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17 LUOGHI E IDENTITÀ Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo di Salvatore Lupo 1. Il Sud e il suo specchio. Due equivalenze – la prima, tra storia del Mezzogiorno e questione meridionale; la seconda, tra questione meridionale e meridionalismo sono profondamente radicate nella nostra cultura, fanno parte inte- grante dell’identità del Mezzogiorno e della stessa identità italiana. L’una è apparsa indiscutibile sino a qualche anno fa, l’altra è rimasta indiscussa sino ad oggi. In questo mio intervento voglio porle in di- scussione entrambe. Cominciamo dalla prima, quella tra storia del Mezzogiorno e que- stione meridionale. In linea generale la questione, cioè il problema e il relativo dibattito, riguarda le ragioni dell’assenza nel Sud del progres- so economico e civile, o della sua insufficienza, o comunque della sua inferiorità rispetto al Nord. Questa eterna contrapposizione tra luoghi (o idealtipi?) non rappresenta però l’unico modo per analizzare la par- te d’Italia detta Mezzogiorno, la quale può essere raffigurata anche co- me un «qualsiasi» frammento della modernità, dove tra Otto e Nove- cento emergono nuove élites urbane o rurali; si determinano i rivolgi- menti dell’unificazione capitalistica del mercato e poi della società dei consumi; lo Stato crea infrastrutture, promuove l’istruzione, sostiene i redditi; aumenta la vita media, trionfano la cultura e la politica di mas- sa 1 . Insistendo oltre misura sull’impari confronto rischiamo di ignora- re tutta questa gigantesca fenomenologia storica. 1 Su questa linea, oltre agli interventi su «Meridiana», dal 1987 a oggi, e al volume del suo direttore (P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 1993), voglio ricordare alcune opere precedenti in cui la distinzione tra questione meridionale e storia del Mezzogiorno era posta con chiarezza: i saggi di G. Giarrizzo poi raccolti nel volume Mezzo- giorno senza meridionalismo, Marsilio, Venezia 1992; i saggi di G. Barone, S. Lupo, R. Man- giameli nel volume La modernizzazione difficile. Città e campagna nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fascismo, De Donato, Bari 1983 (atti di un convegno svolto a Catania nel 1981); G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia con- temporanea, Einaudi, Torino 1986. «Meridiana», n. 32, 1998

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LUOGHI E IDENTITÀ

Storia del Mezzogiorno,questione meridionale, meridionalismo

di Salvatore Lupo

1. Il Sud e il suo specchio.

Due equivalenze – la prima, tra storia del Mezzogiorno e questionemeridionale; la seconda, tra questione meridionale e meridionalismo –sono profondamente radicate nella nostra cultura, fanno parte inte-grante dell’identità del Mezzogiorno e della stessa identità italiana.L’una è apparsa indiscutibile sino a qualche anno fa, l’altra è rimastaindiscussa sino ad oggi. In questo mio intervento voglio porle in di-scussione entrambe.

Cominciamo dalla prima, quella tra storia del Mezzogiorno e que-stione meridionale. In linea generale la questione, cioè il problema e ilrelativo dibattito, riguarda le ragioni dell’assenza nel Sud del progres-so economico e civile, o della sua insufficienza, o comunque della suainferiorità rispetto al Nord. Questa eterna contrapposizione tra luoghi(o idealtipi?) non rappresenta però l’unico modo per analizzare la par-te d’Italia detta Mezzogiorno, la quale può essere raffigurata anche co-me un «qualsiasi» frammento della modernità, dove tra Otto e Nove-cento emergono nuove élites urbane o rurali; si determinano i rivolgi-menti dell’unificazione capitalistica del mercato e poi della società deiconsumi; lo Stato crea infrastrutture, promuove l’istruzione, sostiene iredditi; aumenta la vita media, trionfano la cultura e la politica di mas-sa1. Insistendo oltre misura sull’impari confronto rischiamo di ignora-re tutta questa gigantesca fenomenologia storica.

1 Su questa linea, oltre agli interventi su «Meridiana», dal 1987 a oggi, e al volume del suodirettore (P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 1993), voglioricordare alcune opere precedenti in cui la distinzione tra questione meridionale e storia delMezzogiorno era posta con chiarezza: i saggi di G. Giarrizzo poi raccolti nel volume Mezzo-giorno senza meridionalismo, Marsilio, Venezia 1992; i saggi di G. Barone, S. Lupo, R. Man-giameli nel volume La modernizzazione difficile. Città e campagna nel Mezzogiorno dall’etàgiolittiana al fascismo, De Donato, Bari 1983 (atti di un convegno svolto a Catania nel 1981);G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia con-temporanea, Einaudi, Torino 1986.«M

eridiana», n. 32, 1998

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Metafora dell’arretratezza economica, il Mezzogiorno rappresentaanche una poderosa metafora dell’arretratezza politica, cioè della fra-gilità della nostra identità nazionale. Il riferimento ai difetti della co-struzione unitaria postrisorgimentale stava d’altronde già al centrodella prima stagione della discussione sul tema, sviluppatasi negli annisettanta del XIX secolo attorno alla rivista fiorentina «Rassegna setti-manale», allorché Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti e Sidney Son-nino riconobbero nel Mezzogiorno il luogo ideale della questione so-ciale, e puntarono il dito contro gli egoismi delle classi dirigenti, le mi-serie dello spirito pubblico, i limiti di una solidarietà nazionale tuttaancora da costruirsi: tratti che mantenevano separata l’Italia dalla nor-ma dei paesi occidentali. Riproposta a distanza di cinquanta o dicent’anni, quest’enfasi sulle anomalie, dell’Italia rispetto all’Europaprogredita e del Mezzogiorno rispetto all’Italia settentrionale, sembradisegnare una sorta di destino immutabile che ben poco si confà allastoria reale del nostro paese in età contemporanea.

Rischiamo per questa via di restare intrappolati in quella tradizionedella nostra storiografia che a furia di evidenziare le mancanze hatroppo spesso sottovalutato le novità, i punti di rottura, i successi osemplicemente i processi costruttivi della vicenda nazionale2. Bisognapoi dire che la sovrapposizione tra le due questioni e le due storie (ita-liana e meridionale) schiaccia ancor più lo specifico della storia delMezzogiorno sotto una massa eccessiva di elementi metaforici, che ri-schiano di occultare parti della realtà almeno nella stessa misura in cuine illuminano altre.

Nei numerosi seminari che negli ultimi anni ho tenuto per gli inse-gnanti di storia della scuola secondaria, o in altre occasioni di pubblicadiscussione, è capitato che nel vivo di qualche polemica i miei interlo-cutori aggiustassero la stessa tradizione «meridionalista» cui pure essidichiaratamente si ispiravano, al fine di renderla ancor più funzionalea un’immagine del Sud sempre e in toto «piagnona». Così viene spessorichiamato il Fortunato che lamenta lo «sfasciume» del territorio, nonquello che insiste sui grandi vantaggi conseguiti dal Mezzogiorno conl’Unità d’Italia; è citato il Nitti che tuona contro il drenaggio versoNord del capitale meridionale, non quello che guarda all’emigrazioneda un lato e all’industria elettrica dall’altro come ai due grandi fattoridi innovazione e di rinascita; Rossi-Doria è sempre quello dell’ossoma mai quello della polpa, e guai a chi ricorda i suoi giudizi favorevoli

2 Mi permetto di rimandare ai miei Croce, Volpe e l’Italia liberale, in «Storica», 1, 1995,pp. 11-36; e La decisione politica nella storia d’Italia, in «Meridiana», 29, 1997, pp. 21-53.

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sugli effetti della riforma agraria. Le politiche economiche dei governisarebbero state sempre erronee o persecutorie, seppure ispirate a prin-cipi che in tempi diversi sono stati tra loro anche opposti: liberisti e li-bero-scambisti in età postunitaria, protezionisti alla fine del secolo, in-terventisti – dopo i timidi esordi di età giolittiana – nel primo periodorepubblicano. Nella memoria di ognuno risuonano insomma giudizicatastrofistici, mentre nessuno sembra conoscere un «meridionali-smo» meno apocalittico. Eppure basterebbe ricordare il più noto degliscritti di Giustino Fortunato, che nel 1904 definiva molto favorevoli alMezzogiorno le scelte postunitarie in campo doganale, dannose quelledel 1887, che prevedeva dei vantaggi dai trattati commerciali stipulatialla fine del secolo e auspicava che ne venissero sottoscritti di nuovi(come stava in effetti avvenendo); e comunque – aggiungeva – tale«naturale contrasto di interessi» non andava drammatizzato, non tut-to il Mezzogiorno era stato ugualmente colpito, anche i meridionaliavevano fatto i loro errori di valutazione»3. Era un’analisi sfaccettata,era la concretezza della distinzione che mal si presta ad essere inseritain una vulgata. Ma su questi temi torneremo più avanti.

Dunque, il senso comune va, talvolta, anche oltre le fonti cui si ab-bevera. Ciò ha la sua logica. Se questione meridionale e storia delMezzogiorno coincidono, ogni vicenda storica di questa parte d’Italiarischia di ridursi a un’eterna querelle sulle mancanze e le colpe. Il di-battito dei contemporanei resta al centro dell’attenzione, a scapito diqualsiasi altro tipo di fonte, archivistica o statistica, oggi disponibile.Molti continuano a citare Pasquale Villari e Fortunato, Sonnino e Nit-ti, Salvemini e Gramsci, non come protagonisti da collocare nel lorotempo, nel loro strumentario intellettuale e nella loro intenzionalitàpolitica, ma come mero specchio di una presunta, eterna attualità: sispiega il perché‚ sul nostro tema alla ricerca storica, basata su nuovefonti o su nuove prospettive interpretative, sia in genere appiccicata lavana etichetta di revisionismo, cui evidentemente si vuole contrappor-re una qualche ortodossia.

Siamo qui alla seconda delle equivalenze, quella tra questione me-ridionale e meridionalismo. Stando ad essa, ci sarebbe una tradizionedi analisi e dibattito sulla questione meridionale omogenea e sostan-zialmente concorde – il meridionalismo – raffigurabile come un movi-mento in difesa del Mezzogiorno. Al contrario, io credo che troppi etroppo diversi tra loro siano i discorsi sulla questione meridionale, per

3 G. Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria, in Id., Il Mezzogiorno elo Stato italiano, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 534-85, in part. p. 551.

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poterne dare una tale rappresentazione univoca. Tra l’altro, l’intentopolitico che nel periodo postrisorgimentale muove i primi analisti del-la questione meridionale, quelli del gruppo della «Rassegna settimana-le», non si concilia per nulla con il concetto della difesa di una partedella nazione contro l’altra: esso è piuttosto unitario, anzi centralista,e non potrebbe essere più lontano dai toni della recriminazione regio-nalista.

Contrariamente a quanto afferma o soltanto presuppone un po’ tut-ta la storiografia, in questa fase postunitaria il termine meridionalismonon esiste o almeno non è nell’uso comune. Per cominciare a parlarnecon giustificazioni più salde, dobbiamo arrivare a un periodo successi-vo, quello a cavallo dei due secoli, quando una miriade di voci si pro-pongono lo scopo della difesa del Sud in quanto regione, attribuendo lecolpe della sua debolezza al Nord, che viene accusato di monopolizzarele leve del potere, dunque delle politiche fiscali, doganali, dei lavoripubblici, e di quant’altro possa provocare la ricchezza e la miseria deipopoli. Ora in molti, con tesi esasperatamente polemica, parlano di«mercato coloniale», ora si invocano il riequilibrio, la riparazione, ilmutamento delle politiche generali italiane per salvare il Mezzogiornoo, viceversa, il varo di politiche differenziate in suo favore4.

Bisogna comunque considerare il periodo liberale come la preisto-ria di una vicenda destinata a svolgersi in una fase più recente, cioè inetà repubblicana, quando infatti il termine meridionalismo si radicaentrando a far parte della storia d’Italia e di ogni raffigurazione dellastoria d’Italia. Qui vengono elaborate e applicate le politiche dell’in-tervento straordinario, si svolgono le mobilitazioni del movimentocontadino e le risposte della riforma agraria, mentre la questione meri-dionale travalica i propri confini e invade il Nord con l’emigrazione dimassa. Qui il meridionalismo assume il proprio ruolo e il proprio no-me con Carlo Levi ed Ernesto De Martino, con Manlio Rossi-Doria,Emilio Sereni, Francesco Compagna e Pasquale Saraceno, nelle grandiesperienze delle riviste «Cronache meridionali» e «Nord e Sud».Qualche volta bisognerà pur ricostruire questa vicenda nella sua pie-nezza; ma io voglio per ora rimanere nella preistoria del concetto di

4 Bisogna comunque dire che anche in questo caso la mobilitazione si realizza in nome diun «beninteso» spirito nazionale. Nel complesso, non sono venute da Sud importanti riven-dicazioni di indipendenza, a parte che nelle due isole maggiori in alcuni brevi periodi: nulla diparagonabile a quant’è accaduto appunto nei paesi vittime del colonialismo, in tanta partedell’Europa orientale, e poi in Irlanda, nel paese basco, in Catalogna. Potrebbe essere inveceinteressante il fatto che l’unica forte spinta separatista nella storia d’Italia venga oggi da Nordcon la Lega.

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meridionalismo, mostrando le difficoltà, i possibili equivoci concet-tuali ed empirici, della sua retro-applicazione alla storia dell’Italia, delMezzogiorno e della stessa questione meridionale in età liberale.

Se guardiamo al fondo del problema, peraltro, vedremo che il meroriconoscimento del dualismo tra Nord e Sud non implica di per séuno schierarsi a favore del Mezzogiorno. Di dualismo parla nel 1904Fortunato, al culmine di una grande riflessione sui fattori, soprattuttonaturali, che rendono il Sud un mondo per ogni aspetto distinto dalNord5. Ma prima il dualismo era stato riconosciuto, anzi enfatizzatoall’estremo, dai funzionari piemontesi che nella congiuntura postuni-taria si erano convinti di essere in colonia e si erano comportati comefossero in colonia; e poi dai garibaldini che sul finire del secolo si pen-tono di aver portato questi selvaggi in Italia, dai socialisti che lamentanola palla che portano al piede e fischiano Salvemini nei loro congressi;dagli antropologi positivisti, questi fedeli della religione del progressoche a cavallo tra Otto e Novecento misurano crani cercando il quid cherende barbari i meridionali e civili i settentrionali; oggi, dal politologoPutnam che giudica il Mezzogiorno uncivic e da mille altri che ritengo-no che il civismo non vi arriverà nemmeno nei prossimi mille anni; daBocca che lo pensa come un inferno, da Bossi che all’inferno vorrebbecomunque mandarlo6.

L’idea del dualismo viene dunque condivisa da coloro che sonomossi da giudizio (o pregiudizio) sia sfavorevole che favorevole alla re-dimibilità del Mezzogiorno. In entrambi i casi essa suscita analisi sottilie geniali, ma anche inaccettabili forzature interpretative, e una fuor-viante, estremistica retorica della diversità – accompagnata da un’acca-nita ricerca delle colpe, che Fortunato non condivideva e non condivi-derebbe certo.

2. Regionalisti e panitaliani.

Abbiamo detto che l’equazione tra questione meridionale e tradi-zione meridionalistica si impone nella prima età repubblicana. Al ter-

5 Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributari cit., p. 539. Ma si vedano leosservazioni di C. Donzelli, Mezzogiorno tra «questione» e purgatorio. Opinione comune,immagine scientifica, strategie di ricerca, in «Meridiana», 9, 1990, pp. 13-53.

6 Cfr. R. D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Monadori, Milano 1993;G. Bocca, L’inferno: profondo Sud, male oscuro, Mondadori, Milano 1993. Sul primo ap-proccio dei piemontesi, N. Moe, Altro che Italia! Il Sud dei piemontesi (1860-61), in «Meri-diana», 15, 1992, pp. 53-89. Sui «pentimenti» fine secolo di un garibaldino mantovano, M.Bertolotti, Le complicazioni della vita: storie del Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1998.

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mine di essa, vengono dati alle stampe due libri destinati ad assumereun ruolo di particolare importanza nella formazione di generazioni distudenti e di studiosi: Il mito del buongoverno di Massimo Salvadori(1960-62) e Il Sud nella storia d’Italia di Rosario Villari (1961)1.

L’allora giovanissimo Salvadori parte con la (canonica) polemicamarxista contro l’interpretazione crociana della vicenda nazionale tra il1870 e il 1914, e ad essa contrappone la disamina delle colpe del liberali-smo, l’idea che il fascismo rappresenti il «logico sviluppo del periodopostrisorgimentale»2, la critica per il «dominio incontrastato della bor-ghesia» di cui è frutto la questione meridionale. Questa si è mantenuta«in termini immutati dal 1862» condannando il Sud «all’immobilitàdelle sue pietre o tutt’al più a muoversi verso una maggiore disgrega-zione»3. La contraddizione ignorata (negata) da Croce può essere docu-mentata ritornando al pensiero di chi al tempo la percepì, scoprendo,attraverso i suoi interpreti coevi, un punto di vista diverso da quellodell’Italia ufficiale, il punto di vista degli esclusi, della plebe ovvero deicontadini.

Troppo grande era la tragedia osservata, perché uomini di puri sentimentie di ingegno potessero provare la tentazione di una polemica «dorata». Fuproprio di questi uomini un ardore di apostoli; un amore sofferto per quelleplebi che costituirono il loro sprone; e una volontà insopprimibile di testimo-niare la verità4.

La verità, dunque. Gli apostoli della questione meridionale, cheuno per uno vengono presi in esame nei capitoli di questo volume,cantano fuori dal coro dei laudatori del regime borghese, esprimonouna critica onesta, seppure insufficiente o moralistica perché ispirata a

1 M. L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour aGramsci, II ed., Einaudi, Torino 1963. R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia. Antologia dellaquestione meridionale, Laterza, Bari 1972; l’antologia va collegata ai saggi dello stesso Villari,pubblicati in Conservatori e democratici nell’Italia liberale, Laterza, Bari 1964, poi ripubbli-cato e ampliato col titolo Mezzogiorno e democrazia, Laterza, Roma-Bari 1978. Un fruttotardivo di questa tradizione – ma sul versante laico – è il volume di G. Galasso, Passato e pre-sente del meridionalismo, Guida, Napoli 1978. Un esempio precedente di trattazione antolo-gica è quello di B. Caizzi, Antologia della questione meridionale, Comunità, Milano 1950.Sulla fortuna di questo genere letterario nel dopoguerra cfr. P. Bevilacqua, Il Mezzogiornotra ideologia e storia. Trent’anni di antologie sulla questione meridionale, in «Studi storici»,1976, pp. 125-59, cui rimando anche per una più completa bibliografia. Comunque esistevagià a quella data una tradizione diversa, meno legata al concetto di meridionalismo: cito soloG. Arias, La questione meridionale, Zanichelli, Bologna 1921; F. Vochting, La questione me-ridionale, Napoli 1956; e il volume meno noto, ma molto originale, di C. Rodanì, Mezzo-giorno e sviluppo economico, Laterza, Bari 1954.

2 Salvadori, Il mito cit., p.18.3 Salvadori, Il mito cit., rispettivamente pp. 20-1 e p. 524 (in sede di conclusione).4 Salvadori, Il mito cit., p. 43.

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idee liberali e ad un ingenuo «mito del buongoverno». C’è un meri-dionalismo «conservatore» che si raccoglie intorno alla «Rassegna set-timanale»; ad esso segue un meridionalismo democratico o socialista,che culmina nella teoria rivoluzionaria di Gramsci o si dissolve in essa.«Riuscire a infondere nelle masse meridionali la coscienza di classe:questo l’obiettivo»5 del 1962.

L’introduzione premessa da Rosario Villari alla sua antologia è piùsobriamente interna all’argomento. Siamo in un momento in cui ilpaese sembra superare di slancio gli equilibri tradizionali, dal punto divista sia economico che politico; la questione meridionale, scrive Villa-ri, è stata «insolubile nell’ambito della costruzione liberale dello Sta-to», ma si avvia verso la soluzione nel quadro democratico repubbli-cano. Questa notazione fa riflettere. La tradizione, ovvero la «lettera-tura meridionalistica» (anche qui presentata attraverso la distinzionedi una corrente «liberale» da una democratico-socialista) va ad occu-pare nel senso comune storiografico italiano il suo posto canonicoproprio nel momento in cui la si dichiara inattuale. Per Villari, bisognain una certa misura «ridimensionarla» anche perché nel frattempo laricerca sta ridimensionando tanti discorsi del passato sulle colpe delloStato e sullo sfruttamento del Sud ad opera dell’industria settentriona-le. In effetti in questi anni Romeo afferma che gli storici non possonocontinuare a lamentare la pesantezza della pressione fiscale sull’agri-coltura dimenticando che essa ha reso possibile in Italia la nascita diun’economia industriale tutt’altro che parassitaria; mentre Cafagna af-ferma che i meccanismi dello sviluppo del Nord e del sottosviluppodel Sud sono autonomi, e che non si può dunque dire che i secondisiano funzionali ai primi6. Qui, come altrove, lo storico calabrese simuove con grande prudenza:

Piuttosto che un forzato contributo finanziario all’industrializzazione, chepure non è mancato e che ha ostacolato i nuclei di borghesia agraria più moder-na e fattiva, il fatto centrale consiste in una più radicale «rinuncia» ad utilizzarenel processo di ammodernamento del paese le potenziali risorse umane, econo-miche, politiche ed intellettuali del Mezzogiorno. È in questa forma che l’esi-stenza della questione meridionale ha fatto sentire il suo peso negativo lungotutta la storia nazionale7.

5 Salvadori, Il mito cit., p. 22.6 Cfr. i saggi di Rosario Romeo su Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959; e quel-

li di Luciano Cafagna di quegli anni, ora raccolti nel volume Dualismo e sviluppo nella storiad’Italia, Marsilio, Venezia 1989.

7 Villari, Il Sud nella storia d’Italia cit., p. VI. Può essere interessante un testo successivo(1974) di Villari, che interviene soprattutto sulle tesi di Cafagna: L’interdipendenza tra Norde Sud, in Id., Mezzogiorno e democrazia cit., pp. 1-29.

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Questa rinuncia è politica e sociale quanto economica. Il meridio-nalismo – pur in parte ridimensionato – rimane per Villari un momen-to essenziale della storia d’Italia, il discorso sullo stato della nazionesenza il quale non potremmo dare «un giudizio storico sui caratteri esulla composizione della classe dirigente, sulla natura delle istituzioninate dal Risorgimento, sul processo di formazione sociale e politicadelle forze di opposizione»8. Qui abbiamo una disciplina o tendenzache si vuole critica e di opposizione, il livello forse immaturo ma co-munque importantissimo di riformismo «alto», il terreno di elezione diuna tradizione di impegno civile della quale, pur criticandola, gli intel-lettuali gramsciani dell’età repubblicana amano sentirsi i continuatori.

Nei volumi di Salvadori e di Rosario Villari le espressioni «questio-ne meridionale» e «meridionalismo» vengono usate promiscuamente.Ho già detto all’inizio che questa identificazione nasconde essa stessaun problema, che i primi interpreti della questione meridionale nonusavano definire se stessi meridionalisti. Certo non lo facevano gli illu-ministi cui ne Il Sud nella storia d’Italia sono affidate le «premesse»settecentesche del dibattito; ma, almeno per quanto posso capire dalleloro opere maggiori, non lo facevano neppure Pasquale Villari, Sonni-no, Franchetti, Fortunato9. Antonio Salandra, polemizzando garbata-mente con i suoi amici di «Rassegna settimanale», li chiamava – alla te-desca – «socialisti sentimentali» o socialisti della cattedra10. Ancora nel1910, tra gli analisti della questione meridionale, Arturo Labriola citavasolo Colajanni e Nitti, definendoli «economisti pratici», non meridio-nalisti11. Gaetano Salvemini ebbe a confessare che fino al 1910 gli eraignoto il pensiero di Fortunato, e prima ancora, nel 1899, riferiva comeun paradosso, atto a divertire i lettori dell’«Avanti!», il fatto di essersiscoperto d’accordo con Sonnino sul suffragio universale: evidentemen-te né lui né i suoi lettori ritenevano allora così ovvio che l’intellettualeradicalsocialista e il leader dello schieramento conservatore dovessero opotessero far parte entrambi di una medesima corrente12.

8 Villari, Il Sud nella storia d’Italia cit., p. VII.9 P. Villari, Le lettere meridionali, a cura di F. Barbagallo, Guida, Napoli 1979 (I ed.

1875), che pure secondo Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia cit., p. 105, «segnano l’at-to di nascita, nel 1875, del meridionalismo liberale»; L. Franchetti-S. Sonnino, Inchiesta in Si-cilia, Vallecchi, Firenze 1974 (I ed. 1876); Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano cit.

10 Lettera di Salandra e risposta redazionale del settembre 1878, in Villari, Il Sud nellastoria d’Italia cit., pp. 141-60.

11 A. Labriola, Storia di dieci anni (1899-1909), prefazione di N. Tranfaglia, Feltrinelli,Milano 1975 (I ed. 1910), pp. 100 sgg.

12 G. Salvemini, Riepilogo (1955), in Id., Movimento socialista e questione meridionale, acura di G. Arfè, Feltrinelli, Milano 1973, p. 672; e Id., L’intervista coll’on. Sonnino sostenitoredei diritti popolari, in Id., Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura

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Lo stesso Salvemini dall’America, dov’era esiliato da tanti anni, spedìnel 1945 una lettera a Dorso in cui prendeva atto dell’intenzione, da questicomunicatagli, di pubblicare un periodico «meridionalista»: così, tra vir-golette e dimostrando qualche perplessità (lo ricollegava alla richiesta dileggi speciali), Salvemini citò il termine quasi fosse la prima volta che losentiva13. Forse lo aveva dimenticato. Infatti di meridionalismo si era par-lato quanto meno negli anni venti con Dorso e Gramsci. Però, mentreDorso fa un uso del termine analogo a quello divenuto poi canonico (For-tunato e De Viti De Marco sono meridionalisti e «isolati»14), il leader co-munista nel suo allora inedito Alcuni temi sulla quistione meridionale(1926) ci riserva qualche sorpresa. Solo un accenno per ora, perché su que-sto torneremo più avanti. «Meridionalista» (ancora tra virgolette) vienedefinita «la cricca degli scrittori della cosiddetta scuola positivista» (Fer-ri, Sergi, Niceforo, Orano), che in ogni rassegna del dopoguerra seguen-te sarà collocata sul versante opposto, nella schiera dei razzisti antimeri-dionali messi alla berlina da Colajanni. Croce e Fortunato sono detti«operosi reazionari» e intellettuali del blocco agrario meridionale – dun-que «panitaliani» (così nei Quaderni) e non meridionalisti. Le note ap-poste al testo gramsciano del 1926 da Franco De Felice e Valentino Par-lato, quarant’anni dopo (1966), rimetteranno le cose a posto: Niceforo esoci saranno definiti «esponenti dell’indirizzo antropologico», e Fortu-nato «importante meridionalista» seppur conservatore15; nella versionedel meridionalismo divenuta canonica Croce non sarà molto preso inconsiderazione, e nessuno oserà ricondurre Fortunato al blocco agrario.

Veramente non so se questi problemi filologici legati al termine me-ridionalista-meridionalismo siano stati mai considerati dagli studiosi.Manca nel genere letterario «antologia della questione meridionale»l’esposizione del criterio per cui agli autori presi in esame o antologiz-zati viene attribuita la qualifica di meridionalista, e in sostanza anche laspiegazione del che cosa si intenda con questa parola: la distinzione traala liberale (o conservatrice) e ala democratica implica appunto, soltan-to, una differenza all’interno della stessa corrente, la cui stessa esistenzain quanto tale andrebbe dimostrata.

di E. Apih, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 15-8.13 Lettera a G. Dorso del 15 agosto 1945 ora in Salvemini, Movimento socialista cit., pp.

619-21. 14 G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Einaudi, Torino 1955 (I ed. 1925), p. 120.15 A. Gramsci, Alcuni temi sulla quistione meridionale, in Id., La questione meridionale, a

cura di F. De Felice e V. Parlato, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 134, 136 e passim. Fortunatoe Croce sono detti «panitaliani» nei Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi,Torino 1975, vol. III, p. 2022.

16 G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Einaudi,

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Il punto mi pare, invece, centrale: per gli storici di fine Novecentonon può essere ininfluente sapere come i gruppi nominano, o non no-minano se stessi. D’altronde, per tutto quello che ho detto prima,nemmeno gli storici gramsciani degli anni cinquanta-sessanta si sareb-bero accontentati di una definizione del meridionalismo come movi-mento in difesa di una parte del paese, gruppo di pressione di tipo re-gionalista. Essi, ad esempio, non pensavano nemmeno di inserirvi gliesponenti della Sinistra storica (Crispi), e tanto meno quelli della «si-nistra giovane», raggruppamento soprattutto meridionale che con lesue vittorie elettorali del 1874 e del 1876 portò, com’è noto, alla primaimportante svolta politica nella storia dell’Italia unita. Questo grupposi schierò in difesa della proprietà del Mezzogiorno nel riparto delleimposizioni fiscali e nel richiedere maggiori investimenti pubblici nelcampo delle infrastrutture; rivendicazione in verità legittima dopo cheun ventennio di espansione economica aveva di molto allargato la pro-duzione e il commercio dei prodotti agricoli nel Sud, ma che apparvea molti contemporanei segno di acrimonia regionalistica, sintomo diun abbassamento del tono della vita politica. Si trattava sì di riformi-smo, privo però dell’afflato alto e sociale attribuito al meridionalismo;nei bei libri pubblicati nel 1956 da Giampiero Carocci e da GiulianoProcacci, altri importanti esponenti del gruppo degli storici gramscia-ni, traspare un giudizio piuttosto negativo e limitante su questa Sini-stra «proprietaria» e meridionale assurta al governo della nazione16.

Componente essenziale di ogni puzzle meridionalistico è inveceFortunato, che peraltro non a torto Gramsci dipinge come esponentedel blocco agrario. Si tratta infatti del rampollo di una famiglia di affit-tuari lucani, divenuti nella prima parte del secolo grandi proprietari egrandi funzionari borbonici, che come tanti altri rentiers spende a Na-poli, vivendo da signore, i denari accumulati dal fratello Ernesto inaziende gestite con il sistema della cerealicoltura estensiva e dell’alleva-mento transumante, poi migliorato secondo il modello di lenta intensi-ficazione colturale che caratterizza alcune parti del latifondo meridio-nale tardo-ottocentesco. Egli difende la razionalità di questo tipo di or-ganizzazione economico-agraria, riportandola ai fattori naturali di in-feriorità dell’agricoltura «secca» del Sud, con un ragionamento peraltronon molto differente da quello del marchese Antonio di Rudinì17, che

Torino 1956; G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l’opposizione meridionale, Feltrinelli, Milano1956.

17 A. di Rudinì, Terre incolte e latifondi, in «Giornale degli economisti», 1, 1895, pp. 141-231.

18 Fortunato, Introduzione a E. Azimonti, Il Mezzogiorno agrario quale è, Laterza, Bari

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in genere viene dalla storiografia etichettato come apologeta del la-tifondo. In questa prospettiva Fortunato si dichiarerà nei primi annidel Novecento contrario ai progetti nittiani di legislazione tesa a favo-rire irrigazione e bonifica, giudicandoli inutili e costosi, e nel dopo-guerra al «semplicismo analfabeta della quotizzazione» del latifondoportata avanti dal movimento contadino18. La sua idea di politica eco-nomica è semplice e corrispondente a quella liberista delle élites agra-rie di metà Ottocento: meno tasse, bilancio pubblico al minimo perfavorire la circolazione del capitale, libero scambio. Anche la sua atti-vità politica si colloca in questo contesto. Siamo davanti a un grandenotabile che per questa sua qualità sociale viene eletto ininterrotta-mente al parlamento dal 1880 in poi, e che si può permettere posizionipersonali e coraggiose anche perché, credo, sa che in ogni caso i suoiconcittadini lo confermeranno nel suo seggio, magari a prescindere daesse; il meccanismo del collegio uninominale, che privilegia tale con-tatto personale tra deputato, grandi elettori e cittadinanza, viene da luidifeso contro ipotesi di riforma proporzionalista19. Spesso lo si dice unconservatore, anche se la sua battaglia per l’allargamento del suffragio,che vorrebbe universale, indica la sua apertura ai principi della demo-crazia; e poi bisogna dire che, contrariamente a molti conservatori e aqualche radicale, egli conferma in ogni occasione la sua fiducia nellepubbliche libertà e nella centralità delle istituzioni rappresentative,non confondendo la critica al parlamentarismo con quella al parla-mento. Perciò, con grande coerenza, in tarda età scriverà e parleràcontro il fascismo. Da gran signore e da uomo onesto, critica aspra-mente il malcostume politico prevalente nel Sud e in particolare leprepotenze, le illegalità perpetrate dalla borghesia nell’amministrazio-ne degli enti locali. Peraltro la medesima borghesia paesana viene dalui accusata di agitare strumentalmente la questione demaniale attiz-zando così gli odii popolari contro i grandi proprietari20; e qui, forse,persino questo grande difende un più ristretto interesse di classe.

Insomma, Fortunato non esprimeva una chissà quale tendenza ra-dicale di opposizione, né un pensiero sotterraneo e minoritario, né unaltro Mezzogiorno «nascosto» contrapposto al Mezzogiorno reale.

1921, p. VII; ma cfr. anche la lettera riportata ivi, pp. 189-91. Si veda anche E. Calice, Ernestoe Giustino Fortunato, De Donato, Bari 1982.

19 Fortunato, Scrutinio di lista, discorso parlamentare del 25 marzo 1881, in Id., Il Mez-zogiorno e lo Stato italiano cit., pp. 71-95.

20 Fortunato, La questione demaniale nell’Italia meridionale, in «Rassegna settimanale»,2 novembre 1879, poi in Id., Il Mezzogiorno cit., pp. 55-69.

21 Fortunato, Il Mezzogiorno cit., p. 12.

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Egli voleva rappresentare, come scrisse ai propri elettori, «ciò che noimeridionali siamo davvero»21, certo attraverso il filtro del personalissi-mo equilibrio di giudizio, della sua particolare severità intellettuale emorale. Era espressione del potere sociale e del sistema politico meri-dionale, era un membro delle classi dirigenti del Sud, eppure sapevatrovare forti e convincenti accenti autocritici. Più da lontano guarda-vano le cose altri membri del gruppo della «Rassegna settimanale».Pasquale Villari era un intellettuale-politico napoletano emigrato a Fi-renze già dopo il 1948. Franchetti e Sonnino erano due giovani bril-lanti esponenti dell’alta borghesia toscana, che sarebbero voluti andarein Romagna per dimostrare agli italiani l’esistenza della questione so-ciale, ma che poi, pressati dall’emergenza politica, preferirono la Sici-lia. Pur da questi diversi punti di osservazione, tutti costoro erano ac-comunati dalla critica alle classi superiori, che nel Sud rappresentava-no al massimo grado i difetti delle classi superiori italiane, poco solle-cite degli interessi dei loro contadini, chiuse in un mondo di fazioni edi piccoli interessi, troppo lontane da quella che avrebbe dovuto esse-re la classe dirigente di una grande nazione.

Così, mettendo in pratica la grande lezione positivistica per cui larealtà va conosciuta de visu, non attraverso la mediazione libresca,Franchetti e Sonnino fecero il viaggio che diede origine ai due volumidell’Inchiesta in Sicilia. Nel primo, Franchetti affronta il tema dellapolitica e dell’amministrazione locale, descrivendo una classe dirigenteabituata a considerare le istituzioni strumento di sopraffazione, im-pregnata di spirito feudale, incapace di sollevarsi fino alla concezionemoderna della cosa pubblica, di comprendere cioè che l’esercizio delpotere deve passare attraverso l’impersonalità della legge, che gli egoi-smi dei ceti superiori vanno temperati da una paterna sollecitudine pergli interessi dei ceti subalterni. Nel secondo, Sonnino tratta della con-dizione contadina, critica come iniqui i patti agrari, propone la mezza-dria toscana quale strada obbligata per conseguire un abbassamentodel tasso di violenza e di conflitto nella relazione tra le classi.

Di un contesto sociale, quello siciliano, affatto inadatto ai principiliberali sui quali il mondo civile si basa, il «comportamento mafioso»appare a Franchetti l’elemento rivelatore, allarmante e ributtante. I di-fetti dei ceti superiori si riflettono infatti sui ceti inferiori, e tutti indi-stintamente sono portatori di tale virus. Essendo per lui «i Sicilianid’ogni classe e ceto [...] ugualmente incapaci d’intendere il concetto delDiritto», essi vanno trattati come malati che si lamentano ma che «non

22 Franchetti, Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia, in Franchetti-Sonnino,

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Lupo, Storia del Mezzogiorno

si rendono conto del come e del perché» del loro male; infatti non pos-sono «intendere il fine ultimo dei provvedimenti presi o da prendersi».Lo Stato non deve utilizzare nessuno dei canali di comunicazione cheoffre questa società infetta: a nessun livello il suo personale va reclutatotra i siciliani, e naturalmente, per «portare la Sicilia alla condizione diun popolo moderno», il governo non deve «in niun caso» tenere contodei desideri, delle proposte, soprattutto delle proteste dell’opinionepubblica e dei deputati isolani22.

Queste conclusioni di Franchetti – in genere prudentemente igno-rate dalle antologie sulla questione meridionale – suscitano protestenell’opinione pubblica siciliana, tra i collusi con la mafia, tra i difenso-ri dell’onore regionale offeso, o soltanto tra gli elettori della Sinistrache si candida al governo della nazione; si tratta peraltro della coda diuna polemica ben più vasta, che già aveva sconvolto l’isola allorchéMinghetti (1874), per tutelare la pubblica sicurezza, aveva propostoleggi repressive da applicarsi solo in «alcune» regionali. Da Sud si erarisposto che sin dal 1861, col pretesto della criminalità, il Mezzogior-no era oggetto di un regime «d’eccezione», ovvero di occupazione mi-litare e di sospensione dei diritti statutari, che con questi mezzi il go-verno intendeva frenare il fiume dell’opposizione politica meridionale.In effetti c’è uno stretto rapporto tra il discorso di Franchetti e quello,dualistico, individuato dalla Destra postunitaria, dai suoi politici, daisuoi funzionari e dai suoi generali che, pur predicando la teoria del«discentramento amministrativo» e dell’autogoverno dei proprietari,avevano preferito il centralismo e spesso anche le amministrazioni mi-litari perché convinti dell’immaturità delle classi dirigenti, specialmen-te meridionali.

Siamo nella logica cui si è accennato all’inizio di questo saggio:quella di un discorso sulla questione meridionale tutt’altro che meri-dionalista.

3. La scoperta del sociale.

Franchetti sembra soprattutto preoccuparsi di un processo di per-meabilità del governo alle cricche e alle fazioni che si realizza attraver-so i meccanismi della rappresentanza politica; come fa Pasquale Tu-

Inchiesta cit., pp. 219-24. Ma su questo rimando anche alla mia Storia della mafia. Dalle ori-gini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1996, pp. 73 sgg.

1 Questa invece era la tesi polemica di Salvemini, per cui il giovane Sonnino del 1875

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riello, anche lui collaboratore della «Rassegna settimanale», talora ca-talogato come meridionalista ma appartenente piuttosto al filone delpensiero illiberale e antiparlamentare; come fanno i tanti che parlanonon di questione meridionale ma del peso eccessivo delle clientele,delle elezioni, degli istituti rappresentativi, dei partiti, nella vita politi-ca nazionale.

Come si è visto, trovare un punto di contatto tra la critica di Fran-chetti e l’interesse, la spinta, la cultura della società meridionale, è cosamolto più ardua che nel caso di Fortunato. Anche Sonnino, propo-nendo la regolamentazione per legge dei patti agrari, non sembra certorispondere alle preferenze della classe dirigente meridionale, e peraltrorischia di alienarsi larghissimi settori del riformismo nazionale. Certa-mente egli condivide i timori per gli eccessi della rappresentanza poli-tica: suo sarà di lì a qualche anno il motto «torniamo allo Statuto», suoil maggiore contributo progettuale al tentativo liberticida di Pelloux.Chi nelle ricostruzioni del meridionalismo ha imparato a conoscerel’adamantino riformatore sociale del 1875 avrà peraltro qualche diffi-coltà a riconoscerlo in questa veste reazionaria di fine secolo. Ma an-cor di più sarà difficile collocare l’antico fustigatore delle classi diri-genti siciliane nel ruolo del leader dello schieramento conservatoremeridionale e settentrionale, genericamente agrario, che egli assumeràagli inizi del Novecento; non certo sulla sua antica prospettiva diriforma dei patti agrari, ma su quella degli sgravi fiscali in favore dellaproprietà fondiaria. Scartando senz’altro l’idea che un tal personaggiopossa essere letto all’insegna della categoria del trasformismo1, biso-gnerà concludere che forse non esiste il distacco che tanti presumonotra le ipotesi di riforma, o di autoriforma, e le classi dirigenti sia set-tentrionali che meridionali; che lo choc iniziale, la terapia d’urto prati-cata nel 1875 da un gruppo di intellettuali, dotati di ingegno e caratte-re, sia già stato assorbito, a cavallo tra i due secoli, da una cultura poli-tica liberale resa attenta all’elemento sociale, anche in conseguenza delcruciale allargamento della partecipazione collettiva alla vita della na-zione verificatosi in quegli anni. Antonio Salandra, il grande agrario egiurista pugliese, il membro del gruppo della «Rassegna meridionale»che nel 1878 aveva criticato l’estremismo di Sonnino, finirà per teoriz-zare anche lui i doveri «sociali» della proprietà fondiaria, per schierar-

«non aveva bisogno di pagare col suo appoggio i voti dei latifondisti e dei camorristi meridio-nali», come invece faceva il Sonnino politicante di vent’anni dopo: Salvemini, La questionemeridionale e il federalismo, in «Critica sociale», settembre 1900, ora in Id., Movimento so-cialista e questione meridionale cit., pp. 157-91, in part. p. 183.

2 Salvadori, Il mito cit., p. 63.

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Lupo, Storia del Mezzogiorno

si contro l’assenteismo dei suoi pari, e per assumere la guida delloschieramento conservatore e agrario italiano.

Dunque non si può, riferendosi al meridionale Fortunato come altoscano Sonnino, descrivere i cosiddetti meridionalisti liberali quali in-tellettuali destinati a permanente opposizione, che formulano un di-scorso «poco incidente sulla politica italiana»2. Già nel 1978, RosarioVillari (autocriticamente?) mostrerà di essere ben conscio del fatto cheessi non sono

soli e inascoltati veggenti in una terra di ciechi né utopisti staccati dal contestodei conflitti reali, come, secondo i casi, i giudizi correnti li dipingevano e con-tinuano ancor oggi a dipingerli. [...] A volte essi ebbero anche un’influenzasulle concrete decisioni e sugli orientamenti delle forze dirigenti3.

Forse però nemmeno tale considerazione è sufficiente perché al-meno alcuni di essi sono parte delle forze dirigenti. Si pensi solo aquelli che divengono presidenti del Consiglio, Sonnino e Nitti, non-ché – tra i collaboratori della «Rassegna settimanale» – Salandra e diRudinì.

Con questo non voglio certo negare la portata innovativa dellaquestione meridionale; ma anzi collocarla nel suo contesto e dimo-strarne l’influenza. La discussione sul Mezzogiorno apre infatti ilmondo della politica alle influenze dell’analisi sociale, passaggio ne-cessario perché gli italiani possano conoscere se stessi uscendo dai li-miti di una cultura retorico-umanistica che forniva loro – secondo leparole di Fortunato – «nessuna precisa nozione del passato, nessunavera coscienza del presente»4. La lezione fortunatiana sul ruolo deifattori naturali, geografici e pedologici, contraddice in effetti il mitoantico della feracità naturale del Sud, mostra i vincoli che attardano ilsuo sviluppo, apre le porte alla grande tradizione italiana della culturaagraria che condurrà a Ghino Valenti, a Serpieri, a Sereni, a Rossi-Do-ria. L’inchiesta «privata» di Franchetti e Sonnino vivifica l’idea positi-vista nella pratica della ricerca sul campo; e si pone come il logico an-tecedente di quella «ufficiale», cioè parlamentare, sulle condizioni deicontadini, nella quale gran parte avrà la riflessione di un altro illustreinterprete della questione meridionale, Nitti (1910). Il meridionali-smo, se davvero esistesse, rappresenterebbe non già il segno dell’inca-pacità della cultura liberale italiana, ma – al contrario – ne esprimereb-be la caratteristica duttilità, la forte capacità di rinnovamento. La trat-

3 Introduzione a Mezzogiorno e democrazia cit., p. VIII.4 Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria cit., p. 543.5 E si veda anche soltanto il grande incipit sonniniano dei Contadini in Sicilia, in Fran-

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tazione sonniniana dei contratti agrari si pone come modello difficil-mente superabile di demistificazione dell’idea liberista che riconduceagli automatismi del mercato ogni prospettiva di miglioramento dellacondizione delle plebi5. È uno straordinario coraggio intellettuale,quello che porta gli uomini della «Rassegna settimanale» a riportare ilproblema della mancanza di una «classe media» al duro nocciolodell’oppressione di classe attorno al quale prosperano i ceti dirigentilocali. Caso in apparenza sorprendente, ma non così raro nel pensieroeuropeo a cavallo tra i due secoli, sono i moderati più che i progressi-sti a scoprire la «questione sociale», a chiedere allo Stato la tutela delleclassi inferiori come garanzia delle stesse basi della convivenza civile.Ma lo Stato invocato è pur sempre una creatura dei ceti superiori. Sequesti conservatori – in qualche caso grandi proprietari essi stessi – fi-niscono per puntare sul suffragio universale lo fanno perché sonoconvinti che in esso «c’è il motore come il freno», perché lucidamenteritengono che il rafforzamento delle istituzioni monarchiche e la co-struzione della nazione debba passare attraverso il blocco tra la pro-prietà «riformata» e i contadini non più sottoposti a un brutale sfrut-tamento, nel quale l’azione civilizzatrice dello Stato sia rivolta versogli uni e verso gli altri. E questo è effettivamente il «mito del buongo-verno» richiamato da Salvadori.

Possiamo catalogare questi personaggi alla voce «socialismo dellacattedra», o nazional-laburismo, ma in ogni caso dobbiamo conside-rare la loro forte propensione nazionalistica, sempre pungolata dallafrustrazione per la debolezza della nuova compagine statuale nel con-fronto con concorrenti più forti ed agguerrite. Proprio dai disastri del-la guerra del 1866 Pasquale Villari ricava la sicurezza che un paesecomposto da pochi arcadi e milioni di analfabeti non può essere chedebole, in guerra come in pace, perché manca in esso il vincolo dellavera solidarietà nazionale: «Senza liberare gli oppressi, non aumenteràfra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e laricchezza necessarie ad una grande nazione»6.

L’intreccio tra la questione nazionale, la questione sociale e la que-stione meridionale è evidente nella discussione sul brigantaggio postu-nitario, che rappresenta un momento fondante della nostra problema-tica. Quella era stata la prima «rivelazione» clamorosa e scandalosadell’insufficienza della retorica risorgimentale nello spiegare il rappor-

chetti-Sonnino, Inchiesta cit., pp. 4-7.6 Villari, Le lettere meridionali cit., p. 67.7 C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1975.

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to tra Stato, classi dirigenti e società, nonché la relazione tra Nord eSud. Alla nuova classe dirigente italiana, allo strato sottile dei ceti coltiche formavano l’opinione pubblica nel primo periodo postunitario,toccava il problema di spiegare la sanguinosa guerriglia del 1861-63, laresistenza di massa contro l’ordine sociale e contro i valori patriottici,i cafoni che vilipendevano la proprietà e bestemmiavano la patria. Ifunzionari e i militari impegnati sul campo non ebbero alcun pudorenell’assimilare il Mezzogiorno a una specie di Affrica ribelle perchébarbara e selvaggia, governabile solo con la forza; tesi in fondo nonincompatibile con quella prevalente a livello politico, sia a destra che asinistra, laddove sia pure con diversi accenti i liberali ponevano piut-tosto sotto accusa gli intrighi delle corti e del Vaticano, nonché l’ere-dità materiale e spirituale del vecchio regime, giudicato colpevole diaver volontariamente corrotto le plebi, di aver alimentato le discordiecivili e la criminalità per giustificare il dispotismo.

Alcuni anni dopo, l’esplodere della questione meridionale inter-venne a mutare i termini della discussione. Perché, si chiese PasqualeVillari, «abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi?» E perché il conta-dino si trasforma in brigante? Perché – era la risposta del riformatoresociale – non può sentire il valore dei concetti di patria e di legge unaplebe rurale composta da proletari e analfabeti, oppressa ferocementedai proprietari, privata nei fatti dalla prepotenza delle classi superioridel proprio legittimo diritto di accesso al vasto patrimonio demaniale,di cui la legge avrebbe dovuto garantire la distribuzione agli indigenti.Il brigantaggio indica il sordo muggire della questione sociale, forseprelude allo sviluppo di movimenti anarchici o comunisti – spaurac-chio spesso usato dai collaboratori della «Rassegna settimanale» perconvincere i propri pari a portare attenzione al mondo che sta intornoe sotto di essi.

Sia qui consentito un brusco salto in avanti. Negli anni a venire, laquestione contadina e meridionale rappresenterà sempre per la culturaitaliana il più tipico veicolo di «scandalo» sociale; e proprio per questosi avrà l’effetto (non so quanto positivo e realistico) dell’identificazio-ne dell’oppressione di classe, della questione sociale e della questionecriminale con l’assenza dello sviluppo. Il problema della relazione trail mondo rurale meridionale e la nazione verrà clamorosamente alla ri-balta della storia d’Italia in una seconda occasione, all’atto della cadutadel fascismo e del fallimento del modello fascista di nazionalizzazionedelle masse. I contadini lucani magistralmente raffigurati tra la fine del1943 e l’inizio del 1944 da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli ap-paiono abissalmente lontani dall’idea di Stato e di nazione, nella versio-

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Lupo, Storia del Mezzogiorno

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ne retorica fascista come in qualsiasi altra versione storicamente data,comunque «espressione di una civiltà a loro radicalmente nemica». Iloro unici possibili eroi sono i briganti, «le sole guerre che tocchino illoro cuore [...] guerre infelici e destinate sempre ad essere perse; ferocie disperate, e incomprensibili per gli storici»7. Levi si riferisce proprioalla memoria popolare del brigantaggio postunitario, anche se si puòpensare che egli sia immerso nell’atmosfera della guerra mondiale chesi combatte mentre egli scrive, nella prospettiva di un nuovo brigan-taggio che torna a funestare il Sud.

Per molti di noi – scriverà Norberto Bobbio nel 1955 richiamandosi a Le-vi – il crollo del fascismo e la guerra di liberazione sono stati occasione per lascoperta di un’Italia segreta e nascosta [...] dei poveri, dei diseredati, degli op-pressi, di coloro che non erano mai stati protagonisti di storia etico-politica,né tanto meno di Kulturgeschichte, che nella storiografia come narrazionedell’individuale non potevano trovar posto [...] [se non] attraverso nomi col-lettivi come contadini, braccianti, plebe, masse, soldati, banditi8.

Ancora qualche anno (1959), e questi banditi diverranno nell’analisidi Hobsbawm – largamente basata sul caso italiano e sul dibattito poli-tico-culturale italiano – i primitive rebels, l’espressione di una rivoltacontadina romantica e ingenuamente classista9. In generale, il dibattitodi questi anni, che vede l’intervento di altri grandi intellettuali come illetterato Rocco Scotellaro, l’antropologo Ernesto De Martino, di unnugolo di scienziati sociali provenienti da ogni parte del mondo, tendea interpretare il mondo contadino meridionale come una società chiusa,resistente al mutamento, profondamente statica10. Un ponte ideale col-lega questo dibattito a quello tardo-ottocentesco: la scoperta di un sub-strato sociale difficilmente penetrabile dal mutamento politico – la Re-sistenza come a suo tempo il Risorgimento, la riforma agraria come giàla redistribuzione dei beni demaniali – ciò che rende evidente, per con-trasto, la vischiosità di fattori «nascosti». Anche ora, come già in età li-berale, l’inchiesta sociale «sul campo» si colloca (seppure in forme econ tecniche diverse) al centro della scena a confutare le verità conven-zionali della retorica nazionale. Nel secondo dopoguerra è la sinistra,destinata dopo il 1948 a un ruolo di permanente opposizione, a risco-prire la dimensione meridionale e sociale. Nel secondo Ottocento erastata invece la parte più sensibile della classe dirigente a fare autocritica

8 Introduzione a D. Dolci, Banditi a Partinico, Laterza, Bari 1955, p. 8.9 E. J. Hobsbawm, I ribelli, Einaudi, Torino 1966.10 Ma si veda Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, in Id., Mezzogiorno senza me-

ridionalismo cit., pp. 201-69.11 Su cui cfr. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1964, che

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Lupo, Storia del Mezzogiorno

sui modi della costruzione dello Stato unitario. A più riprese, lungotutta la storia culturale italiana e in particolare dopo ogni grande crisinazionale, la camorra la mafia e il brigantaggio vengono rappresentaticome la più clamorosa manifestazione del malessere sociale: nell’Otto-cento come nel Novecento si ribadisce l’impressione (o l’illusione) diuna storia sempre uguale a se stessa, ovvero di una mancanza di storia.

Si tratta di due stagioni culturali di enorme forza innovativa. Ciònon vuol dire che il passar del tempo sia vano, che la questione contadi-na mantenga davvero intatti i suoi caratteri tra i sue secoli. La vicendadella mafia dimostra ad esempio come certi fenomeni giudicati arcaici,da Hobsbawm e da tanti altri, possano acclimatarsi benissimo nellamodernità. E poi, veramente la criminalità del Mezzogiorno può ridur-si in ogni tempo alla formula, un po’ vuota e retorica, dell’eterna lonta-nanza dei contadini prima (delle masse poi) dallo Stato?

A questo punto occorre tornare al grande brigantaggio postunita-rio11. È dubbio che nella fattispecie lo stesso termine briganti sia da con-siderarsi corretto, visto che i fatti del 1861-63 ripropongono lo schemadella guerriglia popolare del 1799 e del periodo francese, insomma latradizione sanfedista. Quest’elemento congiunturale, cioè politico, puòessere davvero ignorato, relegato a mero epifenomeno di una non me-glio specificata «lotta di classe»12? Perché chiamare sempre in causa laquestione demaniale – come facevano con grande forza polemica Pa-squale Villari e Fortunato, come fanno ancor oggi molti storici – chenei fatti non compare quale causa di azioni brigantesche o quale originedelle carriere brigantesche? Il Regno delle due Sicilie era il maggioredegli Stati italiani preunitari, avviatosi seppur lentamente verso unastruttura moderna con la recezione dei modelli amministrativi francesi:non c’è ragione per non concedere che in esso si sia sviluppato un pa-triottismo «da piccola nazione», oltre che un senso della fedeltà dinasti-ca. Ed in effetti numerosi furono tra i capi-briganti gli ex-sottufficialidell’esercito borbonico, gli esponenti dei ranghi inferiori della vecchiaamministrazione; frequente nelle loro «confessioni» ai magistrati il sen-so di un’ingiusta umiliazione, il desiderio di reagire alla tracotanza deivincitori13. Come spiegare, senza considerare quest’elemento, l’esauri-

a più di trent’anni dalla sua pubblicazione rimane il testo fondamentale.12 Come tra gli altri sostiene T. Pedio, Reazione e brigantaggio in Basilicata, in «Archivio

storico per le province napoletane», 1983 (numero monografico dedicato al brigantaggio), pp.223-86.

13 Si veda, tra gli altri, il caso del sergente Romano, capobanda pugliese, ricostruito da A.Lucarelli, Il brigantaggio politico nel Mezzogiorno, Longanesi, Milano 1968.

14 Fortunato a N. Rosselli, 4 aprile 1927, in G. Fortunato, Carteggio, a cura di E. Gentile,

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mento del fenomeno brigantesco dopo il 1865? Vanno poi consideratele differenze regionali. Il fatto che in età postunitaria manchi un gran-de brigantaggio in Sicilia, già area forte del movimento antiborbonico,rimanda con ogni evidenza alla diversa tradizione politica delle dueparti del Regno delle due Sicilie. Solo le circostanze del conflitto risor-gimentale, la vicinanza anche geografica con l’esiliata corte borbonica econ il Vaticano, possono spiegare la forza delle bande in Abruzzo, inCampania, in Basilicata, nelle Puglie all’indomani dell’Unità, visto chein età liberale queste regioni risulteranno abbastanza immuni dal ban-ditismo (sociale o meramente criminale), mentre ben più vivace questosarà sino alla prima guerra mondiale – e oltre – in Calabria, in Sardegnae in Sicilia, proprio le regioni che erano state assenti dal «grande» bri-gantaggio del 1861-63.

Non sembri che si voglia esagerare l’importanza del legittimismomeridionale, o il consenso verso il modello amministrativo borbonico,già travolto dalla sua strutturale incapacità di rappresentare politica-mente élites, aree, regioni intere. Però quella del grande brigantaggio èuna vicenda che non può non essere considerata politica, a meno chegli storici attuali non vogliano negare il diritto di un’opzione politicaalle plebi, come facevano nell’Ottocento i membri delle classi superioriconsiderando il brigantaggio «frutto di secolare abbrutimento di mise-ria e di ignoranza delle nostre plebi rurali» – secondo l’idea tenuta fer-ma sino alla fine da Fortunato14.

Qui è d’obbligo una riflessione sui concetti usati dai cosiddetti me-ridionalisti dell’Ottocento. Per essi il sociale non rappresenta la base eil retroterra del politico (com’è nello schema marxisteggiante che ci èabituale), ma campo antagonistico ad esso. Una questione è sociale enon politica: il latifondo, la stessa esistenza di un proletariato, di stra-tificazioni rigide di classe, rappresentano anomalie, condizioni ecce-zionali che valgono a spiegare fenomeni altrimenti inspiegabili. Politi-co è il processo di costruzione della nazione, sociale è l’elemento chead esso resiste; e all’inverso il Risorgimento non ha interessato le plebiperché è stata solo una rivoluzione politica. Così questo primo revi-sionismo risorgimentale è tutto interno alla stessa ideologia risorgi-mentale: gli ex-liberali e gli ex-borbonici finiscono per concordare expost nella negazione di ogni legittimità alle posizioni antinazionali eantiunitarie, ciò che risulta più facile relegandole nel campo oscuro delsociale. Il caso-limite è quello di Fortunato, la cui ossessiva insistenza

Laterza, Roma-Bari 1980, vol. IV, p. 16.15 Calice, Ernesto e Giustino Fortunato cit.

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su questo dato non può certo essere valutata appieno dimenticando ilfatto che la sua famiglia di autorevoli esponenti del partito borbonicofu costretta a fuggire dal natio paese di Rionero in Vulture perché ac-cusata dai liberali di complicità coi briganti15; accusa tanto più credibi-le in quanto il massimo capo-brigante, Crocco, era stato un dipenden-te («cavallaro») dei Fortunato, da essi protetto in vari momenti dellasua carriera politico-criminale.

Così la questione meridionale mostra sin dal suo primo apparire ilpregio e il difetto da cui siamo partiti: fa emergere prepotentementeun enorme problema, stimola cioè la riflessione sulla condizione delpopolo e sulla sua relazione con la nazione; ma come una luce troppovivida occulta due elementi importanti nello specifico della storia delnostro Sud, il legittimismo popolare che fa la sua prova ultima e dispe-rata nello scontro con l’esercito della nuova Italia, la diversità dellatradizione politica nelle varie regioni del Mezzogiorno.

4. Un partito per il Mezzogiorno?

Naturalmente non dobbiamo pensare che nell’Italia tardo-ottocen-tesca manchino le polemiche regionalistiche; polemiche poco colte,poco politiche e nondimeno sempre più diffuse, man mano che ci siavvicina alla fine del secolo, tra nordici e sudici, su chi paga e chi nonpaga le tasse, sui barbari e sui civilizzati, su chi può viaggiare in car-rozza ferroviaria e chi invece deve ancora muoversi a dorso di mulo,su chi può godere delle prebende dei pubblici impieghi e chi no. Ilquattordicenne Gaetano Salvemini, viaggiando appunto in treno condue settentrionali e ascoltando le loro battute razziste sui meridionalisporchi e barbari, reagisce con un polemico riferimento ai quattriniestorti dal Nord al Sud; ma non sa di quali quattrini nei fatti possatrattarsi, e deve rapidamente chetarsi anche per il pizzicotto ammoni-tore della madre1.

Gli argomenti vengono opportunamente forniti nel fatale anno1900 da un giovane lucano, che a furia di sacrifici è riuscito a studiareconquistando alfine una cattedra all’Università di Napoli. FrancescoSaverio Nitti, in un libro (non a caso di grande successo) intitolatoNord e Sud, sostiene che il Sud ha ricevuto dall’Unità grandi danni,

1 Salvemini, La questione meridionale e il federalismo cit., pp. 157-8.2 F. S. Nitti, Nord e Sud, Torino 1900. Su Nitti cfr. F. Barbagallo, Francesco S. Nitti,

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perché le politiche del debito pubblico e del prelievo fiscale lo hannoespropriato dell’abbondante capitale circolante del periodo borbonico,perché le industrie allora fiorenti sono state rovinate dalle scelte libe-ro-scambiste del nuovo Stato, perché i lavori pubblici sono andati alNord, perché gli impiegati sono in maggioranza settentrionali2. Fortu-nato, che come reduce del gruppo della «Rassegna settimanale» e con-temporaneamente come intellettuale napoletano (nonché grande pro-prietario e deputato lucano) rappresenta forse il maggiore trait-d’union tra la prima e questa seconda stagione della questione meri-dionale, percepisce subito la possibilità che gli argomenti del suo allie-vo Nitti, alimentando più o meno nascoste nostalgie borboniche, pos-sano inasprire oltre misura gli animi: da qui il suo realistico rinvio allavera causa dell’attivo del bilancio del Regno delle due Sicilie – il livelloinfimo della spesa pubblica –, il puntiglioso rifarsi alla miseria reale delMezzogiorno primo-ottocentesco che nella trasfigurazione ideologicarischia di trasformarsi nella presunta ricchezza drenata al Nord, il ri-chiamo al grande cammino percorso dopo l’Unità:

La crisi del Mezzogiorno non trae dunque origine dal fatto della sua an-nessione alla rimanente Italia, come il Nitti per primo è ben lontano dal dire edal pensare, ma non come altri, in buona o in mala fede, può facilmente ripete-re dietro le sue affermazioni. È accaduto a noi quello che accade ai ciclisti: ab-biamo corso troppo, e poco veduto intorno a noi della via percorsa3.

L’argomentare equilibrato di Fortunato non è ovviamente in gradodi cambiare il corso delle cose. Il Nord accelera visibilmente sulla stra-da dello sviluppo economico, mentre il Sud dopo l’esperienza dellacrisi agraria dubita di poter tenere il passo: è questo «effetto di dimo-strazione» a creare l’idea del fronte di difesa meridionale e ad indurrealla ricerca degli argomenti, delle retoriche adeguate, che non potrannoche essere radicali. Non è più il tempo di pudori postrisorgimentali.

Quando io pubblicai il mio libro Nord e Sud – scrive Nitti nel 1903 – sen-tii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discor-dia. Io pensavo non senza gioia: – Se mi riescisse! In un paese civile non è la di-scordia d’interessi che si deve temere; essa non può produrre che bene, poi chestimola l’attività, aumenta il controllo, diminuisce l’abuso. Ciò che si deve te-mere è la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’al-tra4.

Utet, Torino 1984.3 Fortunato, La questione meridionale cit., p. 560.4 Nitti, Napoli e la questione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale, vol.

III, a cura di M. Rossi-Doria, Laterza, Bari 1978, pp. 14-5.5 Così definito da Nitti stesso, Il partito radicale e la nuova democrazia industriale

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In effetti questo è proprio il momento adatto per allargare i canalidella partecipazione e dell’informazione. La questione meridionale, di-venuta querelle regionalista e protesta antistatale, va a coinvolgere tut-to il Mezzogiorno politicamente attivo, i latifondisti come gli impiega-ti, i maestri di scuola come i commercianti, gli uomini politici della piùvaria estrazione. Si forma in questo momento «un movimento perl’Italia meridionale»5, teso cioè a difenderne gli interessi. L’analisi nit-tiana non guarda al passato, non vuole fornire argomenti per una pole-mica separatista, ma intende porre i presupposti per uno spostamentoverso Sud dei flussi della spesa pubblica, usando l’argomento robustodella riparazione dei torti storici (veri o presunti) subiti dalla parte in-feriore della nazione.

A questo fine Nitti propone leggi speciali con cui l’azione statalelavori ad allargare i confini dello sviluppo, sul duplice fronte del rias-setto territoriale e della creazione di infrastrutture, cioè dei presuppo-sti dell’industrializzazione. Viene così varata la legge del 1904 che rivi-talizza l’antica vocazione industriale di Napoli. Nello stesso anno unalegge stabilisce in favore della Basilicata agevolazioni pubbliche e sgra-vi fiscali, secondo un modello poi riproposto per altre regioni. Succes-sivamente, su richiesta dei produttori siciliani di zolfo e di derivatiagrumari che mobilitano le masse in imponenti meetings (è il terminein uso allora) in difesa della Sicilia oppressa, vengono costituiti il Con-sorzio zolfifero (1906) e la Camera agrumaria (1908), enti statali, ob-bligatori, di vendita dei due prodotti; in questi casi la deputazione iso-lana legifera su se stessa, senza interferenza degli altri deputati, e sem-bra quasi un’assemblea regionale ante litteram, con buona pace delpresunto centralismo dello Stato liberale. Il governo entra nella discus-sione solo per garantirsi che non si ecceda nella parte finanziaria. Inte-ressanti le perplessità espresse in queste e in altre occasioni da Nitti.Per lui la legislazione speciale deve svolgere un ruolo «alto» di riequili-brio delle diseguaglianze territoriali; invece essa diviene l’ennesimoterreno di contrattazione tra il governo e le classi politiche locali, e gli«arrivisti professionali» che vanno rapidamente imparando a far usodella nuova bandiera degli interessi meridionali6. Direi però che non va

(1906), in Id., Scritti sulla questione meridionale cit., p. 439; è interessante notare come l’indi-ce sistematico di questo volume rinvii per ben tre volte al termine meridionalismo, che purequi non si riscontra né alla pagina indicata né altrove.

6 Nitti, Il partito radicale cit., p. 439; ma si veda anche il suo discorso parlamentare sullaCamera agrumaria (giugno 1908), in S. Lupo, Il giardino degli aranci. Il mondo degli agruminella storia del Mezzogiorno, Marsilio, Venezia 1990, p. 237.

7 Si vedano gli scritti e i discorsi di A. De Viti De Marco raccolti nel volume Un trenten-

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demonizzata neanche questa funzione, giolittiana più che nittiana,della legislazione speciale: essa esprime una linea di governo ispiratanon già da un programmatico divide et impera, ma dal tentativo di da-re risposta a una domanda segnata da obiettiva frammentazione. Nelperiodo postunitario, nella fase della grande fiducia nell’integrazionemercantile come veicolo unico del «progresso» economico, città epaesi chiedevano la strada, la ferrovia, il porto a preferenza del centrovicino e concorrente. Ora l’interventismo statale favorisce una primariaggregazione della domanda politica.

Le discussioni sulle leggi speciali, ancora i dibattiti sulla fiscalitàsoprattutto locale, coinvolgono così gruppi d’interesse settoriali e/oterritoriali di base più ampia di quanto avvenisse in passato. Ma un al-tro grande dibattito scuote il Mezzogiorno di inizio Novecento, quel-lo sui trattati di commercio.

A prendere partito su questo punto, a cercare di formare qualcosadi simile a un partito, sono i liberisti. Riassumiamo i punti cruciali del-la loro tesi. Il protezionismo, industriale e cerealicolo, favorisce picco-li ma agguerriti gruppi privilegiati, danneggia i settori esportatori e inparticolare i prodotti dell’agricoltura pregiata (vino, agrumi, mandor-le, olio, ortaggi), che secondo la teoria ricardiana dei costi comparatirappresenta la vera, grande «industria» del Mezzogiorno. Dalla «cata-strofe» del 1887 il Sud esce ridotto a «mercato coloniale» dell’indu-stria protetta del Settentrione. Nel tempo, l’esistenza stessa della pro-tezione crea lobby più vaste e poderose, induce ad esempio solidarietàtra gli imprenditori e gli operai, i quali si impinguano anch’essi a spesedella collettività che paga gli alti salari e la legislazione sociale per loro;mentre i consumatori tutti e i produttori del Mezzogiorno sono «ro-vinati». Bisogna che essi si muovano, si organizzino, si facciano senti-re: questa è la finalità di tutta l’attività politica e intellettuale di Anto-nio De Viti De Marco, economista, deputato radicale e grande pro-prietario viticultore pugliese7.

Dunque per tale via, anche questa volta, la questione meridionalevuole assumere la veste della questione nazionale. De Viti De Marco sirichiama sempre all’interesse generale (come gli altri liberisti, sia meri-dionali che settentrionali) e non ha formulazioni nettamente regionali-ste come quelle del primo Nitti. Però i liberisti sanno di aver bisognodei gruppi di pressione meridionale. Quando a Bari si costituiscel’«Associazione per la tutela degli interessi meridionali nella rinnova-

nio di lotte politiche (1894-1922), Roma 1929.8 F. Papafava, Dieci anni di storia italiana (1899-1909), Laterza, Bari 1913, p. 200.

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zione dei trattati commercio» (1901), un grande proprietario veneto (eintellettuale liberista) come Francesco Papafava non ha nessun proble-ma ad esprimere la propria solidarietà:

«Tutela degli interessi meridionali? Brutto nome», diranno i patriotti in-dustriali che sacrificarono le Puglie nel 1887 in nome dell’interesse nazionale.Bruttissimo infatti. Appunto la bruttezza del nome mi fa pensare che la cosasia «bella», nel senso che iniziative di questo genere rivelano un’aperta dialet-tica degli interessi non mascherata da fumisticherie patriottiche, sempre pre-senti quando si prendono provvedimenti protezionisti8.

Appunto perché rappresentativa (almeno nelle intenzioni) di un’al-ternativa generale, la polemica liberista contro l’Italia liberale, ovveroprotezionistica e giolittiana, è quella che meglio si presta a rappresen-tare in termini radicali l’alternativa meridionalistica. Per questo essadeve rimanere al centro del meridionalismo neo-gramsciano di Salva-dori e Rosario Villari, per quanto essa approdi ad esiti antisocialisti edantioperai, per quanto sia rappresentativa di un’alternativa agraristamanifestamente improponibile, per quanto all’inizio degli anni sessan-ta del Novecento sia ben chiaro che tutte le sciagure a suo tempo pre-viste dai liberisti non si sono realizzate, che l’industrializzazione di etàgiolittiana rappresenta l’antecedente del «miracolo economico». Certoè difficile trovare un comune filo «meridionalista» che leghi le posizio-ni dei liberisti di inizio Novecento con quelle stataliste della stagioneprecedente, cioè della «Rassegna settimanale». Si consideri anche checon il nuovo secolo l’elemento della critica alle classi proprietarie va ra-pidamente perdendo di centralità. Sonnino e Salandra, come si è detto,procedono su tutt’altra strada. Con lo sviluppo dei movimenti demo-cratici e socialisti, dovrebbe comparire una più radicale critica classista,ma nella realtà le cose vanno diversamente. I radicalismi classisti cedo-no rapidamente il campo di fronte all’esigenza del socialismo meridio-nale di collegarsi a un più vasto spaccato sociale, al più vasto arco degliinteressi locali.

La strada della difesa degli interessi della borghesia produttiva loca-le oppressa dal centralismo, dallo Stato, dal protezionismo, viene per-corsa dai reduci del movimento dei fasci siciliani, con un dippiù di re-gionalismo isolano che rende sempre difficile applicare l’etichetta meri-dionalista ai moti politici e intellettuali di questa parte estrema del Sud9.

9 Sul tema rinvio a S. Lupo-R. Mangiameli, La modernizzazione difficile: blocchi corpora-tivi e conflitto di classe in una società arretrata, in La modernizzazione difficile cit., pp. 217-62.

10 Salvemini, La questione meridionale e i partiti politici, in «Critica sociale», agosto 1903,

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Però è questa anche la strada dei riformisti ortodossi come Ciccotti,degli anarco-sindacalisti come Arturo Labriola, dei riformisti etero-dossi come Salvemini. Naturalmente il superiore senso morale, l’aguz-zo ingegno e l’inesausta vis polemica di Salvemini mantengono vivo ilfilone autocritico della questione meridionale, la denuncia dei caratterideteriori del costume politico locale, quell’aspirazione a una rotturadella configurazione oligarchica della vita collettiva che culmina nellaceleberrima battaglia per il suffragio universale. La diffidenza di Salve-mini verso la grande proprietà resta forte, ed egli non si mostra parti-colarmente entusiasta nemmeno della battaglia di Sonnino per glisgravi fiscali, giudicata insufficiente a garantire l’interesse del Sud e ca-somai atta a mantenere artificiosamente in vita il latifondo. La criticadi Salvemini verso gli agrari, la piccola borghesia e la «cosiddetta» opi-nione pubblica ha radici antiche, ma finisce coll’appuntarsi sull’inca-pacità di queste forze di schierarsi contro il protezionismo, causa cau-sarum dell’oppressione del Mezzogiorno.

Peraltro, nel momento in cui la piccola borghesia e l’opinione pub-blica meridionale volessero fare sul serio contro una politica «ufficia-le» che non vuole «salvare l’Italia dal soffocamento a cui la condannail parassitismo protezionista», forse varrebbe la pena di solidarizzarecon essa:

E così, con la complicità di tutti, si organizza a breve scadenza una guerracivile tra Nord e Sud, di cui nel nostro paese, così ricco di guerre civili, non siè mai vista l’eguale. Perché le proteste comunali della provincia di Lecce se-gnano nell’agitazione meridionale una nuova fase: non è più la razza maledet-ta dei contadini che insorge ed è assassinata; è la piccola borghesia commer-ciante, coltivatrice, professionista che entra nella scena. Ora i fucili, che fun-zioneranno contro di essa, funzioneranno contro l’unità d’Italia. Il Governo,corrompendo i capi dell’agitazione, ha potuto provvisoriamente frastornare latempesta; ma la nuvola presto si ricostituirà e scoppierà terribile. Perché noinon vogliamo morire10.

Può apparire sorprendente che un intellettuale di questo rigore mo-rale e intellettuale si faccia trasportare dal crescendo retorico fino a im-maginare che la trattativa sui trattati di commercio possa portare solo allamorte del Sud per mano del governo assassino, alla rottura dell’unità delpaese o alla guerra civile – laddove nulla di tutto questo è nell’agendadella storia del 1903. Però, se anche un giovane sacerdote democraticocristiano come Luigi Sturzo prevede (o auspica) una «guerra regionali-

ora in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., pp. 284-94, in part. p. 293.11 L. Sturzo, Pro e contro il Mezzogiorno (1903), ora in Id., La battaglia meridionalista, a

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sta» in difesa del negletto interesse del Sud11, evidentemente il liberismoriesce a fungere da lievito di moltissimi scontenti, funziona come unapoderosa retorica radicale che assume a simbolo malefico del parassiti-smo protezionista Giovanni Giolitti, e quindi l’Italia «ufficiale» delnuovo secolo, col suo mediocre riformismo sociale, la sua retorica delpasso per passo, il suo uso sapiente della macchina amministrativa persostenere nelle elezioni i candidati amici e combattere quelli avversi.

È però assai dubbio che debba essere assunto a simbolo del prote-zionismo proprio Giolitti, che ritornava al potere alla fine del 1903, eda cui toccava il compito del rinnovo dei trattati commerciali mentre ilprotezionismo agricolo si andava ampiamente diffondendo su scalaeuropea; in una situazione che faceva prevedere grandi difficoltà per lemerci italiane destinate a competere con merci indigene, qual era il ca-so del vino nell’Austria-Ungheria. Presentando il suo programma digoverno, Giolitti definiva «un dovere nazionale» l’intervento in favoredel Mezzogiorno e si dichiarava pronto ad agevolare le esportazioniagricole diminuendo la protezione industriale12. Per il vino pugliesenon si trovarono soluzioni efficaci, donde il successo della mobilita-zione antigiolittiana nella piazze e in parlamento. Però i negoziatoridei trattati, il radicale catanese Edoardo Pantano e il napoletano Mira-glia, riuscirono a guadagnare importanti e stabili spazi di mercatonell’Europa centrale per gli agrumicultori siciliani e gli orticultoricampani. Questi interessi settoriali e regionali ottennero così soddisfa-zione; e al di fuori della Puglia la più aspra polemica liberista ebbeun’eco limitata, come dimostra il rifiuto della Camera di commerciodi Napoli di seguire quella di Bari su questa strada13.

Va poi sottolineata la forza delle lobby protezionistiche meridiona-li. C’è innanzitutto il vastissimo schieramento favorevole al dazio sulgrano, formatosi nel 1887 a rimorchio della proprietà fondiaria setten-trionale ma poi consolidatosi non solo – come si dice – attorno agli in-teressi degli «assenteisti», ma anche a quelli dei settori più dinamicidell’agraria ben rappresentati da Salandra; e comprendente personaggicome Colajanni, prestigioso intellettuale «meridionalista», deputato

cura di G. De Rosa, Laterza, Bari 1979, p. 65.12 Discorso del 1° dicembre 1903 in G. Giolitti, Discorsi parlamentari, Roma 1953, II, p.

759. Ma sull’efficacia di questa linea nel favorire le esportazioni agricole cfr. F. Coppa, TheItalian tariff and the conflict between agricolture and industry. The commercial policy of Li-beral Italy, in «The Journal of economic history», December 1970, IV, pp. 742-69.

13 Su questi temi rinvio a F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mez-zogiorno (1900-1914), Guida, Napoli 1976, pp. 89-170. Si veda anche F. De Felice, L’agricol-tura in terra di Bari, Milano 1971.

14 Si veda il mio I proprietari terrieri del Mezzogiorno, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia

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radical-democratico della Sicilia interna, convertito dal liberismo alprotezionismo perché convintosi che nel breve periodo il dazio sial’unico strumento per evitare la rovina delle figure intermedie dell’agri-coltura meridionale14. Ci sono poi le richieste di protezione doganaledell’agricoltura montana per le sue produzioni di cavalli e legname. Lastessa viticoltura finisce per guardare al mercato nazionale reclamandoanch’essa la tutela dalla concorrenza estera. Nel 1905 De Viti De Mar-co, con molti altri meridionalisti e tutta la deputazione pugliese, sischiera sulle posizioni del protezionismo più rigido quando il modusvivendi concluso dal governo Fortis con la Spagna minaccia il mono-polio del mercato interno detenuto dai viticultori italiani con una pos-sibile importazione di vini iberici; ciò che può essere considerato unariprova della debolezza del progetto liberista, la cui razionalità totaliz-zante finisce con lo sgretolarsi all’impatto con una realtà assolutamen-te variegata.

Esiste infine un pur limitato Mezzogiorno industriale che cerca difarsi valere, nella Taranto dell’arsenale militare e dei cantieri navali,nella Palermo dei Florio con la loro flotta sovvenzionata dallo Stato,proponendo altri interessi per i quali il mondo politico locale si mobi-lita plebiscitariamente, da destra a sinistra, e che vanno cucinati nelcalderone giolittiano. La politica delle leggi speciali – come si è detto –tende a rafforzare questo modello di contrattazione centro-periferia.

Questa frantumazione di interessi regionali e settoriali (moltospesso identificati gli uni con gli altri) spiega – molto meglio della cor-ruzione esercitata del «ministro della malavita» – il perché, nel concre-to della storia politica del Sud, le battaglie pugliesi dei De Viti DeMarco e dei Salvemini abbiano un impatto assai più ridotto di quantopotrebbe sembrare stando alla nostra tradizione canonica. Esse nonesauriscono né la questione meridionale né la storia del Mezzogiorno.Salvadori e Rosario Villari, ma certo non solo loro, danno grandissi-mo spazio alla catastrofe del 1887. Il lettore distratto potrebbe non sa-pere mai che ci sarà una successiva, ancor più grande ripresa delleesportazioni meridionali, nel quadro di un’Europa cosiddetta prote-zionista che grazie ai trattati di commercio vede crescere, fino allaguerra mondiale, il flusso dei suoi traffici internazionali. Dunque, perragioni politiche ma anche solo per ragioni economiche (l’Italia è unpaese trasformatore che ha bisogno di esportare per sostenere la bilan-cia dei pagamenti) non tutti gli interessi esportatori vengono puniti da

dell’agricoltura italiana in età contemporanea, II, Marsilio, Venezia 1990, pp. 105-49.15 Il punto culminante di questo ragionamento viene raggiunto in N. Colajanni, Il pro-

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Giolitti, e non tutti gli interessi del Sud, come ho cercato di mostrare,si identificano con quelli degli esportatori.

È poi certo che l’abolizione del protezionismo, danneggiando ilSettentrione, favorirebbe il Meridione? A porsi il problema, specularea quello «nazionale» dei liberisti, è un altro intellettuale catalogato co-me meridionalista, Colajanni, il quale pure dà una soluzione opposta aquella di Salvemini e De Viti De Marco. Non solo il dazio sul grano,ma anche la protezione dell’industria giova a suo parere al Sud, perchéaumentando le capacità di consumo del Settentrione e creando un ine-dito mercato interno rende possibile il salvataggio dell’agricoltura me-ridionale sconvolta dalla crisi agraria degli anni ottanta-novanta. Siamodavanti al primo intellettuale del Sud (a uno dei primi intellettuali ita-liani) che si rende conto dell’enorme progresso economico dell’età gio-littiana, tra l’altro elaborando indicatori empirici della ricchezza in gra-do di confutare i discorsi – generalmente teorici e deduttivi – dellascienza economica del tempo15. E non dimentichiamo Nitti, che guardaal problema del latifondo non come effetto del dazio sul grano, ma –secondo la lezione fortunatiana – come a una forma antica e razionaledi utilizzazione del suolo in ambiente arido e geologicamente dissesta-to; e che per questo – contro Fortunato e i liberisti – chiede leggi, stan-ziamenti e strumenti nuovi, pensati particolarmente per il Mezzogior-no, per la riforestazione e la ristrutturazione territoriale. Ma Nitti so-prattutto considera scientificamente erroneo e politicamente disastrosol’assioma liberista secondo il quale il Mezzogiorno deve specializzarsinelle sue «industrie naturali», cioè nei prodotti dell’agricoltura specia-lizzata, e punta sull’industrializzazione e sullo sviluppo dell’energiaidroelettrica, il carbone bianco. Essendo mossa da ispirazione antilibe-rista, la sua idea delle leggi speciali incontra il totale sfavore di De Vitide Marco e Salvemini, che la giudicano tipica della corruttrice «politi-ca dei favori» con cui i governi giolittiani cercano di impedire il sal-darsi del fronte esportatore.

Molti intellettuali e politici si muovono dunque in questi anni indifesa del Mezzogiorno, e sono forse in tal senso definibili meridiona-listi, anche se (per quanto posso capire) non definiscono così se stessi.Però io credo pur sempre che non si possa parlare del meridionalismocome unica corrente ideale, come dimostra il fatto che le soluzioni in-dicate dai cosiddetti meridionalisti sono straordinariamente diverse ein molti casi opposte tra loro, sia dal punto di vista politico-istituzio-

gresso economico, Roma 1913.1 Cfr. la vivacissima cronaca salveminiana, in Il ministro della malavita cit., pp. 73 sgg., e

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nale (abbiamo centralisti, decentralisti, federalisti; reazionari e demo-cratici, colonialisti e pacifisti), sia su quello delle politiche economi-che. Si perde la compattezza che era stata del gruppo della «Rassegnasettimanale», perché la nuova stagione della questione meridionale ri-flette anche la domanda politica del Mezzogiorno e questo – in barbaad ogni retorica – non ha un unico interesse. Il liberista De Viti DeMarco e il protezionista Colajanni si scontrano con dovizia di recipro-ci insulti, e non penserebbero mai che qualcuno li possa collocare inuno stesso movimento. Dunque, all’inizio del secolo ci sono almenotre discorsi «per il Mezzogiorno», tra loro diversi e talora inconciliabi-li: il primo sonniniano e salandrino; il secondo filo-giolittiano e statali-sta di Nitti e Colajanni; il terzo liberista alla Salvemini e alla De VitiDe Marco, destinato a sfociare nell’esperienza de «L’Unità». Quest’ul-timo è il più radicale e il più ambizioso, pretendendo di rappresentareun’alternativa globale, l’altro Mezzogiorno o meglio l’altra Italia vili-pesa dal protezionismo. Alla fine, il suo peso sarà più nazionale che re-gionale.

5. Gramsci vs. Salvemini.

L’elenco dei misfatti attribuiti a Giolitti da Salvemini ha segnatonel profondo la nostra immagine della vita politica di inizio Novecen-to, consegnandoci un Mezzogiorno del tutto escluso da ogni sia purgraduale processo di allargamento della democrazia di quel tempo.Qui il «ministro della malavita» avrebbe concluso un accordo con leclassi dirigenti più retrive, scambiando il consenso elettorale con la piùbrutale repressione del movimento contadino, e cementando il pattocon ogni genere di prepotenza governativa per intimidire gli elettori.

In realtà Giolitti, dov’era possibile, appoggiava anche i radical-so-cialisti come faceva nel Nord: basterebbe pensare al caso del sindacodi Catania, Giuseppe De Felice Giuffrida, grande leader socialriformi-sta. Lo stesso De Viti De Marco venne eletto due volte, senza contra-sto da parte dei prefetti. In genere l’ingerenza governativa andava a in-fluire su complesse situazioni di lotta politica locale, dove il vigente si-stema uninominale accentuava i tratti localistici. Vito De Bellis, il de-putato di Gioia del Colle violentemente attaccato da Salvemini cometipico ascaro giolittiano, era ad esempio appoggiato nelle elezioni del1903 da un composito schieramento cittadino comprendente il locale«Circolo operaio», mentre il «Circolo agrario», rappresentante la me-

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dia borghesia rurale dei massari, preferiva il marchese De Luca Resta,«latifondista milionario» non originario del luogo né in esso residente;infine la lega contadina socialista, dopo aver scelto inizialmente lastrada dell’intransigenza, finì per optare per il marchese, forse perchéil suo capo era stato corrotto. Violenze e brogli diedero la vittoria aDe Bellis1, però è arduo trovare qui una linea netta di divisione traprogresso e reazione, e soprattutto un criterio per giudicare De Bellispeggiore dei suoi avversari. Soprattutto è difficile capire cosa tuttoquesto abbia a che fare col concetto di ascaro giolittiano, termine di perse stesso evocativo delle complicità degli indigeni col colonialismo – senon appunto facendo ricorso all’idea del mercato coloniale propagan-data dai liberisti, che abbiamo visto quanto sia problematica. Salveminisapeva che Giolitti godeva di un consenso, epperò riteneva che questofosse drogato dalla corruzione e dalla violenza: «Il governo centrale –affermava – non fa se non approfittare dei mali nostri per opprimerci ecorromperci di più»2. Invocando l’ingresso in campo delle masse con-tadine, egli non si appellava tanto alla forza risolutiva del conflitto diclasse, ché anzi non nutriva se non preoccupazioni per uno scontro tracontadini e proprietari (a suo dire) quasi altrettanto straccioni. Il suoobiettivo consisteva nell’allargamento della competizione politica, dacui si aspettava l’eversione delle camarille, delle camorre, cioè dei parti-ti locali e del meccanismo necessariamente ristretto del clientelismo.Siamo sul terreno che davvero pone in comunicazione le varie stagionidella questione meridionale, il democratico Salvemini con il nazionali-sta Franchetti, identificabile nel disprezzo per quel tanto di opinionepubblica che esisteva nel Sud del suffragio allargato, e dunque verso lapiccola borghesia, classe di spostati, di intellettuali poveri («avvocatisenza clienti»), di instancabili aspiranti agli impieghi pubblici. È peral-tro notevole il fatto che nemmeno il socialismo meridionale (al pari diquello settentrionale) godesse della simpatia di Salvemini, che neppurenei ceti artigiani e popolari urbani egli riponesse particolare fiducia.Solo egli attendeva l’evento epocale e traumatico, il suffragio universa-le, che tutto avrebbe travolto.

Concesso da Giolitti il suffragio universale maschile nel 1912, nonsi verificò il supposto rivolgimento. Anche nelle elezioni postbellichedel 1919 e del 1921 (con il sistema proporzionale) il Sud si trovò allacoda del rinnovamento, seppure i suoi grandi movimenti contadini fe-

l’equilibrata rivisitazione fattane da F. Grassi, Il sistema politico giolittiano in Puglia, in L.Masella-B. Salvemini (a cura di), La Puglia, Einaudi, Torino 1989, pp. 693 sgg., 716 sgg.

2 Salvemini, Elezioni meridionali (1904), in Id., Il ministro della malavita cit., p. 56.3 Salvemini, Riepilogo (1955), in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., p.

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cero da pendant alla mobilitazione del biennio rosso al Nord: ci fu ilgrande successo dei socialisti pugliesi (tutt’altro che liberisti e salvemi-niani), e soprattutto quello dei combattenti che nella stessa Puglia, inSardegna e – con molte contraddizioni – in altre regioni del Mezzogior-no sembrarono impersonare il tipo di rinnovamento previsto da De Vi-ti De Marco e Salvemini. Quest’ultimo, peraltro, dopo essere stato por-tato al parlamento da questo movimento, se ne tirò presto fuori. In se-guito avrebbe lamentato di essere caduto in quell’occasione nelle grinfiedi «quella piccola borghesia intellettuale meridionale», da lui «sempredisprezzata»3. Credo sia lecito concludere che il radicalismo del grandeintellettuale di Molfetta, pur così affascinante e a tratti geniale, si risol-veva regolarmente nella demonizzazione di tutto quanto si muovevanella politica e nella società meridionale reale. Un suo allievo, GuidoDorso, scriveva intanto un libro per dimostrare che nel dopoguerrac’era una rivoluzione meridionale «in marcia» contro l’Italia della con-quista regia risorgimentale, del protezionismo, del giolittismo. Però, almomento di indicarne i protagonisti, Dorso finiva per scartare i com-battenti (pure per lui infetti dalla lue piccolo-borghese) ed anche, macon dispiacere, i fascisti radicali alla Aurelio Padovani, vittime della«vendetta» dei fiancheggiatori, dell’eterno giolittismo4. Alla fine, non glisarebbe restato che invocare cento fantomatici «uomini d’acciaio» chefacessero giustizia.

Fu questo, come si diceva all’inizio, il contesto in cui il termine me-ridionalismo si propose. E fu questo anche il contesto in cui esso venneusato da Gramsci nello scritto del 1926, una sorta di recensione a Dor-so, destinato a divenire celeberrimo in età repubblicana. È bene ribadiresubito, peraltro, che il meridionalismo secondo Gramsci non corri-sponde a quello dei gramsciani. Esso non comprendeva né Turiello, néPasquale Villari, né Sonnino e gli altri della «Rassegna settimanale», cheGramsci nei Quaderni (richiamandosi a Croce!) avrebbe consideratoparte del filone antiparlamentare originatosi dalla caduta della Destrastorica5; né – come si è detto – i grandi intellettuali «reazionari» e «pani-

683.4 Dorso, La rivoluzione meridionale cit., pp. 80 sgg. e 126 sgg. Ma sul tema del fascismo

meridionale rimando al mio Moderati e radicali nel partito fascista, in «Storica», 9, 1997, pp.91-132.

5 Mettendoli insieme a Gaetano Mosca e ad altri scrittori reazionari: Gramsci, Quadernidal carcere vol. cit., pp. 1975-6. In Alcuni temi cit., p. 154, invece, Gramsci definisce Franchet-ti e Sonnino «borghesi intelligenti» che si erano posti «il problema meridionale come proble-ma nazionale» anche per una «grottesca» paura dell’anarchismo e del comunismo; pure qui èinteressante la distonia tra la nota dei curatori – per i quali i due sono «i maggiori rappresen-tanti del riformismo liberale postunitario» – e il testo gramsciano che li dice (p. 153) espres-

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taliani» del Sud (Fortunato e Croce). Abbiamo già visto anche come ilgiovane leader comunista sardo chiamasse meridionalisti gli antropologipositivisti. Ma soprattutto egli riferiva il termine a quanti più di recentesi erano nutriti della critica di Salvemini al riformismo filogiolittiano delPsi: parlava di un «neoliberalismo antigiolittiano e meridionalista» alcentro del quale stava il sindacalismo rivoluzionario, da lui definito «de-bole tentativo dei contadini meridionali, rappresentati dai loro intellet-tuali più avanzati, di dirigere il proletariato». Tale «coorte di sindacalistie di meridionalisti» tra il 1911 e il 1914 si era raccolta intorno a Mussoli-ni, venendo clamorosamente alla ribalta con la rivolta della «settimanarossa» (1914)6.

Queste considerazioni ci fanno comprendere perché Gramsci nonpensasse minimamente a definire meridionalista se stesso – per quantopropenso potesse sentirsi a simpatizzare per un Mezzogiorno visto so-stanzialmente nei termini salveminiani. Egli riteneva infatti che l’assemeridionalista – da Salvemini a Mussolini attraverso il sindacalismo ri-voluzionario – rappresentasse un momento importante della sconfittadella rivoluzione. In questo senso va intesa la sua battuta: «Molte dellepallottole che le guardie regie scaricarono nel ’19, ’20, ’21 e ’22 controgli operai erano fuse nello stesso piombo che servì a stampare gli articolidi Salvemini». È vero naturalmente, come più tardi avrebbe obiettato lostesso Salvemini tra stupito e addolorato, che i contadini meridionali ole guardie regie non leggevano quegli articoli (né altro)7; ma la notazionegramsciana acquista il suo peso se pensiamo non ai contadini, né tanto auna generica opinione pubblica meridionale, quanto agli intellettualimeridionali e settentrionali che vituperavano Giolitti e il «corporativi-smo» socialista orientandosi contro il proletariato.

La conclusione era destinata a divenire canonica: il movimento co-munista doveva dimostrare che gli operai non erano i complici del pro-tezionismo giolittiano, i «porci allevati colla biada governativa»8, ma ri-voluzionari in grado di ritrovare il concetto di interesse generale, com-prendere gli interessi dei contadini e guidarli sulla strada del comunismo.

In certi punti, questo ragionamento di Gramsci può sembrare terri-bilmente forzato. La «settimana rossa» non si svolse nel Sud ma nelleMarche e in Romagna, cioè nell’Italia centrale. La presenza meridionale

sione di «gruppi politici agrari conservatori» toscani.6 Gramsci, Alcuni temi cit., pp. 144-5.7 Citazione di Gramsci da Alcuni temi cit., p. 137; la risposta fu data da Salvemini nel se-

condo dopoguerra, quando poté conoscere lo scritto gramsciano: Salvemini, Riepilogo cit.,pp. 677-9.

8 Gramsci, Alcuni temi cit., p. 149 e passim.9 Un accenno in tal senso in Gramsci, Quaderni cit., p. 2039.

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nel fronte interventista fu modesta e insomma la crisi del giolittismonon venne certo da Sud. Solo con notevole sforzo si possono erigere isindacalisti, in quanto meridionali, a rappresentanti del mondo rurale. ILabriola e i Leone erano intellettuali napoletani che probabilmente maiavevano visto un contadino nella loro vita, che avevano fatto i loro esor-di nella lotta alle «camorre cittadine» e poi si erano trasferiti al Nord co-me giornalisti e rivoluzionari di professione. Michele Bianchi era unborghese partito molto giovane dalla Calabria per studiare all’Univer-sità di Roma; la sua pratica di mondo rurale era relativa all’Emilia, vistoche egli era stato a lungo alla testa della Camera del lavoro ferrarese.Non tutti gli studiosi e gli agitatori della questione meridionale – comedetto – erano liberisti, non tutti gli antigiolittiani si definivano sui pro-blemi del Mezzogiorno, non lo facevano né Mussolini né la gran partedei nazionalisti. Qui evidentemente la questione meridionale si pone,come già negli anni settanta del secolo precedente, quale potente me-tafora sullo stato della nazione. Essa poco ha a che vedere con il Mezzo-giorno in quanto tale, e piuttosto definisce l’identikit di una generazio-ne di intellettuali e politici italiani che aveva assunto a propria bandierail liberismo e la rivolta morale contro il giolittismo, che aveva individua-to nella (presunta) contraddizione meridionale il punto debole di unapolitica basata sui «favori» agli industriali e agli operai del Nord, sullaprotezione industriale e sulla detestata (per quanto poverissima, ai no-stri occhi) legislazione sociale: una generazione che era la stessa diGramsci, che stava giungendo al fascismo, e dalla cui logica bisognavauscire senza però ignorare la forza dell’argomento meridionalista.

Da questo punto di vista il testo del 1926 va letto come il primopasso dell’autocritica che sarà svolta nei Quaderni dal carcere. Ma nellagramsciana Questione meridionale, in questo testo così breve, affasci-nante e incompleto, c’è anche, accanto al meridionalismo, il Mezzo-giorno reale, quello che non ha fatto la prevista rivoluzione del suffra-gio universale, quello che non esprime né cento né mille uomini d’ac-ciaio. Gramsci passa a ragionare in termini di egemonia e a rifletteresugli elementi collanti che al Sud tengono ben stabile il sistema, indivi-duabili in un «blocco agrario» che lega grandi proprietari e contadinigrazie alla mediazione degli intellettuali, termine corrispondente nelsuo linguaggio alla piccola borghesia vituperata da Salvemini e Dorso.Evidentemente solo lo spostamento di questo gruppo sociale (o di unasua parte) potrà mutare i termini del problema9 – ma per realizzare pri-

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ma o poi questo fine bisogna intanto passare dal vituperio all’analisi.Finalmente troviamo una riflessione sui diversi modelli regionali, unaserie brillante di notazioni e distinzioni sulle differenze sociali e politi-che tra la parte peninsulare, la Sicilia e la Sardegna. Certo, si descrivequi, coerentemente allo schema meridionalista, un Mezzogiorno cheentra a far parte del sistema politico italiano più che altro attraverso ilpactum sceleris dei gruppi privilegiati: è il «blocco agrario-industriale»su cui insisterà la storiografia gramsciana. Ma con altrettanta sicurezzapossiamo affermare che Gramsci, quando cita Croce e Fortunato comegrandi ispiratori del «blocco agrario», non pensa soltanto a un sistemadi corruzione generalizzata, a un meccanismo di dominio neofeudale –anche se è così che il concetto verrà recepito –. Pensa a un sistema dipotere articolato, ricco di mediazioni, di idee, di storia.

6. Conclusione.

Il meridionalismo si propone come movimento di idee, di progettie di pratica politica, come istituzione e burocrazia, solo in età repub-blicana: inserito in questo campo di forze, il Mezzogiorno diviene unoggetto omogeneo, quand’anche non lo sia stato in precedenza. Eppu-re, neppure ora possiamo adottare una lettura sino in fondo unitaria.Meridionaliste sono le politiche dell’intervento straordinario e dellariforma agraria, sostenute da una grande mobilitazione intellettualeche vede protagonisti i tecnocrati della Svimez, gli intellettuali cattolicie quelli terza-forzisti di «Nord e Sud». Meridionaliste sono le classipolitiche che nelle regioni meridionali richiedono questo e altri inter-venti pubblici per sostenere i processi di sviluppo (infrastrutturale,agricolo, industriale), anche al fine di massimizzare la loro rendita dimediazione tra Stato e società locale: ormai la questione meridionale –persino nelle sue versioni più enfatiche e vittimistiche – rappresenta illinguaggio, direi la retorica che consente alla politica del Sud di parlarealla nazione e di mantenersi in collegamento con essa. Meridionalista èla ricerca, da parte della cultura di sinistra (comunista e non), di unpassato nobile, di un tradizione «alta» di opposizione, riformista e cri-tica, da contrapporre un po’ artificiosamente al vituperato liberalismo;ricerca che viene portata avanti da intellettuali che vogliono accredita-re la loro nuova ideologia riformatrice senza necessariamente appiat-tirla sul riformismo socialista di inizio secolo, con i suoi difetti di cor-porativismo ed esclusivismo regionale. Meridionalista è lo sforzo delgruppo gramsciano di sottrarre la questione meridionale a una pro-

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spettiva «economicistica» e dunque all’ambito esclusivo della Svimez,della Cassa per il Mezzogiorno, degli Enti di riforma agraria, delle tec-nocrazie e dei concreti interventi da cui il Pci è escluso. Meridionalistaè il movimento contadino, meridionalista è il tentativo della Dc e dellostesso Pci di dare per la prima volta nella storia d’Italia una rappresen-tanza politica unitaria al Nord e al Sud nei partiti «di massa», uscendodall’alternativa tra ribellismo, moderatismo trasformista e localismointerclassista in cui rischia di impantanarsi il Mezzogiorno nel corsodella prima età repubblicana.

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