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Storie che cambiano il mondo Racconti e proposte educative sui difensori dei diritti umani Quaderno operativo

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Storie che cambiano il mondo

Racconti e proposte educative sui difensoridei diritti umani

Quaderno operativo

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Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche,appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’Editore è a disposizione degli aventi dirittonon potuti reperire, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti.

È vietata la riproduzione anche parziale o ad uso interno o didattico e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia non autorizzata.

Prima edizione: settembre 2008

© 2008 EGA Editorecorso Trapani 95 - 10141 Torinotel. 011 3859500 - fax 011 389881www.egalibri.it / e-mail: [email protected]

ISBN 978-88-76706-75-2

Stampa: ..............., Torino

I II III IV

2008 2009 2009 2010

Per le foto all’interno del volume:

p. 13 © Alison McColl-Bullock, per gentile concessione di The Long Walkp. 22 © The Goldman Environmental Prizep. 35 © Fondazione St. Camille de Lellisp. 46 © Amnesty Internationalp. 58 © Inge Genefke

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Indice

Unità 1 – Jawagli e Djalu ................................................................................................. 6

Unità 2 - La signora di Bhopal....................................................................................... 18

Unità 3 – Pietra su pietra............................................................................................... 29

Unità 4 – Ritorno a casa................................................................................................ 40

Unità 5 – Il clown dell’anima ......................................................................................... 52

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Al percorso didattico hanno collaborato:

Maria Marrone, insegnante di Lettere nella scuola secondaria di I grado; trainer europeo per l’Educazioneai diritti umani; coordina le attività rivolte al mondo della scuola all’interno della CommissioneEducazione e Formazione ai Diritti Umani della Sezione Italiana di Amnesty International.

Sergio Travi, insegnante di Lettere nella scuola secondaria di I grado; dottore di ricerca in Italianistica pres-so l’Università degli Studi “Federico II” di Napoli; presiede la Commissione Educazione e Formazione aiDiritti Umani della Sezione Italiana di Amnesty International.

Nessa Gibbardo, ingegnere per l’Ambiente e il Territorio; è attivista di Amnesty International dal 2002; faparte del Gruppo Italia 261 (Angri e agro nocerino-sarnese) e del Coordinamento Pena di Morte. Scrivesoprattutto quando viaggia. Per il presente fascicolo è autrice dei racconti: Jawagli e Djalu, La signora diBhopal e, insieme a Athos Bacchiocchi, Pietra su pietra.

Athos Bacchiocchi, studente in ingegneria elettronica. Ama i libri e il cinema, scrive racconti e canzoni. Peril presente fascicolo è autore dei racconti: Ritorno a casa, Il clown dell’anima e, insieme a Nessa Gibbardo,Pietra su pietra.

Ugo Fanti, dipendente pubblico. Attivista di Amnesty International dal 1991. Consigliere nazionale dellaSezione Italiana per una legislatura, ha fatto parte, per diversi anni, della Commissione nazionale Azionied è stato Responsabile Campagne della Circoscrizione Lazio. Attualmente è Responsabile delCoordinamento Nazionale Difensori dei Diritti Umani (HRD).

Si ringraziano inoltre: Marta Genualdo, Flavia Citton, Alberto Emiletti, Massimo Gary Simbula.

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Ciao!

Chissà quante volte avrai sognato di essere un’eroi-

na o un eroe, di emulare le imprese dei personaggi di rac-

conti fantastici, di essere il/la protagonista di uno dei gio-

chi della tua Play Station!

Ma per diventare un’eroina o un eroe non c’è biso-

gno di magie o di muscoli robusti, né di compiere imprese

eccezionali.

«Com’è possibile?», ti chiederai. La risposta la trove-

rai nelle pagine di questo piccolo libro in cui conoscerai le

storie di Rashida, Champa, Michael, Inge, Grégoire, Norma,

Marisela e di tante altre persone comuni, proprio come te,

che sono diventate eroine ed eroi perché hanno scelto di

difendere i diritti umani di persone che non conoscono. E

così facendo, un po’ per volta, stanno cambiando in meglio

il mondo, senza bisogno di superpoteri.

Nella loro lotta hanno però un alleato potente: è la

Dichiarazione universale dei diritti umani, uno strumento

importantissimo per realizzare il loro sogno. Conoscendola

meglio, scoprirai che può esserlo anche per te.

E allora, cosa aspetti a diventare anche tu un’eroina

o un eroe dei diritti umani?

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JAWAGLI E DJALU

Jawagli se ne stava accovacciato nei pressi di un piccolo buco del terreno, da cui usciva-

no file di formiche. Aveva sistemato una grande pietra piatta proprio vicino al buco, con

un frutto zuccherino schiacciato sopra, e appena un buon numero di formiche si tratte-

neva sul sasso, lui lo prendeva dai bordi e lo trasportava in un altro posto, distante una

cinquantina di metri. Ne macchiava alcune con una poltiglia verde che aveva ricavato

pestando un po’ di erba tra due sassi, poi si metteva ad osservare: voleva capire se le for-

miche sarebbero state in grado di ritrovare la strada per il loro formicaio. Faceva questo

esperimento da parecchi giorni ed era giunto alla conclusione che solo poche, pochissi-

me formiche, riuscivano a ritrovare la strada: molte si perdevano, alcune incontravano un

altro formicaio sulla loro strada e venivano uccise dalle formiche della nuova colonia.

Jawagli aveva indosso solo una pelle di canguro attorno alla vita e una collana di perli-

ne di legno al collo. Sul resto del corpo, lungo un braccio e sul petto, alcuni disegni neri

che ricordavano foglie di eucalipto. Seguì con lo sguardo l’ultima formica mezza verde e

mezza nera che si arrampicava lungo un tronco fino a quando la perse, tra le rughe del

legno.

Djalu alzò la mano per rispondere alla domanda del maestro: «L’inizio della civiltà in

Australia risale al 1770, quando James Cook mise piede per primo su questa terra, e con

lui la Corona Britannica». Riportò quasi alla lettera le parole della lezione studiata il

giorno prima. Si impegnava molto a scuola, perché lo affascinava la possibilità di capire

cosa aveva spinto gli uomini a cambiare la natura attorno a loro, a trarre sostentamento

da quello che avevano intorno, a ricordare le esperienze passate per migliorarsi. Il mae-

stro annuì con sufficienza e fece una ramanzina al compagno che non aveva saputo

rispondere. Djalu avrebbe potuto credere che il viso di quell’uomo fosse incapace di

esprimere una qualunque forma di soddisfazione, se non avesse visto come parlava del

figlio del direttore della missione. A quel ragazzino erano sempre riservate lodi a profu-

sione, per la profondità delle riflessioni del suo ultimo tema o per la brillantezza del suo

ultimo pensiero. Il figlio del direttore della missione studiava con un insegnante privato,

non in quella classe. Qualche volta, però, il maestro di Djalu leggeva alcuni suoi temi in

classe – la stragrande maggioranza con titoli come Il progresso del nostro Paese,

Espansionismo e sviluppo, e altri argomenti simili. Djalu non ci aveva mai trovato nien-

te di realmente profondo o ammirevole: al contrario, la parte del tema dedicata alle

riflessioni personali faceva sempre trasparire una strana arroganza tra le righe, come se

i meriti della civilizzazione fossero dell’autore! Djalu associava semplicemente tutto que-

sto alla posizione sociale del ragazzo che, oltre ad avere un proprio insegnante, dei pro-

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pri giochi e una famiglia molto più ricca della media, era costantemente incensato da

tutti i frati della missione.

Appena cominciò a farsi buio, Jawagli ritornò al villaggio. Lungo la strada sentiva cre-

scere dentro di sé l’attesa per una delle storie che anche quella sera avrebbe preso forma

dalle parole del nonno, attorno al fuoco. Le sue preferite raccontavano della Creazione:

gli avevano insegnato che la Terra era una grande mappa su cui ogni azione, ogni per-

corso degli Antenati aveva lasciato una traccia da interpretare. Jawagli aveva sentito par-

lare decine e decine di volte delle “creature sognanti”, capostipiti di tutti gli uomini e di

tutte le donne, che emersero dalle viscere della Terra e vagarono da un luogo all’altro

creando ogni cosa con il loro canto – quello stesso canto che dalla notte dei tempi veni-

va tramandato di generazione in generazione e fatto rivivere nelle danze rituali e nelle

celebrazioni di ogni clan, di ogni tribù, di ogni popolo. In esso erano contenuti i segreti

per vivere in armonia con la natura che quegli esseri ancestrali avevano plasmato per i

loro discendenti. Come ogni sera, Jawagli si sarebbe addormentato con una risposta in

più sul mondo attorno a lui.

Finita la lezione, Djalu uscì dalla missione senza avere bene idea di come avrebbe passa-

to il resto della sua giornata. Iniziò a far rotolare un sasso davanti a lui, calciandolo in

modo che non finisse nelle pozzanghere al lato della strada che percorreva – c’era stata

una pioggia fitta e continua, la notte prima. Tutta la sua attenzione era assorbita da quel-

la attività e non si accorse che, poco più avanti, il direttore della missione si era fermato

a parlare con il maestro. Djalu vide i due uomini solo quando il suo ultimo calcio mandò

il sasso proprio contro la gamba del direttore, che esclamò un «Ahi» e si girò per capire

cosa lo avesse colpito. Quando vide Djalu, gli lanciò uno sguardo di disprezzo e, rivol-

gendosi al maestro, disse: «Non basta strapparli alle famiglie ed educarli nelle missioni:

rimarranno sempre dei selvaggi. Per quanti sforzi si facciano, una pecora non può certo

diventare pastore». Si voltò e andò via. Djalu rimase un paio di minuti a guardare i due

uomini mentre si allontanavano. Poi riprese a camminare. Si era dimenticato del sasso,

ormai. Pensava a quanto gli era appena stato detto, cercando di cogliere le ragioni di quel

discorso. Era chiaro, parlavano di lui: si capiva dal tono e dallo sguardo che aveva prece-

duto quel rimprovero. Gli stessi toni e gli stessi sguardi che Djalu aveva notato tante volte

negli uomini bianchi che gli capitava di incrociare, sebbene non si fosse mai soffermato

più di un attimo a rifletterci su. Gli uomini bianchi si comportavano così: era un fatto

scontato, come i koala che mangiavano eucalipto o il figlio del direttore che si esibiva nella

lettura dei suoi temi. Djalu non ricordava quasi nulla della sua vita prima di arrivare

nella missione: solo qualche immagine confusa di spazi aperti e di altri bambini come lui.

Possibile che fosse stato strappato alla sua famiglia? Gli era stato detto di essere stato

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abbandonato piccolissimo dai suoi genitori e aveva scoperto che anche tutti i suoi com-

pagni erano finiti alla missione per lo stesso motivo. Da allora aveva sempre vissuto tra

dormitorio, mensa e lezioni del maestro. Continuò a rimuginare per un po’ sulla questio-

ne delle pecore e dei pastori: poi si ricordò di qualcuno che certamente avrebbe saputo

rispondere a tutte le domande che in quel momento gli frullavano per la testa.

Il fuoco era già acceso quando Jawagli arrivò al villaggio e un grosso pezzo di carne roso-

lava su un ramo liscio, girato e rigirato a turno da sua madre e da sua sorella. Anche il

nonno era accanto al falò: seduto con le gambe incrociate, approfittava di quella luce per

continuare a dipingere decorazioni sul tronco che teneva fermo davanti a lui, levigato

con grande cura nei giorni precedenti. Jawagli si avvicinò per guardare a che punto era

arrivato. Le linee scure che fino alla sera prima sarebbero potute essere tanto alberi

quanto fulmini o emù, adesso rappresentavano la danza di alcuni uomini in occasione

dell’arrivo delle piogge. Quando la carne fu cotta, Jawagli aspettò che si raffreddasse un

po’, per non scottarsi. Sbocconcellò la sua parte, si pulì le mani e la bocca e andò a seder-

si accanto al nonno, in attesa. Il nonno finì il suo pasto, lentamente, come se non sentis-

se su di sé gli occhi attenti del nipote. Poi, senza che Jawagli dovesse sollecitarlo in alcun

modo, iniziò a parlare: «Anche un singolo sasso può avere una storia da raccontare: per

quanto piccolo e immobile, è parte del corpo e dell’anima di quegli uomini ai quali

appartiene la terra dove esso è posto. Noi siamo legati a quel sasso perché siamo legati

alla terra, che è parte di noi come noi lo siamo di lei. Muoviti sempre con passo leggero

su di lei. Meno le prenderai, meno dovrai restituirle…».

Djalu si fermò davanti al vecchio lenzuolo che faceva da tenda alla baracca del Vecchio.

Chiamò una prima volta, in attesa di risposta. Non avendone ricevuta alcuna, chiamò di

nuovo. Sentì un brontolio, poi uno strusciare di sedia e il suono sordo di un bastone sul

terreno.

La tenda si spostò e venne fuori il Vecchio, un po’ gobbo, avvolto dal suo solito panno rosso

stinto. «Vorrei farti delle domande» disse Djalu. “Il Vecchio” era un aborigeno che tutte le

mattine faceva l’elemosina all’angolo della stradina che portava alla missione. Non ci

vedeva bene, quindi si muoveva con lentezza e circospezione, per avere il tempo di rico-

noscere le cose attorno a lui usando anche le mani o un bastone di legno. Si dicevano tante

cose sul suo conto: che aveva più anni della missione stessa, che sapeva prevedere quan-

do sarebbe venuto a piovere e quando sarebbe cambiato il vento, che viveva in quella

baracca nonostante un ricco agricoltore gli avesse offerto grandi ricompense in cambio

delle sue previsioni; nessuno sapeva dire quale ragione lo incatenasse lì, ma sembrava non

desiderasse altro che passare il resto dei suoi giorni in quel fazzoletto di terra. Si sapeva

anche che usava il suo bastone per suonarle di santa ragione ai bambini che lo infastidi-

vano durante il giorno – di episodi come questo Djalu era anche stato testimone.

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La tenda si richiuse, ma dopo qualche istante il Vecchio ne uscì trascinando uno sgabel-

lo che sistemò accanto a quello che restava dello steccato che un tempo delimitava l’or-

to di quella casupola. Si sedette, sistemò l’abito rosso che gli circondava i fianchi e risa-

liva attorno alla spalla, appoggiò le mani sulle ginocchia e disse al ragazzo: «Ti ascolto».

Djalu si accorse di non sapere bene da che parte cominciare il discorso. Decise di rac-

contare dell’incontro con il direttore della missione, per poi aspettare che fosse il Vecchio

a fargli intravedere il senso di quelle parole.

Jawagli danzava con altri uomini del villaggio attorno a un tronco istoriato con le leg-

gende della Tyukurpa, l’antica età del sogno, l’era della creazione della terra e della vita.

Ad un certo punto il compagno alla sua destra iniziò a strattonarlo sempre più insisten-

temente, in un modo del tutto incoerente con il ritmo della musica scandito dai tambu-

ri. Cominciò anche a chiamarlo, e aveva una voce di donna.

Jawagli si svegliò. Sua madre era lì accanto e lo scuoteva dalla spalla. Jawagli sentì la sua

preoccupazione molto prima di capire cosa stesse realmente dicendo. «Scappa nel bosco,

scappa. Nasconditi, torna solo quando se ne saranno andati!». Quasi senza rendersene

conto, Jawagli si trovò sul retro della capanna e sgattaiolò tra i cespugli senza capire bene

cosa stesse succedendo.

Sentiva delle urla, che si fecero sempre più lontane, fino a sembrare il lamento stanco di

qualche animale affamato. Jawagli salì su un albero, confuso ancor più che spaventato,

per cercare di vedere meglio, dall’alto. Attorno alle capanne c’era movimento, ma le figu-

re si distinguevano a fatica le une dalle altre. Le torce di corteccia d’albero si spostavano

forsennatamente, illuminando per pochi attimi ora un uomo che teneva sulle spalle un

bambino in lacrime, ora un altro che teneva ferma una madre che allungava le braccia,

tentando di riprendersi suo figlio. Jawagli si sentì lontano e impotente; cominciò a pian-

gere silenziosamente, come se temesse di essere sentito nonostante la distanza.

Lentamente il trambusto cessò e Jawagli rimase a piangere nel buio.

Quando il Vecchio finì di parlare, lo stomaco di Djalu era tutto sottosopra. Aveva avuto

spesso la sensazione che non tutto quello che gli dicevano alla missione fosse vero e aveva

intuito che il maestro si impegnava a tenere nascosto qualcosa di terribile. Ciononostan-

te, la verità del Vecchio lo lasciò senza fiato. Djalu guardò il volto bruciacchiato dal sole,

preso nelle giornate passate a mendicare del cibo. Quel volto aveva visto e vissuto gli

avvenimenti di molti anni addietro. Quegli occhi avevano assistito al rapimento di massa

di quasi tutti i bambini aborigeni, strappati alle loro famiglie per essere educati “alla

maniera occidentale” nelle missioni, nelle scuole statali, nelle famiglie di bianchi. Il

Vecchio gli aveva raccontato che tutti i suoi compagni della missione, come lui stesso da

piccolo, erano stati portati via ai loro cari perché la cultura dei loro simili – i loro canti,

le loro storie, la loro arte – fosse cancellata da quella terra e non ostacolasse il percorso

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“naturale” della civiltà. All’inizio, quando le prime parole si erano rincorse nell’aria per

dare vita a un ragazzino che giocava con le formiche nel bosco, Djalu pensava che si trat-

tasse di una storia inventata, una di quelle che le persone anziane ripetono di tanto in

tanto ai loro nipoti per aprire la strada a qualche insegnamento nascosto tra le pieghe

del racconto. La risposta arguta di un personaggio, un evento inaspettato o l’azione del

protagonista lasciavano di volta in volta il loro solco nelle menti di chi ascoltava, simili a

terreni ancora mai arati. Poi, a poco a poco, in quegli occhi che distinguevano solo le

ombre, Djalu aveva intravisto una commozione nuova, come se fossero due finestre da

cui era possibile affacciarsi nel cuore di quell’uomo e intravederne i sentimenti. L’idea

che il ragazzo delle formiche fosse il Vecchio da bambino si insinuò all’improvviso nella

testa di Djalu, per poi divenire quasi una certezza. «Sei tu Jawagli, non è vero?» chiese il

ragazzino a racconto finito. Il Vecchio sorrise e passò una mano nei capelli scuri del

ragazzo. «Sì, Jawagli sono io, ma sei anche tu e la terra su cui viviamo».

Passarono gli anni, e ogni tanto Djalu ripensava a quella volta che aveva parlato con

Jawagli. Adesso era un uomo e da qualche tempo lavorava per una grande

Organizzazione internazionale che raccoglieva i Popoli non Rappresentati, ovvero tutti i

popoli indigeni, le nazioni occupate, le minoranze e gli Stati o territori indipendenti a cui

mancava una rappresentazione diplomatica internazionale. Djalu si era impegnato per

difendere i diritti degli aborigeni australiani. Dopo la scuola alla missione, si era trovato

un lavoro e aveva raccolto i soldi necessari per raggiungere Canberra, dove aveva letto si

raccoglievano “australiani” di diversa provenienza e di diverso colore della pelle, che

pensavano a un mondo in cui «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e

diritti» – come alcuni Paesi avevano messo nero su bianco con una certa Dichiarazione,

qualche anno prima. A chi gli chiedeva come era riuscito a fuggire dalle maglie di quel-

la rete che aveva costretto oltre 100.000 bambini aborigeni a rinnegare la cultura dei

loro antenati negli anni della sua infanzia, Djalu raccontava di un giorno in cui iniziò a

giocare con un sasso lungo la strada…

Analisi del testo

CHI, DOVE, QUANDO

– Chi è il protagonista della vicenda? In quale Paese vive?

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– Dove si trova la scuola che frequenta?

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– Quali altri personaggi compaiono?

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LA VICENDA

– Al figlio del direttore della missione sono riservate “lodi a profusione”. Perché?

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– Quale evento spinge il protagonista a ricercare le sue origini?

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– Quale personaggio lo aiuta nella sua ricerca?

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L’ARGOMENTO

– Che cosa scopre il protagonista alla fine della sua ricerca?

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– Da adulto che attività svolge? Quali sono i suoi obiettivi?

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I POPOLI INDIGENI

I popoli indigeni sono i discendenti di quei popoli che abitavano in origine una terra, primache questa venisse conquistata da colonizzatori provenienti da altre parti del mondo. Essi sono chiamati anche aborigeni – dal latino ab origine, perché originari del luogo in cuivivono – o anche nativi, perché i loro antenati sono nati in tempi lontanissimi nelle terredove oggi questi popoli vivono. Sono più di 60 i popoli indigeni in tutti i continenti delmondo e rappresentano circa 200 milioni di persone. Ad essi è anche attribuito il concettodi minoranza, perché costituiscono una minoranza della popolazione di uno Stato per reli-gione, etnia, cultura, lingua e usanze.

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Australia: la “generazione rubata”

Tra il 1910 e il 1970 in Australia oltre 100.000 bambini aborigeni vennero strappati conla forza alle proprie famiglie dalla polizia o da assistenti sociali e fatti crescere sotto la custo-dia dello Stato, delle missioni cattoliche o affidati a genitori adottivi non indigeni con lamotivazione di una più adeguata “protezione morale”. In altre parole, per essere educaticome gli anglosassoni e inseriti negli stili di vita della civiltà occidentale. Molti di loro nonavevano neanche cinque anni. Parlare le proprie lingue e praticare le proprie cerimonievenne proibito. Furono portati lontano dalla propria terra, alcuni di loro addirittura oltre-mare. Ai genitori non venne detto dove fossero i loro bambini e non poterono mai più rive-derli. Il cibo e le condizioni di vita erano miseri, subirono maltrattamenti e violenze fisiche,non ricevettero un’istruzione adeguata e per loro fu costruito un futuro di lavori di bassamanovalanza, come domestici o contadini nelle fattorie degli australiani non indigeni. Idanni fisici e psicologici subiti dai bambini strappati alle famiglie furono profondi e dura-turi. Molti crebbero in un ambiente ostile, senza legami familiari o identità culturale e, daadulti, molti soffrirono di insicurezza, mancanza di autostima, sensazione di inutilità. Tradi loro si diffusero depressione, suicidio, violenza, delinquenza, abuso di alcol e droghe emancanza di fiducia nelle altre persone e nelle istituzioni. Molti altri, non avendo avutogenitori che li amassero, hanno avuto difficoltà ad allevare i propri figli. La negazione dellacultura e della religione, lo sfruttamento e il lavoro obbligatorio, i maltrattamenti fisici e lostupro da parte degli australiani non indigeni – praticato su quasi il 90 per cento delleragazze aborigene uscite dalle missioni – ha causato la perdita, spesso irreparabile, delpatrimonio culturale della comunità nativa.Quei bambini deportati vengono definiti the stolen generation, la “generazione rubata”.Una Commissione d’indagine, istituita dal Governo australiano nel 1995, in un Rapportopubblicato nel 1997, documentò come la sottrazione forzata dei bambini indigeni fosse unagrave violazione dei diritti umani. Per la prima volta si affermava che la sottrazione forza-ta dei bambini era stata una discriminazione razziale – perché applicata solamente ai bam-bini aborigeni – e un atto di genocidio* per il trasferimento forzato di un gruppo di perso-ne ad opera di un altro gruppo con l’intenzione di distruggerlo. Il Rapporto contenevaanche 54 raccomandazioni, tra cui l’istituzione di registri dei bambini rubati; la necessitàdi rintracciare le loro famiglie; aiuti per la riunificazione familiare; la necessità di risarci-menti, incluso il riconoscimento del dolore causato; le scuse ufficiali del Governo e delleIstituzioni coinvolte. Dopo il Rapporto, il Governo australiano stanziò dei fondi ma rifiutòle scuse e il risarcimento dei danni subiti. L’allora ministro per gli Affari Aborigeni, JohnHerron, addirittura negò l’esistenza della stolen generation! In ogni caso, il Rapporto resepossibile conoscere la verità sulla politica profondamente razzista con cui, fino agli anniSettanta, il governo australiano ha tentato di negare l’identità aborigena.

* Genocidio: distruzione di un intero gruppo etnico o religioso determinato volontariamente da un altrogruppo.

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A. Gli aborigeni australiani hanno una cultura complessa, ricca di miti e tradizioni. Prova a saper-ne di più effettuando una ricerca su:

• “Uluru”/Ayers rock • Il serpente arcobaleno • Il didgeridoo

B. Sul sito web www.aboriginalartonline.com si possono trovare numerosi esempi dell’arte degliindigeni australiani. Con la guida dell’insegnante di Arte e Immagine produci disegni o manufat-ti nel loro stile. Fate una mostra con quanto avete prodotto.

Da eroe dello sport a eroe dei diritti

La storia di Djalu, il protagonista del racconto che introducequesta unità, è ispirata alla vita e alle azioni di un grande atle-ta, Michael Long, uno tra i più famosi giocatori di footballaustraliano. È stato soprannominato la “leggenda” di Essendon,la squadra più popolare della Australian Football League (AFL),in cui ha giocato dal 1989 al 2001. Per la sua straordinariabravura vinse nel 1993 la Medaglia Norm Smith, uno deipremi più ambiti dagli atleti australiani. Michael è un aborige-no, i suoi genitori furono strappati alle famiglie quando aveva-no due anni e portati in una missione. Nel 1995, in seguito a

un incidente sul campo con un altro giocatore, prese posizione contro gli atti di razzismoche subiva da anni affermando che «nello sport il razzismo non trova spazio». Questa suaaffermazione cominciò a risvegliare molte coscienze e dopo non molto tempo l’AFL si diedeun codice di comportamento contro gli atti di razzismo nel football. Era solo l’inizio dellasua battaglia per i diritti umani.Un giorno, dopo il ritorno a casa dall’ennesimo funerale di un aborigeno, Michael deciseche andava fatto qualcosa per la difficile situazione del suo popolo. Pensò che la questione dovesse essere affrontata in Parlamento e decise di discutere delle sue preoccupazioni conil primo ministro, John Howard. Il 21 novembre 2004 Michael Long partì, da solo, dalla suacasa nei sobborghi di Melbourne per arrivare fino al Palazzo del Parlamento a Canberra, lacapitale, a più di 650 chilometri di distanza. Portava con sé una lettera per il primo mini-stro. Successe l’incredibile! Il volto di Michael era noto a milioni di australiani e lungo ilcammino si unirono a lui indigeni e non indigeni provenienti da tutta l’Australia: alcunicamminarono con lui per poche ore, altri per un giorno, altri ancora fino a Canberra.Inoltre, migliaia di persone da tutta l’Australia mandarono e-mail per sostenere e diffonde-re l’impresa di Michael. L’enorme partecipazione fece comprendere a Long che tutti gliaustraliani erano alla ricerca di un modo per esprimere il loro sostegno agli aborigeni e allaloro cultura così violentemente calpestata e il loro impegno concreto per la riconciliazionee un’Australia unita. «Non per gli aborigeni o gli australiani bianchi ma per tutti gli austra-liani» diventò quindi la sua missione. La “Marcia di Long” terminò ufficialmente il 3 dicem-bre 2005 quando Michael finalmente poté incontrare il primo ministro.In seguito a questo avvenimento è nata l’associazione The Long Walk che lotta per il benes-sere degli indigeni australiani. «Crediamo che tutti gli australiani abbiano diritto a una casa,a un lavoro, all’istruzione. Tutto il lavoro che facciamo è concentrato sul raggiungimentodella parità di diritti tra indigeni e non indigeni australiani».

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A. Ispirandoti alla vita di Michael Long, in gruppo, realizza un fumetto che si sviluppi in almeno 6vignette.Al termine, potrete esporre i vostri fumetti in classe.

B. Con l’aiuto dell’insegnante di Inglese, la tua classe potrebbe scrivere una lettera a Michael Longper esprimere la vostra solidarietà e il vostro sostegno alla sua battaglia per affermare i dirit-ti degli indigeni australiani. Potreste poi inviare la lettera via e-mail, collegandovi con il sitowww.thelongwalk.com.au

C. Molto spesso di Internet si mettono in evidenza soltanto gli aspetti negativi. Nel caso diMichael Long, come in tanti altri casi, Internet è invece uno strumento molto importante permettersi in azione e difendere i diritti umani. Hai mai pensato a questa possibilità che ci vienedal web? Quali altri aspetti positivi pensi abbia Internet? Discutine con i tuoi compagni.

D. Michael Long è stato un grande campione del football australiano. Hai mai sentito parlare diquesto sport? Con la guida dell’insegnante di Educazione fisica tu e la tua classe potreste effet-tuare una ricerca sul web per trovarne immagini, filmati e regole. Potreste anche fare un con-fronto con sport simili, come il football americano, il rugby e il calcio.

Ingiustizia, responsabilità, riconciliazione

Il 13 febbraio 2008, Michael Long e molte centinaia di altre persone indigene sono stateinvitate a Canberra per ascoltare il primo ministro, Kevin Rudd. In quell’occasione, dopo anni di incomprensioni e rancori, il governo australiano ha chie-sto ufficialmente scusa agli aborigeni. Rudd si è contrapposto pertanto al suo predecessoreJohn Howard, che in undici anni di governo aveva sempre rifiutato di scusarsi perché, a suodire, le colpe dei governi precedenti non dovevano ricadere sull’Australia di oggi.Il neoeletto primo ministro ha aperto invece la seduta del nuovo Parlamento con questogesto di riconciliazione con la popolazione nativa, un intervento seguito con trepidazionesui maxischermi in tante città australiane. «Chiediamo scusa per le leggi e le politiche disuccessivi Parlamenti e governi, che hanno inflitto profondo dolore, sofferenze e perdite aquesti nostri fratelli australiani – ha detto. – Alle madri e ai padri, fratelli e sorelle, per ladisintegrazione di famiglie e di comunità, chiediamo scusa». Il primo ministro ha quindi invitato tutti a unirsi al governo per affrontare i problemi cheaffliggono gli aborigeni in materia di alloggi, salute e istruzione. «Oggi onoriamo i popoliindigeni di questa terra, le più antiche culture ininterrotte nella storia umana. Riflettiamosui passati maltrattamenti. Riflettiamo in particolare sui maltrattamenti di coloro che eranole generazioni rubate, questo capitolo vergognoso nella storia della nostra nazione. È venu-to il tempo che la nazione volti pagina nella storia d’Australia, correggendo i torti del pas-sato e avanzando così con fiducia nel futuro».

A. Sarà capitato anche a te di assistere a un episodio di ingiustizia. Assieme ad alcuni tuoi com-pagni racconta tale episodio con una semplice drammatizzazione. Interpreta a turno il ruolodella vittima e quella del responsabile della stessa. Rispondi poi alle seguenti domande:

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• Cosa hai provato a interpretare il ruolo della vittima?• Cosa hai provato a interpretare il ruolo del responsabile dell’ingiustizia?• Cosa hai provato ad essere testimone di quell’ingiustizia? • Sei intervenuto per fermarla? Perché sì? Perché no?• Oggi ti comporteresti in modo diverso?

B. Ti è mai successo di chiedere o ricevere scuse dopo un brutto litigio con una persona checonosci? Hai cercato di comprendere le sue ragioni e di spiegare le tue? Pensi che chiederescusa sia un atto di debolezza? Discutine con i tuoi compagni.

Gli zingari: la minoranza più discriminata in Europa

Gli zingari giunsero in Europa nel XV secolo provenienti dal nord dell’India attraverso ilmondo bizantino ed arabo. Inizialmente suscitarono curiosità, ma ben presto l’interesse simutò in diffidenza: il colore scuro della pelle, l’abbigliamento bizzarro, la lingua incom-prensibile, i modi di vita, l’abitudine all’accattonaggio, il timore che potessero gettare ilmalocchio li resero estranei e pericolosi agli occhi delle popolazioni sedentarie.Per tutte queste ragioni gli zingari subirono una feroce repressione anche durante il nazi-smo: si stima che circa 500.000 persone furono trucidate nei campi di concentramento. Iltermine utilizzato per descrivere questo tragico avvenimento è “porajmos” (devastazione).Oggi gli zingari sono sicuramente la minoranza più discriminata in Europa: le loro condi-zioni di vita e le violenze che subiscono sono da qualche anno una vera emergenza chel’Unione Europea e il Consiglio d’Europa affrontano cercando soluzioni che coinvolganotutti i Paesi europei. Secondo i dati pubblicati dal Consiglio d’Europa, vivono in Europa circa 9 milioni di zinga-ri, di cui 2 milioni in Europa occidentale e 7 milioni in Europa orientale. Il 45-50% è costi-tuito da persone al di sotto dei 16 anni (4-4,5 milioni), il 70% ha meno di 30 anni (6,3milioni), mentre gli ultrasessantenni corrispondono al 2-3% (0,18 milioni). Il tasso di nata-lità è superiore a quello europeo ma anche la mortalità infantile è più alta di quella euro-pea. La vita media non supera i 50 anni. Gli zingari presenti in Europa appartengono a cinque gruppi etnici: Rom (presenti nel sude nell’est dell’Europa); Sinti (presenti nel nord dell’Europa e in Italia); Manouches (presen-ti in Francia); Kalè (presenti in Spagna); Romnichals (presenti in Inghilterra). I cinquegruppi principali si dividono poi ulteriormente in sottogruppi. Secondo la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) in Italia vivono150.000 zingari, di cui il 60% di nazionalità italiana mentre il restante 40% proviene daiBalcani, da cui sono fuggiti dopo le sanguinose guerre che hanno colpito la regione. In Italiasono presenti soprattutto Rom, Sinti e un piccolo numero di Kalè. Le condizioni di vita degli zingari sono drammatiche in tutto il continente e sono peggiora-te nel corso degli ultimi anni. Questa minoranza vive in condizioni di estrema povertà, spes-so vicino a discariche, in accampamenti di fortuna o cerca un riparo in palazzi abbando-nati o case senza acqua corrente né elettricità. Diffusa la malnutrizione, così come l’anal-fabetismo (peraltro spesso i bambini zingari sono costretti a frequentare classi separate).

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L’ECRI mette in evidenza come in genere la stampa e la televisione, in Italia come in altriPaesi, attribuiscono agli zingari caratteristiche umilianti e degradanti, che diffondono moltipregiudizi nella popolazione. Tali pregiudizi sono spesso incoraggiati piuttosto che contra-stati da alcuni politici, per cui alla fine l’emarginazione sociale e la discriminazione deglizingari diventano permanenti.

A. Cerca e raccogli articoli di stampa che trattano di zingari e individua le affermazioni che secon-do te possono causare antipatia e pregiudizio verso questo popolo. Prova, poi, a riscrivere unodegli articoli raccolti, utilizzando un linguaggio che rispetti le persone di cui si tratta nel testo.

B. Nella tua città operano associazioni per i diritti degli zingari? Con l’aiuto dell’insegnante, invi-tate un suo rappresentante e discutete in classe dei pregiudizi di cui sono vittime gli zingari.

C. Santino Spinelli (in arte Alexian) è un rom abruzzese, autore di poesie e canzoni in romanés abruz-zese, uno dei dialetti zingari italiani più antichi.Te ne presentiamo una, in traduzione italiana:

MALEDIZIONE ZINGARA

Gelide mani nere rivolte al cielo,la palude ricopre la testaschiacciata,un grido soffocato si eleva,nessuno ascolta.Un popolo inermeal massacro condotto,nessuno ha vistonessuno ha parlato.Cadaveri risortidalla palude,orribili visi mostrati al sole,il dito puntatoverso chiha taciuto.

Dopo aver letto questa poesia, rispondi alle seguenti domande:• A quale evento della storia degli zingari fa riferimento l’autore?• Secondo te, perché l’autore ha intitolato questa poesia Maledizione zingara?

Il diritto a non essere discriminati

Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclamò la Dichiarazione universa-le dei diritti umani. Per la prima volta si affermava che a ogni essere umano spettano tutti i diritti etutte le libertà «senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di reli-gione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascitao di altra condizione» (art. 2).Ma la Dichiarazione si preoccupa anche di proteggere ogni essere umano da qualunque forma didiscriminazione e pone a ogni singolo Stato l’obbligo di garantire l’uguaglianza di ogni persona per

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mezzo delle leggi, il che significa che uno Stato non può adottare nessuna politica o legge che nontenga conto dei diritti di tutti coloro che vivono sul suo territorio, garantendo quindi a tutti lostesso trattamento.

ARTICOLO 7

Tutti sono eguali davanti alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a una egualetutela da parte della legge. Tutti hanno diritto a una eguale tutela contro ogni discriminazioneche violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

A. Scrivi di getto altre parole che ti vengono in mente in associazione alla parola “discriminazione”.

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B. In gruppo, scrivete e mettete in scena una breve rappresentazione teatrale su un caso di di-scriminazione che avrete scelto insieme. Potrete portare da casa piccoli oggetti, qualche indu-mento per rendere la vostra rappresentazione più realistica e scattare foto o realizzare videoper documentare i vostri lavori.

In Italia l’art. 3 della Costituzione, approvata il 22 dicembre 1947 dall’Assemblea Costituente edentrata in vigore il 1° gennaio del 1948, tutela gli esseri umani dalla discriminazione affermando lapari dignità di tutte le persone.

ARTICOLO 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione dirazza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compitodella Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale che, limitando di fatto lalibertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’ef-fettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale delnostro Paese.

C. Porta esempi di discriminazione che secondo te sono diffusi nel nostro Paese e che violano ladignità delle persone.

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D. Dopo esserti documentato su casi di discriminazione nella comunità in cui vivi, prepara unabreve lista di domande per intervistare un rappresentante delle istituzioni e/o di un’associa-zione che lotta per la pari dignità delle persone che vivono in Italia. Con l’aiuto dell’insegnan-te, potreste invitare un magistrato, un assessore, il sindaco, volontari di organizzazioni per idiritti umani.

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LA SIGNORA DI BHOPAL

Rashida se ne stava seduta su un muretto, giocherellando distrattamente con un lembodel suo sari, in attesa della sua amica Champa. Era mattina presto. I raggi del sole, attra-versando una siepe appassita, disegnavano strane figure sul ciglio della strada. I suoi occhi si soffermarono sulla siepe: quei rami secchi sembravano gridare ai passan-ti che nessun filo d’erba, nessun cane, nessun bambino era uscito indenne dalla nube digas che solo qualche tempo prima si era posata, silenziosa e mortale, sulla borgata ope-raia di Jaiprakash Nagar, a Bhopal. Jaiprakash Nagar era uno dei tanti quartieri poverisorti nei pressi della fabbrica di pesticidi della Union Carbide, e si trovava proprio difronte ai cancelli dello stabilimento. Rashida non aveva bisogno di chiudere gli occhi, perrivivere quei momenti.

Era la notte del 2 dicembre 1984: 40 tonnellate di gas tossici uscirono dalle cisterne dellaUnion Carbide, colosso statunitense della chimica che aveva ottenuto dal governo il per-messo di avviare le sue attività anche in India. Spinta dal vento, la nuvola di gas investìin pieno Jaiprakash Nagar e gli altri poverissimi quartieri che costeggiavano la fabbrica.I primi a tossire furono i bambini, ancora avvolti dal sonno. Rashida era a letto, nella suapiccola e povera casa col tetto in lamiera, dove viveva insieme al marito e ai figli. Si sve-gliò quando sentì il marito lamentarsi nel sonno e, convinta che stesse facendo un incu-bo, andò a svegliarlo. Mise i piedi a terra, ma sentì subito la testa girarle e uno stranoformicolio allagarsi nel petto. Intanto anche il marito iniziò a tossire e Rashida si accor-se allora che anche dalla stanza dei figli si udivano colpi di tosse. Nel frattempo, da ogniabitazione del quartiere si levavano lamenti e rantoli, di minuto in minuto più forti. Gliocchi e le gole iniziarono a bruciare, chiudendosi in una morsa ruvida. A ogni respiro,l’aria sembrava portare con sé tanti minuscoli chiodi che graffiavano i polmoni. Rashida ricordava le urla del marito e il pianto spaventato dei suoi piccoli attaccati allagonna. Ricordava, nonostante il panico e la confusione, ogni secondo di quelle poche oreche avevano cambiato per sempre la sua vita. Quella notte morirono soffocate migliaia di persone, senza aver avuto il tempo di capirecosa stesse succedendo né come si potesse fermare quella tortura invisibile. I pochisopravvissuti rimasero ciechi, con danni irreversibili ai polmoni. Molti di loro morirononelle settimane successive.

L’espressione del viso di Rashida si fece cupa. Posato il lembo del sari, iniziò a rigirarsitra le mani due sassolini che aveva trovato sul muretto, continuando a guardare la siepe.

Prima dell’incidente la fabbrica aveva già da tempo chiuso i battenti. Le vendite nonandavano come previsto e i dirigenti capirono presto che ci sarebbero stati ben pochimargini di guadagno anche in futuro: la produzione fu sospesa nel giro di un paio d’an-ni. Abbandonata a se stessa, la fabbrica divenne una specie di gigante addormentato,

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silenzioso, ignorato da tutti. Le erbacce ricoprirono il viale d’ingresso, la ruggine avvol-se le sbarre dei cancelli e l’inferriata che proteggeva il perimetro della struttura. Neanchei topi persero tempo: scelsero gli angoli più protetti per le loro tane, nuovi inquilinidell’edificio. Se alcuni di loro avessero avuto il dono della parola, avrebbero però rac-contato di una parte di quella fabbrica che non potevano abitare, perché contenevagrandissime vasche ancora piene di liquidi tossici, in origine usati per la sintesi dei pesti-cidi. Chiusa la fabbrica, nessuno li aveva portati via. La Union Carbide, proprietaria dello stabilimento, aveva deciso che bonificare la strut-tura dopo aver chiuso le vendite sarebbe stata una spesa inutile, e che quindi lasciare lecose come stavano costituiva la soluzione più vantaggiosa. I chimici che lavoravano lìconoscevano bene i rischi che si correvano nel lasciare incustodite quelle vasche ricolmedi veleni. Ciononostante, nessuno si prese la briga di parlare, di denunciare i pericoli diesplosione o di contaminazione dell’ambiente: al contrario, si fece di tutto per nascon-derli. Dopo l’incidente, la Union Carbide liquidò la questione senza fare una piega: versòpochi spiccioli allo Stato indiano e considerò risarcito il danno che la sua negligenzaaveva provocato. Il marito di Rashida aveva perso la vista, e con essa il lavoro di sarto. Tutt’a un tratto nonc’erano più soldi per comprare da mangiare e Rashida aveva iniziato a lavorare in unprogramma di riabilitazione del governo: insieme ad altre donne rilegava la carta perfare quaderni, che il governo poi rivendeva, dando alle operaie un piccolo stipendio.Quando il governo decise che aveva fatto abbastanza per la “riabilitazione”, sospese ilprogramma. Nel giro di qualche giorno iniziarono le prime forme di protesta. La donna aveva impiegato un bel po’ a rendersi conto delle effettive possibilità di far vale-re i propri diritti: dopo il disastro, il governo non aveva manifestato nessuna intenzionedi scovare i responsabili, di processare i dirigenti della fabbrica di pesticidi, di risarcirein qualche modo tutte quelle famiglie che avevano perso, oltre agli affetti, braccia perlavorare – in un Paese in cui le donne si dedicavano solo alla casa e ai figli e il sostenta-mento pesava solo sulle spalle degli uomini di una famiglia. A nessun funzionario sem-brava stessero a cuore le cure per i superstiti o le cause di quella tragedia. Parlando conle colleghe di lavoro, Rashida si rese conto che, anche se la tragedia aveva colpito tutti eda ogni discorso traspariva un’ombra piena di disperazione, molte madri pensavano giàa come andare avanti: a come salvare i propri figli. Le donne intorno a lei ogni giorno nonsi limitavano a lamentarsi o a piangere: era come se una mano trasparente impedisse lorodi voltarsi indietro, tenendo la loro testa rivolta all’immediato futuro. Quando qualcuna propose di mettersi in marcia per raggiungere il primo ministro aNew Delhi e chiedergli un posto di lavoro fisso, non fu quindi difficile raccogliere con-sensi. Quasi tutte loro erano analfabete, poverissime, e non erano mai entrate nemmenoin un ufficio: figurarsi nel palazzo del governo! Percorsero più di 700 chilometri a piedi,con i bambini in braccio, per raggiungere New Delhi. Alla fine, però, ottennero ciò chevolevano: un vero salario.

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A partire da quel momento, molte cose che un tempo sembravano impossibili brillaronodi luce nuova: tutte le donne che lavoravano nel programma di riabilitazione avevano tra-scorso la propria vita in casa, date in moglie in giovane età a un uomo scelto dalla fami-glia, che ora le manteneva. Le giornate erano scandite dai ritmi degli altri: il marito chetornava da lavoro, il figlio piccolo che si svegliava per mangiare, l’inizio del mercato.Un giorno, mentre faceva il bucato, Rashida notò qualcosa di strano in uno dei lenzuoliche aveva steso ad asciugare il giorno prima. Il lenzuolo, che la sera precedente era anco-ra del suo solito colore bianco, ora aveva una tinta giallognola. La donna si chiese se nonsi trattasse di un effetto della luce, di un riflesso. Continuò a tenerlo d’occhio, mentrefiniva di strofinare col sapone l’abito che stava lavando nella tinozza. Poi si avvicinò perosservare meglio: il lenzuolo era proprio giallo. «É come se avesse assorbito un po’ delcolore dai raggi del sole» le venne da pensare. Ben presto, però, un’altra ipotesi si fecestrada nella sua mente, e contemporaneamente un brivido salì freddo dal petto ferman-dole il respiro per un attimo. Era l’aria. Il lenzuolo aveva assorbito le sostanze nocive cheancora erano disperse nell’ambiente, dopo l’incidente. Rashida non riusciva a distoglie-re lo sguardo dal tessuto: si rese conto che la paura e l’impotenza che sentiva dentro disé le impedivano di ragionare con lucidità, ma non riusciva a mantenere la calma al pen-siero che quello che il lenzuolo aveva trattenuto dopo un solo giorno che era rimastosteso, tutti loro lo stavano respirando da quella terribile notte. La prima reazione fu naturalmente di parlarne alle altre. Dopo l’inevitabile agitazioneiniziale, discutere tutte assieme del problema le aiutò a trasformare l’allarme in qualco-sa di costruttivo. Organizzarono un’altra manifestazione a New Delhi, a cui partecipa-rono tantissime persone, per chiedere cure sanitarie a lungo termine per i sopravvissutiche continuavano a soffrire di tubercolosi, febbri, difetti riproduttivi e infine di tumori.Chiesero anche sostegno economico e sociale per i sopravvissuti che non erano più ingrado di lavorare e la bonifica completa del sito dello stabilimento: la carcassa ormaiarrugginita della vecchia Union Carbide. Ognuna di loro aveva disegnato un paio di pol-moni gialli sul proprio poncho.

Rashida si guardò le punte dei piedi. Pensava a quanta strada avevano fatto da allora,quei piedi, e a come erano cambiati i confini del suo mondo, prima semplicemente chiu-so nelle quattro mura di casa sua. Le tornò in mente la prima causa che avevano vinto intribunale, le firme che avevano raccolto con le altre donne, lo sciopero della fame che,insieme agli ultimi sit-in, le aveva fatte finire sui giornali occidentali. Ormai il loro sin-dacato – Unione delle lavoratrici di cartoleria vittime del gas – era conosciuto da tutti.Insieme a qualche altra associazione continuava a impegnarsi per la comunità.Quella mattina, molte altre compagne aspettavano Rashida e Champa nella piazza dellacittà: tutte vestite di rosso, giovani, vecchie, con figli o senza, musulmane o indù, eranodiventate molto più di un gruppo di donne che lottava per i propri diritti: erano un puntodi riferimento. Sapevano parlare di diritti ambientali e diritto alla salute, e riuscivano a

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spiegarlo in maniera semplice, vincendo la rassegnazione degli altri con l’esempio:«Quando noi parliamo e facciamo sentire la nostra voce, anche l’impensabile diventavero» diceva Rashida. Da qualche tempo avevano deciso di portare anche una scopa conloro, per sottolineare che non chiedevano altro che pulizia e trasparenza.Il suo sguardo ritornò sul muretto: in una delle crepe aveva messo radici una piantina.Le sue foglie, appena spuntate, sembrava si guardassero intorno per capire da che partesarebbe stato più facile arrampicarsi. Rashida si sentì un po’ come quella pianta. Anchelei stava uscendo da quella fessura buia in cui aveva trascorso la sua vita fino ad allora.Sentiva di doverlo fare, che non c’erano alternative, ma non sapeva bene che strada pren-dere, da che parte avrebbe trovato più appigli. Di sicuro, tornare nella fessura era fuoridiscussione.

L’arrivo di Champa interruppe il filo dei suoi pensieri. Aveva una borsa di stoffa in unamano, alcuni cartelli sotto braccio, e la sua solita scopa nell’altra. Si scambiarono un sor-riso e si avviarono insieme verso la piazza dove sarebbe iniziato il corteo.

Analisi del testo

CHI, DOVE, QUANDO

– In quale ora del giorno si svolge la vicenda?

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– Dove è ambientata la storia?

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– Chi è la protagonista del brano? Quali altri personaggi compaiono?

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LA VICENDA

– Quale evento cambia la vita della protagonista? Quali sono le conseguenze?

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– La protagonista deve affrontare grandi problemi. Quali azioni mette in atto e con quale scopo?

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L’ARGOMENTO

– Tutte le donne portano una scopa per chiedere pulizia e trasparenza. A cosa fanno riferimento?

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– «Quando noi parliamo e facciamo sentire la nostra voce, anche l’impensabile diventa vero» . Ti è maicapitato di far diventare vera un’idea che ritenevi impensabile facendo sentire la tua voce?Racconta.

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Il racconto che hai appena letto è basato sulla storia vera diRashida Bee e Champa Devi Shukla che la notte tra il 2 e il 3dicembre 1984, insieme a centinaia di migliaia di altri esseriumani, videro cambiare improvvisamente la loro vita: circa20.000 persone morirono quella notte e nei giorni e mesi suc-cessivi; oltre 150.000 sono state intossicate a vita.Il disastro fu provocato dal cattivo funzionamento del sistemadi sicurezza che produsse una reazione chimica che fece fuo-riuscire dai condotti usurati un gas tossico, l’isocianato di me-

tile. La nube che si liberò nell’aria invase rapidamente una parte della città di Bhopal, cau-sando uno dei peggiori incidenti industriali della storia umana. I medici, a cui la Union Carbide (UC) non aveva mai rivelato l’esatta natura dei propri pro-dotti, non ne sapevano nulla quando arrivarono le prime vittime. Dovettero praticare rapi-de autopsie e, prima che potessero stabilire la cura, si ritrovarono gli ospedali, le strade einfine i cimiteri, pieni di morti.I sopravvissuti non hanno mai ricevuto un risarcimento adeguato, ancora oggi il luogo deldisastro non è stato bonificato e la gente continua a bere acqua contaminata. Gli effetti noci-vi del gas si stanno manifestando anche sui bambini nati dopo il disastro. Nel 1999 la multinazionale Dow Chemical Company ha comprato la UC.

Rashida e Champa insieme hanno fondato il primo sindacato femminile indiano e hannoorganizzato nel 1989 la prima marcia a New Delhi, capitale dell’India, distante 750 chilo-metri da Bhopal, per rivendicare i diritti delle vittime.Il loro sindacato ha posto problemi che riguardano il bene di tutta la comunità. È per questoche Rashida e Champa hanno ricevuto nel 2004 il Premio Goldman, il riconoscimento chel’omonima fondazione attribuisce ogni anno a persone che lottano per la difesa dell’am-biente in tutto il mondo.

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Il Premio Goldman per l’Ambiente

Troppo spesso gli eroi che difendono l’ambiente naturale e che operano a livello locale nonricevono il riconoscimento che meritano. Le loro attività per proteggere le risorse naturalimondiali diventano sempre più essenziali per la sopravvivenza della Terra, che sfruttiamocome se le sue risorse fossero inesauribili e non considerando che i danni all’ambiente pro-curano gravi danni alla nostra salute. Per questo, nel 1990, Richard N. Goldman e suamoglie, Rhoda H. Goldman, filantropi di San Francisco, crearono il Premio Goldman, il cuiscopo è quello di rendere onore agli eroi dell’ambiente provenienti da ognuna delle regio-ni abitate della Terra.Il Premio ricompensa gli importanti sforzi sostenuti da persone comuni che difendono emigliorano l’ambiente naturale, spesso mettendo a rischio la loro stessa vita. Il PremioGoldman considera eroi coloro che lottano per l’ambiente coinvolgendo gli altri cittadini inattività concrete per produrre cambiamenti positivi nelle questioni ecologiche che li tocca-no. Riconoscendo il valore delle azioni degli eroi dell’ambiente, il Premio vuole ispirare altrepersone comuni a intraprendere azioni straordinarie per proteggere il nostro pianeta.

A. Collegati con il sito www.goldmanprize.org e scopri chi sono gli eroi premiati quest’anno equali azioni hanno compiuto per la difesa dell’ambiente in cui vivono. Nel sito web potrai vede-re i loro volti e conoscere la loro storia. Scegli il tuo eroe o la tua eroina e, con l’aiuto dell’in-segnante di Inglese, ricostruisci la vita e le azioni che gli/le hanno fatto vincere il Premio. Quindiracconta in classe la storia del tuo eroe o eroina dell’ambiente.

B. Divisi in gruppi, raccogliete ulteriori informazioni e materiali relativi a queste persone e crea-te l’Antologia degli eroi e delle eroine dell’ambiente della classe.

Confronto con il passato

La marcia su New Delhi di Rashida e Champa ricorda un’altra importante marcia, orga-nizzata sempre in India ma molti anni fa. Il 12 marzo 1930 il “Mahatma”1 Gandhi marciòcon 78 satyagrahi2 per 380 chilometri verso la spiaggia di Dandi. Il 6 aprile la marcia, dopo24 giorni, raggiunse le coste dell’Oceano Indiano e qui Gandhi estrasse il sale. In seguito aquesto episodio, il popolo indiano imitò il Mahatma nella raccolta del sale senza pagare latassa imposta dagli Inglesi.

1 Vuol dire “grande anima”.2 Satyagrahi sono i seguaci della Satyagraha, la forza della Verità. Gandhi definiva Satyagraha i comportamenti ele azioni di protesta nonviolenta.

A. Assieme ai tuoi compagni, guarda il film Gandhi: avrai modo di conoscere la vita avventurosa diquesto grande personaggio e di capire le ragioni che lo portarono a compiere la “Marcia delSale”. Discutine poi in classe.

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B. Il famoso scienziato Albert Einstein disse di Gandhi: «È probabile che le generazioni future sten-teranno a credere che un simile uomo sia mai esistito sulla Terra in carne e ossa». Quali pensisiano state le ragioni che hanno spinto Einstein a questa affermazione? Scrivi un breve testoargomentando le tue idee. Confrontale, poi, con quelle del resto della classe.

2008: la protesta cresce e si diffonde nel mondo

Il sindacato fondato da Rashida e Champa ha iniziato nel 1999 una causa legale contro laUC presso il tribunale di New York, per chiedere la bonifica dei terreni della fabbrica erisarcimenti per le spese mediche causate da anni di contaminazione del suolo e dell’acqua.Questa causa è stata molto importante perché il tribunale ha deciso che la UC è responsa-bile di ripulire il suolo contaminato di Bhopal. Dalla decisione del 1999 sono trascorsi quasi10 anni ma nessuna vittima è stata ancora risarcita per i danni subiti e la bonifica dei ter-reni non è stata realizzata. La protesta di Rashida, di Champa e delle altre donne continuaancora e in pochi mesi si diffonde in tutto il mondo. Leggerai ora la sintesi di articoli gior-nalistici pubblicati sul sito web dell’Associazione delle vittime di Bhopal.

16 aprileDopo la marcia del 28 marzo a New Delhi, una lettera scritta da una bambina di 11 anni, Yasmin,viene consegnata al primo ministro. La lettera è stata scritta con il sangue dei sopravvissuti e di quel-li che si sono ammalati successivamente. La lettera ha l’obiettivo di indurre il primo ministro arispettare gli impegni di risarcimento e bonifica.

22 aprile 60 organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, firmano una lettera inviata al primoministro con richieste specifiche, tra cui: cure mediche per i sopravvissuti, lavoro per le vittime,potabilità dell’acqua, bonifica.

29 aprileIn una conferenza stampa a New Delhi, i genitori di cinque bambini nati con malformazioni conge-nite dovute all’incidente comunicano di aver denunciato il governo indiano per negligenza nei con-fronti della successiva generazione di vittime.

10 giugnoNove attivisti, tra cui alcuni sopravvissuti al disastro, iniziano uno sciopero della fame a tempo inde-terminato. Per solidarietà, altre nove persone, in quattro Paesi (USA, Francia, Argentina, India),cominciano di propria iniziativa uno sciopero della fame a tempo indeterminato presso le loro case.

14 giugnoSedici deputati americani inviano una lettera al primo ministro indiano invitandolo a rendere giusti-zia alle vittime processando la Dow Chemical Company.

23 giugnoLa polizia americana arresta Diane Wilson Monday, una delle nove persone impegnate nello sciope-ro della fame individuale, che era riuscita a entrare nel Consolato indiano a Houston (Texas). LaWilson, madre di cinque figli proviene da una cittadina del Texas, anch’essa inquinata dalle attivitàdella Dow/Carbide. Viene rilasciata dopo qualche giorno.

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28 giugnoUna delegazione di bambine e bambini di Bhopal si reca presso la residenza del primo ministro perconsegnare 300 cuori di carta colorati con messaggi che chiedono giustizia per le vittime.

2 luglioI nove attivisti interrompono lo sciopero della fame. Altre nove persone prendono il loro posto.

8 agostoIl governo indiano, in seguito alle proteste degli ultimi mesi, annuncia l’intenzione di istituire unaCommissione d’inchiesta sul disastro di Bhopal. La Commissione, dotata di ampi poteri, dovrebbeavviare azioni civili e penali contro la Dow Chemical Company e disporre di fondi da assegnare a pro-grammi di riabilitazione e ricerca.

A. Per sapere cosa è successo dopo questa data, visita il sito www.bhopal.net, che fornisce unacronologia aggiornata degli avvenimenti.

B. Con l’aiuto dell’insegnante di Inglese, traduci in italiano il messaggio scritto da uno dei bambi-ni che hanno realizzato i cuori di carta consegnati al primo ministro indiano il 28 giugno 2008.

I am giving this heart because I think and have realized that you don’t have a heart. That’s whyyou did not feel the pain of the Bhopal gas tragedy victims. Please think about them, they arepart of your country. At least think of yourself. You will also meet God one day and he willask: «What you did?». You will be left with no answers.

Non solo Bhopal: Porto Marghera (Italia)

L’insediamento industriale di Porto Marghera nasce nel 1917 a pochi chilometri da unadelle città più belle e visitate del mondo, Venezia. Nei primi anni Cinquanta inizia la costru-zione del Petrolchimico, l’area in cui sono concentrate le industrie chimiche di Venezia, enel 1952 entrano in produzione il CVM e il PVC.

Il cloruro di vinile – CVM È una sostanza chimica utilizzata per produrre il PVC. Fino al 1974 è stato utilizzato per il funziona-mento delle bombolette spray. Respirare vapori di CVM produce mal di testa, stordimento, difficol-tà nei movimenti e, nei casi più gravi, allucinazioni, perdita di coscienza e morte per crisi respirato-ria. Vivere e lavorare per un lungo periodo in un luogo dove c’è nell’aria il CVM può causare unadolorosa malattia che colpisce mani e piedi chiamata sindrome di Raynaud. Il CVM è causa di alcu-ne forme di cancro del fegato e di sclerosi multipla.

Il cloruro di polivinile – PVC È la materia plastica più conosciuta al mondo. Dal 1950 fu usato per i pigiamini dei bambini e per leparrucche per la sua resistenza al fuoco. Oggi è utilizzato per rivestire serbatoi, rubinetti, vasche, tes-suti. L’uso più diffuso è per la produzione di tubi per acqua, pavimenti, carta da parati, tapparelle,profili delle finestre, pellicole alimentari, giocattoli, cartelle, gomme per cancellare. Il PVC procura glistessi danni alla salute umana provocati dal CVM.

Il primo allarme sulla loro pericolosità venne dato da alcuni scienziati russi negli anniQuaranta. Alla fine degli anni Cinquanta l’Istituto d’Igiene dell’Università di Padova rese

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noti dati preoccupanti sull’inquinamento dell’aria ma nessuno ne tenne conto e la produ-zione continuò. Solo nel 1973 in Italia venne ammesso che la produzione di CVM e PVCprocura gravi danni alla salute e all’ambiente. Le persone a maggior rischio sono gli operaiche lavorano alla loro produzione ma anche la popolazione che vive nelle vicinanze delleindustrie. Le sostanze che si sviluppano durante la lavorazione sono tossiche anche in pic-cole dosi e si accumulano nell’acqua del mare durante la produzione. Da qui passano aglianimali acquatici, come cozze e vongole, e a quelli che si nutrono di detriti sul fondo mari-no. Passano dunque agli altri organismi: pesci, mammiferi, uomini.

Nel 1994, in seguito alla denuncia presentata da un operaio, Gabriele Bortolozzo, il giudiceFelice Casson aprì un’inchiesta sulle condizioni di salute di oltre 400 operai. Essa portò, nel1997, al rinvio a giudizio di 28 dirigenti di Montedison/Enichem, accusati di strage, disastroambientale, omicidio colposo plurimo, lesioni, mancanza di protezione sui luoghi di lavoro,avvelenamento di acque e alimenti, abbandono di rifiuti tossici e realizzazione di discaricheabusive. I dirigenti furono imputati di essere stati a conoscenza della cancerogenicità delCVM e, nonostante ciò, di non aver provveduto ad allontanare gli operai da un pericolo che,per molti, si sarebbe dimostrato letale. L’azienda, inoltre, non solo non avrebbe provveduto arisanare gli impianti, ma avrebbe addirittura contraffatto i sistemi di controllo.

Gabriele Bortolozzo, operaio dell’Enichem a Porto Marghera, ha lottato tutta la vita peravere giustizia e per il rispetto dei diritti umani, della salute, dell’ambiente. Per le sue con-tinue denunce ha subito ogni tipo di ingiustizia ma non si è mai arreso e ha fatto scoprirela verità. La figlia lo ricorda così:«Quando ripenso a questa storia mi sento male. L’unica consolazione è quella di pensareche la Montedison ha dimostrato di avere avuto una gran paura di papà. Che un colossocosì si sia accanito contro una sola persona, caspita, vuol dire che proprio li ha fatti tre-mare! Papà si era accorto che c’erano colleghi che sempre più spesso stavano male, chemorivano.Svolse una ricerca enorme, raccolse decine e decine di casi. Era diventato un esperto dellemalattie causate dal PVC e dal CVM. Nel 1994 si presentò dal giudice Casson. È stato forseil primo momento felice, perché si trovò di fronte una persona che poteva fare qualcosa,che l’ascoltò e che decise di iniziare delle indagini. La cosa triste è che papà non sia riuscito a vedere l’inizio del processo e non abbia potutosapere della condanna. Però ricordo che lui, nonostante i continui attacchi, era comunquecontento perché ce l’aveva fatta».

adattato da: www.alexanderlanger.org

Gabriele Bortolozzo è morto nel 1995 investito da un’auto mentre pedalava sulla sua bi-cicletta. L’Associazione creata dai suoi figli, impegnata per la difesa della salute umana edell’ambiente del territorio veneto, ha ricevuto nel 2003 il Premio Internazionale dellaFondazione italiana Alexander Langer.

Nel 1998 cominciò il processo alla fine del quale, però, nel 2001 tutti gli imputati furono assolti,con una sentenza che provocò accese polemiche. Lo Stato ottenne comunque dalla Montedisonun risarcimento di 550 miliardi di lire.

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Soltanto nel 2004 la Corte d’Appello di Mestre condannò per omicidio colposo cinque ex-diri-genti Montedison a un anno e mezzo di pena, confermata poi dalla Corte di Cassazione nel 2006.

A. Che cos’è la catena alimentare? Assieme ai tuoi compagni, con la guida dell’insegnante diScienze, disegna su un cartellone la piramide che descrive la catena alimentare.

B. Si sono mai verificati incidenti industriali nella tua città? Quali sono le minacce all’ambiente incui vivi e che mettono a rischio la tua salute? Dopo aver raccolto informazioni scrivi un testo– articolo di giornale o relazione – che descriva la situazione ambientale della tua città.

C. Ogni anno l’UNESCO, in collaborazione con il ministero dell’Educazione giapponese, organiz-za un concorso per i giovani di tutto il mondo per diffondere la consapevolezza dell’importanzadi difendere la salute umana e l’ambiente. Esercitati per partecipare all’edizione del prossimoanno scrivendo: Il mio progetto per un cambiamento positivo nel mio ambiente. Per saperne di piùsul concorso visita il sito www.unesco.org/youth o il sito www.goipeace.or.jp

Il diritto alla salute

Tra i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani vi è anche il diritto alla salute.

Articolo 25Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere pro-prio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione,alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupa-zione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sus-sistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.

A. Come hai letto, il nostro diritto alla salute si realizza pienamente se anche altri diritti sonorispettati. Sapresti dire quali?

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Nel nostro Paese il diritto alla salute è tutelato dall’art. 32 della Costituzione della RepubblicaItaliana:

Articolo 32La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collet-tività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinatotrattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso viola-re i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

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B. Che cosa significa per te «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’indivi-duo e interesse della collettività»? Pensi che nel nostro Paese tutti i cittadini vedano rispetta-to il proprio diritto alla salute? Motiva la tua risposta.

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C. Dopo aver confrontato l’art. 25 della Dichiarazione universale e l’art. 32 della Costituzione Italiana,individua quelli che secondo te sono gli elementi comuni ai due articoli.

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PIETRA SU PIETRA

Cara mamma,

finalmente posso scriverti. So che è passato molto tempo, ma c’è voluto un po’ per impa-rare a scrivere. Volevo che tu sapessi che sto molto bene, adesso. Vivo a Bouakè, unagrande città, forse ne hai sentito parlare. Cinque anni, sono passati cinque anni dall’ul-tima volta che ci siamo visti, dall’ultima volta che mi hai portato da mangiare vicino algrande albero. Mi dispiace, non volevo farti preoccupare, non volevo sparire così, chis-sà cosa avrete pensato quando avete visto la catena spezzata. Questa lettera te la scrivoproprio per raccontarti cosa è successo quella sera di cinque anni fa. A me sembrava unasera come le altre, me ne stavo seduto vicino al grande albero, con la catena al collo, spe-rando che la notte non fosse troppo fredda.

Era quasi un anno che stavo incatenato al grande albero, per colpa di Youda. Ti ricordidi Youda? Quando scopriste che parlavo con lui vi spaventaste così tanto, dicevate cheYouda non esisteva, che io parlavo con l’aria, che parlavo col niente, che il mio amico erasolo un’allucinazione. Io ero molto triste perché voi non potevate vederlo, non potevateparlare con lui e ridere con lui come facevo io, ma non pensavo che vi sareste arrabbia-ti così tanto. Youda non faceva male a nessuno, eravamo buoni amici e parlavamo, sta-vamo sempre insieme, lui mi faceva compagnia durante il lavoro ai campi, aveva sem-pre qualche storia o una canzone per tirarmi su. Quando andavamo a pescare invece sta-vamo in silenzio, per non spaventare i pesci, ma lui era sempre lì con me, non mi lascia-va mai solo. Con Youda non ero mai triste, non capisco perché avevate tanta paura di lui,tanta paura di noi. Io lo so che tu non volevi davvero incatenarmi a quell’albero,mamma, ma il capo villaggio non volle sentire ragioni. Diceva che Youda era uno spiri-to malvagio, che io ero maledetto e che ero pericoloso per il villaggio, avrei potuto faredel male a qualcuno o trasmettere la mia maledizione agli altri. Tu e papà avevate tantavergogna di me, le altre famiglie non ci avrebbero accettati più, vi capisco, perciò nonsono arrabbiato con voi. Ricordate, non ho detto nulla, non ho urlato, non ho pianto, nonho detto una parola mentre mi portavano al grande albero, nella foresta fuori dal villag-gio. La colpa non era vostra, anche se non capivo come poteva essere mia e di Youda.

Non è stato facile vivere legato al grande albero. La catena era corta, potevo muovermipoco e così col passare del tempo diventai sempre più debole, stavo sempre seduto o di-steso sulla terra e anche se provavo a raccogliere le foglie per dormirci sopra, era cosìscomodo che poi le ossa mi facevano male. Meno male che con me c’era Youda, che midistraeva dalla paura per gli animali selvaggi che qualche volta sentivo in lontananza enon mi faceva pensare alla fame quando avevo fame. Il cibo che mi portavi tu era sem-pre buono, ma qualche volta non venivi per due, tre giorni; io lo so che era difficile tro-vare il tempo di prepararlo e fare quel cammino tutti i giorni, con tutto il lavoro che

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c’era da fare al villaggio, ma non capisco perché papà non sia mai venuto, nemmeno unodei miei fratelli o delle mie sorelle. Erano davvero tanto spaventati da me e da Youda?Eppure tu ti ricordi, quando venivi tu io non urlavo, non facevo nulla di male, io ti sor-ridevo sempre, ero contento, sarei stato tanto contento di rivedere anche loro e invecenon sapevo se stavano bene, se erano felici e se qualche volta pensavano a me.

Tutto mi faceva paura quando ero legato al grande albero, non soltanto gli animali sel-vaggi e la fame. Avevo paura del vento quando fischiava forte, avevo paura della pioggiaquando cadeva fitta, avevo paura delle nuvole quando non mi facevano vedere la luna ele stelle, avevo paura quando vedevo le mie braccia e le mie gambe diventare sempre piùmagre, avevo paura di vedere le mie ossa sotto la pelle, avevo paura degli spiriti ma avevopaura anche delle persone. Avevo paura anche dei ragazzini. Qualche volta venivano,durante il giorno, prima del tramonto, sentivo le loro voci e il loro passi. Quando eranolontani urlavano e correvano, ridevano, si prendevano in giro, ma più si avvicinavanopiù le loro voci diventavano basse, rallentavano e diventavano più seri. Finché si ferma-vano, nascosti dietro qualche cespuglio o qualche tronco poco distanti dal grande albe-ro. Parlavano a bassa voce, ma io li sentivo lo stesso. Avevano tutti un po’ di paura e bisbi-gliavano preoccupati. Io non capivo questa paura. Ero io ad aver paura di loro! Io sape-vo perché erano venuti fino a lì, perciò avevo paura. Ci mettevano un po’ a prenderecoraggio, poi sbucavano tutti insieme da dietro ai cespugli, avevano tutti una pietra inmano e me la lanciavano contro. Non erano tanti e ognuno di loro tirava soltanto unapietra, poi scappavano tutti quanti spaventati, urlavano che io avevo la forza degli spiri-ti e potevo liberarmi dalle catene e potevo raggiungerli. Ma io non potevo raggiungerenessuno, non avevo la forza degli spiriti e non vedevo nemmeno dove scappavano.Quando loro lanciavano le pietre io mi stringevo vicino all’albero, con le ginocchia stret-te al petto, senza nemmeno guardare. Youda mi stava vicino e mi abbracciava stretto. Lepietre non mi colpivano spesso, ma io avevo paura ugualmente, avevo paura del doloree avevo paura perché tutti quei ragazzini avevano paura di me. Per avere meno paurascelsi anche io la mia pietra, fra quelle che mi avevano lanciato ed erano cadute vicinoall’albero. Scelsi la pietra più bella, una pietra che stava perfettamente nella mia mano,una pietra per difendermi dai ragazzini che venivano a farmi del male. Non l’ho mai tira-ta però, quella pietra. L’ho tenuta stretta nella mia mano per giorni, per settimane, mesi,senza mai lanciarla.

La tenevo stretta nella mano anche quella sera, quando è arrivato Grégoire. Io stavo conla pietra nella mano, seduto contro l’albero, a sentire la brezza e i racconti di Youda,stavo quasi per addormentarmi, quando sentii una voce: «Ahmadou!». Credetti di esser-mela immaginata, era una voce sconosciuta ed era molto vicina, nessuno mi veniva cosìvicino a parte te, mamma. Mi chiamò di nuovo, era una voce calma e gentile. Mi voltaie vidi un uomo sconosciuto che si chinava su di me, piano. Si muoveva lentamente per-ciò non mi spaventai, lo guardai e vidi che aveva dei vestiti da cittadino, non era uno del

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villaggio. «Mi chiamo Grégoire – disse. – Adesso cerco di aprire la catena». Prese unaspecie di grossa pinza di metallo, la chiuse piano su uno degli anelli della catena, vicinoal mio collo, e con un movimento secco ma attento spezzò l’anello. Sentii il mio collo chesi liberava, mi sembrò di riuscire addirittura a respirare meglio. Grégoire mi aiutò adalzarmi e io mi appoggiai a lui. Quando fui in piedi, mi allontanai un po’ e lo guardai.«Chi sei?» gli chiesi. «Come conosci il mio nome?». Rispose che aveva sentito la mia sto-ria da un uomo del mio villaggio che era stato nella sua città. Disse che era venuto perliberarmi e portarmi in un posto migliore, un posto dove nessuno mi avrebbe legato otenuto lontano dagli altri. «Solo se tu vuoi, però» disse. Io ero confuso, non potevo imma-ginare una vita diversa da quella vicina al grande albero, ma allo stesso tempo volevosmettere di avere paura. «Sì – risposi. – Ma solo se Youda viene con noi». Grégoire misorrise e disse: «Vieni».

Camminammo per un tempo indefinito nella foresta. Grégoire mi sorreggeva e quandoero stanco si fermava, in modo che io potessi riprendere fiato. A un certo punto, tra glialberi, vidi una strada sterrata e sul bordo della strada un’auto. Ci avvicinammo,Grégoire aprì lo sportello per farmi entrare, ma prima io aprii quello dietro per far sede-re Youda. Poi Grégoire si sedette al posto di guida, accese il motore e partimmo.Nonostante gli scossoni per la strada accidentata, il sedile dell’auto era tanto più como-do del mio giaciglio di foglie vicino al grande albero. Guardavo incuriosito la strada etutti i gesti che Grégoire faceva per guidare l’automobile. Gli domandai: «Ma tu chi sei?Perché fai questo?». «Sei un tipo diretto tu, eh?» disse Grégoire sorridendo. «Abbiamo unbel po’ di strada da fare, perciò ho tutto il tempo di raccontarti la mia storia. Vedo chehai una pietra nella mano». Annuii. «Bene, anche nella mia storia c’entrano le pietre.Devi sapere che io non sono della Costa d’Avorio, io vengo da un posto che si chiamaBenin. Sono venuto fin qui molti anni fa con tutta la mia famiglia, per lavorare. Ho scel-to di andare a Bouakè perché era una grande città, c’erano tante auto e di sicuro cisarebbe stato lavoro per me. Io sono un gommista, il mio lavoro è riparare le ruote delleauto. Diventai piuttosto ricco, a ventiquattro anni avevo quattro taxi e un’automobiletutta mia. Era più di quanto qualsiasi altro ragazzo della mia età potesse sognare. Benpresto, però, i soldi mi diedero alla testa: in poco tempo sperperai tutto, avevo completa-mente perso di vista le cose importanti e capii come mi ero ridotto solo dopo aver spesogli ultimi centesimi. All’improvviso la mia vita mi apparve chiara e mi vergognai tanto.Arrivai al punto di decidere di togliermi la vita, come punizione per non aver saputomeritare un dono così grande. Quando la tua mente non è occupata del tutto da cosefutili, però, ti capita più spesso di riflettere sulle cose, di soffermarti su pensieri che altri-menti volerebbero via dalla tua testa prima ancora che tu possa accorgertene.

Io ad alcuni di quei pensieri mi aggrappai e sono stato fortunato, perché furono quelliche mi avrebbero indicato la mia strada. Mi riavvicinai alla mia religione e all’idea chelassù potesse esserci qualcuno disposto a perdonarmi, a darmi un’altra possibilità.

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Tornai nella comunità in cui ero stato educato da piccolo e, insieme ad alcuni amici,decisi di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme. Lì, con il cuore e la mente finalmen-te aperti, ascoltai un sacerdote pronunciare, durante una cerimonia, queste parole:«Ogni cristiano deve posare una pietra per la costruzione della sua Chiesa». Me lo ricor-do come fosse ieri, quel momento. Il sacerdote portava una tunica bianca di cotone,lunga fino alle caviglie, che erano strette dalle cinghie dei sandali logori che aveva aipiedi. Doveva aver camminato tanto. Era molto anziano, aveva una barba un po’ grigia eun po’ bianca e le sue mani si muovevano con una lentezza rassicurante. Mi fece un’e-norme impressione che una frase tanto grande uscisse da un corpo così gracile eppuretanto energico, nonostante l’età. Parlava con grande semplicità, ma le sue parole mi col-pirono nel profondo. Anch’io dovevo posare la mia pietra, fare la mia parte. Quale erala mia pietra, non lo sapevo ancora, ma non impiegai molto a capirlo.

Un giorno, di ritorno dalla casa di un mio amico, mi accorsi di un uomo che rovistavatra i rifiuti in cerca di cibo. Aveva l’aria spaesata, ogni tanto faceva un risolino strano ediceva qualcosa. Ma era solo: nessuno lo ascoltava. Mi fermai a osservarlo, non visto. Avolte sembrava rivolgersi al barattolo vuoto che svuotava degli ultimi ceci, altre volte aun pezzo di rete in cui era rimasto impigliato un frutto ammaccato. Pensai al pranzo cheavevo appena fatto col mio amico e mi sentii in colpa. Sarebbe bastato così poco per aiu-tarlo, per rendere la sua vita migliore, anche un piccolo gesto. Un piccolo gesto comequello di posare una pietra. La pietra. Guardando quell’uomo capii quale era la pietrache dovevo posare. Mi avvicinai e conobbi il suo nome. Si chiamava Berte e nei giorniseguenti tornai più volte per portargli il mio aiuto. Ma già sapevo che non era abbastan-za, ogni sera io mi sdraiavo nel mio comodo letto e questo non mi sembrava affatto giu-sto. Assieme ad altri membri della mia comunità feci visita al direttore dell’ospedale diBouakè per chiedergli uno spazio dove accogliere le persone come Berte. Accettò, era laprima volta che qualcuno si offriva di aiutare delle persone che il resto della società siostinava a ignorare e isolare. I nostri sforzi e il nostro lavoro furono premiati: grazie allagentilezza e all’amore che ispiravano il nostro lavoro, molti dei nostri protetti riuscivanoa fare grandi progressi, a stare meglio, tornavano ad essere delle persone vere. Non èstato facile, trovare i mezzi, le medicine – persino il cibo! – ci costava molta fatica, nonpotevamo ricevere aiuti dall’ospedale perché il servizio sanitario non era gratuito. Ma irisultati da noi ottenuti superavano di gran lunga quelli di qualsiasi ospedale del Paese.Il direttore ci permise così di costruire il nostro primo centro di accoglienza, su un ter-reno appartenente all’ospedale. Lo costruimmo insieme, pietra dopo pietra, tutti insieme,e dopo di esso ne costruimmo altri, tanti altri. Ecco, siamo arrivati».

Grégoire fermò l’auto e io aprii lo sportello, poggiai i piedi per terra e sentii l’erba. C’eral’erba verde, un grande prato verde davanti a me. Lontano, tante persone, tante personevicine a un muro, vicine al muro come le formiche sul grande albero. «Stanno co-struendo un nuovo padiglione per il centro» disse Grégoire. «Vieni, ti faccio vedere».

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Ci avvicinammo e vidi che tutte quelle persone lavoravano insieme per costruire quelgrande muro nel mezzo del grande prato verde. Una pietra dopo l’altra diventava sem-pre più alto e ognuno portava la sua pietra, per farlo sempre più alto. Ognuno portavala sua pietra, mamma. Tutti, quelli come voi, che sono normali, e quelli come me, chehanno la maledizione, tutti portavano una pietra e tutti sorridevano all’ombra del murodi pietre. E quando mi videro, tutti sorrisero anche a me. Io mi strinsi a Grégoire, glistrinsi il braccio con la mano. «Non avere paura, – disse – non devi avere più paura». Iolo guardai, guardai il muro di pietre, guardai tutte quelle persone che insieme costrui-vano un muro di pietre, guardai il prato e guardai la mia mano. Guardai la mia pietra,mamma. La pietra che avevo raccolto perché avevo paura, quando avevo paura. Guardaiancora Grégoire e lui fece sì con la testa, allora io andai vicino al muro, lo guardai bene,lo toccai. Poi presi la mia pietra e la poggiai sul muro. Ci stava benissimo, il suo posto erain quel muro, la mia pietra aveva trovato il suo posto. E anche io, mamma.

Youda non l’ho più visto dal giorno in cui ho posato la mia pietra; all’inizio mi manca-va ma poi ho capito che era giusto così, Youda era andato via perché non ero più solo,non avevo più paura, avevo un posto dove stare e un compito. Non sono una di quellepietre che si lanciano per fare del male, io sono una pietra in un muro, sono una pietrache regge il muro e non sono solo, ci sono tantissime pietre a reggere il muro insieme ame. È passato tanto tempo dal mio primo giorno al centro, quel muro che le personecostruivano è diventato una casa, la mia casa. Lì dentro tante persone si sono prese curadi me e, appena ho potuto, io ho fatto lo stesso. Adesso io mi prendo cura di quelli chearrivano e che sono come me quando misi il piede sul prato verde la prima volta, quelliche hanno ancora la loro pietra nella mano perché hanno paura. Insegno a loro quelloche mi ha insegnato Grégoire, quello che ho imparato da lui e che adesso ho raccontatoa te: nessuno è solo, nessuno è inutile, ognuno custodisce una pietra, una pietra da posa-re per costruire qualcosa, tutti insieme.

Un grande abbraccio,tuo figlio Ahmadou

Analisi del testo

CHI, DOVE, QUANDO

– Chi è il protagonista del racconto?

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– In quale città vive?

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– Quando si svolge la vicenda di cui narra?

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LA VICENDA

– In quale luogo viveva cinque anni prima?

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– Quali sono le sue condizioni di vita?

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– Quale evento determina un profondo cambiamento delle sue condizioni?

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L’ARGOMENTO

– Perché il protagonista vive lontano dalla famiglia?

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– Quali sono le ragioni per cui la famiglia si vergogna di lui?

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– A quale attività si dedica il protagonista?

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– Spiega il significato di queste parole: «Io sono una pietra in un muro, sono una pietra che reggeil muro e non sono solo, ci sono tantissime pietre a reggere il muro insieme a me».

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Grégoire e i malati di mente in Costa D’Avorio

Grégoire Ahongbonon è l’uomo che ha ispirato il racconto chehai letto. La sua storia comincia in Benin, il Paese africano in cuiè nato. La sua è una famiglia contadina e riceve un’educazionecattolica nelle missioni locali.«Un giorno – racconta Grégoire – mio padre mi disse che un suoamico stava tornando in Costa d’Avorio, dove lavorava come gom-mista. Avrei dovuto seguirlo, imparare un mestiere e cavarmelada solo. Era il 1971». In poco tempo, Grégoire mette da parte unadiscreta somma di denaro lavorando come gommista, investe isuoi risparmi e diventa proprietario di alcuni taxi, conducendouna vita agiata.«L’attività andava bene – continua Grégoire – avevo alcune per-

sone che lavoravano per me. Mi ero stabilito a Bouakè, la seconda città più grande dellaCosta d’Avorio. Ero giovane, avevo tanti soldi. Forse troppi. Mi sono dato alla bella vita e hodissipato tutti i miei risparmi. In breve ero tornato povero, senza un soldo. Sentivo di averfallito, di aver gettato all’aria tutto quello in cui credevo».Grégoire pensa al suicidio. Poi, nel 1982, un prete gli propone di compiere un pellegrinag-gio a Gerusalemme. «L’idea di quel viaggio mi aveva restituito la forza di andare avanti. Manon me lo potevo permettere, ho cominciato a lavorare come un matto. Notte e giorno,senza sosta. Ma alla fine sono salito su quell’aereo». Durante il pellegrinaggio sente dire inun’omelia che «Ogni cristiano deve porre una pietra per la costruzione della Chiesa».Queste parole lo tormentano a lungo; ne parla a sua moglie e insieme ragionano su comeporre la loro pietra per la costruzione della comunità cristiana. Ricomincia una nuova vita.Frequenta l’ospedale di Bouakè, dove porta assistenza ai malati che non hanno famiglia e isoldi per curarsi. Ed è grazie alle sue insistenze e al suo impegno che molti ricevono medi-cinali e cure adeguate. È il 1993 quando Grégoire si getta anima e corpo in un’attività che pochi o nessuno primadi lui hanno intrapreso: riabilitare i malati di mente della Costa d’Avorio. In molti Paesi africani le persone affette da disturbi mentali sono viste come esseri subu-mani, colpiti da una maledizione o posseduti da qualche spirito malefico. Per questo nessu-no li vuole. «Anch’io li temevo e quando ne vedevo uno mi giravo dall’altra parte», confes-sa Grégoire. «Poi un giorno è accaduto un fatto che mi ha aperto gli occhi e il cuore.Camminavo per una strada ai cui lati correvano le fogne a cielo aperto. Ho abbassato losguardo e ho visto un uomo completamente nudo che rovistava nei cumuli di immondiziain cerca di qualcosa da mangiare. Mi sono fermato a guardarlo e in quel preciso istante hocapito che era di lui e di tutti quelli nella sua condizione che mi dovevo occupare». Grégoirecomincia a girare per i villaggi e scopre un mondo che prima non conosceva. È la realtà deimalati di mente: migliaia di loro sono legati agli alberi in mezzo ai campi, incatenati nei cor-tili. Molti vivono in quelle condizioni da anni. Dormono sui propri escrementi, mangianoavanzi di cibo, mentre sciami di insetti li tormentano. Abbandono, sporcizia, monsoni e unsole impietoso hanno tolto loro l’ultimo barlume di umanità. Le famiglie li tengono in quel-lo stato perché non sanno cosa farsene. Il più delle volte si affidano a pratiche di stregone-ria. Gli anni passano e Grégoire diventa un personaggio famoso. Grazie al continuo impe-

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gno ottiene un’ala dell’ospedale di Bouakè dove dare accoglienza ai malati che raccoglienelle strade o libera dalle catene. Finora ha aiutato migliaia di persone a superare i loro pro-blemi psichici e più dell’80% dei malati sono tornati nei villaggi d’origine e sono stati ingrado di condurre la propria esistenza in modo più autonomo. Molti di loro hanno perfinotrovato lavoro. Ha fondato l’Associazione Saint Camille che si occupa oggi di dieci centri peril recupero, la cura, la riabilitazione e il reinserimento sociale e lavorativo dei malati dimente. Ha aperto un ospedale di medicina generale per le persone povere della città diBouaké dove possono essere effettuate anche visite psichiatriche. Nel 1998, Grégoire haricevuto a Trieste il riconoscimento al Primo Premio Internazionale Franco Basaglia*.

* Franco Basaglia è lo psichiatra ispiratore della legge 180 del 1978 che portò alla chiusura e all’abolizionedei manicomi in Italia.

A. Individua su una carta geografica dell’Africa il Benin e la Costa d’ Avorio, le capitali dei due Statie le città più importanti. Quindi cerca informazioni sulla loro situazione economica e politica.

B. In Costa d’Avorio vi sono circa 3.000 bambini soldato. Lo sfruttamento dei minori e la violen-za contro i bambini è in costante aumento. Con l’aiuto dell’insegnante e divisi in gruppo appro-fondite la condizione dell’infanzia in questo Paese.

Il diritto alla famiglia

L’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani tratta della famiglia. In particolare afferma:

Articolo 16

[…] La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protet-ta dalla società e dallo Stato.

A. Secondo te, quali membri della famiglia sono protetti da questo articolo?

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La Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, un importante documento approvatodall’ONU il 20 novembre 1989, tutela in modo puntuale il diritto di ogni bambino e bambina adavere una famiglia dalla quale nessun minore può essere separato se non in casi molto particolari.

Articolo 7Il fanciullo […] ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza, e, nella misura del possibi-le, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi.

Articolo 9Il fanciullo ha diritto a non essere separato dai suoi genitori, eccetto che nel suo interesse pre-minente e nel rispetto delle leggi. (versione semplificata)

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A. Quali sono i diritti dei minori protetti dagli artt. 7 e 9 della Convenzione?

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B. Cosa significa per te «eccetto che nel suo interesse preminente e nel rispetto delle leggi»?

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C. Con i tuoi compagni e le tue compagne discuti dell’importanza che ha per voi la vostra famiglia.

Malattia mentale e diritti umani

Un malato di mente è una persona come tutte le altre, che esprime e prova sentimenti, chechiede di essere rispettata e protetta come ogni essere umano. Come tutti gli altri organi e le funzioni del nostro corpo, anche la mente si può ammalarein forme diverse, più o meno gravi: in Europa, uno su cinque bambini e adolescenti viveproblemi di sviluppo, emotivi e comportamentali, e uno su otto ha un disordine mentale.Molti di questi disordini sono ricorrenti o cronici. Il disordine mentale colpisce anche unapersona su quattro nel corso della vita e può essere riscontrato nel 10% della popolazioneadulta. Si stima che disordini e problemi mentali aumenteranno del 50% entro il 2020. La malattia mentale è una malattia come le altre e il malato mentale ha bisogno di esserecurato. L’emarginazione e l’abbandono lo fanno sentire diverso e inutile e lo chiudono in unisolamento che ostacola le possibilità di cura, di guarigione e di reinserimento nelle propriefamiglie e nella società.In molti Paesi del mondo le condizioni in cui sono tenuti i malati di mente sono terrifican-ti: di frequente sono resi prigionieri, umiliati, torturati. Se in alcune zone dell’Africa, comehai letto nel racconto, si crede che i malati di mente siano posseduti da un qualche spiritomaligno e vengono portati nei campi, incatenati e abbandonati al loro destino, in molti altriPaesi essi vengono segregati in istituti di ricovero che non hanno lo scopo di curarli ma solodi tenerli lontani dalla società “normale” che rifiuta la loro diversità. In Paesi come laRomania, la Bulgaria, la Federazione Russa, per esempio, i malati di mente spesso vengonomaltrattati fisicamente e psicologicamente, sono costretti ad assumere droghe e farmaci cheli rendono inerti, e lo stesso trattamento è riservato anche ai bambini.Purtroppo, la mancanza di rispetto dei diritti umani dei malati mentali è molto diffusa, ipregiudizi e la discriminazione impediscono lo sviluppo di azioni adeguate per affrontarele malattie da cui sono affetti e si riflettono in scarsi servizi per la loro cura e assistenza.

A. Leggi e commenta con la tua classe questa poesia della poetessa italiana Alda Merini.

Ma il giorno che ci apersero i cancelli,che potemmo toccarle con le mani quellerose stupende, che potemmo finalmenteinebriarci del loro destino di fiori.

Divine, lussureggianti rose!

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Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore,io stessa avevo un gambo e una linfa.

B. Alda Merini è tra le maggiori poetesse europee contemporanee. Ha vissuto molti anni della suavita in manicomi di diverse città italiane. Svolgi una ricerca, anche servendoti di Internet, sullavita e le opere di questa famosa autrice.

C. Nel 2007 Simone Cristicchi ha vinto la sezione principale del Festival di Sanremo con la can-zone: Ti regalerò una rosa, canzone che parla, come dice lo stesso cantautore, «di un uomo, unmalato di mente,ma pur sempre un uomo». Procurati il testo della canzone e, dopo averlo lettoe commentato in classe, rintraccia le frasi che descrivono le condizioni di vita dei “matti”. Conla guida del docente di Educazione musicale, potreste poi provare a suonare il brano con ivostri strumenti o a farne una versione corale.

Malattia mentale e pena di morte

Una grave violazione dei diritti umani è l’uso della pena di morte contro i malati di mente,perché spesso un prigioniero malato di mente non è neppure in grado di comprendere lanatura della punizione. Nonostante ciò, sono molte le persone affette da malattia mentaleche nel mondo sono state condannate e uccise. Negli Stati Uniti d’America, per esempio, lepersone affette da gravi forme di malattia mentale possono essere messe a morte a meno chenon siano riconosciute legalmente incapaci. Ma gli standard usati per determinare la sani-tà mentale di un individuo risultano spesso poco efficaci.Secondo una ricerca, almeno una persona su 10 messa a morte in quel Paese dal 1977 sof-friva di una grave forma di malattia mentale, antecedente al crimine per il quale era statacondannata o presente al momento dell’esecuzione. In alcuni casi era stata diagnosticata unaforma di malattia mentale causata o aggravata da abusi subiti in tenera età, da violenze avve-nute in detenzione o da esperienze vissute in guerra. In altri, la malattia mentale era eredita-ria. In qualche caso è accaduto che si manifestassero seri dubbi sulla capacità dell’imputatodi riuscire a sostenere il processo, ovvero non era chiaro se comprendesse realmente la natu-ra e la gravità del procedimento a suo carico o se fosse in grado di occuparsi della propriadifesa. In altri, dei rappresentanti legali inadeguati hanno consentito che il processo avesseluogo senza che i giudici si rendessero conto che l’imputato soffrisse di malattia mentale.Capita così che le bizzarrie dei malati di mente vengano scambiate per mancanza di rimorsidi fronte ai crimini di cui sono accusati, fatto che aggrava la loro posizione. Un caso celebre è quello di Scott Panetti, schizofrenico soggetto a allucinazioni e più voltericoverato, che nel 1995 fu condannato a morte in Texas per aver ucciso, tre anni prima, igenitori adottivi. Panetti, che si difese da solo, si presentò al processo vestito da cowboy rac-contando di demoni apparsi dopo il suo delitto per prenderlo in giro. Dopo varie vicendegiudiziarie, il 26 marzo 2008 un giudice federale distrettuale stabilí che la condanna potes-se essere eseguita, affermando: «Panetti era malato di mente quando commise il delitto econtinua ad esserlo ancora oggi. Nonostante ciò, egli ha una comprensione effettiva e razio-nale del suo crimine, della morte incombente, e del rapporto di causalità retributiva tra ledue cose. Perciò, se c’è una persona malata di mente che può essere giustiziata per i suoicrimini, questa è Scott Panetti».

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A. L’uso della pena di morte come strumento di punizione è argomento controverso e moltodibattuto. Amnesty International, come altre associazioni, si oppone senza condizioni alla penadi morte. Discutine con i tuoi compagni e le tue compagne, dopo aver fatto una ricercasull’applicazione della pena di morte nel mondo.

La malattia mentale come pretesto per la repressione del dissenso

A volte la malattia mentale è uno strumento utilizzato da alcuni governi per ridurre al silen-zio gli oppositori politici e coloro che combattono nel loro Paese per il rispetto dei dirittiumani. Una vicenda significativa è quella di Sazak Durdymuradov, un insegnante delTurkmenistan, collaboratore di Radio Free Europe/Radio Liberty, l’unica radio non con-trollata dal governo che può essere ascoltata in quel Paese. Nei suoi interventiDurdymuradov aveva affermato la necessità di riforme costituzionali e del sistema educati-vo e aveva criticato le limitazioni alla libertà di parola nel suo Paese. Il 20 giugno 2007Durdymuradov fu prelevato con la forza presso la sua casa, nella città di Bakhaden, da ungruppo di agenti della polizia segreta e condotto presso un ospedale psichiatrico locale dovedieci medici avrebbero diagnosticato la sua “instabilità mentale”. Fu quindi portato in unastazione della polizia e torturato con elettroshock perché firmasse una dichiarazione concui si impegnava a interrompere la collaborazione con RFE. Fu poi trasferito nell’ospedalepsichiatrico di Boinuzin, noto per essere usato per imprigionare i dissidenti e definito “l’in-ferno sulla terra”. Durdymuradov è stato rilasciato il 4 luglio, grazie anche alle pressionigiunte da varie associazioni internazionali per i diritti umani.

Il caso di Durdymuradov non è isolato. Accade spesso che gli oppositori politici o i difensori deidiritti umani siano colpiti per le loro idee, per la loro opera di promozione e tutela dei diritti umaniall’interno di un Paese o per il loro tentativo di far conoscere e denunciare all’esterno le violazio-ni di diritti che si verificano nel proprio Paese.E ciò nonostante l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani affermi che:

Articolo 19Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto include la liber-tà di sostenere opinioni senza condizionamenti e di cercare, ricevere e diffondere informazionie idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo ai confini.

A. Lo scrittore Aleksandr Solgenitsin, Premio Nobel per la letteratura nel 1970, e il fisico AndrejSacharov, Premio Nobel per la Pace nel 1975, sono tra le vittime più note della violazione deldiritto alla libertà di opinione e di espressione. Effettua una ricerca sulla loro vita e scopri lemotivazioni che hanno portato all’attribuzione del più importante riconoscimento internazio-nale a queste due personalità di fama mondiale.

B. Con la guida dell’insegnante, leggi la Dichiarazione sui difensori dei diritti umani, approvatadall’Assemblea Generale dell’ONU il 9 dicembre 1998. Discutine quindi con i tuoi compagni.

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RITORNO A CASA

La ballerina, sola sull’immenso palco, si muoveva leggera ed elegante. Sorrideva, aveva

un vestito bianco e la pelle colore del caffellatte, era sola e attraversava il palco da una

parte all’altra con sicurezza, a occhi chiusi. Una luce la illuminava e la seguiva, lascian-

do nell’oscurità tutto il resto, intorno a lei tutto era scuro. La musica divenne strana, lei

se ne accorse, faceva fatica a concentrarsi e dovette aprire gli occhi, bellissimi occhi di

acqua marina. La musica divenne più tesa e la ballerina diventò nervosa, sentiva la fati-

ca dei suoi movimenti, si guardava intorno voltando la testa di scatto, ma non riusciva a

vedere niente. La luce illuminava soltanto lei e niente altro. La musica divenne stonata.

La ballerina non sorrideva più e non danzava. Scappava, non sapeva da cosa, ma corre-

va e il cuore le batteva forte. Quando la musica si trasformò in rumore, la ballerina

cominciò a girare su se stessa, era disperata e il rumore metallico la assordava. Girava,

girava, girava, finché i suoi muscoli cedettero, perse i sensi e cadde per terra.

Lentamente, molto lentamente, come al rallentatore. Prima che toccasse terra la luce si

spense. Il rumore divenne un lungo grido.

Irene urlò. Riaprì gli occhi. La luce azzurra del mattino le investì gli occhi riportandola

alla realtà. Un sogno. Era stato un sogno. Aveva sognato tutto, di nuovo. Restò seduta sul

letto per un minuto ancora, con gli occhi chiusi, poi raccolse le energie, si strofinò le pal-

pebre con le dita, con forza, per scrollarsi di dosso il sonno. Era ora di andare al lavoro.

La vecchia Emelia tirò un sospiro e riaprì gli occhi. Un altro sogno, un’altra ragazza. Si

alzò e accese il fuoco sotto la grande pentola per riscaldare la cera. Prese la brocca

dell’acqua e uscì di casa. La riempì alla fontana con gli angioletti nella piccola piazza e

tornò dentro con passo lento. Era ora di rimettersi al lavoro.

Per tutta la giornata Irene non riuscì a scacciare dalla testa il ricordo della ballerina e

dei suoi occhi di acqua marina. Anche durante il lavoro alla maquiladora non riuscì a

pensare ad altro, restò silenziosa e non parlò con nessuno. Quella sera, a casa, accese la

vecchia televisione, c’era il telegiornale e lo schermo mostrava la fotografia di Silvia

Delgado. La giornalista raccontava del ritrovamento del suo corpo nel deserto, qualche

chilometro a sud di Ciudad Juárez, sul ciglio della Strada 45. Irene si concentrò sulla

foto. Era proprio lei, aveva gli stessi occhi colore acquamarina della ballerina del sogno.

Stavolta ci avevano messo un solo giorno a ritrovarla. Irene spense la televisione, andò in

camera sua e pianse.

Quella sera stessa i signori Delgado sentirono bussare alla porta. Andarono ad aprire e

si presentò di fronte a loro una piccola signora dai capelli lunghissimi e bianchissimi.

Aveva due occhi grandi e neri e tra le mani una piccola candela bianca a forma di scar-

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petta da ballo. Con un sorriso dolce disse: «Sono Emelia, sono qui per vostra figlia». La

signora Delgado si asciugò le lacrime e la lasciò entrare.

Non era la prima volta che a Irene succedeva di fare questo tipo di sogni, strani sogni incui vedeva una ragazza a lei sconosciuta, ogni volta una ragazza diversa. E dopo alcunigiorni, settimane o anche mesi, scopriva dal telegiornale o dal quotidiano di Ciudad chequella ragazza non era frutto della sua immaginazione e purtroppo apprendeva ancheche la ragazza era stata trovata senza vita. La prima volta non aveva capito subito. Avevasognato una ragazza bellissima, coi capelli lunghi fino ai fianchi e nerissimi inginoc-chiata in un prato disseminato di fiori. Sorrideva e accarezzava i petali dei fiori intornoa lei finché ne colse uno, rosso, curiosamente scuro. Ne annusò il profumo e in un atti-mo i suoi occhi si spalancarono, la testa ricadde indietro e lei cadde distesa, sparendonell’erba alta. Al risveglio, Irene era disorientata. Ci mise giorni per scacciare via la ten-sione di quell’incubo, e quando l’aveva quasi dimenticata rivide il suo volto alla televi-sione. La ragazza del suo sogno era una giovane fioraia, Lilia Andrade, appena ritrovatasenza vita in un campo incolto.

Anche la vecchia Emelia faceva gli stessi sogni, gli stessi identici sogni di Irene. Dopo lavisita ai signori Delgado, lungo la strada del ritorno, ripensò a sua nipote Lilia. Lei erastata la prima, con lei era iniziato tutto. Ricordava la notte in cui si svegliò da quell’in-cubo in cui sua nipote annusava il profumo velenoso di un fiore. Ricordava lo spaventoquando si rese conto che Lilia non era nella sua camera, l’angoscia che intrappolò l’in-tera famiglia per due settimane, quando il corpo di Lilia fu ritrovato e la paura si tra-sformò in dolore e disperazione. Da allora la vecchia Emelia trascorse le sue notti inson-ni fabbricando candele, piccole candele bianche a forma di fiore. Era il suo lavoro dasempre, era stato il lavoro di sua madre, di sua nonna e adesso era anche il lavoro di suafiglia. Sua nipote invece aveva scelto un’altra strada, le piacevano la natura e l’aria aper-ta, era sempre allegra e diceva di non voler passare la vita a costruire piccoli punti diluce fioca che non può mai davvero sconfiggere la notte. Emelia ripeteva gli stessi gesticome in una cerimonia religiosa, per non pensare si concentrava sui dettagli, sulla con-sistenza della cera, sulla levigatezza delle forme, finché poco prima dell’alba si addor-mentava, sfinita. Si chiese spesso il perché di quella premonizione. Eccetto che per suanipote, tutte le ragazze che sognava le erano completamente sconosciute, riusciva a sape-re il loro nome soltanto dopo che venivano ritrovate e la loro foto veniva pubblicata sulgiornale del mattino.

Il giorno dopo, alla maquiladora, le ragazze parlavano di Silvia, cercavano di capire. Da

quando tutto era iniziato, centinaia di ragazze erano state rapite e uccise. Quando veni-

vano ritrovate si scopriva che avevano subito terribili violenze. I colpevoli di tutto que-

sto non erano mai stati individuati e la polizia non sembrava in grado di fare molto. Irene

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c’era stata dalla polizia, due anni prima. Quella volta aveva sognato di una ragazza che,

aggrappata ad una grande aquila dalla testa bianca, volava altissima urlando di gioia,

prima di precipitare nel vuoto, inghiottita dalle nuvole. Pensò che forse avrebbe potuto

fare qualcosa per lei, ma quando parlò alla polizia del suo sogno la cacciarono via in

malo modo. Il mese dopo le acque del lago di Rancheria restituirono il corpo di Elena

Morales, giovane assistente veterinaria. La ragazza dell’aquila nel sogno di Irene.

Emelia aveva capito il comportamento della polizia già dalla prima volta, un comporta-

mento che aveva aggiunto la rabbia al dolore che dovevano sopportare lei, i genitori di

Lilia e tutta la famiglia. Sapeva che non era da loro che sarebbe arrivato l’aiuto per sco-

prire chi aveva potuto fare tutte quelle cose terribili a sua nipote e alle altre ragazze.

Quando ritrovarono il corpo di Elena, riconobbe alla televisione il viso della madre, la

signora Morales. La conosceva, abitava non molto lontano e qualche volta era andata da

Emelia per comprare delle candele. Guardò la candela a forma di aquila che stava sulla

vecchia mensola di legno da un mese, dalla notte del sogno. Probabilmente la notte della

morte di Elena. La fissò e seppe cosa doveva fare. Prese la candela, indossò il suo scialle

e si incamminò verso casa Morales.

Cosa poteva fare Irene con le sue premonizioni inutili, se nemmeno la polizia aveva dav-

vero intenzione di scoprire la verità? Anche quando arrestavano qualche presunto col-

pevole, dopo un po’ di tempo si veniva a sapere che si trattava di qualche disperato che

non c’entrava niente e che era stato costretto a confessare sotto tortura. E gli operai più

anziani della maquiladora dicevano che dietro a tutto questo c’era addirittura la mala-

vita organizzata, quella che controllava il commercio della droga. Ciudad Juárez era una

città di confine, l’ultima città del Messico prima di entrare negli Stati Uniti. Irene non

riusciva però a capire il legame fra la droga e le ragazze uccise e non capiva perché le

autorità cercassero di far credere che la colpa fosse della vittima solo perché cammina-

va da sola. Lei era soltanto una ragazza, una ragazza con un dono terribile e inutile, non

poteva raccontare a nessuno ciò che vedeva, non poteva parlare con nessuno.

La vecchia Emelia invece decise che doveva parlare. Parlare e ascoltare. Raccontare la sua

storia, quella di sua nipote, e raccogliere quelle delle altre ragazze come lei, perché i loro

cari non restassero soli, perché tutto potesse un giorno avere fine. E così fece: una volta

a casa dei Morales condivise con loro il suo sogno, parlò dell’aquila e della gioia che

aveva sentito nella voce di Elena. Ascoltò i suoi genitori parlare di lei, di tutte le volte che

era tornata a casa in compagnia di qualche animale in difficoltà trovato per strada, di

come riusciva a sopportare i sapori piccanti molto più di suo padre e di quanto amava i

giorni di pioggia. I signori Morales parlarono tanto, rassicurati dal sorriso benevolo della

piccola signora che avevano di fronte e alla fine ricevettero in dono la piccola aquila di

cera. Emelia, nel consegnargliela, disse loro: «Ogni volta che, come è accaduto a vostra

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figlia, sentirete un vuoto d’aria, sentirete di essere soli e che nulla ha più un senso, accen-

dete questa candela e poggiatela sul davanzale della vostra finestra. La sua piccola luce

illuminerà il cammino delle persone in strada».

Da quel giorno Emelia ascoltò i racconti e lasciò in dono una candela a ognuna delle

famiglie delle ragazze che aveva sognato, perché la accendessero e la lasciassero fuori

dalle loro case quando la notte era troppo buia. Purtroppo riusciva ad arrivare a loro sol-

tanto dopo che i giornali avevano pubblicato la foto della ragazza, ma sapeva che il suo

lavoro non era inutile, che aveva uno scopo preciso e presto l’avrebbe scoperto.

Anche lei circondò la sua casa con i fiori di cera che aveva modellato, per accenderli

quando avesse sentito lo stesso profumo velenoso respirato da Lilia nel suo sogno.

Alcuni mesi dopo Irene e Emelia sognarono di nuovo e i loro sogni furono di nuovo iden-

tici, come sempre. Tutto era scuro, nero. Non riuscivano a vedere nulla, cercavano

entrambe di camminare, ma non sapevano dove si trovassero, non riuscivano a vedere

nemmeno i loro stessi piedi, o le mani. Per un attimo la scena si illuminò, come un sin-

golo fotogramma visibile in una pellicola tutta nera. Ed entrambe videro la testa di un

piccolo angelo, un angelo grigio, di pietra. Poi di nuovo il buio. Ancora nero… E silen-

zio. Sentivano i loro passi e ognuna sentiva i passi dell’altra. Ma non si conoscevano e in

quel momento nemmeno si vedevano, perciò entrambe erano molto spaventate. Quando

un altro piccolo bagliore di luce illuminò leggermente la scena, e si videro. Erano una di

fronte all’altra. Emelia vide che nelle sue mani c’era una piccola candela, rotonda e bian-

ca, accesa. La avvicinò al viso di Irene e la guardò. Si guardarono, entrambe stupite. Poi

tornò il nero e si risvegliarono.

Non era stato un sogno come gli altri, questo lo capirono subito. Di solito erano soltan-

to spettatrici, invece questa volta avevano interagito tra loro: non avevano soltanto visto,

avevano anche vissuto. Emelia si alzò dal letto e si mise a lavorare, non conosceva la

ragazza che aveva appena visto ma sapeva di dover modellare quella candela, e presto.

Irene restò sveglia, cercando di capire quale fosse il significato del sogno. Un piccolo

angelo grigio, di pietra… Dove l’aveva già visto? Irene si sforzò, si concentrò. E riuscì a

ricordare… La fontana degli angioletti! Si vestì in preda a una fortissima emozione e

corse in strada.

La vecchia Emelia, finita la candela, prese la brocca e uscì di casa a prendere l’acqua.

Andò, come tutti i giorni, alla fontana degli angioletti. Riempì la brocca e fece per torna-

re indietro, quando sentì dei passi veloci, i passi di qualcuno che correva. Si voltò e vide

Irene. La ragazza rallentò e si fermò di fronte alla vecchia. Si guardarono e si riconobbe-

ro. Emelia sorrise di gioia, con la dolcezza di sempre, per la prima volta non era troppo

tardi. Irene invece era molto preoccupata, aveva cominciato ad aver paura per se stessa.

Emelia vide quella paura e disse semplicemente: «Aspetta». Lasciò Irene a riprendere fiato

vicino alla fontana e tornò con la candela fra le mani. La porse alla ragazza, che la prese

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tra le mani giunte. La vecchia le accarezzò la guancia e disse: «Quando sentirai l’oscuri-

tà farsi troppo vicina, accendila. Non è solo una semplice candela. Non è la sola, non sei

sola. Quando verrà il momento ci saranno tante luci come questa accese per te, per

mostrarti la strada. Non sarai mai sola». Irene capì, fece un cenno di assenso con la testa.

Poi disse semplicemente: «Grazie…». Si voltò e si incamminò di nuovo verso casa.

Quella sera dovette lasciare la maquiladora più tardi del solito, c’era un ritardo nelle

consegne e alcuni furono costretti a fare delle ore di straordinario non previste. Fuori, ad

aspettarla, trovò il cielo arancione del tramonto, e si sentì un po’ sollevata. Si incammi-

nò verso casa cercando di affrettarsi per non sprecare gli ultimi minuti di luce, ma il

cielo si faceva velocemente più scuro e Irene si rese conto che non sarebbe riuscita ad

arrivare a casa prima del buio. In cielo già si cominciavano a vedere le stelle più lumi-

nose, mentre il sole era ormai uno spicchio rosso. Quando non ne rimase che un alone

violaceo circondato dal nero della notte, Irene non riuscì più a tenersi calma. Il cuore le

cominciò a battere forte e sentì l’oscurità, come una cappa che piano l’avvolgeva. Si

fermò. Estrasse dalla tasca la candela e un fiammifero. Lo accese strofinandolo contro la

suola della sua scarpa sinistra, lo avvicinò alla candela e la accese. Una luce gialla e fioca

le illuminò il viso. In quello stesso momento, la vecchia Emelia sentì il profumo veleno-

so che aveva portato via sua nipote Lilia, allora uscì in giardino e accese le sue candele.

La stessa cosa fecero i genitori di Silvia Delgado appena sentirono la musica stonata, così

come i signori Morales quando avvertirono uno strano vuoto d’aria. E lo stesso fecero

tutti coloro che avevano ricevuto una candela dalla vecchia Emelia. Tutti accesero le loro

candele e le poggiarono sui davanzali delle finestre, fuori ai balconi, sui tetti delle case.

E tutte quelle piccole luci, così fioche e tremolanti da sole, fecero insieme una luce come

d’alba che sta per arrivare, un’alba tremolante nella notte nera di Ciudad Juárez. Irene

sentì i nervi distendersi, il fiato prendere un ritmo regolare. Avvertì il soffio della brez-

za notturna sulla pelle delle braccia e riprese a camminare.

Analisi del testo

CHI, DOVE, QUANDO

– Chi è la protagonista del racconto? Quali sono gli altri personaggi?

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– Dove è ambientata la storia?

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– Dove lavora la protagonista?

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LA VICENDA

– Le due donne hanno una dote, quale?

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– Che cosa permette di vedere loro?

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– Per quale ragione la vecchia dona una candela alle famiglie delle giovani?

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L’ARGOMENTO

– A Ciudad Juárez le ragazze scompaiono. Cosa succede loro?

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– Qual è il comportamento della polizia del luogo?

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– A quali attività si sospetta siano collegate le sparizioni delle ragazze?

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Norma Andrade e Marisela Ortiz sono le donne chehanno ispirato il racconto che hai letto e rappresenta-no le Madri di Ciudad Juárez, in Messico, le cui giova-ni figlie sono state brutalmente assassinate. Dopo averlottato inutilmente per avere giustizia, Norma eMarisela nel 2001, assieme ad altri familiari di vittimee a numerosi sostenitori, fondarono l’associazione“Nuestras Hijas de Regreso a Casa” (NHRC - “Le nostre

figlie di ritorno a casa”). L’obiettivo è quello di sollecitare le autorità e il governo messicania cercare e punire i colpevoli per porre fine al “femminicidio”, la strage di giovani donne.

Norma Andrade, attualmente presidente dell’associazione, è una maestra ed è la madre diLilia Alejandra García Andrade, assassinata nel 2001 a 17 anni. Il suo corpo venne trovatodi fronte alla maquiladora dove lavorava. Come in tutti i casi, il ritrovamento fu casuale enon il risultato di un’indagine. Le violenze che subì prima di morire resero irriconoscibileil corpo e il volto.

Marisela Ortiz era stata professoressa di Lilia Alejandra durante la scuola media. Dopo aversaputo della scomparsa della ragazza, decise di sostenere la famiglia nella sua ricerca eprese una serie di iniziative per protestare contro i fatti e la disattenzione della polizia versoquesto e altri casi. Ciò suscitò l’interesse di altre famiglie colpite che decisero di unirsi a leie a Norma per ottenere giustizia attraverso azioni comuni. Marisela è stata minacciata dimorte e così la sua famiglia.

Norma e Marisela raccontano come è nata la loro associazione: «Noi famiglie che facciamoparte di questo movimento abbiamo trasformato in forza il nostro dolore, avendo dovutoaffrontare, dopo il brutale assassinio delle nostre figlie, l’inettitudine, l’intransigenza, l’oc-cultamento, la corruzione e il più indifferente atteggiamento di funzionari e autorità. Ci risulta difficile esprimere a parole il dolore straziante di sapere le nostre giovani figlieassassinate in modo orribile, è un dolore immenso che non si estingue, al pari delle lacrimeche non possiamo evitare ogni volta che pensiamo a loro, guardiamo le cose che lasciaronoo le loro foto.È così che abbiamo dato inizio alla nostra organizzazione: trasformando questa indignazio-ne, questo dolore, questo coraggio in una forza che ci ha permesso di sopportare tutte le dif-ficoltà e di poter affrontare i dipendenti corrotti e inefficaci, i funzionari complici e l’im-punità del potere politico ed economico, cercando, più in là di quella giustizia che nonabbiamo ottenuto, di ridurre le cause di tante morti assurde come quelle delle nostre figlie».

Ciudad Juárez: uccisioni impunite

Ciudad Juárez è una città nel nord del Messico, al confine con gli Stati Uniti, dove a parti-re dal 1993 più di 400 donne sono state uccise senza che le autorità siano state in grado diassicurare alla giustizia i colpevoli. Le donne sono state rapite, tenute prigioniere e sottopo-ste a ogni sorta di umiliazione, tortura e violenza sessuale. Di età compresa tra i 13 e i 22anni, le vittime provenivano tutte da famiglie povere e molte tra loro non erano originarie

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di Ciudad Juárez. Alla ricerca di migliori condizioni di vita, vi erano arrivate per lavorarecome operaie in una delle numerose fabbriche di prodotti di assemblaggio per l’esportazio-ne, le maquiladoras, per guadagnare pochi dollari al giorno per dieci ore di lavoro. Diversetestimonianze indicano che gli assassini sarebbero stati protetti prima dai poliziotti, poiavrebbero ricevuto appoggi dagli ambienti politici legati al traffico di droga. Il fatto che leautorità non siano riuscite a risolvere questi casi, ha portato a varie ipotesi riguardo ai col-pevoli. Si parla di trafficanti di droga, di imprenditori delle maquiladoras, di criminalitàorganizzata.Finora le autorità messicane hanno fatto decisamente poco per indagare in modo adeguatosu questi crimini, ricorrendo persino alla tortura per estorcere confessioni a persone estra-nee ai fatti, garantendo in questo modo ai veri responsabili di restare nell’ombra. Il lavorosvolto dalle organizzazioni per i diritti umani e dai parenti delle vittime per ottenere giu-stizia è stato spesso screditato, ma le continue denunce a livello nazionale e internazionalehanno obbligato la polizia e il governo a intraprendere qualche azione, comunque ancorainsufficiente, riguardo a questa situazione.

A. Disegna la cartina fisica del Messico. Quindi individua su un atlante Ciudad Juárez e le altre cittàprincipali e riportale sulla cartina che hai disegnato.

B. Il Messico è una terra che nel passato ha visto il fiorire di grandi civiltà. Svolgi una ricerca sugliantichi popoli che vivevano in questo Paese prima della colonizzazione spagnola.

La violenza contro le donne

La violenza contro le donne e le ragazze è una delle più gravi violazioni dei diritti umani.Secondo dati pubblicati nel 2000 dalle Nazioni Unite (ONU), almeno un quinto della popo-lazione mondiale femminile ha subito un abuso fisico o sessuale da parte di un uomo. È statostimato che nel mondo la violenza sulle donne causa morte e menomazione in quantità parial cancro ed è una causa di infermità più grave di malaria e incidenti d’auto messi assieme.La violenza contro le donne e le ragazze non conosce frontiere geografiche, limiti di età,distinzioni di classe, razza, differenze culturali e si manifesta in tanti modi diversi. Essa èfavorita dalle tradizioni, dalla discriminazione, dagli stereotipi di genere che ne costituisco-no le cause profonde. Mettere in atto la violenza serve per esercitare il potere e il predomi-nio sulle donne. Una delle forme più diffuse è la violenza domestica, quella che avviene in famiglia, luogo incui ogni essere umano dovrebbe sentirsi protetto e sicuro. Essa è diffusa in diverse formeanche in tutti gli Stati europei e a tutti i livelli della società. I rapporti indicano che la mag-gioranza degli atti violenti commessi contro le donne provengono da uomini che fannoparte della loro vita quotidiana: spesso si tratta del marito o del fidanzato o di un ex part-ner. Essa ha inizio, di solito, con intimidazioni, umiliazioni, minacce e poi si trasforma incomportamenti di abuso e coercizione1 come le sevizie2 fisiche, psicologiche o gli abusi ses-suali, fino ad arrivare a isolare la donna dalla sua famiglia di origine e dalle amicizie, acostringerla a non fare più nessuna scelta e al silenzio. Molto spesso la violenza domestica

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diventa anche un incubo economico, che consiste nel negare denaro per i bisogni di vitaquotidiana della donna e dei suoi figli. Questi comportamenti non possono essere conside-rati meno importanti, perché spesso la violenza fisica fa seguito a mesi o a anni di intimi-dazione e di dominio. Oltre ai danni fisici la violenza provoca ansia, disperazione, vergo-gna; distrugge la volontà delle donne e impedisce loro di reagire e chiedere aiuto. Il lorosilenzio e quello delle persone che sanno della violenza provocano la morte di tante donnee ragazze. La violenza domestica si inserisce in un contesto sociale che permette agli autoridella violenza di sentirsi in diritto di usare la violenza per il solo fatto che le vittime sonodonne.1 Coercizione: costringere con la violenza qualcuno a fare o a non fare qualcosa.2 Sevizia: atto di crudeltà, violenza fisica o psicologica.

A. Leggi le seguenti testimonianze di violenza sulle donne:

INGRID

Nel dicembre del 2003 il marito di Ingrid tornò a casa ubriaco e scoprì che la moglie e la figlia stavanofacendo visita a un vicino. Ordinò loro di tornare a casa subito. Poi disse alla figlia: «Ora io e mammaparleremo un po’». Prese un coltello e la scopa. Accusò la moglie di non aver fatto il bucato e di nonaver preparato la cena. Cominciò a picchiarla. La colpì alla testa con la scopa e con il coltello le tagliòuna ciocca di capelli, la prese a calci con gli stivali. Tutto questo mentre la figlia di otto anni lo suppli-cava di smettere. Smise e si buttò sul letto. Ingrid morì quella notte stessa.

MANUELA

Manuela cercava di scappare dal suo fidanzato che diventava sempre più violento. Trovò un apparta-mento in un’altra città, ma lui continuava a molestarla. Un giorno l’aspettò all’uscita dal lavoro e la portòin un parco lì vicino dove tentò di strangolarla. Il giorno dopo Manuela disse ai suoi colleghi che erapreoccupata e che il fidanzato prima o poi l’avrebbe uccisa. Dopo qualche giorno, il fidanzato le propo-se di andare da alcuni parenti, ma quando lei in macchina gli disse che non voleva vederlo più, lui preseuna cinghia di pelle e la strangolò.

YELENA

Yelena è sposata e ha tre figli. A volte il marito la prende a pugni e a calci e qualche tempo fa le ha rottouna bottiglia in testa. Yelena vorrebbe scappare, ma il marito minaccia di ucciderla se soltanto ci prova.I suoi figli sono piccoli e hanno bisogno di cure e lei è terrorizzata all’idea di abbandonarli. Un giorno èandata in ospedale con il naso rotto e un braccio fratturato. Ha detto che è caduta per le scale.

MJLROSE

Mjlrose aveva deciso di sposare Sugath, ma suo padre le disse che lui aveva già scelto il marito per lei.Mjlrose replicò che non avrebbe sposato mai un uomo che non conosceva e che avrebbe sposatoSugath. La sera successiva suo padre l’aspettò all’uscita dal lavoro e le deturpò il viso cospargendolodi acido solforico. Mjlrose avrebbe avuto bisogno di cure ma nessun medico la visitò. Mjlrose morìdopo un mese.

Ora, divisi in gruppo, discutete sui seguenti punti e sintetizzate in un breve testo le vostre idee.

• Cosa ne pensate dei fatti riportati nelle schede?

• Dove potrebbero essere accaduti?

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• Perché sono accaduti?

• Come avrebbero potuto difendersi le vittime?

• Cosa possono fare le vittime se hanno bisogno di aiuto?

• Come può essere prevenuta e fermata la violenza domestica?

Infine, ogni gruppo sceglie un compagno o una compagna che illustri al resto della classe ciòche è emerso dalla discussione.

B. Per ottenere maggiori informazioni sulla violenza domestica, anche nella vostra comunità,potreste invitare un rappresentante di un’organizzazione che difende i diritti delle donne nellacittà in cui vivete.

C. In gruppo, provate a realizzare un manifesto pubblicitario con il quale promuovere il rispettodelle donne.

Scuole sicure: un diritto per tutte le bambine e le ragazze!

La scuola è il luogo dove i minori, sia maschi che femmine, imparano e crescono. Tuttaviain molte parti del mondo bambine e ragazze devono fare i conti con la discriminazione econ la violenza, esercitata su di esse da compagni o da adulti. Di conseguenza vanno a scuo-la temendo per la loro incolumità, terrorizzate da trattamenti umilianti e violenti. Il risul-tato è che molte abbandonano la scuola o non partecipano pienamente alla vita scolastica.I loro diritti umani, il diritto di essere libere dalla violenza, il diritto all’uguaglianza eall’istruzione sono violati.Ogni giorno, molte di loro vengono assalite nel tragitto da casa a scuola, vengono spintona-te e picchiate all’interno delle strutture scolastiche, vengono derise e insultate dai loro com-pagni, umiliate e costrette a veder circolare sui cellulari o via Internet dicerie sul loro conto. Prese in giro e molestie verbali sono all’ordine del giorno nelle scuole. Le bambine e le ragaz-ze che sono troppo grasse o troppo magre, appartenenti a differenti gruppi etnici, disabili,meno femminili o in qualsiasi altro modo diverse da quello che la maggioranza consideranormale, possono essere particolarmente colpite da scherzi, nomignoli e atti di bullismo.L’istruzione è la chiave per fermare la violenza e la povertà. Bambine e ragazze istruite saran-no donne che partecipano alla vita sociale e politica dello Stato in cui vivono, contribuisconoallo sviluppo economico con il proprio lavoro e saranno capaci di prendersi migliore curadella propria salute e di quella dei propri figli. Ma la mancanza di sicurezza all’interno e fuoridalle scuole sta indebolendo i tentativi di rendere autonome le bambine e le ragazze perchépossano sfuggire alla violenza e possano lavorare per uscire dalla povertà. Inoltre la violenzaall’interno delle scuole fa pensare che la violenza contro le donne sia inevitabile e che il dirit-to all’istruzione per le bambine e le ragazze non sia affatto importante. Per fermare la violenza connessa all’ambiente scolastico è necessario combattere la discri-minazione all’interno delle scuole stesse e nell’ambito più ampio della comunità. Occorredare ascolto alle voci delle bambine e delle ragazze e prendere in considerazione le loroesperienze quotidiane e i loro bisogni. Per queste ragioni Amnesty International ha lancia-to l’azione “Scuole sicure: un diritto per tutte le bambine e le ragazze”, con la quale chiedealle autorità di governo e agli enti pubblici, tra cui le scuole, in collaborazione con tutti glialtri soggetti coinvolti, di intraprendere immediatamente azioni concrete per garantire idiritti delle bambine e delle ragazze.

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A. Queste sono le sei azioni che Amnesty International ritiene necessarie:

1. Proibire ogni forma di violenza contro le bambine e le ragazze

2. Rendere la scuola un ambiente sicuro per le bambine e le ragazze

3. Rispondere agli episodi di violenza contro le bambine e le ragazze

4. Fornire servizi di sostegno alle bambine e alle ragazze che hanno subito violenza

5. Rimuovere gli ostacoli per l’accesso delle bambine e delle ragazze alla scuola

6. Proteggere le bambine e le ragazze dalla violenza

Puoi approfondire i contenuti dell’azione visitando il sito www.amnesty.it. Dopo averne di-scusso in classe, potete proporre le vostre azioni per rendere una scuola sicura per le bambinee la ragazze, sintetizzandole in brevi frasi che riporterete su cartelloni che potrete arricchirecon delle immagini.

B. In gruppo, preparate una lista di domande per un’intervista alle donne della vostra famiglia(nonne, mamma, zie) per scoprire come siano cambiate nel tempo le condizioni di vita delledonne in Italia.

C. Ricercate immagini, fotografie, articoli e con i materiali raccolti ricostruite su dei cartelloni leprincipali conquiste dei diritti delle donne in Italia.

Il diritto all’istruzione

L’istruzione rappresenta il principale strumento che permette di spezzare il ciclo della povertà eche favorisce lo sviluppo economico e sociale. L’istruzione, quindi, è un diritto fondamentale ed è,allo stesso tempo, la strada necessaria da seguire per poter godere di altri diritti.

Il diritto all’istruzione è tutelato dall’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani.

Articolo 26 Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quantoriguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria[…]. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al raffor-zamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere lacomprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e devefavorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace.

A. Sapevi che l’istruzione è un diritto per tutti gli esseri umani?

B. Secondo te perché l’istruzione elementare deve essere gratuita e obbligatoria?

C. Discuti con i compagni e le compagne l’affermazione «L’istruzione deve essere indirizzata alpieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e dellelibertà fondamentali».

D. Con l’aiuto dell’insegnante, scopri quali sono le regioni della Terra in cui l’estrema povertà negail diritto all’istruzione.

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Il diritto all’istruzione è protetto anche dalle leggi nazionali. Per esempio, la nostra Costituzionetutela il diritto all’istruzione con l’art. 34:

Articolo 34 La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria egratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi piùalti degli studi […].

A. In Italia il diritto all’istruzione non è garantito a tutti. Scopri a chi è negato questo diritto eperché.

B. Assieme ai tuoi compagni e alle tue compagne, proponi una o più soluzioni perché tutti i mino-ri che vivono nel nostro Paese possano esercitare il loro diritto all’istruzione.

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IL CLOWN DELL’ANIMA

Mi chiamo Ingmar e sono un clown. Ho scelto di fare il clown perché mi piace vedere le

persone che guariscono e tornano ad essere felici. Ho scelto di fare il clown un giorno

qualsiasi, avevo sei anni e mio padre si presentò a casa con un naso rosso, rosso ciliegia da

clown. Io per tutta risposta me lo misi e cominciai a imitare proprio lui che guidava il suo

autobus e all’inizio ero allegro e sereno mentre alla fine ero arrabbiatissimo, sbuffavo e

urlavo contro immaginari automobilisti e pedoni distratti. Mio padre rise un sacco, mi

scompigliò i capelli e si sedette a tavola per cenare, con un gran sorriso sulle labbra. Io ero

contento ma, stranamente, mi sentii un po’ stanco. Da quel giorno non ho mai lasciato il

mio naso rosso ciliegia, lo portavo sempre in tasca, pronto a improvvisare i miei spettaco-

lini. Il mio pubblico all’inizio era composto solo dai miei genitori e dalla mia sorellina. Se

qualche volta veniva da me piagnucolando, perché si era sbucciata il ginocchio giocando

a palla, io tiravo fuori il naso rosso ciliegia e inscenavo uno scontro all’ultimo sangue con

la palla. Ovviamente avevo la peggio e mia sorella rideva, dimenticandosi il dolore. Allora

io mi toglievo il naso e me ne andavo zoppicando a far merenda in cucina.

Dopo qualche anno il mio pubblico divenne più vasto, comprendeva cugini, zii, nonni,

amici di famiglia, amici del quartiere, compagni di scuola e perfino le maestre. Se qual-

cuno era triste o due amici litigavano, io intervenivo, ovunque mi trovassi, durante l’in-

tervallo a scuola o in strada, mentre giocavo con gli altri nel cortile sotto casa. Una volta

il primo della classe prese un brutto voto e per tirarlo su andai alla cattedra e feci il mae-

stro burbero che interroga l’alunno asino. Interpretavo entrambe le parti, mi alzavo e mi

sedevo continuamente, facevo la voce grossa del maestro e lo sguardo supplichevole del

povero malcapitato. I miei compagni si godettero lo spettacolo seduti sui banchi con le

gambe a penzoloni; il primo della classe recuperò il sorriso e io me ne tornai a sedere tra

le risate, sentendomi in colpa per quel brutto voto non mio. Quando mi esibivo ero fede-

le a una sola regola: improvvisare. Non ripetevo mai la stessa scenetta, per un motivo

molto semplice: le mie rappresentazioni prendevano spunto dalla realtà, dalle disavven-

ture che capitavano alle persone intorno a me. All’inizio dovevo sapere cosa era succes-

so per costruire la mia storia, ascoltavo i racconti e facevo domande per capire meglio,

ma crescendo diventai un po’ più bravo e imparai a capire le cose importanti anche da

uno sguardo, da un broncio, da un gesto o da una lacrima.

Intanto crescevo, studiavo… E andavo a tutti gli spettacoli dei clown che passavano in

città, sognando di diventare un vero clown. Il giorno in cui questo avvenne faceva caldo,

il mio primo anno di liceo era finito da qualche giorno e io passeggiavo svogliatamente

per una delle strade del centro di Copenhagen col mio naso rosso ciliegia in tasca. La

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città si preparava ai festeggiamenti per la festa di San Hans, e nella piazza vidi un clown

che aveva allestito un piccolo stand e si preparava allo spettacolo della sera. Io mi misi

in disparte, seduto su un marciapiede, per vedere che faceva. I suoi esercizi mi sembra-

rono durissimi: più che un clown pareva un incrocio fra un monaco tibetano e un atle-

ta olimpionico. Si chiamava Schnier, era tedesco e quella sera il suo spettacolo fu mera-

viglioso, c’era una dolce malinconia dentro ogni suo gesto e ogni sorriso che provocava

nel pubblico nascondeva una piccola lacrima. Dopo lo spettacolo mi avvicinai a lui per

parlargli.

«Mi scusi, signor Schnier…»

Lui si voltò e mi guardò, senza dire una parola.

«Mi scusi tanto. Volevo… Volevo dirle che… Mi è piaciuto. Il suo spettacolo, mi è pia-

ciuto molto».

Continuò a guardarmi, in silenzio.

«E vorrei… Vorrei chiederle consiglio».

Mi fissava con un’aria molto seria.

«Io vorrei diventare… Un clown. Forse lei ha qualche consiglio per me».

Continuava a fissarmi, mi sentii un po’ in soggezione.

«Signor Schnier?»

«Vorresti diventare il mio apprendista?»

«Cosa?!?», esclamai. Non mi aspettavo certo una risposta del genere.

« Vorresti… diventare… il… mio… apprendista?», scandì bene. «È una domanda piut-

tosto chiara. Allora, sì o no?»

«…Sì!»

Lasciai la mia vita a Copenhagen, la famiglia e tutto il resto per fare l’apprendista clown.

Schnier era un uomo di pochissime parole, ma di grande cuore e di incredibile sensibi-

lità. Mi ha insegnato gli esercizi, le tecniche di recitazione, la disciplina, l’impegno e la

concentrazione che servono per far ridere la gente, ha capito e mi ha aiutato a perfezio-

nare il mio strano dono, quello di comprendere le persone guardandole negli occhi e

quando è venuto il momento mi ha spinto ad andare per la mia strada.

Così, dopo cinque anni di apprendistato con lui iniziai a lavorare da solo. I miei spetta-

coli erano piuttosto fuori dal comune. Entravo in scena vestito di tutto punto, col mio

fedele naso rosso ciliegia, e restavo in silenzio a guardare le persone del pubblico che, un

po’ sorprese, cercavano di capire cosa succedeva. Cercavo fra gli spettatori, nel loro

sguardo, e ne sceglievo uno, lo presentavo come l’ospite d’onore e lo invitavo a sedere nel

posto “riservatissimo”… uno sgabello ricoperto di carta stagnola. Prendevo un lungo

respiro, mi concentravo sulle emozioni, le tristezze e gli affanni che avevo appena rac-

colto e li trasformavo in uno spettacolo comico.

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Diventai piuttosto famoso, persino i giornali scrivevano della mia capacità di improvvi-

sare ogni volta uno spettacolo diverso, di non ripetermi mai, anche se nessuno capiva

quello che succedeva veramente, nemmeno l’ospite d’onore, che credeva soltanto di ride-

re e invece si liberava di tutto ciò che gli impediva di essere felice. Io, dopo lo spettacolo,

avevo sempre bisogno di restare da solo, al riparo da tutto e da tutti, per assorbire e sop-

portare i sentimenti che avevo portato via agli spettatori. Erano sempre diversi, quei sen-

timenti. Ho conosciuto migliaia di diverse forme di tristezza, rabbia, stanchezza o malin-

conia e da allora ho imparato a riconoscerle sempre meglio, a sentirle con più chiarez-

za e a scoprirle facilmente. La mia capacità di intuizione divenne acutissima, leggevo nel

cuore delle persone con una certa facilità e credevo che sarebbe stato così per sempre,

fino a che non ho incontrato di nuovo Schnier.

Si presentò alla fine di un mio spettacolo a Bonn e senza preamboli disse: «C’è bisogno

di te». Era ancora più serio del solito. Gli diedi appuntamento per il pomeriggio succes-

sivo, al teatro dove mi ero esibito, e lui venne con Luis. Mi disse soltanto che era cileno,

che era stato arrestato nel suo Paese dopo un colpo di stato del 1973 e che per alcuni

mesi era stato detenuto e sottoposto a tortura. Poi Schnier non disse più una parola e io

capii. Luis aveva i capelli ricci, le braccia magre e le labbra sempre serrate. Lo invitai a

salire sul palco con me e mi misi di fronte a lui, nella semioscurità del teatro chiuso, sotto

l’unica luce di un riflettore bianco. Guardai nei suoi occhi e vidi. Vidi il niente.

Restai sorpreso, non riuscivo a vedere, non riuscivo a sentire assolutamente nulla. In

compenso tutto quel vuoto mi aggredì e io indietreggiai barcollando, distolsi lo sguardo

e cercai di non perdere l’equilibrio. Mi voltai verso Schnier, seduto in prima fila, e da

come mi guardava mi resi conto che stavolta era diverso, che nel cuore di quell’uomo

c’era qualcosa di molto più difficile da comprendere e da sconfiggere. Cercai di farmi

forza e provai di nuovo, ma non ci riuscii. Non riuscivo a pensare, a concentrarmi, la mia

mente era… vuota. Non ricordavo nemmeno il mio nome, mi sentivo privo di forze. Scesi

dal palco e mi avvicinai a Schnier.

«Non posso», gli dissi.

«Sì, invece». Come sempre, le sue risposte erano imprevedibili.

«No, non ci riesco. Non vedo niente, non sento niente. È troppo difficile per me».

«Devi».

«Perché dovrei? Io sono solo un clown, il mio dovere è far ridere le persone, niente di

più!»

«Esatto. Niente di più. E Luis ha bisogno di ridere».

Non seppi cosa rispondere. Abbassai lo sguardo e uscii dal teatro, di corsa. Una volta

fuori continuai a correre, corsi per le strade di Bonn, corsi fino a sentire dolore al petto,

fino a che non sentii il bisogno di fermarmi. Ma non mi fermai. Pensai a Luis e al mio

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dono di guardare dentro le persone, che con lui non aveva funzionato, pensai che pote-

vo fermarmi, riprendere fiato e sdraiarmi per terra, ma non lo feci. Decisi di correre,

correre, correre, il mio corpo avrebbe trovato le forze per andare avanti e sarebbe diven-

tato più forte. Dovevo andare avanti, il mio dono e il mio successo non erano la meta, ma

la partenza, tutte quelle persone coi loro affanni quotidiani, tutte quelle risate e quegli

applausi, tutto il mio successo, erano soltanto una preparazione. Per anni mi ero prepa-

rato e infine era giunto il momento di affrontare il male vero, la bestia che abitava den-

tro Luis. Corsi per ore, fino al tramonto, e mi fermai soltanto quando le prime stelle

spuntarono, mi fermai solo quando seppi che il mio corpo avrebbe potuto correre per

sempre. Cercai un telefono pubblico e telefonai a Schnier: «Domani. Al Parco Rehinaue».

Il grande Parco Rehinaue stava al centro della città. Ci incontrammo lì tutti i giorni, per

due mesi, eravamo sempre e soltanto io, Luis e Schnier. Pranzavamo assieme, io e Schnier

facevamo i nostri esercizi per un’ora, dopodiché io e Luis ci mettevamo l’uno di fronte

all’altro e io provavo a guardare dentro i suoi occhi. Guardare negli occhi di Luis, riusci-

re a vedere cosa c’era scritto, fu per me come leggere dei caratteri chiarissimi scritti su

carta bianca. All’inizio non riesci a vedere nient’altro che il bianco della pagina, ti sem-

bra che non ci sia nulla da leggere. Ma poi, piano, ti accorgi che ci sono degli strani

riflessi e cominci a intravedere dei segni. Fissando quei segni imparai piano a distinguerli

finché non vidi che erano caratteri, che erano lettere, parole e intere frasi. E lessi nella

vita di Luis, nel cuore di Luis.

Quando ebbi compreso, venne il momento di liberarlo. Il momento dello spettacolo. Uno

spettacolo gratuito, aperto a tutti. In prima fila, sullo sgabello ricoperto di carta argen-

tata, Luis. Nessuno, a parte me, lui e Schnier, sapeva per quale motivo fossero lì, per tutti

quella era solo la mia prima esibizione dopo due mesi di silenzio e tutti si aspettavano

qualcosa di davvero spettacolare. Qualcosa di straordinario c’era davvero, in quello spet-

tacolo. Per la prima volta io e il mio maestro Schnier avremmo tentato una difficilissima

improvvisazione di coppia.

Le quinte si aprirono, e la musica di un’orchestrina sgangherata riempì la sala di alle-

gria. Io indossai il mio naso rosso ciliegia, feci un ultimo respiro e entrai in scena con

una serie di salti mortali e di ruote. Schnier entrò dal lato opposto, facendo esattamente

le mie stesse acrobazie. Dopo l’ultima piroetta atterrammo in piedi, l’orchestra fece un

enorme baccano e poi tacque. Silenzio. Guardai Luis negli occhi, lui guardò nei miei e

vidi che aveva ancora le labbra serrate.

Un lungo respiro e demmo inizio allo spettacolo più divertente della nostra carriera. Io

e Schnier eravamo perfetti insieme, una vera macchina da risate, le nostre acrobazie e le

nostre gag non erano mai state così mirabolanti. Dal pubblico si levavano a ogni nostro

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movimento risate fragorose e applausi, erano tutti entusiasti. Ma più il pubblico rideva

più io mi sentivo strano. Sentivo passare dentro di me tutto l’opposto delle emozioni che

le persone nel teatro provavano guardandoci. Più crescevano gli applausi più io sentivo

crescere dentro di me un enorme dolore, il dolore che Luis aveva provato, il dolore per

le botte ricevute, il dolore per le scosse elettriche, il dolore per le notti passate a dormi-

re in piedi. Tutti ridevano e io sentivo la paura, la paura che Luis aveva provato mentre,

con un cappuccio in testa, veniva portato chissà dove, e intanto voci sconosciute gli urla-

vano insulti nelle orecchie, la paura che aveva provato quando l’uomo che lo interroga-

va aveva pronunciato il nome di sua moglie, per fargli capire che loro sapevano.

Sapevano tutto. Mentre volteggiavo e correvo su e giù per il palco assieme a Schnier ero

quasi schiacciato dal senso di colpa di Luis, pensavo a sua figlia come se fosse la mia e mi

maledicevo, come può un padre perdonarsi di essere causa di sofferenza per sua figlia?

Ci fu un momento in cui credetti di non riuscire ad andare avanti, e per un attimo mi

fermai. Nella mia mente comparve un volto. E sentii un nome: Pablo Longueira. Ero io a

pronunciarlo, ma io ero Luis ed ero in una stanza piccola, col pavimento di cemento, io

ero su quel pavimento, nudo, pieno di lividi, il sapore del sangue nella bocca. Il mio per-

secutore mi guardava, ancora col manganello in mano, rideva e mi raccontava di mia

figlia, che strada faceva per tornare da scuola, come si era appena tagliata i capelli. Pablo

era mio amico. Ci conoscevamo da anni, avevamo studiato insieme e avevamo lottato

insieme. Pablo era mio amico e io lo avevo tradito. Lo avevo tradito, per salvare mia figlia,

nella speranza di poter salvare mia figlia, ma questo non mi impediva di sentirmi male,

di sentirmi un verme, uno sporco traditore. Io ero Luis, ero nudo, dolorante e disperato,

ed ero un assassino, la mia vita era rovinata per sempre, i miei aguzzini me lo ripeteva-

no, ridendo: «Anche se questo finirà, tu sarai distrutto per sempre».

Sentii uno strattone. Era Schnier, mi stava riportando alla realtà, mi stava riportando nel

teatro. Feci un giro su me stesso, cominciai a girare come una trottola rimbalzando da

una parte all’altra del palco, Schnier correva con la lingua di fuori cercando di sfuggire

alla mia forza distruttiva, ma non ci riuscì. Lo investii a tutta velocità, insieme capitom-

bolammo e rotolammo finendo magicamente uno sopra l’altro… in piedi. Schnier face-

va la verticale con le mani per terra e io stavo fermo, in equilibrio, i miei piedi poggiati

sui piedi del mio compagno, ondeggiando lentamente. Guardai Luis negli occhi, di

nuovo. Sentii la fatica di Schnier che mi reggeva, la fatica dei musicisti, persino la fatica

del pubblico per le tante risate. E sentii la fatica di Luis, la fatica di liberarsi per sempre.

Lo vidi aprire leggermente le labbra. E sorridere. Spiccai un salto, feci una capriola in

aria e atterrai in un inchino perfetto, il pubblico applaudì fortissimo e una lacrima mi

solcò il viso. Poi scoppiai a piangere.

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Luis è stato solo il primo. Ci sono molte persone come lui, in questo mondo, persone che

hanno subito cose terribili. Da quel giorno in cui corsi a perdifiato per le strade di Bonn,

la mia missione è donare loro un sorriso, leggere dentro i loro cuori incatenati, imbava-

gliati, seviziati, e liberarli. Mi esibisco raramente, prima di ogni spettacolo ho bisogno di

trascorrere interi mesi con le persone che cerco di liberare. È un lavoro lungo e diffici-

le, a volte è quasi impossibile sopportare i sentimenti che queste persone mi trasmettono

mentre cerco di liberarle. Ma non importa, tutto ciò che conta è che loro possano torna-

re a sperare e a vivere di nuovo. Tutto ciò che importa è fare il mio lavoro e fare buon

uso del mio dono: sono un semplice clown col naso rosso ciliegia e la mia missione è far

ridere le persone.

Analisi del testo

CHI, DOVE, QUANDO

– Chi è il protagonista del brano? Quali altri personaggi compaiono?

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– Dove è ambientata la storia?

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– Quando decide il protagonista di fare il clown?

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LA VICENDA

– Quale dono speciale ha il clown?

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– Quando incontra per la prima volta Luis, cosa legge nei suoi occhi?

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L’ARGOMENTO

– Qual è la missione del clown?

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– Durante lo spettacolo, il clown rivive la vita di Luis. Quali eventi ha vissuto?

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– Il clown aiuta Luis a liberarsi faticosamente da cosa?

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Il racconto con cui si apre questa unità, si ispira liberamente allastoria di Inge Genefke, neurologa in Danimarca, che ha fondato nel1985 il Consiglio Internazionale per la Riabilitazione delle Vittimedella Tortura (IRCT). Inge conosce, per averli studiati e averli vistiagire sui suoi pazienti, tutti i meccanismi distruttivi della torturasulle vittime. Curare le persone vittime di tortura è un compitostraordinariamente difficile. Il primo nemico da combattere è ilsilenzio. All’inizio del percorso di guarigione, le vittime non riesco-no a parlare delle violenze subite e quando cominciano a farlo laloro angoscia è grande perché vivono la paura di non essere capiti

e pensano che il medico non potrà aiutarli. «Non sapevamo nulla sulle conseguenze fisichee psicologiche della tortura», racconta Inge. «Le prime vittime che curammo erano rifugia-ti cileni e argentini. È stato grazie al racconto delle loro sofferenze che abbiamo comincia-to a capire. A parte i segni fisici, le unghie e i denti strappati, gli sfregi, le amputazioni,imparammo che c’è qualcosa di peggio: le conseguenze psicologiche. Profondissimi stati diansia, incubi ogni notte, insonnia, depressione, la memoria che non funziona più. Nonriuscivano a imparare nulla, avevano mal di testa costante. E poi, la vergogna. Scoprimmoquesta cosa incredibile: perché una vittima deve provare vergogna e senso di colpa? Eppureaccade a tutti i torturati. Oggi la chiamiamo “la colpa dei sopravvissuti”. Quando vieni tor-turato, prima o poi, ovviamente, cedi alla violenza. Minacciano di prendere, uccidere tuofiglio, tua moglie, tuo marito. È in quel momento che firmi qualsiasi cosa. Perché sei di fron-te a una scelta impossibile. E da quel momento, le vittime cominciano a chiedersi se nonavrebbero potuto essere più forti, tenere duro un altro giorno. Altri, poi, continuano a chie-dersi ossessivamente perché sono sopravvissuti mentre il loro amico è morto. Un esempioche aiuta a capire la complessità delle conseguenze che può scatenare la violenza è la sto-ria di due fratelli a cui i torturatori hanno ordinato di picchiarsi a vicenda. Uno dei due,però, picchiava meno dell’altro. L’hanno legato a una sedia e obbligato a guardare mentrelevavano gli occhi al fratello. Questa è la tortura. E non penso che si possa neppure imma-ginare cosa scateni dentro. Per questo credo sia un miracolo che ora possiamo aiutarli».Oggi – oltre a riabilitare gli ex-torturati – il Centro fondato da Inge Genefke lavora alla for-mazione degli operatori per la riabilitazione delle vittime di tortura nel mondo.

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Che cos’è la tortura?

Compiere torture significa infliggere volutamente dolore per punire le persone che si oppongonoa qualcosa, costringerle a fare qualcosa o ricavare da loro informazioni con la forza. Ancora oggila tortura continua ad essere usata in tutto il mondo. Secondo le organizzazioni non governativeche difendono i diritti umani, sono più di 120 gli Stati che la praticano. Molti Stati usano la tortu-ra contro individui – leader politici e religiosi, giudici, giornalisti, sindacalisti, educatori – così comecontro intere comunità, allo scopo di terrorizzarli e controllarli. La tortura fisica può includereatrocità come percosse alla testa e a tutto il corpo, bruciature sulla pelle con sigarette o altro,rottura delle braccia o delle gambe, soffocamento, shock elettrici, abusi sessuali. La tortura psico-logica può includere isolamento prolungato, guardare le torture di altri, confino in luoghi isolati,esecuzioni finte. Il torturatore tenta di spezzare la volontà e l’animo delle persone forzandole atradire i loro ideali, i loro principi o loro stesse.

Il diritto a non essere torturati è previsto nel documento fondamentale sui diritti umani, laDichiarazione universale dei diritti umani:

Articolo 5Nessuno individuo può essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inu-mane o degradanti.

Tale principio è stato ribadito dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura del 1984, checosì definisce tale pratica:

Articolo 1Ai fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il qualesono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al finesegnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punir-la per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, diintimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, oper qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore osofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agiscaa titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine nonsi estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a talisanzioni o da esse cagionate.

La Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989), invece, protegge leragazze e i ragazzi come te da qualunque forma di violenza fisica o mentale.

Articolo 19 Gli Stati devono adottare tutte le misure necessarie per proteggere il fanciullo da ogni forma diviolenza fisica o mentale, offesa, abuso, negligenza, maltrattamento o sfruttamento.

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A. Riassumi con parole tue che cos’è la tortura.

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B. Assieme ai compagni e alle compagne, prova a capire quali sono le ragioni per cui alcuni tor-turano. Scrivete su alcuni cartelloni le frasi che seguono e attaccateli alle pareti:

• Cosa sai o cosa gli altri pensano che tu sappia

• Chi sei

• In cosa credi

• Cosa hai fatto o cosa gli altri pensano che tu abbia fatto

Quindi leggi le storie che seguono e discutine con i compagni. Riferite poi ognuna di esse a unodei cartelloni con le frasi, spiegandone il perché.

STORIA 1 Un gruppo di persone si è organizzato per prendere parte a una manifestazione pacifica per ildiritto di praticare la propria religione. La polizia e alcune altre persone nella folla tentano di fer-marli colpendoli e aggredendoli. Il loro leader viene arrestato e torturato.

STORIA 2Un ragazzo, che vive sulla strada, ruba un pezzo di frutta da un banco del mercato. Il proprie-tario del banco afferra il ragazzo e lo colpisce. Lo chiude nel retro del suo furgone con le manilegate dietro la schiena da una corda e chiama un poliziotto, che anche lui colpisce il ragazzocon un bastone.

STORIA 3Alcuni soldati arrestano una giovane donna. Pensano che alcuni dei suoi amici abbiano parte-cipato a una protesta contro il governo. La bendano, la mettono da sola in una cella fredda e ledicono che le faranno del male se non dice loro i nomi di quegli amici.

STORIA 4Un gruppo di persone vive in un Paese, ma è venuto da un’altra parte del mondo perché sonorifugiati. Essi hanno una religione diversa e parlano una lingua diversa. Sono stati arrestati,insultati e presi a pugni dalla polizia. Non hanno fatto nulla di male.

C. Ora sai che la tortura è illegale e sbagliata e nessun individuo può esservi sottoposto.Ognuno di noi può fare qualcosa per fermare la tortura. Ecco alcune semplici attività che potre-sti realizzare assieme alla tua classe:

• fare un cartellone con su scritto “zona libera da tortura” e appenderlo alla porta della vostraaula;

• organizzare a scuola una mostra o un’altra iniziativa per spiegare agli altri cos’è la tortura;

• accendere una candela in memoria delle vittime di tortura;

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• scrivere lettere alle autorità per chiedere che la tortura sia proibita e che i responsabilisiano puniti;

• chiedere ai giornali o alle televisioni della vostra città di parlare dell’esistenza della tortura.

Il bullismo

A. Dividetevi in gruppi. Ogni gruppo dovrà riflettere sulla parola “bullismo” e realizzare un dise-gno che mostri un’azione di bullismo. Dopo aver attaccato i disegni sui muri della classe spie-gate cosa rappresenta il vostro disegno.

B. Ti sei mai chiesto cosa significhi essere vittima di un atto di bullismo? Come ti sentiresti in unasituazione del genere? Scrivi 1 o 2 parole che descrivano le tue emozioni. Condividi i tuoi pen-sieri con la classe e, tutti insieme poi, formate una frase con le parole che più avete utilizzatodopo averle riportate alla lavagna.

C. Secondo te ci sono differenze e/o somiglianze tra la tortura e il bullismo? Rifletti sulle seguen-ti affermazioni e discutine con il resto della classe.

«Torturare vuol dire creare sofferenza di proposito. Causa dolore e ferite al corpo e all’animo».

«Bullismo significa minacciare, insultare, picchiare qualcuno per umiliarlo. Può avvenire ascuola, nel gioco, al lavoro».

D. Prepara con i tuoi compagni due cartelloni con su scritto:

TORTURA È … BULL ISMO È …

Quando sono pronti, attaccateli in due angoli opposti della classe. Leggi ora le storie che ti ven-gono proposte e, a seconda se ritieni che esse trattino di bullismo o di tortura, siediti in unodei due angoli. Ognuno di voi potrà spiegare al resto della classe il perché della propria scelta.

STORIA 1Un uomo d’affari viene arrestato da un gruppo di uomini in borghese. Undici mesi dopo i suoifamiliari ricevono una comunicazione che l’uomo è stato giustiziato e che bisogna andare ariprendere il corpo. I parenti stanno ancora aspettando di conoscere le ragioni per cui al lorocaro sono stati spezzati i polsi e le gambe.

STORIA 2Un gruppo di amici hanno un nascondiglio segreto dove conservano giocattoli e giochi specia-li. Alcuni ragazzi della scuola vogliono scoprire dove sia il rifugio, costringono uno del gruppoad andare con loro e poi lo chiudono in un capannone. Gli dicono che non lo lasceranno anda-re fino a che non dirà loro dove è il nascondiglio.

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STORIA 3 Due ambientalisti, che si oppongono al diboscamento del territorio in cui vivono, vengonosequestrati e sottoposti a finte esecuzioni per costringerli a confessare reati di droga e posses-so di armi. Il loro avvocato riceve minacce e viene sequestrato due volte.

STORIA 4Un uomo è arrestato perché accusato di aver rubato una somma di denaro. Viene interrogatoin un sotterraneo per quattro ore insieme con il suo complice. Il giorno dopo ritorna a casa, mamuore quello stesso giorno per le percosse subite.

STORIA 5I genitori di una ragazza della scuola provengono da un altro Paese. La loro lingua, i vestiti cheindossano e il loro colore della pelle appaiono tutti diversi ai genitori degli altri. Un gruppo dibambini spesso prende in giro questa ragazza. Dicono cose crudeli sui suoi genitori e si pren-dono gioco di loro.

STORIA 6Un giornalista riceve documenti che provano il coinvolgimento del presidente del suo Paese inviolenze e intimidazioni contro la popolazione. Decide di passare il materiale alla televisione cheil giorno dopo ne dà notizia. Misteriosi aggressori si recano nell’ ufficio del giornalista, lo mal-menano, tentano di ucciderlo, incendiano l’ufficio.

STORIA 7Alcuni ragazzi stanno giocando a pallone nel cortile della scuola facendo un sacco di confusio-ne. Il pallone però finisce contro un vetro e lo rompe. Quando arriva l’insegnante, accusano unragazzo che non sta giocando con loro. Egli viene mandato dal preside e vengono convocati isuoi genitori. Gli altri ragazzi lo accusano di aver fatto i loro nomi al preside, lo circondano e lopicchiano.

E. Assieme ai tuoi compagni, discuti la seguente affermazione: «Tutti noi abbiamo la responsabili-tà di far sì che bullismo e tortura non si verifichino a casa, a scuola e in comunità».

F. Osserva questa storia illustrata. Immagina e disegna un finale diverso che trasformi l’episodiodi bullismo in un esempio di solidarietà.

G. Assieme ai tuoi compagni, scrivi una carta delle possibili azioni contro il bullismo che potreb-bero essere realizzate a scuola e che dovrebbero essere applicate dagli studenti, dai docenti eda tutto il personale che vi lavora.

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L’Olocausto

Per Olocausto si intende la persecuzione e l’uccisione sistematica, organizzata dallo Stato,di circa sei milioni di ebrei da parte del regime nazista e dei suoi collaboratori. Olocausto èun termine di origine greca che significa “sacrificio col fuoco”. I nazisti, saliti al potere inGermania nel gennaio 1933, credevano nella “superiorità della razza tedesca” e riteneva-no gli ebrei “vita indegna di vita”. Durante l’Olocausto, i nazisti perseguitarono anche altrigruppi per la loro presunta “inferiorità razziale”: zingari, portatori di handicap e alcunepopolazioni slave. Altre persone, invece, furono perseguitate sulla base delle loro idee poli-tiche, delle loro credenze religiose (ad es. i Testimoni di Geova) o dei loro comportamentisociali (ad es. gli omosessuali).

La Storia del Novecento ha purtroppo conosciuto innumerevoli atti di barbarie che hanno pro-vocato indicibili sofferenze fisiche e mentali volutamente inflitte a milioni di persone.Tra questi orrori la Shoah [in ebraico significa “catastrofe], perpetrata dai nazisti e dai loro alleati,durante la Seconda guerra mondiale, conserva la sua unicità storica per l’enormità delle cifre, perla sistematicità della strage e, infine, per il silenzio delle popolazioni di fronte a ciò che si stava con-sumando. Per queste ragioni lo sterminio degli ebrei resta un evento unico.

SCEGLIERE DI SCEGLIERE

Le testimonianze che ora leggerai sono esempi di comportamenti differenti che persone differenti hannoavuto di fronte alle atrocità dei nazisti.

1. Nel 1980 furono intervistati gli abitanti di Mathausen, in particolare quelli del vicino borgo di Hartheimdove nel 1939 fu costruito un forno crematorio in cui venivano bruciati i ritardati mentali, dopo aversubito torture. I testimoni ricordavano il fumo, la puzza, il continuo via vai di camion, i resti umaniabbandonati... Il direttore del campo incontrò gli abitanti del borgo che gli chiesero spiegazioni, avan-zandogli l’ipotesi che si trattasse di esseri umani bruciati. Lui disse loro che nel forno si bruciavanoscarpe e altri oggetti e che la puzza era dovuta a una particolare sostanza chimica. Disse anche che, sequalcuno avesse messo in giro quelle «assurde voci su esseri umani bruciati», quel qualcuno sarebbefinito in un campo di concentramento. Nessuno osò rompere il silenzio.

2. Nel rapporto che il comandante tedesco Jürgen Stroop, incaricato di reprimere la rivolta del ghetto diVarsavia, inviò ai suoi superiori nel 1943, si parla dell’ordine di distruggere tutti i caseggiati, dando lorofuoco e catturando con i cani gli ebrei che uscivano dagli edifici (tranne quelli che preferivano buttarsidai palazzi in fiamme) o che si nascondevano nelle fogne. La testimonianza di un sopravvissuto, Simha Rottem, racconta i combattimenti contro i tedeschi e lafame e la sete patite nel ghetto. Racconta anche di come riuscì a fuggire con un amico, grazie a un tun-nel segreto che portava nella parte “ariana” di Varsavia. Qui la vita scorreva normalmente, con i bar e iristoranti pieni di gente allegra, come se niente stesse succedendo.Gli ebrei resistettero circa un mese. Dopo aver riconquistato il ghetto, i tedeschi bruciarono tutto euccisero chi si ribellava, deportando gli altri. Molti si suicidarono prima di essere catturati. Solo alcuni,come Simha, riuscirono a fuggire grazie alle fogne o ai tunnel.

3. Rosenstrasse: è il nome della via di Berlino in cui nel 1943 furono rinchiusi centinaia di ebrei sposaticon donne o uomini tedeschi. Di fronte all’edificio, trasformato in prigione, i loro coniugi, soprattuttodonne, protestarono finché non riuscirono a ottenere la scarcerazione dei loro cari, o almeno dei so-

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pravvissuti. Una donna del gruppo, Charlotte Israel, ricorda come le donne non indietreggiarono difronte ai soldati che minacciavano di aprire il fuoco, urlando contro di loro «Assassini, assassini...». Ilgiorno dopo Joseph Goebbels fece liberare gli ebrei sposati con ariane, per evitare che qualcun altroiniziasse a protestare con lo stesso coraggio.

4. Marion Pritchard è la donna olandese che protesse una famiglia di ebrei per circa tre anni, al punto che,per salvarli, arrivò a uccidere un poliziotto nazista olandese.La sua testimonianza racconta come cominciò a interessarsi alla questione ebraica quando, da giova-ne studentessa di scienze sociali, assistette a una deportazione di bambini ebrei. Successivamente nonsi tirò indietro quando le fu chiesto di nascondere una famiglia di tre bambini con il loro padre; il piùpiccolo aveva solo una settimana di vita, gli altri due, 4 e 2 anni. Si trasferì con loro in una casa in cam-pagna, fuori Amsterdam. Creò un nascondiglio in salotto, dove i quattro avrebbero potuto nascondersiin 30 secondi. Durante una perquisizione fu costretta a uccidere un poliziotto olandese per evitare chescoprisse il nascondiglio segreto. Grazie all’aiuto del becchino locale riuscì a sbarazzarsi del cadavere(il becchino nascose il corpo in una bara dove c’era già un morto).

5. Gli abitanti della cittadina francese di Le Chambon sur Lignon nascosero centinaia di ebrei nelle lorocase prima e poi nelle campagne, rischiando la vita e conducendone molti in salvo nella vicina Svizzera.Si calcola che essi salvarono tra i 3.000 e i 5.000 ebrei. Il villaggio ha ricevuto l’onorificenza di “Giustotra le Nazioni” [onorificenza che si attribuisce ai non-ebrei che hanno agito in modo eroico a rischiodella propria vita per salvare la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista ].

A. Rintraccia nelle testimonianze che hai letto le persone che, pur rischiando la propria vita, hannoscelto di salvare tanti ebrei dalle sofferenze fisiche e mentali cui sarebbero andati incontro sequalcuno non si fosse preoccupato per loro.

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B. Quale ragione, secondo te, ha spinto tante persone a salvarne altre che, quasi sempre, nem-meno conoscevano?

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Pensi che queste persone siano: stupide eroi

Motiva la tua risposta.

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C. Ti è mai capitato di non essere d’accordo con un gruppo di tue amiche o amici e di voler espri-mere la tua idea? Come ti sei comportato? Hai cercato il dialogo o hai cercato di imporre conla forza il tuo punto di vista?

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