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S T O R I A M O D E R N A

VIII. La guerra e la sua evoluzione tecnica di Piero Del Negro

SOMMARIO: Conquista e disciplinamento - La guerra tra economia e società - Un «flagello inevitabile» -Guerra e civiltà - Grandi Stati, grandi eserciti - Un nuovo mondo tutto da conquistare - Fine del medioevo militare - Le compagnie di ventura: un esercito «interarmi» - I picchieri svizzeri e la sconfitta della caval-leria pesante - Un modello militare di «massa» - Un nuovo protagonista: le armi da fuoco - Come difen-dersi dai cannoni: l'architettura bastionata - Attaccanti e difensori - Dalle grandi battaglie alla guerra d'assedio - Fortune della fanteria: svizzeri, lanzichenecchi e spagnoli - Le navi coi cannoni - Strategie e tattiche della guerra navale - Gli spagnoli nelle Fiandre: un esercito permanente - L'avvento dei moschet-tieri: standardizzazione e regolarità - Perfezionamenti svedesi - Imprenditori della guerra: Wallenstein -Corsari e pirati - Caserme, uniformi, standardizzazione - La cavalleria leggera - L'avvento delle marine regolari - Il complesso militar-industriale francese - La specializzazione militare della Prussia e del Pie-monte - L'esercito-milizia - Le innovazioni della Rivoluzione - Napoleone: vittorie e sconfitte - Cambia-menti decisivi - Dibattiti e controversie - Stato moderno ed esercito permanente.

1. Il problema.

Qual è il ruolo della guerra nel forgiare la storia del continente europeo in età moderna? Quali conseguenze di lungo periodo delle dinamiche militari si posso-no cogliere nello specchio della politica come della cultura, nell 'ambito sociale

determinare se lo Stato moderno sia nato sulla punta delle picche e degli archibu-gi (cfr. la lezione IV) o sia stato piuttosto il consolidamento degli Stati in una dire-zione assolutista e, in ogni caso, a tutto vantaggio di un potere esecutivo «più uniforme, semplice e forte» (Lloyd), che abbia consentito di schierare «grossi

eserciti» e, più in generale, di introdurre una serie di cambiamenti non solo quan- titativi sul piano militare.

Quanto al ruolo degli eserciti nei processi di civilizzazione e di disciplinamen-to. il soldato appare contraddittoriamente, a seconda dei contesti e dei giudizi di

valore, un barbaro, se non un bruto (la violenza contro i rapporti civili, la distru-zione o quanto meno lo spreco irrazionale delle risorse economiche e demografi-che. l 'esaltazione di disvalori quali il furore, l'istinto di morte, la sopraffazione, nei casi migliori la difesa di una cultura tradizionalista, quella cavalleresca, non

più al passo con i tempi); oppure un eroe, colui che, in quanto incarna gli ideali

sacrificio della vita in nome del sovrano, della patria*, della cristianità ecc., meri-

Conquista e disciplinamento

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come in quello economico? La storiografia si è a lungo misurata col problema di
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della corte* e dell' aristocrazia* e porta le bandiere dell' onore, della fedeltà, del
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Storia moderna

ta una particolare considerazione sotto ogni profilo; oppure, ancora, un tecnico militare, un professionista che coltiva una visione razionale dei problemi e che applica alla gestione della guerra quanto suggeriscono la scienza e la tecnica.

Altrettanto problematica appare la collocazione dei militari nella società: men-tre i soldati sono, soprattutto tra Sei e Settecento il risultato di una selezione a pri-ma vista alla rovescia, poiché provengono spesso dagli strati marginali e talvolta addirittura dalla feccia della società, in molti paesi si assiste a una compenetrazio-ne tra le élites militari e quelle politico-sociali e, in ogni caso, si registra la pre-senza degli alti gradi dell'esercito ai vertici delle corti e degli Stati.

Non meno controverse, infine, le relazioni tra la guerra, il modello economico capitalistico e l'avvento dell'economia-mondo: sono state le guerre, parafrasando una celebre frase di Karl von Clausewitz, «la prosecuzione del commercio con l'impiego di un complesso di mezzi diversi» (Howard) oppure si deve ritenere, in linea con quanto sostenevano nel Settecento gli illuministi, che il commercio in quanto magnete della nuova geografia capitalistica internazionale ed espressione di esigenze e di gruppi sociali estranei all'aristocrazia di spada debba essere con-siderato in alternativa alla guerra?

Una serie di interrogativi, che testimoniano di per se stessi la complessità e le contraddizioni dei conflitti e delle istituzioni militari e ai quali si cercherà di dare una risposta alla luce degli sviluppi dell'«arte della guerra».

2. Aspetti e contraddizioni della guerra.

In una pagina dei Viaggi di Gulliver (1726) Jonathan Swift accredita e, in una certa misura, contrappone due immagini della guerra valide non solo per il primo Settecento, ma anche, con pochi ritocchi, per tutta l'età moderna e oltre. Da una parte un arido elenco di armi e di fasi belliche, l'asettica nomenclatura della tecni-ca militare: «cannoni, colubrine, moschetti, carabine, pistole, palle, polvere, scia-bole, baionette, battaglie, assedi, ritirate, attacchi, mine, contromine, bombarda-menti, battaglie navali». Dall'altra, in rapida sequenza, i «disastri della guerra» evocati anche dai Quattro cavalieri dell'Apocalisse di Albrecht Dürer e dagli ag-ghiaccianti cicli di Jacques Callot e di Francisco Goya: «gemiti di morenti, mem-bra saltate in aria; fumo, frastuono, confusione, combattenti maciullati dagli zoc-coli dei cavalli, fughe, inseguimenti, vittorie; campi cosparsi di cadaveri [...]; sac-cheggi, spoliazioni, stupri, incendi, distruzioni».

Swift non era, va da sé, il primo, né sarebbe stato l'ultimo a giudicare la guerra la più assurda follia delle «strane bestie chiamate Yahu», vale a dire degli uomini. Dal filosofo cristiano Erasmo da Rotterdam (per il quale la guerra era «un omici-dio collettivo, di gruppo, una forma di brigantaggio tanto più infame quanto più estesa») al filosofo illuminista Voltaire («quel flagello che è la guerra, che contiene in sé tutti i flagelli e tutti i delitti», «questo furore universale che devasta il mon-do») un rifiuto più o meno radicale delle armi fa da contrappunto alla presenza dei militari nella storia, sottolinea l'irrazionalità e l'innaturalità della guerra e di conse-

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La guerra tra economia

e società

Un «flagello inevitabile»

La guerra e la sua evoluzione tecnica

guenza ispira la generosa ricerca delle vie della «pace perpetua», un progetto con-diviso, tra gli altri, dal riformatore religioso William Penn, dall'utopista francese

Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre e dal filosofo tedesco Immanuel Kant. Se la radicale contrapposizione tra la civiltà e la guerra appartiene soprattutto

alla storia delle idee, sul piano effettuale - come sottolineava il pessimista Voltaire, che riteneva la guerra «un flagello inevitabile, viste le inclinazioni del genere uma-no» - guerra e civiltà intrecciano una complessa e controversa trama di rapporti. Un ordito, i cui nodi è assai difficile sciogliere qualora si adottino i moduli descrit-tivi della tradizionale histoire-bataille, qualora ci si affidi, cioè, a una riproposta della superficie degli avvenimenti militari tutta costruita su fatti, nomi e date. Ma non ci si può neppure limitare a un recupero del vissuto della guerra, a tuffarsi in quel magma di sensazioni e di impressioni stranianti che ci offre la grande lettera-tura (dal Grimmelshausen del Simplicissimus allo Stendhal della Certosa di Parma e al Tolstoj di Guerra e pace). Il tema della guerra esige invece un'analisi, in que-sto caso inevitabilmente a grandi linee, dei militari e delle armi in quanto espres-sione e dimensione della politica e della società, dell'economia e della cultura.

«Non è più il mondo in reguli partito, come ne' secoli passati, ma in potentati grandissimi, i quali aspirano alla monarchia, circondati da grossi et veterani eser-citi», constatava nel 1601 il patrizio* veneziano Pier Maria Contarini in un Corso di guerra, che tentava invano di offrire una risposta alla questione-chiave sospesa sul capo degli Stati minori dell'epoca e in modo particolare degli italiani: «come con minor essercito habbi a guerreggiare e combatter contra essercito di gran lun-ga maggiore». Nel corso dell'età moderna si affermarono, all'interno di un qua-dro internazionale dagli equilibri relativamente mutevoli, alcuni «potentati gran-dissimi» europei - dalla Spagna alla Francia, dall'Impero asburgico a quello otto-mano, dalla Russia alla Prussia - in grado di schierare dei «grossi et veterani eser-citi», a loro volta uno strumento nelle mani dei «potentati» per diventare ancora più grandi a spese non solo dei «reguli», i «piccoli re» che non avevano saputo fare il necessario salto di qualità (e di quantità) nell'ambito militare, ma anche dei poteri intermedi e periferici interni agli Stati.

Ricorrendo, quando era necessario, al cannone, ultima ratio regum, i sovrani si imposero quasi ovunque, una volta superata la boa delle guerre di religione (cfr. la lezione VI), sulle riottose nobiltà* e sulle città* più o meno libere, sulle mino-ranze confessionali e su quelle etniche, insomma su tutti quei centri di potere che contrastavano la pretesa delle autorità statuali di detenere il monopolio della vio-lenza legale. Come avrebbe scritto il generale inglese Henry Lloyd nel 1781, «una nuova specie di sudditi» era stata forgiata nei secoli precedenti: soltanto nel caso in cui fossero stati minacciati valori fondamentali come la religione e la li-bertà, le rivolte* popolari avrebbero potuto, secondo Lloyd, mettere in crisi un as-setto ormai consolidato di relazioni gerarchiche quasi sempre a senso unico.

Contarmi e Lloyd richiamavano l'attenzione dei contemporanei sui nuovi rap-porti di forza tra gli Stati europei e all'interno dei singoli paesi. Ma fin dagli inizi dell'età moderna si poteva anche cogliere (con maggiori difficoltà da parte degli italiani, che dovevano rimanere a lungo prigionieri della sindrome di una cristia-

Guerra e civiltà

Grandi Stati, grandi eserciti

Un nuovo mondo tutto da conquistare

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Storia moderna

nità assediata dai musulmani, (cfr. la lezione VII) una svolta significativa nelle rela-zioni tra l'Europa e il resto del mondo. Un manipolo di Stati, che comprendeva sia alcuni di quelli in grado di schierare grandi eserciti da terra (soprattutto la Spagna e la Francia) sia altri paesi, che si affacciavano sull'Atlantico, dal Portogallo all'In-ghilterra e ai Paesi Bassi, era entrato in serrata competizione, soprattutto a partire dall'ultimo quarto del Cinquecento, per il controllo dei traffici oceanici e si era ra-pidamente impossessato di vaste aree del Nuovo Mondo e di una catena di basi strategiche in Africa e in Asia. Gli strumenti principali dell'espansione europea erano stati, in particolar modo nei primi due secoli dell'età moderna, le navi e i cannoni, mentre nel tardo Seicento e nel Settecento la superiorità delle armi occi-dentali si sarebbe gradualmente imposta anche lontano dai mari, nella lotta per il controllo di masse continentali come l'India o l'Europa orientale.

3. La svolta tra Quattro e Cinquecento.

Fine del medioevo

militare

Le compagnie di ventura: un

esercito «interarmi»

Dal tardo e tardissimo medioevo l'età moderna ereditò un insieme di processi, taluni dei quali ancora in fase d'incubazione a fine Quattrocento, ma che in ogni ca-so erano destinati a maturare nell'arco di pochi decenni e a incidere in misura tale, nel loro insieme e nelle loro interazioni, da convalidare anche sotto il profilo milita-re la periodizzazione storica avallata dai manuali. Tali dinamiche furono di regola innescate in Italia, come attesta anche la fortuna europea della lingua militare italia-na: la penisola fu, a seconda dei casi, il laboratorio esclusivo o quanto meno il prin-cipale banco di prova di fenomeni di modernizzazione militare quali il mercato del-la guerra, l'esercito interarmi, l'affermazione tattica delle armi da fuoco, l'architet-tura bastionata, mentre la fanteria pesante di picchieri s'impose a partire dalla vicina Svizzera e la conquista europea degli oceani fu lanciata dalle rive dell'Atlantico.

Fin dal Due-Trecento l'affermazione delle signorie a spese dei comuni e la me-tamorfosi delle città-Stato più ricche e potenti in Dominanti di Stati territoriali più o meno vasti avevano favorito in Italia lo sviluppo di un vivace mercato della guerra, che in altri paesi continuava a essere più o meno mascherato dalla permar

nenza dei vincoli feudali. Sistemi fiscali* e finanziari relativamente solidi in mano a un'esperta burocrazia* avevano consentito - soprattutto ai maggiori Stati dell'I-talia settentrionale - di imbrigliare, entro certi limiti, i condottieri delle compagnie di ventura e dì dotarsi di strutture militari più o meno sofisticate, che al di là delle Alpi sarebbero state ben presto riprese dalle grandi monarchie*. Si tratta di una svolta che si può cogliere anche sul piano linguistico: nel Tre-Quattrocento dall'i-taliano emigrano verso il francese e/o lo spagnolo termini quali esercito (un recu-pero umanistico che si afferma a spese dell'oste feudale), compagnia, condottiero, soldato (un vocabolo-chiave che consacra la centralità dei mercenari, dei profes-sionisti della guerra, in tutta Europa), banda, squadrone, fanteria, cavalleria.

Come indicano alcune di queste parole, la compagnia di ventura aveva intro-dotto nuovi assetti tattici e organici, in buona parte un riflesso del suo carattere -sempre più evidente nel corso del Quattrocento - interarmi, del fatto, cioè, che, pur

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La guerra e la sua evoluzione tecnica

essendo basata sulle lance, su una cavalleria più o meno pesante, prevedeva anche l'utilizzazione di balestrieri, scoppiettieri, bombardieri e fanti muniti di armi bian-che di ogni tipo. Di qui anche la nascita, sotto le tende dei condottieri, di un'arte militare assai evoluta, che non si esauriva affatto, come ha invece preteso a lungo una tradizione storiografica ostile ai mercenari, in scaramucce e in stratagemmi (due vocaboli esportati dall'Italia rinascimentale), ma implicava l'elaborazione di piani strategici e la soluzione di problemi logistici complessi. Mentre la cultura mi-litare dei condottieri doveva influenzare in misura notevole strategie* e tattiche delle guerre d'Italia (1494-1555), fin dai decenni centrali del Quattrocento il mo-dello dell'esercito interarmi era stato ripreso in Borgogna e in Francia, anche se con esiti assai diversi.

Nel 1476-77 l'esercito del duca di Borgogna Carlo il Temerario era stato ripetu-tamente sconfitto dai quadrati di picchieri messi in campo dalla Confederazione svizzera: un tornante militare fondamentale non tanto perché aveva definitivamente segnato il declino della cavalleria pesante - un'arma tattica che, pur continuando a recitare un ruolo importante, in effetti da più di un secolo era stata definitivamente costretta a rinunciare, soprattutto di fronte agli archi lunghi inglesi, a una preminen-za già episodicamente intaccata dalle milizie comunali italiane e fiamminghe -quanto perché aveva attribuito alla fanteria, dopo un'eclissi plurisecolare, una fun-zione offensiva e un'indiscussa centralità sui campi di battaglia e - un risvolto forse ancora più importante - aveva a prima vista capovolto la piramide socio-militare tra-dizionale, collocando i contadini e il popolo minuto al di sopra dei nobili guerrieri.

Dopo le guerre burgundiche il modello svizzero fu imitato ovunque, anche in Italia da condottieri e aspiranti principi quali Vitellozzo Vitellozzi e Cesare Bor-gia. Chi poté permetterselo - come il re di Francia - reclutò direttamente gli sviz-zeri quali mercenari, mentre altri Stati ricorsero a surrogati talora quanto meno al-trettanto validi quali i lanzichenecchi (l'Impero) e i tercios (la Spagna). L'assolda-mento dei picchieri svizzeri, se da un lato consentì di «ingabbiare» tatticamente nell'esercito interarmi francese e, più in generale, delle altre grandi potenze un fe-nomeno per un certo verso regressivo (almeno nella misura in cui faceva apparen-temente ritrovare agli scontri armati il carattere «primitivo» tipico delle zuffe tra i cavalieri feudali), dall'altro permise anche di sterilizzare le istanze «popolari» presenti nelle comunità elvetiche. Non a caso negli anni attorno al 1520 la Confe-derazione sarà soltanto lambita dalla guerra dei contadini, una guerra sostenuta soprattutto dai reduci dalle campagne d'Italia, dagli ex lanzichenecchi conquistati alla causa della Riforma (cfr. la lezione III).

L'alba dell'età moderna fu comunque segnata dal tentativo di molti Stati eu-ropei di inventarsi un modello militare di «massa», di affiancare, cioè, ai pro-fessionisti della guerra all'italiana (ad esempio, come scriveva Philippe de Commynes, «la terribile banda di gente d'arme assoldata», che in Francia Carlo

VIII aveva raccolto «ad imitazione dei signori d'Italia») milizie urbane e, soprat-tutto, rurali che combattessero alla svizzera o che in ogni caso utilizzassero le armi «di popolo» affermatesi tatticamente tra Quattro e Cinquecento, le picche, le alabarde, gli archibugi e le altre armi da fuoco portatili.

I picchieri svizzeri e la sconfitta della cavalleria pesante

Un modello militare di «massa»

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Storia moderna

Su questa strada si posero assai per tempo anche gli Stati italiani, tra Quattro e Cinquecento le Repubbliche di Venezia e di Firenze (l'ordinanza organizzata da Niccolò Machiavelli), nel secondo Cinquecento il Ducato di Savoia (la milizia pae-sana) e il Granducato di Toscana (le bande). Machiavelli affidò soprattutto all''Arte della guerra (1521), un testo che avrebbe avuto un'ampia circolazione europea, una proposta diretta a «perfezionare» il modello svizzero sulla scorta di una discutibile ricostruzione della tattica militare dell'antica Roma. Facendo perno su una radicale contrapposizione tra la guerra come arte (mestiere) dei condottieri e le armi proprie, tra un mercato della guerra, cui era attribuita la responsabilità maggiore della crisi militare italiana, e un esercito di cittadini-soldati (in effetti di contadini-soldati, dal momento che si voleva evitare di armare un popolo fiorentino pericolosamente di-viso in fazioni*), che si sarebbe dovuto ispirare ai valori della tradizione repubblica-na, l'opera di Machiavelli finiva per oscillare tra un velleitario rifiuto della moder-nità e l'analisi realistica della guerra contemporanea, tra l'utopia passatista e il ten-tativo di dare una risposta pragmatica al problema politico-militare del momento, quello di riuscire a integrare le «masse» (soprattutto quelle contadine) in uno Stato e in un esercito, che si potrebbero definire territorial-popolari, ma senza che tutto ciò compromettesse le gerarchie di sempre.

Uno dei limiti più evidenti dell'Arte della guerra era la patente sottovalutazio-ne dell'artiglieria e delle armi da fuoco in genere e, in misura minore, della nuova architettura, l'architettura bastionata, che si era sviluppata in Italia per contrastare la sempre maggiore efficacia dell'artiglieria d'assedio. Cannoni e bombarde - al-tri due termini di matrice italiana - erano impiegati fin dal primo Trecento, ma a lungo la loro efficacia era stata modesta sia negli assedi che, in misura ancora più evidente, sui campi di battaglia, dove si era tentato di utilizzarli nell'ultimo scor-cio del secolo. Ma gli sviluppi tecnologici erano stati rapidi grazie anche al para-dossale riciclaggio delle competenze precedentemente maturate nella fabbricazio-ne delle campane. A metà Quattrocento, come aveva segnalato lo slittamento del significato di artiglieria da insieme di arnesi, di cui ci si serve in guerra, a insie-me delle bocche da fuoco, negli assedi l'incisività di tali armi e in modo partico-lare delle grandi bombarde, che scagliavano pesanti palle di pietra, si era accre-sciuta in misura tale che esse erano diventate un fattore fondamentale sul piano strategico ed erano quindi in grado di ridisegnare le mappe della politica a danno di chi ne era privo o ne possedeva troppo poche.

L'anno di svolta era stato il 1453, quando i turchi si erano impadroniti di Co-stantinopoli dopo averne abbattute le mura con proiettili scagliati da bombarde talmente massicce che era stato necessario fonderle sul posto, e quando si era conclusa la guerra dei Cento Anni con la conquista francese, anch'essa grazie a un numeroso parco d'assedio, degli ultimi castelli e città fortificate occupati da-gli inglesi al di qua della Manica. Ma, mentre nell'Europa orientale e in Asia l'artiglieria doveva consentire tra Quattro e Cinquecento la nascita e/o l'afferma-zione di veri e propri «imperi della polvere pirica» (McNeill), da quello ottoma-no a quello russo e a quello dei Moghul in India, nell'Europa centro-occidentale il vantaggio concesso dai cannoni all'offesa sarebbe stato drasticamente ridi-

Un nuovo protagonista:

le armi da fuoco

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La guerra e la sua evoluzione tecnica

mensionato nell'arco di poche generazioni dalla diffusione di un nuovo tipo di architettura, l'architettura bastionata.

Ancora nel secondo Quattrocento, quando nell'Italia centrale stava già diffon-dendosi grazie ai Sangallo, a Francesco di Giorgio Martini e ad altri architetti di grido la convinzione che fosse necessario abbandonare gli schemi «in verticale» e ortogonali della fortezza medievale a favore di una difesa poligonale in profondità, che consentisse a un tempo di neutralizzare l'impatto delle palle nemiche e di sfruttare al meglio le proprie armi da fuoco in funzione difensiva, le fonderie del-l'area franco-borgognona avevano inventato un nuovo tipo di cannone - un mo-dello destinato a rimanere pressoché invariato lungo i tre secoli seguenti - che ave-va ulteriormente ampliato lo scarto a favore degli assediami. Fuso in un'unica co-lata in bronzo o in ottone (in precedenza si utilizzavano dei pezzi, assai meno affi-dabili, a sbarre di ferro battuto legate insieme), il nuovo cannone non solo poteva essere spostato con minori difficoltà (che via terra rimanevano comunque notevoli, data la condizione delle strade: a fine Cinquecento erano necessari dai venti ai trenta cavalli per il trasporto di un cannone), ma consentiva anche, grazie a una ca-mera da scoppio più funzionale, all'uso di polvere pirica in granelli e all'impiego di proiettili in ferro, di poter contare su una maggiore capacità distruttiva.

Chi aveva maggiormente approfittato delle nuove armi era stato il re di Francia, il quale, dopo aver Scacciato gli inglesi, si era annesso a colpi di cannone la Borgo-gna e la Bretagna. Nel 1494, quando Carlo VIII calò in Italia, accumulò inizialmente un successo dopo l'altro soprattutto grazie a un parco d'assedio di quaranta pezzi d'artiglieria, che gli permise di venire rapidamente a capo della resistenza. Questa manifesta superiorità degli attaccanti non durò a lungo, nonostante che fin dai primi anni del Cinquecento fossero avvantaggiati anche dall'impiego, sempre più diffuso ed efficace, di mine fatte brillare in gallerie scavate sotto le mura. I rapporti di forza si rovesciarono infatti a favore della difesa grazie alla ristrutturazione delle fortifica-zioni medievali e alla costruzione di nuove fortezze in base ai principi dell'architet-tura bastionata, un sapere coltivato, tra gli altri, da Leonardo da Vinci e da Miche-langelo Buonarroti. Ma più spesso fu l'urgenza del momento che suggerì importanti innovazioni: ad esempio, il terrapieno fu «inventato» nel 1500, quando i pisani riu-scirono, grazie alle montagne di terra frettolosamente accumulate per rafforzare le vecchie mura, a resistere a lungo al fuoco delle batterie fiorentine.

Dopo essere rimasta per mezzo secolo confinata nella nostra penisola, a par-tire dalla fine degli anni venti del XVI scolo e con ritmi e intensità assai diversi a seconda dei contesti geopolitici e sociali la trace italienne - così fu battezzato al di là delle Alpi il nuovo sistema difensivo - si diffuse nel Vecchio Continente e nel Nuovo Mondo. Furono gli architetti-ingegneri italiani che la introdussero prima della metà del Cinquecento in Francia (dove Francesco I impiegò un cen-tinaio di tecnici per presidiare il confine settentrionale del regno con una quin-dicina di fortezze munite di più di mille pezzi d'artiglieria) e nei Paesi Bassi, in Spagna e nell'Impero, mentre altre aree - dall'Europa orientale all'Inghilterra -opposero maggiori resistenze al processo di irradiazione dell'architettura ba-stionata. Come è ovvio, spettò all'italiano trasmettere alle altre lingue europee

Come difendersi dai cannoni: l'architettura bastionata

Attaccanti e difensori

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Dalle grandi battaglie

alla guerra d'assedio

Storia moderna

il nuovo lessico fortificatorio, da bastione a rivellino, da terrapieno a gabbione, da scarpa a casamatta.

Le guerre d'Italia furono quasi tutte combattute nella fase di transizione dal-l'architettura medievale a quella bastionata da eserciti, all'interno dei quali recita-va una parte sempre maggiore la fanteria di picchieri. Di qui il carattere relativa-mente «aperto» dei conflitti, il succedersi - un aspetto tipico di tale periodo - di una serie di grandi battaglie, da quella di Fornovo (1494), che vide l'esercito di Carlo VIII duramente impegnato, mentre stava ritornando in Francia, da una coali-zione italiana, a quella di Pavia (1525), che assicurò a Carlo v una vittoria decisi-va sui francesi. Dopo Pavia il teatro di guerra italiano passò, anche a causa dei progressi dell'architettura bastionata, in secondo piano. Non a caso anche le gran-di battaglie «emigrarono» al di là dei monti, in aree ancora relativamente sprovvi-ste di fortezze di nuovo tipo (lo scontro più importante fu quello di Muehlberg nel 1547, una schiacciante vittoria di Carlo v sulla lega protestante di Smalcalda, che non impresse tuttavia una svolta alla guerra). In conto all'architettura bastionata va anche messo, in una certa misura, il successo del tentativo degli Asburgo di bloccare l'avanzata ottomana ai margini settentrionali della pianura ungherese.

Se nel medio periodo la trace italienne garantì una maggiore stabilizzazione del-le frontiere e quindi giocò a favore dei piccoli Stati in lotta «contra essercito di gran lunga maggiore», nel breve finì paradossalmente per ritorcersi a danno di chi ricor-se a essa. L'eclissi della libertà italiana va imputata anche all'adozione di una nuo-va, dispendiosa architettura da parte di piccoli Stati, che furono travolti (si veda il caso della repubblica di Siena) quando non avevano ancora completato gli ambizio-si piani fortificatori e, a un tempo, non possedevano più le risorse finanziarie che avrebbero permesso loro di reclutare le truppe necessarie sul mercato della guerra.

Sotto questo profilo i grandi Stati d'oltralpe godettero di un consistente vantag-gio iniziale sugli italiani, in quanto poterono a lungo investire unicamente sugli eser-citi da campagna. In ogni caso l'architettura bastionata (che ancora prima della metà del Cinquecento riguardò non più le singole città ma il territorio, come è ad esempio testimoniato dalla costruzione, da parte di Venezia, della città-fortezza di Palmanova e, nel secolo successivo, dai grandi sistemi fortificati di Vauban in Francia e di Coehoorn nei Paesi Bassi) e i parchi d'artiglieria (meno costosi e più efficaci a parti-re dal secondo Cinquecento, da quando, cioè, si diffuse l'utilizzazione del ferro - dal primo Settecento anche dell'acciaio - nelle fonderie) contribuirono notevolmente a diradare le file dei «potentati grandissimi»: fu più la corsa agli armamenti difensivi e alle flotte che quella ai «grossi eserciti» da campagna che incise sugli equilibri mili-tari e politici e fece salire in misura esponenziale i costi della guerra.

Ad esempio il costo delle guerre combattute dalla Spagna all'estero aumentò dal 1547-48 al 1590-98 da meno di due milioni di ducati all'anno a più di nove milioni. Finanziare le guerre era sempre stata un'impresa assai problematica per gli Stati. Nel secondo Cinquecento la forbice tra le risorse a disposizione e le spe-se si aprì spaventosamente, nel caso spagnolo nonostante i metalli preziosi ameri-cani o forse proprio a causa delle eccessive aspettative legate al loro arrivo. Di-ventò sempre più necessario ricorrere al mercato internazionale del credito, ai

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La guerra e la sua evoluzione tecnica

grandi banchieri tedeschi (i Fugger e i Welser) e italiani (i genovesi). Ma l'accu-mulo di un enorme debito pubblico indusse Filippo II a dichiarare bancarotta, vale a dire a consolidare forzosamente il debito, più volte nell'arco di pochi decenni con tutta una serie di ripercussioni a catena tanto finanziarie (i fallimenti dei gran-di banchieri tedeschi) quanto militari (cfr. la lezione VII . La cronica mancanza di denaro fu una delle cause dell'eclissi delle grandi battaglie prima della guerra dei Trent'Anni: ammutinamenti di truppe non pagate e devastazioni come il sacco di Anversa del 1576 furono la risposta di una macchina da guerra imballata da acce-lerazioni, che gli Stati e i mercati non erano in grado di reggere.

Già nel primo Cinquecento delle grandi battaglie, ma ancor di più nel secondo Cinquecento degli assedi la fanteria eclissò la cavalleria, che a fine secolo arrivò a comprendere meno del 10% delle truppe. La fortuna delle tre maggiori fanterie «et-niche» affermatesi tra Quattro e Cinquecento - svizzeri, lanzichenecchi e spagnoli -fu diversa. Mentre gli svizzeri rimasero sostanzialmente fedeli alla formula tattica delle guerre burgundiche (una scelta conservatrice favorita anche dal fatto che il loro reclutamento era gestito dalle autorità cantonali), i lanzichenecchi e gli spagnoli si rivelarono parecchio più duttili, una flessibilità che in entrambi i casi appare in parte legata alla presenza nelle loro file di nobili che combattevano a piedi. La fanteria spagnola si era convertita al quadrato svizzero a fine Quattrocento, ma, anche per-ché comandata da grandi generali come Consalvo di Cordova e Ferrante d'Avalos, riconobbe per tempo l'importanza delle armi da fuoco non solo a sostegno delle masse dei picchieri. Quando, nel 1534, la fanteria fu organizzata in tercios di tremila uomini, questi ultimi furono equamente divisi tra picchieri e moschettieri con i se-condi - un indice inequivocabile del loro maggiore rilievo - pagati meglio dei primi.

Fin dalla metà del Trecento erano stati collocati sul cassero delle navi europee dei piccoli pezzi d'artiglieria. Il loro compito era quello di bersagliare, unitamente ai balestrieri o agli arcieri, gli equipaggi e i soldati nemici in fase di abbordo: l'impiego dell'artiglieria non aveva quindi modificato, in un primo tempo, una tattica navale basata sullo speronamento e sull'arrembaggio e che di fatto rendeva il combattimento per mare assai simile a quello per terra. Alla fine del Quattro-cento l'impiego dei cannoni del tipo perfezionato in area franco-borgognona a bordo delle navi fu reso possibile dai rapidi progressi della cantieristica - soprat-tutto di quella atlantica, che consentì di varare imbarcazioni a un tempo più ca-pienti, più stabili e, grazie a una velatura maggiore, più veloci - e dalla capacità di trovare soluzioni soddisfacenti ai problemi posti dal rinculo e dal peso dei pez-zi. Ben presto montati sulle navi a vela in batteria lungo le fiancate, i cannoni non solo garantirono alle flotte europee una manifesta superiorità su quelle degli altri continenti, ma permisero di inventare una nuova tattica, il bombardamento a di-stanza con l'obiettivo di disalberare le navi nemiche, se non di affondarle.

Furono, a quanto pare, i portoghesi ad adottare per primi tale tattica, quando, dopo aver circumnavigato l'Africa, si affacciarono sull'Oceano Indiano. Nel 1502 Vasco de Gama sconfisse la flotta di Calicut schierando le sue navi in linea e cannoneggiando il nemico con un fuoco intenso. Sette anni più tardi la grande vittoria di Diu su una spedizione egiziana consegnò il controllo delle principali

Fortune della fanteria: svizzeri, lanzichenecchi e spagnoli

Le navi coi cannoni

Strategie e tattiche della guerra

navale

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Storia moderna

rotte dell'Indiano nelle mani dei portoghesi: l'avrebbero perduto un secolo più tardi non tanto a causa della resistenza degli asiatici - che pure non mancò soprat-tutto da parte dei musulmani dell'India e dell'Indonesia - quanto in seguito agli attacchi degli olandesi e degli inglesi. In Europa il nuovo tipo di combattimento navale si impose quasi un secolo e mezzo più tardi, nel 1639, quando nella Mani-ca una flotta olandese riuscì a far colare a picco, grazie alla nuova tattica, i quattro quinti di una flotta spagnola numericamente superiore.

È vero che cinquant'anni prima, nel 1588, l'Invencible Armada di Filippo II era stata sconfitta da una flotta inglese in circostanze assai simili. Ma la clamoro-sa vittoria britannica non era stata il frutto di una consapevole rivoluzione tattica (gli stessi inglesi non avrebbero affatto colto la singolarità dell'episodio) quanto piuttosto del fallimento del tentativo spagnolo di inchiodare il nemico ricorrendo al modulo tradizionale che gli aveva garantito il successo nel 1571 a Lepanto contro la flotta turca (i galeoni dell 'Armada non erano attrezzati per il bombarda-mento a distanza, ma per un arrembaggio, che le più veloci navi inglesi riuscirono a evitare): un nemico che invece, grazie all'adozione di un modello di affusto ol-tremodo funzionale se paragonato a quello in uso presso altre marine, era in grado di utilizzare al meglio la propria artiglieria.

Un particolare rilievo merita invece la battaglia navale del 1588 sotto il profilo strategico, dal momento che all'origine della spedizione spagnola contro l'Inghil-terra vi era da un lato la volontà di distruggere le basi principali di una guerra di corsa*, che colpiva in misura sempre maggiore gli interessi ispanici, e dall'altro la convinzione che si poteva venire a capo della rivolta olandese unicamente neu-tralizzando il supporto logistico britannico.

La guerra di corsa era quella che ammiragli come Hawkins o Drake organizza-vano contro gli insediamenti spagnoli sulla terraferma americana e nelle isole dei Caraibi. Presi di mira erano soprattutto i convogli (la flota de indias) che conduce-vano i metalli preziosi dalle Antille a Siviglia.

Nel caso dei Paesi Bassi l'articolato sistema difensivo e gli sviluppi dell'arte militare campale avevano fatto sì che la repressione spagnola della rivolta si risol-vesse in una logorante e interminabile guerra di posizione. Una vittoria nel canale della Manica avrebbe consentito agli spagnoli sia di uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciata la guerra terrestre (e ciò soprattutto nelle aree dove la diffusione dell'architettura bastionata aveva moltiplicato gli attriti), sia di far regnare un nuovo ordine sui mari a spese dei corsari e dei pirati*. Il fallimento della spedi-zione dell'Invencible Armada doveva invece contribuire a stabilizzare maggior-mente i confini di terra nelle Fiandre e rendere a un tempo ancora più aperti e in-controllabili gli spazi marittimi, soprattutto quelli dell'Atlantico.

4. Dalla guerra delle Fiandre alla guerra dei Trent'Anni.

Nel corso di più di ottant'anni (1567-1648) le Fiandre furono, come scriverà Francesco Marzioli nel 1669, il «teatro della militar disciplina di campeggianti eserciti», il laboratorio di una nuova fase della rivoluzione militare. L'esercito

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Gli spagnoli nelle Fiandre:

un esercito permanente

La guerra e la sua evoluzione tecnica

spagnolo delle Fiandre deve essere considerato il primo esercito permanente: fu in seno ad esso o in funzione di esso che venne istituito il primo ospedale militare stabile, si provvide ai veterani e alle vedove, furono costruite le prime baracche per la truppa e venne creata un'imponente struttura logistica imperniata sull'asse Milano-Bruxelles. Ancora più importante fu l'esperienza militare olandese grazie alle riforme introdotte da Maurizio di Orange-Nassau, che in qualità di statholder comandò l'esercito delle Province Unite dal 1585 al 1625. Diversamente dalla Spagna e da quasi tutti gli altri Stati europei, l'Olanda poteva tempestivamente garantire alle proprie truppe, facendo leva su una finanza di guerra ben organizza-ta, denaro e rifornimenti: di qui la possibilità di addestrare l'esercito secondo le regole di una «militar disciplina» più pervasiva di quella tradizionale e che mira-va a fare del soldato un professionista a tempo pieno.

Il «nuovo, stupefacente Leviatano» (McNeill) nacque in risposta a esigenze a un tempo tattiche e organiche. Anche se una minoranza di picchieri continuò a essere presente sui campi di battaglia, il peso degli scontri ricadde sui moschet-tieri, che furono addestrati a sparare, fila dopo fila, tutti insieme in modo da assi-curare il cosiddetto fuoco continuo e, contemporaneamente, a effettuare marce e contromarce e quindi a manovrare sia in fase d'attacco che di disimpegno. Il pri-mo manuale di addestramento militare (scomponeva in trentadue fasi i movi-menti necessari a sparare con il moschetto, in quindici quelli per caricare con la picca ecc.) fu ideato a fine Cinquecento da un cugino di Maurizio, Giovanni II di Nassau, colui che avrebbe aperto nel 1616 a Siegen la prima accademia* milita-re degna di questo nome.

Le esigenze dell'addestramento indussero a preferire unità tattiche più piccole e con un numero assai maggiore di ufficiali e di sottufficiali. La metamorfosi dei soldati da una massa tenuta insieme da rapporti tradizionali di aggregazione in un sistema di comunità primarie artificiali fortemente coese (lo spirito di corpo a li-vello di compagnia, battaglione ecc.) fu ottenuta mediante un incessante controllo e continue esercitazioni. Maurizio introdusse anche tra le «armi» del soldato la vanga, un arnese indispensabile nella guerra d'assedio, e ottenne l'adozione di moschetti tutti della medesima lunghezza e dello stesso calibro. Come attesta il ti-tolo dell'opera che ispirò in parte queste riforme, De milìtia romana di Giusto Li-psio, fu ancora sotto il segno di una classicità riconquistata che si volle collocare questi sviluppi. In effetti l'Olanda realizzò «la prima delle rivoluzioni industria-li», «l'industrializzazione del comportamento militare» (Feld).

Come avrebbe osservato Adam Smith, il soldato degli eserciti permanenti non si distingueva più, come quello rinascimentale, per «destrezza e abilità», per le sue qualità di artigiano della guerra, ma per «regolarità, ordine e pronta obbe-dienza ai comandi»: era cioè diventato un congegno - una sorta di operaio-mas-sa - di una macchina militare gestita in modo razionale mediante l'unione siste-matica della tecnica e del controllo e alimentata al più basso costo possibile da una manodopera grezza e da armi standardizzate. Il quadro disciplinare imposto al soldato non ne limitava soltanto la pericolosità per la società «borghese», ma trasformava l'esercito permanente in uno strumento di civilizzazione: l'arte della

L'avvento dei moschettieri: standardizzazione e regolarità

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Storia moderna

Perfezionamenti svedesi

Imprenditori della guerra:

Wallenstein

guerra diventava «la più nobile delle arti» (Smith), anche perché nella versione accreditata dagli Orange Nassau il corpo ufficiali doveva riconoscersi nell'ideo-logia neostoica di Lipsio, in valori professionali nutriti da un'etica calvinista.

La lezione olandese fu ripresa, questa volta nel quadro di una strategia offensi-va, dal re di Svezia Gustavo Adolfo (1594-1632), la più fulgente meteora della guerra dei Trent'Anni (1618-48). Il precettore militare di Gustavo Adolfo era sta-to un nobile svedese che aveva frequentato l'Accademia di Siegen: di qui un ad-destramento delle truppe svedesi (un esercito di leva a lunghissima ferma, che nelle campagne di Germania sarà rafforzato da massicci contingenti di mercenari) sulla falsariga del sistema mauriziano. Gustavo Adolfo lo rese ancora più effi-ciente mediante l'adozione di una serie di provvedimenti diretti a garantire alle sue truppe una maggiore mobilità: introdusse moschetti più leggeri, assottigliò il numero delle file necessarie ad assicurare il fuoco continuo da dieci a sei, riasse-gnò una funzione tattica importante alla cavalleria che tornò a caricare all'arma bianca, rinnovò infine, grazie a un grande tecnico e finanziere olandese, Louis de Geer, l'artiglieria, che fu composta soprattutto da pezzi di calibro inferiore - e quindi più mobili - rispetto a quelli tradizionali; pezzi soprattutto in grado di spa-rare anche a mitraglia e con una cadenza di fuoco assai più fitta dei due-tre colpi all'ora raggiunti in precedenza.

Queste innovazioni furono ben presto imitate dagli altri eserciti, in modo parti-colare nel 1640 dal New Model Army di Oliver Cromwell (una forza armata nazio-nale espressione della gentry e anche per questo motivo dotata di una cavalleria re-lativamente numerosa) e dall'esercito francese del principe Luigi II di Condé, che batté a Rocroi i tercios spagnoli grazie al nuovo addestramento di tipo olandese-svedese, e fin dal 1630 da quello imperiale di Albrecht von Wallenstein, il grande antagonista di Gustavo Adolfo. Ma grazie a queste innovazioni fu rivoluzionata anche la tattica. In precedenza era difficile andare più in là di un accorto schiera-mento iniziale delle forze in campo: con Gustavo Adolfo (e in misura ancora mag-giore con Cromwell) si riuscì anche a utilizzare in modo coordinato tutte e tre le armi nel corso delle battaglie, le quali forse anche per questo motivo recuperarono, quanto meno in Germania (altrove - e lo attesta l'esempio di Candia, una fortezza veneziana assediata dai turchi dal 1646 al 1669 - la nuova architettura contrastò con successo tale tendenza) l'incisività e la frequenza smarrite nel secondo Cin-quecento. Wallenstein, un nobile ceco che con l'aiuto di uno speculatore fiammin-go riuscì a riunire, all'apogeo delle sue fortune, un esercito personale di cinquanta-mila uomini, fu il più celebre, il più ricco e a lungo il più fortunato dei circa quat-trocento imprenditori della guerra attivi negli anni attorno al 1630, una categoria incentivata dalla debolezza delle finanze statali, dalla frammentazione politica del-la Germania e da una guerra concepita sempre più come un affare.

La guerra dei Trent'Anni fu a un tempo l'ultima grande guerra di religione e l'esito, affatto secolare, dell'affermazione di un sofisticato mercato militare poco rispettoso delle divisioni confessionali. Ma le nuove frontiere raggiunte da un ca-pitalismo finanziario in armi sempre meno controllato dagli Stati alimentarono anche una spirale distruttiva, che compromise in misura macroscopica le fonda-

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La guerra e la sua evoluzione tecnica

menta del circuito bellico: non solo la popolazione e le risorse economiche della Germania furono drasticamente decurtate dal conflitto, ma la terribile pressione fiscale innescò rivolte e ribellioni anche lontano dal teatro della guerra, dal Porto-gallo alla Catalogna, dal Regno di Napoli alla Francia.

In quegli stessi decenni sui mari i corsari e i pirati, entrambi spesso sotto la gui-da di membri della piccola nobiltà o della borghesia protestante d'Inghilterra, Olan-da e Francia, vissero le loro stagioni d'oro. Anche se lungo tutto il secolo la flotta Spagnola del tesoro delle Indie - la preda più ambita dai corsari - fu catturata sol-tanto due volte, l'offensiva degli outsiders dei mari contro i monopoli commerciali delle potenze cattoliche ebbe successo, oltre che in America, anche in Asia e nello stesso Mediterraneo, che vide nell'arco di pochi decenni le galere, le tradizionali

Della guerra col Turco in Ungheria 1660-1664, un'opera del generale impe-riale Raimondo Montecuccoli (1609-80) più nota sotto il titolo di Aforismi del-l'arte bellica, se da un lato compendiava le lezioni della guerra dei Trent'Anni e di quelle degli Asburgo contro gli ottomani (lo stesso Montecuccoli aveva blocca-to nel 1664 un'avanzata turca in direzione di Vienna), dall'altro tracciava una ver-sione aggiornata della rivoluzione militare in chiave assolutista, un progetto poli-tico-militare che sarà adottato, più che dallo stesso Impero, dalla Francia di Luigi

XIV. In particolare Montecuccoli insisteva sul «dispotismo» quale bussola del principe e del generale e individuava nelle fortezze reali i «mezzi efficaci alla tranquillità pubblica coll'assicurar le forze de' reggenti e l'obbedienza ne' sudditi

ed il buon ordine dentro e la resistenza alle violenze di fuora».

Corsari e pirati

5. L'età degli eserciti permanenti.

Nel secondo Seicento quel controllo degli Stati europei sulla guerra, che Mon-tecuccoli aveva auspicato, aumentò in misura notevole grazie a una serie di fattori di regola correlati tra essi: 1) strutture finanziarie statali più solide, 2) forze armate permanenti, 3) imperi coloniali, 4) politiche mercantilistiche*, 5) assolutismo mo-narchico, 6) marginalità dei conflitti religiosi. La creazione o il consolidamento di marine ed eserciti permanenti (un fenomeno testimoniato anche dalla diffusione delle caserme e di altri spazi riservati ai militari, dalla moltiplicazione delle scuole

per la formazione degli ufficiali e dalla sofisticazione e dall'irrigidimento di una gerarchia militare in precedenza poco articolata e di fatto subordinata al rango so-ciale) comportò una maggiore standardizzazione delle insegne della guerra - l'u-niforme - e delle armi. Tale opzione, se consentì di ottenere notevoli vantaggi sot-to il profilo logistico e tattico e se favorì un addestramento sempre più rigoroso (il cui prodotto più celebre fu il soldato-automa prussiano), rese tuttavia assai costosa

la sostituzione delle armi e quindi meno conveniente l'innovazione tecnologica. Se si esclude un'improvvisa accelerazione registrata negli ultimi decenni del

Seicento, quando si sostituì il moschetto a ruota con quello a pietra focaia (il fuci-le permise di poter sparare anche tre colpi al minuto e conseguentemente di ridur-

Caserme, uniformi, standardizzazione

La cavalleria leggera

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Valeria
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navi locali a remi e a vela, cedere il passo ai velieri oceanici (cfr. la lezione VII)
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Storia moderna

L'avvento delle marine

regolari

Il complesso militar-

industriale francese

re la profondità delle formazioni a sole tre righe) e quando la baionetta a collare e i cavalli di Frisia estromisero la picca dai campi di battaglia, la tattica segnò il passo. I mutamenti più importanti riguardarono la cavalleria - un'arma tornata a essere efficace non tanto per il recupero delle corazze della cavalleria pesante, quanto perché era in grado, grazie ai dragoni, di assicurare una massa di fuoco mobile - e soprattutto gli squadroni di cavalleria leggera (ussari, croati, cosacchi ecc.) consentivano di praticare al meglio la «piccola guerra», la guerra di «partiti» così diffusa in special modo nell'Europa orientale.

Il successo delle compagnie di commercio, l'adozione di un'intransigente po-litica mercantilistica da parte inglese e francese a danno di un sistema olandese basato sull'intermediazione e la collaborazione tra i governi coloniali nella lotta contro i pirati contribuirono in misura diversa alla «chiusura» dei mari. Nei primi secoli dell'età moderna «guerra, scoperte e commercio erano termini quasi inter-scambiabili» (Howard), anche perché quasi sempre le navi da guerra erano nello stesso tempo navi mercantili. Tra Sei e Settecento s'impose una specializzazione, a sua volta causa e prodotto dell'affermazione delle marine regolari. L'Inghilterra, la Francia e, prima di tutte, l'Olanda riuscirono ad attivare un ciclo militar-com-merciale «virtuoso», che consentiva di moltiplicare i traffici grazie alla sequenza: maggiore ricchezza - ulteriori risorse militari - incremento della potenza tanto sul fronte coloniale quanto su quello europeo. Come aveva osservato un olandese fin dal primo Seicento, «il commercio non può essere mantenuto senza la guerra, né la guerra senza il commercio» (G. Parker).

Su questa strada si pose anche la Francia di Luigi XIV e di Colbert, che cercò di promuovere un complesso militar-industriale e marinaro imperniato sullo Stato. Tuttavia i maggiori successi del re Sole furono ottenuti grazie alla creazione di un enorme esercito permanente (raggiunse quasi i 400 000 uomini nel corso della guerra di successione spagnola); lo coadiuvarono in questa im-presa due burocrati di prim' ordine, Michel le Tellier e suo figlio il marchese di Louvois, che crearono un'efficace struttura burocratica addetta al controllo delle truppe e alla gestione degli aspetti logistici. Meno fortunato il tentativo di dotare l 'esercito e la marina di un moderno corpo ufficiali preparato da scuole militari. Un grande ingegnere militare, Sébastien Le Prestre de Vauban, realizzò al meglio un sistema integrato di fortificazioni permanenti a difesa delle frontiere simile a quello auspicato da Montecuccoli, mentre all'interno del regno distrusse quelle fortezze, che potevano ostacolare la piena afferma-zione del sovrano.

Per quanto clamorosa, l'ascesa militare della Francia all'ombra di Luigi XIV non fu affatto eccezionale. Se si escludono la Spagna e, in misura minore, l'Olanda e la Svezia, anche gli altri maggiori Stati europei incrementarono, talvolta di pa-recchio, le loro forze armate, consolidando o creando ex novo degli eserciti perma-nenti. In taluni casi - soprattutto la Russia di Pietro il Grande e, a un livello infe-riore, l'Impero grazie a grandi generali e organizzatori come Montecuccoli ed Eu-genio di Savoia - furono sfruttate a fini militari notevoli potenzialità, soprattutto demografiche, preesistenti. In altri - il Brandeburgo-Prussia e, su scala minore, la

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La guerra e la sua evoluzione tecnica

Savoia-Sardegna - l'esercito permanente divenne a un tempo la ragione sociale e lo strumento di affermazione di una nuova potenza.

Il duca di Savoia Vittorio Amedeo II e in Germania il grande elettore Federico Guglielmo di Hohenzollern furono i protagonisti di un rinnovamento quanto mai incisivo. Federico Guglielmo riuscì abilmente a sottrarre alle assemblee dei ceti la riscossione delle tasse* di guerra e ad affidarle a un organo burocratico, il Ge-neralkriegskommissariat, una scelta strategica che permise di portare nel 1678 a 45 000 uomini un esercito, che un paio di decenni prima era composto da poche migliaia di soldati. Il grande elettore e i suoi successori Federico Guglielmo I (1713-40) e Federico II (1740-86) non si limitarono a fare leva su una pervasiva struttura burocratica, ma realizzarono una straordinaria fusione tra la nobiltà e il corpo uffi-ciali (una strategia ripresa con minor successo in Russia da Pietro il Grande), river-sando direttamente, grazie a un sistema di reclutamento di tipo territoriale che ri-prendeva il modello svedese e a una ferrea disciplina, la società rurale nell'esercito.

L'eccezionale e riuscita lotta per la sopravvivenza, che impegnò Federico II durante la guerra dei Sette Anni, impose il re di Prussia e il suo esercito all'atten-zione di tutta l'Europa. Tuttavia, come indica anche la sua massima che «il mag-gior segreto nella condotta della guerra e il capolavoro per un buon generale è di riuscire ad affamare l'avversario», Federico II non inaugurò tanto una nuova sta-gione militare quanto riuscì a sfruttare al meglio, con una particolare attenzione per i problemi logistici e organici, la tradizionale guerra d'attrito. Ma la guerra dei Sette Anni fece anche emergere i limiti strutturali della politica militare prus-siana: il sacrificio di un quarto dei coscritti e una finanza di guerra, che impe-gnava i nove decimi del bilancio, sarebbero stati inutili, se la Russia non avesse modificato a favore di Federico II gli equilibri internazionali. Sovrano illumina-to, il re di Prussia cercò di formare il corpo ufficiali in base a valori-guida, che implicavano un difficile amalgama tra disciplina e spirito di iniziativa, raziona-lità e rispetto della tradizione.

La specializzazione militare della Prussia e del Piemonte

6. Le guerre della Rivoluzione e dell'Impero.

L'alba di un nuovo mondo militare, che per un certo verso riproponeva su un piano nazionale e in chiave ideologica «popolare» - il cittadino-soldato - i temi e i problemi al centro della riflessione di Machiavelli, si levò, a partire dagli an-ni 1770, nell'area della cosiddetta rivoluzione atlantica, dalle colonie inglesi d'America alla Francia. Gli esiti politico-militari delle due maggiori rivoluzioni furono a prima vista simili, dal momento che, una volta raggiunta una certa sta-bilizzazione, in entrambi i casi il potere fu assunto dai due generali, George Washington e Napoleone Bonaparte, che più di tutti si erano distinti nel corso delle guerre precedenti. Ma, mentre negli Stati Uniti tanto l'assetto federale quanto il basso profilo assegnato all'esercito-milizia impedirono qualsiasi sboc-co militarista, in Francia il bonapartismo suggellò la metamorfosi di un esercito nato per difendere la patria dai nemici della rivoluzione in un esercito docile

L'esercito-milizia

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Storia moderna

Le innovazioni della Rivoluzione

Napoleone: vittorie

e sconfitte

strumento dell'affermazione dapprima di una Grande Nation e in seguito del-l'Impero sull'Europa.

Le vittorie di Bonaparte furono soprattutto il prodotto di una rivoluzione nell'or-ganico: da un lato un corpo ufficiali frutto di una selezione fondamentalmente meri-tocratica; dall'altro una massa di soldati, la più numerosa mai mobilitata da uno Sta-to nell'Europa moderna, galvanizzata da una miscela di motivazioni, che abbraccia-vano, in dosi diverse a seconda dei tempi, l'ideologia e la promessa di un'ascesa so-ciale, la bramosia di ricchezza e il carisma napoleonico. L'esercito era stato in pas-sato, soprattutto nel Seicento, un fattore non tanto di mobilità quanto di integrazione sociale: se la Rivoluzione favorì un ricambio di ceto, l'Impero si affidò a una no-biltà militare, che parve riportare indietro le lancette dell'orologio della storia.

Le guerre della Rivoluzione e dell'Impero fecero tesoro di alcune novità intro-dotte in Francia nel secondo Settecento, dalla divisione (che permetteva di con-trollare con minori difficoltà i nuovi eserciti di massa) alla pianificazione quoti-diana dei movimenti delle truppe mediante carte, dall'impiego della fanteria leg-gera (i tiragliatori, gli antenati dei bersaglieri) a quello di un'artiglieria campale assai più mobile e precisa di quella tradizionale (grazie al riformismo tecnologico di Jean-Baptiste Vacquette de Gribeauval), un'artiglieria cui era stata assegnata una funzione tattica decisiva trasferendo le regole della guerra d'assedio (concen-trazione del fuoco per aprire delle brecce ecc.) al campo di battaglia. Di suo la ri-voluzione aggiunse la colonna d'attacco al posto della linea di tiratori, una scelta obbligata data la carenza nei primi eserciti rivoluzionari di truppe addestrate, e una logistica semplificata dalla tendenza a vivere a spese del paese conquistato.

Quanto a Bonaparte, un ufficiale di artiglieria - come del resto Lazare Carnot, l'ufficiale del genio che diresse la mobilitazione della Francia rivoluzionaria -che incarnava anche la supremazia delle armi dotte, dei tecnocrati, sulle armi e sui valori militari tradizionali, seppe mirabilmente saldare la strategia alla tattica. Partendo, negli anni della Grande Armée, da una dispersione delle forze, era in grado di concentrarle rapidamente in un settore chiave (Ulm e Austerlitz nel 1805, Jena nel 1806 ecc.). Nella crisi e infine nel tracollo dell'Europa di Napoleo-ne, più che la cattiva qualità delle truppe schierate nelle ultime campagne e il pro-blema dei rifornimenti, contò una questione sempre più angustiante soprattutto nei teatri più poveri come la Spagna e la Russia: la reazione patriottica delle na-zioni* europee, dalla Germania all'Inghilterra. La politica del blocco continenta-le, la replica di Napoleone alla schiacciante superiorità della marina britannica, finì per rivoltarsi contro la Francia imperiale.

7. Una rivoluzione militare?

Il tema, che nel corso degli ultimi quarantanni si è collocato al centro della discussione degli storici militari sull'età moderna, è quello della «rivoluzione mi-litare», una formula interpretativa lanciata nel 1955 da Michael Roberts limitata-mente al secolo olandese-svedese 1560-1660, ma che Geoffrey Parker ha invitato

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Cambiamenti decisivi

La guerra e la sua evoluzione tecnica

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ad estendere al più ampio arco cronologico 1500-1800. Anche a Piero Pieri, il maggior storico militare italiano nei decenni centrali di questo secolo, era capitato di adoperare nel suo capolavoro su La crisi militare italiana nel Rinascimento nelle sue relazioni con la crisi politica ed economica (1934) un'espressione quale «rivoluzione dell'arte della guerra», ma nel suo caso unicamente a proposito del «trapasso dell'arte militare medievale a quella del Rinascimento», un'«evoluzio-ne» per di più analizzata in relazione a due sole variabili, tattica (la fanteria dei picchieri al posto della cavalleria feudale) ed organica («l'avviamento agli eserciti statali permanenti»),

Roberts individuava invece quattro cambiamenti decisivi, sommando alle «trasformazioni» tattica e organica individuate da Pieri - ma lo storico britannico faceva cadere l'accento rispettivamente sulla fanteria di moschettieri e sulla smi-surata crescita quantitativa degli eserciti - gli sviluppi strategici e l'importanza conquistata dal militare in seno alla società e soprattutto allo Stato (importantissi-

mo l'impatto sull'amministrazione e sulla finanza). A sua volta Parker ha integra-to lo schema di Roberts, uno schema che continuava a riflettere un modulo storio-grafico di matrice idealista imperniato sul binomio guerra-politica, aggiungendo-vi due fattori-chiave, che promuovono in primo piano la tecnologia: l'architettura

bastionata, in base alla cui diffusione ha tracciato le mappe della rivoluzione mili-tare, e la marina, lo strumento principale, fino al Settecento, dell'espansione euro-pea nel mondo. È quest'ultimo il tema che fa cambiare di scala alla rivoluzione militare, che la trasforma da un processo concernente l'Europa, e neanche tutta, in una delle coordinate dell'età moderna a livello planetario.

Le tesi di Parker hanno innescato un dibattito, che ha raggiunto temperature particolarmente elevate grazie al contributo di un altro storico britannico, Jeremy Black, ricco di spunti critici, anche se talvolta scopertamente capziosi: è il caso sua limitata diffusione (un'affermazione che per analogia dovrebbe indurre a con-siderare marginale la bomba atomica in quanto monopolizzata da poche potenze), ma incapace di proporre un'interpretazione globale alternativa. Appare inoltre di-scutibile il suo tentativo di rovesciare la sequenza accolta dalla maggioranza degli storici che individua nella nascita degli eserciti permanenti la matrice degli Stati assoluti: se è indubbio che la «maggiore stabilità» delle potenze, fosse essa il frut-to di un'«uniformità religiosa» oppure di una ritrovata intesa tra la corona e la no-biltà, fu una condizione necessaria allo sviluppo degli eserciti permanenti, non per questo va dimenticata la spinta impressa dalle guerre, sia internazionali (si ve-da il caso prussiano) che intestine (la Francia), a favore di un assetto più favore-vole a un potere esecutivo considerato al di sopra delle fazioni religiose e politi-che in lotta. In ogni caso la «maggiore stabilità» fu spesso un risultato ottenuto e soprattutto consolidato mediante l'impiego delle armi.

In Italia il dibattito più vivace si è incentrato sulla tradizione militare, lo Stato e l'esercito nel Piemonte sabaudo; e ciò in ragione del ruolo che tale apparato sta-tuale avrà nel processo di costruzione dell'unità d'Italia. Per alcuni studiosi (Barberis) l'esercito ha costituito, lungo quattro secoli di storia, dalla restaurazio-

Dibattiti e controversie

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del tentativo di ridimensionare il ruolo dell'architettura bastionata alla luce della
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Storia m o d e r n a

ne del ducato di Savoia sotto Emanuele Filiberto all'unificazione, non solo uno degli assi fondamentali della storia piemontese ma anche un'istituzione capace di costruire solidi miti ed efficaci autorappresentazioni. La discussione apertasi su queste tesi, ricca e vivace, ha insistito, con diversi accenti, sull'efficienza del sistema militare sabaudo (Stumpo) e sul ruolo dell'esercito come un meccani-smo moderno di integrazione sociale: una struttura, in altre parole, che almeno nel Settecento non rappresentava un ripiego, quanto «un buon investimento civile».

8. Conclusioni.

Stato moderno

ed esercito permanente

Come è stato sottolineato nella premessa, risulta assai difficile ricondurre la guerra e i militari a formule semplicistiche. In particolare, volendo riprendere le questioni in precedenza accennate, l'esercito permanente e lo Stato moderno appaiono due facce dello stesso fenomeno, senza che sia possibile di regola in-dividuare un nitido rapporto di causa-effetto tra un termine e l'altro. Sembra an che che si possa scorgere uno stretto legame tra l'affermazione dello Stato mo derno e i processi di civilizzazione, ai quali contribuirono, nonostante tutto, an che i militari nella misura in cui «domarono» la nobiltà, quando non ne minaro no il ruolo facendo leva sulla disciplina, sulla gerarchia, sulla selezione merito cratica in base ai saperi tecnici (importanti, in particolare, nell'artiglieria, nel genio e nella marina). È anche vero, peraltro, che il soldato-automa del Sette-cento, se e in quanto anticipò l'operaio-macchina della rivoluzione industriale, rappresentò una delle forme più negative della modernità.

Sempre nel XVIII secolo molti caffè esibivano cartelli che ne vietavano l'in-gresso ai domestici, alle prostitute, ai cani e ai soldati. L'esercito, quindi, è stato anche un luogo di emarginazione della bassa forza e, nello stesso tempo, di po-larizzazione sociale tra ufficiali in maggioranza nobili e soldati contadini o co-munque infimi popolani. Ma l'esercito poteva anche diventare, come avvenne alle soglie e, soprattutto, al tramonto dell'età moderna, un crogiolo «egualita-rio», e sfidare perciò la società di ordini (cfr. la lezione XVI). Il mercato della guerra, certamente il maggior mercato di uomini e probabilmente anche di capi-tali, così come, su un altro fronte, gli stretti rapporti tra commercio, guerra di corsa ed espansione coloniale indicano che è difficile sopravvalutare il peso delle armi nell'ambito economico. Tuttavia va anche aggiunto che la produzio-ne e i traffici si svilupparono, come sottolineano anche l'egemonia economica delle città italiane tra Tre e Cinquecento e quella secentesca dell'Olanda, ap-poggiandosi più alle strutture della società che a quelle dello Stato, seguendo, quanto meno in Europa, più le vie della competizione «pacifica» che quelle del-la guerra.

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La guerra e la sua evoluzione tecnica

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