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UTE di ERBA ANNO ACCADEMICO XXI – 2014-15 STORIA DELLA CHIESA LA SANTA SEDE NELLA BUFERA DELLA GUERRA: PAPA BENEDETTO XV E L’INUTILE STRAGE Premessa sulla guerra La prima guerra mondiale è un evento che sui libri di storia, fin qui seguiti come manuali scolastici, appare come una serie di scontri bloccati sulle diverse trincee, soprattutto, per noi, quelle del fronte orientale italiano (italo-austriaco) e del fronte occidentale europeo (franco-tedesco), con “a latere” altri episodi di battaglie navali ed aeree e soprattutto di siluramenti delle cosiddette battaglie sottomarine. L’evento è naturalmente molto più complesso e soprattutto è ben diverso da ciò che si vuol far credere col senno di poi e con l’occhio del vincitore, che vuole esaltare la propria impresa, come battaglia di libertà e di democrazia contro orde barbariche, rappresentanti di Imperi centrali dominati da schemi militaristi. Più che sui fatti, sui quali già è stato scritto molto, occorre rivedere l’analisi degli stessi eventi, in un contesto più libero dalle passioni di parte, che hanno contrassegnato gli anni successivi e hanno portato poi all’ennesimo scontro, ancor più drammatico per le modalità con cui la stessa guerra si è espressa. Eppure anche nel primo conflitto gli orrori non sono mancati e le perdite risultano ancor più numerose. La Santa Sede nella Guerra Nell’analisi storica di questo grande evento c’è un particolare, che indubbiamente può essere considerato marginale, ma che merita un po’ di attenzione e di considerazione, anche per gli esiti futuri. Si tratta del ruolo che ha avuto la Chiesa, soprattutto in riferimento alla figura del Papa e della Santa Sede, figura che sui libri di storia appare molto defilata, per non dire ignorata, se non in riferimento alla Nota del 1917 e alla definizione di quella guerra come “inutile strage”: è questa la sola frase ripetuta in continuazione ogni volta che si cita il Papa dell’epoca, diversamente ignorato e letteralmente sconosciuto. Questo silenzio è dovuto in notevole parte al fatto che in Italia questo ruolo è stato completamente taciuto e messo a tacere, anche per la questione romana sempre viva e il ruolo politico internazionale della Santa Sede tenuto ai margini: si temeva, da parte del governo italiano, che una presenza internazionalmente riconosciuta, potesse porre sul tavolo anche la questione del “patrimonio” territoriale della Chiesa. Oltre al tema della posizione defilata della Santa Sede e del ruolo marginale in questa guerra, nonostante gli appelli fatti e l’opera compiuta per alleviare le sofferenze, qui vale la pena addentrarsi nelle prese di posizione del Papa, che pur non sortendo effetto sostanziale per l’esito degli avvenimenti – rimase una voce inascoltata e di fatto disprezzata – perché questi discorsi, inutili allora, appaiono oggi come la base sulla quale la Chiesa ha costruito il suo modo di operare dentro gli eventi bellici successivi fino ai nostri giorni. 1

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UTE di ERBA ANNO ACCADEMICO XXI – 2014-15

STORIA DELLA CHIESA

LA SANTA SEDE NELLA BUFERA DELLA GUERRA:

PAPA BENEDETTO XV E L’INUTILE STRAGE

Premessa sulla guerra La prima guerra mondiale è un evento che sui libri di storia, fin qui seguiti come manuali scolastici, appare come una serie di scontri bloccati sulle diverse trincee, soprattutto, per noi, quelle del fronte orientale italiano (italo-austriaco) e del fronte occidentale europeo (franco-tedesco), con “a latere” altri episodi di battaglie navali ed aeree e soprattutto di siluramenti delle cosiddette battaglie sottomarine. L’evento è naturalmente molto più complesso e soprattutto è ben diverso da ciò che si vuol far credere col senno di poi e con l’occhio del vincitore, che vuole esaltare la propria impresa, come battaglia di libertà e di democrazia contro orde barbariche, rappresentanti di Imperi centrali dominati da schemi militaristi. Più che sui fatti, sui quali già è stato scritto molto, occorre rivedere l’analisi degli stessi eventi, in un contesto più libero dalle passioni di parte, che hanno contrassegnato gli anni successivi e hanno portato poi all’ennesimo scontro, ancor più drammatico per le modalità con cui la stessa guerra si è espressa. Eppure anche nel primo conflitto gli orrori non sono mancati e le perdite risultano ancor più numerose. La Santa Sede nella Guerra Nell’analisi storica di questo grande evento c’è un particolare, che indubbiamente può essere considerato marginale, ma che merita un po’ di attenzione e di considerazione, anche per gli esiti futuri. Si tratta del ruolo che ha avuto la Chiesa, soprattutto in riferimento alla figura del Papa e della Santa Sede, figura che sui libri di storia appare molto defilata, per non dire ignorata, se non in riferimento alla Nota del 1917 e alla definizione di quella guerra come “inutile strage”: è questa la sola frase ripetuta in continuazione ogni volta che si cita il Papa dell’epoca, diversamente ignorato e letteralmente sconosciuto. Questo silenzio è dovuto in notevole parte al fatto che in Italia questo ruolo è stato completamente taciuto e messo a tacere, anche per la questione romana sempre viva e il ruolo politico internazionale della Santa Sede tenuto ai margini: si temeva, da parte del governo italiano, che una presenza internazionalmente riconosciuta, potesse porre sul tavolo anche la questione del “patrimonio” territoriale della Chiesa. Oltre al tema della posizione defilata della Santa Sede e del ruolo marginale in questa guerra, nonostante gli appelli fatti e l’opera compiuta per alleviare le sofferenze, qui vale la pena addentrarsi nelle prese di posizione del Papa, che pur non sortendo effetto sostanziale per l’esito degli avvenimenti – rimase una voce inascoltata e di fatto disprezzata – perché questi discorsi, inutili allora, appaiono oggi come la base sulla quale la Chiesa ha costruito il suo modo di operare dentro gli eventi bellici successivi fino ai nostri giorni.

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Se dovessimo considerare il ruolo “politico” della Santa Sede, dovremmo dire che negli eventi precedenti essa, in quanto potenza politica alla pari di altri Stati, era stata “parte in causa”; e così, se nel Medio Evo e soprattutto nel Rinascimento era stata fautrice di crociate e a capo di leghe militari contro altri Stati, ora essa rivendicava un ruolo “sopra le parti”, ma non al di fuori di esse. Rivendicare un ruolo significa comunque cercare di ottenere con una buona politica il riconoscimento di una missione, che la fa essere cercata nelle contese e soprattutto nell’elaborazione di intese o di mediazione fra le parti in mezzo ai conflitti. Perciò diventa importante analizzare ciò che la Chiesa ha detto e ha fatto in questo conflitto, perché in quella circostanza non ha ottenuto visibilità, e tuttavia ha cominciato ad elaborare quelle riflessioni che sono tornate poi utili negli eventi successivi, in cui la Santa Sede, anche per figure prestigiose, torna ad essere un elemento non marginale della politica internazionale. Così il nostro tentativo di analisi della figura e dell’opera di Papa Benedetto XV durante il conflitto, per quanto sia un problema a margine della Grande Guerra, può diventare un utile complemento del sapere storico di questo periodo, ma più ancora un ausilio alla comprensione più approfondita circa la questione “guerra e pace” in cui la Santa Sede è chiamata a svolgere un ruolo non marginale. La figura di Papa Benedetto XV Per la figura di Papa Benedetto XV si può fare riferimento ad un libro, già significativo nel titolo: “IL PAPA SCONOSCIUTO – Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace”. È opera di uno storico inglese, John Pollard, che arriva a riconoscere il ruolo di questo Papa, senza per questo farne una figura agiografica secondo le modalità di scritti enfatici e di parte. Prima dell’elezione Il libro delinea la figura di quest’uomo, che non aveva in sé i requisiti per arrivare al soglio pontificio, per quanto proveniente da una nobile famiglia genovese e per quanto avesse fatto la carriera ecclesiastica a Roma, soprattutto negli uffici diplomatici, solitamente considerati i canali indispensabili per aspirare ad una posizione considerata di prestigio. La sua nomina ad arcivescovo di Bologna, per quanto la cattedra di San Petronio potesse essere prestigiosa, era stata interpretata come un “promoveatur ut amoveatur”; ed anche la sua nomina cardinalizia era arrivata all’ultimo momento – 4 mesi appena prima di essere eletto Papa! – per una decisione a sorpresa di Pio X contro i pareri dei suoi collaboratori. L’elezione a Papa La sua stessa elezione a Papa appare sorprendente. Essa avviene nel contesto di una guerra da poco iniziata: Pio X era morto il 20 agosto 1914, dopo aver assistito impotente alle mobilitazioni in seguito all’attentato di Sarajevo, all’ultimatum asburgico contro la Serbia e poi al gioco perverso delle alleanze. Il conclave avviene su questo sfondo non senza tensioni interne a partire dalla presenza di Cardinali provenienti dai diversi Paesi in guerra: non mancano “stilettate” verbali tra l’arcivescovo di Colonia (tedesco), che dice di non voler parlare di guerra, e quello di Malines (belga), che dice di non voler parlare di pace, mentre era in atto l’invasione del Belgio neutrale da parte della Germania e del conseguente coinvolgimento britannico nella guerra. I giochi non erano ancora fatti e comunque sulla carta non si vedevano personaggi di rilievo …

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Ci possiamo immaginare le difficoltà di avere a tempo debito i Cardinali; ci possiamo immaginare le tensioni di natura psicologica con lo sfondo della guerra e i veti impossibili, rispetto al conclave precedente, dove il Card. Rampolla non era stato eletto per il veto dell’Imperatore d’Austria; ma non per questo i veti erano inimmaginabili, perché sotto il profilo politico ci si domandava in quale direzione andare. Si trattava di verificare se era utile proseguire con le tensioni create dalla lotta contro il Modernismo di Pio X e soprattutto con il laicismo francese; era evidente che nella tensione internazionale l’unica grande potenza cattolica sulla quale il Vaticano poteva contare era l’Austria-Ungheria, che in realtà risulta sullo scenario come uno degli Imperi più traballanti per la presenza di contrasti nazionalistici. A quanto pare i veti incrociati, anche se non espressi, hanno favorito colui che era entrato come succede spesso senza alcuna chance e di fatto si era ritrovato nel corso delle votazioni in continua crescita di consensi. Nessuno però si aspettava un simile risultato, che sembrava impossibile proprio perché Giacomo Della Chiesa lo si considerava come un uomo di Rampolla e come tale avversato dal fronte germanico e asburgico. E veniva considerato un uomo mediocre e di scarsa personalità rispetto al suo rivale, il Card. Maffi, arcivescovo di Pisa, ma veniva eletto, proprio perché lo si considerava, nonostante l’età relativamente giovane (60 anni), uno che non doveva creare grossi problemi in un momento in cui la Santa Sede appariva isolata politicamente, anche per la questione romana irrisolta, che lasciava il Pontefice in una posizione non chiarita: era un sovrano a tutti gli effetti, oppure era di fatto, se non prigioniero dello Stato italiano, uno che comunque ne dipendeva? Il fatto che l’Italia fosse ancora neutrale nel conflitto teneva pure il Pontefice in una situazione più libera; una volta però uscita dalla neutralità, anche gli ambasciatori presso la Santa Sede dei Paesi in conflitto con l’Italia, si sarebbero trovati nella condizione di dover lasciare il Paese, come avvenne, e così erano impediti di operare in contatto diretto con il Vaticano, che risultava in tal modo ancor più isolato. Ci furono segnali di una difficoltà nella elezione: si voleva fare anche la conta delle schede, per verificare che l’eletto non avesse posto il suo nome sulla propria scheda, in quanto una simile eventualità rende nulla la votazione, anche ad avere un margine notevole di voti; non c’era una veste adeguata alla sua statura e il sarto fu mortificato, perché l’eletto gli disse che si era dimenticato di lui e della sua taglia … Il nome assunto, non in linea coi predecessori, sembrava far muovere l’eletto su strade diverse: c’era chi diceva che egli voleva rifarsi a S. Benedetto come uomo di pace in Europa, proprio nei giorni del conflitto; ma è più probabile il richiamo a Prospero Lambertini di Bologna, che fu Papa tra il 1740 e il 1758. Quello che a noi qui interessa è il lavoro svolto dal nuovo Pontefice in ordine alla guerra ormai scoppiata e che di fatto riempirà gran parte del suo breve Pontificato, conclusosi il 22 gennaio 1922, quando il Papa aveva 67 anni. Non ci interessa qui considerare tutta l’azione svolta da Benedetto XV nel corso del suo Pontificato circa il cammino della Chiesa e i suoi rapporti con la storia del suo tempo, ma solo l’azione svolta in riferimento alla guerra in corso.

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Ciò che ha scritto E qui conta molto ciò che lui ha scritto e detto per scongiurare il conflitto, per portare pace fra i belligeranti, che non ne volevano sapere, e che non davano retta al papa né cercavano mediazioni o interventi (l’unico Stato che riconobbe la sua azione umanitaria erigendo una statua commemorativa fu … la Turchia!). Va ricordata in effetti l’azione caritativa svolta per le popolazioni colpite e per i soldati e i prigionieri, tenendo conto delle notevoli limitazioni che egli e la Santa Sede avevano in quel periodo tormentato. Fin dagli inizi del Pontificato egli interviene con una Esortazione apostolica, l’8 settembre, quando già da un mese il conflitto si era propagato e aveva mostrato soprattutto in Belgio le sue nefandezze, quelle della propaganda contro la Germania e quelle della Germania stessa che reagiva anche contro la popolazione civile accusata di tradimento e colpita con massacri perché si opponevano all’invasione. Il quadro era già desolante e faceva presagire una lotta senza quartieri un po’ su tutti i fronti. Ecco la conclusione del discorso fatto in occasione degli inizi del Pontificato, per i quali non volle cerimonie solenni di intronizzazione, mentre venivano dal fronte della guerre queste notizie luttuose. Si affrettò piuttosto ad inviare lettere ai governanti, compresi quelli francesi che non avevano relazioni diplomatiche, per far sapere della sua elezione. Dall’esortazione apostolica “Ubi Primum” (8 settembre 1914) Inoltre preghiamo e scongiuriamo vivamente coloro che reggono le sorti dei popoli a deporre tutti i loro dissidi nell’interesse della società umana. Considerino che sono già troppe le miserie e i lutti che accompagnano questa vita mortale, al punto che non si deve renderla ancora più misera e luttuosa; bastino le rovine che sono già state prodotte, basti il sangue umano che è già stato sparso; si affrettino dunque a prendere decisioni di pace e a stendersi scambievolmente la mano; otterranno ragguardevoli ricompense da Dio per loro stessi e per le loro nazioni; si renderanno altamente benemeriti della convivenza civile degli uomini, e a Noi, che da questa così grave perturbazione di cose vediamo non poco intralciato fin dall’inizio il Nostro Apostolico ministero, faranno la cosa più gradita e desiderata. Scrisse la prima enciclica “Ad Beatissimi Apostolorum” (1 novembre 1914) dedicandola al tema della guerra in corso: egli si riconosce Papa per tutti, non solo per quelli che sono nella Chiesa, perché Cristo ha versato il suo sangue per tutti e vuole un solo ovile … E rivolgendosi ai governanti si fa supplice dicendo: “l’ascoltino, li preghiamo, l’ascoltino questa voce coloro che hanno nelle loro mani i destini dei popoli. Altre vie certamente vi sono, vi sono altre maniere, onde i lesi diritti possano avere ragione: a queste, deposte intanto le armi, essi ricorrano, sinceramente animati da retta coscienza e da animi volonterosi. È la carità verso di loro e verso tutte le nazioni che così Ci fa parlare, non già il Nostro interesse. Non permettano dunque che cada nel vuoto la Nostra voce di padre e di amico.” Naturalmente la guerra altro se non è se non il prodotto di un imbarbarimento che segue al disprezzo e al rifiuto di Dio e della sua Legge, quella che – si dovrebbe riconoscere – è dentro la natura stessa dell’uomo e non è solo l’espressione di una cultura o di una religione particolare:

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“I disordini che scorgiamo sono questi: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale fatto unico obiettivo dell’attività dell’uomo, come se non vi fossero altri beni, e molto migliori, da raggiungere. Sono questi a Nostro parere, i quattro fattori della lotta, che mette così gravemente a soqquadro il mondo. Bisogna dunque diligentemente adoperarsi per eliminare tali disordini, richiamando in vigore i princìpi del cristianesimo, se si ha veramente intenzione di sedare ogni conflitto e di mettere in assetto la società … La verità però è questa, che mai tanto si disconobbe l’umana fratellanza quanto ai giorni che corrono. Gli odi di razza sono portati al parossismo; più che da confini, i popoli sono divisi da rancori; in seno ad una stessa nazione e fra le mura d’una città medesima ardono di mutuo livore le classi dei cittadini, e fra gl’individui tutto si regola con l’egoismo, fatto legge suprema.” Poi il Papa lamenta la caduta del principio di autorità e questo lo porta a condannare il socialismo come causa di queste tensioni:

“A quali conseguenze, non meno disastrose per gli individui che per la società, conduca quest’odio di classe, è superfluo dirlo. Tutti vediamo e lamentiamo la frequenza degli scioperi, per i quali all’improvviso si produce l’arresto della vita cittadina e nazionale nelle operazioni più necessarie; parimenti le minacciose sommosse e i tumulti, in cui spesso avviene che si dà mano alle armi e si fa scorrere il sangue.” Poi il Papa arriva a dire che la colpa di simili mali è dovuta allo spirito di cupidigia che è diffuso nella società e a quelle forme di rivalità e di dissenso che hanno inquinato anche la Chiesa. Pur nel riconoscimento della grande opera del predecessore, si avverte che è necessario sopire lo spirito combattivo che è venuto fuori con le polemiche del Modernismo:

“Sanno tutti a chi sia stato affidato da Dio il magistero della Chiesa; a lui dunque si lasci libero il campo, affinché parli quando e come crederà opportuno. È dovere degli altri prestare a lui, quando parla, ossequio devoto, ed ubbidire alla sua parola. Riguardo poi a quelle cose delle quali — non avendo la Sede Apostolica pronunziato il proprio giudizio — si possa, salva la fede e la disciplina, discutere pro e contro, è certamente lecito ad ognuno di dire la propria opinione e di sostenerla. Ma in simili discussioni rifuggasi da ogni eccesso di parole, potendone derivare gravi offese alla carità; ognuno liberamente difenda la sua opinione, ma lo faccia con garbo, né creda di poter accusare altri di sospetta fede o di mancata disciplina per la semplice ragione che la pensa diversamente da lui.” Ciò che ha fatto Si fece promotore anche di una tregua per Natale, una tregua che sarebbe dovuta sfociare in un armistizio, anche perché era consapevolezza che comunque la guerra non sarebbe andata oltre il Natale. Di fatto ci fu una breve tregua alcune trincee franco-tedesche osteggiate dai comandi militari e realizzate dai soldati. Il Papa non ottenne comunque ascolto; anzi fu ignorato completamente come una persona assolutamente ininfluente. Nel corso dei primi mesi del 1915 tutta la sua azione fu prodotta per tener fuori dal conflitto l’Italia, anche perché la sua posizione ne sarebbe uscita ancor più limitata e compromessa.

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Le pressioni furono esercitate in modo particolare sull’Austria-Ungheria nel tentativo di far accettare le richieste territoriali dell’Italia, per impedire che questa entrasse e naturalmente a fianco della Triplice Intesa. Ma tutto fu inutile! Al di là della evidente presa di posizione in favore delle potenze centrali che venivano ritenute come ante-murali rispetto al mondo slavo ortodosso, va rilevato il fatto che per la Santa Sede l’entrata in guerra dell’Italia avrebbe impedito o comunque creato problemi circa l’azione della Santa Sede. Risulta che nel Patto di Londra, rimasto segreto e reso pubblico solo nel 1918 quando il governo bolscevico lo pubblicò sul giornale, che c’era anche una clausola circa la non partecipazione della Santa Sede alla futura conferenza di pace, perché evidentemente l’Italia non voleva avere chi ponesse sul piatto delle trattative anche la questione territoriale dello Stato Pontificio. In effetti la Santa Sede non fu invitata, così come non fu accolta nella Società delle Nazioni. Ci fu pure un contenzioso con l’Intesa a proposito del futuro assetto di ciò che poteva rimanere nel futuro dell’Impero turco una volta sconfitto. La presenza dell’Inghilterra e la proposta di un focolare ebraico in Palestina non venne affatto appoggiata dalla Santa Sede nonostante la liberazione di Gerusalemme e dei luoghi santi, perché nel frattempo si vedevano emergere altri interessi: la presenza degli Ebrei, la presenza degli ortodossi e la presenza dei luterani senza una sufficiente tutela della Custodia di Terra Santa, che non ci si immaginava affidata né alla Francia né all’Italia in rotta di collisione con il Vaticano per la politica anticlericale. Gli Alleati avevano fatto balenare alla Russia zarista l’eventualità in caso di vittoria di poter occupare a Costantinopoli Santa Sofia: questo poteva creare ancor più limitazioni alla Chiesa Cattolica che vedeva la rinascita dell’Ortodossia in Oriente. Non per nulla il Papa Benedetto XV scorporava la questione delle Chiese Orientali dal dicastero vaticano di Propaganda Fides. Se sotto il profilo diplomatico la guerra causò non pochi problemi alla Santa Sede di fatto ignorata nel concerto delle Nazioni, essa riuscì ad accrescere la sua immagine grazie all’opera di carità espressa in vari modi e in diversi Paesi, soprattutto in riferimento ai prigionieri e ai bambini. Va riconosciuto al Papa che si sia davvero prodigato tanto: le stesse finanze vaticane uscirono dissestate, sia perché mancavano le entrate dell’obolo, sia perché uscivano parecchi soldi in aiuti umanitari. La Nota del 1917 Il celebre testo che parla della “inutile strage” è del 1 agosto 1917, quando ancora non c’era stato Caporetto e pur con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, non c’erano ancora truppe americane, così come ancora non si era ritirato l’esercito russo, in quanto non c’era ancora stata la rivoluzione d’ottobre. I punti trattati dal Papa anticipano di fatto quelli poi ulteriormente precisati da Wilson nell’anno successivo e che diventeranno la base per le discussione alla Conferenza di Pace di Versailles. La Nota fu ignorata dai belligeranti, anche perché tutti nutrivano ancora la speranza di avere il sopravvento con nuove azioni di forza sul campo. L’Esortazione rimane però come segnalazione dell’azione svolta dalla Chiesa che coglieva bene l’inutilità di quella guerra e di ciò che poi sarebbe successo, soprattutto con l’esosità delle richieste di indennizzo volute a tutti i costi dalla Francia nei confronti della Germania. È qui adombrata anche una Organizzazione superiore che possa trattare le questioni pendenti fra gli Stati.

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BENEDETTO XV ESORTAZIONE APOSTOLICA DÈS LE DÉBUT Ai Capi dei popoli belligeranti. Fino dagli inizi del Nostro Pontificato, fra gli orrori della terribile bufera che si era abbattuta sull’Europa, tre cose sopra le altre Noi ci proponemmo: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune e tutti ama con pari affetto i suoi figli; uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di persone, senza distinzione di nazionalità o di religione, come Ci dettano e la legge universale della carità e il supremo ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo; infine la cura assidua, richiesta del pari dalla Nostra missione pacificatrice, di nulla omettere, per quanto era in poter Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo i popoli e i loro Capi a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una « pace giusta e duratura ». Chi ha seguito l’opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude, ha potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall’esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento. Sul tramontare del primo anno di guerra Noi, rivolgendo ad Essi le più vive esortazioni, indicammo anche la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per tutti. Purtroppo, l’appello Nostro non fu ascoltato: la guerra proseguì accanita per altri due anni con tutti i suoi orrori: si inasprì e si estese anzi per terra, per mare, e perfino nell’aria; donde sulle città inermi, sui quieti villaggi, sui loro abitatori innocenti scesero la desolazione e la morte. Ed ora nessuno può immaginare quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali, se altri mesi ancora, o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso. Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio? In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l’opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell’umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali, come le circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e completarli. E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo le norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all’arbitro o di accettarne la decisione. Stabilito così l’impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso. Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai benefici immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità. Ma questi accordi pacifici, con gli immensi vantaggi che ne derivano, non sono possibili senza la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione delle colonie tedesche.

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Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l’Italia e l’Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande consorzio umano. Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l’esame di tutte le altre questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all’assetto dell’Armenia, degli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell’antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate, specialmente durante l’attuale guerra, debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni. Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l’avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d’altra parte, che è salvo, nell’uno e nell’altro campo, l’onore delle armi; ascoltate dunque la Nostra preghiera, accogliete l’invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino, Principe della pace. Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l’assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell’età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori. Noi intanto, fervidamente unendoci nella preghiera e nella penitenza con tutte le anime fedeli che sospirano la pace, vi imploriamo dal Divino Spirito lume e consiglio. Dal Vaticano, 1° agosto 1917. Non ci addentriamo nel periodo successivo alla guerra, che pure vede il Papa proiettato in avanti non solo per la soluzione della questione romana, ma anche per il nuovo assetto del mondo e del rapporto che la Chiesa deve stabilire con esso, soprattutto nelle questioni che riguardano le Chiese Orientali e le terre di missione: bisogna riconoscere che qui c’è una visione lungimirante, quella di chi vede ormai ben più in là del vecchio mondo europeo, uscito di fatto ridimensionato dal conflitto, anche se le potenze vincitrici si illudono di poter ancora contare. Il suo successore, che pur come lui è tra i Papi meno noti e richiamati tra quelli che hanno dominato la scena nel secolo scorso, continuò la sua missione, rivelando così di aver ben compreso ciò che aveva fatto ed era stato Benedetto Xv proprio negli anni della guerra.

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(nel sito Vatican.Va) BENEDETTO XV

(1914-1922) Giacomo Della Chiesa, che diverrà Papa col nome di Benedetto XV, nasce a Genova il 21 novembre 1854, terzo di quattro figli, dal marchese Giuseppe (appartenente ad una famiglia patrizia le cui origini vengono fatte risalire ai tempi di Sant’Ambrogio) e dalla marchesa Giovanna Migliorati. Studente esterno presso il Seminario della sua città, a quindici anni esprime il desiderio di avviarsi al sacerdozio, ma il padre glielo vieta: «Ne riparleremo quando avrai ultimato gli studi laici ». È così che il 2 agosto 1875 il giovane Giacomo si laurea in giurisprudenza e, con il consenso paterno, entra nel Collegio Capranicense di Roma, da dove esce sacerdote il 21 dicembre 1878. Ammesso all’Accademia pontificia dei Nobili ecclesiastici, dove vengono preparati al servizio diplomatico della Santa Sede i giovani appartenenti a famiglie patrizie, nel 1883 parte per Madrid con le funzioni di segretario del Nunzio Mariano Rampolla del Tindaro, con il quale rientra nel 1887 allorché l’insigne legato viene creato Cardinale e nominato Segretario di Stato di Leone XIII. Minutante e sostituto alla Segreteria di Stato, prima con il Rampolla e successivamente con Rafael Merry del Val, il sacerdote Della Chiesa adempie i proprî compiti con assoluto impegno, dedicandosi anche all’insegnamento della diplomatica presso l’Accademia pontificia dei Nobili ecclesiastici, dove era stato alunno. Consacrato Vescovo da Pio X nella Cappella Sistina il 22 dicembre 1907, monsignor Della Chiesa viene destinato a guidare la diocesi di Bologna, dove giunge inaspettatamente la sera del 18 febbraio 1908. Con il fervore che gli è proprio — da più parti è stato definito « l’uomo del dovere » — l’Arcivescovo succeduto al Cardinale Domenico Svampa si dedica al ministero pastorale con una cura indefessa e con una sensibilità eccezionale, tanto che il 25 maggio 1914 viene elevato alla porpora. Ma meno di tre mesi dopo, il 20 agosto, a seguito di un attacco di broncopolmonite, muore Pio X. Sono giornate drammatiche. Il mondo è sconvolto. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria ha dichiarato guerra alla Serbia e, per parte propria, la Germania ha dichiarato guerra l’1 agosto alla Russia e il 3 agosto alla Francia. Il 4 agosto le truppe tedesche, per attaccare la Francia, invadono il Belgio neutrale e nello stesso giorno la Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania. Quasi tutta l’Europa, praticamente, è impegnata in operazioni belliche. Nell’angoscioso frangente che vede tanti popoli militarmente contrapposti, chi può salire sul trono di Pietro se non un uomo che conosca appieno i problemi dei Governi e delle Società in lotta, un uomo che per diversi lustri aveva operato con il Rampolla e il Merry del Val? È così che dal Conclave riunitosi il 31 agosto viene eletto Papa — fatto assolutamente straordinario — un porporato nominato Cardinale da soli tre mesi: Giacomo Della Chiesa che — nel ricordo di Prospero Lambertini, che lo aveva preceduto quale Arcivescovo di Bologna e Pontefice della Chiesa — assume il nome di Benedetto XV. Poiché l’ora è tragica, il nuovo Papa non vuole che la solenne consacrazione pontificale avvenga nella mirabile grandezza della Basilica Vaticana, ma nella Cappella Sistina. Troppi lutti, troppe lacrime straziano l’umanità, come egli stesso sottolinea nell’Esortazione Ubi primum che l’8 settembre indirizza « a tutti i cattolici del mondo »: « Allorché da questa vetta Apostolica abbiamo rivolto lo sguardo a tutto il gregge del Signore affidato alle Nostre cure, immediatamente l’immane spettacolo di questa guerra Ci ha riempito l’animo di orrore e di amarezza, constatando che tanta parte dell’Europa, devastata dal ferro e dal fuoco, rosseggia del sangue dei cristiani … Preghiamo e scongiuriamo vivamente coloro che reggono le sorti dei popoli a deporre tutti i loro dissidi nell’interesse della società umana ».

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Il dramma della guerra — né poteva essere diversamente — è la costante angoscia che assilla Benedetto XV durante l’intiero conflitto. Fin dalla prima Enciclica — Ad beatissimi Apostolorum dell’1° novembre 1914 — quale « Padre di tutti gli uomini » egli denuncia che « ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti ». E scongiura Prìncipi e Governanti a considerare lo straziante spettacolo presentato dall’Europa: « il più tetro, forse, e il più luttuoso nella storia dei tempi ». Purtroppo, la sua reiterata invocazione alla pace, recuperata dal Vangelo di Luca — « Pace in terra agli uomini di buona volontà » — resta inascoltata. Quali i motivi? Egli stesso ne identifica i principali: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale divenuto unico obiettivo dell’attività dell’uomo. La difficile situazione della Santa Sede, « prigioniera » in Roma dopo il 20 settembre 1870, si aggrava quando il 24 maggio 1915 l’Italia, che si è mantenuta neutrale per quasi un anno, entra in guerra: gli Stati nemici dell’Italia ritirano i propri rappresentanti diplomatici accreditati presso il Vaticano e li trasferiscono in Svizzera. L’indomani, 25 maggio, scrivendo al Cardinale Serafino Vannutelli, Decano del Sacro Collegio, Benedetto XV esprime la propria amarezza per il fatto che la sua invocazione alla pace è finora caduta nel vuoto: « La guerra continua ad insanguinare l’Europa, e neppur si rifugge in terra ed in mare da mezzi di offesa contrari alle leggi dell’umanità ed al diritto internazionale. E quasi ciò non bastasse, il terribile incendio si è esteso anche alla Nostra diletta Italia, facendo purtroppo temere anche per essa quella sequela di lagrime e disastri che suole accompagnare ogni guerra ». Il successivo 28 luglio, ricorrendo il primo anniversario dello scoppio della guerra, egli indirizza a tutti i popoli belligeranti ed ai loro reggitori un’accorata esortazione perché si ponga termine all’« orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa». E nell’Allocuzione natalizia dello stesso 1915, diretta al Sacro Collegio Cardinalizio, condanna per l’ennesima volta l’anticristiano regresso della civiltà umana, che ha ridotto il mondo ad « ospedale ed ossario ». Il Pontefice, armato del massimo potere spirituale, è tuttavia impotente di fronte al conflitto che continua. Ma egli non desiste, e mentre si adopera a favore delle persone e delle regioni più colpite, inviando e stimolando soccorsi ai bimbi affamati, ai feriti e ai prigionieri, il 24 dicembre 1916, parlando al Sacro Collegio Cardinalizio, invoca ancora una volta « quella pace giusta e durevole che deve mettere fine agli orrori della presente guerra ». Invano: la tragedia continua sui campi della morte, ma anche Benedetto XV non cede e il 1° agosto 1917 invia ai capi dei popoli belligeranti quell’Esortazione, Dès le début, nella quale indica soluzioni particolari, idonee a far cessare l’« inutile strage ». L’espressione del Vicario del Principe della pace, evidentemente male interpretata, suscita più proteste che consensi. Mentre i pangermanisti la ritengono uno strumento diretto a strappare la vittoria dalle mani degl’Imperi centrali ormai lanciatissimi, in Italia e in Francia c’è chi la giudica addirittura al servizio della Germania e dei suoi alleati, tanto che Georges Clemenceau definisce Benedetto XV il « Pape boche » (il « Papa tedesco »). Sono le amarezze di chi guarda il mondo con occhio paterno! Qualche gioia, tuttavia, il Pontefice Della Chiesa ha potuto assaporare anche in quel periodo, quando con la Bolla Providentissima Mater del 27 maggio 1917 promulga il nuovo Codice di diritto canonico, già auspicato dal Concilio Vaticano e voluto da Pio X, e quando — particolarmente attento ai problemi delle Chiese orientali — con il Motu proprio Dei providenti del 1° maggio 1917 istituisce la Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale, e con il Motu proprio Orientis catholici del 15 ottobre 1917 fonda a Roma l’Istituto pontificio per gli studi orientali, con annessa una Biblioteca largamente dotata di opere specifiche.

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Altre gioie che appagano il suo spirito religioso gli derivano dalle omelie che egli stesso — Vescovo tra i suoi preti — dedica annualmente ai parroci e ai sacerdoti che predicheranno in Roma in occasione della Quaresima. Richiamandosi al messaggio che Gesù rivolse agli Apostoli — « Andate, predicate il Vangelo ad ogni creatura » — il Vescovo Benedetto raccomanda ai suoi collaboratori di mirare non tanto a correggere l’intelletto, quanto « a riformare il cuore. Anzi, la stessa correzione degli errori della mente deve essere ordinata al miglioramento della vita pratica degli uditori ». In ciò ispirandosi a San Paolo il quale, dopo aver parlato ai fedeli di Corinto, diceva che la sua predicazione non si basava soltanto su discorsi di umana sapienza. La fine della guerra, invocata incessantemente dal Pontefice e desiderata ormai non solo dai popoli ma anche da alcuni capi di Stato e di Governo, giunge finalmente nell’autunno del 1918. Benedetto XV, che tanto si è adoperato per mitigare i danni dell’immane flagello, continua ad impegnarsi a favore dei più colpiti, e con l’Enciclica Paterno iam diu del 24 novembre 1919 invita quanti hanno a cuore l’umanità ad offrire denaro, alimenti e vestiario, soprattutto per aiutare l’infanzia, la categoria più esposta. Ovviamente l’attenzione del Papa è dedicata anche ai lavori della Conferenza internazionale della pace — inaugurata a Parigi il 18 gennaio 1919 e destinata a concludersi con il trattato del 28 giugno 1919 — per il felice esito della quale, con l’Enciclica Quod iam diu dell’1° dicembre 1918, aveva invitato a pregare i cattolici di tutto il mondo, auspicando che i delegati adottassero decisioni fondate sui princìpi cristiani della giustizia. Consapevole dei compiti affidatigli al servizio delle anime di tutto il mondo, con l’Enciclica Maximum illud del 30 novembre 1919 Benedetto XV dedica la propria particolare attenzione all’eccelso lavoro svolto dai missionari che, a rischio talvolta della propria vita, sono chiamati a predicare il Vangelo ad ogni creatura. Esorta i banditori della parola divina a svolgere il loro arduo apostolato con tutto lo slancio che la carità cristiana consiglia, impegnandosi a preparare un clero indigeno in grado di amministrarsi autonomamente. Devoto alle grandi Figure che hanno onorato la Chiesa, in occasione di particolari celebrazioni illustra con analitici documenti la vita e la dedizione agl’ideali religiosi di personaggi che meritano di essere additati alla pietà di tutti: Margherita Maria Alacoque (Allocuzione Non va lungi del 6 gennaio 1918; Bolla Ecclesiae consuetudo del 13 maggio 1920); San Bonifacio (Enciclica In hac tanta del 14 maggio 1919); Giovanna d’Arco (Bolla Divina disponente del 16 maggio 1920); San Girolamo (Enciclica Spiritus Paraclitus del 15 settembre 1920); Efrem il Siro (Enciclica Principi Apostolorum del 5 ottobre 1920); San Francesco d’Assisi (Enciclica Sacra propediem del 6 gennaio 1921); Dante Alighieri (Enciclica In praeclara del 30 aprile 1921); Domenico di Guzman (Enciclica Fausto appetente del 29 giugno 1921). Benedetto XV, amareggiato per i rancori che dividono i popoli anche dopo la fine della guerra, si chiede come mai tante ostilità possano sopravvivere quando l’insegnamento di Cristo — e l’Enciclica Pacem, Dei munus del 23 maggio 1920 lo dice esplicitamente — afferma con chiarezza, da sempre, che tutti gli uomini della terra debbono considerarsi fratelli. Purtroppo, anche se le armi internazionali per lo più tacciono, gli odi di partito e di classe si esprimono con drammatica violenza in Russia, in Germania, in Ungheria, in Irlanda e in altri paesi. La sventurata Polonia rischia di essere travolta dagli eserciti bolscevichi; l’Austria « si dibatte tra gli orrori della miseria e della disperazione » scrive il Pontefice il 24 gennaio 1921, implorando l’intervento dei Governi che si ispirano ai princìpi di umanità e di giustizia; il popolo russo, colpito dalla fame e dalle epidemie, sta

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vivendo una delle più spaventose catastrofi della storia, al punto che — come annota Benedetto XV in un’Epistola del 5 agosto 1921 — « dal bacino del Volga molti milioni di uomini invocano, dinanzi alla morte più terribile, il soccorso dell’umanità ». Anche in Italia, dove sopravvivono fra lo Stato e la Santa Sede i contrasti nati a seguito degli scontri di Porta Pia del 1870, i gruppi politici sono in conflitto. Allo scopo di attenuarli — con encomiabile anticipazione sul Concordato Lateranense che verrà firmato l’11 febbraio 1929 — il Pontefice, parlando nel marzo 1919 alle Giunte Diocesane d’Italia, annulla di fatto il « non expedit » che, a seguito del decreto 10 settembre 1874 della Sacra Penitenzieria, vietava ai cattolici di partecipare alle elezioni e alla vita politica in genere. Prende corpo, di conseguenza, la speranza che i cattolici possano organizzarsi ufficialmente, tanto che il sacerdote siciliano Luigi Sturzo, appellandosi nel 1919 « ai liberi ed ai forti », può dar vita al Partito Popolare Italiano, e padre Agostino Gemelli può fondare a Milano l’Università Cattolica del Sacro Cuore, confortato dal Papa con l’Epistola Cum semper Romani del 9 febbraio 1921. Ma la situazione rissosa, turbolenta e insanguinata che domina l’Italia impedisce a tutti i Partiti, compreso quello fondato da don Sturzo, di svolgere la loro attività liberamente e democraticamente. Benedetto XV ne è talmente afflitto e preoccupato che il 25 luglio 1921, con proprio chirografo, invita gli Italiani a recitare la preghiera O Dio di bontà, da lui composta, con la quale invoca il Signore e la Madonna a favorire la riconciliazione nazionale e la concordia nel paese « in cui più ha sorriso la pietà cristiana, e che è stato la culla di ogni gentilezza ». A tutti i fedeli, per ogni volta che reciteranno tale invocazione, verrà concessa l’indulgenza di 300 giorni. Solo una fede autentica ed illimitata può guidare l’azione del Papa Della Chiesa, chiamato ad operare in uno dei periodi più difficili e drammatici della storia umana. Ebbe pochissime soddisfazioni. Prima di morire constata con legittimo compiacimento che gli Stati accreditati presso la Santa Sede — quattordici al momento della sua elezione — sono saliti a ventisette. Ed apprende altresì che l’11 dicembre 1921 è stata inaugurata in una pubblica piazza di Costantinopoli una statua a lui dedicata, ai piedi della quale è scritto: « Al grande Pontefice dell'ora tragica mondiale Benedetto XV Benefattore dei popoli senza distinzione di nazionalità e di religione in segno di riconoscenza l’Oriente 1914-1919 ». Colpito da broncopolmonite, cessa di vivere il 22 gennaio 1922.

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UTE di ERBA ANNO ACCADEMICO XXI – 2014-15

STORIA DELLA CHIESA

I CATTOLICI DI FRONTE ALLA GUERRA INTERVENTISTI E NON …

PRETI E LAICI PRIMA E DURANTE IL CONFLITTO

La guerra e i vertici della Chiesa Abbiamo visto l’evento della Grande Guerra vissuto ai vertici della Chiesa Cattolica, abbiamo considerato come il Papa di allora ha agito e reagito di fronte al conflitto, che non può non interpellare la sua missione di Capo della Chiesa. Egli però è anche di Capo di Stato riconosciuto, che evidentemente ha rapporti, più o meno dichiarati, con gli Stati, con i quali interloquisce proprio sul versante della politica. La sua posizione, poi, di capo religioso e di rappresentante dell’unità del mondo cattolico lo porta anche ad una azione non solo politica, ma morale e umanitaria per rispondere ai problemi che la guerra pone, problemi di natura “filosofica” (o teologica) e problemi, soprattutto, che riguardano l’assistenza delle persone implicate sui campi di battaglia, in modo particolare dei caduti, dei feriti, dei prigionieri … e di tanta popolazione civile implicata nelle vicende della guerra con le devastazioni, le rovine, i passaggi degli eserciti … La guerra nelle realtà cattoliche locali Ma la Chiesa Cattolica non va considerata solo ai vertici; essa va pure vista in quella base popolare, che di fatto vede schierati sui diversi fronti contrapposti cattolici che hanno in comune la stessa fede: si combattono nonostante siano accumunati dalla fede identica, che si definisce cattolica, e proprio per questo universale. Gli schieramenti contrapposti sono comunque dovuti all’appartenenza dei cattolici agli Stati, che in realtà si combattono non certo per questioni di ordine religioso e che comunque non tengono conto di questo aspetto. Se da una parte i soldati sono inviati al fronte senza tener conto delle loro convinzioni religiose, dall’altra ci sono cattolici, intellettuali, amministratori e politici, che sono costretti dalle circostanze a prendere posizione in presenza di un conflitto non da loro voluto, ma comunque in atto. Così nascono i diversi schieramenti e questo non soltanto in Italia, ma anche in altri Paesi dove il Cattolicesimo è presente e vivo, anche in presenza di governi nei quali non c’è rappresentanza politica dei cattolici. Se nel resto d’Europa i cattolici e i loro movimenti potevano esprimersi nelle discussioni in atto circa il tema della guerra con maggior libertà, non altrettanto in Italia, per la sopravvivenza del “non expedit” che impediva una partecipazione dei cattolici alla vita politica. Qualche forma più autonoma si ebbe a livello locale per le amministrative e poi qualche forma di collaborazione con il partito “liberale” mediante il Patto Gentiloni, con la proibizione assoluta di costituire un partito autonomo dei cattolici. R. Murri, che voleva costituire il partito dei cattolici con la Democrazia cristiana, era favorevole alla guerra!

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Se ad esempio in Francia e in Belgio allo scoppio della guerra ci saranno forme di opposizione a ciò che scrive il Papa, spesso tacciato di essere più incline alle Potenze centrali, e le voci dissonanti con la Chiesa di Roma non erano solo quelle dei politici, ma anche di autorevoli uomini di Chiesa, come di sacerdoti e laici, in Italia questo fenomeno non emerge; si devono constatare casi molto sporadici di cattolici interventisti e soprattutto casi di voci che già erano in odore di eresia e di scisma, essendo esponenti tacciati di “Modernismo”. Limitiamoci a coloro che si fanno sentire nel contesto politico italiano in relazione al problema se intervenire nella guerra o no; e poi, una volta presa la decisione, c’è da analizzare l’azione svolta da preti, laici e movimenti cattolici circa la forma di partecipazione alla guerra e la maniera di affrontare i problemi sollevati dalla guerra stessa e dall’azione delle alte gerarchie militari. Intervenisti e no In genere prevale una linea anti-intervento e non potrebbe essere diversamente se teniamo conto che così si poneva la gerarchia, ma così anche si coglieva nel dibattito politico-ideologico che, analogamente ai socialisti internazionalisti, le leghe contadine, le cooperative, più vicine ai contadini, ai lavoratori, non volevano affatto uno scontro armato che poi doveva essere sostenuto dai soldati. Se da una parte è forte la componente ideologica che vuole l’astensione dalla guerra in nome di un “pacifismo”, che esclude a priori ogni forma di intervento militare nelle contese politiche tra Stati, dall’altra si fa strada quella forma di pragmatismo che in quel preciso momento storico vuole mostrare i cattolici inseriti nel contesto politico e quindi essi pure interessati per amor di patria alla costruzione del Paese da cui erano rimasti esclusi per troppi anni per la questione romana. Inseriti da poco nell’arengo politico essi non volevano sfigurare in questo momento in cui aleggiava il vento del patriottismo che pretendeva di concludere l’era risorgimentale con le terre cosiddette “irredente”. Insomma, il fronte cattolico appariva di fatto diviso su una questione che diventava di giorno in giorno più infuocata. Tra i non interventisti dobbiamo collocare soprattutto vescovi, preti e laici impegnati nel sociale, prima ancora che nelle questioni politiche, soprattutto dell’area agraria padana e veneta, anche perché era la più esposta in un eventuale conflitto contro l’Austria-Ungheria, non solo in riferimento agli scontri sul campo, ma anche alle difficoltà di continuare le attività lavorative che sembravano ben avviate e che soprattutto negli anni precedenti avevano visto i cattolici organizzarsi in antitesi con le medesime mire politiche dei socialisti sullo stesso terreno e territorio. Non mancavano però voci dissonanti in questa direzione, voci che volevano mostrare coma la partecipazione alla guerra voleva reinserire i cattolici dentro la questione risorgimentale. E tuttavia anche quelli che volevano la guerra, spesso la sostenevano non tanto per le questioni irrisolte del Risorgimento, ma perché essa appariva come l’espressione del fallimento di una società laicista e perciò come una sorta di castigo di Dio e come un mezzo purificatore. Comunque, dopo la dichiarazione di guerra, i cattolici sono invitati anche dalla stampa di quell’indirizzo, a fare il proprio dovere nei confronti dello Stato.

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Preti in trincea Don Primo Mazzolari Una delle voci più autorevoli a favore della guerra, voce ancora sconosciuta però, era il prete cremonese, destinato poi a trasmigrare sul fronte opposto. Bastò la morte del fratello, caduto sul Sabotino, e ci vollero la partecipazione diretta sul fronte, prima, e, poi, la ricerca dei caduti, al termine del conflitto, perché cambiasse radicalmente idea, anche se le ragioni della sua partecipazione convinta erano quelle di contrastare le mire espansionistiche e militariste del mondo tedesco. Le sue idee circa la guerra, soprattutto in seguito alla partecipazione da militare, possono essere riscontrate nel romanzo, un po’ autobiografico, “La pieve sull’argine”, dove sono a confronto due preti, affratellati sul fronte e poi disgiunti dalle conseguenze che si ebbero in seguito alla partecipazione al conflitto. Dal sito della Fondazione “Mazzolari” ricaviamo queste informazioni: Divenuto prete, don Primo fu inviato come vicario cooperatore a Spinadesco (Cremona). Qui rimase circa un anno, venendo poi trasferito nella parrocchia natale, S. Maria del Boschetto. Poco dopo, però, nell'autunno del 1913 fu nominato professore di lettere nel ginnasio del seminario. Svolse tale funzione per un biennio, durante il quale utilizzò le vacanze estive per recarsi in Svizzera, ad Arbon, come missionario dell'Opera Bonomelli tra i lavoratori italiani là emigrati. Era intanto scoppiata la Prima Guerra Mondiale e, nella primavera del 1915, si pose con forza il problema dell'atteggiamento italiano. Don Mazzolari si schierò in quel frangente tra gli interventisti democratici, così come altri giovani cattolici, tra i quali Eligio Cacciaguerra, animatore della Lega Democratica Cristiana e del giornale «L'Azione» di Cesena, a cui Mazzolari collaborò con diversi articoli. Si intendeva sostenere l'intervento militare italiano nella guerra al fine di eliminare per sempre le forme di militarismo simboleggiate dalla Germania e per contribuire ad instaurare un nuovo regime democratico e di collaborazione internazionale in tutta l'Europa. La prova della guerra La guerra comportò però subito un atroce dolore per il giovane prete. Nel novembre 1915, infatti, morì sul Sabotino l'amatissimo fratello Peppino, il cui ricordo rimase sempre vivissimo in don Primo. Questi aveva comunque già deciso di offrirsi volontario: fu così inserito nella Sanità militare e impiegato negli ospedali di Genova e poi di Cremona. Il timore di sentirsi ‘imboscato' spinse però don Mazzolari a chiedere il trasferimento al fronte. Così nel 1918 fu destinato come cappellano militare a seguire le truppe italiane inviate sul fronte francese. Rimase nove mesi in Francia. Rientrato nel 1919 in Italia ebbe altri incarichi con il Regio Esercito, compreso quello di recuperare le salme dei caduti nella zona di Tolmino. Nel 1920 seguì un periodo di sei mesi trascorso in Alta Slesia insieme alle truppe italiane inviate per mantenere l'ordine in una zona che era stata forzatamente ceduta dalla Germania alla neonata Polonia. Tutte le testimonianze concordano nel raccontare dell'impegno e della passione umana con cui don Primo seguì in questi vari frangenti i suoi soldati. Le successive esperienze di vita, soprattutto con il fascismo e con la seconda guerra, porteranno don Primo ad una decisa condanna di ogni forma di militarismo e di interventismo, come si evince dal suo testamento: Per capire che un cristiano non può odiare nessuno, nemmeno il nemico del proprio paese, non c'è bisogno che egli lo chieda al suo parroco o al suo vescovo, tanto meno al papa; e l'obbligo di resistere a tale ingiunzione, qualora ci venga imposta dalla stessa autorità costituita, sgorga evidente appena ne avverte l'immoralità […]. La guerra mette in palio la mia vita e la vita del mio prossimo. I morti non si contano più; i lutti, le rovine sono incalcolabili; le conseguenze morali e spirituali spaventose.

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Chi ha il coraggio di negare che il più direttamente impegnato nella guerra, colui che va a morire e va a far morire, non abbia diritto di sapere almeno se muore per una causa giusta? "Si tratta - sono milioni e milioni che parlano - della mia vita, la cosa più grande che io ho e di cui Dio solo è il padrone vero; e si pretende che io la metta o la tolga, all'oscuro, con un atto di fede che non so dove appoggiarlo!". Morire è una cosa tremenda, ma ancora sopportabile; è il far morire che, per un cristiano, il quale come il Cristo ha per missione di dar vita, è il colmo dell'atrocità!… e dal suo libro col titolo molto eloquente, “Tu non uccidere” del 1955. A parte che la guerra è sempre criminale in sé e per sé (poiché affida alla forza la soluzione di un problema di diritto); a parte che essa è sempre mostruosamente sproporzionata (per il sacrificio che richiede, contro i risultati che ottiene, se pur li ottiene); a parte che essa è sempre una trappola per la povera gente (che paga col sangue e ne ricava i danni e le beffe); a parte che essa è sempre antiumana e anticristiana (perché si rivela una trappola bestiale e ferisce direttamente lo spirito del Cristianesimo); a parte che essa è sempre inutile strage (perché una soluzione di forza non è giusta; e sempre comunque apre la porta agli abusi e crea nuovi scontri): qual è la guerra giusta e quella ingiusta? Può bastare l'affidarsi alla cronaca pura, alle semplici date, per stabilire chi attacca per primo, chi offende e chi si difende? […] Grandi e belle realtà la patria, il popolo, la libertà, la giustizia... Ma esse van servite con la pace: ché la guerra ammazza la patria, la quale, se non è un nome vano, è fatta di cittadini, di case; immiserisce il popolo; fa servi di dittatori o stranieri; e con la miseria eccita furto rapacità e sfruttamento, per cui l'ingiustizia aumenta. Chi ama veramente la patria le assicura la pace, cioè la vita: come chi ama suo figlio gli assicura salute. La pace è la salute di un popolo […]. Cappellani militari Come don Primo, già prete, così tanti altri preti vengono implicati nel conflitto come cappellani militari. Anzi, è in questa circostanza che viene istituito il “Vicario castrense”, che poi diventerà l’Ordinario militare, vescovo esente dall’incarico in una diocesi per dedicarsi interamente al mondo dei militari. E la presenza di soldati cappellani sarà molto importante per sostenere i soldati al fronte. I cappellani militari sono chiamati al fronte come cittadini che devono assolvere al loro dovere militare (così pure sono al fronte tanti chierici, alcuni dei quali poi diventeranno preti avendo nell’animo questa dura esperienza). Il comando militare si rende conto dell’utilità di avere al fronte queste persone, soprattutto con la loro qualifica di preti: i soldati hanno bisogno di conforti religiosi, anche quando molti di loro non hanno mai avuto o non sono grado di conservare questo spirito. Così essi sono utilizzati non solo per assolvere ai loro obblighi religiosi (messe e sacramenti), ma anche per quel tipo di vicinanza umana che consente di affrontare meglio la dura prova del fronte. P. Agostino Gemelli Tra di essi vogliamo ricordare P. Agostino Gemelli, che pure era un interventista, inizialmente a fianco degli Imperi Centrali, in una visione del mondo che vagheggiava un certo Medio Evo nel quale il potere politico era rappresentato dall’Impero. Poi la decisione di muovere guerra all’Austria lo porterà ad una presa di posizione che riconosceva nel mondo tedesco il barbaro da combattere. Ecco alcune delle sue idee in un pamphlet che lo riconosce come sostenitore del sistema di Cadorna, il generale in capo dell’esercito italiano. Padre Agostino Gemelli: soldato di Dio o ufficiale di Cadorna? di Angelo Nataloni

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Nel 1914, scoppiata la guerra in Europa, fondò la rivista Vita e Pensiero, un vero laboratorio di idee che troveranno corpo e attuazione nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Durante il nostro anno di neutralità, Gemelli, interventista dichiarato, pretendeva però che l'Italia scendesse in guerra a fianco degli imperi centrali, sognando un ritorno ad una società di stampo medievale dove la Chiesa fosse al centro di tutto e le milizie fossero "milizie cristiane". Tuttavia, non appena il clima politico cambiò e l'Italia scese in campo contro gli imperi centrali, Gemelli operò una rapida conversione a centottanta gradi “La patria chiama tutti alla sua difesa. Cessino le discussioni, i dissidi...(...) Oggi non c’è più luogo che per il proprio dovere, per tutto il proprio dovere compiuto con sacrificio, sino all’eroismo. Noi cattolici, che sino a ieri abbiamo lavorato per impedire la guerra, oggi dobbiamo dare tutta la nostra vita, tutta la nostra attività, tutto il nostro cuore, tutto il nostro ingegno a chi tiene nelle sue mani i destini della patria” (“Vita e Pensiero”, 1, 10, 1915). Poi subito dopo, con una certa disinvoltura ideologica, diventò il teorico della lotta contro i tedeschi, visti come "barbari". Egli pensava che fondamentalmente la guerra fosse una grande occasione per la Chiesa e non che si dovesse perdere il treno. Teorizzava la guerra come "espiazione", "rinascita", premendo affinché, negli orrori, le masse (“e soprattutto i miscredenti della classe operaia...”) si rivolgessero alla Fede cattolica come speranza di salvezza. Ecco come nel suo libro “Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare” descrive il soldato italiano: “La massima delle preoccupazioni sue, quella che domina il suo spirito, è quella di ordine materiale: il rancio, il vestito, il meschino conforto che si può avere in trincea. E in questo modo si capisce come si fanno strada egoismi, piccole rivalità, gelosie sorde, odi malcelati tra soldati e soldati, per ragioni e cause futili: un poco di paglia, un buco che sembra più riparato, un cucchiaio, una gavetta, una pozzanghera. Si capisce come il soldato è in primo luogo preoccupato in modo esagerato e quasi esclusivo dei suoi bisogni materiali”. Padre Agostino Gemelli descrive il soldato in trincea come un uomo che cessa di essere tale, che vive quasi estraneo a se stesso, che pensa poco e sempre alle stesse cose e indica la ricetta “La vuota coscienza del soldato deve essere invasa dall’immagine reale dell’ufficiale: in questo modo l’azione del soldato diviene involontaria, e perciò facile, automatica, quindi incosciente, quindi sicura”. In realtà dobbiamo riconoscere che molti di essi, per quanto all’inizio fossero interventisti, poi si trasformarono in sostenitori della pace, anche in presenza di orrori riscontrati sui fronti, e per la vicinanza ai soldati che ne pagavano sulla pelle e nella psiche i tremendi risvolti. I cappellani furono quelli più vicini ai soldati al fronte e quelli che vissero con loro tutte le sofferenze, assolvendo a compiti che andavano ben oltre il servizio religioso. Don Giovanni Folci Fra tutti possiamo prendere in considerazione il prete comasco don Giovanni Folci, che partecipa come cappellano al fronte sia in Trentino, sia sull’Isonzo e dopo la disfatta di Caporetto conosce mesi di prigionia, che continueranno anche dopo l’armistizio, perché il prete vuole star vicino ai soldati nel loro difficile rientro in patria. Don Giovanni Folci nasce a Cagno (CO) nel 1890 da una famiglia molto religiosa; a 10 anni entra nel seminario di Como, ove compie gli studi liceali e teologici che lo portano a diventare prete il 13 luglio 1913. Un mese dopo, il Vescovo lo nomina parroco a Valle di Colorina (SO), una piccola frazione a metà strada tra Morbegno e Sondrio. Allo scoppio della prima Guerra Mondiale, don Giovanni è chiamato al fronte a vestire la divisa di cappellano, aggregato al 38° Rgt. Fanteria, vivendo la dura guerra di trincea in prima linea. Viene decorato al valor militare. A seguito della disfatta di Caporetto, anche lui è fatto prigioniero ed inviato in vari campi di concentramento della Germania, fino al 1919, allorché fa ritorno nella sua parrocchia di Valle, avendo sempre nel cuore i suoi compagni di prigionia. Conosce gli stenti e la fame nel campo di concentramento di Celle (Hannover), dove trascorre quattordici mesi di prigionia, prolungati volontariamente per assistere gli intrasportabili fino all'arrivo della Croce Rossa.

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Il santuario Per ricordare degnamente i sacrifici e le sofferenze dei 60.000 morti in prigionia e di quanti giovani avevano offerto la propria vita in guerra, erige a Valle il Santuario del Prigioniero, dedicato in particolare a Gesù Eucaristico, Divin Prigioniero d'amore per Dio Padre e per gli uomini nel tabernacolo delle chiese sparse nel mondo. Intorno al Santuario, don Folci fonda un'istituzione, dedicata proprio a Gesù Divin Prigioniero e formata da anime generose, suore e poi sacerdoti, che condividono il suo entusiasmo e la sua passione nel consacrare la vita al Signore e agli uomini. La data di nascita di questa famiglia spirituale è il 29 novembre 1926, con l'arrivo a Valle delle prime quattro signorine che formeranno le Ancelle di Gesù Crocifisso. Don Folci ha tenuto un diario del suo servizio militare, sia nei giorni del fronte, sia nei giorni duri della prigionia: in essi si vede il prete che condivide la situazione con i suoi soldati, soprattutto nei momenti drammatici della lotta cruenta. Alla fine troviamo una riflessione che dedica in modo particolare ai preti che si sono conservati fedeli al ministero, ma anche a quelli che sono “caduti”, perché in quel frangente si è rivelata tutta la loro fragilità umana e spirituale. Per loro don Folci ha parola di compassione e di compatimento. Compassione e compatimento sono le parole che debbono sfiorare le nostre labbra e devono essere l’espressione dei sentimenti del nostro cuore, pur dinnanzi allo sfacelo doloroso di qualche anima sacerdotale e dei giovani allievi del Santuario … Quante volte in questi giorni (1919) mi sgorgò spontanea e imposta quasi dal bisogno di dire l’interno sentito sentimento: “Oggi mi sento più sacerdote di quattro anni fa”. Non è un vanto poiché tale affermazione mi rende pubblicamente obbligato a mantenere in me intatto qual cumulo di grazie che il Signore è andato disseminando sul mio cammino di vita sacerdotale nei due anni e mezzo di guerra vissuta sul fronte e poi nei sedici mesi della più dura delle prigionie. Ma quanto è doveroso e intimo da parte mia il grazie per sì segnalato beneficio, altrettanto sincero è il voto di compatimento per i fortunatamente pochi infelici confratelli che nella prova non hanno saputo reggere e sono caduti. Mi si dirà: ad essi pure non mancavano i mezzi, la santa Messa, l’Ufficio, la meditazione, le sante letture, la buona compagnia, i buoni esempi, la vita semplice, timorata e pia di tanti poveri soldati, di altri giovani ufficiali, tolti al santuario domestico come dall’unica ancora di salvezza di mezzo al diluviare della più sfacciata corruzione. Tutto è vero, ma io ripeto ancora: compatimento, compatimento! Compatimento che non vuol però essere debolezza ma neppure abbandono … Laici cattolici in guerra Dovremmo considerare anche coloro che sul fronte opposto e da italiani e cattolici guardavano agli eventi della guerra come al momento drammatico nel quale continuare ad operare secondo giustizia per un avvenire in cui l’appartenenza alle diverse nazioni non dovesse voler dire contrapposizione armata. Alcide De Gasperi Tra le figure che meritano di essere considerate per la difficile condizione in cui si sono trovate ad essere italiani del Trentino, inseriti in un Impero nient’affatto rispettoso delle sue diverse nazionalità, e nello stesso tempo desiderosi di appartenere ad un mondo culturale e linguistico in cui si riconoscevano, c’è da segnalare Alcide De Gasperi. Nei mesi immediatamente precedenti la guerra, De Gasperi che è un parlamentare trentino presso il Parlamento asburgico, non più convocato con lo scoppio della guerra, ha contatti diretti con esponenti italiani (segretamente anche con rappresentanti del governo) e quindi viaggia in Italia, che è sempre alleata dell’Austria.

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Il suo auspicio è che la guerra non scoppi e che le questioni territoriali vengano risolte con trattative, che in effetti prevedono il Trentino per l’Italia, ma non Trieste. Allo scoppio della guerra il parlamentare trentino, che è anche direttore del giornale locale “Il Trentino”, è costretto a chiudere il giornale sempre censurato. Iniziano in Trentino le deportazioni degli abitanti verso altre province asburgiche, mentre i deputati non subiscono queste restrizioni; tuttavia anche ad essere loro concesso di verificare il trattamento della popolazione, sono tenuti sotto controllo, così come sono guardati a vista gli italiani dell’Impero, sia quelli che combattono su altri fronti, sia quelli che sono internati. Dopo la morte di Francesco Giuseppe il Parlamento viene convocato dal successore e qui De Gasperi partecipa alle riunioni e prende le difese delle popolazioni dell’Impero maltrattate durante il conflitto: Se la discussione si fosse riferita solo al bilancio dello Stato – dice il 25 settembre 1917 – avrei rinunziato a parlare perché non ci si può attendere che una persona, la cui casa è stata incendiata e saccheggiata, si occupi della pubblica economia, ed io mi rifiuterei di continuare a mantenere la finzione di un popolo, che in pratica viene trattato come un nemico e conquistato, possa contemporaneamente, per mezzo dei suoi rappresentanti, far sentire la sua voce ed approvare, come parte avente eguali diritti delle altre parti, l’amministrazione dello Stato straniero. Ma questa tribuna è l’ultimo posto libero che è rimasto dopo la soppressione di ogni libertà civile a casa nostra e d’altra parte sarebbe peccato trattenersi dal rinfacciare al Governo la differenza esistente tra le belle frasi contenute nel suo programma e la loro pratica realizzazione da parte delle autorità amministrative locali e militari. La denuncia è forte e severa, sia nel tono, sia nelle parole, sia nei particolari sottolineati; ed è una difesa accorata della popolazione italiana angariata da un governo ottuso e dall’imbarbarimento dovuto alla guerra. Non gli esce una parola che lo faccia avvertire come un traditore, perché egli parla in favore dell’Italia: la sua difesa è solo nei confronti della popolazione locale: Il popolo guarda meravigliato e atterrito e si chiede se può ancora chiamare sua una terra che si era creata con la propria fatica e sulla quale può a stento strisciare di soppiatto. E quei tiranni credono, perché tutto è tranquillo, che si tratti di un cimitero. Ma lasciate che lo spirito di libertà spiri per queste ossa di morti e con esse, come una volta davanti al profeta, si ricomporranno e torneranno a formare uomini vivi e liberi. E più avanti, dopo Caporetto, per l’Austria battaglia vittoriosa che apre la porta all’invasione, afferma: Avvenga quello che vuole, noi sappiamo che con le nostre aspirazioni alla libertà e alla possibilità di sviluppo democratico, navighiamo nella grande corrente mondiale, che qui e fuori di qui va ogni giorno progredendo. E più avanti: Siamo certi che noi usciremo finalmente da questo inferno di orrori e di tormenti e che approderemo, assieme al nostro poeta divino, all’isola della Luce di fronte al libero mare sopra il quale passano gli spiriti cantando in coro: In exitu Israel de Aegypto / con quanto di quel salmo è poscia scritto. Anche De Gasperi, come cattolico convinto – e qui se ne ha la prova – partecipa a suo modo alla guerra combattendo su un fronte non meno impegnativo, anche a non aver imbracciato il fucile per schierarsi. La sua però non è stata affatto neutralità che cerca riparo o si oppone ad una precisa presa di posizione: le idee sono chiare ed espresse con estrema lucidità, condividendo anche lui le restrizioni a cui un po’ tutti erano soggetti, comprese quelle di non avere un vivere sicuro e un cibo assicurato.

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Don Angelo Roncalli Infine ricordiamo una figura tanto cara, quella di don Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII, che fu lui pure cappellano militare, anche senza andare direttamente al fronte. Dal suo Giornale dell’anima, diario spirituale della sua vita ecco alcune annotazioni di quei giorni. 23 maggio 1915 Domani parto per il servizio militare in sanità. Dove mi manderanno? Forse sul fronte nemico? Tornerò a Bergamo, oppure il Signore mi ha preparata la mia ultima ora sul campo di guerra? Nulla so; questo solamente voglio, la volontà di Dio in tutto e sempre, e la sua gloria nel sacrificio completo del mio essere. Così e solo così, penso di mantenermi all'altezza della mia vocazione e di mostrare a fatti il mio vero amore per la patria e per le anime dei miei fratelli. Lo spirito è pronto e lieto (Mt 26,41). Signore Gesù, mantenetemi sempre in queste disposizioni. Maria mia buona mamma, aiutatemi «ut in omnibus glorificetur Christus» (Fu 1,18). È interessante segnalare anche la pagina nella quale egli si pone di fronte alla donne che hanno perso i loro cari nella guerra: è il segno di una attenzione umana e religiosa molto delicata che rivela come la guerra coinvolga davvero tutti, anche coloro che non sono sul fronte di battaglia, ma devono patire – e tanto – per le conseguenze drammatiche di battaglie sanguinose. 14 novembre 1916 ALLE DONNE CATTOLICHE NELLA ANNUALE FUNZIONE DI SUFFRAGIO IN SAN BARTOLOMEO [BERGAMO] È il settimo anno che ci raccogliamo qui nel novembre a pregare per le socie defunte. Ogni volta un pensiero mesto ci accompagna: il ricordo di quelle anime elette che sono passate all'altra vita; quest'anno il pensiero è più mesto: poiché alcune delle socie sono morte, e sia pace santa all'anime loro; parecchie invece sono rimaste qui; ma, si direbbe, quasi sol per piangere i loro morti carissimi che la guerra strappò alla gioia del loro amore. Il nostro sodalizio fu particolarmente provato: la nostra presidente ha perduto il suo primogenito, la segretaria il marito: anime elettissime ambedue tanto degne di vivere, tanto belle e mirabili anche nel morire. La terribile guerra, così dolorosa per tutti, è il calvario speciale delle madri e delle spose: essa le tiene, come la Vergine martire, in piedi presso la croce. Ebbene, questo è importante che nel me-stissimo ricordo delle socie defunte e dei nostri valorosi caduti per la patria, le donne cattoliche sappiano cogliere l'atteggiamento che loro si conviene durante questa tremenda ora di Dio che passa. Il preparare il loro spirito al compimento dei loro doveri sarà già un prezioso suffragio alle anime desideratissime che ci furono così care. Questi doveri della donna cattolica nell'ora presente, io li riassumo sulla traccia di un illustre prelato francese in tre parole: accettare con rassegnazione, pregare con fervore, lavorare con generosità. 1) Accettare con rassegnazione. Alcuni si rivoltano e bestemmiano: collera inutile, imprecazioni superflue. La prova è una cosa divina ben più forte di noi: chi vuol resistere la rende più dura. L'accettare è il sustinere della saggezza antica, la rassegnazione esprime un concetto tutto cristiano. Gli stoici negano il dolore: ma esso esiste e talora è atroce; i cristiani lo ammettono e lo accettano perché Dio lo vuole o lo permette, per trarne un argomento di redenzione. Dopo il Golgota, la rassegnazione è il sorriso cristiano nel dolore; essa ci dà la dolcezza feconda del Fiat voluntas tua. Meraviglioso fiat fecondatore. Il fiat del Creatore: il fiat della Vergine Madre: il fiat di Gesù alla vigilia della Passione. Diciamolo anche noi e parteciperemo della sua virtù generatrice: diciamo al Signore che abbracciamo la sua croce sanguinosa, accettiamo la sua corona di spine sul nostro capo: vogliamo rassomigliargli nel suo pensiero divino, nel suo corpo crocifisso. Donne, madri, spose, ditelo sempre questo fiat: mentre i vostri cari danno la vita, date le vostre lacrime che sono il sangue del cuore; date le lacrime che non velino la visione della speranza, che non vi tolgono dalla croce presso la quale rimanete ritte e intrepide accanto a Maria, la regina e la madre dei dolori.

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2) Pregare con fervore. Gli uomini del mondo dicono delle grandi parole per addolcire i comuni dolori: l'invasione della patria minacciata, l'eroismo, la gloria, il dovere di mantenerci all'altezza delle circostanze. Ma le parole tacciono, e il dolore resta, e più vivo lo si sente nella solitudine dei deserti focolari. Ci vuole una voce divina, la voce che viene dal Vangelo, dalla croce, dalla Eucaristia; ci vogliono le consolazioni di me. Queste ce le dà la preghiera: preghiera che conforta e che spera. Poiché la preghiera fa miracoli in ogni ordine di rapporti. Si crede che si possa vincere solo col coraggio e con le armi; ma chi non sa di quale efficacia sia la preghiera per le armi dei combattenti? In ginocchio, nelle chiese, le donne non difendono meno la patria dei soldati nelle trincee: forse l'opera loro è anzi più efficace. Donne cattoliche, pregate: per le anime dei valorosi che non sono più e per coloro che combattono e che soffrono. Per quelle la vostra preghiera sia come l'ala che li porta più presto e [sicuramente] alla corona; per questi sia come la cintura ed una corazza di bronzo che li renda invulnerabili. La [pena] vi associa alla guerra, la preghiera vi associa alla vittoria. 3) Lavorare con generosità. Le occasioni non mancano. Vi sono dei bambini, dei poveri, delle vedove, dei feriti, dei mutilati, dei prigionieri, dei morti. Scegliete poiché non potrete far tutto: e consacratevi a qualche opera di pubblica o di privata carità. Date un poco della vostra fortuna, date il superfluo, togliete se occorre anche il necessario; non accontentatevi se non comprendete di esservi imposte davvero dei sacrifici. Oh! la benedizione di Dio! Oh! la riconoscenza di tanti per voi: i meriti grandi per il presente e per l'avvenire. Per tal modo sarete davvero benemerite della patria: e la virtù vostra, la vostra preghiera, la vostra attività genero-sa saranno il miglior suffragio per le anime che abbiamo commemorato e che vogliamo felici nella luce di Dio. Sono queste alcune delle tante voci che è giusto conoscere per avere una visione più completa del grande evento della guerra. Anche su questo fronte viene a maturare un atteggiamento nuovo che consentirà ai cattolici di diventare parte viva nella società italiana e di contribuire alla sua crescita e al suo rinnovamento. Ciò che conta però qui è sottolineare la partecipazione diretta anche del clero in quelle forme di vicinanza al popolo nei suoi momenti difficili in una missione che lungi dall’essere un appoggio alle forme militari è un sostegno diretto ai soldati che combattono e che hanno sempre bisogno, anche in quelle circostanze di essere aiutati a ritrovare la propria umanità. Le obiezioni e le riserve che si possono esprimere circa il loro inquadramento nell’esercito non devono far dimenticare che essi hanno pur sempre un compito pastorale nei confronti di persone che vivono l’amara realtà della guerra. Un conto è sostenere la guerra come mezzo e metodo politico e un conto è sostenere e accompagnare nel suo cammino esistenziale l’uomo o il cittadino che combatte in una guerra pur sempre esecrabile.

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