lavorate, le regioni

meridionali hanno visto un maggiore calo dell’occupazione dovuto a una più forte percentuale di licenziamenti e chiusura di imprese. Dal punto di vista anagrafico, invece, la crisi occupazionale sembra aver colpito - per lo meno nella sua fase iniziale e nelle aree in cui vi è stato un più forte utilizzo della cassa integrazione - soprat-tutto le classi di età più giovani: la mag-giore flessione del tasso di occupazione si è registrato infatti tra i 20 e i 34 anni, dove la caduta è stata pari al 6,3%. I lavoratori coinvolti sono soprattutto quelli con condizioni contrattuali meno garantite e con una minore copertura dei tradizio-nali ammortizzatori sociali. Ma l’impatto della crisi sull’occupazione giovanile si è manifestato anche con un blocco all’en-trata: e quindi, in primo luogo, attraverso il brusco rallentamento del turn over e la mancata sostituzione di forza lavoro piuttosto che attraverso licenziamenti e cessazioni premature dei rapporti. Le famiglie piu’ colpite dalla crisi - si legge sempre nel rapporto del Ceis - sono allora quelle composte da giovani coppie, da la-voratori singoli in giovane eta’ e titolari di contratti di lavoro temporaneo o precario e quelle piu’ numerose. Tuttavia - rilevano i curatori del Rapporto - il fatto che gran parte della caduta dell’occupazione abbia riguardato lavoratori giovani, ancora con-viventi con i genitori, ha favorito qualche

redistribuzione del reddito all’interno delle famiglie ed ha fatto si che le famiglie diventassero veri e propri piccoli “welfare state” salvaguardando il paese dalla ban-carotta. Ovvio che questo sistema non può reggere molto. Definire poi il con-cetto di povertà, come ha detto Antonia Carparelli della Commissione Europea, non è così semplice perché ormai l’Europa consta di 27 paesi membri molto diversi tra loro (100 euro in Italia sono diversi da 100 euro in Romania, tanto per fare un esempio comprensibile a tutti). Sempre la Carparelli ha quindi giustificato il periodo un po’ confuso di proposte o terminologia col fatto che siamo in una nuova fase di studio del fenomeno povertà e quindi, prima di avere uno sguardo chiaro sul problema, si deve passare anche un pe-riodo di incertezza.È chiaro comunque che il lavoro non ti cade addosso e che, in attesa di quello che più si avvicina ai propri desideri, oc-corre adattarsi a occupazioni meno con-sone, soprattutto in periodi duri come quello che stiamo vivendo.

Per approfondire:Dati Istat sulla povertà in Italianel2009 indata 21 luglio 2010 www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/povita/20100715_00/testointegrale20100715.pdf

Povertà relativa per ripartizione geografica - anni 2006/2009 (%) - Rapp. Istat 2009 Povertà in italia

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press

Rubrica a cura di Salvo Tomarchio

I testi completi sono consultabii e scaricabili nella sezione stampa del sito www.connecting-people.it

Avvenire 13.08.2010di Laura Badaracchi

Sono i giornali in lingua araba stampati in Italia - con una decina di testate periodiche, per un totale di circa 100 mila copie al mese - a detenere il primato della stampa “etnica” edita in 15 lingue diverse dagli stranieri residenti nel nostro paese e destinata ai loro rispettivi bacini linguistici. [...]

Liberazione 1.09.2010di Maurizio Pagliassotti

[...] Come Ufficio pastorale migranti abbiamo da più di trent’anni corsi di italiano per stranieri e rifugiati politici, e negli ultimi anni la frequenza dei nostri corsi da parte dei rifugiati Ë di circa 250 persone. [...]C’Ë una scarsa capacità di leggere il fenomeno nel suo orizzonte mondiale e locale, di vederne la quantità e il flusso, di riconoscere che ci stiamo confrontando con quantità tutto sommato assolutamente gestibili. I numeri totali con cui si confronta l’Italia sono bassi se paragonati a quelli degli altri Paesi secondo i dati forniti dall’UNHCR [...]

Italia Oggi 1.09.2010di Daniele Cirioli

A decorrere da oggi i cittadini dei paesi esenti dall’obbligo del visto per corto soggiorno possono fare ingresso in Italia, per soggiorni fino a 90 giorni per motivo di studio, senza doversi premunire del corrispondente visto d’ingresso (per studio). Lo rende noto il ministero dell’interno con la circolare n. 5500/2010. [...]

Il Manifesto 20.08.2010di Giuseppe Caliceti

Dal prossimo 9 dicembre per ottenere il permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo, già carta di soggiorno, per gli immigrati in Italia sarà necessario superare un esame di lingua italiana. Il test di lingua si va a sommare a una procedura già abbastanza complessa: l’ottenimento del permesso di lungo periodo [...]

Adn Kronos 7.7.2010

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Recensione a cura di Serena Naldini

Franco GervasioFRATELLI D’ITALIA?Storie di migrazioni

SPETTACOLO TEATRALE

Drammaturgia: Pietro Favari

Regia, Scena, disegno luci, immagini: Franco Gervasio

Musiche: Creativity® Music Ensemble con Dario

Vergassola e gli interpreti del “Teatro del Mondo”

Costumi: Laura Strambi Ferrini

Produzione: Creativity® International Arts Factory

Fratelli d’Italia?, prima di essere uno spettacolo teatrale, è una domanda. E, come ogni domanda, apre la strada alla ricerca. Incentrata su vere storie di migrazione narrate dagli stessi pro-tagonisti, l’opera invita gli spettatori a interrogarsi sulla nostra capacità di accoglienza, di apertura, di convivenza con tradizioni differenti.Lo spettacolo è il culmine di un per-corso attraverso il quale l’autore, Pietro Favari, ha raccolto oltre cinquanta storie di migranti provenienti da tutto il mondo e, in collaborazione con il re-gista Franco Gervasio e con Creativity International Arts Factory, ne ha sele-zionate alcune, anche in base alle ca-pacità espressive e alla disponibilità dei protagonisti ad assumersi l’impegno

costante richiesto dalle prove e dalle tournées. Gli interpreti hanno dunque partecipato a un iter preparatorio che li ha progressivamente coinvolti nel difficile compito di mettere in scena una parte drammatica della propria vita. Ne viene fuori, secondo le parole del regista, “uno spettacolo dalle emozioni forti - amplificate dalla coincidenza tra personaggi e interpreti - un po’ onirico, fiabesco, sulle orme dei raccontatori che in tutto il mondo, dall’Africa all’Eu-ropa dell’Est, dall’America Latina alle terre dell’Oceano Indiano, rallegrano le feste e intrattengono adulti e bam-bini con i racconti degli antichi miti, di lontane imprese, di eroi come fu Ulisse o altri mitici viaggiatori alla ricerca del miracolo”.Le storie narrate presentano un ele-mento comune: un desiderio di futuro contrapposto a una realtà diversa da quella sognata, dove l’accoglienza non sempre corrisponde alle aspetta-tive. “Voi non siete razzisti, - afferma la donna albanese - siete generosi, ma non aperti. Siete xenofobi per paura”.Oltre ai protagonisti stranieri, è

prevista la presenza di un italiano che funge da interlocutore, intervistatore, provocatore e conduttore dello spetta-colo, tenendo così uniti i fili della scena e sdrammatizzando i tratti più tragici dei racconti in prima persona. Quando il migrante del Congo pronun-cia il proprio nome ricco di consonanti, “Questo è il codice fiscale,” scherza Dario Vergassola, che al Festival dei due Mondi di Spoleto ha interpretato l’Italiano. Il congolese riprende allora la parola per dire con orgoglio misto ad allegria: “Chiamatemi come volete. Io so chi sono”.Fratelli d’Italia? mette in scena il pregiudizio, ma anche la sua lenta e inesorabile erosione, compiuta dalle narrazioni, dai volti e dai gesti dei personaggi-interpreti. “Sono venuto in Italia per studiare pittura,” afferma il protagonista filippino. “Per me, l’Italia non era il mulino bianco - precisa - ma la cappella sistina”. Lo spettacolo riscopre la funzione più prettamente sociale del teatro, che mette in crisi la visione comune delle cose per trasformarle e renderle più eque, attraverso una differente distribuzione della ricchezza e della fortuna. Fratelli d’Italia? ci richiama al nostro ruolo in questo cambiamento, perché è a partire dal proprio angolo di mondo che si può fare spazio a voci, vite e storie nuove e perché, per dirla con De Gregori, “la Storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso. La Storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare.”

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