Barbagallo Mezzogiorno e Questione Meridionale

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Francesco Barbagallo MEZZOGIORNO e QUESTIONE MERIDIONALE ( 1860/ 1980). GUIDA EDITORI. INDICE. 1. La società meridionale prima dell'unità. ' Pag. 6 2. I contraccolpi dell'unificazione. ' 9 a) La struttura economica. ' 9 b) Problemi politici e sociali: il brigantaggio. " 12 c) L'ex-capitale. " 14 ' 3. Nascita del meridionalismo. " 16 a) I modelli egemonici di Villari. " 16 b) Le analisi strutturali di Franchetti e Sonni- no. 18 c) Il radicale realismo di Fortunato. " 21 4. Il Mezzogiorno tra crisi agraria e svolta pro- tezionista. 25 5. Il meridionalismo di fine secolo. " 30 a) La polemica antirazzista di Colajanni e i Fasci siciliani. " 30 b) Il liberismo di de Viti de Marco. " 34 .;c) L'industrialismo di Nitti. " 36 d) Il marxismo economicista di Ciccotti. " 39 e) Salvemini tra socialismo e democrazia. " 40 6. Il Sud tra disgregazione e trasformazione." 43 ' 7. Leggi speciali, guerra e dopoguerra. " 52 8. I nuovi programmi di Sturzo, Dorso, Gramsci. " p 55 9. Cenni sulla società meridionale durante il fascismo. " 63 10. La guerra, la repubblica, le lotte sociali. " 67 11. Le nuove strategie meridionaliste : le campa- gne di Rossi Doria e di Sereni, la SVIMEZ di Morandi e di Saraceno. 72. 12. La politica dell'intervento straordinario: la Cassa per il Mezzogiorno. 78. 13. Le riviste meridionaliste: "Cronache meridio- nali, "Nord e Sud'. 82. 14. La formazione di un nuovo blocco urbano. ' 84. 15. Trasformazioni sociali e permanente divario. " 87. a) Gli uomini e il lavoro.87. b) Gli squilibri e il ritardo. 92. c) La politica speciale come sistema di potere. " 95. Bibliografia 101. Sono passati 120 anni dall'unificazione italiana. Il paese si è trasformato radicalmente. Anche il Mezzogiorno è profon- damente cambiato, non solo rispetto a un secolo fa, ma a un ventennio, a un decennio addietro. Eppure si continua a parlare del Mezzogiorno come di un'area complessivamente arretrata, sottosviluppata, dipendente all'interno dell'unita- rio modello di sviluppo capitalistico messo in moto, appun- to, oltre un secolo fa. Da sempre e ripetutamente negata, superata, accantonata la questione meridionale risorge periodicamente dalle cene- ri, come araba fenice, e si ripropone al centro o ai margini del dibattito nazionale, a seconda dei momenti; ma sem- pre presente, sempre irrisolta, sempre sostanzialmente inne- gabile pur nelle forme diverse, mutate, anche rinnovate. E' un fatto che, ad oltre un secolo dall'unità, il termine Mezzogiorno conservi un preciso significato politico e so-

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Francesco Barbagallo MEZZOGIORNO e QUESTIONE MERIDIONALE ( 1860/ 1980). GUIDA EDITORI. INDICE. 1. La società meridionale prima dell'unità. ' Pag. 6 2. I contraccolpi dell'unificazione. ' 9 a) La struttura economica. ' 9 b) Problemi politici e sociali: il brigantaggio. " 12 c) L'ex-capitale. " 14 ' 3. Nascita del meridionalismo. " 16 a) I modelli egemonici di Villari. " 16 b) Le analisi strutturali di Franchetti e Sonni- no. 18 c) Il radicale realismo di Fortunato. " 21 4. Il Mezzogiorno tra crisi agraria e svolta pro- tezionista. 25 5. Il meridionalismo di fine secolo. " 30 a) La polemica antirazzista di Colajanni e i Fasci siciliani. " 30 b) Il liberismo di de Viti de Marco. " 34 .;c) L'industrialismo di Nitti. " 36 d) Il marxismo economicista di Ciccotti. " 39 e) Salvemini tra socialismo e democrazia. " 40 6. Il Sud tra disgregazione e trasformazione." 43 ' 7. Leggi speciali, guerra e dopoguerra. " 52 8. I nuovi programmi di Sturzo, Dorso, Gramsci. " p 55 9. Cenni sulla società meridionale durante il fascismo. " 63 10. La guerra, la repubblica, le lotte sociali. " 6 7 11. Le nuove strategie meridionaliste : le campa- gne di Rossi Doria e di Sereni, la SVIMEZ di Morandi e di Saraceno. 72. 12. La politica dell'intervento straordinario: la Cassa per il Mezzogiorno. 78. 13. Le riviste meridionaliste: "Cronache meridio- nali, "Nord e Sud'. 82. 14. La formazione di un nuovo blocco urbano. ' 84. 15. Trasformazioni sociali e permanente divario. " 87. a) Gli uomini e il lavoro.87. b) Gli squilibri e il ritardo. 92. c) La politica speciale come sistema di potere. " 9 5. Bibliografia 101. Sono passati 120 anni dall'unificazione italiana. I l paese si è trasformato radicalmente. Anche il Mezzogiorno è pr ofon- damente cambiato, non solo rispetto a un secolo fa, ma a un ventennio, a un decennio addietro. Eppure si con tinua a parlare del Mezzogiorno come di un'area complessiva mente arretrata, sottosviluppata, dipendente all'interno dell'unita- rio modello di sviluppo capitalistico messo in moto , appun- to, oltre un secolo fa. Da sempre e ripetutamente negata, superata, accanto nata la questione meridionale risorge periodicamente dal le cene- ri, come araba fenice, e si ripropone al centro o a i margini del dibattito nazionale, a seconda dei momenti; ma sem- pre presente, sempre irrisolta, sempre sostanzialme nte inne- gabile pur nelle forme diverse, mutate, anche rinno vate. E' un fatto che, ad oltre un secolo dall'unità, il termine Mezzogiorno conservi un preciso significato politic o e so-

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ciale, pur nella sempre più accentuata diversificaz ione delle sue interne realtà che, trasformandosi e rinnovando si, non sono però ancora riuscite a far considerare come fi nalmen- te superata la considerazione unitaria della vasta area meri- dionale dei paese. E cosi il Mezzogiorno d'Italia a ppare an- cora definito da caratteri strutturali più arretrat i, da un più lento ritmo di sviluppo, da una complessiva condizi one di dipendenza rispetto al processo nazionale di svilup po capi- talistico, che presenta sempre le sue strutture tra inanti in zone, pure in trasformazione, dell'area centro-sett entrionale del paese. Il Mezzogiorno continua ad essere un termine che va ben oltre la determinazione geografica per caratterizza rsi come complesso fatto problematico, come questione dalle mute- voli,caratteristiche ma dalla lunga permanenza. Una co- stante basilare dello sviluppo storico italiano, un carattere fondamentale nella storia dell'Italia unita, un asp etto essenziale del particolare tipo di processo economi co, socia- le e politico finora realizzato nel nostro paese. La storia della questione meridionale è la storia d el Mez- zogiorno nello Stato italiano e della riflessione s ul particola- re tipo di rapporto realizzatosi tra il Mezzogiorno e lo Sta- to, tra diverse strutture economiche e ceti sociali . La que- stione meridionale nasce quindi al momento dell'uni tà, co- me problema del Mezzogiorno all'interno dello Stato italia- no, come forma particolare dell'espansione meridion ale rap- portata al modello unitario di sviluppo capitalisti co messo in moto nei decenni successivi al 1860. *1. La società meridionale prima dell'unità. Ma qual era la condizione economica, sociale, polit ica del Sud negli anni precedenti l'unità? Va subito de tto che il divario con le aree più avanzate del Nord era già n otevole. La pianura padana, ad esempio, era già caratterizza ta, da ol- tre due secoli, da un paesaggio agrario pienamente capitali- stico: quindi pieno di miseria contadina ma anche r icco di colture intensive, elevate produzioni, avanzate tec nologie. É questa moderna agricoltura capitalistica dava il segno a tutta la società circostante, definendone gli eleva ti livelli, per l'epoca, di sviluppo civile; a cominciare dalla diffusa istruzione di base. La società meridionale invece, lungi dall'aver imbo ccato la strada dello sviluppo capitalistico, appariva an cora im- mersa nella fase intermedia del passaggio dal feuda lesimo al capitalismo. E' vero che la feudalità era stata abo lita al prin- cipio dell'Ottocento, nel decennio francese. E l'el iminazio- ne dei poteri giuridizionali dell'aristocrazia, con la liberaliz- zazione della compravendita delle terre, aveva favo rito il trasferimento di numerosi appezzamenti fondiari dal la no- biltà e dalla proprietà ecclesiastica ad una nuova classe di borghesia terriera. Ma questi proprietari borghesi del Sud apparivano m eglio disposti ad imitare i comportamenti della nobiltà c he ad as- sumere le moderne funzioni degli imprenditori capit alistici; in questo pienamente assecondati e stimolati dalla monar- chia borbonica, che puntò fino all'ultimo sul mante nimento di una società agricola di tipo patriarcale e tradi zionalista, timorosa dei miglioramenti produttivi come delle in novazio- ni tecniche. L'incremento della produzione agricola meridionale nella prima metà dell'Ottocento si realizzava così attrav erso la so-

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la estensione delle colture e non attraverso la dif fusione del- l'investimento di capitali nella terra. Si restava così al di qua di una forma moderna di organizzazione capitalistic a della produzione agricola e dei rapporti sociali nelle ca mpagne. Molto di rado, quindi, i proprietari terrieri si tr asformavano in imprenditori capitalistici, puntando all'intensi ficazione delle colture, all'introduzione di rotazioni più ra zionali, all'ammodernamento delle tecniche agrarie. L'econom ia tra- dizionale del latifondo cerealicolo-pastorale domin ava larga- mente la scena. Durissime, a livello bestiale, rima nevano le condizioni di vita delle masse contadine, che in ce rte pro- vince superano il 90 % della popolazione, e che ved evano addirittura peggiorare la loro situazione per l'abo lizione dei diritti feudali (gli usi civici di semina, di pasco lo, di legnati- co). Non meno duri per i contadini erano i contratti agr ari, che si configuravano come semplici modificazioni fo rmali dei tradizionali rapporti feudali. La scarsa propen sione della borghesia fondiaria meridionale ad investire capitali

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nella terra si rovesciava nella diffusa attitudine a ricavare la semplice rendita dai latifondi come dai minori a ppezza- menti, ad usurpare le terre demaniali servendosi de l control- lo delle amministrazioni locali e ad esercitare lar gamente l'usura. "Nelle relazioni tra il contadino e il proprietario - scri- verà Sidney Son nell'inchiesta sulla Sicilia del 1 876 - molto è rimasto ancora dei contenuti feudali. Quell a che era stata fino allora potenza legale, rimase come p otenza ò prepotenza di fatto, e il contadino dichiarato ci ttadino dalla legge, rimase servo ed oppresso. Il latifondi sta restò sempre barone, e non soltanto di nome: e nel sentim en- to generale la posizione generale del proprietario di fronte al contadino, restò quella di feudatario di fronte a vassallo. Vi è poi la classe della borghesia, non molto numer osa, e là come dappertutto avida di guadagno e imitatrice della classe aristocratica soltanto nelle sue stolte vani tà e nella sua mania di prepotenza." Il paesaggio agrario del Mezzogiorno borbonico appa riva quindi ben lontano dai livelli di moderno sviluppo capitali- stico già acquisiti nelle aziende della pianura irr igua lom- barda e nei terreni piemontesi solcati dalle opere di canaliz- zazione realizzate dalla trasformatrice direzione p olitica cavouriana. E, nell'Ottocento, i caratteri fondamen tali di una società sono ancora pienamente segnati dai live lli conseguiti da quella ch'è l'attività di gran lunga preminente, l'agricoltura. Questo era vero in generale, con l'e ccezione dell'Inghilterra, e tanto più in una società come q uella me- ridionale, sempre dominata dal problema della terra , della proprietà fondiaria, dei rapporti sociali nelle cam pagne. La struttura dell'economia meridionale era quindi l ar- gaménte precapitalistica. E non potevano incidere s u questo quadro precisamente definito i pur considerevoli in sedia- menti che il diretto intervento statale e il capita le straniero svizzero-tedesco avevano impiantato soprattutto in Campa- nia. I cantieri metalmeccanici del Napoletano e le aziende tessili del Casertano e del Salernitano f'ortemente protetti dagli alti dazi doganali - costituivano degli impia nti isolati in una società arretrata e stagnante, segnata dall' analfabe- tismo della quasi totalità della popolazione. Poche fabbriche, pur moderne ed efficienti, non sig ni- ficavano sviluppo industriale e non bastavano da so le a prepararlo. Cosi i dieci chilometri della prima fer rovia ita- liana consentivano al re Borbone di raggiungere più celer- mente la reggia di Portici, ma rimasero i soli atti vati nel re- gno; mentre gli altri stati italiani ebbero presto una rete ferroviaria ben più consistente. Con gli stessi criteri lo stato borbonico si era pr eoccupa- to del sistema delle comunicazioni. Sicché le unich e strade collegavano la capitale alle residenze e ai luoghi di caccia reali: Portici, Caserta, Venafro, l'ersano. I centr i urbani del Mezzogiorno erano praticamente isolati; le campagne prive di strade; solo i tratturi dalle Puglie agli Abruzz i consentiva- no il passaggio stagionale delle pecore. Isolato, per scelta politica della dinastia, "tra l 'acqua santa e l'acqua salata" (lo stato pontificio e il m are), il re- gno borbonico viveva lontano dalle correnti di traf fico e di moviménto internazionale. Lo scarso impegno della d inastia in qualsiasi genere di spesa statale, oltre quelle amministra- tive, militari e rappresentative consentiva di tene re basso il

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livello dell'imposizione fiscale. Per cui la forte quantità di denaro improduttivamente accumulato e le felici con dizio- ni metereologiche dei centri costieri avevano contr ibuito a diffondere la leggenda di un Mezzogiorno favorito d alla na- tura, fertile e ferace, che attendeva soltanto un r egime più liberale per dar libero corso a queste sue naturali virtù. *2. I contraccolpi dell'unificazione. a) La struttura economica. L'unificazione nazionale, invece, lungi dal risolve re auto- maticamente i gravi problemi del Sud, li pose dramm atica-

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mente in piena luce. "Lo sviluppo capitalistico, - scriverà Emilio Sereni - unificando il mercato nazionale, tr asforma in un contrasto quella che era una semplice dispari tà, una differenza nel grado di sviluppo tra Nord e Sud... I residui feudali nell'economia dell'Italia centrale e meridi onale, in particolare, ostacoleranno assai gravemente in ques te regio- ni la separazione dell'agricoltura dall'industria, lo sviluppo mercantile e capitalistico dell'agricoltura, la for mazione del mercato interno per la grande industria; daranno a tutta l'economia la loro impronta di arretratezza e di pr imitività; faranno dell'economia italiana un'economia tipicame nte ritardataria. Certo, questi residui feudali non var ranno ad arrestare la marcia del capitalismo italiano; ma qu esto si presenterà per lungo tempo in una forma ibrida e sp uria, intricandosi in sempre nuove contraddizioni interne , che si inacerbiranno, innestandosi nel vecchio tronco f euda- le. Dell'Italia si potrà, per molti decenni, dire q uel che Marx diceva della Germania del suo tempo: che essa soffr iva ad un tempo del capitalismo e del suo deficiente svilu ppo". L'unificazione normativa adottata immediatamente da l nuovo Stato italiano, attraverso l'estensione autom atica al- ! le altre regioni della legislazione già vigente n el Piemonte, ebbe conseguenze particolarmente rilevanti nél Mezz ogior- , no, soprattutto sul piano della politica doganale e del regi- me fiscale. L'applicazione della nuova tariffa libe ristica de- terminò il crollo dei dazi protettivi prima vigenti nelle pro- vince meridionali per una misura di circa l'80 %, s icché ne uscì completamente travolta l'industria sorta e cresciuta sotto l'ampio mantello della protezione statale. Al trettanto pesanti furono gli effetti dell'estensione del sist ema tributa- rio piemontese che accresceva notevolmente, in conf ronto al regime borbonico, la pressione fiscale sulle cam pagne. E questa pressione era destinata ad accrescere ulteri ormente sia per effetto dell'unificazione del debito pubbli co, che si accollava le spese di guerra del Piemonte, sia i n vista degli stanziamenti necessari per la costruzione di una re te ferro- viaria e di un sistema di comunicazioni stradali ch e erano ! requisiti indispensabili per una effettiva unific azione del mercato nazionale. Obiettivo essenziale dei primi governi unitari era infatti, accanto all'organizzazione della struttura amminist rativa del nuovo Stato, l'unificazione economica del paese me- diante l'abbattimento delle barriere doganali che d ividevano gli antichi Stati. La creazione di un efficiente si stema di co- municazioni stradali e ferroviarie rappresentava la condizio- né "infrastrutturale" per la formazione di un ampio merca- to nazionale che congiungesse definitivamente i div ersi, ristretti mercati locali e regionali e conducesse q uindi ad un forte sviluppo dei trafici, avviando un processo di accelera- ta commercializzazione dell'economia italiana, di s epara- zione dell'agricoltura dall'industria, di accentuat a espansio- ne capitalistica. Questo processo avveniva in diret to contat- to con lé economie europee più sviluppate, per l'av venuto inserimento, grazie all'intensificazione dei traffi ci interna- zionali, facilitati dal libero scambio, nel movimen to del mercato mondiale. L'adozione del libero scambio, nel primo ventennio uni- tario, favori in qualche modo l'agricoltura meridio nale pro- muovendo l'espansione del settore delle colture pre giate ri- volte all'espansione (vite, agrumi, olivo, ecc.). M a questi ri-

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sultati rimanevano limitati per la complessiva perm anenza di rapporti agrari e sociali più arretrati. Lo stes so processo di appropriazione borghese della proprietà fondiari a meri- dionale, messo in moto dalla vendita del milione di ettari di terre demaniali ed ecclesiastiche, non comportò la diffu- sione del modo di produzione capitalistico nelle ca mpagne del Sud. Accanto alla scarsa propensione capitalist ica della borghesia terriera meridionale va peraltro sottolin eata la difficoltà di reperire ulteriori mezzi finanziari p er investi- menti diretti alla trasformazione agricola, dopo le forti spese sostenute per l'acquisto delle terre demanial i ed ec- , clesiastiche dallo Stato, che in tal modo, si dis se, aveva fi- nito per "drenare" la gran parte della massa moneta ria esi- stente al Sud. b) Problemi politici e sociali: il brigantaggio. L'unificazione portava anche gravi problemi politic i de- terminati prima dallo scontro tra garibaldini e cav ouriani e quindi dallo scioglimento dell'esercito meridionale e dall'eli- minazione degli elementi democratici di nomina gari baldi- na. Insieme a questo progressivo distacco dalla pic cola bor- ghesia provinciale, le luogotenenze generali per il Mezzo- giorno finirono per isolarsi anche rispetto all'alt a borghesia e aristocrazia cittadina di orientamento autonomist a, e in parte borbonizzante. La nomina nel Consiglio di luo go- tenenza di eminenti liberali, già esiliati dai Borb oni (Spa- venta, Bonghi, Pisanelli, Scialoja) finì per accent uare questo distacco tra il governo centrale e la società merid ionale. E fu proprio il prorompere, già nei primi mesi dell 'uni- tà, di una questione delle province meridionali che frenò un possibile progetto di organizzazione dello Stato secondo i principi del decentramento amministrativo e favor ì lo sviluppo di forme particolarmente accentrate sul pi ano isti- tuzionale e di carattere sostanzialmente oligarchic o sul ter- reno dei rapporti politici. Intanto la disperata condizione delle masse contadi ne esplodeva, a pochi mesi dall'unità, nel vasto moto sociale del "brigantaggio" che, in forme di diffusa guerrig lia, scòn- volse le province meridionali per un lungo quinquen nio. Espressione della profonda crisi della società meri dionale, acuita sul piano politico dal crollo del regime bor bonico ed esasperata da una delle ricorrenti crisi economiche che, per la scarsità del raccolto, inaspriva ulteriormente i l carovita, la pur violenta rivolta dei contadini meridionali si c onfigurava come un esteso movimento di massa alimentato dalla pro- fonda solidarietà della gran parte della popolazion e rurale. La caduta delle illusioni legate ai primi momenti d ell'avan- zata garibaldina e la miope politica del governo mo derato, che puntava tutto sul rafforzamento della proprietà terriera e niente aveva da promettere ai contadini, contribu ivano decisamente ad aggravare una situazione sociale già resa precaria dallo sbandamento delle truppe borboniche e dalla renitenza di massa alla nuova leva obbligatoria. Qu esta for- ma estrema di protesta sociale contro il perpetuars i di un antico sfruttamento era peraltro usata e stimolata sul piano politico dalle ambizioni restauratrici del sovrano spodesta- to, dagli interessi temporali del governo pontifici o e dalla propaganda reazionaria del clero meridionale colpit o dai decreti di soppressione degli ordini religiosi. Il legittimi- smo borbonico - fondato in quegli anni su alcuni ap poggi e connivenze internazionali, dell'Austria innanzitu tto, ma

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anche della Francia - e una credenza religiosa scon finante per lo più nella superstizione e nel misoneismo cos tituiva- no l'ideologia che stava dietro e dava forza e fidu cia alla lotta dei briganti. Ma non bastano a spiegare il ca rattere di massa che assunsero presto le insorgenze contadine, la diffu- sa solidarietà e il lungo persistere nonostante la repressione organizzata dall'esercito italiano, impegnato duram ente per circa la metà dei suoi effettivi, sulla base di una legge specia- le che sanciva lo stato d'assedio e sospendeva le l ibertà co- stituzionali, in una guerra che produsse più morti di tutte le precedenti battaglie risorgimentali. Anche il brigantaggio non può essere compreso se no n in relazione al problema fondamentale del Mezzogiorno: il problema della terra e del rapporto precario che co n essa avevano le masse contadine. In questo senso cogliev a nel se- gno Giustino Fortunato quando vedeva nel brigantagg io "l'ultimo atto" della questione demaniale, da inten dere, pe- rò, non tanto nel suo carattere particolare, quanto piuttosto come momento rappresentativo della più generale que stione agraria del Sud. Ben oltre le continue usurpazioni della pro- prietà terriera, prima aristocratica e poi borghese , e le delu- se aspettative di ripartizione delle quote demanial i tra i con- tadini, che il regime unitario si guardava bene dal l'affronta- re in modo nuovo, il centro del problema rimaneva l 'ordi- namento della proprietà, che restava quasi immutato nel passaggio dalla feudalità alla borghesia, e continu ava ad escludere le masse contadine da un rapporto più sta bile con la terra. Il brigantaggio - riconoscerà qualche ann o più tar- di Pasquale Villari - "può dirsi la conseguenza di una que- stione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali". c) L'ex-capitale. Accanto e all'interno della questione meridionale n asce- va con l'unità, la questione di Napoli: non più cap itale, città regia, sede di numerosissima burocrazia, forti disl ocamenti militari, diffuse presenze diplomatiche, fastosa vi ta di cor- te. L'apparente opulenza di Napoli capitale era fon data sullo sfruttamento bestiale delle masse contadine d elle province. Luogo di residenza della maggiore aristoc razia fondiaria, Napoli era abituata ad assorbire e consu mare nelle spese di rappresentanza di questa classe le r isorse prodotte dalle province. Con l'unità iniziò il lento processo di trasformazi one in città borghese che rimase a mezz'aria per la diffic oltà di riuscire a caratterizzarsi come centro regionale ca pace d'ir- radiare iniziative economiche e culturali sulla nuo va scala territoriale, come già stava accadendo per Milano e Torino, Genova e Firenze. "Prima del 1860 - avrebbe scritto Nitti - Napoli er a dun- que la più grande città di consumo d'Italia. Anche altre cit- tà erano capitali: ma erano capitali di piccoli reg ni e, tranne Roma e, limitatamente, Venezia, rappresentavano cen tri di piccola importanza. Così quando Firenze, Torino, Mo dena, Parma, ecc., cessarono di essere capitali pochissim o danno risentirono: Napoli risentì danno enorme." Con quasi mezzo milione di abitanti, Napoli era anc ora la più popolosa città d'Italia e la quinta d'Europa (dopo Londra, Parigi, Vienna e Pietroburgo). Ma questa ec cessiva popolazione si era addensata nei secoli per sfuggir e alle im- posizioni fiscali e godere delle elargizioni sovran e e aristo-

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cratiche, e solo in parte svolgeva direttamente que lle funzio- ni di servizio in cui risultava occupato, nella pri ma metà dell'Ottocento, circa un quarto di tutta la popolaz ione atti- va professionalmente nella capitale. La fondamentale contraddizione tra le enormi dimen- sioni fisiche e le scarse strutture produttive sare bbe esplosa, dopo l'unità, con l'emergere in piena luce della mi seria dila- gante già intorno alle splendide dimore aristocrati che. I bas- si malsani, i fondaci sudici, le luride spelonche d escritte da Villari e da Mastriani avrebbero offerto un quadro ben di- verso da quello che s'era abituati a godere dalle " ville di de- lizie" situate nell'ancor verde collina di Posillip o. La decadenza dell'ex-capitale era quindi accentuata dalla progressiva emancipazione delle province meridional i, che s'andavano orientando su diverse direttrici di espa nsione e di scambi economici. Lo sviluppo delle comunicazion i fer- roviarie e stradali sull'asse Nord-Sud porterà le c ittà meri- dionali a gravitare non più esclusivamente su Napol i, ma verso le città settentrionali. La rapida costruzion e della nuova direttrice adriatica Lecce-Bari-Ancona-Bologn a-Mila- no indirizzerà, longitudinalmente, verso il Nord gl i interes- si della ricca agricoltura pugliese, da secoli trib utaria del mercato napoletano. Ben più lenta sarebbe stata la costru- zione della linea ferroviaria trasversale al Mezzog iorno che potesse servire a rilanciare i rapporti di scambio interni all'economia meridionale, come denunciava la pubbli ci- stica napoletana dell'epoca fortemente colpita dall e mu- tate condizioni del mercato nazionale. L'inarrestabile declino della splendente capitale p ro- durrà il decadente mito della napoletanità, travest imento ideologico della svelata improduttività parassitari a della grande città; espressione di ceti aristocratici e b orghesi strutturalmente disgregati e subalterni, storicamen te in. capaci di aggregazione e di egemonia politica; leni mento di intellettuali e poeti con lo sguardo rivolto nostal gicamente al passato, timorosi del presente e, ancor più, del futuro. *3. Nascita del meridionalismo. Lo stato italiano, formato dall'unione di due forma zio- ni economico-sociali con gradi qualitativamente div ersi di sviluppo, si mostra fin dal principio incapace di e sercitare un'azione di forte egemonia anche nella parte merid iona- ! le del paese. Per il Mezzogiorno valgono, invece, gli stru- menti del dominio politico e della repressione soci ale Inaugurati dalla direzione oligarchica delle luogot enenze é dalla lotta armata al brigantaggio. Ma gli anni Settanta dell'Ottocento si aprono coi f iam- manti bagliori delle Comune di Parigi, che rilancia in Eu- ropa lo "spettro" del socialismo e rende i più sens ibili tra gli intellettuali borghesi timorosi di nuove fiamma te so- ciali e preoccupati di cercare strade diverse dal b inomio oppressione-repressione. I modelli della liberale I nghilterra vittoriana e dell'autoritaria Germania bismarckiana , che per- corrono entrambe la strada delle riforme sociali, a ppaiono la terza via tra socialismo e reazione, indirizzano verso una società fondata non sul dominio repressivo ma su un largo consenso di massa allo Stato liberale e borghese. a) I modelli egemonici di Villari. Dopo l'attentato di Passannante al re Umberto, Pasq uale Villari - antico allievo di De Sanctis e ora storic o positivista

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a Firenze, con lo sguardo volto alle più avanzate e sperienze europee - sottolineava come "necessaria una cosa: c he la classe la quale ha adesso in mano la forza, si pers uada che essa deve governare a vantaggio non solo proprio, m a anche degli altri, assai più che non ha fatto finora. Se vuole con- servarsi i mezzi di dirigere e moderare il moviment o, cui non potrà opporsi alla lunga, è necessario che si p reoccupi molto degli interessi diversi dai suoi...' Era la strada dell'egemonia, del più avanzato livel lo di direzione borghese, che proponeva di applicare anch e al ca- so italiano la formula inglese del "riformare per c onserva- re. L'ampliamento delle esigue basi di consenso all e istitu- zioni fondate dal liberalismo italiano passava inna nzitutto per il Mezzogiorno, per la trasformazione delle con dizioni delle sue masse contadine, per la completa rimozion e dei funesti ricordi della recente, feroce guerra per ba nde. In tal senso le Lettere meridionali, inviate nel ma rzo del 1875 da Pasquale Villari al giornale moderato L 'Opi. nione, segnano la nascita del meridionalismo libera le,, ¨ - ' . l'inizio della riflessione critica sulle condizioni del Mezzo- giorno all'interno dello Stato italiano. L'analisi della socie- tà meridionale dopo l'unificazione, guardata soprat tutto nel rapporto tra le nuove istituzioni e le masse, rappr esenta una realtà drammatica indagata coraggiosamente nelle pi aghe della camorra, la mafia, il brigantaggio. Ne vengono fuori un Mezzogiorno e una Napoli comple - tamente diverse dall'oleografia tradizionale: bruta li rapporti di classe invece che plaghe feraci e ridenti, non v ille di deli- zie ma fondaci, bassi e grotte "in cui vivono ammon ticchia- te parecchie migliaia di persone, talmente avvilite dalla mi- seria che somigliano più a bruti che ad uomini." L'acuta spregiudicatezza dell'indagine si accompagn a però ad una insoddisfacente genericità dei rimedi, che rima- nevano auspici destinati a rimanere inattuati per l a strada diversa imboccata dallo sviluppo capitalistico del paese e per la totale impermeabilità della borghesia meridi onale a qualsiasi idea di riforma dei rapporti di classe ne lla società da essa dominata. Primo meridionalista, sarà Villari l'iniziatore di quella corrente culturale e politica che porrà, in tempi e forme diverse, il Mezzogiorno al centro della propria rif lessione e soprattutto al centro della politica nazionale. Il Mezzo- giorno, quindi, come questione nazionale, come luog o cen- trale dove precipitano ed emergono nelle forme più dram- matiche le contraddizioni e i limiti del processo d i unifica- zione nazionale. Limite fondamentale di Villari appare la sostanzial e in- comprensione del complessivo processo di sviluppo c api- talistico, già da tempo avviato nel paese, e dell'i mportanza crescente che andava assumendo il problema dell'ind ustria- lizzazione. Ancora vivo, peraltro, rimane il valore di una spietata denuncia che, proponendosi la formazione d i una classe dirigente borghese più sensibile alla "quest ione socia- le", colpiva alla radice il carattere conservatore del rapporto instauratosi tra lo Stato e il Mezzogiorno, lasciat o e aggrava- to nella tradizionale condizione di arretratezza ec onomica, sociale e civile. "Il- governo costituzionale - aff ermava Villa- ri - è in sostanza il regno della borghesia. La cla sse dei pro- prietari, in mancanza d'altro, divenne la classe go vernante, e i municipi, le province, le opere pie, la polizia r urale furono

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nelle sue mani. Chi circònda il prefetto, chi illum ina i mini- stri, su chi si appoggiano essi colà? E se il domin io che quel- la classe esercitava era dispotico, e se esso è res tato illimita- to, senza alcun nuovo freno, ma con l'aggiunta di n uove for- ze, quali debbono esserne le conseguenze?". b) Le analisi strutturali di Franchetti e Sonnino. Una fase più avanzata nell'analisi della realtà eco nomico- sociale del Mezzogiorno è costituita dalla Inchiest a in Sicilia compiuta nel 1876 dagli intellettuali e proprietari toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, che l'anno pr ece- dente avevàno pubblicato, rispettivamente, un lavor o sulle Condizioni economiche ed amministrative delle Provi ncie Napoletane e un saggio sulla Mezzeria in Toscana. C omune al Villari è il timore di un dilagare del socialism o e quindi la convinzione della necessità di porre un solido argi ne, raffor- zando i rapporti tra le masse contadine e l'organiz zazione dello Stato liberale. Comune a tutta la tradizione del meri- dionalismo conservatore e liberale è anche la conce zione u- nitaria della questione meridionale, considerata co me pro- blema nazionale, strettamente connesso ai modi dell 'unifi- cazione é del successivo sviluppo economico e socia le del paese, e non isolabile come particolare aspetto di arretratez- za in un contesto nazionale che trovava sue forme d i espan- sione e di progresso. L'originalità dell'approccio di Franchetti e, sopra ttutto, di Sonnino ai problemi del Sud consiste nella premi nente attenzione ai caratteri basilari della struttura ec onomica, nella centralità dei rapporti di proprietà e di pro duzione all'interno di un'acuta indagine della società meri dionale e, in particolare, siciliana. Dall'inchiesta siciliana vengono in piena luce i ca ratteri fondamentali dell'ordinamento fondiario, i particol ari rap- porti di classe che vedono la società ancora sostan zialmente dominata dalla grande proprietà latifondistica di o rigine feudale, che mantiene i tradizionali rapporti di pr oduzione, rendendo difficile qualsiasi processo di trasformaz ione del- l'agricoltura in senso moderno. Infatti, sottolinea va Sonni- no, "l'abolizione di diritto del sistema feudale no n produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perchè i feudi furono lasciati in libera proprietà agli antichi Baroni: o nde al lega- me tra il coltivatore e il suolo che prima era cost ituito dal- la stessa servitù feudale, non si sostituì come alt rove l'altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu s emplice- mente rotto, e il contadino si trovò libero in diri tto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggiore schiavitù di prima per effetto della propr ia mise- ria." L'indicazione che ne scaturiva era quindi nel senso di una modifica, di una riforma dei patti agrari, che riùscisse a daré una soluzione più moderna, e quindi più giusta ma an- che più efficiente, all'essenziale problema dei rap porti tra proprietari é _contadini. Il modello sonniniano era la meza- dria toscana, coi suoi caratteri di tradizionalismo produttivo e di paternalismo sociale; ma le proposte concrete per l'agri- coltura siciliana erano ancora più limitate e parti colari, ri- ducendosi a colpire le forme più gravi di usura e l e clausole più vessatorie dei contratti agrari. Comunque l'intera impostazione dell'inchiesta fu pe san- temente criticata dalla grande proprietà siciliana, che meglio si riconosceva nelle conclusioni tratte da una coev a Giunta

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parlamentare d'inchiesta, secondo la quale "le ossa di quel- la razza robusta e vivace, non erano rose, malgrado le avver- sità del passato, nè da una questione politica nè d a una que- stione sociale ". Il rifiuto globale degli agrari meridionali di porr e in di- scussioné lo stato dei rapporti sociali nelle campa gne fu espresso quindi da Antonio Sà, per il quale le diff i- coltà dell'agricoltura meridionale dipendevano escl usiva- mente dalla mancanza di capitali, e pertanto l'unic a possibi- lità di soluzione era nella "massima accumulazione del capi- tale", nell'ulteriore rafforzamento del potere econ omico della borghesia terriera. Questa linea di intransigente resistenza della prop rietà me- ridionale sulle posizioni più tradizionali si sareb be dimo- strata vincente lungo tutta la storia del regno d'I talia, nel periodo liberale come nel regime fascista, configur andosi come elemento essenziale, pur se subalterno proprio per la sua arretratezza, del blocco di potere che, nell 'egemonia del capitale più avanzato, dirigeva la politica del paese. Su questa linea si sarebbero ritrovati in definitiva i l conservato- rismo gretto degli agrari meridionali e il riformis mo con- servatore di Franchetti e di Sonnino nei momenti de cisi- vi di scelta politica, quando le esigenze della con serva- zione e della reazione diventavano preminenti. La d irezio- ne oligarchica dello Stato liberale si fondava egua lmente sul conservatorismo di Sonnino come della proprietà meri- dionale, benchè il primo - aristocratico e colto pr oprieta- rio toscano abituato a "paterni" rapporti con i suo i conta- dini - mostrasse di disdegnare i sistemi violenteme nte op- pressivi della classe dominante nel Sud. Ma questo atteg- giamento di Sonnino, che pure è sintomo di una pote nziale articolazione interna al fronte degli agrari, non s i con- cretò in conseguenti posizioni politiche che avrebb ero in- crinato il blocco di forze al potere in Italia. Rim ane però l'acutezza di una denuncia che ci tramanda una rico gnizione profondamente realistica dello stretto intreccio re alizzatosi tra l'autorità dello Stato liberale e l'arbitrio de gli agrari nel- la società meridionale. "Colle nostre istituzioni - rilevava lu- cidamente Sonnino - modellate spesso sopra un forma lismo liberale anzichè informate a un vero spirito di lib ertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per me- glio rivestire di forme legali l'oppressione di fat to che già prima esisteva, coll'accaparrarsi tutti i poteri me diante l'uso e l'abuso della forza che tutta era ed è in mano su a; ed ora le prestiamo man forte per assicurarla che a qualun que ec- cesso spinga la sua oppressione, noi non permettere mo al- cuna specie di reazione illegale, mentre di reazion e legale non ve ne può essere, poichè la legalità l'ha in ma no la clas- se che domina". c) Il radicale realismo di Fortunato. Pronipote dell'omonimo primo ministro di Ferdinan- do Il, fratello di uno dei rari imprenditori capita listici ope- ranti nell'agricoltura meridionale, Giustino Fortun ato rap- presenta uno dei momenti più alti sul terreno della direzio- ne politica di più lungo respiro e della costruzion e di una prospettiva egemonica per le province meridionali, costret- te da sempre nei confini del mero. dominio. "Se ho avuto- scriveva al principio del secolo - per tutta quanta la mia vita, una sola preoccupazione, questa è stata di sa pere con tutta sincerità, se io avessi o no diritto di dirmi un galantuo-

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mo, possedendo terre. Ormai sono tranquillo. Ma tut ta la mia vita interiore è stata fatta e rifatta da quell e lunghe me- ditazioni". Fortemente legato alle tradizioni risorgimentali e 'unita- rio' fino in fondo, fu spinto dalla lettura delle a nalisi di Vil- lari a collaborare alla Rassegna settimanale,l'impo rtante rivi- sta di Sonnino e Franchetti apparsa a Firenze nel 1 878, con una serie di corrispondenze dal Mezzogiorno. I suoi scritti segnano un momento decisivo nella conoscenza della realtà economico-sociale del Meridione, interamente percor so "lungo l'Appennino, dagli Abruzzi alla Calabria, pe destre- mente". Carattere essenziale della sua indagine è il forte realismo di stampo positivistico, attento a considerare inna nzitutto l'ambiente naturale, e quindi la terra: la particol are compo- sizione del suolo, l'influenza del clima, là config urazione topografica, la collocazione geografica. Il costant e rilievo at- tribuito agli aspetti tipici della "inferiorità" de l Meridione era destinato a controbattere le correnti opinioni di una pre- sente opulenza del Sud: le terre aride e montuose d ella lun- ga dorsale appenninica erano cosi visitate e descri tte in con- trapposizione alle "splendide riviere di Napoli e P alermo, i fiorenti litorali di Bari e di Catania". Non si trattava quindi di mero naturalismo determin isti- co, perchè ben presente in Fortunato era una cospic ua dose di realismo storico, che si esprimeva nell'attenzio ne sempre portata alla condizione degli uomini, ai rapporti d i classe, alla struttura economica che definivano, ben oltre i pur con- dizionanti fattori naturali, i caratteri della soci età meridio- nale. Significativo di un approccio metodologico di stampo economico-sociale era, ad esempio, il rapido schizz o di questa società intorno al 1860: essa viveva di una economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione d el lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo: si lavorava più spesso per il proprio sostentamento, anzichè produrre valo ri di scambio e procurarsi, con la vendita dei prodotti, quello di cui si aveva bisogno. In moltissimi comuni ben più della me- tà della popolazione non mangiava mai pane di grano , e "i contadini vivevano lavorando come bruti", poi che i l so- stentamento di ognun di loro costava meno del mante ni- mento di un asino': questo ha lasciato scritto Ludo vico Bianchini, uno dei ministri di Ferdinando Il." Una diversità profonda isolava nel Mezzogiorno otto - novecentesco quei rari rappresentanti di unà borghe sia imprenditrice e colta, che si mostrava capace di po rsi sul terreno del più avanzato sviluppo produttivo e di u na di- rezione politica tendente ad ottenere il consenso d elle mas- se attraverso forme di egemonia e non di mero domin io. E per questa sua capacità di prospettiva più alta For tunato, non per caso con Croce, ebbe a meritarsi il giudizi o gram- sciànò di "più operoso reazionario"; non certo nel senso inappropriato e banale di retrivo ma in quello ben più pre- gnante di maggiore avversario di una radicale trasf ormazio- ne socialista della società italiana. Durissimi furono, quindi, i giudizi sempre espressi dal- l'intellettuale lucano sulla borghesia terriera mer idionale e sulla borghesia urbana napoletana. Nelle campagne era "l'unica classe dominante, dalla quale provengono i guai màggiori che hanno afflitto i nostri contadini: la gravezza dei patti agrari, il socialismo alla rovescia delle imposte

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comunali, lo sperpero dei beni demaniali e delle ve ndite delle opere pie; insomma i soprusi e le angherie". A Napo- ; li, poi, "nella grande maggioranza degli onesti è immutata la tendenza alla noncuranza di tutto e di tutti; è fiacca, di- sgregata, indifferente, pettegola sospettosa; vuol vivere in pace, oziosamente, di rendite; non ha fede nè ca rattere, non ha sdegno nè amori; rifugge tuttora dagli obbli ghi di coltura e socievolezza, imposti dai nuovi ordini po litici." Il nuovo ordine politico, appunto, lo stato unitari o e liberale, con il "buongoverno", avrebbe dovuto real izzàre, posto com'era ritenuto al di sopra delle classi, qu esto com- pito fondamentale di rinnovamento della società ita liana e, particolarmente, meridionale. Questo, nello scorcio dell'Ot- tocento, fu vero per Fortunato e per gli altri rapp resentanti di quell'ala riformista del meridionalismo liberalc onserva- tore, che alle masse contadine guardò sempre come o ggetto e non possibile soggetto di storia: da considerare con pater- no affetto e da redimere dall'abiezione delle condi zioni ma- teriali di vita, ma ritenute ancora incapaci di pot er pensare e operare da sè Ma questo Stato si sarebbe presto dimostrato incapa ce di modificare la realtà meridionale con l'orientare l' intera poli- tica nazionale su un diverso asse; per il quale obi ettivo sem- brava sufficiente e possibile al Fortunato impostar e una nuova politica economica nei diversi settori fIscal e, commer- ciale e finanziario. Anzi nel nuovo secolo, proprio quando sembrava aprirsi una diversa fase politica con cara tteri più liberali della precedente,l'intervento dello Stato nel Mezzo- giorno avrebbe assunto la forma della legislazione speciale, che Fortunato contrastò sempre ritenendola errata e insuf- ficiente ad avviare a soluzione le profonde diffico ltà delle regioni meridionali. Cadeva così, definitivamente, il "mito" dello Stato ; e avrebbe riconosciuto Fortunato, "assai penoso mi è stato il dovermi convincere, che quello era un sogno e nulla più". Scomparsa questa ultima illusione, al liberalismo p olitico dell'intellettuale lucano rimaneva soltanto la fede nel liberismo economico. Ma se la prospettiva economica per il Sud veniva individuata in uno sviluppo moderno dell 'agri- coltura fondato sulle colture intensive e la zootec nia e sul- la riduzione della cerealicoltura estensiVa, la pro spettiva po- litica era molto più incerta dopo il fallimento del la politica statale e la riconosciuta ben scarsa tendenza della borghesia meridionale alla iniziativa imprenditoriale. Alla disillusa stanchezza dei primi anni del secolo suben- trò, a,cavallo del primo decennio, una rinnovata ca pacità d'iniziativa e di organizzazione dell'impegnO merid ionalista. L'incontro con SalveMini, nell'iniziativa di fondar e la nuova rivista L 'Unità, ridiede slancio ad una delle migl iori qualità di Fortunato: la capacità di aggregazione e organiz zazione culturale, dimostratasi ora nell'organizzazione del la fitta rete di autorevoli corrispondenti della rivista dal le province meridionali. Le drammatiche vicende della guerra mondiale avrebb e- ro finito per esacerbare il naturale pessimismo del l'ormai anziano intellettuale, fermamente neutralista. Ma i l pessi- mismo e il moralismo gli sarebbero serviti, qualche anno dopo, a rimanere tra i pochissimi della vecchia cla sse di- rigente liberale ad opporsi immediatamente al fasci smo che andava al potere tra il coro entusiasta dei ben pensanti

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e dei lungimiranti. "Son rimasto letteralmente solo - scrive- va il 7 novembre del 22 - in tutta Napoli, posso di re - non dico a dar conto alla inimmaginabile tragicommedia av- venuta - ma a deplorare, che noi si fosse cosi giù da doverla spiegare, se non addirittura giustificare. E quante bassezze quante viltà, quante sconcezze! Questo il frutto de lla novel- la Italia?". *4. Il Mezzogiorno tra crisi agraria e svolta prote zionista. Nel primo ventennio unitario il divario strutturale tra il Nord e il Sud del paese non si era particolarmente aggravato perchè l'agricoltura meridionale, seppur lentamente , aveva visto progredire la sua produzione sul piano quanti tativo, qualitativo e degli scambi internazionali. Forti li miti erano rimasti nell'arretratezza dei rapporti sociali e ne lla deficien- za degli investimenti; aggravati dalla vendita dei beni eccle- siastici e demaniali, che aveva contemporaneamente rastrel- lato tutti i potenziali capitali del Sud e concentr ato la pro- prietà terriera nelle mani di una grande e media bo rghesia largamente assenteista. D'altra parte l'industria non aveva ancora un ruolo molto importante nell'economia italiana e le differenze t rà le dùe parti del paese non erano, peraltro, molto pronunci ate in questo settore. Dopo le prime, gravi difficoltà l'i ndùstria meridionale, specie quella tessile, aveva mostrato una buona capacità di ripresa, che si fondava contemporaneame nte sù una moderna tecnologia e sulla pratica dei bassi salari. Saranno gli anni Ottanta a costituire un fondamenta le

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momento di passaggio nella definizione del ruolo ch e al Mezzogiorno spetterà nel processo dello sviluppo ca pita- listico italiano. La crisi agraria, che in questo p eriodo si svolge a livello europeo è un aspetto della più gen erale "grande depressione" degli anni 1873 - 1896 e trae origine della forte caduta dei prezzi agricoli, che in Ital ia calano dall'indice 1 nel 1877 all'indice 98 dieci anni dop o. E' questa una conseguenza, ritardata nel nostro paese, dell'av- venuta unificazione del mercato mondiale, resa poss ibile dalla discesa dei costi di trasporto per lo svilupp o delle co- municazioni ferroviarie e della navigazione a vapor e. Accade così che il grano prodotto nelle vastissime pianure america- ne, messe a coltura per la prima volta, con impiego minimo di capitali e mano d'opera, invade i mercati europe i deter- minando il crollo dei prezzi dei cereali e di molte altre der- rate. In Italia la crisi dell'agricoltura acquista un sig nificato particolare perchè colpisce la struttura economica del paese in un delicato momento di transizione dal tra diziona- le predominio del settore primario ad un nuovo equi librio segnato dalla formazione e dall'espansione di un mo derno settore industriale. La scarsa produttività dell'in vestimento di capitali nell'agricoltura renderà inattuabili le proposte del senatore Jacini, capitalista agrario lombardo, presidente della Giunta parlamentare per la Inchiesta agraria, che, nel- la relazione conclusiva del 1884, indicava una line a di svi- luppo capitalistico per l'agricoltura italiana, fon data sulle bonifiche,l'irrigazione, la produzione di foraggi e le colture intensive. La crisi favorirà invece il trasferiment o di capitali dall'agricoltura alle speculazioni finanziarie e al l'industria, la cui espansione verrà fondata quindi sulla tariff a del 1887, che allineerà l'Italia alla tendenza mondiale verso il prote- zionismo e l'imperialismo. Le trasformazioni strutturali avviate negli anni Ot tanta, con la riduzione del ruolo centrale e predominante tenuto finora dall'agricoltura e con la crescita di un set tore indu- striale moderno, segneranno profondamente e positiv amen- te i caratteri della società italiana che s'incammi nerà decisa- mente sulla strada della trasformazione industriale , grazie proprio all'introduzione del protezionismo e al ruo lo pro- pùlsivo svolto, sul finire del secolo, da altri fat tori come le grandi banche d'investimento. Questo processo d'ind ustria- lizzazione si sarebbe quindi concentrato in quelle aree del Settentrione caratterizzate dai più avanzati rappor ti di pro- duzione capitalistici nell'agricoltura e nella soci età e avvan- taggiate dai più facili e frequenti contatti con i mercati eu- ropei più sviluppati. I dazi elevati a sostegno dell'industria, tessile e siderur- gica soprattutto, trovavano peraltro riscontro nel dazio sul grano, che serviva a fare uscire dalla crisi una pa rte dell'agri- coltura italiana: la cerealicoltura capitalistica d iffusa nel Nord e la proprietà meridionale, per lo più assente ista, che produceva grano per il mercato. Grandi vittime del prote- zionismo furono le colture di esportazione e soprat tutto la viticoltura, che si era diffusa, nelle Puglie sp ecialmente durante gli anni della crisi agraria e in connessio ne con la forte domanda del mercato francese. Il blocco dell' espor- tazione del vino, per la "guerra doganale" con la F rancia, e in genere delle colture pregiate, specie prodotti o rtofrutti- coli, seguiva cosi la crisi dell'olivicoltura, colp ita negli anni

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precedenti dal forte calo del prezzo dell'olio, e a priva un periodo di grandi difficoltà per tutto il settor e più mo- derno dell'agricoltura meridionale. Più complessi problemi suscitava quindi la soluzion e pro- tezionistica per l'agricoltura, dove questa scelta non aveva effetti soltanto propulsivi, come nell'industria, m a si limita- va a fornire la strada più semplice per uscire dall a crisi, tute- lando la produzione cerealicola sia dellé aziende c apitalisti- che del Nord, che traevano dal dazio il maggior pro fitto, sia , della proprietà assenteista meridionale, che sul dazio fonda- va la sua sopravvivenza economica e il rafforzament o del suo potere nella società. La scelta doganale, in effetti, non era stata solle citata dai rappresentanti del capitalismo agrario che richiede vano in= vece, come emergeva dàlle conclusioni della Inchies ta Agra- ria e dai dibattiti parlamentari, una politica di i nvestimenti e di crediti per le trasformazioni colturali, e nel dazio vede- vano un ostacolo per il pieno dispiegarsi delle for ze produt- tive e un elemento di aggravio dei costi di produzi one, essendo i salari nominali strettamente connessi al prezzo del grano. I ceti più avanzati dell'agricoltura italian a - agrari ca- pitalisti e grandi affittuari - puntavano a una div ersa soluzio- ne della crisi, fondata su sgravi fiscali e riduzio ne dei salari nominali; mentre l'orientamento dei riformisti cons ervatori alla Sonnino era, anche in questa occasione, di raf forzare complessivamente il mondo delle campagne - come bas e di massa dello Stato liberale e come centro d'influenz a e pote- re politico - accompagnando misure di sostegno per gli agrari con una riforma dei contratti a favore dei c ontadini. La soluzione adottata costituiva così un compromess o tra la prospettiva di modernizzazione collegata all o svilup- po industriale concentrato al Nord e la scelta di c ontinuità per le strutture più arretrate dell'agricoltura mer idionale. La tariffa protezionistica si definiva in tal modo com e stimolo all'industrializzazione settentrionale e come estre ma difesa dell'ordinamento prevalentemente latifondistico e d ella conduzione prevalenteménte assenteista dell'agricol tura me- ridionale. Così lo sviluppo industriale del Nord si fondava sulla persistente arretratezza del Sud, e i caratte ri del primo processo non potevano non risentire del peso del se condo fenomeno. Il rafforzamento della proprietà terriera e la stasi del tradizionale assetto nelle campagne era dunque il corri- spettivo nel Sud dell'accelerata espansione capital istica nel- l'industria e nell'agricoltura settentrionale. Il processo di sviluppo capitalistico, che avrebbe progres- sivamente trasformato l'Italia in un paese definito da una moderna industrializzazione assumeva quindi, fin da l prin- cipio, caratteri che non avrebbe più sostanzialment e mutati. Erano caratteri che accostavano il rapido sviluppo alla permanente arretratezza che, legata ormai in vario modo àl processo trainante, assumeva la forma del sottosvil uppo capitalistico. Si trattava di un,processo dinamico che legava in uno stretto rapporto di interdipendenza le aree avanzate e le aree arretrate del paese. Più che di riStagno si tratta ora di una diversa velocità che tende sempre più ad all ontanare le due fondamentali aree del paese. S'intrecciano in questi anni scelte di politica eco nomica e schieramenti sociali che troveranno un equilibrio in quel complesso di forze che già la polemica liberista di fine seco- lo definiva "blocco industriale=agrario". Era quest a una

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schematizzazione utile per comprendere la risultant e di un processo complesso e di forma più varia nei part icolari, ma che sarebbe durato a lungo. Un processo di svilu ppo sto- rico del nostro paese diretto appunto dalle più ava nzate forze del capitalismo agrario e industriale del Nor d alleate con le rappresentanze meridionali della proprietà t erriera assenteista. Alle prime andava la direzione politic a dello Stato e la guida economica dello sviluppo capitalis tico; alle seconde rimaneva la garanzia della sopravviven za negli arretrati equilibri di una società meridionale cong elata nelle precise regole del dominio, sociale e politico. ¨ E' dagli anni Ottanta che il divario tra Nord e S ud non cesserà più di accrescersi. Lo sviluppo industriale nell'àrea settentrionale sarà legato¨ da uno stretto rapporto di mter- dipendenza al particolare sottosviluppo del Mezzogi orno; che insieme assumeranno quelle forme proprie del mo dello italiano di sviluppo capitalistico: intreccio di ve cchio e nuo- vo, avanzato e arretrato, moderno e tradizionale, p roduttivo e parassitario. La secolare storia successiva confermerà, pur attra verso notevoli trasformazioni, la correlazione tra i rapi di processi di industrializzazione e di sviluppo del Nord e l'a vanzamen- to molto più lento e contorto del Mezzogiorno sulla strada dell'espansione e della modernità. L'interdipendenz a con- traddittoria e squilibrata tra le due parti del pae se sarà la costànte fondamentale della storia dell'Italia unit a e del suo particolare modo di sviluppo. Noterà con acutezza, nel carcere fascista, Antonio Gramsci: "L'egemonia del Nord sarebbe stata "normal e" e storicamente benefica, se l'industrialismo avesse a vuto la ca- pacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per in- corporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sareb- be allora stata questa egemonia l'espressione di un a lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l'arret rato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta u na rivo- luzione economica di carattere nazionale (e di ampi ezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato tempo ranea- mente e funzionalmente regionale. Tutte le forze ec onomi- che sarebbero state stimolate e al contrasto sarebb e successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L'egemo nia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione storica necessària per un tempo inde termi- nato e quindi apparentemente "perpetua" per l'esist enza di una industria settentrionale." *5. Il meridionalismo di fìne secolo.. a) La polemica antirazzista di Colajanni e i Fasci siciliani. Verso la fine del secolo ebbe larga diffusione una tesi che legava l'inferiorità del Mezzogiorno ai particolari caratteri razziali che avrebbero contraddistinto le popolazio ni del Sud. Sostenitori di questa interpretazione in chiav e razzista della questione meridionale furono i rappresentanti della scuola antropologica (Lombroso, Ferri, Niceforo, Or ano, Sergi), ché a questa attività "scientifica" accompa gnavano anche una, più o meno, intensa milizia politica di tendenza socialista. In tal modo la convinzione di un Nord r azzial- mente superiore e di un Sud inferiore trovava largo seguito oltre che nella borghesia anche nel proletariato se ttentriona- le, contribuendo ad approfondire il fossato tra le forze lavo- ratrici del Nord e le masse contadine del Sud. Un a utorevole esponénte del socialismo padano, in fama quasi di a postolo

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nelle sue contrade, Prampolini, poteva cosi coniare l'infelice formula di un'Italia divisa tra "nordici e "sudici" . E in defi- nitiva, com'ebbe a denunciare in seguito Gramsci, " il parti- to socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale"; col risu ltato di rafforzare le basi ideologiche del dominio della bo rghesia settentrionale e di giustificare "scientificamente" lo sfrut- tamento delle masse contadine del Sud. Contro questa deleteria impostazione insorsero i pi ù rappresentativi esponenti della democrazia e del so ciali- smo meridionale. Esemplare rimane un passo di Salve mini che coglieva acutamente l'essenza del problema nel momen- to economico-sociale, e quindi nel rapporto di tipo colonia- le che tendeva quasi sempre ad instaurarsi tra zone di svilup- po industriale ed aree agricole all'interno di un o rganismo economico e politico unitario. "L'Italia meridional e è oggi di fronte all'Italia settentrionale, quello che era prima del 1859 il Lombardo-Veneto di fronte agli altri paesi dell'im- pero austriaco. L'Austria assorbiva imposte dall'It alia e le versava al di là delle Alpi; considerava il Lombard o-Veneto come il mercato naturale delle industrie boeme; con un sistema doganale ferreamente protezionista impediva lo sviluppo industriale dei domini italiani. E i Lomba rdi erano allora ritenuti fiacchi e privi di iniziativa, ed e ra ormai am- messo da tutti che il popolo lombardo era "nullo". Cristina Belgioioso pubblicava degli Studi su la storia di l ombardia, nei quali cercava di spiegare "il difetto di energi a nei Lom- bardi"; e gli scrittori d'oltralpe spiegavano le co ndizioni arretrate dell'Italia con l'inferiorità della razza . Non altri- menti oggi degli sciocconi camuffati da antropologi , vanno nel Sud, misurano un centinaio di nasi, contano le rughe dei polpastrelli delle dita destre, studiano le forme d ei coccigi e ne ricavano la inferiorità della razza meridionale di fronte alla settentrionale. La Lombardia, messa in condizi oni favo- revoli, ha fatto stupire il mondo per i suoi progre ssi; lo stes- so sarà del Mezzogiorno, appena le condizioni gener ali del paese si saranno cambiate in meglio". Primo fra tutti, Napoleone.Colajanni aveva rigettat o la tesi antropologica della razza come "causa unica" d ell'arre- tratezza meridionale, e nel saggio intitolato signi ficativa- mente Per la razza maledetta aveva indicato la real tà dello sfruttamento sociale che stava dietro l'apparenza " scientifi- ca" del razzismo antropologico. "Coloro che voglion o trovare un'elevata giustificazione al brigantaggio collettivo, cioè alla politica coloniale, parlano con grande si cumera delle razze inferiori e delle razze superiori, prop rio come i Rapagnetta d'Annunzio parlano dei superuomini, che han- no il diritto di vivere e scialare alle spalle del gregge vile dei lavoratori". Di formazione positivista, democratico di ascendenza mazziniana e cattaneiana, il deputato si ciliano fù deciso sostenitore del protezionismo, ritenuto e ssenziale per la trasformazione industriale del paese, che gl i appariva- in accesa polemica col de Viti de Marco - obiettivo centrale di sviluppo, quasi raggiunto nel primo decennio del secolo, periodo di "prodigioso risveglio economico". Unico meri- dionalista protezionista, Colajanni espresse posizi oni molto avanzate sul ruolo dello Stato e della spesa pubbli ca ai fini dell'accelerazione di un processo di sviluppo fonda to sulla espansione industriale. Sostenne posizioni molto aspre contro la politica d el

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governo e della corona in fondamentali momenti di s volta politica, come la crisi di fine secolo e la lotta d ei Fasci si- ciliani. Di questo vasto movimento contadino` Colaj anni fù tra i primi e i pochi a comprendere e a chiarire il pro- fondo carattere e significato sociale : "La prepote nza feuda- le, la iniquità sistematica in ogni momento ed in o gni lato della vita e della amministrazione comunale, che si esplica- no sotto l'egida delle autorità governative - prefe tti, delega- ti, carabinieri - spiegano più che sufficientemente come l'odio delle classi lavoratrici contro i galantuomi ni debba essere profondo e generale, e tanto più pericolosa la sua esplosione violenta in quanto che lungamente repres so e non attenuato da alcuno sfogo nelle vie legali, a l oro non consentito dalle stesse leggi, che del diritto elet torale hanno fatto un privilegio di alcune classi". I Fasci dei lavoratori, organizzati dal partito soc ialista siciliano sorto nel 1893, rappresentavano un vasto movi- mento di braccianti, mezzadri, piccòli proprietari di tùtte le provincie siciliane, scesi in lotta per il cresc ente disagio economico e sociale, aggravato dalla crisi agraria. Alle diffuse agitazioni - fondate sulla richiesta di nuo vi patti agrari, rivendicazioni demaniali, esproprio di lati fondi, sgravi fiscali e doganali, inchieste sulle amminist razioni comunali - il governo di Crispi rispose con lo stat o di as- sedio e la repressione militare che causò la morte, in vari scontri, di un centinaio di contadini. Seguiranno p oi il processo e le dure condanne dei dirigenti socialist i del movimento (Bosco, ¨Barbato, Verro, De Felice). E su llonda del timore della rivoluzione, accresciuto nella bor ghesia dai moti anarchici della Lunigiana, vennero le leggi ec cezionali che portarono tra l'altro, allo scioglimento del Pa rtito socialista dei lavoratori italiani. Peraltro il mov imento socialista diffuso nelle regioni settentrionali, a carattere largamente proletario e di connotati ancora forteme nte economicistici, non si era mostrato particolarmente aperto a comprendere i caratteri di classe della lotta dei contadini siciliani, liquidata per lo più come rivolta della fame e for- ma ricorrente e antica di jacquerie contadina. Tra i pochi che intesero il significato rivoluzionario della lo tta di classe espressa dalle masse contadine siciliane furono Ant onio Labriola e Anna Kuliscioff, come emerge dalla corri spon- denza con F. Engels, e Filippo Turati che afermò co n decisio- ne: "La guerra civile scoppiata in Sicilia è uno sc hietto fenomeno della lotta di classe da noi riconosciuta e predica- ; ta..... Guai, dunque, al partito socialista se, app artandosi in un criticismo sistematico e dottrinario quale si co nviene alla cattedra e, stando alla finestra in attesa della ev oluzionecompiuta, non saprà prendere per tempo il suo posto in mezzo ai ribelli dell'oggi - rivoluzionari di doman i". La fred- dezza e l'incomprensione dimostrata in questa occas ione dal proletariato settentrionale verso la lotta dei contadini siciliani va inquadrata peraltro nella generale str ategia del movimento socialista internazionale, in cui non si era anco- ra aperto il dibattito sulla questione agraria e le masse con- tadine erano ancora lontane dall'essere considerate un allea- to della classe operaia. Su questo terreno, anzi, i l partito socialista italiano avrebbe avviato presto, nella p ianura padana, i primi tentativi di alleanza con le masse brac- ciantili .

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b) Il liberismo di de Viti de Marco. "="= Antonio de Viti de Marco, grande proprietario pugli ese di vigneti e gelseti, economista di fede liberista e deputato radicale, fu tra i più tenaci avversari della polit ica protezio- nistica. La svolta del 1887 aveva ridotto, a suo gi udizio, il Mezzogiorno ad una sorta di 'mercato coloniale", cu i veniva aggravata o impedita sia la possibilità di v endere sul mercato internazionale i prodotti della sua agr icol- tura intensiva che di acquistare dall'estero manufa tti industriali a minor costo. Esponente di una scuola econo- mica - il liberismo - superata dagli svíluppi prote zionistici del sistema capitalistico, decisamente avviato sull a strada dell'imperialismo, de Viti de Marco legava in modo corretto l'avvio dell'industrializzazione italiana con la de finizione del ruolo subalterno attribuito, in questo determinato meccani- smo capitalistico, al Mezzogiorno. Ma lo studioso l iberista - come tutti gli esponenti di questa scuola, da Giret ti a Einau- di - si limitava a criticare l'intero processo di i ndustrializza- zione, condannato come "artificiale e "patologico" perchè non rispondeva ai canoni "classici del liberismo, c he non prevedeva alcun tipo d'intervento o sostituzione de llo Stato all'iniziativa dei privati. E finiva quindi per prospettare al Mezzogiorno e al - l'intero paese un futuro di solo sviluppo agricolo: una società fondata sull'esportazione di derrate agrico le e sull'importazione di manufatti industriali. Nella f errea realtà degli scambi internazionali si sarebbe tratt ato, in definitiva, di scegliere volontariamente la strada del sotto- sviluppo. Chiaramente eccessivo era quindi il decis o anti- industrialismo di de Viti, mentre appare poco fonda ta la proposta - comune a tutto il movimento antiprotezio ni- sta - di un blocco degli agricoltori esportatori e dei con- sumatori da sostituire al blocco degli industriali e degli operai del Nord, per invertire la direzione della p olitica economica italiana. E questo sia per il ruolo subal terno dei proprietari di colture pregiate - che nel Sud d e Viti avrebbe invano tentato di unificare al tempo del ri nnovo dei trattati commerciali, nei primi anni del secolo - sia, soprattutto, per la tendenza irreversibile del capi tale italia- no ad intraprendere la strada dell'industrializzazi one. Era, invece, opportuna la sottolineatura della stretta c onnessione tra l'avvio dell'espansione industriale al Nord e l 'aggrava- mento della condizione economico-sociale del Sud. Parziale e insufficiente appariva quindi la richies ta - comune a Fortunato e de Viti de Marco - di una nuov a politica commerciale e tributaria dello Stato itali ano per affrontare e modificare, in modo complessivo, le di fficoltà

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delle regioni meridionali. Ma certamente corretta a ppariva la considerazione unitaria della questione meridion ale come aspetto non casuale ma fondamentale della generale politica dello Stato unitario. "E', secondo me, un errore - avrebbe replicato de Viti al discorso programmatico del pre sidente Giolitti nel 1903 - di considerare il Mezzogiorno c ome un paese isolato, di considerare il problema meridiona le in se stesso, staccandolo dall'insieme della politica ita liana, perchè i mali del Mezzogiorno sono anzitutto il ris ultato della politica generale dello Stato; quindi non pos so ada-"- giarmi al facile concetto che questi mali vadano st udiati

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in se stessi, e che possano trovare adeguati rimedi in specifi- ci , regionali". Era la polemica, comune a tutto il fronte liberista contro la politica delle leggi speciali avviata nel nuovo secolo con una serie di provvedimenti, prima a favo re di Napoli e della Basilicata e poi di altre regioni ed aree meridionali. Si trattava per lo più di esecuzione d i opere pubbliche, con l'eccezione della legge per lo svilu ppo industriale di Napoli che per lo meno, produsse l'i mpian- to siderurgico tecnologicamente all'avanguardia, de ll'Ilva di Bagnoli. L'interpretazione politica del significato delle le ggi speciali per il Mezzogiorno fu comune a tutta l'ala militan- te del liberismo radicale e individuò il fine ultim o di questo parziale, seppur moderno, intervento dello Stato ri volto piuttosto al controllo politico e sociale dell'area meridio- nale che non ad un complessivo progetto di trasform azione strutturale. "Una legislazione speciale, diversific ata secondo le regioni, - avrebbe scritto de Viti de Marco - e fatta dal potere centrale e da questi regalata ed imposta a q uelle, è un raffinamento di arte politica per cui si conserv a l'ac- centramento antico e lo si rafforza aggiungendogli un sistema di leggi speciali, che suonano concessioni di favori o minacce di esclusioni, a singole regioni e a sing oli gruppi di interessi". c) L'industrialismo di Nitti. Francesco Saverio Nitti, svolse un'intensa e fecond a attività scientifica di ricerca" e di documentazion e sulla realtà economico-sociale del Mezzogiorno e sul rapp orto, giudicato essenziale, di questa realtà con l'orient amento della politica economica dello Stato italiano. Sull a base di una valutazione di matrice mercantilistica circa il valore economico della ricchezza in denaro accumulata nel perio- do borbonico, il professore di scienza delle finanz e po- neva quasi la nascita dell'arretratezza meridionale all'atto :dell'unificazione. Il giudizio positivo sul sistem a finanzia- : rio borbonico, fatto di leggere imposte ma di anc or più esigua spesa pubblica, faceva velo a Nitti, come gl i replica- va Fortunato, di cogliere la già definita arretrate zza econo- mica del paese, dimostrata proprio dalla gran quant ità di moneta che veniva conservata invece di essere inves tita in iniziative economiche, e cioè trasformata in capita le. Ma il centro della polemica nittiana era nel ribalt amento della tesi di un Settentrione attardato dal peso de l Sud e nell'affermazione del sacrificio del Mezzogiorno po sto a base dell'espansione del Nord. Dal 1860 ad oggi v i è stato un drenaggio continuo di capitali dal Sud al Nord, per opera della politica dello Stato"; e, dal 1887, il Mezzo- giorno "ha funzionato come una colonia di consumo e ha permesso lo svolgersi della grande industria del No rd". L'unificazione del debito pubblico; la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici; la collocazione di rend ita pub- blica; le imposte che gravavano più sulla terra che sulla ricchezza mobiliare e, con l'imposta sui fabbricati , colpi- vano addirittura le masse contadine dei grossi cent ri agrico- li del Sud; le forti spese militari localizzate nec essariamente al Nord per la difesa dei confini; e infine il prot ezionismo rappresentavano gli aspetti più noti di una politic a economi- ca dello Stato fondata sull'attribuzione alle regio ni meri- dionali di un carico tributario molto più consisten te della

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relativa quota di spesa pubblica. La dettagliata in dagine re- gionale del bilancio dello Stato consentiva all'acu to intellet- tuale lucano di documentare un giudizio da tempo co rrente nel Mezzogiorno: che, cioè, dall'unità si fosse det erminata

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un continuo 'drenaggio' di capitali meridionali ver so il Nord, attraverso la mediazione del bilancio dello S tato. La maggiore novità dell'acuta e vasta indagine scie ntifica di Nitti è nel ruolo centrale affidato all'industri a come mo- tore fondamentale della trasformazione e modernizza zione del paese intero e del Mezzogiorno. Esponente tra i più luci- di e conseguenti di una coerente linea di sviluppo produtti- vo fondato essenzialmente sull'industrializzazione, Nitti sa- rà tra i principali artefici del progetto di trasfo rmazione in- dustriale di Napoli, messo a punto con la legge spe ciale del 1904. L'obiettivo era particolarmente ambizioso, perchè t en- deva alla definizione di un preminente ruolo produt tivo della decaduta capitale e contemporaneamente alla m essa in moto di un meccanismo di trasformazione economic a e sociale del Sud, stimolato proprio dalla nuova funz ione propulsiva di Napoli industriale. In effetti l'indu strializza- zione napoletana favorita dalla legge speciale, red atta praticamente da Nitti, rappresentò un indubbio fatt o positivo con il grande impianto dell'Ilva e con la costi- tuzione della zona industriale orientale. Ma rimase par- ziale e limitata, e non riusci affatto a ribaltare il tradiziona- le rapporto tra l'ex-capitale e le province, che di questa parziale industrializzazione non risentirono effett o alcuno. Indagatore tra i più acuti della società meridional e - come avrebbe confermato nella Inchiesta parlamentar e sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabri a - Nitti si rivelava meno agguerrito nell'indicazione delle for ze sociali e dei programmi politici che potessero realizzare g li originali e moderni progetti di trasformazione economica ch'e ra per- fettamente in grado di elaborare per il paese, per il Mezzo- giorno, per Napoli. Si sarebbe cosi dimostrata ottimistica la sua convi nzione di una futura, progressiva espansione del processo d'indu- strializzazione all'area meridionale, ritenuta imma nente al carattere stesso dello sviluppo capitalistico. P iù reali- stico, al riguardo, appariva il giudizio espresso d a Arturo Labriola quando già appariva conclusa la fase inter na- zionale di alta congiuntura economica che aveva con sentito la rapida espansione dell'industria settentrionale e la molto limitata industrializzazione napoletana. "Oggi non si può più realizzare l'impossibile. Il grande centro prod uttore e commerciale è a Nord. Chi s'illudesse o di poterlo sposta- re o di poterlo emulare si proporrebbe un problema impos- sibile. Il vantaggio che ha sul mezzogiorno il sett entrione è ormai troppo grande.... Quando in un paese si è for mato un centro industriale le forze elementari e spontanee della economia tendono ad accrescerlo. Ed è oltrechè natu rale, anche estremamente utile." d) Il marxismo economicista di Ciccotti. Già sul finire del secolo, peraltro, Ettore Ciccott i, storico marxista e primo deputato socialista del Sud, comin ciava a porre la questione meridionale all'interno del proc esso di sviluppo capitalistico italiano. Richiamandosi a un famoso giudizio di Marx sulla Germania del suo tempo, lo s tudioso lucano fonda la sua acuta analisi della società mer idionale alla fine dell'Ottocento sulla considerazione che " il Mezzo- giorno, più che tutto il resto d'Italia soffre, a u n tèmpo, del- lo sviluppo delleconomia capitalistica e dell'insuf ficienza di questo sviluppo... Il Mezzogiorno ha le condizioni che l'eco-

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nomia capitalistica fa a` vinti nella lotta della c oncorrenza." L'economicismo diffuso tra i marxisti della Seconda Internazionale portava anche Ciccotti a privilegiar e lo sviluppo produttivo rispetto alle lotte sociali che , peraltro, d'accordo con gli orientamenti correnti allora nel movimen- to socialista internazionale, gli apparivano caratt eristiche del proletariato urbano e non delle masse contadine . La scarsa fiducia nella possibilità che una società arretra- ta potesse esprimere elevati livelli di lotta di cl asse conduce-

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va il socialista meridionale a condividere il giudi zio del ri- formismo turatiano che solo agli operai del Nord af fidava il compito di lottare per l'affermazione del socialism o nel paese. Nel Mezzogiorno erano dunque possibili solta nto battaglie democratiche contro la corruzione politic a e a favore dell'espansione produttiva, mentre la lotta di classe doveva attendere che fosse compiuto prima il ciclo dello sviluppo capitalistico: "Il suo destino perciò si d ecide, dove si combatte la grande battaglia pel socialismo, se anche le sue stesse condizioni gl'impediscono d'intenderlo e di cooperarvi" . La costante sottolineatura del ruolo delle forze pr odut- tive rispetto alla trasformazione dei rapporti soci ali di produzione - che emerge chiaramente da tutta l'atti vità politica svolta da Ciccotti come socialista e come meridio- nalista - spinge a considerare piuttosto meccanicis tica la pur significativa affermazione che "col tramonto dell'e ra ca- pitalistica scompariranno anche i caratteri degener ativi del Mezzogiorno". Ben oltre e più che la stretta dipend enza della questione meridionale dai caratteri assunti d allo sviluppo capitalistico italiano, Ciccotti sembra co sì ribadire una visione economicistica dello sviluppo storico e condi- videre, in sostanza, la teoria dell'inevitabile cro llo del siste- ma capitalistico, di cui il socialismo avrebbe assu nto la successione piuttosto per lo sviluppo estremo e pac ifico delle forze produttive che per una rottura rivoluzi onaria dei rapporti sociali. e) Salvemini tra socialismo e democrazia. Influenzato dalle letture storiche di Marx, pur fil trato nel corrente positivismo, Gaetano Salvemini elabora , negli ultimi anni dell'Ottocento, un'acuta analisi politi ca dei rap- porti sociali dominanti nelle regioni meridionali. Un pre- minente impegno politico e una matura capacità d'in dagi- ne sociale produrranno il quadro più preciso e orig inale delle relazioni tra le classi e delle forme del pot ere politico caratteristiche della società meridionale a cavallo del secolo. Decisa è l'individuazione delle differenze struttur ali tra il Nord e il Sud del paese, lucida la radiograf ia dei diversi ceti sociali, del loro ruolo, delle alleanz e attuali e delle possibili alleanze future per una trasforma zione socialista e democratica del Mezzogiorno e della so cietà italiana . Nel Meridione, scriveva" "è la struttura sociale se mifeu- dale, che è di fronte a quella borghese dell'Italia settentrio- nale un anacronismo; che mantiene il latifondo con tutte le sue disastrose conseguenze economiche morali, polit iche;,, che impedisce la formazione di una borghesia con id ee e intendimenti moderni; che permette solo la esistenz a di una nobiltà fondiaria ingorda, violenta, prepotente, as senteista;,, di una piccola borghesia affamata, desiderosa di im itare le classi superiori, assillata dai nuovi bisogni... e finalmente di un enorme proletariato, oppresso, disprezzato da tutti, privo di qualunque diritto, servo nella sostanza se non nella forma. Nelle cause di questa malattia non c'e ntrano nè il clima nè la razza; le cause sono esclusivamen te sociali". Nell'alleanza tra la classe dominante dei latifondi sti e la numerosa piccola borghesia fornita di diritti polit ici il so- cialista pugliese individua "la chiave di volta di tutta la vita pubblica meridionale". E nella iniziativa dell e masse

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contadine meridionali Salvemini indica, in questa f ase, l'elemento centrale per la trasformazione della soc ietà meridionale . A differenza di Ciccotti, che affidava questo compi to al proletariato industriale del Nord, il giovane Sa lvemini- anche sotto l'impressione dei fatti del '98 - indic a per la pri- ma volta nei contadini i protagonisti della questio ne meri- dionale, i necessari artefici del riscatto del Mezz ogiorno. Al blocco dominante della borghesia settentrionale e d ei lati-

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fondisti meridionali viene ora contrapposto un bloc co sociale di forze antagonistiche fondato sull'allean za del proletariato industriale del Nord e delle masse con tadine del Sud. Il Mezzogiorno quindi non è visto come una realtà unitaria da opporre in blocco al Settentrione, perc hè non esiste "un Sud astratto, come se la popolazione mer idio- nale sia un blocco omogeneo e compatto e come se tu tti i meridionali siano egualmente oppressi dall'attual e ordina- mento politico". Salvemini polemizza con la schemat ica contrapposizione nittiana tra Nord e Sud, e indica, coe- rentemente con le originarie premesse marxiste, nel la lotta di classe l'elemento decisivo per avviare a soluzione la questione meridionale, e nell'alleanza tra gli oper ai del Nord e i contadini del Sud il fulcro centrale di un rinn ovamen- to democratico dell'intero assetto - sociale, econo mico e politico - dello Stato italiano. ' Non vi è lotta f ra Nord e Sud: vi è lotta fra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e come i reazionari del Nord e del Sud si uniscono in sieme per opprimere le masse del Nord e del Sud cosi le m asse delle due sezioni nel nostro paese debbono unirsi p er sconfiggere a fuochi incrociati la reazione, sia es sa delin- quente con la camorra e con la mafia, sia ipocritam ente onesta con Colombo e con Negri". Ma questa prospettiva di un'alleanza del proletaria to ru- rale e dei piccoli coltivatori del Sud al fianco de lla classe operaia del Nord per il rinnovamento democratico de l paese non sarebbe stata raccolta dal Partito socialista i taliano. Proprio al principio del secolo il rapporto del PSI con il Mezzogiorno era espresso da Turati nella formula de lla "egemonia della parte più avanzata del paese sulla più arretrata, non per opprimerla, ma anzi per sollevar la e per emanciparla". Alla proposta salveminiana di stimola re e u- nificare la lotta di classe nel Nord e nel Sud, il riformismo settentrionale opponeva l'unificazione territoriale e politica degli interessi del capitale industriale e del prol etariato urbano. All'organizzazione della lotta di classe qu al era espressa dalle diverse condizioni del paese si sost ituiva quel- lo che Gramsci avrebbe definito "il bloccó industri ale capitalistico-operaio", che bene si inseriva nel pr ocesso di sviluppo dell'area settentrionale, ma non rispon deva ad un disegno di trasformazione economica e di rinn ova- mento sociale che giungesse a toccare tutto il paes e. Nel nuovo secolo s'accresce, in Salvemini, l'influe nza del pensiero di Cattaneo e si definiscono cosi le b atta- glie democratiche per un ordinamento federalistico dello Stato, per la tutela della piccola proprietà coltiv atrice, per il suffragio universale rivolto soprattutto all e masse contadine. Man mano che si allenteranno i legami co l Parti- to socialista aumenterà pure l'influsso delle teori e élitisti- che elaborate da Gaetano Mosca. All'iniziativa dell e masse si sostituirà così l'azione delle minoranze dirigen ti e degli intellettuali illuminati. Abbandonato il movimento socialista, Salvemini fond a, alla fine del 1911, una rivista L'Unità--che saràes pres- sione di un cospicuo gruppo di intellettuali libera li e radica- li - da Fortunato a de Viti de Marco, da Einaudi ai Mondol- fo - uniti dalla comune fede liberista, da un acces o anti-

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giolittismo e da un profondo interesse per i proble mi della agricoltura meridionale. E' l'approdo al 'problemismo' e al 'concretismo' e l'av- vio di un'importante opera di riflessione e analisi della so- cietà meridionale. Proprio quando i contadini merid ionali ottenevano il voto dal governo dell'aborrito Giolit ti, lo storico pugliese, ch'era stato il primo a porre in termi- ni nettamente politici il problema della trasformaz ione del Mezzogiorno, riaffidava agli esperti e ai grand i intellet- tuali il compito di approfondire la conoscenza dell a società meridionale e di elaborare concrete proposte d'inte rvento. *6. Il Sud tra disgregazione e trasformazione. Il Mezzogiorno, all'aprirsi del Novecento, ci appar e nelle forme secche e precise del quadro sociale rap idamente schizzato da Gramsci, poco prima d'entrare nel carc ere fascista. "Il Mezzogiorno può essere definito una g rande disgregazione sociale. La società meridionale è un grande

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blocco agrario costituito di tre strati sociali: la grande mas- sa contadina amorfa e disgregata, gli intellettuali della pic- cola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali s ono in perpetuo fermento, ma come massa essi sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspira zioni e ai loro bisogni. Lo strato medio degli intellettual i rice- ve dalla base contadina le impulsioni per la sua at tività po- litica e ideologica. I grandi proprietari nel campo politico e i grandi intellettuali nel campo ideologico centr alizzano e dominano, in ultima analisi, tutto questo comples so di manifestazioni" . Si tratta. com è chiaro, d una schematizzazione per gran- di linee, che va approfondita e articolata al suo i nterno. Ma non c'è dubbio che costituisce un'acuta fotograf ia d'una situazione sociale che, pur attraverso signif icative mo- dificazioni, si prolunga sostanzialmente per tutto l'itine- rario del regno d'Italia, fino alla catastrofe del paese e della monarchia nella seconda guerra mondiale. Fondamento e pilastro del blocco agrario era il lat ifondo cerealicolo-pastorale. La coltivazione estensiva de l grano e l'allevamento specialmente bovino erano diffusi n elle pianure, spesso ancora malariche, dove s'andava est endendo l'azienda capitalistica, definita dalla presenza di una forza- lavoro salariata piuttosto che dalla ridotta quota di capitali investiti nel miglioramento delle colture. E domina va, il la- tifondo, nella vasta area interna e collinare, per tutta la dor- sale appenninica, dove l'azienda cedeva il posto ai più vari rapporti precari tra proprietari e contadini. Carat teristica del Meridione era la diffusione delle forme estreme di pos- sesso: la grande proprietà e la polverizzazione dei minimi appezzamenti, che produceva un'ulteriore caratteris tica, la diffusione delle figure miste legate da moltepli ci rapporti con la terra di tipo largamente precario. Il contad ino meri- dionale era cosi spesso, contemporaneamente, piccol issimo proprietario e salariato, affittuario e compartecip ante. Indubbiamente la cerealicoltura estensiva e l'allev amento ovino costituivano un sistema funzionale di utilizz azione del suolo in un ambiente dominato, per un lungo per iodo estivo, dalla siccità che bloccava la vegetazione e dalla mala- ria che ostacolava il lavoro. Questo sistema rispon deva an- che alle esigenze di un mercato in cui oscillavano continua- mente i prezzi dei cereali e i prezzi dei prodotti dell'alle- vamento (lana e formaggi), per cui la primitività d i questa organizzazione, priva di grossi investimenti, conse ntiva un rapido spostamento d'interesse dall'una all'altra p roduzio- ne . Ma non era nelle avversità naturali che andava cerc ato il motivo della permanenza di tale sistema, bensí n ella convenienza economica che ne derivava alla propriet à fondiaria. "Se il latifondo interno - sottolineava Manlio Rossi-Doria ancora nel 1944 - non si trasforma, lo si deve principalmente al fatto che il vigente sistema di r apporti rende non conveniente qualsiasi investimento, quals iasi trasformazione. La difficoltà delle condizioni natu rali riduce, certo, i limiti di convenienza della trasfo rmazione, ma chi li annulla del tutto e costringe alla immobi lità, è il fatto che la proprietà fondiaria, con l'attuale sistema di rapporti, è in grado di ricavar rendite superiori a quelle che si otterrebbero con qualsiasi altro sistema di cond uzione

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dei terreni". Questo primitivo ordinamento colturale era quindi f un- zionale ad una determinata struttura dei rapporti d i proprie- tà e di produzione. Economia latifondistica e rappo rti sociali arretrati andavano di pari passo. La scelta proprieta- ria della rendita piuttosto che del profitto aveva pure una sua convenienza, che risultava però frenante riguar do alla sperimentazione di più moderne forme produttive e p iù aggiornati rapporti di classe. Come riconosceva, già al principio del secolo, il g eografo Maranelli "la granicoltura estensiva resiste per ra gioni demo- grafiche e economiche soprattutto, che determinano il tornaconto a mantenerla; ma da questo all'asserire che l'im- ponga la natura- ci corre lo stesso abisso che c'è tra il torna- conto del latifondista a mantenerla e quello della società a cercare di distruggerla". Il blocco dell'arretratezza meridionale correva lun go la dorsale appenninica e permeava intere regioni gli A bruzzi e Molise, la Basilicata, la Calabria penetrando lar gamente in altre, come la Campania. Ma già al principio del Novecen- to il Mezzogiorno non si presentava come unica real tà in- differenziata, tutta segnata dall'arretratezza e da lla primiti- vità. L'inserimento nel mercato capitalistico nazio nale e i rapporti di scambio mantenuti, fra alterne vice nde a livello internazionale definivano per molte zone un a si- tuazione economica che sarebbe fuorviante ritenere immo- bile e stagnante. La diversa incidenza dello svilup po capitali- stico e del mercato mondiale metteva in evidenza le tra- sformazioni indotte in determinate aree regionali, caratte- rizzate da prevalenti forme di sviluppo o da uno st retto intreccio di sviluppo e sottosviluppo capitalistico . Il più ampio processo di trasformazione capitalisti ca dell'agricoltura meridionale si era determinato, pr oprio al principio del secolo, nell'area pugliese compresa f ra il Tavoliere foggiano, l'area interna della Terra di B ari e il circondario di Taranto. S'era qui diffusa la grande azienda granifera - gestita dall'imprenditore capitalistico nella forma diretta del proprietario oppure del fittavolo che veniva ad affiancarsi al più antico processo di col tivazione intensiva di vite, olivo e altre colture pregiate d iffuso lungo tutta la fascia costiera che dalla Terra di Bari gi ungeva fino alla punta della Terra d'Otranto. Era questa un'area tra le più progredite dell'agric oltura meridionale, ma le condizioni materiali di vita del le masse contadine non erano qui più felici che nelle zone a rretrate e permanevano a livelli bassissimi, com'era ampiame nte documentato dall'Inchiesta parlamentare sulle condi zioni dei contadini nelle province meridionali del 1909. "Il con- tadino fa in genere tre pasti al giorno: mangia una parte del pane la mattina quando è giunto sul lavoro; un' altra parte la mangia verso il mezzogiorno: la sera, quan do si ritira a casa, mangia una minestra di legumi, di re gola di fave o di piselli secchi, condita con pochissimo ol io". Caratteristica dell'area pugliese, per la diffusion e dell'á- zienda capitalistica, era l'accelerato processo di polarizza- zione sociale che vedeva la popolazione addetta all 'agricol- tura composta per tre quarti di braccianti. La conc entra- zione di oltre trecentomila salariati maschi poneva questa regione all'avanguardia della lotta di classe nelle campagne del Sud.

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Le leghe contadine del Foggiano e del Barese avrebb ero organizzato, nel primo quindicennio del secolo, dec ine di migliaia di lavoratori. Gli scioperi agrari del 1901-1902, del 1907-1908, del 1912-1913 rappresentano l'espres sione più elevata del malessere delle masse contadine del Sud, in vario modo escluse dagli accenni di liberalizzazion e della politica nazionale. La forma dura delle lotte agrar ie pugliesi, più che corrispondere a una presunta primitività po litica delle masse braccianti e dei loro intransigenti org anizzatori sindacali, era la naturale risposta al pesante domi nio eserci- tato dalla gretta classe degli agrari pugliesi con il diretto sostegno dell'esercito, dislocato con forti conting enti nelle aree 'calde per garantire un controllo social e che non si era in grado di assicurare altrimenti. Sviluppo e sottosviluppo erano presenti nella Campa nia delle disgregate zone interne tra il Sannio e il Ci lento e della progredita area costiera, tra Pozzuoli e Salerno. D appertut- to possesso polverizzato e diffusione delle figure miste; grano e pascolo nell'interno, giardini, orti irrigu i e semi- nativi arborati lungo la costa. Le grandi tenute de i proprie- tari assenteisti, con l'allevamento dei bufali, si stendevano nelle pianure ancora malariche ai confini settentri onale e meridionale dell'area più fertile. Caratteristica della Campania era la consistente pr esen- za industriale accentuata dagli effetti, pur parzia li, della legge speciale del 1904. Grandi aziende metalmeccan iche occupavano a Napoli decine di migliaia di operai, m entre il Salernitano era il centro di un'importante e dif fusa pro- duzione tessile e Torre Annunziata rimaneva la capi tale dell'arte bianca con oltre sessanta mulini e pastif ici. Per- maneva peraltro nella regione, e nel suo capoluogo, la profonda contraddizione tra un parziale, concentrat o sviluppo economico e l'insufficienza e la debolezza del quadro complessivo delle strutture produttive. Arretratezza e sviluppo, disgregazione e organizzaz ione si toccano continuamente in un groviglio difficilme nte districabile. Un forte impulso alla modernizzazione della struttura e dei valori sociali viene in questi anni dell'or- ganizzazione e dalle lotte del movimento operaio. P ur con forti limiti corporativi e debolezze politiche, le lotte espresse dai metalmeccanici, tessili, pastai, addet ti ai ser- VIZI pubblici costituiranno adeguate risposte di cl asse a forme tra le più avanzate del capitale industriale e finanzia- rio italiano Tra parziali vittorie e gravi sconfitt e il movi- mento operaio campano conoscerà, nel primo quindice nnio del secolo, un consistente sviluppo, che troverà es pressione nazionale in dirigenti come Labriola e Longobardi e poi Bordiga; così come il movimento bracciantile puglie se esprimerà un organizzatore sindacale della statura di Giu- seppe Di Vittorio. Con l'aprirsi del nuovo secolo anche la Sicilia mos tra una rinnovata capacità d'espansione economica in rappor to con le crescenti richieste di colture pregiate provenie nti dal mercato internazionale. La favorevole congiuntura i nter- nazionale favorisce una riorganizzazione delle stru tture commerciali e un'espansione del settore terziario i nsieme ad una rapida crescita urbana. Questa fase di notevole dinami- cità economica e sociale non giunge però a modifica re i caratteri strutturali di un'economia largamente arr etrata e non riesce a superare, nel lungo periodo, la comple ssiva con-

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dizione di disgregazione della società siciliana. Si definiva comunque un tentativo di razionalizzazi one capitalistica con velleità modernizzatrici egemoniz zato dal capitale finanziario rappresentato da Florio, con l a sua rete di imprese industriali, commerciali, agrarie e banc arie. Ari- stocratici e socialriformisti, finanzieri e produtt ori di zolfo confluiranno su un programma di sviluppo agricolo che si fondava su una piattaforma regionalista di tipo int erclas- sista e puntava alla costituzione di un forte parti to agrario di orientamento riformista, con una ideologia sicil ianista difensiva e conservatrice. La guerra, arrestando la favorevole congiuntura internazionale, interromperà questo pur lento processo di ammodernamento della società siciliana, ponen- do di nuovo in risalto la fragilità e la contraddit torietà della struttura economica isolana. Queste forme di espansione inserivano quindi, in va rio modo, diverse aree meridionali nel ciclo favorevole della congiuntura economica avviata sul finire del secolo , sul pia- no internazionale e, quindi, nazionale. Erano, comu nque, situazioni limitate e internamente contraddittorie che non riuscivano a rompere il quadro complessivo di destr uttura- zione economica e disgregazione sociale che ancora forniva il Mezzogiorno considerato nella sua pur variegata interezza. Come rimaneva complessivamente fuori dal processo d i rapida espansione capitalistica che favoriva lo svi luppo del- l'industria settentrionale, così il Mezzogiorno era escluso dalla politica liberale espressa dai governi giolit tiani. Verso il Sud non si espandeva beneficamente né lo svilupp o capi- talistico, né la politica liberale. La tutela dei d iritti dei la- voratori, la libertà di sciopero non era garantita dai governi liberali nei confini del Sud, perchè qui vigeva la legge del dominio repressivo assicurato alla proprietà terrie ra dal suo inserimento subalterno nel blocco di potere statual e che di- rigeva al Nord e dominava al Sud la società italian a. Pur con qualche tono di accentuato liberismo, Grams ci avrebbe colto acutamente il carattere parziale del riformi- smo giolittiano e il ruolo dipendente assegnato al Meridione in questa fase di accentuata espansione capitalisti ca. "Il programma Giolitti o dei liberali democratici è que sto: - creare nel Nord un blocco 'urbano (capitalisti-oper ai) che dia la base allo stato protezionista per raffor zare l'in- dustria settentrionale, cui il Mezzogiorno è mercat o di ven- dita semicoloniale; il Mezzogiorno è 'curato con du e si- stemi (di misura): Il sistema poliziesco (repressio ne impla- cabile di ogni movimento di massa, stragi periodich e di con- tadini); nella commemorazione di Giolitti 'Spectato r' della "Nuova Antologia' si maraviglia che Giolitti si sia sempre strenuamente opposto ad ogni diffusione del sociali smo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poi chè un protezionismo operaio (riformismo, cooperative lavo ri pubblici) è solo possibile se parziale, cioè perchè ogni pri- vilegio presuppone dei sacrificati: misure politich e: favori personali al ceto dei paglietti o pennaioli (impieg hi pubbli- ci, permesso di saccheggio delle pubbliche amminist razioni, legislazione ecclesiastica meno rigida che nel Nord ecc. ecc.), cioè incorporamento a 'titolo personale' deg li elemen- ti più attivi meridionali nelle classi dirigenti, c on particolari privilegi 'giudiziari', impiegatizi ecc., in modo c he lo strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento merid ionale

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diventava uno strumento della politica settentriona le, un suo accessorio 'poliziesco' ..." La risposta delle masse contadine e operaie meridio nali a questa collocazione ai margini dello sviluppo e fuo ri delle garanzie liberali fu la lotta aspra e dura nelle co ncentrazioni bracciantili pugliesi e nelle avanzate fabbriche ca mpane, sotto la direzione di sindacalisti rivoluzionari ch e non pote- vano che rifiutare la logica del riformismo padano e pratica- re il basilare postulato marxiano della lotta di cl asse. Ancora più drammatica fu la risposta delle popolazi oni contadine della vastissima area interna, destruttur ata e di- sgregata. Da tutte le regioni meridionali, in conne ssione con la crescente richiesta di forza - lavoro provenient e dal mer- cato internazionale, si mise in moto un processo di esodo in massa che, al principio del secolo. assunse dimensi oni bibli- che. Nel periodo giolittiano, definito pure della "rivol uzione industriale" italiana, si contarono, ufficialmente, dal Mezzo- giorno oltre quattro milioni di espatri: più di due milioni dalle 'progredite' Sicilia e Campania, oltre 600000 ciascuna dagli Abruzzi e Molise e dalla Calabria, più di 200 000 dalla già spopolata Basilicata, che si ritrovava a mezzo secolo dal- l'unità con una popolazione ridotta del 5%, mentre quella italiana era cresciuta del 40% . Gravi conseguenze sulla struttura demografica delle province meridionali de rivavano dalla partenza in massa di giovani e uomini maturi, che ri- spondevano alla pressante domanda di manodopera non qualificata che veniva dagli Stati Uniti impegnati nella creazione di imponenti opere infrastrutturali. Questa forte emigrazione era vista con favore dalla parte più avanzata della classe dirigente liberale, mentr e precisi limiti avrebbero voluto porre gli agrari che si ved evano le campagne spopolate della tradizionale manodopera ec ce- dente e a buon mercato. E certamente l'esodo signif icava anche la fuga da uno sfruttamento bestiale, la rott ura di un circolo di abbrutimento che stringeva da secoli le masse contadine meridionali nella miseria economica e nel totale analfabetismo . Il popolo va risolvendo il problema da sè. - scrive va Nitti nella sua Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilica- ta e in Calabria - Seguendo l'istinto di conservazi one e di sviluppo, che le grandi masse hanno da natura, ha t rovato la soluzione a portata di mano con l'andarsene.... Gli effetti dell'emigrazione sulla condizione dei contadini res tati in paese sono estremamente benefici. Non vi è stato bi sogno di propaganda socialista per migliorare la condizio ne dei rimasti - è bastata l'emigrazione. I salari sono cr esciuti, i contratti agrari migliorati". Ma era questo un giudizio ottimistico, fondato sull a convinzione che lo sfollamento di una popolazione e cce- dente, l'emigrazione come "valvola di sfogo" delle tensioni sociali avrebbe preparato un successivo processo di sviluppo che, sulla base di un più equilibrato rapporto tra popolazio- ne e risorse, si sarebbe diffuso presto nel Mezzogi orno eliminando il crescente divario tra le due parti de l paese e riequilibrando così il sistema capitalistico italia no. In effetti però l'emigrazione meridionale, invece c he preparare la trasformazione della struttura economi ca e sociale del Sud e l'avvento di una espansione capit alistica

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equilibrata, veniva utilizzata come supporto fondam entale a sostegno del distorto meccanismo economico nazion ale e finiva per diventare una sorta di arma segreta de l partico- lare modo italiano di produzione capitalistico. Così nella grave crisi del 1907 le rimesse degli em igrati costituirono la base monetaria essenziale con cui i l sistema finanziario italiano risolse le pesanti difficoltà e incrementò l'ulteriore espansione dell'apparato industriale se ttentriona- le. "Si può ben dire - ha concluso recentemente Fra nco Bonelli - che l'altra Italia, quella agricola e que lla degli "emigrati", quasi non si accorse di quello che stav a suc- cedendo, ma dalla crisi essa fu coinvolta nella mis ura in cui aveva fornito al sistema bancario i mezzi che allor a serviro- no a sbloccare la situazione di "impasse" in cui s' era caccia- ta la gestione bancaria del "triangolo" industriale . Una crisi come quella del 1907 rappresenta l'occasione storic a in cui si consolidano le basi raggiunte da uno sviluppo ch e verrà definito, in tempi più recenti, di tipo dualistico" . *7. Leggi speciali, guerra e dopoguerra.. L'intervento dello Stato per le regioni meridionali , du- rante l'alta congiuntura dei primi anni del secolo, ebbe la forma abbastanza originale della legislazione speci ale, che rompeva con la rigida tradizione 'unitaria della no rmativa fino allora adottata. Il dibattito parlamentare sul la questio- ne meridionale provocato nel 1901 dall'inchiesta Sa redo portava alla formazione di una 'Reale commissione p er l'incremento industriale di Napoli. Le proposte di amplia- mentO dei grandi impianti di base, mutuate dalle in dagini nittiane sarebbero rifluite nella legge speciale de l 1904, che ottenne alcuni concreti risultati, pur tra precisi limiti di espansione e diffusione. Dal viaggio del presidente Zanardelli in Basilicata nel 1902, scaturí, due anni dopo, una legge speciale an che per questa regione, ch'ebbe il triste privilegio di non essere nemmeno votata dal maggiore meridionalista lucano, il Fortunato, e il dubbio successo di essere poi estes a, nei suoi vari e sconnessi provvedimenti di sostegno all 'agri- coltura, ad altre regioni del Sud mediante leggi su cces- sive, sempre speciali. Carattere generale per l'intero Mezzogiorno, contin en- tale e insulare, ebbe invece l'Inchiesta parlamenta re sulle condizioni dei contadini, che però rimase, nei casi migliori, un'acuta indagine delle strutture socio-economiche e non condusse affatto a quei provvedimenti generali per la trasformazione della società meridionale per cui er a stata dal Parlamento voluta. La legislazione speciale non ebbe, sul momento, gra nde efficacia. Ma restano tutti da approfondire - sulla scorta di recenti, stimolanti indicazioni - i risultati e le prospet- tive maturate per il Mezzogiorno a cavallo degli an ni Venti nell'incontro tra competenze tecniche, iniziative i ndustriali e posizione politiche nittiane e socialriformiste, su una linea di modernizzazione produttivistica che giungerà fin o ai tentativi di Serpieri, scomparendo nella crisi degl i anni Trenta . Il Mezzogiorno si presenta, comunque al drammatico appuntamento con la guerra mondiale con un ritmo di sviluppo complessivamente lento e un divario con la parte settentrionale del paese che si va sempre più accen tuando. L'accelerata fase di espansione capitalistica rende sempre

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più distante la progressione aritmetica del Sud ris petto alla progressione geometrica del Nord. E la guerra rappresenta un elemento fondamentale di stimolo all'ulteriore crescita della distanza fra N ord e Sud. Le pressanti esigenze belliche dello Stato determin ano un'accelerata espansione dell'industria pesante loc alizzata ; quasi interamente nel Settentrione d'Italia. La g uerra ali- menta quindi un flusso ininterrotto di trasferiment o della ricchezza del paese sulla direttrice Sud-Nord, attr averso l'utilizzazione del risparmio accumulato al Sud per finan- ziare le industrie del Nord. Anche la crisi del dopoguerra ebbe conseguenze part i- colarmente pesanti al Sud dove l'inflazione giocò a sfavore della ragione di scambio tra manufatti settentriona li e derra- te meridionali e, soprattutto, fece volatilizzare i l capitale monetario dei piccoli risparmiatori depositato nei mille uffici postali del Sud. Naturalmente, la grave cris i di ricon- versione che investì la grande industria bellica se ttentrionale impedì che si potesse, in questi drammatici anni, n emmeno porre il problema di rilanciare lo sviluppo del Mez zogiorno per superare il divario tra le due parti del paese. A Napoli, intanto, chiudevano i battenti le grandi fabbriche metalmec- caniche che s'erano giovate anch'esse degli impegni bellici: l'Ilva di Bagnoli, l'Armstrong di Pozzuoli, l'arsen ale di Napoli. Il conflitto mondiale mise in crisi definitivamente la struttura "liberale" dello Stato italiano cui non e ra ancora riuscito di fondare il potere politico sul consenso delle grandi masse popolari. Agli scioperi urbani contro l'inflazio- ne e il carovita si accompagnarono, nel primo dopog uerra, estesi movimenti di occupazione delle terre. "La te rra ai contadini" era diventata, negli anni di guerra, una ricorrente promessa governativa, motivata dalle difficoltà mil itari, corrispondente alla tradizionale domanda delle mass e ru- rali, ma nient'affatto gradita ai proprietari terri eri. L'ema- nazione, nel 1919, del decreto Visocchi, che consen tiva a cooperative di contadini poveri di occupare le terr e incol- te e mal coltivate della proprietà latifondistica, rappresentò in questo senso il momento di maggiore impegno dell o Stato, del tutto insufficiente peraltro ad avviare un processo di profonda trasformazione dell'ordinamento fondiar io, se non nel senso di un primo impulso alla formazione d i una piccola proprietà coltivatrice. *8. I nuovi programmi di Sturzo, Dorso, Gramsci.. L'impegno meridionalista di Luigi Sturzo culminò ne lla costante lotta contro il latifondo assenteista per la diffu- sione della piccola proprietà coltivatrice. Partico larmente viva era l'attenzione verso "quel ceto medio econom ico, che è molto limitato nel mezzogiorno, e che è uno d ei tessuti più solidi della società". Obiettivo primar io era la costituzione e il rafforzamento di ampi strati inte rmedi nelle campagne, che, dotati di una precisa fisionom ia econo- mica e organizzati in formazioni politiche democrat iche, operassero per il rinnovamento delle strutture econ omiche e dei rapporti politici nella società meridionale. Il progetto riformistico di Sturzo non si fermava a lla frantumazione del latifondo, ma individuava la nece ssità di porre contemporaneamente le condizioni per un ri n- novamento produttivo: "Il problema del latifondo de l Mezzogiorno e della Sicilia è problema di bonifiche : via-

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bilità a larga base, viabilità razionale; e insieme alla viabi- lità sistemazione dei corsi d'acqua delle pendici e dei baci- ni montani. La lotta contro la malaria e la lotta c ontro l'abigeato non avranno che scarsi risultati, se non si affron- ta sul serio il problema della viabilità e delle bo nifiche". La forte polemica sturziana contro il trasformismo della classe politica liberale e il centralismo burocrati co dello Sta- to unitario - espressione in lui dell'intreccio tra la matrice cattolica e la formazione liberista - s'indirizzava quindi verso le richieste del sistema elettorale proporzio nale, per abbattere specie nel Sud il prepotere dei notabili, e verso forme di autonomia regionale, che riducessero l'onn ipresen- za di uno Stato attraverso cui si era realizzato lo "sfrutta- mento" del Sud da parte del Nord. Per il Mezzogiorno Sturzo pensava ad un avvenire fo n- dato tutto sullo sviluppo dell'agricoltura e sulla sola indu- stria di trasformazione dei prodotti agricoli, con lo sguardo rivolto al Mediterraneo e ai paesi d'oltremare. Sul la scia di Franchetti, un limitato colonialismo di popolame nto era ben visto dal sacerdote siciliano, che mostrava così chiaramente i limiti tutto sommato pre-capitalistic i e anti-industrialisti del suo meridionalismo. Questo impegno si svolgeva peraltro nel caldo di un a battaglia che il principale artefice dell'organizza zione dei cattolici in partito politico combatteva contempora neamen- te contro lo Stato liberale e contro il movimento s ocialista che organizzava il proletariato urbano e le masse b raccian- tili delle campagne. Ma di fronte al dilagare della reazione squadrista, al ri- formismo popolare toccò una sconfitta non meno dura di quella inferta alle organizzazioni socialiste. Come è vero, pertanto, che la fondazione del Partito Popolare ra ppresen- ta - con l'inserimento politico, pieno e autonomo, delle masse cattoliche nello Stato nazionale - l'avvenime nto più importante della storia italiana del '900; cosí, pe r il ruolo essenziale svolto in un decisivo momento di crisi s ociale e politica, nel senso dell'organizzazione su posizion i conser- vatrici di larghi strati contadini, sembra ancora v alido l'acu- to giudizio di Tasca, per il quale "nella misura in cui un pericolo bolscevico è esistito in Italia, è il part ito popolare che lo ha stornato". Guido Dorso esprime, nella forma più radicale, il d isagio e l'esigenza di trasformazione dei più consapevoli intellet- tuali dell'area più arretrata del Mezzogiorno, domi nata da una retriva borghesia terriera e da stagnanti rappo rti sociali in un panorama segnato da bassissimi livelli di svi luppo produttivo . Costante bersaglio polemico è il "trasformismo" del lo Stato italiano, in quanto dominato dal blocco di po tere industriale-agrario, che assorbe costantemente le f orze potenzialmente antagonistiche e fa pagare il parzia le svilup- po del Nord alle masse contadine meridionali con l' immo- bilismo economico e sociale del Sud. All'individuazione delle precise radici di classe d ell'ar- retratezza meridionale, l'intellettuale avellinese accompagna quindi la più dura polemica contro lo Stato unitari o, contro la "conquista regia" che bloccò al Sud il necessari o processo di trasformazione sociale" frenò la maturazione pol itica del- le masse popolari, innanzitutto contadine, impedi i n defini- tiva quel processo rivoluzionario che, solo, avrebb e potuto

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aprire al paese e al Mezzogiorno una reale prospett iva di rinnovamento negli orientamenti "ideali" ancor prim a che nell'organizzazione dei rapporti sociali. La soluzi one è vista quindi in una "rivoluzione liberale", di gobe ttiana ispirazione, che proprio nel Mezzogiorno ritrovava i prota- gonisti. Nelle campagne del Sud infatti erano prese nti quelle forze che non avevano partecipato alla lunga politica nazionale di compromessi trasformistici e che Dorso indi- cava nel ceto medio di piccoli capitalisti espressi dall'emi- grazione, nei coltivatori, commercianti ed esportat ori sorti "attraverso le grandi trasformazioni economic he della guerra" e quindi nella "classe dei contadini, dei m ezzadri, dei fittavoli, dei braccianti". La "conquista ordin ata e co- sciente dello Stato da parte dei produttori", una " lotta politica nel senso liberale della parola" era quind i l'obiet- tivo e il significato della "rivoluzione meridional e". Era questa per Dorso, proprio negli anni in cui la cris i dello Stato liberale apriva la strada alla costituzione d el regime fascista, la sostanza della necessaria "rivoluzione italiana". "La questione italiana è, dunque, la questione meri dionale, e la rivoluzione italiana sarà la rivoluzione merid ionale.... La rivoluzione italiana sarà meridionale o non sarà ". Nella relazione presentata al convegno azionista di Bari del 1944, il Dorso approfondiva, anche sulla scorta delle note gramsciane sulla questione meridionale, il ruo lo degli intellettuali come elemento propulsivo per lo scardi- namento del blocco agrario meridionale, messo in cr isi dalla guerra e dalla sconfitta e dalle gravi diffic oltà del regime monarchico. La "borghesia umanistica" del Me zzo- giorno era così recuperata da Dorso a un ruolo diri gente di progresso e trasformazione sociale, che superava la radicale sfiducia salveminiana nella "piccola borghesia inte llettuale" del Sud. Dorso, quindi, indicava nella borghesia um anistica, finalmente liberata dalla soggezione alla proprietà terriera, la nuova classe dirigente meridionale, pur mentre i ndividua- va nelle masse operaie e contadine "le vere forze r ivoluzio- narie del paese". Classe dirigente e forze rivoluzionarie sono così d istinte. Rimane irrisolto il problema del loro rapporto e la contrad- dizione porta Dorso all'illusione che bastino "cent o uomini d'acciaio" per trasformare radicalmente la società meridio- nale, che basti per il Sud profittare della "occasi one stori- ca" fornita dalla crisi dello Stato nel crollo del regime fasci- sta. All'individuazione delle forze trainanti di una riv oluzio- ne democratica di preminente carattere meridionalis ta non seguirà in Dorso l'approfondimento e il chiarimento dei ter- mini in cui si sarebbe realizzato l'incontro teoric o e pratico tra intellettuali e masse. Dopo il riconoscimento g ramsciano di aver posto "la questioné meridionale su un terre no diver- so da quello tradizionale, introducendovi il prolet ariato del Nord", Dorso andrà accentuando e sostanzialmente is olan- do il ruolo delle élites dirigenti, seguendo anche in ciò un percorso simile a quello salveminiano. "Se il Mezzo giorno, in un supremo sforzo creativo, organizzerà questa m inu- scola élite senza paura e senza pietà, la lotta pot rà essere lunga, ma l'esito non sarà dubbio perchè tutta la s toria italiana non è altro che il capolavoro di piccoli n uclei che hanno sempre pensato e agito per le folli assenti". Antonio Gramsci porrà il Mezzogiorno al centro dell a

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sua rifilessione storico-politica per la trasformaz ione sociali- sta della società italiana. Una strategia che si pr oponeva l'instaurazione di nuovi rapporti sociali non potev a che "guardare al Mezzogiorno quale massima contraddizio ne dello sviluppo capitalistico italiano e quindi come nuovo centro di prospettiva per la formazione di un "bloc co storico" alternativo che affidasse la direzione del lo Stato al proletariato urbano del Nord e alle masse contad ine del Sud. Al pensiero gramsciano non è estranea in princ ipio, negli anni intorno alla guerra, l'infiluenza delle posizioni liberistiche e salveminiane, da cui deriverà innanz itutto la convinzione dello "sfruttamento coloniale" del S ud da parte del Nord. Questo sfruttamento è liberato p erò da ogni connotato moralistico, non è certo attribui to ad errori o a deviazioni da una presunta ordinata orga nizza- zione economica di tipo liberistico, ma, in un ambi to di interpretazione marxista, è riportato ai caratteri specifici assunti dal processo unitario dello sviluppo capita listico avviato in Italia nella seconda metà dell'Ottocento . Analisi sociale e politica dell'unitario meccanismo di sviluppo capitalistico italiano e ricerca e costruz ione di una concreta prospettiva rivoluzionaria sono le str ade maestre che conducono Gramsci a porre il Mezzogiorn o al centro della sua rifilessione teorica e politica . Tra i primi articoli pubblicati su L'Ordine Nuovo e L'Avanti!, negli anni di crisi dello Stato liberale, e la più matura rifilessione consegnata ai Quaderni, durante la reclusione fasci sta, corre un unico filone di analisi rivolta all'approf ondimento dei caratteri essenziali dello sviluppo storico ita liano e all'in- dividuazione delle forze e delle forme proprie dell a rivolu- zione italiana. L'opera teorica di Gramsci, di cui l'analisi della società italiana e meridionale è parte fondamentale, non è com- prensibile al di fuori della storia del movimento o peraio, italiano e internazionale. La profonda attenzione a l Mez- zogiorno fa parte della costruzione gramsciana di u na teoria organica della rivoluzione in Occidente, del l'indica- zione di una nuova strada per il passaggio al socia lismo nei paesi a capitalismo avanzato. La rivoluzione bolsce vica compiuta con l'appoggio determinante delle masse co nta- dine, e l'avvento del fascismo, come sconfitta stor ica del movimento operaio e socialista italiano, impongono a Gramsci la revisione profonda di ogni determinismo econo- micistico e, nella crisi mortale dello Stato libera le, la co- struzione strategica di una nuova forma di Stato. In questo drammatico quadro storico va quindi posta l'indicazione di un nuovo "blocco storico" fondato sulle masse operaie e contadine in alternativa al vecchio blocco di potere tra capitalisti e agrari. E la costruzion e del partito rivoluzionario, il "moderno principe", col compito es- senziale di dirigere la lotta per l'abbattimento de llo Stato borghese, che in Italia andava assumendo la forma o rigina- le del regime fascista. Obiettivo dell'alleanza tra gli operai del Nord e i contadi- ni del Sud non era più, come in Salvemini, la spart izione del latifondo e la diffusione della proprietà coltivatr ice, ma di- veniva la costruzione di una società socialista: "l 'emancipa- zione dei lavoratori può avvenire solo attraverso l 'alleanza degli operai industriali del Nord e dei contadini p overi del Sud per abbattere lo Stato borghese, per fondare lo Stato

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degli operai e contadini". In Gramsci s'intrecciano continuamente gli elementi della riflessione storica sullo sviluppo della soci età ita- liana e dell'azione politica condotta in un determi nato contesto e schieramento internazionale. L'analisi d el processo capitalistico italiano e la prospettiva te rzinter- nazionalista del "governo operaio e contadino" conf luiran- no quindi nel porre al centro della strategia del P artito comunista italiano la questione meridionale. Nelle tesi preparate nel 1925 per il III Congresso del partito tenuto clandestinamente a Lione, Cramsci in dividua nei contadini meridionali "dopo il proletariato ind ustriale e agricolo dell'Italia del Nord,l'elemento sociale più rivolu- zionario della società italiana", e assegna al part ito il dif- ficile compito di realizzare, superando antichi pre giudizi, questa alleanza, che diviene la chiave di volta del la rivolu- zione italiana. In Alcuni temi della questione meridionale - rimast o in- compiuto nel 1926 per l'arresto - Gramsci muove dal la considerazione che "l'operaio rivoluzionario di Tor ino e Mi- lano diventava il protagonista della questione meri dionale", per affrontare concretamente la questione dell'egem onia del proletariato; dei modi in cui, cioè, possa effe ttivamente realizzarsi una salda "alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal p otere di Stato". Problema centrale di tutta la riflessione gramscian a, dai giovanili scritti giornalistici alle compiute anali si affidate ai Quaderni del carcere, è l'approfondimento in tutti i suoi aspetti del "rapporto città-campagna (che) è per l' Italia innanzitutto e soprattutto il rapporto tra Nord-Sud , ed è esso la chiave di volta così della storia come dell a politi- ca italiana". L'analisi gramsciana svela così il carattere sostan zial- mente conservatore del blocco corporativo capitalis tico- operaio realizzatosi nel più avanzato periodo gioli ttiano. E propone forme concrete di superamento del blocco ag rario dominante nel Mezzogiorno grazie al suo inserimento subalterno nel blocco di potere nazionale. Per conquistare le masse contadine del Sud alla nuo va prospettiva rivoluzionaria andava quindi superata l a loro tradizionale disgregazione ed eliminata la loro sog gezione ai proprietari terrieri, che avveniva "per il trami te degli intellettuali". Il controllo sociale del Sud era in fatti garanti- to dal diffuso strato dei più diversi intellettuali : avvocati, insegnanti, sacerdoti, farmacisti, notai, medici. C uesto ceto medio veniva acquisito alla tradizionale funzione d i inter- mediario della classe dominante in due forme essenz iali: a livello di massa mediante la distribuzione client elare di impieghi amministrativi, e ai livelli più consapevo li dell'azio- ne ideologica svolta da grandi intellettuali come G iustino Fortunato e Benedetto Croce, la cui "operosità reaz iona- ria" non era affatto retriva, bensì alternativa all a trasfor- mazione socialista della società italiana. "Uomini di grandissima cultura e intelligenza, sort i sul terreno tradizionale del Mezzogiorno ma legati alla cultu- ra europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del Mezz ogiorno, per consolarne le irrequiete velleità di rivolta co ntro le con-

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dizioni esistenti, per indirizzarli secondo una lin ea media di serenità del pensiero e dell'azione.. In una cerchi a più ampia di quella molto soffocante del blocco agrario, essi hanno ottenuto che la impostazione dei problemi meridiona li non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzio naria In questo senso Benedetto Croce ha compiuto un'alti ssima funzione "nazionale"; ha distaccato gli intellettua li radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli pa rtecipa- re alla cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cul- tura li ha fatti assorbire dalla borghesia nazional e e quindi dal blocco agrario". La formazione di un nuovo blocco sociale, che affia ncas- se i contadini meridionali all'azione egemone del p roleta- riato industriale del Nord, si sviluppava attravers o una "frattura di carattere organico... nella massa degl i intellet- tuali" tra cui lentamente si affermasse una tendenz a di sini- stra, "cioè orientata verso il proletariato rivoluz ionario". La distruzione del blocco agrario meridionale si reali zzava con l'organizzazione politica dei contadini non meno ch e attra- verso la disgregazione del blocco intellettuale: "I l proleta- riato distruggerà il blocco agrario meridionale nel la misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad orga nizzare in formazioni autonome e indipendenti sempre più notev oli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura pi ù o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subord inata- mente alla sua capacità di disgregare il blocco int ellettuale che è l'armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario. La costruzione di un nuovo blocco storico che avess e per protagonisti i contadini del Sud passava per la distru- zione del blocco sociale che dominava l'arretratezz a meri- dionale, funzionando "da intermediario e da sorvegl iante del capitalismo settentrionale e delle grandi banch e". Il divario crescente tra il Nord e il Sud per il funzi onamento distorto del meccanismo di sviluppo capitalistico s i sarebbe colmato in una prospettiva unitaria di costruzione del so- cialismo, in cui il Mezzogiorno si presentava come croce- via della rivoluzione italiana. *9. Cenni sulla società meridionale durante ilfasci smo. Nei primi anni del dopoguerra il malessere dei cont adini meridionali aveva trovato un parziale e limitato sb occo nel- l'occupazione dei latifondi e nella distribuzione d elle terre incolte e nella definizione di contratti collettivi di lavoro. La reazione agraria giunta al potere con il fascism o ottenne ' ! subito l'annullamento del decreto Visocchi e la restituzio- ne ai grandi proprietari anche di quei terreni inco lti, la cui ripartizione comunque non soddisfaceva la domanda d i terra e di lavoro delle masse contadine. Contempora nea- mente si chiudeva la "valvola di sfogo" dell'emigra zione in seguito al nuovo orientamento della legislazione no rdameri- cana che bloccava totalmente il fortissimo flusso d i conta- dini meridionali verso gli Stati Uniti, che ancora negli anni del dopoguerra aveva raggiunto livelli molto elevat i. Nei primi anni '20, durante la fase "liberistica" d el costituendo regime fascista, la favorevole congiunt ura del commercio internazionale aveva favorito gli ultimi sprazzi di espansione dei prodotti specializzati dell'agric oltura siciliana sùi mercati mondiali e il proseguimento d él proces- so di intensificazione delle colture nell'area camp ana defini- ta dalle basse valli del Volturno e del Sele. In qu esti anni,

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peraltro versava in gravi difficoltà la più consis tente strut- tura industriale campana per la difficile riconvers ione delle grandi imprese metalmeccaniche e per le gravi diffi coltà dell'industria tessile, che vedeva chiudere alcuni stabilimen- ti. La svolta deflazionistica del 1926,con la fine dell a poli- tica "liberistica", rilanciava l'importanza del mer cato in- terno e avviava una politica dirigistica che si sar ebbe accen- tuata per gli effetti della grande crisi del 29.Neg li anni Trenta si sarebbe quindi sviluppato un processo di ristrut- turazione del sistema capitalistico italiano, orien tato al deciso rafforzamento dell'apparato industriale del Nord in forme di accentuata concentrazione industriale e di più complessi livelli tecnico produttivi.L'accentuato d irigismo economico si accompagnava a ben determinate consegu enze sociali,definite dal regime fascista nella repressi one delle lotte e nel crescente sfruttamento della classe ope raia me- diante la riduzione dei salari,e nella pesante comp ressione dei consumi delle masse contadine,condotte ai limit i della sopravvivenza. Per il Mezzogiorno agricolo gli anni Trenta sono pa rti- colarmente duri perchè si sommano gli effetti della crisi mondiale,il continuo incremento demografico,la cadu ta dei prezzi agricoli,l'aggravamento dei contratti.No nostante , la politica antiurbanistica e l'ideologia ru ralistica che tende- vano a controllare rigidamente la forza-lavoro indu striale, dalle campagne del Sud si sviluppò già in questi an ni una forte, incontrollata corrente migratoria verso i ce ntri in- dustriali del Nord. Intanto erano colpite dalla cri si anche quelle aree del Mezzogiorno che avevano conosciuto nei decenni precedénti fasi di consistente sviluppo.In Sicilia si modificava l'equilibrio Fondamentale tra il lati fondo cerealicolo e la produzione intensiva per il crollo della esportazione agrumaria. In Puglia la crisi di sovra pprodu- - zione dell'olivicoltura per la concorrenza internaz ionale del- la Grecia e della Spagna fu attenuata dai provvedim enti protettivi del 1932-33, ma nient'affatto risolta co n una ridefinizione dei rapporti produttivi che limitasse il peso della rendita. D'altra parte il peso politico del blocco agrario m eridio- nale nei confronti dell'avanzato settore industrial e del Nord era andato progressivamente riducendosi, già a part ire dalle modificazioni strutturali introdotte durante la gue rra mon- diale. La scelta produttivistica del dopoguerra e l a politica di ristrutturazione capitalistica degli anni Trenta avrebbero quindi colpito pesantemente il blocco sociale domin ante le campagne meridionali, ponendo le premesse per la su a rapi- da disgregazione nel secondo dopoguerra. Intanto la "battaglia del grano", lanciata da Musso lini nel 1925 per ridurre l'accresciuta quota di importa zione e conseguire l'autonomia alimentare nella prospettiva della guerra, determinava un ulteriore arretramento delle forze produttive e un aggravamento dei rapporti sociali n elle campagne meridionali. Grazie anche all'aumento del dazio sul grano fu incrementata la produzione agraria più povera a scapito delle colture ortofrutticole e dell'allev amento zoo- tecnico. Alla crescente intollerabilità delle condi zioni di vita dei contadini si accompagnava nel Sud un aggra vamen- to dell'arretratezza della struttura agraria, cui s i negava an- cora, complessivamente, l'introduzione di sistemi e tecniche

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più razionali e produttive, che avrebbe comportato innanzi- tutto una forte riduzione della cerealicoltura spec ie estensi- va, una consistente diffusione della foraggere in r otazione, ùna intensificazione delle colture e lo sviluppo de ll'industria armentizia. ' Il tentativo più rilevante di modernizzazione delle cam- pagne meridionali fu invece perseguito, con i proge tti di bonifica integrale elaborati dalla precedente tradi zione pro- duttivistica e riformistica di tecnici agrari forma ti alla scuo- la di Portici. Il concetto stesso di bonifica integ rale era fis- sato e articolato in una serie di leggi preparate, tra il 1924 e il 1933, sotto l'esperta guida di Serpieri, e tende nti a supe- rare il tradizionale concetto di bonifica come risa namento i- draulico e lotta alla malaria per ampliarla in una concezione di vera e propria trasformazione fondiaria. La bonifica comportava Quindi la divisione del lati fondo e la formazione di piccole proprietà, in un panoram a di scélte produttivistiche e di riforma agraria che no n poteva non incontrare l'opposizione della grande proprietà terriera, che invece a quésto programma avrebbe dovuto collab orare con i suoi capitali. Pur non sottovalutando la diff icoltà di reperire capitali nel mezzo della crisi degli anni Trenta, e in una situazione sempre più sfavorevole al mondo agri colo, ri- rimàne il fatto che le difficoltà tecniche e finanz iarie opposte dàgli agrari portarono all'accantonamento dei proge tti di bonifica e trasformazione fondiaria. Gli obiettivi di politica agraria del regime fascista venivano così mancati s ia sul pia- no della modernizzazione delle strutture, che della fissazio- ne al suòlo dei salariati agricoli. Alla metà degli anni Trenta, d'altra parte, il regi me fasci- sta aveva orientato decisamente la sua politica sul la strada della guerra e dell'espansionismo imperialistico, c he farà le prime prove in Etiopia e in Spagna, e quella def initiva nel conflitto mondiale. La corsa agli armamenti sostitu iva i progetti irrealizzati di trasformazione dell'agrico ltura meri- dionale. periodo fascista si accresce quindi il divario tra Nord e Sud, perchè l'espansione privilegia ancora una vo lta i luo- ghi e le situazioni già più avanzate. Ai meccanismi econo- mici di tipo quasi automatico si accompàgnano peral tro le più profonde influenze e le maggiori capacità di co ntrollo dei gruppi dirigenti settentrionali. Così il proget to del già nittiano presidente dell'IRI Beneduce di espandere l'elet- trificazione nel Sud quale prerequisito di un proce sso d'in- dustrializzazione non ebbe conseguenze di rilievo. L'arretramento complessivo delle regioni meridional i du- rante il periodo fascista è indicato dalla riduzion e del reddi- to subita nel decennio 1928/1938. La deflazione, co n la diminuzione di stipendi e salàri, la crisi internaz ionale non impediscono che nelle regioni settentrionali il red dito netto per abitante aumenti, nel decennio, da 3198 a 3365 lire. Nel Meridione si registra invece un calo da 1802 a 1718 li- re per abitante; e la situazione, oltre il minimo d ella Cala- bria a 1521 lire, è peggiore nelle regioni meno arr etrate ma sovrappopolate, come la Campania, la Sicilia e l a Pu- glia. Va pure ricordato che il 1938 è l'anno in cui, per la pri- ma volta in Italia,l'attività industriale supera la percentuale fornita dall'agricoltura alla composizione del redd ito nazio- nale: rispettivamente il 34,9 e il 33,4 %. Nel Mezz ogiorno

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invece l'agricoltura - che pure vede diminuire la s ua produ- zione nel corso del decennio - contribuisce ancora per il 45 % alla formazione del reddito globale, mentre l' attività industriale supera di poco il 20%. Ma già a questa data, metà dell'industria meridionale - quella più importante - dipen- de da imprese e società industriali del Nord. , La guerra, il crollo del fascismo e la caduta del la monar- chia segneranno, per il Mezzogiorno, una fase di ra pida disgregazione degli equilibri sociali e politici de finitisi a par- tire dall'unità. Il blocco agrario che aveva domina to, pur in forme complesse e mutevoli la società meridional e inse- rita nel processo politico ed economico nazionale s i avviava alla sua crisi definitiva. Tramontavano così, insie me alla mo- narchia, il blocco sociale e i rapporti di potere g aranti del controllo del Sud per l'intero arco del regno unita rio. *10. La guerra, la repubblica, le lotte sociali. Il Mezzogiorno esce dalla guerra duramente colpito: nella miseria e nella fame delle campagne, dove si accendo- no focolai di rivolta; nei bombardamenti sulle citt à, che fra l'altro distruggono il 60% della più avanzata indus tria cam- pana, con danni per circa due miliardi (ai prezzi d el 1939). Sintomatica, nel settembre del '43, a pochi giorni dalla gloriosa insurrezione napoletana, è la contemporane a di- struzione del grande stabilimento Ansaldo di Pozzuo li, per mano dei tedeschi in fuga, e dell'azienda elettrome ccanica OCREN, per i bombardamenti americani. I decreti Gullo assegnarono nel '44 circa 200000 ettari di terre incolte ai contadini meridionali e stabilirono la proroga dei contratti agrari e il blocco delle d isdette in risposta ad un vasto e differenziato movimento di l otta che aveva proceduto ad occupazioni di terre per sup erfici doppie di quelle occupate dopo la prima guerra mond iale. Questo movimento ebbe però carattere nettamente riv endi- cativo e si rivolse, anche nella direzione dei sind acati e dei partiti di sinistra, all'assegnazione delle terre i ncolte e alla rivendicazione delle terre demaniali usurpate. Non si al- largò invece ad obiettivi più vasti e complessi di riforma agraria e, in definitiva, non si congiunse con le l otte delle classi lavoratrici del Nord ancora impegnate nella lotta di liberazione antifascista. Intanto la continuità dello Stato espressa nel regn o del Sud favoriva un processo di continuità di vecchi gr uppi do- minanti che, secondo una consolidata pratica trasfo rmisti- ca, si preparavano a mantenere il controllo della s ituazione con qualche opportuno mutamento formale. Un decisiv o appoggio alle vecchie classi conservatrici veniva a nche dagli Alleati, e in particolare dalla Gran Bretagna, impe gnata fino in fondo nel favorire una soluzione monarchica e co nserva- trice per la situazione italiana. Particolarmente grave appariva quindi, nel '45, la condi- zione delle regioni meridionali per le crescenti di fficoltà economiche, per l'aumento della disoccupazione e de i prez- zi, per il diffondersi di spinte reazionarie e di t umulti ri- bellistici, per l'ondata di separatismo che pareva allontanare la Sicilia dallo Stato unitario. Si paventò allora una possibi- le frattura politica tra il Nòrd uscito dalla vitto riosa guerra di liberazione e il Sud largamente influenzato dall e forze monarchiche e conservatrici. Il referendum istituzionale parve confermare questa peri- colosa tendenza con la larga maggioranza del 60% da ta dal

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Mezzogiorno alla monarchia. Le forze conservatrici e reazio- narie del Sud si mostravano ancora capaci di subord inare ai loro interessi e disegni di dominio sociale e polit ico larghe masse popolari, specialmente nei centri urbani. Cla moroso era il caso di Napoli - metropoli dalle particolari ssime carat- teristiche storiche - che dava alla monarchia l'80% dei voti e sanciva l'isolamento della classe operaia e di un a esigua borghesia illuminata. Ma già in movimento apparivano, invece, le masse co n- tadine all'interno del processo di disgregazione de l blocco agrario avviato dalla crisi del sistema di potere c he aveva al vertice l'istituto monarchico. Fondamentale, per tanto, doveva risultare il contributo dei contadini meridi onali- e la novità era di grandissimo rilievo - al process o di rin- novamento sociale e politico aperto con l'istituzio ne della Repubblica. "Molti non si sono resi conto - n otava Rossi-Doria nella primavera del '47 - che se il 2 d i giugno la Repubblica ha vinto in Italia, ciò si deve al fa tto che aliquote assai forti di contadini meridionali hanno votato per la Repubblica: se non ci fossero stati il 40"o e il 35% dei voti per la Repubblica nelle tipiche zone latif ondisti- che del Mezzogiorno - negli Abruzzi, in Calabria, n elle province dell'interno della Sicilia - noi avremmo a ncora la monarchia". La fondazione della Repubblica - che toglieva di me zzo il pilastro più rappresentativo del vecchio ordine conserva- tore - e lo sviluppo dei grandi partiti di massa - che superava finalmente il tradizionale localismo clientelare e collegava le popolazioni meridionali, per la prima volta nell a storia unitaria, alla lotta politica nazionale - costituiv ano fonda- mentali elementi di novità e di rottura delle tradi zionali forme di organizzazione sociale e politica delle re gioni meridionali. I risultati complessivamente modesti - se rapportat i a quelli centro-settentrionali, ma non certo alla sit uazione pre-fascista - conseguiti dallo schieramento repubb licano e dai partiti di sinistra nelle elezioni del '46 per l'assemblea costituente rappresentarono comunque uno stimolo a mantenere e allargare le iniziative unitarie. Sulla scia della vittoria repubblicana e nell'ambito degli ancora op eranti governi di unità nazionale, sorgevano, nel Mezzogio rno, centri politici di coordinamento delle attività dem ocratiche, che raccoglievano dai comunisti ai liberali di sini stra. Su altro terreno si giungeva, a Napoli, alla fondazion e del "Centro economico italiano per il Mezzogiorno", cui partecipavano importanti esponenti dell'industria p ubblica e privata e del mondo politico: dal presidente dell 'IRI Para- tore ad Emilio Sereni e Giovanni Porzio. "La questione meridionale - ha ricordato di recente Giorgio Amendola - si rivelava, nel momento della r ico- struzione, una delle contraddizioni centrali del ca pitalismo italiano, ed in questa contraddizione si iscriveva l'iniziativa dei partiti della classe operaia, per promuovere l' elaborazio- ne di un piano capace di promuovere lo sviluppo eco nomico del Mezzogiorno. (Ma per il compromesso raggiunto f ra i partiti del CLN, l'attuazione delle riforme di st ruttura fu rinviata non soltanto a dopo il referendum istit uzionale, ma addirittura a dopo la elaborazione e l'approvazi one della Costituzione. Fu un rinvio che ebbe gravi con seguen- ze".

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La rottura dell'unità nazionale a livello governati vo ebbe gravi conseguenze di rallentamento del processo di disgrega- zione del blocco agrario meridionale, specie sulla lunga di- stanza e sul piano degli equilibri di direzione del la società meridionale che si sarebbero formati negli anni suc cessivi. Ma intanto procedevano quei movimenti di fondo che anda- vano cambiando il volto del Mezzogiorno e lo faceva no ap- parire, per la prima volta, come un elemento di din amismo e di rinnovamento politico e sociale. Fondamentale appari- va lo spostamento a sinistra di masse contadine e d i gruppi intellettuali che, per la prima volta, si collegava no ai grandi partiti nazionali, spezzando così una delle caratte ristiche fondamentali del passato sistema di subalterno isol amen- to autonomistico. Al clamoroso successo dei partiti di sinistra nelle prime elezioni regionali siciliane, della primavera 1947, seguì la lastrage di Portella delle Ginestre, che però non r iuscì a bloc- care il processo di costruzione di un ampio accordo politi- co, che univa comunisti, socialisti, democratici e personalità indipendenti, e si fondava su un vasto movimento di lotta, culminato nel congresso democratico di Pozzuoli all a fine del 47. L'esistenza di questi importanti elementi d i novità si accompagnavano peraltro alla larga prevalenza, n el Mez- zogiorno, di orientamenti politici conservatori che , nel '46, avevano determinato il successo di qualunquisti, mo narchici e liberali, e, dopo la rottura dell'unità nazionale , s'andavano orientando verso la DC anche per l'azione convergen te del clero e degli USA, nel sempre più pesante clima di guerra fredda. Nel Mezzogiorno, quindi, la DC si presentav a col du- plice volto del grande partito nazionale di massa, ma anche del nuovo punto di riferimento di interessi conserv atori, di posizioni notabilari, di tradizioni clientelari. Questo secondo aspetto si affermava con forza nelle elezioni del 1948, quando la DC segnava una grossa avanza- ta, a scapito degli altri partiti conservatori, e s i definiva con caratteri sempre più simili al tradizionale sistema meridiona- le di tipo notabilare e clientelare. Un significati vo successo avrebbero peraltro colto le forze di sinistra riuni te nel fron- te democratico popolare, andate avanti nel Sud a di fferenza del resto del paese. Questo parziale successo avreb be deter- minato la continuazione dell'esperienza del Fronte del Mez- zogiorno in una serie di movimenti e dì lotte nelle fabbriche napoletane e nelle terre meridionali, culminati nel Congres- so napoletano per la difesa dell'industria del Mezz ogiorno e nelle Assise della rinascita svoltesi, nel '49, nel le varie regio- ni meridionali. Partiva allora l'ampio movimento di lotta per la ri forma agraria che da Crotone si estendeva rapidamente a t utta la Calabria, la Basilicata, la Puglia, la Campania, la Sicilia. Le occupazioni delle terre, diffusesi con forza tra l' autunno del 1949 e la primavera del 1950, crearono una situ azione di grande tensione anche per il ripetersi della tri ste tradizio- ne meridionale degli eccidi contadini. Di fronte al l'esplode- re di lotte e occupazioni di terre nell'intero Mezz ogiorno il governo emanò un primo provvedimento - la "legge Sila" - che distribuiva 50000 ettari di terra in Calabria, e quindi la "legge stralcio" di riforma, che espropriava olt re 400000 ettari non coltivati alla, grande proprietà assente ista e li assegnava in piccoli lotti di circa sei ettari a ci rca 90000 famiglie contadine, nell'obiettivo di formare un am pio

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strato di piccoli proprietari-coltivatori, di orien tamento po- litico moderato. Nel 1950 si chiudeva, per il Mezzogiorno,l'epoca se gnata dal dominio del blocco agrario. I provvedimenti gov ernativi sarebbero rimasti limitati agli "stralci" emanati s otto l'in- calzare delle lotte, senza che si realizzasse un pr ogetto com- plessivo di riforma agraria. Ma, più che la formazi one di una diffusa e debole piccola proprietà coltivatrice , fu storicamente importante il colpo definitivo dato al la grande, proprietà meridionale, non tanto sul terreno econom ico quanto a livello sociale e politico. Dopo il 1950 l a proprietà terriera non esisterà più come classe dominante e s i aprirà quindi una nuova fase nella storia del Mezzogiorno, che ve- drà definirsi nuovi equilibri sociali e politici ch e non avran- no più al centro la terra e le campagne. *11. Le nuove strategie meridionaliste: le campagne di Rossi Doria e di Sereni, la SVIMEZ di Morandi e di sARACENO Nella ripresa dell'azione meridionalistica, durante gLi anni della ricostruzione capitalistica di orientame nto libe- ristico, toccò di svolgere un ruolo di primo piano a due in- tellettuali passati insieme, negli anni Trenta, dal la Scuolaagraria di Portici al carcere fascista Manlio Rossi Doria seguirà una complessa traiettoria dall'iniziale ade sione al partito comunista e al marxismo alla milizia azioni sta con Dorso e quindi al ruolo di rilievo svolto sul piano della riforma agraria, fino alla milizia socialista, con una costante e lucida presenza di ricerca meridionalista sul cam po. Emi- lio Sereni rimarrà tutta la vita intransigentemente comunista e marxista, sarà ministro nei governi d'unità nazio nale, diri- gente del movimento operaio e contadino, intellettu ale di profondi interessi e fondamentali contributi. Il Marx del Capitale e il Lenin de Lo sviluppo del capi- talismo in Russia sono i riferimenti teorici di Ser eni: quin- di il modo di produzione come teoria generale della struttu- ra sociale, e la formazione economico-sociale come concet- to essenziale per comprendere la complessa totalità di una determinata società. Ampio rilievo ha pure, nella e labora- zione di Sereni, la categoria del mercato, intesa p erò non come luogo della circolazione delle merci, ma come strut- tura determinata dei rapporti di produzione in una forma- zione economico-sociale del tipo mercantile e capit alistico. La società italiana nel passaggio dal feudalismo al capi- talismo è, fra i tanti, il tema cui Sereni dedicò f orse l'impe- gno più costante, in uno stretto intreccio di anali si storica e di riflessione e azione politica. Contraddizioni e limiti del capitalismo italiano, con al centro la questione me ridionale, e ruolo fondamentale delle masse contadine e operai e nella storia d'italia sono i cardini dell'impegno scienti fico e pratico di Sereni, come già di Gramsci: impegno che negli anni Sessanta lo porterà a confrontarsi con gli ide ologi - mo- derati per lo più, ma talora estremisti - dell'irro mpente svi- luppo capitalistico, le vestali dell'oggettività e delle quantifi- cazioni economiche e politiche, i teorici tecnocrat ici della 'fine delle ideologie' e del felice superamento deg li squilibri, primo fra tutti la questione meridionale. MezzoGiorno" riforma aGraria e questione contadina co- stituiscono, invece, per Sereni, un intreccio fonda mentale nell'itinerario della trasformazione socialista del la società italiana. Di qui l'insistere sulla mancata rivoluzi one agraria' !

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come limite fondamentale della rivoluzione borghese nazio- ' nale, non tanto come `alternativa storica', quanto essenzial- mente come passaggio dalla vecchia formazione econo mico- sociale feudale alla nuova formazione capitalistica . Di qui il ripetere per l'Italia la riflessione di Marx sulla Germania, che soffriva a un tempo del capitalismo e del suo i nsufficien- te sviluppo. Di qui infine il 'ribadire il caratter e insieme democratico e socialista della rivoluzione italiana nel senso di una continua indissolubile unità delle due fasi, contro ogni ipotesi di successione temporale. L'analisi della società italiana e meridionale come studio delle strutture rappresenta quindi il contributo fo rse più originale e organico dello studioso e militante mar xista. E c'è solo da rammaricarsi che il suo metodo d'indagi ne, sal- damente radicato nella teoria e nella realtà, abbia trovato ben scarsi continuatori; sicché ancora da indagare con mo- derni strumenti di analisi resta quasi intera la re altà delle province meridionali nel processo storico dell'unit à nazio- nale. La storia del Mezzogiorno nello sviluppo capi talistico italiano e nel contesto capitalistico mondiale, e q uindi l'ana- lisi dell'incidenza dello sviluppo capitalistico ne lla società meridionale, delle trasformazioni profonde e contra dditto- rie realizzatesi nelle diverse aree, resta ancora d a fare. Nella relazione del '44 al Convegno di Bari - dove Dorso presenta quella politica sulla classe dirigente mer idionale- Rossi Doria fornisce il quadro più lucido e acuto d elle campagne meridionali nella prima parte del secolo. Permea- to dell'insegnamento di Marx non meno che del magis tero di Fortunato questo scritto rimane documento fondam enta- le per la conoscenza dell'agricoltura meridionale e per la trasformazione dei rapporti sociali dominanti nell' ultimo quarantennio del Regno. Successivamente Rossi Doria avrebbe sempre più privilegiato l'insegnamento fort unatia- no, in linea col pessimismo geografico-agronomico d el principio del secolo. Al pessimismo teorico si accompagnava però una gran de capacità di riflessione e indicazione strategica ri volte a definire un complesso progetto di politica agraria per il Mezzogiorno. Quest'era distinto nelle due parti fon damen- tali della "polpa" e dell'osso", per cui si prevede va una diver- sa destinazione e organizzazione produttiva, da cur are parti- colarmente per le zone meno fertili: "Riguadagnando ne una notevole parte al pascolo e al bosco ; limitando la coltura al- le terre salde e migliori con largo uso delle macch ine; utiliz- zando ogni più piccola risorsa irrigua; concentrand o gli sfor- zi sul miglioramento degli allevamenti animali, è p ossibile prospettare ordinamenti agrari soddisfacenti". Cond izione essenziale per questo sviluppo dell'osso" meridiona le era considerato lo sfollamento,l'esodo che avrebbe comp orta- to significativi miglioramenti di reddito "qualora la popola- zione agricola di queste zone si ridurrà - per indi carne l'ordi- ne di grandezza - ad un terzo di quella attuale". Alla fase iniziale di riforma agraria - che pareva al Rossi Doria più importante sul piano politico dell'abbatt imento degli agrari che sul terreno produttivo - si doveva no quindi accompagnare soprattutto, per le aree più fertili, vasti pro- grammi di irrigazione e di trasformazione fondiaria . L'itinerario meridionalistico di Rossi Doria si sar ebbe quindi sempre più orientato verso i modelli sociali delle democrazie anglosassoni, in una prevalenza peraltro sempre

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più marcata di motivi economicistici: il rapporto t ra popola- zioni e risorse visto nella rischiosa prospettiva d i uno sfol- lamento integrale dell'area e una sempre più marcat a con- trapposizione tra l'osso" e la "polpa". Rossi Doria e Sereni, oltre che protagonisti cultur ali di una nuova fase del meridionalismo, svolgeranno un r uolo di primo piano, su sponde diverse, nella definizion e delle strategie politiche ed economiche per le campagne m eridio- nali. Sereni punterà sull'organizzazione e la mobil itazione democratica e rivoluzionaria delle masse contadine. Rossi Doria mirerà allo sviluppo della media azienda capi talistica di tipo anglosassone, in una prospettiva di moderni zzazione democratica. Gli sviluppi successivi, segnati dalla mancata riforma generale e, soprattutto, dall'esodo inarres tabile dei contadini, bloccheranno la realizzazione di entramb e queste diverse ipotesi di profonda trasformazione agraria della so- cietà meridionale. Il secondo dopoguerra vedeva le masse contadine mer i- dionali trasformarsi da oggetto in soggetto di stor ia. Prota- gonisti nuovi delle lotte sociali degli anni Quaran ta, i conta- dini meridionali daranno la spinta decisiva al crol lo del blocco agrario e conseguiranno il parziale obiettiv o delle leggi stralcio di riforma agraria. Sull'onda di que sta rinnova- ta presenza e incidenza delle masse contadine nella storia del Mezzogiorno si svilupperà anche la corrente cul turale, espressa innanzitutto nelle opere di Levi e di Gutt uso e poi di Scotellaro, rivolta ad esaltare le caratteri stiche di una "civiltà contadina" meridionale matrice di part icola- ri valori da tutelare. Ben presto però questo "mito di una civiltà contadina nato da un isolamento arbitrario dei mo- menti più arcaici" - come scriveva Ernesto De Marti no, profondo indagatore della cultura popolare del Sud - sareb- be caduto sotto i convergenti colpi dello storicism o liberal- democratico e marxista e di una storia che dalle ca mpagne andava rapidamente allontanandosi. Ancora per poco la terra avrebbe conservato quella cen- tralità ch'era stata una costante della storia del Mezzogior- no. Già nei primi anni del dopoguerra cominciava a definir- si un orientamento che puntava sull'industrializzaz ione per lo sviluppo del Mezzogiorno. Tra i più tenaci soste nitori di questo nuovo indirizzo di politica economica, che a veva in Nitti il più autorevole precursore, fu Rodolfo Mora ndi, dirigente del PSI, ministro dell'industria e acuto storico marxista dell'industria italiana. Nel 46 Morandi di chiarava all'Avanti: "Essa (l'industria napoletana) è sempre stata pri- va della attività intermedia, perchè è sorta come u n trapian- to forzato da leggi speciali o scopi autarchici. Bi sogna liberarla da quel carattere di grande filiale dell' industria e del capitale settentrionale che le ha impedito di r amificare le proprie radici come industria meridionale quale invece deve essere, e non ha consentito l'espansione local e della piccola e media industria in funzione integrativa". E nel 1946 nasceva la SVIMEZ (Associazione per lo s vi- luppo dell'industria nel Mezzogiorno). Protagonisti di que- sta iniziativa erano appunto Morandi e Pasquale Sar aceno, economista cattolico vicino piuttosto a posizioni p ianifica- trici dell'economia che non alla rimontante linea d i espan- sione liberistica. Le nuove ipotesi di industrializ zazione del Mezzogiorno si congiungevano così alle esperienze d i pro- grammazione e di intervento dello Stato nella direz ione dei

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processi economici ch'erano apparse le risposte vin centi delle economie capitalistiche più avanzate alla cri si inter- nazionale del 29 e alle difficoltà che s'erano diff use negli anni Trenta ponendo precisi problemi di ristruttura zione economica e politica. Nell'Italia del secondo dopoguerra la ricostruzione e la ristrutturazione capitalistica si andavano impostan do lungo linee di politica economica di chiaro stampo liberi sta, sia- per l'estromissione dal governo delle forze di sini stra sia per una postuma polemica con le tendenze statizzatrici e dirigi- ste emerse durante gli anni Trenta anche nel regime fascista. Dovevano trovare quindi immediate difficoltà di rea lizzazio- ne queste ipotesi di programmazione dell'intervento dello- Stato per mettere in moto un processo di sviluppo d el Mez- zogiorno fondato sull'industrializzazione. Tra i ma ggiori avversari sarebbero stati la Confindustria e gli am bienti industriali del Nord, decisamente schierati su posi zioni liberiste e polemici contro ogni ipotesi di creare al Sud "doppioni" - come li chiamavano - di industrie sett entrio- nali. La fine dei governi di unità nazionale concluse anc he l'esperienza governativa di Morandi, sicchè la SVIM EZ venne sempre più definendosi per l'attiva ed import ante opera di conoscenza e di proposta meridionalista de l gruppo d'intellettuali di formazione prevalentemente catto lica che s'andò costituendo intorno a Pasquale Saraceno, dir igente industriale e intellettuale direttamente impegnato nella definizione di una linea politico-economica di inte rvento pubblico nel Mezzogiorno. *12. La politica dellintervento straordinario: la C assa per il Mezzogiorno. Gli anni Cinquanta nel Mezzogiorno si aprono nel se gno di una strategia di intervento governativo che pres enta note- voli elementi di novità rispetto al passato. La leg ge stralcio di riforma agraria, emanata sotto la pressione dell e lotte contadine, modifica l'assetto sociale delle campagn e e, pur nei limiti di un processo di trasformazione rimasto parziale e limitato, favorisce un'espansione della produzion e agrico- la. Il mancato passaggio ad un intervento di riform a genera- le e ad un più dinamico riassetto soCiale si farà p erò sentire qualche anno dopo, quando il richiamo dei paesi del Merca- to Comune Europeo e delle regioni settentrionali pr ovoche- rà un esodo di enormi proporzioni dalle campagne de l Sud, con fenomeni di spopolamento delle aree più arretra te. Ma la decisione più rilevante dei governi centristi a dire- zione democristiana fu la istituzione della Cassa p er il Mezzogiorno, con la legge 10 agosto 1950. Per la pr ima vol- ta il governo italiano decideva di intervenire con un proget- to complessivo di legislazione speciale nell'area m eridionale. Punto di riferimento non erano le precedenti; limit ate espe- rienze locali del principio del secolo, ma le polit iche di svi- luppo di stamnpo keynesiano adottate dai paesi capi talisti- camente più avanzati per favorire l'espansione e il decollo. di aree arretrate. L'idea dello sviluppo, era alla base sia dell'intervento rooseveltiano con la "Tennessee Valley Authority" per l'espansione di un'area depressa deg li Stati Uniti, sia delle politiche di sviluppo tentate dai maggiori paesi capitalistici nei confronti dei paesi sottosv iluppati del cosiddetto terzo mondo. La teoria delle "aree depresse" - diffusa nel mondo dal-

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l'economista Rosestein - Rodan e in Italia da Sarac eno- fondava lo sviluppo su un intervento redistributivo delle risorse dalle aree sovrasviluppate alle aree sottos viluppate, simile a quello attuato dalle politiche keynesiane di piena occupazione nei paesi industrializzati. La politica di inter vento straordinario attraverso la Cassa per il Mezz ogiorno si proponeva così l'obiettivo dello sviluppo dell'a rea meri dionale, considerata globalmente, come una zona dep ressa. Ambizioso traguardo di questa nuova forma di interv ento spécialé era l'avvio nel Mezzogiorno di un meccanis mo di svilùppo autonomo e autopropulsivo, caratterizzato quindi da larghi e preminenti investimenti produttivi. L'arretratezza del Sud era considerata come un rita rdo nell'espansione del sistema capitalistico italiano che, avvian- dosi la fase del suo più accentuato sviluppo, non p oteva non essere superato, eliminato. Gli squilibri, il divar io tra Nord e Sud dovevano necessariamente scomparire.Nei progett i governativi la soluzione della questione meridional e, intesa come momento di ritardo, poteva avvenire nell'ambit o dello sviluppo capitalistico, mediante l'adozione di una forma - moderna e aggiornata d'intervento speciale dello Statoche si poneva come motore centrale della trasformazione strut- turale é dell'espansione produttiva del Sud. Era cosi abbandonato il punto essenziale della seco lare ri- flessione liberal-democratica e rivoluzionaria sul Mezzogior- no: che non si trattava di problema locale e settor iale, risol- vibile con interventi parziali, ma di questione naz ionale che andava affrontata con un mutamento complessivo dell a direzione politica ed economica dello Stato italian o. Altro era parlare di ritardo di un'area depressa, altro e ra muoversi nella linea dell'interpretazione gramsciana della q uestione meridionale come contraddizione fondamentale della par- ticolare forma assunta in Italia dal processo di sv iluppo capitalistico. Accanto alla sottovalutazione dei te rmini strutturali e spaziali della questione veniva pure accantona- to un altro elemento centrale della riflessione mer idionali- stica più avanzata: il ruolo centrale delle masse n ella trasfor- mazione economica e politica della società meridion ale. Al nesso inscindibile di democrazia e sviluppo produtt ivo si sostituiva un'astratta concezione modernizzante che si proponeva di innescare un processo di trasformazion e eco- nomica e sociale mediante una forma di intervento e ster- no, come un'operazione di riforma gestita dall'alto . La Cassa per il Mezzogiorno era il nuovo e moderno strumento istituzionale che, sull'esempio di modell i anglo- sassoni còme la Tennessee lialley Authority, si pre sentava come ente accentratore e propulsore di un sistema d i inter- vento caratterizzato dalla pianificazione plurienna le dei pro- grammi, gestita appunto da un ente speciale e nuovo ri- spetto all'apparato statale, e dal carattere aggiun tivo di tale impegno finanziario dello Stato rispetto alla ripartizio- ne ordinaria della spesa pubblica per settori e per aree. Lo sviluppo del Mezzogiorno andava perseguito con un i nter- vento programmato di tipo intersettoriale (agricolt ura, lavo- ri pubblici, turismo, industria, ecc.), che non era tenuto, per la prima volta, a-rispettare le regole amministrati ve dell'an- nualità del bilancio. Per il primo quinquennio la Cassa si òccupò quasi esclu- sivamente di opere pubbliche: dalle infrastrutture civili alle bonifiche e irrigazione per l'agricoltura. Scarsis simi furono

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in questa fase i finanziamenti agevolati all'indust ria, mentre cominciava ad apparire che l'intervento straordinar io, invece che aggiuntivo, si configurava come sostitut ivo della spesa pubblica ordinaria. Il passaggio dall'i deologia alla prassi mostrava, in questa prima fase, che la dichiarata politica di sviluppo si limitava, nella sostanza, a d una meno innovativa politica delle opere pubbliche. Qualche parziale risultato positivo si ottenne col miglioramento del la produ- zione agricola nelle aree più avanzate Mà già nella seconda metà degli anni Cinquanta il p ro- gramma governativo di sviluppo del Mezzogiorno most rava di non reggere alla prova, della formazione del Mer cato Co- mune Europeo e dell'impetuosa espansione dell'indus tria settentrionale. Il blocco rurale recentemente forma to con la legge stralcio e i primi interventi della Cassa in agricoltura si sfasciò di fronte alla richiesta massiccia di fo rza-lavoro proveniente dalle economie in forte espansione dell 'Europa e del Nord-Italia. I provvedimenti adottati per le aree arre- trate del Mezzogiorno risultarono affatto insuffici enti a frenare il carattere devastante delle zone interne assunto ben presto dall'emigrazione. L'esodo dal Sud toccò vette mai raggiunte, fino a segnare un saldo migratorio n egativo di altre quattro milioni di unità nel ventennio com preso tra i censimenti del '51 e del '71. Una seconda fase della politica d'intervento straor dinario nel Mezzogiorno si apri quindi con la legge del 195 7 sulle aree e i nuclei di industrializzazioné e con l'obbl igo per le imprese a partecipazione statale di collocare nel M ezzogior- no il 60% dei nuovi impianti. Finanziamenti agevola ti e facilitazioni fiscali dovevano poi servire a diffon dere l'instal- lazione di piccole e medie industrie meridionali. M a, dopo alcuni anni di stallo, questi incentivi furono este si alla gran- de industria, privata e pubblica, che nel Sud reali zzò alcuni grandi impianti siderurgici e petrolchimici e, poi, la grande azzienda meccanica di Pomigliano d'Arco. La fase dell'industrializzazione selettiva, nella s econda metà degli anni Sessanta, si caratterizzò per l'ult eriore in- centivazione ai pochi, grandi impianti dell'industr ia privata e delle partecipazioni statali, che rappresentano q uindi il frutto maggiore della politica d'intervento straord inario nel Mezzogiorno. L'ultima fase, aperta negli anni Setta nta, al- l'insegna dei progetti speciali per il riassetto de lle maggiori aree urbane in via di disfacimento, si chiude, allo scadere ormai trentennale di un istituto previsto per un te mpo ben minore, nella totale inadempienza. *13. Le riviste meridionaliste: "Cronache meridiona ali", "Nord e Sud'. La scomparsa del blocco agrario, nei primi anni Cin quan. ta, poneva il problema fondamentale della formazion e di un nuovo blocco di forze sociali in grado di garant ire la direzione e il controllo della nuova fase di svilup po storico. Sul terreno politico l'abbattimento del vecchio ord ine pro- vocava fasi ed episodi di reazione e di riflusso re si manifesti dai successi dei partiti di destra legati ai vecchi interessi agrari e dall'esplodere del laurismo a Napoli nell' intreccio armatori-speculatori edili - masse sottoproletarie. In questo pesante clima di reazione conservatrice n asce- vano a Napoli due riviste che avrebbero svolto un r uolo importante nella riflessione e nella diffusione di un nuovo meridionalismo: Cronache Meridionali e Nord e Sud. La

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prima era all'inizio espressione del movimento di l otta per la Rinascita del Mezzogiorno e vedeva uniti nella d irezione i comunisti Mario Alicata e Giorgio Amendola e il s ociali- sta Francesco De Martino. Riferimento teorico fonda menta- le era il meridionalismo gramsciano, con la conside razione del carattere storico-nazionale della questione mer idionale e la necessità delle alleanze di classe per la trasfo rmazione democratica e socialista della società meridionale e italiana. Costante era pure il riferimento alla tradizione st orica del meridionalismo, dai primordi del riformismo settece ntesco agli esiti rivoluzionari, la cui conoscenza veniva sistemati- camente diffusa attraverso la rubrica "Biblioteca m eridiona- listica' curata da Rosario Villari. Il progressivo distacco dei socialisti portò Cronac he meri- dionali a configurarsi sempre più come espressione delle po- sizioni e delle riflessioni del PCI sul Mezzogiorno . Innanzi- tutto la costante polemica, teorica e politica, con tro la scel- ta e la pratica dell'intervento straordinario, cont ro il gover- natorato' della Cassa; e la rivendicazione di una l inea gene- rale di politica economica nazionale che ponesse al centro il Mezzogiorno come questione fondamentale. E quind i i gravi rischi sociali connessi al carattere torren tizio assunto dall'esodo dalle campagne meridionali. Sul finire degli anni Cinquanta - tra esaurirsi del le lotte per la rinascita, esodo in massa e attese miracolis tiche le- gate al boom economico del triangolo' industriale - - Crona- che meridionali entrava in una fase di grosse diffi coltà, come avrebbe riconosciuto Gerardo Chiaromonte nel b ilan- cio conclusivo dell'esperienza, nel '64. Mentre anc he i so- cialisti mostravano di puntare sulle capacità piani ficatrici e realizzatrici della Cassa e si avviavano alle esp erienze go vernative di centro-sinistra, si diffondevano nel m ovimento operaio e tra alcuni intellettuali marxisti orienta menti rivolti a considerare ormai avvenuta, nei primi ann i Sessan- ta, la 'unificazione capitalistica del paese e deci samente avviato un processo di eliminazione degli squilibri grazie alle superiori capacità di razionalizzazione del ca pitale. Una linea di razionalizzazione capitalistica e di m oder- nizzazione liberal-democratica è, fin dal principio , alla base = dell'esperienza di Nord e Sud che, nella Napoli l aurina, si richiama ai diversi insegnamenti di Croce, di Nitti , di Sal- vemini e di Dorso. Meridionalismo liberal-democrati co come riferimento, e per obiettivo lo sviluppo del M ezzo- giorno fondato sull'industrializzazione, su un mode rno ruo- lo delle città, su una cultura aggiornata secondo i canoni delle scienze sociali preminenti nel mondo anglosas sone. Francesco Compagna, Vittorio De Caprariis, Giuseppe Ga- lasso, Manlio Rossi Doria forniranno, con molti alt ri intel- lettuali, un contributo di prim'ordine per una cono scenza aggiornata della società meridionale a cavallo degl i anni Cin- quanta. Espansione dello sviluppo capitalistico al Sud e for- mazione di una moderna classe dirigente meridionale sono i cardini della linea politica della rivista, che - in costante polemica col meridionalismo comunista - fornirà un impor- tante supporto culturale al centro-sinistra, fino a lla metà degli anni Sessanta. In seguito, la caduta del mito del neo- capitalismo espansivo ed equilibratore e l'esplosio ne delle lotté operaie e studentesche della fine degli anni Sessanta determineranno una grave crisi d'identità della riv ista. *14. La formazione di un nuovo blocco urbano.

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Intanto nel Mezzogiorno s'era andato formando un nu o- vo blocco sociale, non più fondato nelle campagne s ulla proprietà della terra, ma legato essenzialmente al controllo dei cospicui flussi della spesa pubblica, prevalent emente erogati attraverso la Cassa per il Mezzogiorno. Lo svuota- mento progressivo delle campagne e delle zone inter ne provocava il rigonfiamento delle città, specie cost iere, defi- nite da prevalenti funzioni terziarie e burocratich e, larga- mente speculative e parassitarie. Le città meridion ali non diventano cosi i moderni centri urbani del neo-capi talismo razionalizzatore, ma si configurano, negli anni Ses santa, come i luoghi centrali di un nuovo blocco sociale f ondato sui ceti medi urbani, largamente improduttivi e leg ati a un sistema di controllo politico della ripartizione delle risorse. La politica d'intervento straordinario del meridiona- lismo governativo fonda cosi un moderno sistema di potere politico e di controllo sociale basato sulla distri buzione del- la spesa pubblica. L'intervento dello Stato perde s empre più il carattere di direzione politica complessiva per orientarsi decisamente verso una spartizione corporativa delle risorse. Le basi dello Stato non sono più ristrette come nel Mezzo- giorno monarchico e agrario, sono ora basi di massa ; ma il consenso è conquistato attraverso la redistribuzion e corpo- rativa e assistenziale di quote della spesa pubblic a. Nel Mez- zogiorno contemporaneo trovano pieno riscontro le r ecenti riflessioni sulla crisi fiscale dello Stato e sulle crescenti caratteristiche assistenziali della spesa pubblica. Sempre più lontano appare il primitivo obiettivo dell'inte rvento -straordinario rivolto all'avvio di un processo di sviluppo autonomo e autopropulsivo. La politica degli incentivi ha creato nel Mezzogior no grandi impianti industriali, e quindi una industria moderna, ma dipendente da centri esterni al Mezzogiorno sia nel caso dell'industria privata che nella diffusa presenza d elle impre- se a partecipazione statale. Si è avuta cosi l'espa nsione, parziale, del sistema industriale italiano nel Sud piuttosto che lo sviluppo di un'industria meridionale. Lo svi luppo autonomo s'è trasformato, nei casi migliori, in esp ansione dipendente. La trasformazìone, dove c'è stata, è st ata paga- ta con la dipendenza: da imprese multinazionali, da l sistema delle partecipazioni statali, dalla grande industri a privata del Nord. L'incentivazione statale alla grande industria pubb lica e privata localizzata nel Mezzogiorno ha comportato i l pieno accordo tra capitale industriale e borghesia politi co-ammini- strativa meridionale deputata al controllo della sp esa pub- ; blica. "In queste circostanze, - ha scritto Maria no D'Anto- nio - il parassitismo e l'impiego inefficiente dell e risorse umane e materiali del Mezzogiorno diventano un aspe tto complementare e non contraddittorio rispetto alla p resenza di grandi impianti industriali nelle regioni meridi onali". Accanto all'esodo massiccio dalle campagne e alla c o- struzione di grandi impianti industriali ad alta in tensità di capitale e relativa scarsa occupazione il terzo carattere fondamentale della società meridionale nei decenni più recenti appare quindi la crescente espansione del s ettore terziario: attraverso le consistenti assunzioni, sp ecie negli anni Sessanta; nell'amministrazione pubblica e negl i enti locali e attraverso le quote crescenti dei trasferi menti pub- blici alle famiglie nella forma prevalente delle pe nsioni

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di invalidità. Va peraltro sottolineato che questi trasferi- menti di sussidi nella direzione Nord-Sud non vanno di- sgiunti, per una considerazione complessiva, dalla direzione inversa Sud-Nord che sempre nettamente favorisce il mer- cato settentrionale nello scambio dei prodotti. In connessione con la crisi del capitalismo interna zionale accentuata dai problemi energetici e con la crisi v erticale del modello capitalistico sono stati fenomeni caratteri zzanti gli ultimi anni la larghissima disoccupazione giova nile e la diffusione delle attività precarie e marginali. Nel complessi- vo stallo produttivo, fatte salve parziali eccezion i, appare in pericoloso aumento la quota della popolazione, s pecie giovanile, posta ai margini del mercato del lavoro. Parti- colarmente drammatica appare la condizione dei magg iori centri urbani, con punte insostenibili di degrado p roduttivo e ambientale e con un mercato del lavoro dalle cara tteristi- che sempre più malsane. Da questione agraria il Mezzogiorno si è trasformat o in questione essenzialmente urbana. Il sistema di pote re che s'incentrava in passato nelle campagne si fonda ora nei cen- tri urbani. Nel profondo modificarsi delle condizio ni stori- che, è rimasto però fondamentale il ruolo dello Sta to, nel suo apparato politico-amministrativo di intervento ordina- rio e straordinario, a determinare anche i nuovi ca ratteri di aggregazione-disgregazione della società meridional e. L'ampliamento delle basi di massa dello Stato nel M ez- zogiorno è avvenuto nel segno del corporativismo as sisten- ziale più che nella direzione dello sviluppo produt tivo; ha determinato la costituzione di un sistema di potere redi- stributivo e clientelare piuttosto che un rafforzam ento e un'espansione reale dei livelli di democrazia. Il v ariegato partito della Democrazia cristiana è stato l'effica ce inter- prete politico di questa fase storica, intrecciando la direzio- ne dei fondamentali gangli dello Stato al controllo delle amministrazioni locali del Sud nella costante azion e di redistribuzione della spesa pubblica alle imprese e ai privati. *15. Trasformazioni sociali e permanente divario. Nel corso di questo trentacinquennio repubblicano i l ' Mezzogiorno non ha conosciuto la fase del dispieg ato svilup- po, ma si è profondamente trasformato, specialmente nei modi di organizzazione sociale e nei comportamenti cultu- rali di massa. L'isolata arretratezza del Mezzogior no conta- dino è un ricordo del passato. Le differenziazioni interne si sono accentuate : aree di consistente espansione si accompa- gnano a zone di persistente arretratezza; sviluppo e sottosvi- luppo si toccano in aree contigue, s'intrecciano in grandi centri urbani, appaiono difficilmente districabili in un pano- rama largamente segnato da fenomeni nuovi. Ma il pr ocesso di trasformazione in atto non è giunto ad incidere radical- mente sulla struttura della produzione, innescando appunto quel meccanismo di sviluppo tante volte evocato a f onda- mento della politica dintervento straordinario. I r ilevanti mutamenti, gli evidenti progressi hanno trasformato il volto del Mezzogiorno, l'hanno resu indubbiamente 'modern o; ma non sono bastati ad annullare, a superare l'esis tenza e la specificità di una questione meridionale, come proble- ma di una vasta area regionale che, complessivament e, man- tiene livelli più bassi e più lenti di sviluppo eco nomico e di strutturazione civile e non appare in grado, nelle condizioni date, di avviare il superamento del profondo divari o che la

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separa dalla parte più avanzata del paese. a Gli uomini e il lavoro. Il Mezzogiorno continentale e insulare conta oggi v enti milioni di abitanti, il 35% circa della popolazione italiana: mentre nel 1951 ne costituiva oltre il 37%. Nel ven ticin quennio 1951-1976 la popolazione meridionale è aume nta- ta del 12%, mentre nel Centro-Nord l'incremento dem o- grafico è stato del 22%. A livello regionale il pan orama ap- pare profondamente diversificato. L'incremento demo gra fico ha riguardato la Campania e la Sardegna 23% ), la Puglia (19 % e la Sicilia (9%"). La Calabria è r imasta pra-. ticamente statica (0,2% ). Le altre regioni hanno s ubito un decremento demografico, che nel caso del Molise toc ca li- velli di spopolamento (-19%), mentre è più circoscr itto in Basilicata (-2% ) e in Abruzzo (-4%" ). Se l'ana lisi si ap- profondisce a livello provinciale si vede che sono in via di spopolamento parti di regioni in complessivo svilup po de- mografico: è il caso di Avellino e Benevento, di Re ggio Ca- labria, di Enna, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Messina. Quanto più si approfondisce l'analisi a livello loc ale tanto più numerosi appaiono i casi di spopolamento di cen tri meridionali. Eppure tra il 1951 e il 1976 il saldo naturale (dif ferenza tra nascite e morti) nel Mezzogiorno ha superato i sei milio- ni. La popolazione è aumentata di due milioni. Ne r isulta che il saldo migratorio ha superato i quattro milio ni. Negli ultimi anni, per le difficoltà nazionali e internaz ionali, il flusso migratorio dal Sud si è arrestato ed anzi è andato crescendo il numero dei rientri. Si è scesi dai 182 000 e- migrati meridionali del 1973 ai 44000 del 1978: tut ti rivolti verso il Centro-Nord, mentre aumentano i ri entri dall'estero. Ma intanto anche il secondo periodo di maggio- re sviluppo economico italiano è apparso caratteriz zato - come già il primo, il periodo giolittiano - da un a pro- rompente ondata di emigrazione meridionale. Mentre la prima ondata si rivolse prevalentemente verso l' America,- la seconda ondata è stata assorbita dal mercato del lavoro centro-settentrionale e di paesi europei, quali inn anzitutto, la Germania Federale, la Francia e la Svizzera. La perdita di tante energie giovani e vitali ha gravemente dan neggiato il tessuto demografico delle regioni meridionali, tutt e pesan- temente colpite da questa seconda fase storica di e sodo in massa. Tra i censimenti del 1951 e del 1971 la S icilia ha segnato un saldo migratorio di oltre un milione di unità, la Campania oltre 750000, la Calabria 717000, la Pugli a 704000, l'Abruzzo 311000, la Sardegna 233000, la Ba si- licata 209000, il Molise 146000. Tra il 1951 e il 1976 l'indice di natalità si è con siderevol- mente ridotto anche nel Mezzogiorno: dal 24 al 17 p er mil- le abitanti. Anche la mortalità infantile ha subito un signifi- cativo calo: da 82 a 23 su mille bambini nel primo anno di vita ; rilevante è stata la riduzione da 120 a 1 9 in Basilica- ta, mentre il record negativo è oggi tenuto dalla C ampania con oltre 6 bambini su mille morti nel primo anno. Altro indice del miglioramento delle condizioni di vita è l'aumen- to della statura dei giovani meridionali di leva, r elativamen- te maggiore di quello registrato nel Centro-Nord. Accanto all'emigrazione il dato più significativo d el ca- rente sviluppo del Sud è dato dall'occupazione. Tra il 1951 e il 1976 gli occupati nel Mezzogiòrno sono calati da circa

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sei milioni e mezzo a meno di sei milioni. Contempo ranea- mente il Centro-Nord ha registrato un incremento da 13200000 occupati a circa quattordici milioni. L'es odo dalle campagne meridionali ha determinato la riduzi one de- gli occupati in agricoltura da 3700000 a 1600000. Il maggiore incremento nell'occupazione è stato reg istrato nei servizi e nella Pubblica Amministrazione: da 15 00000 a 2600000. Mentre abbastanza ridotto è stato l'aume nto dell'occupazione industriale: da 1300000 a 1770000. Profondamente modificata risulta quindi la struttur a della occupazione meridionale: nel 1951 l'agricoltura rap presen- tava il 57%, l'industria il 20%, i servizi e la P.A . il 23%; nel 1976 l'occupazione nel terziario e nella P.A. r aggiunge il 40,5%, l'occupazione industriale è al 32%, l'occ upa- zione agricola al 27,5%. Contemporaneamente nel Cen tro- Nord l'occupazione agricola è calata dal 38 al 10%, l'oc- cupazione industriale è salita dal 34 al 48%, l'occ upazione nei servizi e nella P.A. è cresciuta dal 28 al 42%. Nonostante la consistente riduzione, è ancora prese nte nel Mezzogiorno il 55% dell'occupazione agricola it aliana. E' questo un indice di arretratezza non solo in ter mini quantitativi ma anche perchè cela al suo interno la rghe fa- sce di sottoccupazione e di occupazione precaria. I n Basili- cata e in Molise, peraltro, l'occupazione agricola supera an- cora largamente il 40% del totale. Significativi processi di differenziazione si sono prodotti nell'agricoltura meridionale. Da una parte l'espans ione di aziende capitalistiche di oltre 50 ettari, caratter izzate da e- levata specializzazione produttiva e diffusione del le macchi- ne; e insieme il rafforzamento, sempre nelle aree d i pianura, di medie aziende contadine ad alta produzione inten siva. Di contro, nelle zone interne, piccole e medie aziende conta- dine sopravvivono in condizioni quasi di sussistenz a, con scarsi rapporti col mercato, larga sottoccupazione, scarsis- sima dotazione infrastrutturale. quasi nulla capaci tà di fruire dell'intervento di sostegno, specialmente de l MEC. Questa vasta area d'arretratezza copre circa sei mi lioni di ettari e riguarda una massa di circa un milione di lavora- tori precari, lungo la dorsale appenninica, con par ticolare incidenza in Molise, Basilicata e Calabria. L'occupazione industriale nel Mezzogiorno costituis ce soltanto il 22% del totale nazionale. Una delle più signifi- cative attestazioni della crescita del divario tra il Sud e il Centro-Nord, nonostante la relativa espansione meri dio- nale, sta appunto nella riduzione della quota merid ionale dell'occupazione nell'industria propriamente detta (estrat- tiva, manifatturiera, dell'energia), che - tra il 1 951 e il 1977 - è calata dal 20 al 18% del totale nazionale. Questo calo dell'occupazione industriale del Sud ri spetto al totale nazionale è avvenuto a fronte di una mass a di inve- stimenti nell'industria meridionale ammontanti ad o ltre 11500 miliardi (a prezzi 1963) per ilperiodo 1951-1 973 e a 4250 miliardi (a prezzi 1970) nel periodo 1974-19 77. La quota degli investimenti industriali nel Mezzogiorn o sul to- tale nazionale è andata crescendo dal 16% del perio do 1951- 1961 a circa il 26% del 1962-1968 fino al 37% del 1 969- 1973, con le punte del 44 % nel 1972 e nel 1973. La grave crisi di questi ultimi anni ha fatto scendere rapid amente la quota degli investimenti industriali nel Sud al 31% nel 1975 e al 27% nel 1978.

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E' significativo che la riduzione degli investiment i non riguardi i settori maggiormente in crisi, come la s ide- rurgia e la petrolchimica, ma si estenda a tutta l' industria: metallurgica, meccanica, tessile, del legno, delle fibre, con la sola eccezione del settore alimentare. Particola rmente grave è la flessione degli investimenti delle azien de a parteci- pazione statale, che nel Sud hanno acquistato uno s pazio molto considerevole: dalla punta del 58% sul totale naziona- le nel 1972 si è scesi al 35% degli ultimi anni. L'aggravamento della crisi economica - nazionale e ' internazionale - rafforza la tendenza al mero conso lida- mento dell'apparato industriale del Centro-Nord ed accen- tua le difficoltà dell'industria nel Mezzogiorno in direzione di una crescente marginalità. Il permanente privile giamento della competitività delle esportazioni rispetto ad una ri- qualificazione del mercato interno rende precaria o gni i- potesi di sviluppo industriale del Sud. La stessa p arziale di- slocazione di alcuni comparti - come l'elettronica nel Ca- sertano - non avviene nel senso di una nuova direzi one del- lo sviluppo ma piuttosto secondo una limitata ottic a di residualità' dipendente. L'aumento, pur consistente, dell'occupazione nei se rvizi e nella Pubblica Amministrazione non è stato comunq ue sufficiente ad assorbire la massa di lavoratori esp ulsi e/o in fuga dalle campagne. Il processo di terziarizzaz ione del- l'economia meridionale non riveste peraltro caratte ri parti- colari rispetto ai consimili processi in corso nel Centro-Nord e negli altri paesi a capitalismo maturo. Lo svilup po del set- tore terziario, anzi, è stato in questi anni maggio re nel Cen- .tro-Nord che nel Mezzogiorno. Relativamente stazio nario, negli ultimi anni, appare il rapporto tra settore p rivato e pubblico del terziario: 73% e 27% nel Centro-Nord, 65% e 35% nel Sud. Il settore privato appare in espansion e nelle regioni meridionali relativamente avanzate come la Campa- nia e la Sicilia, dove però è in crisi il comparto turisti- co-alberghiero. Mentre la maggiore occupazione nel settore pubblico si registra nelle regioni più arretrate, c ome il Moli- se, senza raggiungere peraltro dimensioni abnormi. L'occupazione rimane il problema più grave del Mezz o- giorno, che per la sua debole struttura economica r imane esposto a tutte le ricorrenti crisi dell'economia n azionale e internazionale. L'indice ufficiale di disoccupazion e, fissato al 10% per il Mezzogiorno (rispetto al 6% del Centr o-Nord) dice poco riguardo alla drammaticità del fenomeno. La presenza nelle liste speciali di collocamento di un 60% di giovani meridionali è la spia di una condizione ins ostenibi- le che ha fatto parlare di trasformazione della que stione me- ridionale da questione contadina in questione giova nile. Lo stretto intreccio di sviluppo e sottosviluppo nella situazione meridionale è attestato dalla posizione di testa ch e regioni avanzate come la Campania mantengono nelle statisti che della disoccupazione giovanile. b Gli squilibri e il ritardo. Dopo trent'anni di politica di intervento straordin ario dello Stato nel Mezzogiorno risulta praticamente im mutato il divario che divideva e divide le due parti del p aese. Le trasformazioni e i progressi indubbiamente segnati nelle re- gioni meridionali non sono stati sufficienti ad avv iare il superamento del fondamentale squilibrio nazionale, nono- stante il forzoso abbandono della loro terra da par te di mi-

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lioni di meridionali. Cento anni fa i meridionali e rano dieci milioni, oggi sono venti milioni; nel corso di un s ecolo gli emigranti dal Sud sono stati dieci milioni. Recenti pubblicazioni della SVIMEZ, del CESPE, dell o IASM-FOKMEZ hanno fornito tutti gli elementi quanti ta- tivi dell'evoluzione economico-sociale delle region i meri- dionali negli ultimi decenni. Tutte le modificazion i realiz zate non sono riuscite a mutare il rapporto di disp arità tra Nord e Sud. Anzi la situazione è addirittura peggio rata, . seppur lievemente. Nel 1951 il Mezzogiorno partecip ava con una quota del 24,1% al prodotto nazionale. Nel 1976 la quota meridionale è stata del 23,7%. E' leggerme nte migliorato il reddito pro-capite, ma solo grazie al l'emigra- zione: dal 65 al 67% della media nazionale. E' muta ta invece la composizione settoriale del reddito prodo tto nel Mezzogiorno: l'agricoltura è scesa dal 34 al 14 %, l'in- dustria è aumentata di soli cinque punti (dal 24 al 9% ), mentre il terziario è cresciuto dal 42% dal 1951 al 56% del 1976. Il reddito netto prodotto nel Mezzogiorno al 1951 e ra pari al 67% della media nazionale, nel 1974 ha ragg iunto il 70%. Nello stesso arco di tempo l'Italia nord-occid entale è passata dal 148 al 18%, l'Italia nord-orientale d al 100 al 108%,l'Italia centrale dal 103 al 108%. Naturalm ente la media meridionale copre situazioni ancor più dramma tiche a livello provinciale. Il reddito netto prodotto ne lla provin- cia di Avellino è appena il 46% della media naziona le; A- grigento è al 52%, Cosenza al 54%, Potenza e Iserni a al 56%. In un recente studio sulle regioni del Mezzogiorno si è cercato di quantificare, per quanto possibile, il r apporto sviluppo-sottosviluppo scegliendo come indicatore i l reddito lordo prodotto per chilometro quadrato. Aree consid erate sono le regioni e le province, ed è significativo n otare che quanto più si restringe la zona considerata tanto p iù si e- stendono i confini del sottosviluppo. Con riferimen to alla media nazionale il reddito lordo è sensibilmente su periore soltanto nelle province di Napoli e di Taranto (il 3% della superficie meridionale), che quindi possono conside rarsi complessivamente sviluppate. Inutile ripetere che u n'ana- lisi sub-provinciale definirebbe ulteriori aree di sottosvilup- po. Abbastanza sviluppate, perchè con un prodotto lordo in- feriore di non più del 25% rispetto alla media nazi onale, si considerano le province di Caserta, Catania, Bar i, Lecce, Brindisi, Palermo, Siracusa, Messina, Pescara; il 2 2% della superficie meridionale. In via di sviluppo, con un prodotto inferiore di non più del 50% rispetto alla media na zionale, le province di Salerno, Trapani, Ragusa, Chieti, Te ramo, Reggio Calabria: il 14% circa della superficie meri dionale. Ancora sottosviluppate appaiono le restanti diciass ette pro- vince, con un prodotto lordo inferiore al 50%del va lore medio nazionale. Il sottosviluppo, così misurato, coprirebbe quindi il 61% dell'area meridionale. Ma se si considera che lo st esso tipo di analisi condotta a livello regionale giunge a de finire sottosviluppata il 52% della superficie meridionale , è facile ritenere che un'analisi condotta all'interno delle province estenderebbe ulteriormente l'area del sottosviluppo , restrin- gendo la concentrazione dello sviluppo in zone anco r più

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limitate. La condizione di limitata espansione del Sud e di p erma- nente divario col Centro-Nord si è fondata, peraltr o, su una assegnazione di mezzi finanziari alla Cassa per il Mezzogior- no ammontante per l'intero periodo 1951-1975 a 1500 0 miliardi (in lire correnti). Di questi impegni sono stati spe- si nello stesso periodo 9000 miliardi: di cui 4100 in opere infrastrutturali (1600 all'agricoltura) e 2600 mili ardi in incentivi (2000 all'industria). Nel solo quinquenni o 1971- 75 le spese hanno raggiunto i 4800 miliardi. Per l' ultimo triennio 1977-79 le risorse finanziarie per l'inter vento straordinario nel Mezzogiorno ammontano ad oltre 25 000 miliardi, di cui 18000 stanziati con la legge n.183 del mag- gio 1976 e col programma quinquennale per il Mezzog iorno del maggio 1977. Peraltro, com'è stato rilevato dal maggiore ideolog o del- l'intervento straordinario, Saraceno, la spesa dell a Cassa per la "formazione di capitali" è stata pari al solo 0, 50%del red- dito nazionale prodotto, fra il 1951 e il 1973. Anc he la spesa corrente dello Stato è concentrata nel Centro -Nord in una misura che sfiora il 79%, rispetto quindi al solo 21% del Mezzogiorno, che, si ricorda, copre il 40% del ter- ritorio nazionale e il 35% della popolazione. Nel 1 976, infatti, i pagamenti delle tesorerie provinciali de llo Stato sono ammontati a circa 23000 miliardi nel Centro-No rd e a poco più di 6000 miliardi nel Sud. c) La politica speciale come sistema di potere. Si potrebbe continuare a snocciolare cifre e percen tuali, ma non cambierebbe il quadro di una società che mol to è cambiata in questi ultimi decenni, ma che ha vist o pesan- ti contraddizioni segnare le trasformazioni avvenut e e re- stare praticamente invariata la distanza che separa va e sepa- ra le due parti del paese. Il Mezzogiorno non è mai stata un'unica realtà compatta, nemmeno un secolo fa. Tan to meno lo è oggi. Le differenziazioni interne, da zon a a zona, e gli elementi di novità si sono largamenti diffusi . Ma si so- no intrecciati all'esplodere di profonde contraddiz ioni. Le città meridionali sono oggi il cuore della question e meri dionale, con il loro disastroso assetto edilizio, f iglio natura ' le di una speculazione selvaggia; con gli acuiti contrasti sociali segnati dall'espansione del lavoro precario , dell'as- sistenzialismo clientelare e dei privilegi corporat ivi; con le crescenti difficoltà di definire strutture produtti ve e fun- zioni urbane di àgglomerati in caotica e distorta e spansione quantitativa. Le modificazioni più consistenti si sono realizzate sul piano dei comportamenti socio-culturali, grazie all a diffu- sione crescente dell'istruzione e delle comunicazio ni di mas- sa. Su questo terreno il Mezzogiorno di oggi è inco mpa- rabile col Mezzogiorno di ieri. Strade, istruzione e televi- sione hanno rotto definitivamente un isolamento ch' era stato per secoli caratteristica del Mezzogiorno non solo in- terno. Si sono quindi modificati profondamente i co mpor- tamenti culturali e politici di massa: il Mezzogior no del re- ferendum sul divorzio non ha più nulla in comune co l Mezzogiorno del referendum istituzionale. Ma queste profonde modificazioni nel paesaggio, nel co- stume, nei livelli e nei comportamenti culturali e politici, nell'assetto sociale e nei livelli di vita non si s ono fondati su un mutamento altrettanto profondo della struttur azione

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economica della società. Su questo fondamentale ter reno l'espansione non è stata altrettanto diffusa, non h a assunto il carattere di radicale, innovativa trasformazione . Lo svi- luppo è stato limitato, parziale, distorto, esposto a tutti i rischi di un arretramento, strettamente legato a fo rme per- sistenti e nuove di suttosviluppo: nei grandi centr i urbani come Napoli e Palermo e in aree regionali periferic he come la Calabria, urmai oltre i limiti del collasso econ omico e sociale. I progressi di certe aree e di determinati settori non sono bastati a rinnovare in forma decisiva la struttura economica meridionale. Come ha rilevato recentemente D'Antoni o, "le informazioni dispunibili concordano nel segnala re che il Mezzogiorno, a causa del più lento ritmo di svil uppo e del minor grado di industrializzazione raggiunto, s i pre- senta rispetto al resto del paese con la duplice ca ratteri- stica di sistema economico strutturalmente meno art icolato (e perciò relativamente in ritardo) e di sistema ec onomico dipendente sia dal lato delle importazioni dei mezz i di produzione correnti sia dal lato dei trasferimenti di beni di consumo dal resto del paese". Trent'anni di intervento straordinario dello Stato nel Mezzugiorno non sono stati sufficienti a innescàré quel meccanismo di sviluppo che, troppo ottimisticamente , era stato visto dietro l'angolo. Trent'anni di politica speciale hanno dimostrato che il Mezzugiorno non era una lim ita- ta area depressa facilmente riconducibile sulla str ada dello sviluppo. La modernità dell'intervento statale attr averso una legislazione speciale gestita da un ente con de finiti caratteri programmatori non è bastata a trasformare la struttura economica di un'area corrispondente al 40 % del territorio nazionale. Come ha recentemente scritto Giusep- pe Galasso, che dell'intervento straordinario non è certo stato preconcetto avversario, la trentennale esperi enza della politica speciale per il Mezzogiorno "induce a ritenere che è di gran lunga preferibile una politica econom ica e finanziaria generale del paese, in cui siano organi camente inquadrati alcuni elementi fondamentali dell'interv ento per il Mezzugiorno, anziché una pomposa e reclamizzata poli- tica speciale senza organica connessione con quella generale del paese, esposta alle insidie della distinzione t ra interven- to ordinario e intervento straordinario e alla malv ersazione clientelare o alle politiche di potere (non necessa riamente ad opera soltanto dei politici locali) fondate sul sottogover- no e sui mezzi, relativamente ingenti, di una compe tenza speciale". Dopo trent'anni d'intervento straordinario pare qua si materializzarsi una sorta di vendetta postuma del m eri- dionalismo classico, che caparbiamente insisteva pe rché cambiasse la politica generale dello Stato italiano per una trasformazione reale del Mezzogiorno. Il ventaglio, na- turalmente, era molto ampio, spaziando tra liberism o e rivoluzione socialista. Ma comune era la convinzion e del- la centralità del Mezzogiorno nel sistema economico italia- no e il timore che la politica speciale, oltre la m odernità della forma giuridica ed anche economica, costituis se il supporto per un determinato sistema di potere polit ico. Ora si può discutere sull'entità dei benefici parzi ali che la politica d'intervento straordinario ha determinato nel Mez- zogiorno contemporaneo. Ma è indiscutibile che la C assa

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- e le sue emanazioni finanziarie e tecniche - ISVE IMER, IRFIS, IASM, FORMEZ, ecc. - hanno costituito uno strumento fondamentale per la definizione e il sost egno di un nuovo blocco di potere, essenzialmente urbano, f ondato su un'ampia zona di lavoro improduttivo sussidiato dalla spesa pubblica, con l'obiettivo del controllo socia le del Me- rìdione, già garantito dal blocco agrario lungo tut ta la storia del Regno. Recentemente Valerio Castronovo ha indicato "l'unic a possibilità di restringere la forbice fra le due se zioni del paese nella saldatura fra un'efficace politica di p iano na- zionale e una differenziata politica di sviluppo re gionale nell'ambito della Comunità europea". Il sostanziale falli- mento della politica speciale pone con forza il pro blema di rilanciare la prospettiva dello sviluppo del Mezzog iorno all'interno di una mutata direzione politica ed eco nomica dello Stato italiano ed in stretto rapporto con un rafforza- mento della democrazia di massa. Sviluppo e democra zia, economia e politica, Stato e Mezzogiorno non sono s epa- rabili, non possono andare per strade diverse se si vuole avviare a soluzione una questione che dura da più d i un secolo e che continua a incidere pesantemente, in f orme che mutano, sul generale sviluppo della società ita liana. La politica dell'intervento straordinario ha costit uito, in questo trentennio, la base essenziale di un nuovo b locco sociale che ha unito coltivatori diretti delle camp agne e speculatori edili nelle città, ceti professionali , larghi strati intermedi di tipo burocratico e/o parassitar io e fasce sociali più deboli in vario modo assistite me diante i diversi canali di una spesa pubblica erogata attr averso la mediazione di un personale politico prevalenteme nte democristiano. Il largo sperpero delle risorse per fini larga- mente improduttivi ha accelerato i tempi di una cri si che viene duramente pagata soprattutto dalle giovani ge nerazio- ni, cui si lascia la possibilità di frequentare in massa una scuola sempre più dissestata e privata di capacità di forma- zione critica e professionale. Così il Mezzogiorno presenta il quadro inedito di u na campagna ormai spopolata dei suoi antichi abitatori e di città sempre più congestionate e invivibili, percor se da mas- se giovanili escluse da un fisiologico ingresso nei vari rami del mercato del lavoro, con l'eccezione di particol ari ri- pescaggi di tipo assistenziale o corporativo. L'imm agine complessiva è quella di un Mezzogiorno trasformato ma so- stanzialmente bloccato nelle sue capacità di svilup po pro- duttivo e di reale espansione della democrazia. Sem pre più urgente appare la formazione di un nuovo blocco di forze sociali che giunga a dirigere la società meridional e verso l'obiettivo dello sviluppo e non dell'assistenza, d ella reale ' democrazia e non del clientelismo di massa, nella prospet- tiva non millenaristica del superamento della contr addizio- ne fondamentale del sistema economico e politico it aliano. Gli anni Ottanta si aprono nel Mezzogiorno con un'e - sigenza sempre più forte di abbandonare le tradizio nali giaculatorie sulle possibili strade per lo sviluppo , e con una domanda impellente alle forze del rinnovamento di at- trezzare i movimenti democratici delle masse della più concreta cultura di governo e di trasformazione. A trenta anni dall'istituzione della Cassa per il Mezzogiorn o è sempre più diffuso l'auspicio che il rapporto masse-intell ettuali-po-

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litici non si svolga più al livello basso della red istribuzione clientelare delle sempre più scarse risorse, ma al livello alto di una direzione politica dell'economia e della soc ietà i- taliana che programmi, nei tempi brevi, la soluzion e della più grave questione nazionale. *BIBLIOGRAFIA. Per una generale introduzione al problema si consig liano: R. VILLARI, (a cura di), Il Sud nella storia d'Ital ia. Antolo- gia della questione meridionale, Laterza, Ba- ri 1978. G. GALASSO, Passato e presente del meridionalismo, Gui- da, Napoli 1978. R. ViLLARI, Mezzogiorno e democrazia, Laterza, Ba- ri 1978. M.L. SALVADORI, Il mito del buon governo. La questi one meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1977. Utili anche le antologie : B. CAIZZI, (a cura di) Nuova antologia della questi one meridionale, Comunità, Milano 1962. G. DE ROSA - A. CESTARO, Territorio e società nella storia del Mezzogiorno, Guida, Napoli 1973. Per una complessiva ricostruzione economica può ris ultare utile : A. DEL MONTE - A. GIANNOLA, Il Mezzogiorno nell é- conomia italiana, Il Mulino, Bologna 1978. Si indicano ora i testi necessari per approfondire i temi dei diversi paragrafi. 1. La società meridionale prima dell'unità. G. GALASSO, Mezzogiorno medioevale e moderno, Einaudi, Torino 1963. P. VILLANI, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, La- terza, Bari 1966. P. VILLANI, Feudalità, rifòrme, capitalismo agrario , La- terza, Bari 1968. R VILLARI, Il Mezzogiorno e contadini nell'età mode rna, Laterza, Bari 1961. A. LEPRE, Il Mezzogiorno dal feudalismo al capitali smo, SEN, Napoli 1979. J. DAVIS, Società e imprenditori nel regno borbonic o 1815/1860, Laterza, Bari 1979. D. DEMARCO, Il crollo del regno delle Due .Sicilie. La struttura sociale " Università di NaPoli 1966. 2. I contraccolpi dell'unificazione. E. SERENI, Il capitalismo nelle campagne "1860-1900 ), (1947), Einaudi, Torino 1968. P. SARACENO, La mancata unificazione economica ita- liana a cento anni dall'unifìcazione politica, in Il Mezzogiorno nelle ricerche della SVIMEZ 1947-1967, Giuffré, Roma 1968. A. SCIROCCO, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione "1860-1861), Giuffré, Mila- no 1963. G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, V, Feltri nel- li, Milano 1968. F. MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, F el- trinelli. Milano 1964. G. GALASSO, Intervista sulla storia di Napoli, a cu ra di P. Allum, Laterza, Bari 1978. F.S. NITTI, Napoli e la questione meridionale 1903) , in

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