Storie di questo mondo Anno 2 numero 2

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Troppe storie sembrano storie dell’altro mondo, ma lo spazio in cui accadono è qui e ora. ANNO 2 - N° 2 - APRILE 2010 periodico di culture migranti e dell’accoglienza OLTREMARE Donne contro la tratta L’impegno in Africa di Suor Eugenia Bonetti PUNTO DI VISTA Se è la donna a migrare: come cambia la percezione delle migrazioni PROGETTI ASDI, la prima impresa sociale in Albania, la prima impresa gestita da donne INCONTRI Donne che cercano rifugio Tre storie dal C.A.R.A. di Gradisca Trimestrale del Consorzio Connecting People - reg. trib. di Trapani N° 323 del 17/07/2009 - distribuzione gratuita

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rivista edita dal Consorzio Connecting People

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Troppe storiesembrano storiedell’altro mondo,ma lo spazioin cui accadonoè qui e ora.

anno 2 - n° 2 - aPRILE 2010

periodico di culture migrantie dell’accoglienza

OLTREMAREDonne contro la trattaL’impegno in Africadi Suor Eugenia Bonetti

PUNTO DI VISTASe è la donna a migrare:come cambia la percezione delle migrazioni

PROGETTIASDI, la prima impresa socialein Albania, la prima impresagestita da donne

INCONTRIDonne che cercano rifugioTre storie dal C.A.R.A. di GradiscaTr

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Se hai una storia da raccontare, se vuoi segnalare progetti, idee o esperienze, se desideri indicare destinatari che vorresti ricevessero il nostro periodico, puoi inviare una email a: [email protected]

Editore/proprietàConsorzio Connecting People

Direttore responsabileGiorgio Gibertini

Coordinamento editorialeSerena Naldini

Progetto graficoGiancarlo Ortolani / Tribbù

Impaginazione e stampaStudio Tribbù di Coop. Soc. SciarabbaVia Dafnica 90, 95024 Acireale (CT)

In redazioneGigi Anataloni, Alessia Barbagallo,Giorgio Gibertini, Deborah Lonero,Giuseppe Lorenti, Serena Naldini,Blaise Ndamnsah, Mariangela Recchia,Susanna Rognini, Rosanna Rumore, Vito Luca Scozzari, Salvo Tomarchio

editoriale 1A partire da mia nonnadi Susanna Rognini

intervista 2Quando la donna è migrantedi Serena Naldini

oltremare 6Donne contro la tratta di Padre Gigi Anataloni

progetti 8La prima impresa sociale in Albania,la prima impresa gestita da donnedi Salvo Tomarchio

incontri 12Donne che cercano rifugiodi Blaise Ndamnsah

incontri 14Tessere storie. In bilico tra passato e futuro

di Serena Naldini

punto di vista 18Le migrazioni femminilidi Giuseppe Lorenti

news 22Notizie e curiositàda Restinco (Br), San Lupo (Bn), Borgo Mezzanone (Fg)

press 28Rassegna stampa di Connecting Peopledi Salvo Tomarchio

media connecting 29Recensione di “In nome della madre” di Erri de Luca di Serena Naldini

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“Mia nonna arrivò nella mia città, a fare la serva. Non era la prima volta che lasciava il suo paese sulle montagne. Era stata in Austria a servizio nelle case dei ricchi, poi era tornata per un breve periodo per contribuire nella bella stagione all’economia povera della sua famiglia. Ma quando arrivò nella mia città incontrò il nonno. Forse si innamorò, ma si-curamente questo fu il fatto che la convinse a rimanere nella città dove io sono nata. A casa sua tornava di tanto in tanto per non perdere quel filo tenue che la legava alla sua terra”.Questo è il racconto di una di noi, ma una storia simile potreb-be essere presente nella maggioranza delle famiglie italia-ne. Nei prossimi anni, per le nuove genera-zioni, potrà essere un racconto di moltissime famiglie dell’Europa dell’Est, dell’Africa, del Sud America o dell’Asia.A volte, potranno essere racconti più duri. Altre volte, anche molto più duri. Alle nostre nonne e a tutte le donne che sono partite

dalle loro case pensando di poter costruire una vita migliore per sé e per le loro fami-glie, vogliamo dedicare questo numero di Storie di questo mondo.Lo dedichiamo ai migranti meno visibili nelle cronache, ma non per questo meno presenti. A coloro che ci spaventano di meno perché meno collegati a problemi di “sicurezza” e che forse, per questo, possono sperare di inte-

grarsi più facilmente. A coloro che spesso sono più vulnerabili, ma non per questo più deboli, che pa-gano il prezzo mag-giore e quindi hanno bisogno di maggioricure e attenzioni.Lo dedichiamo a quel-la parte di umanità che, sia che passi uno o più confini, sia che

scelga di rimanere nel proprio paese, è chia-mata a percorrere una strada di revisione e discussione della propria identità personale e sociale per costruire il proprio progetto di vita. Lo dedichiamo a tutte le donne che incontriamo quotidianamente nei nostri ser-vizi. Di alcune di loro, vi raccontiamo la storia.

A partire da mia nonna

“Alle nostre nonnee a tutte le donne che sono partite

dalle loro case pensandodi poter costruire una vita migliore

per sé e per le loro famiglie,vogliamo dedicarequesto numero”

Susanna RogniniConsigliere amministrazione

Connecting People

Page 4: Storie di questo mondo Anno 2 numero 2

Quando la donna è migrante

Intervista a Elena Mezzetti, associazione Donne in Movimento

di Serena Naldini

La vostra associazione è impegnata dal 1997 in attività rivolte all’univer-

so dell’immigrazione femmini-le. Nel corso del tempo, quali cambiamenti ha rilevato nelle donne che aiuta, nel fenomeno migratorio in sé, nella capacità d’accoglienza dell’Italia?

Le donne immigrate rappresen-tano il 49% dei migranti, anche se sono più nascoste e silenziose. Stiamo cercando da sempre di raf-forzarne la voce. Quanto ai cam-biamenti, ce ne sono stati molti. All’inizio, le nostre socie immigrate erano in particolare donne profu-ghe con il desiderio di inserirsi nel tessuto socio-lavorativo italiano. Adesso, si rivolgono a noi soprat-tutto migranti in situazione di emarginazione e povertà: donne clandestine, donne giunte in Italia anche attraverso reti ai confini della legalità, donne che hanno appena perso il lavoro. Anche la paura correlata allo status di

irregolare spinge le donne in una situazione di marginalità.L’Italia è stata capace di grandi risposte nei confronti dei primi flussi migratori. Oggi, indubbia-mente - ne ho la conferma anche dal confronto con colleghi di altre città - le problematiche sono au-mentate. Un numero inferiore di famiglie è in grado di permettersi una colf o una badante perché il

contratto è diventato troppo caro e la capacità di risparmio è dimi-nuita; molti comuni hanno tagliato il sussidio ai nuclei familiari; sono aumentate concorrenza e paura da parte degli imprenditori; il mercato del lavoro nero - che rappresentava purtroppo l’unica possibilità per gran parte dei migranti - è in crisi. L’emergenza, l’emarginazione, le ripercussioni psicologiche sul

intervista

L’associazione Donne in Movimento (DIM) nasce nel ‘97 dal “Coordinamento cittadino delle donne immigrate e native”, impegna-to fin dagli anni ’80 nella città di Pisa in un articolato lavoro sul nuovo e complesso fenomeno dell’immigrazione femminile. L’associazione promuove iniziative e gesti-sce servizi diretti alle donne immigrate, in particolare coinvolte in scenari di margi-nalità; opera al recupero e reinserimento sociale delle persone vittime della tratta di esseri umani e sfruttate nel mercato della

prostituzione, del lavoro nero, dell’accat-tonaggio; si occupa di tre strutture d’acco-glienza e di uno sportello informativo per persone immigrate; gestisce un numero di reperibilità attivo 24 ore su 24, rivolto non solo a stranieri in situazioni di disagio, ma anche a istituzioni pubbliche e private che necessitino di consulenze.

Sede legale Via Possenti 24/a - 56123 Pisa

Tel. 050 503852 - 050 2201488

Reperibilità (24h) 340 7031986

L’associazione DIM

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singolo rendono più complesse anche le modalità dell’accoglienza, che vanno ripensate e reimpostate integrando interventi più mirati e specialistici, in grado di sostenere e accompagnare la persona mi-grante nella riorganizzazione del proprio progetto migratorio.

Quali sono le principali diffe-renze tra le domande di aiuto rispetto ai paesi di provenienza?

Le donne africane vivono si-tuazioni di disagio più marcato perché hanno la necessità del permesso di soggiorno, a dif-ferenza delle donne rumene o polacche. Ma la tipologia più rappresentata è la donna dell’est, non più giovane, che vive in Ita-lia da tempo e da poco è rimasta disoccupata. Questo è il target più numeroso e più bisognoso di aiuto e di sostegno.

Perché le donne migrano?Che cosa cercano in Italia?

La femminilizzazione delle migrazioni è un fenomeno tipicamente italiano. Il crollo del welfare nel nostro paese ha aperto la porta a molte donne attratte dal lavoro di assistenza e di cura. In tempi più recenti si assiste anche al fenomeno delle donne sole che lasciano i propri paesi per risollevarsi da situazio-ni di indigenza o per spezzare catene di alcolismo e violenza in famiglia. Le madri spesso lascia-no i propri figli ai genitori o altri parenti nel paese d’origine, intra-prendendo questo percorso mi-gratorio verso una vita migliore. Per le donne africane i bambini sono figli dell’intera comunità, quindi cercano una sistemazione

e un lavoro qua in Italia, per ga-rantire il benessere dei propri bambini nei paesi d’origine. Per le donne dell’est, invece, l’aspira-zione è stabilirsi per permettere in un secondo tempo ai propri figli di raggiungerle. In entrambi i casi, si tratta di una scelta a carattere fortemente emancipatorio. Magari tacita, tal-volta non ancora agita, esiste una sorta di rivendicazione di diritti che fonda il progetto migratorio. Nei paesi dell’est all’emancipa-zione lavorativa delle donne, non è seguito un affrancamento a livello culturale e civile. Per le donne africane, la stessa idea di lavoro femminile è emancipatoria rispetto ai parametri dei propri paesi: dall’infanzia, saltando ado-lescenza e gioventù, si diventa madri e mogli.

intervista

Elena Mezzetti

Presidente per 8 anni dell’associazio-ne DIM, Elena Mezzetti si è sempre interessata dei problemi femminili. Ha ricoperto la carica di presidente della Commissione provinciale Pari Opportunità e del Comitato d’ente del Comune di Pisa ed è stata membro della Commissione Pari Opportunità della Regione Toscana. Attualmente è coordinatrice dei progetti, promossi dalla Provincia di Pisa e dal Diparti-mento Pari Opportunità, finalizzati all’inserimento socio-lavorativo delle persone straniere vittime di tratta.

L’associazione Donne in movimento promuove iniziative e servizi rivolte alle donne migranti

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In genere, quindi, le donne mi-granti sono mosse anche da altro, oltre ciò che generalmente spinge un uomo a migrare. Cercano una vita migliore, più libera, meno sottoposta alla famiglia, all’uomo, alla cultura dominante. Questo aspetto si ritrova anche nelle donne africane, con più resistenze, problematiche e contraddizioni.

E trovano quello che cercano?

Spesso no. Cadono in reti di con-trabbandieri di esseri umani e il primo periodo in Italia serve loro per pagarsi il debito con questi personaggi. Per le donne africane è più difficile trovare lavoro ades-so. Sono diventate le penultime della lista, prima delle Rom. Capita

che le famiglie in cerca di aiuto do-mestico ci chiamino e ci chiedano esplicitamente: “Bianca o nera?” Prima non era così; erano tutte nere, le colf a Pisa. Ora che si può scegliere, viene scelto il bianco.

C’è anche qualcuna che trova quello che cerca, pur con grandi sofferenze e contraddizioni.Sostenere una donna migrante si-gnifica soprattutto aiutarla a dare un senso alle proprie azioni, a non scambiarle per altro, a essere più vicina a se stessa.

intervista

“Le donne migranticercano una vita

migliore, più libera,meno sottoposta

alla famiglia, all’uomo, alla cultura dominante”

Il fenomeno della tratta di esseri umani, pre-valentemente ai fini di sfruttamento sessua-le, interessa prevalentemente giovani donne provenienti in maggioranza dalla Nigeria e dai paesi dell’Est Europa. La prostituzione è un fenomeno difficile da monitorare, il nu-mero delle ragazze che vivono nella clande-stinità è complicato da stimare. A rendere il quadro ancora meno decifrabile la tendenza crescente a esercitare in casa, soprattutto nel caso delle ragazze dell’Europa dell’Est. Recen-temente sono stati individuati anche diversi casi che riguardano ragazze cinesi.

Stime sulla tratta

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Che cosa vuole dire? Ricostruire un progetto migrato-rio femminile è più complesso, soprattutto perché si fonda su componenti specifiche differenti da quelle tipiche maschili, quali la ricerca del lavoro e del so-stentamento per sé e la propria famiglia. Per questa ragione, il fallimento o l’interruzione del percorso è capace di mettere in crisi un’esistenza, generando disagi anche psicosomatici che per ragioni culturali sono difficil-mente ammissibili e affrontabili.

Nelle nostre strutture gran parte del lavoro è volto a creare una solida relazione di fiducia che consenta di dar voce anche ai bisogni più sommersi, ai desi-deri, al racconto delle proprie radici. Queste donne non hanno più come punto di riferimento le proprie comunità, nei confronti delle quali spesso si sentono in colpa per il proprio desiderio d’emancipazione. Anche per questo, quando la situazione precipita, l’impatto emotivo è molto forte.

Dalle sue parole, emergeche l’accoglienza è ancheun silenzioso lavoro di tipo culturale. Come affrontatequesto compito?

Dobbiamo formarci e aggior-narci continuamente. Avremmo deluso molte donne se non l’avessimo fatto. Di fronte a un fenomeno in evoluzione, nessu-no può pensare di contare su co-noscenze statiche. Un esempio? Una formazione interculturale è capace di evidenziare le lacune della nostra legge sulla violenza sulle donne, fondata su criteri inapplicabili per una donna afri-cana, come quello della consen-sualità. In molti paesi dell’Africa, infatti, la donna è abituata a tacere davanti all’uomo. Ciò non significa, però, che sia consen-ziente in caso di violenza. Come si immagina il futuro?

Temo un aggravamento. Sono i migranti i primi a essere ridotti in povertà dalla crisi. Spesso non hanno risorse per ricollocarsi sul mercato del lavoro e, vivendo ai margini, non incontrano servizi che possano suggerire loro so-luzioni e percorsi alternativi. Non ho mai visto così tante persone nelle mense e nei dormitori Caritas.

intervista

“Sostenere una donna migrante significa

soprattutto aiutarla a dare un senso

alle proprie azioni,a non scambiarleper altro, a essere

più vicina a se stessa”

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Quando si pensa alla tratta degli schiavi, comoda-mente la nostra mente

preferisce indugiare su scene del lontano passato, gli schiavi egiziani, la schiavitù ai tempi dei romani, la tratta dall’Africa uf-ficialmente abolita poco più di un secolo fa… Invece la schiavitù esiste ancora e prospera più che mai, e non solo in aree remote e arretrate, ma soprattutto nel nos-tro bel mondo civilizzato. Questa nuova schiavitù è così sofisticata che i nuovi schiavi non sono più rapiti con violenza in razzie o azioni di guerra, ma sono raggirati in modo tale da essere loro stessi a pagare fior di quattrini per di-ventare “schiavi”. Questo succede

a tante giovani donne (e uomini, bambini e bambine) del sud del mondo, che con le loro famiglie sono disposte a pagare migliaia di euro/dollari a insospettabili me-diatori/mediatrici, nuovi pifferai di Brema, in cambio della promessa di un posto di lavoro nel ricco nord del mondo, solo per finire vittime dello sfruttamento più abbietto e brutale della prostituzione. La buona stampa, politicamente cor-retta, attacca regolar-mente questi extracomunitari, im-migrati, clandestini che insozzano le nostre strade, mettono a rischio la nostra sicurezza e degradano i nostri costumi. Applaudiamo la

polizia quando di tanto in tanto qualche racket è smantellato e una ragazza è liberata e rispedita a casa sua, o ci commuoviamo quando una di queste viene tro-vata barbaramente uccisa. Salvo dimenticarci che questo traffico, questa schiavitù, si regge perché siamo noi stessi, i benpensanti,

ad alimentare questo mercimonio. Fortu-natamente ci sono anche persone ben decise a opporsi a questo opportunis-

tico stato di cose; tra queste, le suore. “La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale costituisce un problema di portata mondiale che coinvolge, sprona e

oltremare

“I nuovi schiavi non sono più rapiti con

violenza, ma vengono raggirati e truffati”

L’impegno di una suora in lotta contro le nuove forme di schiavitùdi Padre Gigi Anataloni, missionario della Consolata

Donne contro la trattaDonne contro la tratta

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stimola tutte le forze, laiche e religiose, a unirsi per individuare strategie adeguate.L’impegno, in questo campo, delle religiose italiane appartenenti alla Usmi (Unione superiore mag-giori d’Italia, che raccoglie 627 congregazioni femminili, in Italia e all’estero, e conta 83 mila membri) è cresciuto negli ultimi anni.Nel 2000 è stato creato un apposi-to ufficio «Tratta di donne e mi-nori», per coordinare il servizio di moltissime religiose - attualmente circa 250 in Italia che lavorano in 110 strutture - che avevano dato risposte immediate in questo set-tore. Infatti, le congregazioni religi-ose, insieme alle Caritas diocesane e a gruppi di volontariato, furono tra le prime a leggere il fenomeno negli anni ’90 e a offrire a queste donne, in buona parte albanesi e nigeriane, soluzioni alternative allo sfruttamento sessuale sulle strade. Le congregazioni hanno messo a disposizione di queste

giovani vittime, che si ribellavano contro gli sfruttatori, alcune delle loro strutture, per accoglierle e offrire protezione e aiuto per un nuovo progetto di vita”.Così scriveva nel 2008, in un arti-colo per la rivista Missioni Conso-lata, Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata im-pegnata nella lotta alla tratta dal 1993, e dal 2000 respon-sabile nazionale del settore «Tratta donne e minori» dell’Usmi, con il compito di coordinare il lavoro di altre religiose, organizzare incontri formativi e creare reti di collabora-zione con forze pubbliche e pri-vate. “Da parecchi anni - continua Suor Eugenia - l’Usmi lavora in collaborazione con alcune Con-ferenze delle religiose dei paesi di origine delle ragazze trafficate, specie in Nigeria, Romania, Alba-nia e Polonia, per rafforzare la rete già esistente in tutto il mondo,

cercando di informare del rischio, contrastare il fenomeno e gestire l’emergenza attuale.Diversi corsi di formazione pro-fessionale per religiose sono stati organizzati in questi paesi, in collaborazione con l’Uisg (Unione internazionale superiore maggiori), l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) e l’Icmc (Commissione internazio-nale delle migrazioni cattoliche). Nell’ottobre 2007 è stato orga-nizzato a Roma un importante convegno internazionale, a cui hanno partecipato 33 religiose provenienti da 26 paesi, con lo scopo di allargare la rete e la col-laborazione tra quelle che vivono nei paesi di origine e quelle che sono nei paesi di destinazione delle ragazze trafficate.Il ruolo delle religiose, in un am-bito così delicato, è quello di of-frire a tante giovani la possibilità

di essere aiutate a ritrovare la voglia di vivere e di ricomin-ciare anche un percorso spirituale e di fede più ap-

profondito, che le aiuti a liberarsi dalle catene dei pregiudizi e della superstizione”. In più l’azione coordinata delle suore mira a pre-venire la tratta in loco, nei paesi di origine, ostacolando in tutti i modi i trafficanti e sensibilizzando le comunità locali ai rischi nascosti in offerte di lavoro troppo allettanti.L’impresa non è semplice, ma le suore non demordono e la loro rete di protezione, aiuto e preven-zione si allarga sempre più.

oltremare

“La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento

sessuale è un problema di portata mondiale”

La missionaria suor Eugenia Bonetti con alcuni ospiti della struttura.

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Scutari nel 1999 è un grosso centro della parte nord-occidentale dell’Albania.

Dopo la caduta del regime degli anni novanta, in città, come nel resto del paese, è un periodo di grandi cambiamenti. Nel 1999 la rete dei servizi sociali in Albania è quasi all’anno zero. Non esistono strutture funzionali e organizzate sul territorio, i bisogni della po-polazione crescono di giorno in giorno, è forte la richiesta di figure professionali nell’ambito socio sa-nitario che operino sul territorio. Il

1999 è l’anno in cui circa 600.000 profughi kossovari bussano alle porte dell’Albania per sfuggire ai massacri, alla pulizia etnica dell’esercito di Mi-losevic. Bambini, vecchi, famiglie spezzate, donne. E proprio dalle donne emerge forte la volontà di ripartire, ricostruire, creare accoglienza, calore, ascolto. Pre-ceduto da uno studio del Celim di Milano, 18 persone, in forte

maggioranza donne, seguono un corso di formazione nell’ambito socio - sanitario. Il primo passo è stato compiuto: circa un anno dopo, nell’aprile 2001, nasce l’ASDI (assistenza domiciliare e negli isti-tuti tutelari). A darci la dimensione dell’impresa bastano due “detta-gli”: è la prima impresa sociale di questo tipo in tutta l’Albania; è il primo progetto imprenditoriale gestito da sole donne. Essere donne in Albania non è una pas-seggiata. Emarginate, sottomesse, chiuse in casa. Nel 1999, e in parte ancora oggi, era questa la realtà di buona parte delle donne in Alba-nia, soprattutto nei villaggi e nelle zone rurali. Basterebbe questo a

fare dell’ASDI un progetto esem-plare, una prova di forza, tenacia e determinazione che viene dalle donne albanesi

e che si rivolge ai più deboli, agli esclusi, ai dimenticati, con il calo-re, la concretezza e la sensibilità che solo una donna può dare. Con il supporto del progetto “Bottega”

progetti

La prima impresa sociale in Albania,la prima impresa gestita da donne

L’ASDI, Assistenza domiciliare e negli istituti tutelari, un progetto della coop. sociale “Il Melograno” di Pisa

di Salvo Tomarchio

“Proprio dalle donneemerge forte la volontàdi ripartire, ricostruire,

creare accoglienza,calore, ascolto”

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della Cooperativa Sociale Il Melo-grano di Pisa, ASDI ha preso il via e ancora oggi offre i propri servizi alle persone con problemi fisici, psichici e sociali quali: handicap mentali e fisici, anziani autonomi e non autosufficienti, malati e famiglie con problemi sociali. Il servizio spesso viene offerto a domicilio, in modo da permettere alla persona di vivere nel proprio

contesto familiare. Nei casi in cui quest’ultimo sia problematico o assente si offre assistenza presso il centro residenziale dell’ ASDI con lo scopo di offrire il servizio 24 ore su 24 e ricreare un contesto simile a quello familiare. Agli ospiti del centro viene garantito un suppor-to medico costante, il vitto e l’al-loggio. L’intervento dell’ASDI non si esaurisce nell’ambito sanitario ma comprende anche una serie di azioni nell’ambito socio educativo,

per favorire la creazione di rappor-ti sociali e il reinserimento lavora-tivo e sociale nella città di Scutari. In collaborazione con gruppi di vo-lontari vengono organizzate varie attività nella periferia di Scutari con persone arrivate dalle zone rurali: attività di animazione e educazio-ne per bambini, educazione sanita-ria e all’igiene personale, sostegno scolastico e alfabetizzazione. Negli anni la presenza dell’ASDI sul terri-torio di Scutari è stata dunque un catalizzatore anche per altri attori

pubblici e privati, nazionali e inter-nazionali. Fondamentale il suppor-to finanziario e logistico del Celim di Milano e della Cooperativa “Il Melograno” di Pisa, quest’ultima, con diversi progetti, ha sostenuto la programmazione in ambito socio-sanitario, delle politiche at-tive del lavoro e delle politiche di genere. Sempre attivo il sostegno della Caritas diocesana di Scutari che fornisce supporto logistico e collaborazione sin dall’inizio del progetto e contribuisce all’analisi e all’individuazione delle aree di bisogno sul territorio.Assistenza domiciliare, infermieri-stica, medica e fisioterapica.Assistenza residenziale h24, inter-venti educativi a sostegno del disa-gio sociale. Sostegno, cura, ascolto.Scutari 1999-2010.L’eccellenza si chiama ASDI; ecco cosa succede quando un gruppo di donne decidono che è il momento di cambiare le cose.

progetti

La cooperativaIl MelogranoLa Cooperativa Sociale Il me-lograno nasce a Pisa nel 1993 promossa dalla Caritas Dioce-sana e dal Centro di Solidarietà al fine di favorire percorsi di inclusione sociale e lavorativa per persone in disagio sociale e svantaggiate rispetto al mondo del lavoro. Negli anni ha svolto più di 150 percorsi

di inserimento lavorativo per portatori di handicap, minori in stato di abbandono, tos-sicodipendenti e persone con problemi psichici; si è occupata di inserire al lavoro anche per-sone con svantaggio sociale. La cooperativa offre anche servizi di orientamento al lavoro e tutoraggio in azienda

di persone svantaggiate. Dal 1999 si è impegnata nella co-operazione internazionale in Albania promuovendo il pro-getto Bottega.

“L’intervento dell’ASDInon si esaurisce

in ambito sanitarioma comprende ancheazioni in ambito socio

educativo”

tel fax +39 050 [email protected]

per infohttp://bottega.coopilmelograno.org/

Alcuni ospiti e assistenti della casa famiglia di Scutari

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Page 12: Storie di questo mondo Anno 2 numero 2

Prima impresa sociale in Albania, prima impresa gestita principalmente

da donne. Quali sono state le dif-ficoltà più grandi da superare?

Sono state tante. 10 anni fa, la men-talità e il livello culturale della so-cietà albanese erano molto diverse rispetto a oggi. Sin da subito mi sono trovata davanti a tante cose che non conoscevo: la tipologia del lavoro, la parte gestionale di un’im-presa, per di più sociale. La figura dell’assistente sociale non esisteva in Albania e l’assistenza domiciliare era una cosa nuova. Essere una donna che gestiva un’impresa unica come era ASDI spesso ha generato perplessità, molte persone mi facevano tante domande e non credevano che l’impresa potesse andare avanti e avere successo. Per le istituzioni, l’impresa sociale e il terzo settore erano concetti sconosciuti e non esisteva un servizio sociale diverso da quello che lo stato offriva alle persone in difficoltà che si riduce-va nel semplice aiuto economico. Anche per questo è stato molto difficile creare un dialogo.

Cosa le ha insegnato questa esperienza? Guardandosi indietro riesce a cogliere un’evo-luzione nel suo rapporto con il mondo del lavoro e con la figura dell’imprenditore?

La gestione dell’ASDI è la mia espe-rienza più bella. Sono cresciuta a livello professionale, ma la cosa più importante è aver vinto una sfida, aver affermato che quando credi nelle cose, quando hai il co-raggio di rialzarti dopo una cadu-ta, non importa in quale paese e in quale società vivi, l’importante è guardare avanti. Spero che il mio esempio aiuti altre donne a pren-dere iniziative simili.

Ha mai avuto il dubbio che stesse sacrificando la sua parte femminile per imporsi in un mondo prettamente maschile?

Io non ho mai imitato gli uomini, nemmeno nelle difficoltà. Ho solo creduto nel mio coraggio, in me stessa e nelle mie capacità. Non mi sono sentita mai inferiore a nessu-no per il fatto che sono una donna.

In Albania c’è stata dunque un’evoluzione della condizione della donna?

Negli ultimi anni la società albane-se ha subito un’ evoluzione e con questa anche la condizione della donna. Oggi la situazione cambia di città in città o rispetto alle zone rurali e alle periferie. Ci sono ancora le donne che su-biscono violenza dai mariti, che non possono seguire gli studi o uscire con le amiche. Ma abbiamo anche tante donne lavoratrici e im-prenditrici, sempre più qualificate

progetti

La parola ad Alma KurtiPresidente di ASDI

e prima imprenditrice in Albania

di Salvo Tomarchio

Alma Kurti, presidente di ASDI

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progetti

professionalmente. È chiaro che per arrivare a questo una donna deve ancora faticare molto più di un uomo. Nel nostro parlamen-to ad esempio la percentuale di donne è molto bassa, arriva solo all’8%. C’è tanta strada da fare per arrivare ad una parità e a mio pare-re questa spinta deve continuare a venire dalle donne. Nessuno regala i diritti, bisogna conquistarseli.

Delle tante storie che avrà vissuto, qual è quella che più le è rimasta nel cuore?

Sono tante le cose belle che ho vissuto lavorando nel sociale, ma i momenti migliori sono quando ti accorgi che riesci a trasmettere il rispetto e la sicurezza alle persone abbandonate. Da quando lavoro nel sociale vedo le cose da un altro punto di vista: il contatto con le persone mi aiuta a leggere meglio la situazione socio-economica del territorio e mi insegna sempre tanto sulle relazioni tra persone.

Quando vedo che con il mio lavoro ho contribuito a migliorare la con-dizione di qualcuno, allora raggiun-go il massimo della soddisfazione.

E cosa invece l’ha colpita negativamente?

L’indifferenza della società per le persone svantaggiate.

Quali sono i servizi di ASDI che attualmente sono più richiesti?

Ci sono molti anziani abbandonati a causa della forte emigrazione giovanile in Albania. Li sosteniamo nelle attività quotidiane. Puntiamo a seguirli a domicilio per provare ad aumentare la loro autonomia e per farli sentire protetti nel loro ambien-te familiare. Finora abbiamo seguito circa 720 persone a domicilio. Negli ultimi anni sono aumentate anche le richieste per la nostra casa famiglia che ha ospitato fino a un totale di 45 persone e che stiamo progettando di sviluppare ulteriormente.

Altri progetti per il futuro?

Oltre all’apertura di una nuova casa famiglia, stiamo preparando dei corsi di formazione per assi-stenti domiciliari per supportare anche altre organizzazioni che operano nel sociale nel territorio. Con il sostegno del progetto “Bot-tega” della cooperativa Il Melogra-no, ASDI è migliorata anche dal punto di vista gestionale.Puntiamo ad essere completa-mente autonomi, anche se la legislazione, le strategie e gli inter-venti per le persone svantaggiate da parte delle istituzioni per il momento sono esclusivamente di natura economica.ASDI è ormai conosciuta dalla gente, dalle istituzioni e dai privati. Il nostro lavoro sul territorio è stato un esempio anche per il ministero degli Affari Sociali che si è interes-sato alla forma giuridica che ha assunto ASDI e alla tipologia dei nostri servizi.

In definitiva, c’è un consiglio che vuol dare alle giovani donne che vogliono imitare questo percorso?

Di non sentirsi “diverse” per il fatto di essere donne, ma di essere anzi fiere, perché una donna ha le ca-pacità per fare gli stessi percorsi professionali e lavorativi di un uomo, può essere forte allo stesso modo e sa affrontare anche meglio le difficoltà. Le donne devono avere più fiducia in se stesse, non devono mollare mai.

Attività di avviamento al lavoro sostenute dal Progetto Bottega della Coop. Soc. Il Melograno

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Fuggono da guerre, da cattive condizioni climati-che, da povertà e miseria,

da violenza e discriminazione in cerca di condizioni di vita migliori per sé e per i propri familiari. Il numero di donne richiedenti asilo politico e rifugiate sta aumentando in Friuli Venezia Giulia - e in Italia, in generale - a causa del perdurare di crisi politiche, culturali e socio-economiche in molti paesi africani

e asiatici. Abituate in patria al ruolo

di capofamiglia e ad allevare i figli in condizioni difficili, lavorando senza alcuna tutela in un’economia di sussistenza, queste donne scel-gono di migrare in occidente, dove

sperano di trovare delle opportunità per una vita di-gnitosa. Per tante donne somale, eritree, sudanesi ed etiopi - che hanno conosciuto

la barbarie delle guerre perenni - il viaggio, in Libia prima e in Italia poi, rappresenta l’unica via di fuga. Molte arrivano con un figlio in grembo, consapevoli di aver rischiato di perderlo, ma è troppo grande la loro disperazione. Niente sembra poter fermare questo esodo, questo viaggio della speranza, che si svolge in condizioni durissime su barche di fortuna. Anche le storie

di Mispa, Bhuti e Alga - ospiti presso il Centro d’accoglienza

per richiedenti asilo di Gra-disca d’Isonzo - si possono

inquadrare in questo contesto generale.

Mispa Ngo Bakal è una giovane africana della Guinea Conakry, madre di un bambino di due anni. È fuggita dal proprio paese lascian-dosi alle spalle un marito del quale da tempo non ha più notizie. Prima di rimanere incinta, Mispa era una studentessa. La gravidanza l’ha costretta ad abbandonare gli studi per iniziare a lavorare come parruc-

chiera. Mispa spera di ritrovare il marito e di dare una buona educa-zione a suo figlio. E per sé che cosa desidera? “Quando ero giovane”, dice, “sognavo di diventare una pe-driatra, ma poi la vita ha deciso per me. Ormai i miei sogni si sono ridi-mensionati. Adesso, mi basterebbe diventare un’ostetrica”. Mispa è ospite del centro di Gradisca dal 14 dicembre scorso ed è tuttora in attesa della risposta per la sua do-manda di protezione da parte della commissione territoriale di Gorizia.

incontri

Donne che cercano rifugioIncontriamo tre ospiti al CARA di Gradisca

di Ndamnsah Blaise Nkfunkoh

“Molte arrivano con un figlio in grembo, consapevoli di aver

rischiato di perderlo, ma è troppo grande la loro

disperazione” “Quando ero giovane sognavo di diventare una

pedriatra, ma poi la vita ha deciso per me”

Mispa è una ragazza della Guinea Conakry, fuggita dal suo paese senza il marito

NELLA PAGINA A FIANCODolma Bhuti, tibetana, ospite del Centro dal 26 Settembre

IN BASSOAlga e il suo bambino, fuggiti dall’Eritrea

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Dolma Bhuti è una giovane attivi-sta del Tibet, fuggita dalla propria terra a causa della repressione del governo cinese. Dato che il Tibet non è uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale, Bhuti viene etichettata come “cinese”. Questo aspetto è per Bhuti il cruccio più grande: non essere riconosciuta come tibetana. “Il mio sogno più grande è sposarmi con un connazionale”, dichiara. “Qui può sembrare folle, ma ho chiesto ai miei genitori che cercassero per me un uomo della mia terra. Ci stanno lavorando, spero davvero che lo trovino presto”. Bhuti spera di lavorare come istruttrice di yoga tibetano in Italia e, un giorno, di poter tornare in Tibet a insegnare l’italiano. Dolma Bhuti è ospite del centro dal 26 settembre scorso. Ha ottenuto lo status di rifugiato e ha lasciato il centro il 2 aprile per essere accolta e inserita nel pro-getto del circuito SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo politico e rifiugiati) di Ascoli Piceno.

Alga è una giovane ragazza eritrea. Scappata dal proprio paese, si è dapprima rifugiata in Sudan con il marito dopo due settimane di viag-gio a piedi. Presto, però, il conflitto in atto l’ha costretta nuovamente alla fuga. Rimasta sola, ha scoperto di essere incinta. In Libia si è imbar-cata su un mezzo di fortuna alla volta dell’Italia.

Alga adesso ha un bambino che vive con lei nel centro di Gradisca d’Isonzo. Alga vorrebbe studiare per diventare ostetrica. “Quanto è difficile allevare un figlio da sola. Vorrei avere mio marito qui con me, tutto sarebbe più facile con lui”, dice. “Sogno il giorno in cui lo ritro-verò e potrà conoscere il nostro bambino. Non sa neanche di avere

un figlio”. Alga, ospite del centro di Gradisca dal 09/10/2009, ha già ottenuto lo status di rifugiato ed è in attesa di un posto per donna sola con figli presso un progetto del circuito SPRAR.

Mispa, Bhuti e Alga sono solo alcune fra le donne che ricevono protezione in Italia grazie allo status di rifugiate politiche. Sono donne molto vulnerabili, strap-pate ai loro affetti, alle loro terre, talvolta con figli a seguito, che cercano caparbiamente di dare un senso a ciò che rimane della loro esistenza così martoriata. Il riconoscimento del loro status di rifugiate politiche è una tutela, ma non è sufficiente. Anche per evitare che finiscano in giri crimi-nali di sfruttamento, è necessario sostenerle nel processo di integra-zione, favorire il ricongiungimento familiare e accompagnarle nella costruzione delle condizioni per quella vita dignitosa in nome della quale hanno rischiato tutto.

incontri

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“Sogno il giornoin cui lo ritroveròe potrà conoscereil nostro bambino.Non sa neanche

di avere un figlio”

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“Le donne, qui al centro, arrivano anche da sole con i propri figli, per-

ché le famiglie spesso non hanno la possibilità economica per emigrare in toto e si preferisce salvaguardare la vita di donne e bambini” dichiara Giorgia Savoja, direttrice del centro di accoglienza per richiedenti asilo di Gradisca d’Isonzo. “Una volta ottenuta la protezione, si può pro-cedere a un ricongiungimento”.L’ultimo ricongiungimento curato dal Cara è avvenuto a gennaio e riguarda una famiglia afgana di nove persone. Partiti in otto (padre, madre, cinque figli e fratello della madre) dall’Afghanistan, in Grecia si separano: lo zio con i nipoti più

grandi resta in Grecia, mentre mo-glie, marito e i tre bambini più pic-coli proseguono per l’Italia. “Date le condizioni di salute della coppia, abbiamo richiesto alla commissio-ne Dublino che il caso fosse esami-nato in Italia e non in Grecia, come di prassi”, spiega Giorgia. Nel luglio del 2009 la domanda d’asilo viene accolta. Sei mesi dopo l’ottenimen-to dello status di rifugiati politici, la famiglia si ricongiunge. Adesso sono tutti a Riace, vicino a Crotone. Giorgia sorride.“E sono in nove. A settembre, qui al Cara, è nato un altro bambino”.Non tutte le storie, però, hanno una rapida soluzione o un lieto fine.Tra le donne che giungono da sole

al centro di Gradisca, alcune ra-gazze, senza esserne consapevoli, stanno andando incontro a un de-stino pieno di ombre. Il fenomeno riguarda specialmente ragazze nigeriane sotto i 25 anni, spesso primogenite di nuclei familiari po-veri e numerosi. Un’organizzazione le contatta e promette loro un lavoro in occi-dente, un futuro per sé e per la propria famiglia. Una volta in Italia, scoprono che innanzitutto devono restituire il denaro investito su di loro dall’organizzazione. E che per farlo l’unica strada è prostituirsi. “Cifre altissime, di fantasia... 60-100 mila euro”, ci informa Giorgia.“È chiaro che il viaggio non può

incontri

Tessere storie.In bilico tra passato e futuro

Come si opera nel centro di accoglienza di Gradisca d’Isonzodi Serena Naldini

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essere costato più di 5-10 mila euro, tra compenso per lo scafista e documento falso. Ma non co-noscendo il cambio monetario, le ragazze ci credono”. Un altro nodo, spesso indissolubile, è rappresen-tato dal rito voodoo che lega le schiave ai loro padroni. Persuase che, se tradisse-ro, incorrerebbe-ro nella pazzia o nella morte, anche quando si rendono conto d e l l ’ i n g a n n o , non riescono a liberarsi. Le istru-zioni vengono loro fornite passo dopo passo; ad ogni step, anche geografico, compiuto, le ragazze conoscono il referente successivo. “Sopra il livello della donna sfruttata, c’è il li-vello della gregaria o sister”, spiega Giorgia. “Se sali ancora di un gradi-no, trovi la magnaccia o madame, che intrattiene pochi rapporti con il primo livello della piramide. Questa distanza”, conclude, “è una delle chiavi per proteggere l’or-ganizzazione”. Il racket si alimenta delle opportunità offerte dalla nostra legislazione sulla domanda d’asilo, usata in modo strumentale per rimanere legalmente in Italia e avviare l’attività per ripagare completamente il debito. Il man-cato ottenimento del permesso di soggiorno per alcune ragazze è sufficiente a svelare l’inganno della promessa del permesso facile. Altre optano per un ricorso che prolun-ga la loro permanenza in Italia. E lo sfruttamento continua.

“Il ritmo è impressionante, 60 rap-porti al giorno, per 18 ore di lavoro”, racconta Giorgia. “Oltre che per restituire il debito, il denaro serve per mantenere la famiglia in patria, pagare l’affitto del posto letto e del marciapiede, il cibo, il vestiario e il mantenimento di sister o madame

per il quale occor-rono 2500-3000 euro al mese. C’è da considerare anche il regalo finale alla mada-me, per circa 3000 euro”. Una volta finito di pagare il debito, è difficile

che le ragazze escano dal giro; più facile che diventino a loro volta sister o madame. In Nigeria non ritornano più, perché la loro comu-nità conosce la vicenda. E non solo. Spesso, sono proprio il capovillag-gio o le famiglie che le costringono

a non lasciare il circuito: un lavoro onesto non potrebbe garantire ai parenti lo stesso benessere. Emer-ge un universo parallelo, fosco e infernale, perfettamente integrato nel nostro mondo e finemente organizzato, con un’incredibile ca-pacità metamorfica rispetto ai ten-tativi di contrastarlo, una prontezza fuori dal comune per aggirare gli ostacoli. “La salvezza sta nella pa-rola, nell’informazione”, dichiara Giorgia, e la sua voce vibra di vita vissuta. Racconta degli anni che ha trascorso a Palermo, la sua città, a contattare ragazze per strada, distribuendo profilattici e tazze di té, con l’unico appoggio di un furgone. “Sottovoce, tra un cliente e l’altro”, spiega. “All’aper-to, i pericoli sono maggiori, e inferiori i margini di manovra”.A volte, l’informazione viene re-cepita immediatamente. “Qui, al centro, è capitato due volte in otto

incontri

“Emerge un universo parallelo, fosco e inferna-le, perfettamente integrato nel nostro mondo e fine-mente organizzato, con un’incredibile capacità metamorfica rispetto ai

tentativi di contrastarlo”

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Giorgia Savoja, direttrice del Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Gradisca d’Isonzo

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mesi: la rinuncia alla richiesta d’asi-lo, la denuncia alle forze dell’ordine e l’accesso a progetti ex art. 18 per programmi di protezione sociale. Così, due ragazze hanno ottenuto un permesso di soggiorno e hanno cominciato una nuova vita. Due casi in otto mesi. Sembra poco, ma è molto. Te l’assicuro”. Per le ragazze che decidono di uscire dal giro si aprono due strade: un per-corso giuridico che prevede la de-nuncia degli sfruttatori, oppure un percorso sociale che fa scattare un programma di protezione, senza però colpire il racket. Se anche il primo passaggio di informazioni non avesse effetto, esso segna comunque l’inizio di un percorso. Quando le informazioni fornite dagli operatori si riveleran-no fondate, la ragazza comincerà a capire che si trattava della verità. La principale difficoltà è entrare in relazione, conquistarsi la fiducia. “Devi spezzare un patto culturale, la forza vincolante del voodoo”, spiega Giorgia. “Io sono bianca e per questo le mie parole hanno un peso inferiore”. La costruzione di relazioni rap-presenta gran parte del lavoro compiuto con ognuno degli ospiti all’interno del centro e richiede un faro costantemente puntato sugli aspetti più delicati delle storie personali. L’intervista con la commissione che deve valutare tutte le domande di protezione è

preceduta, infatti, da una prepa-razione che ipertrofizza il passato, soprattutto nei tratti più pesanti e traumatici. “Occorre molta atten-zione”, avverte Giorgia. “Le conse-

guenze altrimenti possono essere ne-faste. Può essere di-rompente discutere per mesi con per-sone sconosciute di violenze e torture subite, e produrre documentazione sulle stesse, senza neppure potersi de-

dicare a costruire il proprio futuro”. Per questo motivo, durante questa “fase di limbo”, questo tempo so-speso, innaturale, di permanenza al centro, gli operatori cercano di dare spazio e voce anche al presente e al futuro delle persone, creando, seppur con grande difficoltà, una sorta di equilibrio, un bilanciamen-to tra passato e avvenire, dolore e progetto, disperazione e speranza. Questa parte viva, propositiva, è soprattutto sotto la custodia degli educatori che aiutano gli ospiti a preparare una bozza di curriculum vitae, insegnano loro l’italiano, li indirizzano a corsi di formazione professionale sul territorio. “Di fronte all’opportunità di offrire a qualche ospite l’occasione di raccontare la propria storia al periodico”,

afferma Giorgia, “con l’équipe abbiamo deciso di puntare su donne che avessero già superato l’intervista in commissione, in modo da rendere utile l’esperienza come rielaborazione positiva della propria vita in chiave aperta, rivolta all’esterno e al futuro”. Tra queste, una signora che sta aspettando di sistemarsi in una struttura di seconda accoglienza. “Abbiamo conosciuto Alga in otto-bre, quando è approdata al centro. È arrivata qui con un figlio piccolo”. racconta Giorgia. “Con lei, siamo riusciti a costruire un ottimo rap-porto, un rapporto di fiducia”, dice. Dalla finestra del piccolo ufficio, Giorgia guarda il giardino alberato. Un bimbo abbracciato a un pallone osserva i ragazzi del centro che giocano a pallavolo. “Mi auguro”, aggiunge in un soffio, “che possa imparare a parlare nel mondo che l’aspetta fuori da qui”.

incontri

“Gli operatori cercano di dare spazio e voce anche al presente e al futuro delle persone, creando, seppur con

grande difficoltà, una sorta di equilibrio, un

bilanciamento tra dispe-razione e speranza”

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Questa pagina è offerta alla Fondazione Francesca Rava - N.P.H. Italia Onlusdalla ditta Selemare Srl di Modica (Rg)tel/fax +39 0932 779009 - www.selemare.it - mail [email protected]

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Johnny DottiPresidente Fondazione Solidarete

Chiara GiaccardiOrdinario di Sociologia Processi Culturali presso Università Cattolica di Milano

Abdelkarim HannachiDocente di Lingua Araba presso Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’ Università di Catania

Natale LosiDirettore Scuola di psicoterapia etno-sistemico-narrativa di Roma

Mauro MagattiOrdinario di Sociologia presso Università Cattolica di Milano

Padre Beniamino RossiMissionario ScalabrinianoPresidente A.S.C.S.

Comitato scientifico

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Rubrica a cura del comitato scientifico di Connecting People

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Le migrazioni femminili

di Giuseppe Lorenti

Raccontare delle donne in riferi-mento al fenomeno migratorio in Italia può apparire scontato eppure segnala una questione centrale: la massiccia presenza del genere femmi-nile è un punto di svolta. All’inizio, nel nostro Paese arri-vavano soltanto gli uomini, poi piano, piano la questione ha coinvolto anche il genere femminile. Questo flusso, che ha superato ormai il 50% del totale, deriva da due distinte ragioni: il ricongiungimento familiare e

l’affermazione di progetti fem-minili autonomi orientati all’in-serimento nel mercato del lavoro italiano ed europeo. L’ingresso nei paesi ospitanti per ricongiun-gimento familiare ricorda molto l’esperienza degli italiani all’epo-ca delle loro migrazioni: la donna raggiungeva l’uomo partito in cerca di fortuna non appena le condizioni del progetto migrato-

rio lo permettevano e solitamente ciò permetteva di pro-seguire il modello familiare secondo gli schemi tradizionali e nel rispetto dei ruoli di genere presenti nel luogo di origine. I progetti femminili orientati al lavoro in-vece inducono a una maggiore attenzione

anche a causa delle modificazio-ni nelle relazioni sociali che sono in grado di generare. Va però

chiarito che la migrazione femmi-nile non è soltanto determinata dalle dinamiche dell’offerta ma è incoraggiata dalla domanda dei paesi europei. La manodopera femminile è un fattore chiave per consentire l’assistenza dei nostri anziani e dei nostri bambini. È un elemento strutturale anche se informale del nostro welfare e soddisfa i bisogni di tutte le classi sociali, non soltanto di quelle più agiate come accadeva negli anni ‘80 con le migrazioni delle “colf filippine”. Le famiglie italiane ricorrono sempre più alle donne straniere per fronteggiare la necessità di reggere carichi domestici e di assistenza cre-scenti e per garantirsi il manteni-mento della propria autonomia lavorativa. È il welfare informale che si fa spazio - certificando il fallimento dell’intervento pubblico nell’am-bito della cura degli anziani - coin-volgendo circa 600.000 donne immigrate. A queste donne viene chiesto non soltanto di adempie-re ai compiti di cura, ma anche di entrare in relazione affettiva con l’assistito, di assicurare un sostegno emotivo, di diventare in qualche modo “un surrogato familiare”, costruendo nei fatti una relazione ambivalente, che comporta l’instaurarsi, accanto al rapporto di lavoro, di una “relazione familiare” che crea un posto per la badante negli affetti della famiglia. Essere donna ed essere migrante non si riduce sol-tanto ai compiti di cura. La realtà mostra che le donne immigrate

“Le donne immi-grate avviano atti-vità imprenditoriali nella stessa misura

delle donne italiane. I settori privilegiati

sono quelli della ristorazione, delle telecomunicazio-ni, delle attività

immobiliari”

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avviano attività imprenditoriali nella stessa misura delle donne italiane. I settori privilegiati sono quelli della ristorazione, delle telecomunicazioni, delle attività immobiliari, dei servizi alle imprese, oltre ovviamente alle imprese che forniscono servizi alle famiglie. Purtroppo, essere donna ed essere migrante

significa talvolta essere partico-larmente vulnerabile e rischiare violenze e soprusi. L’utilizzazio-ne della mobilità femminile ai fini dello sfruttamento sessuale è uno dei fenomeni più visibili e drammaticamente violento. Sono migliaia le donne coin-volte nel traffico, tra queste molte, troppe adolescenti. Il loro

calvario inizia, spesso, durante il viaggio di avvicinamento ai paesi di destinazione e prose-gue poi con il miraggio di un permesso di soggiorno con cui “sistemarsi” e potersi finalmente emancipare. Miraggio che quasi sempre si trasforma in un incubo infinito. Ma se l’arrivo così nume-roso di donne ha mutato il volto dei flussi migratori nei paesi di arrivo, esso ha altresì avviato profondi cambiamenti nelle so-cietà di partenza.

Le donne che partono sono il segnale di una rivoluzione che presto coinvolgerà le comunità di provenienza. Il nuovo prota-gonismo economico della donna mette in discussione tutti i ruoli tradizionali che erano diretta conseguenza della precedente condizione di subalternità che le veniva attribuita. Il fatto di produrre ricchezza, e di poterla inviare al proprio paese, alle proprie famiglie, attraverso le rimesse, cambia radicalmente la percezione della propria iden-tità, dell’immagine sociale e del proprio ruolo all’interno di una comunità. In molti casi è la donna che rende materialmente possi-bile il ricongiungimento familiare e conseguentemente l’eventuale

“Il nuovo protagonismo economico della donna

mette in discussione tutti i ruoli tradizionali che

erano diretta conseguen-za della precedente condi-

zione di subalternità”

Sono sempre più numerose le donne che migrano per inserirsi nel mercato del lavoro

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inserimento lavorativo del marito, mutando profondamente anche i rapporti di coppia. Se da un lato le rimesse economiche rendono più ricchi i paesi di provenienza, questi vengono privati delle mi-gliori risorse umane e spesso della possibilità di crescere dal punto di vista demografico. I figli delle donne immigrate sono affidati ad altri familiari, mentre i rappor-ti madre - figli proseguono a di-stanza cercando di mantenere il legame. C’è un’asimmetria nella distribuzione delle opportunità di assistenza: i paesi ricchi usano per i compiti di cura le donne dei paesi più poveri nei quali, altre-sì, sono messe in atto soluzioni temporanee per consentire la crescita e l’educazione di coloro che vengono talvolta definiti “orfani sociali”. Se per gli uomini

lontani dalla propria famiglia è sufficiente inviare a casa risorse economiche, questo non appa-re sufficiente per le madri che vivono con maggior sofferenza il distacco dai figli. Che cosa imparare dall’analisi delle mi-grazioni femminili, in cui tutte le sfaccettature che abbiamo elen-cato devono essere poi riconsi-derate alla luce delle differenze dei paesi di provenienza, delle culture originarie, delle aree del nostro paese in cui avviene l’in-sediamento? Non è facile rispon-dere a tale complessa domanda,

ma la questione femminile può essere utilizzata per favorire una ricerca pacata e scevra dalle trop-pe paure che avvolgono la que-stione migratoria. L’esperienza di delegare la cura dei nostri cari a persone “diverse” può condurci ad affermare che è possibile non temere la diversità di colei a cui affido mio madre o mio figlio? Se nella fase dell’assistenza la distanza tra le persone si riduce sino a quasi scomparire, allora c’è spazio per la speranza di chi crede che la reale integrazione sia un processo possibile?

Giuseppe LorentiResponsabile area formazione e ricerca del consorzio Connecting People, ha lavorato in preceden-za al Gruppo Abele di Torino e al centro Braudel dell’università degli studi di Catania, occupan-dosi di migrazioni e cooperazio-ne nel bacino del Mediterraneo. Nel 2006 ha pubblicato il libro “Senza confine”, reportage sui richiedenti asilo in Italia.

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questa festa la sintesi e l’apoteosi della sua lotta. E il Nuovo giorno sia. “Ci piacerebbe che tutto fosse secondo la tradizio-ne. Vogliamo cucinare noi per tutti. Prepareremo noi le danze. Vorrem-mo anche accendere il fuoco”. I festeggiamenti, infatti, prevedo-no che durante la notte vengano accesi dei fuochi nelle campagne, perché finché ci saranno fuochi in questa notte, ci saranno dei Kurdi. Si mangia, si beve, si balla intorno al fuoco, come tutte le feste all’origine del mondo. Presso l’ex-Istituto Mar-giotta a Brindisi, attualmente sede della Cooperativa Sociale Eridano, e grazie al sostegno del Consorzio Connecting People e del Consorzio Territoriale Nuvola, abbiamo potu-to festeggiare insieme la speranza. Erano presenti non solo tutti i ragaz-zi del C.A.R.A, i gestori del Centro di Restinco, i Consorzi già citati, tutto lo staff che opera quotidianamente a Restinco, ma anche la Comunità dei minori non accompagnati della Cooperativa Solidarietà di Erchie, la comunità alloggio dei disabili della Cooperativa Eridano, e tutte le persone che collaborano con Restinco all’esterno del centro per favorire l’integrazione dei ragazzi, in particolare gli insegnanti della Scuola di Italiano Migrantes della parrocchia San Vito di Brindisi e le insegnanti del C.T.P. dell’Istituto Salvemini di Brindisi. Un viaggio immaginario in Kurdistan, il paese che non c’è. Abbiamo assaggiato il cibo tradizionale preparato con dedizione dai ragazzi: riso con pasta “cicoria”, carne arrostita, insalata etnica. Abbiamo eseguito balli in

cerchio, tutti insieme per mano, un rito ancestrale che solo alcuni popoli hanno conservato. Ilami, un ragazzo turco, conduceva la fila tenendo in mano un fazzoletto che sventolava, mentre batteva il passo per dare inizio alla danza. Entrare nel cerchio di danzatori ci ha permesso di sca-valcare montagne e oceani e farci assaggiare per un attimo diversi contesti sociali, riferimenti culturali e modi di fare festa.

ResTInco (BR)

Lezione di vitadi Deborah Lonero Mediatrice linguistico-culturale del Centro C.A.R.A. / C.I.E di Restinco

Ma chi sono tutti questi ragazzi che giornalmente incontriamo per le strade della nostra città? Da dove vengono? Perché hanno scelto proprio il nostro territorio? Dove dormono? Che cosa fanno?...Queste le domande che da un po’ di tempo stuzzicano le menti degli studenti dell’istituto tecnico agrario “Odone Belluzzi” di Brindisi. Domande a cui Giovanna, docente dell’istituto, ha voluto dare delle risposte: per ca-pire, per educare ad un’accoglienza

news

ResTInco (BR)

Rondini di pacedi Mariangela Recchia Insegnante lingua italiana presso il Centro C.A.R.A/C.I.E. di Restinco

“Newroz píroz be!” (felice Newroz!) e “Bijí Newroz!” (che il Newroz duri a lungo!). Con queste frasi, il 21 Marzo è cominciata la giornata a Restinco. “Oggi è il nuovo giorno!”, un giorno veramente importante perché il festeggiamento del Newroz, il ca-podanno kurdo, in Turchia e negli altri Stati tra i quali è suddiviso il Kurdistan, è considerato come un momento di unità nazionale, e per questo vietato per molto tempo. Negli anni passati è stato oggetto di violenze, e molti Kurdi sono stati arrestati perché sorpresi a festeg-giarlo. “Il Newroz”, ci spiega Yusuf un ragazzo kurdo ospite nel centro di accoglienza di Restinco, “è per noi la festa in cui ogni uomo e donna kurda celebra in segno di libertà la sua volontà di esistere e lo esprime al mondo, anche rischiando la vita. In Kurdistan, un territorio diviso e martoriato, i diritti fondamentali dell’uomo sono costantemente ne-gati, e il nostro popolo ogni giorno resiste contro la violenza e la per-secuzione”. Non a caso si festeggia il Newroz con l’entrata della prima-vera, per ricordare la vittoria degli oppressi sugli oppressori. È la festa del fuoco, la festa della purificazio-ne, che segna la fine dell’oscurità e la rinascita della luce e della vita. Il Kurdistan, una delle più grandi nazioni al mondo alla quale viene negato il diritto ad esistere trova in

Un momento della festa per il Capodanno

kurdo nel centro C.A.R.A./C.I.E. di Restinco

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consapevole e costruttiva. Risposte che spera aiuteranno lei, i suoi stu-denti, i colleghi ad allontanarsi dai luoghi comuni, dai pregiudizi e da quel senso di paura che l’ignoranza troppo spesso genera. Così si decide che l’assemblea d’isti-tuto del 31 marzo sarà dedicata ad un incontro con questi “stranieri in terra straniera”. Giovanna propone di invitare all’assemblea alcuni dei ragazzi attualmente ospiti nel Centro di Accoglienza per Richie-denti Asilo di Restinco: Yusuf, Amin, Tunkay, Kawan, ragazzi curdi ed af-gani, che come tanti sono in attesa dell’audizione da cui dipenderà il loro prossimo futuro. Una Commis-sione Territoriale deciderà se avran-no diritto allo status di rifugiato oppure no. Un’attesa che spesso li rende pensierosi, dubbiosi, a volte tristi, ma anche aperti a tutte quelle possibilità di conoscere meglio il territorio che li ospita. Un’attesa che diventa possibilità di crescita attraverso la conoscenza dell’altro; una necessità di integrazione per ricominciare ad inventarsi una vita. È con entusiasmo che si dichiarano pronti a testimoniare e a condivide-re il loro vissuto. Una voce che possa aiutare gli studenti a conoscere e a riflettere sulle dinamiche che hanno generato queste migrazioni “forzate”. Queste anche le intenzioni in seno al progetto: relazionarsi con culture e persone “diverse”; attivare un processo di immedesimazio-ne come veicolo di conoscenza dell’altro e come indagine sulle sue emozioni e sensazioni; stimolare gli studenti all’ascolto partecipato come elemento fondamentale nella

conoscenza reciproca e al dialogo interculturale. Siamo pronti per andare a scuola, solo dopo aver chiamato anche Ibrahim però: Ibrahim è un ragazzo del Mali, che come tutti gli ospiti che sono tran-sitati nel nostro centro è arrivato in Italia con la speranza di un riscatto sociale, morale, economico. È quasi un anno che Ibrahim ha lasciato il centro, dopo che la prima audizio-ne in Commissione non ha avuto esito positivo. Oggi vive a Brindisi, in attesa che un tribunale possa ri-considerare la sua richiesta, mentre continua a collaborare con noi in ambito cittadino per promuovere un’integrazione costruttiva. L’assemblea d’istituto comincia e su-bito è Ibrahim a prendere la parola. Gli altri ospiti preferiscono aspettare che si rompa il ghiaccio, anche se in fondo le parole non sono così importanti, una volta comprese le intenzioni. E così è fin da subito! Basta guardare gli studenti negli occhi per capire che la magia è stata compiuta. Nell’aula magna risuona-no storie di paesi esotici, continenti lontani, culture diverse. Echeggiano parole di solidarietà senza falsi buonismi, perché oggi non siamo qui per giudicare o per portare delle verità assolute: oggi siamo a scuola per una lezione di vita. Terminato il dibattito si aprono le danze: i ragazzi brindisini intonano una serie di pizziche, tipiche danze popolari salentine, e tutti si met-tono a ballare, a tenere il ritmo ed a cantare il linguaggio universale della musica fa centro e Yusuf, Amin, Tunkay che fino ad allora erano restati in silenzio si fanno avanti e

presentano il loro ballo tradizionale curdo, e poi quello afgano, e poi di nuovo pizzica, e ancora musica, note, passi, sorrisi. Arrivata l’ora di salutarsi, ancora pieni di entusiasmo gli studenti si avvicinano chiedendo di rimanere in contatto con noi, per non lasciare che quest’incontro rimanga fine a se stesso. Ci lasciamo tra occhi lucidi e numeri di cellulare, con la leggerezza di una mattinata tra coetanei e la consapevolezza che la ricchezza risiede nell’ascolto, nel confronto e nello scambio.

sAn Lupo (Bn)

Un piccolo comune e tanta solidarietàdi Alessia Barbagallo Connecting People

Dal primo aprile sono ufficialmen-te iniziate le attività per il progetto “Piccoli comuni, grande solidarietà” - di cui Connecting People è ente aggiudicatario - con l’arrivo a San Lupo (BN) di 34 ragazzi eritrei. Que-sto progetto, che durerà due anni, è diverso dalle precedenti esperienze gestionali di centri di accoglienza del Consorzio. Nonostante alcune delle attività previste dalla conven-zione firmata l’11 marzo possano ricordare quelle dei progetti SPRAR, si tratta di un progetto sperimentale di integrazione che è parte di una più vasta progettazione di reset-tlement a livello UE, per il periodo 2007 – 2013. Tale iniziativa parte dal presupposto che l’integrazione di cittadini stranieri possa realizzarsi

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in maniera più ‘naturale’ ed efficace in “piccoli paesi” – dizione con cui l’Unione Europea intende comuni con meno di 5000 abitanti – piutto-sto che nelle più alienanti e dispersi-ve città. Partendo da questa scom-messa, il progetto “Piccoli comuni, grande solidarietà” prevede il ‘rein-sediamento’ di 50 rifugiati politici (ad oggi 35, di cui 2 somali ed il re-sto di nazionalità eritrea od etiope) a San Lupo e la realizzazione di tutte le attività, i servizi e gli interventi ne-cessari per facilitarne il percorso di integrazione. Tradizionali attività e servizi di accoglienza, orientamen-to, assistenza sociale, psicologica ed infermieristica, mediazione cultu-rale e formazione necessitano così in questo caso di essere accompa-gnati da un vero piano strategico di job matching, potenziato da attività volte, in primo luogo, alla conoscen-za, all’incontro ed alla socializzazio-ne con la popolazione locale. San Lupo è infatti un paese, di quasi 800 abitanti, che fino al primo aprile non aveva mai conosciuto dinamiche migratorie di questo tipo, ma da cui al contrario i giovani tendevano ad allontanarsi. Tale progetto è quindi destinato a modificare profonda-mente il volto del paese, ed i primi piccoli grandi cambiamenti sono già visibili. Per esempio, lo scorso anno, a San Lupo, ci sono state 2 sole nascite. Quest’anno invece il 6 aprile Fiyori, una ragazza eritrea, ha già partorito la piccola Hiyab, e la prossima settimana Meron darà alla luce un’altra bimba. I nuovi residenti di San Lupo potrebbero quindi già aver raddoppiato le nascite nel pae-se. Al loro arrivo gli ospiti sono stati

accolti, oltre che da Connecting Pe-ople, dal Consorzio locale Amistade, da rappresentanti dell’UNHCR, del Ministero dell’Interno e dell’ammi-nistrazione locale, ma soprattutto dalla gente del luogo, che è accor-sa incuriosita da tutti questi ragazzi e famiglie di cui ormai da mesi, tra aspettative e diffidenze, si atten-deva l’arrivo. E mentre Connecting People, in questi 22 giorni, lavora-va per accompagnare ed assistere gli ospiti nella fruizione dei servizi sanitari ed anagrafici del territorio, l’assegnazione del codice fiscale, del medico di base, ecc.. nel paese si sono verificate dinamiche sociali inedite. I sanlupesi ed i nuovi resi-denti hanno iniziato a conoscersi. Il primo e più veloce mezzo di comu-nicazione sembrano essere i bambi-ni. La nascita di Hiyab il 6 aprile, per esempio, è stata una novità impor-tante per il paese e giovani e meno giovani sanlupesi hanno messo da parte le proprie perplessità per ve-nire a trovare Fiyori, farle gli auguri, prendere in braccio Hiyab, portarle dei regali. Anche le due bellissime bambine di 6 ed 8 anni, Nolawit e Milka, che parla incredibilmente già un buonissimo italiano, hanno da subito conquistato tutti nel paese e sono spesso in giro a giocare con al-tri bambini. Nei pub, la sera, i ragazzi eritrei guardano poi le partite di cal-cio insieme ai ragazzi italiani, che si stupiscono nel vederli esultare per goal di entrambe le squadre in cam-po. Da un punto di vista sociologico è interessante constatare le mani-festazioni di interesse e generosità sia dei sanlupesi che degli eritrei. La gente del luogo regala ai nuovi resi-

denti vestiti, giocattoli, culle, offre da bere nei locali e dà passaggi in auto per visitare Benevento, Napoli ed i paesini limitrofi. Circa due set-timane fa invece Michael, ragazzo eritreo di 33 anni soprannomina-to good giant per la sua grande mole, passeggiando per le strade di San Lupo ha visto un uomo che con difficoltà tagliava della legna e, guardandolo con i suoi grandi ed intensi occhi neri, gli ha fatto uno dei suoi sorrisi e gli ha detto a gesti, sbattendosi una mano sul petto: lascia stare, ci penso io, portando a termine il compito con grande for-za ed efficienza. Quel signore, che avrebbe poi voluto dargli dei soldi per ringraziarlo, al rifiuto di Micha-el (ricordiamo che anche quei po-chi soldi sarebbero stati importanti per lui), gli ha offerto da bere in un bar. A San Lupo, però, le difficoltà non mancano e c’è ancora tanto da lavorare per portare il centro a siste-ma, creare una rete territoriale con i vari stakeholder locali e rispondere efficacemente ai molteplici bisogni degli ospiti. A prima vista, però, il ‘materiale umano’, sia eritreo che ita-liano, sembra buono e i primi effetti si vedono. E siamo solo al 22° giorno.

L’arrivo degli ospiti a San Lupo per il progetto

“Piccoli comuni, grande solidarietà”

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una vera e propria esperienza di vita comunitaria. Gli operatori e il personale amministrativo hanno condiviso la residenza presso due villette del Villaggio Don Bosco a pochi chilometri da Foggia, forma-to da tre piccole borgate immerse nel verde, con grappoli di case attorno a spazi comuni. Ciò ha permesso l’instaurarsi di un clima di casa, condizione necessaria per recuperare le energie necessarie ad affrontare il lavoro presso il centro. Nei primi giorni di gestio-ne, l’équipe ha frequentato il corso di formazione inerente al “Proget-to IN/FORMAZIONE II” promosso dall’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (ASGI), dal Ser-vizio Centrale del circuito SPRAR e dall’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati. Il 23 febbraio, data di inizio della gestione, la situazione

della struttura - che ha una capien-za di 770 persone - si è rivelata difficile, quasi degradata. La tem-pestività di risposta di Connecting People, concretizzatasi anche nella pronta assunzione di perso-nale del territorio, è stata determi-nante per raggiungere, in tempi brevi, un notevole miglioramento delle condizioni di vita degli ospiti del centro. Straordinario è stato il lavoro degli operatori dedicato a pulire, pitturare, sistemare i locali dell’amministrazione e gli alloggi degli ospiti, oltre che a trasformare la mensa da luogo di distribuzione dei pasti a luogo di consumazione e condivisione. Grande attenzione è stata posta dall’amministrazione per censire il centinaio di ospiti at-tualmente presenti, a cominciare dalla predisposizione di un ticket personale dotato di foto e dati

BoRgo MezzAnone (Fg)

Primo mese di gestione di Connecting Peopledi Rosanna Rumore docente di italiano presso il CARA di Borgo Mezzanone

Un’entusiasmante gioco di squa-dra ha coinvolto tutte le pro-fessionalità messe in campo da Connecting People per lo start up del CARA di Borgo Mezzanone. Capacità di lavorare in équipe, straordinaria motivazione e forte spinta interiore: questi gli elemen-ti di un’esperienza che travalica i confini del lavoro per diventare

speciale Foggiaspeciale Foggia

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anagrafici. I servizi offerti sono stati infine ottimizzati, o riattivati, a partire dalla caldaia da tempo non funzionante. Agli ospiti vengono garantiti colazione, pranzo e cena, preparati anche secondo even-tuali diete predisposte dai medici o le diverse tradizioni culturali e religiose; distribuzione di generi di prima necessità e di un buono economico per acquistare schede telefoniche o altri beni; assistenza sanitaria giornaliera e accompa-gnamento al servizio sanitario per visite specialistiche; mediazione culturale in lingua araba, inglese e francese; sostegno individuale attraverso la presenza di assisten-te sociale, psicologo, informatori legali; corso giornaliero di lingua e cultura italiana. Gli ospiti, coin-volti in riunioni di presentazione dei nuovi servizi, hanno espres-so il loro apprezzamento per i risultati ottenuti, in termini di miglioramento dei servizi e della struttura. Ogni giorno, inoltre, si mostrano sempre più fiduciosi nella relazione con i mediatori, lo psicologo, l’assistente sociale o gli informatori legali. Numerosa e entusiasta l’adesione al corso di lingua italiana: ogni incontro è frequentato in media da 30-35 ospiti di provenienza e livello di istruzione disomogenei, armoniz-zati prodigiosamente dalla voglia di apprendere la lingua, strumen-to indispensabile per comunicare nel nostro paese. Segno emble-matico della collaborazione con il territorio di Borgo Mezzanone e di Foggia, è il rapido inserimento alla scuola primaria e secondaria

di primo grado dei bambini ospiti al centro. Connecting People col-labora inoltre con gli enti locali e, in particolar modo con il Consor-zio Aranea, riferimento territoriale con la scuola, l’azienda sanitaria, la Caritas e le cooperative sociali che continuano a offrire servizi all’interno del centro.

FoggIA

Lettera al CaRa,24 marzo 2010di Vito Luca Scozzari Responsabile Area ServiziConsorzio Connecting People

CARA Foggia, nel lontano 9 feb-braio 2009 è iniziata la tua cono-scenza. Pochi giorni dopo mi trovo a percorrere la strada che collega Brindisi verso una nuova meta, una nuova sfida, una nuova gara. Mai avrei pensato che quel CARA potesse essere così diverso dagli altri. Tutto era diverso, molto più esteso, più vasto, ancor più di

quello che ci si potesse immagina-re. Per girare il campo, si va in auto: è troppo caldo e siamo in una pista d’atterraggio. Allora come oggi, la pista è piena di tende, di alloggi.E di uomini e donne. CARA Foggia, chissà perché, ci hai colpito tutti... Il vento della sera, il sole del giorno, la calda accoglienza, le ri-unioni, una dopo l’altra: sindacati, servizio centrale, ASL, prefettura. Una rete di persone, oggi, guarda il campo, sbalordita che qualcosa si possa fare, e tante attività siano possibili. Certo, è complesso rin-giovanire un grosso pino, ma se è un albero buono basta sfoltirlo, sistemarlo e mettergli accanto un parco giochi e una bella amaca per rifugiarsi al fresco, sotto la sua chioma folta, a pensare a come sarebbe bello se… Qui e ora è il momento di racco-gliere tutti coloro che vogliano distendersi sull’amaca e lasciare andare il pensiero a immaginare come un pino con la sua bella chioma si possa trasformare in posto di rifugio, in luogo di spe-ranza, in meta di vita nuova.

I tendoni del soccorso pubblico del Ministero dell’Interno nel C.A.R.A. di Foggia

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BoRgo MezzAnone (Fg)

Il Prefetto Morcone in visita al CaRa di Giorgio Gibertini Direttore responsabile SQM

Arriva dal cielo, come le belle notizie, con un elicottero mili-tare per sorvolare tutta la zona di Borgo Mezzanone, il prefetto Mario Morcone, responsabile del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno. Arriva dal cielo in una giornata calda che sembra estate, anche se è solo l’otto aprile e, cra-vatta svolazzante al vento, comin-cia il giro di tutta la pista dell’ex aereoporto che ospita il CARA, da poco gestito da Connecting Peo-ple che ancora ospita lo scempio e l’abbandono di altro insediamen-to. Ad accompagnare Morcone il prefetto di Foggia, sua eccellenza dottor Antonio Nunziante, il capo di Stato Maggiore dell’Aeronauti-ca e gli ingegneri e geometri che stanno completando la bonifica e sistemazione della zona, oltre, ovviamente, a Giuseppe Scozzari e

Orazio Micalizzi, presidente e vice-presidente di Connecting People, al direttore del centro Massimo De Luca e a tutti i vertici e respon-sabili del consorzio. Morcone ha voglia di camminare e conoscere; e così, passo dopo passo, visita in rassegna le nuove costruzioni con-tainer, la sala mensa in ultimazio-ne, i campi giochi per adulti e per bambini, i giardini per le zone di svago. Una sosta obbligata davan-ti a un pannello tecnico che recita la scritta “Ministero dell’Interno. Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. Comune di Manfre-donia (FG). Lavori di espansione del Centro di Accoglienza per Immigrati Irregolari ubicato in località Borgo Mezzanone”: Morcone alza lo sguardo e immagina che presto tutto sarà come prevede la pianti-na a colori sistemata nel bel mezzo del campo. Oltre i cancelli, lungo i quattro chilometri di pista dell’ex aeroporto, container malandati e maleodoranti, tende blu con tanto di dicitura in bell’evidenza “Ministero dell’Interno”, bagni da far paura ad avvicinarsi, cavi elet-trici. Uomini e donne sbucano da dietro questo abbandono, senza poter raccontare il loro, di abban-dono. Nonostante la ritrosia delle autorità locali, il prefetto Morcone insiste e, accompagnato a mo’ di scorta da Scozzari e Micalizzi, visita a piedi anche questo tratto di strada per verificare quanto è stato fatto, e quanto ancora c’è da fare. Dopo un’altra sigaretta, Mor-cone si appoggia al cancello che delimita il campo e fissa l’orizzon-te per qualche minuto parlando al

cellulare: il suo sguardo si spinge oltre la catasta di tende abban-donate e chissà quanti e quali pensieri si accatastano nella sua mente. Seguito dai responsabili del centro, Morcone prosegue il giro, dando indicazioni precise ai tecnici: liberiamo quella zona, puliamo, bonifichiamo, togliamo l’hangar. “Abbiamo fatto tanto”, dice. “I soldi sono stati sicuramen-te spesi bene. C’è ancora tanto da fare, ma un po’ alla volta anche Borgo Mezzanone sta cambiando volto”. “Il merito è tutto tuo”, gli fa eco il prefetto Nunziante. “Hai portato umanità in questo set-tore, in questo dipartimento. La tua umanità sta facendo strada e sta cambiando il volto dell’acco-glienza in Italia”. Si torna al CARA, alla struttura vera e propria per ora utilizzata per l’accoglienza. Il Prefetto visi-ta le stanze degli ospiti, la sala mensa, apprezza la pulizia, l’ordi-ne e la logistica del magazzino, visita la scuola di italiano mentre è in corso la lezione con venti ospiti presenti. Saluta tutti ad uno ad uno e si congratula. L’eli-cottero in cielo avvisa che il pre-fetto deve ripartire. Ancora il tempo di un brindisi, di un caldo caffè, di qualche scambio di idee. Poi ci si saluta; un abbraccio e un “grazie ragazzi” sincero, rivolto al consorzio Connecting People. Riparte la carovana di auto della polizia verso l’elicottero. A Borgo Mezzanone torna la calma e la vita di sempre. Resta la consape-volezza che presto le cose mi-glioreranno ancora. Il prefetto Mario Morcone in visita al centro

C.A.R.A. di Borgo Mezzanone (FG)

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press

Secolo d’Italia 16.12.09di Antonella Ambrosini

Il Dna dell’Italia parla la lingua dell’accoglienza e dell’assimilazione. Ripensare la Patria, come esorta Fini in termini più ampi, multiculturali e multietnici, è inscritto nel tratto più distintivo e qualificante della civiltà in cui amiamo riconoscerci e alla quale dobbiamo e vogliamo rimanere fedeli. L’Italia ha rappresentato da sempre un crogiolo di culture, tradizioni e valori che hanno trovato modi e forme virtuosi di fusione e di reciproco scambio. Fusione e mai scontro. [...]

Quotidiano nazionale 07.04.10di Pietro Formica

Il 2010 è l’anno della crisi occupazionale. Mentre è alta la voce che reclama più sussidi per tamponare le falle che si sono aperte nella diga dei posti di lavoro, resta orfana di risposte la domanda sul come sia possibile tagliare gli artigli al mostro della disoccupazione impedendone una ricrescita spoporzionata. [...]

la Repubblica 07.04.10di Francesca Caferri

C’è una jihad tutta nuova che da qualche anno si aggira per il mondo: va dal Marocco all’Iran, passando per gli Stati Uniti, la Male-sia, la Turchia e l’Egitto. Le sue armi non sono kalashnikov ma libri e conoscenza. I suoi portabandiera, non kamikaze ma studiose testarde e determinate. La “gender jihad”, la battaglia di genere che le donne musulmane stanno combattendo per affermare il loro ruolo all’interno della società, è la protagoni-sta di due volumi arrivati in libreria a poche settimane di distanza l’uno dall’altro. [...]

Il Giornale20.04.10

Quest’anno in paese la festa della liberazione avrà un sapore diverso: i sanlupesi che lo vorranno potranno celebrarla insiema ai 35 cittadini eritrei destinatari del progetto “Pic-coli comuni, grande solidarietà”. Cittadini che, come spiega Mourad Aissa, direttore del Centro di Accoglienza di San Lupo, “in questo piccolo paese stanno vivendo la loro nuova vita, la loro liberazione”. [...]Connecting People insieme al Consorzio Amistade, si occupa dell’accoglienza e dell’integrazione dei cittadini eritrei. [...]

Il sole 24 ore 28.02.10di Aldo Bonomi

Le migrazioni sono un flusso. Come la finanza, le transnazionali, le internet company. Dal globale atterrano nel locale, nei luoghi. Mutandone antropologia, culture e dinamiche di sviluppo.I migranti non sono nè flussi di denaro, nè imprese, ma persone. [...]Una ricerca-azione realizzata da Connecting People dentro e fuori le mura di una di queste mod-erne fabbriche che trattano l’umanità in esodo ci permette di capire meglio cosa avviene sulle nuove frontiere, ove si trattano flussi e non più la geopolitica degli stati nazione.A Gradisca d’Isonzo, 6600 abitanti tra Gorizia, Monfalcone e Udine, una vecchia caserma, la Ugo Polonio è diventata nel 2000, un Cie e un Cara [...].

Rubrica a cura di Salvo Tomarchio

La rassegna stampa completa è consultabile nella sezione stampa del sito

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Erri de LucaIN NOME DELLA MADRE

Feltrinelli, 2006Recensioni a cura di Serena Naldini

In nome della madreGenere: NarrativaAutore: Erri de LucaEditore: FeltrinelliAnno: 2006

Nella premessa di questo libro che si beve tutto d’un fiato, l’autore indica i Vangeli di Matteo e Luca come fonti del racconto. La protagonista è Miriàm/Maria che intona l’intera narrazione in prima persona, centrando l’asse della storia su un elemento che nei Vangeli resta margi-nale: “l’accensione della na-tività nel corpo femminile, il più perfetto mistero naturale”.La scrittura percorre dieci mesi lunari, la durata di una

gravidanza dal concepimento alla nascita. Ed è soprattutto il respiro della luna, astro femminile per eccellenza, che accompagna il viaggio di questa donna speciale, pre-scelta, ma nello stesso tempo, normale, verso il momento del parto, affrontato da sola, meravigliata della sapienza del proprio corpo.A trapuntare la linea di que-sta attesa, la voce di Miriàm, densa di saggezza ma anche lieve come musica, scuote le certezze che fondano la visione maschile del mondo, razionale e normativa, affer-mando uno sguardo femmi-nile di una calma contagiosa. “Intorno a te c’è una barriera di grazia, una fortezza”, dice Iosef/Giuseppe alla sua com-pagna. “Tu la spargi, Miriàm: pure su di me”. È uno sguardo che celebra il corpo, “zolla di terra” che schiude lo spazio per diven-tare, da uno, due; un corpo che si moltiplica ma al con-tempo si fa leggero, si spinge verso l’alto “da aver voglia di metter[si] a saltare”, perché è un corpo che pensa l’amore e dall’amore viene pensato.È uno sguardo che cele-bra l’amore che prende il

sopravvento sulla legge, su ogni codice. E da solo basta a ribaltare i destini. Amore potente, ma umano, fatto di carezze sui capelli, complicità e tenerezza, e di una Miriàm che si incanta davanti alla bellezza del suo Iosef. È uno sguardo che celebra la partenza, e la gioia della par-tenza, quando si abbandona una comunità che non ci ap-partiene più, appena guidati dalla speranza, travestita da certezza, di un altrove migliore.È uno sguardo che celebra la preghiera come parola che dà senso alle cose della ter-ra. Dopo il parto di Ieshu/Gesù, Miriàm, abbracciata per una lunga notte al bimbo che dovrà presto consegnare all’umanità, rivolge al Cielo il suo commovente canto di madre appena nata.E quando si chiude il libro, le corde vibrano ancora.Un’ultima nota: una mano maschile ha scritto queste pagine. Questo fatto, da solo, dimostra che ogni dialogo tra mondi differenti, se desidera-to, è possibile.

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