Storia dei Veneti,Carni, Istri, Triestini Carni, Istri...Il vello d’oro era custodito dal re della...

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1 NOTIZIE, IPOTESI ed altri FATTI legati all'ORIGINE dei VENETI, dei CARNI, degli ISTRI e dei TRIESTINI A cura di ELIO RABUSIN (revisione 1° giugno 2014)

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NOTIZIE, IPOTESI ed altri FATTI legati

all'ORIGINE dei VENETI, dei CARNI, degli

ISTRI e dei TRIESTINI

A cura di ELIO RABUSIN

(revisione 1° giugno 2014)

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NOTIZIE, IPOTESI ed ALTRI FATTI LEGATI all'ORIGINE dei VENETI, dei CARNI,

degli ISTRI e dei TRIESTINI

a cura di Elio Rabusin

Informazioni raccolte da varie fonti sulle ipotesi più attendibili sull’origine delle genti che,

dalla lontana preistoria e sino all’anno zero (nascita di Cristo) sono transitate e/o si

sono fermate nelle terre del Nord – Est della penisola italica.

Quando si tenta di parlare delle genti che sono vissute o che sono transitate nei tempi

remoti nelle regioni orientali della penisola italica (Carnia, Veneto, Area triestina, Istria) ci

si trova davanti a notevoli difficoltà a causa della carenza di attendibili notizie storiche a cui

fare un sicuro e documentato riferimento. Per di più, nel corso dei secoli, ha preso sempre

più piede la credenza nell'autenticità di antiche leggende che indicano la presenza in queste

zone di personaggi mitologici, di eroi storici e anche di semidei, tirati in ballo più per vantare

che le proprie origini erano legate a personaggi di alto lignaggio o addirittura di semidei, che

per onore della verità. A sostegno di queste leggende, esistono scritti di rinomati personaggi,

quali Tito Livio, il poeta Virgilio, lo storico Strabone e molti altri ancora.

Va tuttavia va ricordato che gli scrittori indicati fungevano da voci ufficiali di una

pressante campagna propagandistica della Roma imperiale, particolarmente voluta e

sostenuta dall’imperatore Ottaviano Augusto e mirante a far risalire le origini dei Romani

ad eroi mitologici e/o a semidei della mitologia greca e anche della guerra di Troia.

Queste leggende sono state riprese e spacciate per veritiere anche da altri scrittori

nei secoli successivi. Valga come uno dei tanti esempi, le varie citazioni riportate dall’abate

Vincenzo Scussa nel suo libro “Storia cronologica di Trieste” del 1700 d.C. (1)

Le più conosciute leggende sono riportate di seguito.

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PRIMA LEGGENDA

Questa si collega alle gesta degli “Argonauti”, decantate da molti scrittori e poeti

dell’antichità.

Secondo la mitologia greca, gli Argonauti erano 55 fra eroi e semidei greci che, a

bordo della nave “Argo”, seguirono Giasone, figlio del re Esone di Iolco (in Tessaglia)

in un viaggio nella Colchide (2) nell'intento di appropriarsi di un “ vello d’oro.”

Questo era una pelle di ariete ricoperta da peli d’oro ed era un dono che il Dio Ermes aveva

fatto a Nefele (dea delle nubi). Veniva considerato come il simbolo di potere assoluto per chi lo

possedeva.

L'appropriazione del vello d’oro era stata chiesta a Giasone da suo zio Pelia quale ricompensa

per poter ottenere il governo del regno. Infatti, il padre di Giasone era stato costretto, a

cedere il governo di Iolco al fratello al momento della sua morte a causa della troppo giovane

età del figlio. Il tutto naturalmente nell' attesa che Giasone raggiungesse la maggiore età e

potesse salire legittimamente al trono.

Fra gli Argonauti c’erano niente popò di meno che Castore, Polluce, Orfeo, Teseo,

Meleagro, Peleo e altri, il fior fiore dei personaggi eroici mitici della Grecia antica.

Il vello d’oro era custodito dal re della Colchide Aete in un bosco sacro e sorvegliato da

un drago che sputava fuoco.

Giasone, assieme ai suoi compagni e anche con l’aiuto della figlia del re Aete, la maga

Medea (che si era invaghita di lui), riuscì , al termine di molteplici peripezie, ad

impadronirsi del vello dorato. Subito dopo, tutti gli Argonauti più Medea ed il di lei fratello

fuggirono precipitosamente dalla Colchide per non essere catturati dai soldati che il re

Aete, adiratissimo sia per la sottrazione del vello d’oro, sia per la defezione della figlia Medea,

aveva sguinzagliato al loro inseguimento.

Medea, per rallentare la marcia degli inseguitori, non pensò niente di meglio che uccidere il

fratello Apsirto, che si era unito a loro, a smembrarne il corpo e a gettare i pezzi del suo

cadavere in mare, costringendo così gli inseguitori a rallentare la marcia per raccoglierli e

dare a questi una degna sepoltura.

Nella loro fuga gli Argonauti dal Mar Nero avrebbero imboccato e risalito il fiume Istro (il

Danubio) e poi da questo sarebbero passati nel suo affluente Sava risalendolo sino alla

zona dove oggi sorge Lubiana. Qui, caricatisi sulle spalle la nave Argo, essi avrebbero

attraversato un tratto di terra che li separava da un altro fiume (3) lungo il quale

sarebbero poi scesi sino al mare Adriatico, sboccando in una località vicino a Tergeste (4).

Da qui sarebbero discesi lungo l’Adriatico, avrebbero circumnavigato la penisola balcanica,

risalito l’Egeo e quindi, attraverso il Bosforo, sarebbero ritornati in Tessaglia.

I soldati Colchi, mandati Aete all’inseguimento dei fuggiaschi, non essendo riusciti a

raggiungerli ed a catturarli, si sarebbero fermati nell’Istria ed avrebbero fondato Parenzo,

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Emona (Lubiana), Egidia (Capodistria) e Assiro (Pola), dando così origine in queste terre

ad una gente, logicamente di etnia colca (5).

Ma Giasone, ritornato sano e salvo in patria con il vello d’oro, si vide rifiutare dallo zio

Pelia la restituzione del trono di Iolco e, per non essere ucciso dall'usurpatore, fu costretto a

fuggire, sempre in compagnia della maga Medea.

Dopo altre peripezie Giasone, per non smentire la fama di buon marinaio, cornificò la

maga Medea accoppiandosi con Glauce, la figlia di Creonte, re di Corinto.

Medea, venuta a conoscenza del tradimento, adiratissima, si vendicò crudelmente. Non solo

uccise i due figli che Giasone aveva avuto con Glauce, ma anche pose fine ai di lui giorni

facendogli cadere sulla testa l’albero della nave Argo.

Altri narratori non concordano né con il tragitto che gli Argonauti avrebbero

seguito, né con la morte di Giasone per mano di Medea.

Il poeta Orfeo ( 1200 a.C.) li fa uscire dalla Colchide per il fiume Fasi e raggiungere un

oceano settentrionale (?) e poi navigare per l’Atlantico e per il Mediterraneo, senza citare

né il fiume Istro, né il mare Adriatico. Esiodo (~800 a.C.), Pindaro e Antimaco (~ 480

a.C.) li fanno ritornare per la Libia e giungere al Mediterraneo per il fiume Tritone. Ecateo

(~ 320 a.C.) concorda in linea di massima con loro, ma li fa ritornare per il fiume Nilo.

Sofocle (~ 406 a. C), Erodono (~ 350 a. C.), Calimaco (~ 236 a. C), Siculo (~ 40 a. C)

ed altri, quando più tardi si venne a sapere che il fiume Fasi non era collegato ad alcun

oceano, li fanno ritornare per la strada dalla quale erano venuti.

Sorge allora la domanda: come mai Plinio e Giustino, vissuti molti secoli dopo gli

scrittori citati e quindi a conoscenza dei loro scritti, hanno spacciato per vera solo la

storiella del passaggio degli Argonauti attraverso il Danubio e l’Istria?

Probabilmente per far contento l'imperatore Ottaviano nel ribadire la tradizione che le

epiche gesta degli Argonauti erano avvenute entro i territori allora sotto il dominio di

Roma. E la storia edita dai due scrittori è la più accettata anche oggi.

Ad ogni buon conto, viste le differenti narrazioni e la fervida fantasia dei vari scrittori,

è logica la conclusione che tutta l'epopea degli Argonauti altro non é che una bella, ma del

tutto inventata favola.

SECONDA LEGGENDA

Questa si aggancia alla guerra di Troia che sarebbe avvenuta in un periodo compreso tra

il 1250 ed il 1150 a.C. Secondo quanto narra Tito Livio (6) , l’eroe troiano Antenore, al

momento della caduta e della distruzione di Troia, sarebbe riuscito a scampare all’eccidio

perpetrato dai Greci nei confronti dei vinti ed allontanarsi a bordo di una nave..

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Con un non ben definito numero di guerrieri, tra cui un gruppo di “Eneti” (7), egli avrebbe

disceso il mare Egeo e poi sarebbe risalito lungo tutto l’Adriatico fino a raggiungere un

"profondo golfo” che segnava la fine del mare. .

Qui Antenore ed i suoi guerrieri sarebbero sbarcati e Il luogo dell' approdo sarebbe stato

chiamato Troia. Dopo aver scacciato dalla zona alcuni pre-esistenti gruppi di Euganei,

Antenore ed i suoi avrebbero passato il fiume Timavo (8) e avrebbero edificato

Concordia (nella zona odierna di Portogruaro), Altino (laguna veneta orientale), Sacile (zona

dell’attuale Pordenone) e Oderzo (sulla riva orientale del Piave). Antenore poi si sarebbe

mosso verso Ovest, inoltrandosi nella pianura padana orientale dove avrebbe fondato

Padova.

Anche qui, analogamente a quanto successo per i fautori dell'autenticità della

leggenda degli Argonauti, alcuni storici del passato hanno dato per attendibile il

racconto di Tito Livio ed hanno fatto risalire l'origine della gente veneta ai profughi

Troiani ed Eneti. Dal nome di questi ultimi, poi glottologicamente modificato in "Veneti",

sarebbe derivata la denominazione assunta dalla gente di quest'area.

TERZA LEGGENDA

Sulla base di un documento che si dice sia stato ritrovato a Trieste nel 1414 nel

monastero dei S.S. Martiri (ora conservato nell’Archivio storico comunale triestino) è

riportata un’altra amena storiella: la Cronaca del monte Muliano (9).

In tale documento (non è noto quando fu effettivamente scritto) si dice che nei registri

comunali dell’epoca era stato riportato che i signori Bartolomeo de Rossi (1514) prima e

Francesco Mirez (1592) poi, vice domini di Trieste, avevano riconosciuto il ritrovamento di

questo documento e gli avevano conferito il certificato di autenticità.

In tale documento viene riportato che il Senato romano era venuto a conoscenza che

in un luogo dell’Istria, noto con il nome di Monte Muliano (10), viveva un popolo libero che

non era sottomesso a Roma e che non versava alcun tributo.

Il Senato aveva allora inviato ambasciatori in questo luogo con l'incarico di imporre a questo

popolo la sottomissione, l'obbedienza a Roma ed il versamento di tributi.

Il governatore del popolo del Monte Muliano, assieme al Consiglio degli Anziani, dopo aver

discusso sulle imposizioni pretese da Roma, aveva ribattuto agli ambasciatori romani che

la stirpe del popolo del Monte Muliano era costituita da uomini fieri e coraggiosi, discendenti

da eroi troiani (riferimento alla leggenda di Antenore), stabilitisi là molto prima che Roma

fosse stata fondata (ossia 1368 anni prima) . Quindi gli uomini della città di Monte Muliano

dovevano essere considerati come un “padre” mentre Roma, essendo stata fondata dopo

(per informazione, nel 575 a.C.), come un “figlio”.

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Ora, poiché non era lecito che il padre si umiliasse al figlio, il popolo del Monte

Muliano mai avrebbe potuto accettare di cedere la sua libertà e di versare tributi a

Roma. Piuttosto avrebbe preferito combattere e anche a morire.

Gli ambasciatori, ritornati a Roma, avevano riferito al Senato questa risposta, aggiungendo

che quel popolo era costituito da uomini feroci.

Il Senato romano aveva allora arruolato un esercito che, recatosi nella regione e passati

i fiumi, si era accampato vicino al Monte Muliano.

Gli abitanti del Monte Muliano, appreso ciò, radunarono 15.000 uomini nel luogo detto

Sistiana, dove questi si imboscarono. Al mattino successivo essi attaccarono i Romani

con grandi grida e clamori e, inducendo in loro terrore, li costrinsero alla fuga.

Buona parte del loro bagaglio fu presa ed il loro capitano fece appena in tempo a fuggire

(chiaro riferimento alla batosta subita dai Romani nel 178 a.C. (11))

La notizia della disfatta arrivò a Roma dove fu subito ordinato l’arruolamento di un nuovo

esercito, più potente del primo ed al quale fu dato l’ordine di muoversi al più presto verso

il Monte Muliano e di conquistare e sottomettere a Roma questo insediamento.

Il Consiglio del popolo di Monte Muliano, saputa la mossa di Roma e temendo che la maggior

forza militare del nuovo esercito potesse avere il sopravvento, decise che, piuttosto che

sottomettersi, era meglio lasciare la città, le case e i terreni e, portando con se solo

le cose mobili ed il tesoro della città, andare alla ricerca di nuove terre dove poter

edificare nuove case, coltivare nuovi campi e continuare a vivere in libertà.

Fu così che, non appena le sentinelle avvistarono il nuovo esercito romano, molto più grande e

potente del primo, che stava avvicinandosi, venne attuato il piano di evacuazione predisposto.

Caricati i cavalli con quante più cose mobili era possibile e col tesoro, il popolo del Monte

Muliano abbandonò la località quattro giorni prima dell'arrivo dell'esercito romano,

prendendo la direzione della “Lemagna” (verso Est).

Giunti ad un’acqua detta Lubiana, i cittadini del Monte Muliano si fermarono e iniziarono

lì ad edificare una nuova città.

I Romani, giunti nelle vicinanze di Monte Muliano, si erano accampati fuori della cinta

muraria che lo cingeva.. Malgrado che le porte delle mura fossero aperte e che nessun uomo

fosse visibile, il Capitano dei Romani aveva ordinato che nessuno si avvicinasse alla cinta

ed entrasse senza il suo permesso. Egli aveva avvisato: “sono certo che loro (i guerrieri del

Monte Muliano) sono dentro ascosi con aguati, per redurne dentro e darne adosso; sono

homeni valenti de gran fama”.

Più tardi un cavaliere ebbe l’autorizzazione di avvicinarsi alla cinta per provocare coloro che

si presumeva fossero dentro. Visto però che nessuno rispondeva alla sua sfida, il cavaliere

entrò in avanscoperta. Constatato che effettivamente nessuno era presente e che tutte

le case erano vuote, le truppe romane entrarono nella cinta senza pericolo.

Il Capitano dell’esercito informò Roma che gli uomini del Monte Muliano avevano tutti

abbandonato la città, portando con se il tesoro che, in quanto ricchi e potenti, doveva

essere cospicuo.

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A questa notizia il Senato romano ordinò al Capitano di individuare il luogo dove erano

andati i “valenti homeni de Monte Muliano” e, una volta trovati, egli , Capitano,

doveva riconoscere e dichiarare il loro valore ed onore. Poi egli avrebbe dovuto promettere,

in nome del Senato, la libertà e l' esonero dal pagamento dei tributi per tutti.

Doveva inoltre convincerli a ritornare nella loro sede originaria .

Il Capitano mandò tre cavalieri con il sigillo romano alla volta della località dove si erano

trasferiti gli abitanti del Monte Muliano e, una volta raggiunti, essi si rivolsero a loro così:

“O Signori homeni valenti e potentissimi di Monte Muliano! O homeni di grande

fama e de grande honore ! Sapiate, come ve mostro la chiarezza, come lo Impero

Romano ve manda a voi a dire e pregare che voi debbiate retornare a logo vostro, zoè a

Monte Muliano. Che in tutto e per tutto lo Impero a voi tutti ve vuol far franchi e

concedere franchigia naturale. Che voi e li vostri e chi sarà dopo di voi, in tutto e per

tutto siate franchi per sempre e como volè fare, como in questo sigillo appare”.

Davanti a questa offerta , buona parte degli uomini, delle donne e dei loro

figli ritornò a Monte Muliano. Solo una parte rimase nel luogo di Lubiana, da dove non

volle ritornare e continuò ad ingrandire quel nuovo insediamento.

Coloro che ritornarono constatarono che effettivamente le promesse fatte dal Senato Romano

(cioè salvacondotto, libertà ed esonero dal pagamento di tributi) venivano rispettate.

L’esercito romano ritornò a Roma e la Storia scrisse :

“uno homo val cento e cento no val uno “ (? ? ?)

Malgrado l’evidente pateticità e l’ingenua fantasia di questa “bufala”, rilevata anche da

molti dei suoi contemporanei, il buon abate Vincenzo Scussa, dopo essersi caparbiamente

arrampicato sugli specchi, citando pure soprattutto varie situazioni (in gran parte fasulle),

si premurò i di affermare come veritiera la storiella sopra riportata (12) (13).

NOTE (1) V. Scussa - Storia cronologica di Trieste (1700) - Ristampa a cura della Libreria Internazionale " I. Svevo" (1968). (2) La Colchide era una regione situata tra l’attuale Caucaso e l’Armenia. (3) Probabilmente si tratta del fiume Quieto (oggi Mirna). Tuttavia nel linguaggio dei popoli primitivi, anche questo veniva indicato col nome di "Istro", il cui significato primordiale era "fiume", senza alcuna aggiunta di un qualsiasi nome.. Va fatto rilevare che alcuni studiosi fanno derivare da questo ’appellativo il nome di "Istria", esteso a tutta la regione. (4) Plinio [23 –79 a.C.] Hist. lib. 4, cap.18 : “ Argo navis flumine in Adriaticum descendit non procul a Tergeste” (La nave Argo discese nell'Adriatico (lungo) un fiume non lontano da Tergeste). Va fatto rilevare tuttavia che “Tergeste”, all'epoca alla quale Plinio fa risalire la vicenda (circa 2 milenni prima), non esisteva ancora. (5 Giustino ([II sec. d.C.] HIist. lib. .32 :” Istrorum gentem, fama est originem a Colchis ducere, missis ab Aeta rege ad Argonautas raptoremque filiae persequendos “ (E’ fama che l’origine della gente degli Istri si riconduca ai Colchi, mandati dal re Aeta ad inseguire gli Argonauti , rapitori della figlia).

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(6) Tito Livio Dec.1, Cap 1 (7) Da una citazione di Omero nell’Iliade (Il. 851-852) nella quale, tra gli alleati dei Troiani, è menzionato un gruppo di guerrieri “Eneti ” rimasti senza il capo, Pilemene, morto sotto le mura di Troia.

Questi Eneti erano originari della Paflagonia, regione che si trovava lungo la costa meridionale del Mar Nero (attuale Nord-Turchia). Antenore ed i suoi, una volta sbarcati nella zona dell’alto Adriatico, avrebbero preso stanza e dato origine al popolo dei (V)Eneti.

A questa tesi fanno cenno il drammaturgo greco Euripide (480 - 406 a.C.), lo storico greco Teopompo (380–320 a. C.) e successivamente anche i latini Catone, C. Nipote e, naturalmente, Tito Livio. (8) Tito Livio, come dimostrato anche in altre circostanze, oltre a non essere sempre preciso nelle sue citazioni , non doveva avere neanche una buona conoscenza dell’orografia della regione. E’ evidente che ha confuso il Timavo con l’Isonzo, o con il Tagliamento o col Piave. Ma per lui erano tutti e soltanto dei corsi d’acqua ed il loro nome non era importante. Va fatto anche notare che il nome e la località di "Sistiana", usati nel documento per indicare la zona dove sarebbe avvenuto lo scontro tra i guerrieri del Monte Muliano ed i Romani , non esisteva ancora (178 a.C.) C’era sì un centro di scambio merci, ma un po’ più a Nord e con nome differente (0ra S. Giovanni di Duino). (9) In base alle caratteristiche del linguaggio usato nel testo, è stato dedotto che il documento dovrebbe essere stato scritto attorno al 1400 d.C . da qualche scriba locale, forse per avanzare pre-esistenti diritti territoriali e/o per non pagare tributi. Le imprecisioni riportate sono molteplici. Una fotocopia del testo originale del documento è disponibile a richiesta (e gratis). (10) Non è ben chiaro da dove salti fuori questo nome, e neppure a quale zona esso possa essere riferito. Lo Scussa lo attribuisce all'odierno colle di S. Giusto, ma senza indicare alcuna derivazione glottologica. Sergio Grandenigo, nel suo libro, lo identifica con l'odierno Monte Bello (Mons Belli= Monte della battaglia)) e lo fa derivare dal nome del console Manlio Vulsone (Mons Malianus ) Secondo lui, nei secoli successivi tale denominazione sarebbe stata glottologicamente deformata in “Monte Muliano”. Personalmente io non sono d’accordo con nessuna delle interpretazioni fatte che ritengo troppo forzate. A me sembra invece che il nome di Monte Muliano potrebbe essere derivato da "Mons Moncolanum", nome dl un castelliere esistente, ai tempi pressappoco corrispondenti al racconto, sul colle dove ora sorge “Contovello”. (11) Come documentazione di tale scontro, vedi il quadro-disegno di A. Marangoni (1863) . Da notare, in alto a sinistra, la sagoma del castello di Duino che, secondo l'autore del disegno, viene dato per già esistente all'epoca dell'intervento romano (circa 2 secoli a. C). No comment ! ! ! Potrebbe servire all’albero genealogico dei principi Della Torre e Tasso.. (12) Lo Scussa scrive: “Il che tutto, bene considerato, dà credenza ed afferma la relazione nel precedente capitolo descritta essere veridica” (appunto la Cronaca del Monte Muliano), (Storia Cronografica di Trieste 1700 – pg 16). (13) L'ossessionante ricorso alla frase "homini feroci e valenti" del quale il documento abbonda, fa sorridere. Viene sostenuta l'esistenza di "homini feroci" in grado di mettere soggezione sia agli ambasciatori che alle milizie romane ! ! !. Si rende manifesta la volontà del compilatore dello scritto di voler esaltare gli antichi abitanti del Monte Muliano probabilmente per impressionare eventuali terzi e/o per acquisire o mantenere certi privilegi sulla base di eventi storici. Non per niente le storia finisce con una affermazione di pretto stile campanilistico: " un homo (evidentemente di Monte Muliano) val cento e cento (evidentemente Romani) no val uno. Infine non è da sottovalutare il fatto che un documento simile (se fosse vero e di conseguenza molto importante) non sia stato redatto in latino !

Da quanto esposto sopra è ragionevole dedurre che nessuna delle leggende riportate può

essere assunta come una plausibile fonte di veridicità e quindi tale da permettere di

attribuire, con attendibilità la reale origine delle popolazioni che hanno abitato e/o sono

passate sulle terre orientali della penisola italica ed in particolare di Trieste.

Tuttavia tutte e tre le leggende citano dei particolari che, quando valutati con logica e

correlati a fatti che dovrebbero essere realmente accaduti, possono fornire qualche curiosa

indicazione sia dei luoghi in esse citati, sia di qualche fatto realmente accaduto.

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Nel corso di questo mio scritto, non ho mancato di far notare quando e dove queste

coincidenze sembrano essere palesi.

IPOTESI SULL'ORIGINE DELLE GENTI CHE POPOLARONO LE AREE

DEL NORD-EST DELLA PENISOLA ITALICA NELLA PREISTORIA

Sino a qualche tempo fa, le ricerche ed i riferimenti su quanto potrebbe essere

avvenuto nel Nord–Est della penisola italica nel passato remoto e sull’origine delle genti

che transitarono e/o abitarono in essa e nelle aree circostanti, si basavano su pochi

frammenti di scritti di vari Autori antichi, sia greci che romani, che sono giunti sino a noi (1).

Come visto nel caso delle leggende prima citate, certi luoghi e fatti indicati sono nella

maggioranza dei casi in contraddizione fra di loro, ma talvolta anche in accordo. Ne consegue

che l’attendibilità di certe assunzioni fatte da coloro che nel passato si erano assunti l'impegno

di scrivere una qualche storia, non avendo ancora a disposizione sufficienti strumenti di

consultazione per verificarne la veridicità di certi avvenimenti, hanno fatto riferimento in

misura più o meno concreta alle esistenti tradizioni e delle storie tramandate dalle varie

genti, anche se con le inevitabili alterazioni apportate nel corso dei secoli.

Negli ultimi anni però sono state condotte, e si stanno tuttora conducendo da parte di

persone di provata competenza e con l'ausilio di moderni e sofisticati metodi di indagine,

ricerche approfondite sulle migrazioni dei popoli primitivi provenienti dalle aree dell'Asia

orientali verso l’Europa. Queste ricerche si basano su ritrovamenti archeologici (tombe e

manufatti), su rovine di antichi centri, sull’origine ed sull'uso di certe parole (anche se

glottoligamente distorte), sulla sopravvivenza di certe tradizioni e, in qualche caso,

anche sull'esame del DNA di scheletri ritrovati in certe aree e confrontato con quello di

rappresentati tipici dei popoli attuali, che hanno consentito una più realistica determinazione

della loro discendenza. Si stanno così delineando conoscenze più concrete su situazioni e fatti

avvenuti nell'area europea nella preistoria. Vedremo cosa potremo scoprire in futuro.

Nel corso della mia ricerca, mentre per le zone dell'Europa centro-occidentale sono riuscito a

trovare in "Internet" già diverse notizie (risalenti già dalla fine dell'ultima glaciazione circa

40.000 anni fa) ed altre preziose informazioni sino alla comparsa dei primi resoconti storici

(circa 1500 anni a. C.). Purtroppo non molto sono riuscito a reperire sulle vicende che sono

avvenute nel Nord Est della penisola italica e questo soprattutto per la mancanza di reperti

certi. Ma sfruttando l’enorme potenzialità di informazione che oggi "Internet" ha messo a

disposizione, sono riuscito a reperire qualche materiale interessante. Mi sono limitato

logicamente a selezionare le informazioni che riguardano le zone del Nord-Est della

penisola italica, ma non ho trascurato quei collegamenti a particolari avvenimenti

che, anche se avvenuti al di fuori dei confini che mi sono proposto, hanno tuttavia

avuto delle ripercussioni sui fatti locali. Nell’esporre quanto sono riuscito a reperire, ho

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cercato anche di tener nel debito conto i comportamenti logici sulle cui basi le antiche genti

possono aver agito. Queste genti infatti erano tutt'altro che di intelligenza ancora

relativamente poco sviluppata o ingenua ma al contrario hanno sempre dimostrato di aver

avuto uno spiccato spirito di osservazione, di ragionamento e di iniziativa, spirito affinato

dalle difficoltà che la natura e l'ambiente loro circostante presentavano in continuo. Il loro

superamento era essenziale per garantire la sopravvivenza. L'istinto di sopraffazione nei

confronti dei più deboli spingeva di norma a combattere ogni intruso o rivale, sia che

appartenesse allo stesso gruppo o che fosse di ceppo diverso dal proprio, magari anche solo per

rubargli cibarie, armi e pelli o per sloggiarlo e sistemarsi nella sua area.

Il principio “Mors tua, Vita mea !“ era sempre presente e rigorosamente applicato.

E’ ormai ampiamente dimostrato che il popolamento dell’Europa é stato sempre

legato alle migrazioni di molteplici popoli, di differenti etnie, che sono arrivati in epoche

diverse non solo dalle terre dell' Estremo Oriente, dalle steppe siberiane e/o dalla Mongolia,

ma anche dall’area mediterranea, dall'Africa e dal Medio Oriente.

I popoli che sono arrivati dall'Est, nelle loro migrazioni verso l'Europa, hanno seguito le vie

di penetrazione più agevoli. Quelle tracciate dal Danubio e dai suoi affluenti Drava,

Sava e Tibisco. Questi grandi fiumi infatti hanno facilitato il cammino di queste genti

non opponendo grossi ostacoli naturali da superare (vedi disegno).

Invece i popoli di origine mediterranea hanno sfruttato, come vie di penetrazione nella

Europa le coste della penisola balcanica, di quella italica e iberica, da loro raggiunte a

bordo di zattere prima e poi su più o meno attrezzate barche e/o navi.

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La migrazione dei popoli provenienti dall'Est verso il centro dell’Europa, dopo aver

risalito il Danubio é continuata proseguendo sul Reno, sul Rodano e sui loro affluenti. Queste

genti hanno realizzato una penetrazione ed uno sparpagliamento in sempre più vaste zone.

A questo proposito ho trovato interessanti informazioni, oltre che su Internet, anche su di un

libro scritto da una persona che ho ritenuto abbastanza competente e quindi credibile

non solo nella descrizione dell'evoluzione degli eventi storici inerenti le sopracitate zone, ma

anche di altri avvenimenti avvenuti al di fuori di queste. Mi riferisco al professor Sergio

Gradenigo (1886–1966). Solo su alcune sue supposizioni non mi sono trovato d’accordo e,

in questi casi, l’ho fatto notare e indicato.

Nel suo libro (2) Il Gradenigo propone un quadro abbastanza realistico sull’origine delle

genti che penetrarono e che si distribuirono nelle varie zone dell’Europa centro-meridionale

sin dagli albori della Civiltà. Lui fa una meticolosa esposizione dei fattori e delle situazioni

sulle migrazioni dei diversi gruppi di genti collegandoli a toponimi , ad usi e costumi, a

lotte ed a pulizie etniche, ad assorbimenti di intere popolazioni da parte di altre.

Lui ipotizza che un primo nucleo consistente di genti (che definisce Atriani),

originario delle regioni situate a Sud del lago di Aral, si sia mosso dapprima verso l'area del

Caucaso e poi del Mar Caspio e da lì abbia iniziato a diffondersi nell’ Europa centro-

meridionale attorno ai 6000 anni a.C.

Basandosi sull' unione di due lettere, la “T" e la “R” in “TR” lui, assumendo questa come

traccia del tragitto di queste genti, ne segue il percorso identificando la presenza del “TR” nel

nome di antiche città o località che i popoli degli Atriani avrebbero fondato e/o attraversato

nel corso di secoli. A seconda dei centri fondati e abitati dagli Atriani, il Gradenigo fa

notare che, alla radice fissa "TR" (indice di luogo commerciale) veniva affiancata una

desinenza, differente da area ad area, ma pur sempre col significato di "centro abitato. Più

precisamente: "POLIS", dalle genti che si diffusero nella penisola greca, "GRAD" da quelle con

influenze slave, "BURG" da quelle che si diffusero nel centro Europa, "DENTUM" dai Popoli

delle Steppe, "ICCO" o "ACCO" dai Carni ed infine "ESTE" dalle genti diffusesi nelle

pianure veneta ed euganea. Tali desinenze, unite al prefisso comune"TR" sono ancora presenti

in molti nomi di città e di regioni europee.

Secondo la sua ipotesi gli Atriani avrebbero iniziato a muoversi verso Ovest (3). in una

un’epoca compresa tra i 6.000 e i 5.500 a.C., seguendo grosso modo il percorso

indicato nel disegno a pagina seguente.

Dapprima sarebbero discesi lungo il fiume Dnepr, sul quale avrebbero fondato la città

di TRiPOLIS (distrutta circa un millennio più tardi da un altro popolo migrante) poi

avrebbero percorso le coste settentrionali del Mar Nero e, giunti sul delta del Danubio (da

loro indicato come “Istro”, ossia "fiume"), avrebbero incominciato a risalire le sue sponde.

Lungo il loro tragitto avrebbero fondato la città di IsTROPOLIS (oggi Silistra) e poi

avrebbero continuato il loro cammino dividendosi in due tronconi..

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Una parte avrebbe continuato a risalire il corso principale del Danubio per poi

diffondersi nelle zone dell'Europa centrale, mentre gli altri avrebbero risalito i due suoi

affluenti, Sava e Drava

.

La parte che avrebbe risalito la Sava, raggiunta la zona dove oggi sorge Lubiana, avrebbe

attraversato un valico (in epoche successive denominato di Nauportus) e sarebbe poi discesa

nelle zone pianeggianti dell'attuale Veneto. Avrebbe quindi proseguito lungo la pianura

padana, sparpagliandosi in lungo ed in largo, ma fermandosi dinanzi alla barriera delle Alpi

Occidentali.

La parte che invece avrebbe risalito la Drava avrebbe continuato il suo migrare verso l'Europa

centro-meridionale, riversandosi nelle zone dove oggi si estendono l'Ungheria, l'Austria, la

Svizzera più la parte meridionale della Germania.

Alcuni gruppi che avrebbero risalito la Sava, invece che riversarsi nella pianura veneta

avrebbero preferito discendere lungo la penisola balcanica, e raggiungere, nel corso di

qualche secolo, il mare Mediterraneo.

Nel corso di questi spostamenti, queste genti sarebbero venute in contatto (e si sarebbero

anche mescolate) con le popolazioni già pre-esistenti e di origine mediterranea (sumerica,

egizia e fenicia in particolare) ed avrebbero assimilato molto della loro cultura.

Dai Sumeri avrebbero appreso i rudimenti di una scrittura di tipo cuneiforme e dai

Fenici sia l’arte di navigare che quella del commercio. Sarebbero poi passati, attraverso

l'attuale canale d'Otranto, nella penisola italica meridionale ed in Sicilia.

Generazione dopo generazione (molti secoli), sarebbero risaliti dall’Italia meridionale verso

Nord, lungo le coste dell’Adriatico e del Tirreno, penetrando anche nelle zone interne.

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Nel corso di questo tragitto, anche altre genti, provenienti dalla Grecia, si sarebbero

mescolate a loro e assieme avrebbero dato origine ai popoli pre-latini ed Etruschi Tutte

queste genti avevano già un grado di cultura abbastanza avanzato (è noto che gli Etruschi,

usavano già un alfabeto cuneiforme proprio)

Invece nelle genti che secoli prima, oltrepassato il valico delle Alpi Orientali, si erano diffuse

nelle pianure venete e padana, il livello di cultura era rimasto un po’ più basso, ma tuttavia

più che sufficiente per fondare e gestire molteplici agglomerati abitativi. Erano le popolazioni

pre–Euganee e pre-Venete.

Tra il 3500 ed il 2500 a.C. scesero dall’Asia settentrionale altre popolazioni, di etnia

indoeuropea. Queste stazionarono per un certo periodo fra il Volga, l'attuale Mar Caspio ed

il Mar Nero. Tali genti erano indicate come i "Popoli delle Steppe.

Anche questi però, sospinti da altre genti provenienti dall'estremo Oriente (mongoli), si

mossero verso Sud-Ovest (~ 1500a.C.) occupando progressivamente le terre già colà abitate.

I popoli delle Steppe penetrarono e si diffusero sia nella penisola balcanica sia in

Anatolia. Poi continuarono ad espandersi verso Occidente, seguendo anche loro la classica via

di migrazione offerta dal Danubio e dai suoi affluenti.

Gruppi di queste genti si scontrarono, con esisti alterni, con le genti stanziatesi prima

di loro nelle terre che stavano attraversando, provocando un loro ulteriore spostamento verso

la attuale Spagna a Sud e verso la Bretagna e le Isole britanniche a Nord.

Tra i 1300 e i 1000 a.C., altre genti, di ceppo slavo, originarie delle zone situate a Nord-Est

dei Carpazi ed anche loro sottoposte a consistenti pressioni da parte di popoli mongoli, si

mossero a loro volta verso Sud-Ovest, invadendo diverse zone della penisola balcanica.

In meno di due secoli occuparono le aree dell'attuale Croazia, Serbia, Macedonia ed Albania.

Da queste genti si sarebbe staccato un gruppo particolarmente bellicoso, che applicava come

sua principale attività di sostentamento la predazione e la pirateria.. Tale popolo si stanziò

sulle coste dell 'attuale Croazia ed Albania (1000 a.C.). Era identificato col nome di “Illiri”.

Come detto, la principale attività questa gente era la pirateria, sia via mare (dalle coste

venete a quelle centro-italiche sino all'attuale canale d'Otranto), sia via terra. Come risultato,

frequenti erano i saccheggi delle terre e dei beni dei pre-esistenti insediamenti urbani .

Sempre attorno al 1000 a C., altri gruppi dei “Popoli delle Steppe” sarebbero

discesi dal Nord per muoversi poi verso Est. Dopo aver raggiunto il Mar Nero, anche loro

avrebbero risalito il Danubio e poi la Drava, giungendo a ridosso delle Alpi Orientali.

Attraverso il valico relativamente poco elevato, colà esistente, avrebbero iniziato la discesa

verso le pianure veneta e padana (vedi disegno a pg seguente)

Va tenuto presente che la migrazione dei primi gruppi dei Popoli delle Steppe” (3000-2500

a.C.) era iniziata nell’età del bronzo, ma quella relativa a questi ultimi gruppi

(1000 a. C.) è avvenuta quando era già in essere l’età del ferro.

Oltre che essere dotate di utensili e di armi forgiate con questo metallo, queste genti già

praticavano l’allevamento del bestiame, l’addomesticamento dei cavalli ed anche l'agricoltura

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Come accennato prima, diversi di questi gruppi si riversarono nell'attuale pianura

veneta dove stanziavano già i “Veneti”(4), gli "Etruschi" ed altre “genti italiche”.

Fra questi e le popolazioni stanziali ci furono furiosi ed aspri scontri che si risolsero con il

confinamento degli "invasori " nelle zone più orientali del Nord–Est italico e nell'Istria.

Più tardi, fra queste genti ed i Veneti si instaurarono anche rapporti e scambi commerciali e

cominciarono a comparire nel Nord della penisola italica merci di origine orientale (ambra,

monili, armi in ferro ecc.), provenienti evidentemente dalle zone del Mar Nero. Tali merci

venivano barattate con manufatti di produzione locale (vasellame, pelli, ecc), il tutto regolato

da esperienze commerciali apprese dalle culture medio-orientali.

Col passare del tempo parte delle genti che dimoravano in queste aree si mescolarono

con le popolazioni locali, ma in buona parte ritornarono verso Est e/o si dispersero in varie

altre direzioni.

Sparuti gruppi scesero lungo la penisola balcanica seguendo le vie già percorse qualche

millennio prima dai loro antennati. Spostandosi ancora più a Sud vennero in contatto con

le culture mesopotamica, micenea, fenicia, egizia, provenienti dal Medio Oriente e dall'Africa.

Sempre dal Sud della penisola balcanica, molte delle genti colà dimoranti avrebbero

continuato ad attraversare l’attuale canale d'Otranto. Raggiunta la parte meridionale della

penisola italica, oltre che vivere non più in modo primordiale, ma secondo più comode usanze

acquisite, tali genti avrebbero diffuso tra la gente colà stanziante anche le credenze religiose

greche ed ai miti di Enea e di Antenore, i due eroi troiani decantati da Omero (tener presente

che siamo attorno al 1000 a.C., cioé 2 o 3 secoli dopo la guerra di Troia).

Fra l’800 ed il 700 a. C., nella zona dell'odierna Carinzia si era frattanto insediato un

gruppo di genti, probabilmente appartenenti ancora alle ultime generazioni dei Popoli delle

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Steppe. Anche queste avevano avuto ripetuti contatti con genti di coltura medio-orientale e

non persero molto tempo per assorbire i concetti ed i vantaggi che potevano rendere le loro

vite più agevoli. Fu così che, soprattutto e anche per la loro intraprendenza, essi furono in

grado di sviluppare in breve tempo in quell'area un gruppo sociale dotato di livello

tecnologico e commerciale abbastanza progredito.

In quell'area, dove oggi sorge Salzburg, si concentrò e si sviluppò allora tutta una serie di

iniziative artigianali e commerciali. Avendo assimilato e ulteriormente sviluppato anche buone

conoscenze nell’agricoltura, nell'allevamento di cavalli e nella pastorizia in generale, queste

genti cominciarono anche a sviluppare grandi coltivazioni ed allevamenti di bestiame vario,

barattando poi i prodotti e manufatti con merci ed altri beni dei quali avevano richieste sia da

parte dei loro che di altri popoli circostanti. Svilupparono anche il commercio del sale (di cui

la regione era ricca) scambiandolo con armi in ferro importate dall'Anatolia e dal medio

Oriente . Lo sviluppo di tali attività viene oggi riconosciuto come la " cultura di Hallstatt"

(5). Gli scambi commerciali avvenivano sia con i Veneti che con gli Etruschi e con altri

popoli italici, ma non solo. Anche con popoli dell’area Reno-danubiana a Nord e con le

genti dell'area del Mar Nero e dell'Anatolia a Est.

Poco più tardi, nell’area compresa tra il basso Rodano, l'alto Reno e l’alto Danubio,

incominciò a prendere identità ed ad ingrandirsi un altro gruppo di genti, tecnologicamente

ancora più avanzato di quello che si era stanziato a Halstatt . Queste genti furono in grado

di apportare ulteriori progressi sia nella tecnologia della produzione di utensili, che nella

ceramica, nell’arte della scultura e nelle relazioni e abilità commerciali. Questo nuovo polo

culturale viene oggi identificato come "la cultura di La Tène", con locazione nella zona del

lago oggi noto col nome di Neuchatel (Svizzera) .

Dalle genti che si erano stanziate e dimoravano nel centro Europa, ebbe origine il

nucleo di quella etnia che, dal 600 a.C. in poi, verrà identificata come la “Stirpe Celtica”.

Gli uomini ad essa appartenenti, oltre che essere abbastanza eruditi, rimasero però sempre

fedeli alle loro primordiali tradizioni e, consapevoli della loro acquisita esperienza sia

culturale che organizzativa, oltre ad essere molto prolifici, non si dimenticarono di essere

anche dei guerrieri. Spinti da uno spiccato spirito espansionistico, inculcato da padre in figlio,

incominciarono a sparpagliarsi in aree sempre più vaste, occupando e sottomettendo

territori sempre più estesi.

Essi si espansero dapprima nelle aree dell’attuale Slovacchia, della Polonia, della Germania

e della Francia (Galli transalpini) , poi anche nella Gran Bretagna (Britanni).

A Sud, dopo aver passato le Alpi Centro-Occidentali attraverso gli attuali valichi del

S. Bernardo, del S. Gottardo, del Sempione, ed altri, si diffusero anche nell’Italia Nord –

Occidentale (Galli cisalpini). A questi viene attribuita la fondazione di Torino (Galli Taurici) e

di Milano (Galli Insubri). Altri gruppi si diressero anche verso Est ed occuparono vaste

aree della pianura veneta. Altri ancora, aggirate a Sud le Alpi Orientali, si riversarono

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nella penisola balcanica e, malgrado la forte resistenza opposta dagli Illiri, continuarono la

loro discesa sino a raggiungere il mar Mediterraneo.

Nella stessa epoca, anche gruppi di Illiri, facendo un cammino inverso, tentarono di entrare

nella pianura veneta, presumibilmente dopo aver attraversato l’Istria ed estendere là le loro

predazioni e razzie di ogni specie, ma furono respinti dai Veneti e ricacciati indietro.

Il seguire tutte le tappe della diffusione dei vari ceppi dei popoli dei Celti esula dagli

intenti di questa indagine che è intesa soltanto alla descrizione degli avvenimenti accaduti

nelle regioni del Nord – Est della penisola italica e nell’Istria.

Quindi di seguito sono trattate quelle vicende preistoriche, antiche e storiche che sono a

queste legate. Saltuariamente però sono indicati anche fatti e circostanze che sono avvenute

in altre aree, ma pur sempre influenzanti il Nord-Est italico.

NOTE (1) Esiodo (800 a.C.), Pindaro (480 a.C.), Erodoto (450 a.C.), Sofocle (406 a.C.), Erodoro (350 a.C.), Ecateo (320 a.C.) Timeo (280 a.C.), Strabone (50 a.C.), Tito Livio (25 a.C.), Plinio (35 d.C.), Tolomeo (140 d.C.).

(2) Sergio Gradenigo,- "Alle Origini di Trieste" - edito da Libreria Internazionale I. Svevo - Trieste 1970. (3) Queste migrazioni non vanno considerate come torme di genti marcianti in continuità e secondo certe direttrici, ma come un lento diffondersi, nel corso di secoli, di tribù, anche se di etnie diverse dalle originarie, alla ricerca sia di nuovi pascoli che di razzie a danno delle popolazioni preesistenti nelle terre da loro attraversate. Si può stimare in media uno spostamento di 400-500 km ogni 3 o 4 generazioni (circa un secolo). (4) Gruppo di genti che, come si vedrà in seguito, aveva avuto origine dal mescolamento fra Euganei e gruppi di etnia greca ed anatolica ed anche di profughi di guerre (ad es. quella di Troia o altri conflitti medio orientali), che erano giunti là risalendo l'Adriatico.. (5) "Hallstatt" é una località che dà il nome ad un lago dell'odierna Austria superiore. Era sede di una comunità evoluta, sorta là già all'inizio dell'età del Ferro. Successivamente da qui qualche gruppo si sarebbe spostato nelle zone dell'attuale Svizzera, Francia orientale e Germania meridionale, dove dette origine ad una nuova cività (civiltà di Tène), con centro sull'odierno lago di Neuchatel.

Gruppi di altre etnie (illirica in particolare) si sarebbero invece spostate nelle zone dell'attuale Austria, Boemia ed

Ungheria dando origine a centri produttivi dello stesso genere.

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IL VENETO, IL FRIULI, TRIESTE e L’ISTRIA DALLA PREISTORIA

ALLA NASCITA DI CRISTO. Le prime tracce di insediamenti umani nelle regioni del Nord-Est italico risalgono

alla fine dell’ultimo periodo glaciale (~ 6.500 anni a.C.). Tali tracce (punte di frecce in

selce, lavorazione dell’osso, disegni su pareti rocciose) sono state lasciate da uomini del

paleolitico in alcune caverne dove qualche sparuto gruppo di individui aveva sostato, nel

corso delle sue continue peregrinazioni, in cerca di prede da cacciare per sfamarsi

(grotta Pocala [Aurisina], grotta Bettal [Postumia], grotta di Leme).

Tuttavia queste tracce sono poche.

Qualcosa di più, appartenente al successivo periodo neolitico, ma sempre di esigua entità,

é stato trovato in alcune grotte usate dagli uomini di questo periodo come ricovero,

anche stanziale (es. Grotta delle Gallerie in Val Rosandra). Resti di animali domestici

come capre, pecore, bovini, assieme a quelli di cacciagione (e di molluschi, nelle caverne

vicino al mare), fanno presumere il crearsi di una certa aggregazione in gruppi che,

oltre alla caccia, esercitavano anche delle attività di allevamento di bestiame e di

agricoltura. Questi uomini erano già in grado di fabbricarsi del vasellame ed ornamenti, sia

pure di grossolana fattura. A testimoniarlo ci sono degli oggetti in osso rinvenuti in diverse

cavità. Nel periodo successivo (età del bronzo 1500 a.C.), l'uomo abbandonò le caverne per

trasferirsi sulle alture vicine, che circondò con cinte murarie (i Castellieri). All'interno

concentrò le bestie e costruì rudimentali ripari in pietra adibiti a dimora. Le genti che

li abitarono assunsero carattere sempre più stanziale, a scapito del nomadismo.

Il passaggio dalla dimora in caverne ai castellieri avvenne probabilmente in seguito al contatto

e stanziamento nelle aree della penisola istriana di genti più evolute, trasferitesi là da

altre regioni. Tali genti Incominciarono ad usare punte di armi non più in osso, ma in

rame, in bronzo e più tardi in ferro (dal 1000 al 700 a.C.), Queste armi, introdotte da genti

provenienti dall'attuale Mar Nero o che erano vissute nelle zone del Danubio e dell'attuale

Carinzia (civiltà di Hallstatt). Sono stati rinvenuti anche ornamenti femminili risalenti a

questo periodo, come catene, pendagli, fibule ecc.

Il ritrovamento di ceramiche di una certa qualità, indica il progressivo progredire del-

l’evoluzione di queste genti. Il rinvenimento di monili risalenti a questa epoca e di origine

orientale (ceramiche e collane d’ambra a S. Canziano) dimostra anche che già allora

erano in atto contatti con le popolazioni situate a Est, al di là delle Alpi Giulie..

Un importante centro di scambio di merci provenienti dall’Oriente (soprattutto

ambra e armi in ferro) con merci originarie delle culture mediterranee era presente nella

zona dove oggi sorge San Giovanni di Duino, alle foci del Timavo. Qui doveva esserci

anche un porto, alle risorgive del fiume, e probabilmente anche un'altro nell'attuale baia di

Sistiana. E’ evidente che questo centro aveva la sua ragione d’essere per soddisfare la

domanda e lo scambio non solo tra gli abitanti dei castellieri e quelli dell’Istria con

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quelli del veneto orientale, ma anche con genti delle regioni italiche poste più ad Occidente

e lungo la costa della penisola italica.

L’uso del cavallo, sia come animale da traino che di spostamento é documentato da un

disegno inciso in una piccola fibula d’osso, ritrovata nella grotta di San Canziano.

Sempre attorno al 1000 a.C., nelle regioni del Nord - Est italico comprese tra la

catena delle Alpi Orientali ed il mare, erano già presenti insediamenti di varie popolazioni,

Etruschi, Euganei ed Italici ( ricordo che siamo all'epoca della guerra di Troia).

Queste genti, avendo avuto origine da popolazioni che, nel loro passato erano transitate e

soggiornato nelle aree mediterranee, avevano una cultura ed usanze diverse e

probabilmente più avanzate delle genti che invece provenivano dalle aree del Reno ed

dell'alto Danubio. Dai contatti con le culture mediterranee, queste genti avevano appreso

come coltivare la terra, allevare ed addomesticare animali, produrre vasellame e monili.

Avevano anche assimilato principi matematici, la scrittura (cuneiforme) e la tecnologia per

produrre manufatti sempre più complessi. Dalla cultura fenicia avevano appreso l’arte di

navigare ed orientarsi ed anche i fondamenti del commercio. Altre conoscenze le avevano

acquisite anche dagli Euganei, che occupavano le terre che si estendevano dalla parte

superiore del mare Adriatico sino alla catena delle Alpi e che avevano già delle cognizioni

di una certa levatura di disciplina e di cultura artistica.

E nell'area delle pianura veneta che, data la sua posizione, é sempre stata una

terra di passaggio di genti diverse, ci sono stati , nel corso dei secoli, numerosi scontri

armati ma anche scambi commerciali (ambra, sale, vino, metalli) e coesistenza di civiltà e

culture diverse provenienti dall'Egeo, dal Mar Nero, dal centro e dal Sud della penisola italica

e anche da una parte e dell’ Europa centrale.

A questo punto mi sia concessa una divagazione: mi riferisco alla leggenda degli

Argonauti citata all’inizio (Prima Leggenda), la cui origine risalirebbe al 1.200 a.C.

Si narra che gli Argonauti, inseguiti dai soldati del re Aerte, avrebbero risalito con la nave

Argo il fiume Istro (Danubio). Poi, attraverso l’affluente Sava ed un valico tra i monti

sarebbero giunti ad un'altro fiume (il Quieto?) e lungo questo sarebbero discesi sino al mare

Adriatico in un punto non lontano da Tergeste.

A parte la dubbia attendibilità della leggenda, risulta però evidente che a chi l’aveva

inventata, era già nota l'esistenza di un valico nelle Alpi Orientali attraverso il quale era

relativamente facile passare dalle terre lambite dal Mar Nero all'Adriatico passando per

il Danubio, la Sava ed un tratto di terra dal quale era possibile entrare nella penisola

italica. Tale valico, porta di transito verso l'Adriatico, era conosciuto sin dalla preistoria e

venne denominato, in epoca successiva, "valico di Nauportus” (oggi Vrhnika ~300 m. slm,.

(vedi disegno a pg. seguente).

E' certo che anche prima del 1000 a.C., uno più gruppi di genti provenienti dalle

coste occidentali dell’Anatolia (e forse anche dall'impero babilonese) e comunque dalla

zona del Mar Egeo, avevano risalito su navi il mare Adriatico, giungendo sino al suo

termine ed erano sbarcati nella odierna pianura veneta.

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Qui, dopo gli inevitabili scontri iniziali con le popolazioni locali, queste genti avrebbero

preso stanza stabile, si sarebbero mescolate con loro e assieme avrebbero colonizzato la

parte orientale della pianura padana.

Come detto all’inizio (Seconda Leggenda), la tradizione vuole che queste genti fossero dei

profughi troiani, guidate dall’eroe Antenore, al quale si sarebbero aggregati dei

guerrieri Eneti che erano rimasti senza capo, caduto sotto le mura di Troia. Questi

profughi avrebbero dato i natali alla “gens (v)eneta” .

Per chi invece non crede a questa leggenda, il nome Veneti deriverebbe probabilmente

dalla parola “venuti”, epiteto affibbiato alle genti di diversi ceppi etnici che, provenienti

dal mare, si sistemarono in quell' area. E' verosimile che fra queste ci siano stati anche dei

gruppi provenienti dall’Anatolia e dalla Grecia e che siano proprio loro ad aver portato

con loro le leggende della mitologia greca e le gesta raccontate da Omero..

Per megalomania, così come i Latini si erano attribuiti i propri natali da Enea e da

suo figlio Ascanio, così i Veneti si proclamarono discendenti da Antenore e dai guerrieri Eneti.

Anzi, attribuendo addirittura all’ eroe troiano la fondazione di Padova (1).

I Veneti, a parte qualche eccezione, non ebbero mai grossi scontri con gli Etruschi e con

i Romani. Anzi, in diverse occasioni, soprattutto in occasione di scontri armati con le genti

calate dai valichi delle Alpi Orientali, furono fedeli alleati dei Romani; non per niente si

vantavano di essere loro “cugini”, ambedue di stirpe troiana !

Amichevoli rapporti esistevano anche fra i Veneti ed Etruschi dai quali i Veneti più

intraprendenti appresero un tipo di scrittura cuneiforme..

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Il contatto dei Veneti con le popolazioni provenienti dall'Est e/o prementi sui confini

orientali non fu altrettanto amichevole. Tuttavia tale contatto non fu mai interrotto,

anche se improntato, in molti casi, alla reciproca diffidenza.

C’erano infatti in ballo lucrosi scambi commerciali fra merci di origine orientale e

manufatti locali, scambi commerciali, che non potevano essere trascurati o ignorati per

lotte territoriali.

Unioni fra genti venete e genti di ceppo orientale sono senz’altro avvenute, anche se in

misura limitata. Sono state rinvenute iscrizioni su tombe con nomi di uomini e di donne,

scolpite sia in etrusco che in latino, Anzi, in qualche iscrizione, il suono delle parole

costituenti il nome veniva riprodotto con caratteri etruschi. Infatti, alcune delle genti

provenienti dall'Est potevano non essere ancora in grado di capire e/o usare la scrittura

latina.

Attorno al 450 a.C. ci furono nelle regioni del Nord–Est della penisola italica delle intrusioni

di genti appartenenti alle ultime ondate di migrazione degli Uomini delle Steppe.

Questi gruppi, prima di valicare le Alpi Orientali, erano passati per la zona dove oggi

si estende la Carinzia dove effettuarono diverse razzie. Poi, generazione dopo

generazione, questi ultimi Uomini delle Steppe proseguirono la loro marcia verso Ovest

valicando la catena delle Alpi Orientali. Ma, scesi nella pianura veneta, si scontrarono e

furono fortemente contrastati da i Veneti ad Ovest e dagli Illiri a Sud (vedi disegno a

pagina 14.

Furono costretti ad interrompere la loro migrazione ed a fermarsi in aree a quel tempo

poco abitate, situate nel Nord-Est della pianura (oggi Friuli) , a ridosso dei rilievi

montuosi (oggi Carnia e Cadore) ed in alcune aree più interne della penisola balcanica.

Queste genti arrivarono in ondate successive, prementi una sull'altra ed erano suddivise in :

- Giapidi, che in un primo tempo si fermarono appena al di qua delle Alpi, ma che poi

furono sospinte più a Sud nell'Istria, nelle zone del Timavo superiore (Reca), dell’altopiano

della Piuca e del monte Nevoso,

• Catali, che a loro volta furono poi costretti a spostarsi sulle alture dell'attuale Carso

orientale e nell’area dell’odierna Lubiana,

• Carni, che si fermarono sulle aree dell'attuale Carso triestino–goriziano e nella zona

pedemontana dell’odierno Friuli Orientale (2).

Poco dopo, altri gruppi di Galli (3), di ceppo celtico, provenienti dall'area dell'alto

Reno, scesero nella pianura padana attraverso i valichi alpini delle Alpi Occidentali

(S. Bernardo,Brennero, Sempione, altri). Erano gli Insubri e i Taurici che, come già citato

precedentemente. avrebbero fondato Torino e Milano,

Nella stessa epoca altri gruppi scesero nell’Italia attraverso gli stessi valichi e si portarono un

po' più a Sud scontrandosi con gli Etruschi e devastando le loro terre a Nord del Po.

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Proseguendo nella loro marcia, una prima parte di queste genti (del ceppo dei Galli Celtici)

attraversò il fiume Po e discese nell’Italia centro-meridionale saccheggiando a destra e a

manca tutto e dove potevano. Erano i Boi, i Gesati ed i Senoni (sacco di Roma) (4).

Una seconda schiera, una volta discesa nella pianura padana, si mosse verso Est, con

il miraggio di mettere le mani su di un fantomatico tesoro che avrebbe dovuto trovarsi

in Pannonia (~380 a.C.).

Attraversarono la pianura veneta, l’odierno Friuli ed il varco delle Alpi Orientali, raggiunsero

la zona della Pannonia, ma senza trovare il tesoro che cercavano.

Durante la loro marcia, questi Galli si abbandonarono a devastazioni, distruzioni di

campagne, di abitati di ogni regione e da stragi generali di popolazioni, costringendo le genti

superstiti (Veneti, Carni, Catali) alla fuga verso le zone montuose laterali, nell'odierna

alta Carnia e Cadore a Nord e nell’ Istria interna e Quarnaro a Sud. Anche le zone del

Carso superiore e quelle della costa del golfo dell’alto Adriatico non furono risparmiate dalle

scorrerie di queste orde barbariche che poi però si dispersero senza lasciare significative

tracce residue.

Sulle coste dell'Istria e su quelle dalmate erano già presenti insediamenti e città

fortificate di Illiri che erano giunti là, come già accennato, attorno al 1000 a.C.

Gruppi di Catali e di Giapidi, sospinti prima dai Carni e poi dalle orde dei Galli sopra citate,

vennero a contatto con questi nelle zone tra l'Istria interna ed il mare. E' plausibile che

queste genti si siano dapprima scontrate, ma poi, almeno in parte, si siano mescolate, dando

origine ad una popolazione di cultura mista, che venne denominata "Istri".

Questi popolarono sia la costa che l'interno della penisola istriana.

Il principale gruppo abitativo degli Istri era a Nesazio una città fortificata posta a circa 9 km

a Nord-Est dell'odierna Pola, sul Quarnaro (vedi disegno)

I Carni, che si erano stanziati nelle zone più orientali della pianura veneta (l'odierno

Friuli) furono divisi in due dalle orde dei Galli dirette verso Est. Per sfuggire alle stragi,

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una parte fuggì verso Nord, nelle zone pedemontane delle Alpi Orientali e l'altra verso Sud,

occupando la zona dell’attuale Carso orientale. E’ probabile che abbiano avuto qualche episodio

di scontro e/o mescolanza con gli Illiri, ma il grosso dei contatti fu soprattutto con i Veneti.

Nel III secolo a.C., gli Illiri che abitavano nelle zone dell'odierna Dalmazia,

Montenegro ed Albania, si agglomerarono in Nazione, dando identità ad un popolo con

carattere fortemente aggressivo e con un notevole potenziale di forze. Elessero a capitale

la città di Scodra (oggi Scutari nell'attuale Albania) . Secondo il loro stile di vita

continuarono ed anzi intensificarono le scorrerie e gli atti di pirateria sia verso le città

costiere di tutto l'Adriatico , sia verso le navi che percorrevano questo mare.

L' aumento del numero delle loro scorrerie arrivò in breve ad un livello tale da impensierire

fortemente, oltre che le popolazioni e città dell'Adriatico, anche le popolazioni greche,

dell'Epiro e soprattutto Roma.

NOTE 1) Nel centro di Padova fu costruita nel 1283 una edicola entro la quale venne collocato un sarcofago di pietra nel quale é conservato uno scheletro di un guerriero che la tradizione vuole sia di Antenore . In realtà è stato dimostrato che si tratta di un guerriero, probabilmente celtico, morto presumibilmente nel VIII secolo d. C.) per una profonda ferita in testa.

(2) A proposito dell’arrivo del gruppo dei Carni nelle nostre regioni, c’é un termine di origine celtica, che ricorre in molti nomi e che, dalle regioni della Pannonia (Ungheria) si ritrova ripetuto nelle aree orientali. Verosimilmente esso è legato a l tragitto seguito da questa gente. Si tratta del termine “Car(n)” o, nella fonia germanica, “Kar[n]” . Tale termine che, secondo gli studiosi di etimologia, nella lingua celtica, aveva ill significato di “cima”, “monte di roccia”, area sassosa. Osservando la figura sotto riportata, si può seguire la diffusione di questa voce dall ‘ Est all’ Ovest iniziando dalla catena montuosa dei Carpazi, attraverso la Karnten (Carinzia), la catena montuosa delle Karavanken, la Carnia, la Carniola, per arrivare sino al Carso, tutte zone dove abbondano cime, monti e terreni dove la roccia ne è la maggiore caratteristica E sono tutte terre attrraversate dal popolo dei Carni Nella dizione slovena, la sequenza delle lettere “ k a r”, ignoro per qual motivo, risulta invertita in “k r a”. Così, il vocabolo Carso é diventato Kras, portando l’inversione anche nella denominazione slovena della Carniola (Kranjska ) e di diverse altre località, come Kranjska Gora, Kranj, ecc. Tuttavia va ricordato che lo storico-geografo greco Strabone (~ 40 a.C.), , lasciò scritto "A Tergestum, vico carnico, transitus per Cranam est" A Tergeste, villaggio carnico, c'è un transito per la Carnia". Egli pertanto, nella stessa frase, usa sia la dizione con "car" (vico carnico), sia quella con "cra" (Cranam per Carniam ). (3) I Romani indicavano tutti i gruppi di genti di origine celtica, provenienti dalle regioni dell'alto Danubio e del Reno con in nome generico diGalli, identiicando così la loro provenienza ed origine, differente da quella dei Veneti e degli Etruschi che invece mantennero la loro denominazione. (4) A capo di questi Senoni c'era un certo Brenno. Durante il sacco di Roma (391 a.C.), Brenno, sfottendo i Romani che piangevano per la depredazione che stavano subendo, avrebbe detto a loro il famoso "guai ai vinti !" Egli evidentemente non avrebbe fatto i conti con un certo Camillo che, replicandogli "col ferro, non con l'oro si salva la Patria !",avrebbe dato l'avvio alla riscossa che sarebbe culminata con la cacciata dei Galli da Roma.(ben nota "buffala" citata nei testi scolastici delle nostre scuole medie). (5) Nesazio era un villaggio fortificato, sembra fondato già nel 2000 a.C. dai Fenici. Successivamente (circa nell'VIII secolo a.C.) i Greci lo denominarono "Nesathia", che significava "paese circondato dalle isole

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LA ROMANIZZAZIONE DEL VENETO E DELL'ISTRIA

A quel tempo ( circa 300 – 250 a. C.), Roma aveva esteso il suo dominio su quasi

tutta la penisola italica e considerava suoi territori tutte le terre che si trovavano al di

qua dell’intera cerchia delle Alpi, da quelle Liguri a quelle Orientali

Perdurando le incursioni degli Illiri a danno delle città della costa adriatica e la

pirateria contro le navi che trasportavano merci e rifornimenti alle legioni dislocate nel Nord

della penisola, si stava creando una situazione non più tollerabile per Roma.

Nel 229 a.C. i consoli C. Fulvio e L. Postumio entrarono in conflitto con l’esercito degli Illiri,

comandati dalla regina Teuta (1), dando inizio alla Ia guerra Illirica. Dopo fasi alterne

durate circa un anno, i Romani ebbero la meglio e imposero alla regina Teuta pesanti

sanzioni, il versamento di tributi e, per bloccare l’attività piratesca, l’obbligo di proibire la

navigazione nell'Adriatico delle loro navi da guerra. Le era consentito solo il transito di

non più di due navi mercantili alla volta.

Tuttavia navi illiriche corsare ribelli continuarono ad assalire i convogli delle navi

romane ed a devastare ancora qualche città e qualche nave romana. In quel momento Roma

aveva impegnate le sue legioni nella pianura lombarda per contrastare e/o porre un

limite alle ripetute intrusioni dal Nord dei Galli che depredavano e devastavano quelle zone.

Quindi non aveva sufficienti forze armate da mandarle a contrastare anche gli Illiri.

ll Senato romano cercò allora un’altra via che permettesse di bloccare o almeno di

rallentare gli episodi di pirateria nell’Adriatico con una mediazione tramite un personaggio

intermediario. L'incarico fu affidato ad un certo Demetrio (2), un tempo alleato della

regina Teuta e passato poi al servizio di Roma. A lui fu chiesto di esercitare i suoi buoni

uffici per far smettere le scorrerie e in cambio gli fu conferito il governo di alcune isole

della costa dalmata e facilitazioni commerciali. Teuta morì da lì a poco e Demetrio, dopo

aver assunto la tutela del di lei figlio Pinne, tentò di approfittare del fatto che i Romani

erano impegnati nel conflitto con i Galli in Lombardia per sottrarsi agli impegni assunti

con Roma. Spinto dalla una smisurata megalomania, egli sognò di farsi un suo regno

nelle terre che il Senato romano gli aveva concesso il governo e, per conseguire il suo

scopo, si unì ai gruppi ribelli di Illiri e cominciò a pirateggiare a sua volta nell’alto e medio

Adriatico, affiancato anche da alcuni gruppi di Istri. Nel frattempo le legioni romane

impiegate nella pianura lombarda sconfissero i Galli nella battaglia di Telamone (223 a.C.)

e, con la presa di Milano e Como (222 a. C.), posero fine alla loro resistenza.

Roma fu allora in grado di spostare le sue legioni e di intervenire in forze contro

gli Istri, gli Illiri e Demetrio. Una prima azione militare portò al confinamento degli

Istri ed Illiri nei loro porti e quindi fu possibile un rallentamento delle scorrerie

piratesche. Successivamente il console Emilio Paolo attaccò Demetrio che si era asserragliato

a Dimale (IIa guerra Illirica, 219 a.C.) e lo vinse.

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Demetrio riuscì però a fuggire e rifugiarsi nell’isola di Faro (l’odierna Lesina). Pur battuto

anche qui, riuscì ancora a sottrarsi alla cattura ed a riparare presso il re Filippo V di

Macedonia. E lì finì i suoi giorni.

Roma estese il suo controllo su tutto il litorale illirico, dall’Istria all’Epiro (attuale Albania)

Nel 186 a.C., un gruppo di Galli Celti provenienti probabilmente dall’area dove si

stava sviluppando la Cultura di Hallstatt, entrò nel Veneto dal valico orientale e si fermò in

un'area che era stata scelta da Roma per la costruzione di un presidio militare.

L’intenzione di questi Galli era quella di fondare in quella zona un centro abitato e di stabilirsi

permanentemente . Roma si oppose subito e decise di farli sloggiare. Mandò il pretore L.

Giulio per intimare lo sgombero immediato, pena un’azione militare nei loro confronti. Al

rifiuto dei Galli di obbedire, il console M. Claudio Marcello ordinò al proconsole L. Porzio

Licinio di muovere delle legioni contro di loro.

I Galli, alla vista delle legioni, benché forti di 12..000 armati, pur di non sloggiare,

consegnarono ai Romani non solo le armi, ma anche tutto quanto loro avevano depredato

nella zona, dichiarando esplicitamente di esser pronti a sottomettersi.

Roma però pensò che lo stanziamento in quell’area di una gente non romana e di

origine e di cultura celtica non era né prudente né tollerabile. Perciò, dopo aver

riconsegnato ai Galli le armi ed i beni che avevano depredato, intimò lo sgombero

immediato. A quanto risulta, i Galli questa volta accettarono l’intimazione e ritornarono

d’onde erano venuti, cercando un’altra terra in cui sistemarsi, presumibilmente nella zona

dove ora sorge Lubiana, al di là del valico di Neuportus (3).

Anche a seguito di questo episodio, per fronteggiare e respingere altre possibili intrusioni di

genti sia di origine Gallica che di altra etnia e per assicurarsi il pieno possesso del golfo

dell’alto Adriatico, si rafforzò nei Romani l’impegno e gli sforzi per costruire un forte e

guarnito presidio militare in quelle zone.

Il console M. Claudio, incaricato di proteggere le squadre addette alla costruzione di questo

presidio, fece presente a Roma l’opportunità di condurre un’ulteriore azione militare

contro gli Istri che, oltre ad assaltare ancora qualche nave di rifornimento, ostacolavano

in permanenza la costruzione del presidio considerato come una limitazione ed un pericolo

per la loro attività piratesca. Roma diede l’assenso a procedere ed il console entrò

con le sue truppe nei territori dell'Istria. Ma, o perché troppo fiducioso delle proprie

forze o perché avrebbe sottovalutato la capacità di resistenza degli Istri, egli ritornò

alla base senza aver ottenuto un granché. Fu allora richiamato a Roma e destinato ad

altro incarico.

Gli Istri, imbaldanziti dal fatto che i Romani non erano stati in grado di sottometterli e

forse anche per dimostrare a se stessi di essere un popolo di uomini forti e coraggiosi,

oltre che feroci, continuarono a pirateggiare le terre e le coste dell’alto Adriatico e le navi

romane.

Anche gli Illiri sopravvissuti alle batoste subite durante la guerra di Roma contro Demetrio

ripresero la loro attività piratesca devastando Brindisi, Taranto e le fertili terre dell'Apulia.

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Roma era stata costretta a reimpiegare le sue legioni in Liguria e in Spagna per fronteggiare

altri gruppi ribelli e quindi non disponeva di altre milizie per intervenire ancora nel

Nord-Est dell’Italia. Tuttavia un'azione per tenere sott'occhio e possibilmente frenare

gli Illiri e gli Istri fu affidata al pretore L. Duronio che, nel caso di necessità, avrebbe

potuto intervenire anche in difesa delle zone sotto incursione con alcune navi militari

messe a sua disposizione.

Nel frattempo gli Istri si erano riorganizzati e, unendosi fra di loro, avevano formato

un esercito terrestre di entità e forza non trascurabile Loro gruppi attuavano sempre

più frequentemente azioni di disturbo verso coloro che stavano allestendo il presidio militare

romano, creando scompiglio, danni e ritardo nei lavori. Allora (~ 183 a. C.) il pretore

G. Fabio Buteone, conscio dell'opportunità di porre termine a questa situazione, ricuperate

due legioni, entrò nell’ Istria. Sebbene non fosse riuscito ad assoggettare i gruppi colà

stanzianti, fu tuttavia in grado di far cessare le incursioni degli Istri contro i militari

e civili che stavano costruendo il presidio che potè così essere terminato.

Il presidio fu ufficialmente inaugurato nel 182 a.C. dai triunviri C. Scipione Nasica, C.

Flaminio e L. Manlio Acidinio. ed assunse il nome di Aquileia. Fu subito operativo con

almeno 3000 fanti, molti militi a cavallo, coloni, mercanti e corporazioni civili.

Nei due anni successivi non ci furono scontri di rilevanza tra i Romani e gli

Istri a seguito anche di più o meno taciti accordi con l ’allora loro re. Nel 179 a.C. però

questo re morì e gli succedette il figlio Epulo.

Epulo, per la sua posizione e per l’impetuosità tipica dei giovani capi , rappresentava

per i giovani Istri un simbolo di riscossa verso i Romani e lui era visto come un capo in

grado di riportare la loro gente all’ antico valore e di far riprendere la loro attività

di pirati. Epulo fu in grado di reclutare da ogni villaggio dell’Istria una folta schiera

di giovani armati e si preparò a sferrare una azione di forza contro il caposaldo

romano di Aquileia con il proposito di distruggerlo.

Ma fu preceduto nell’azione dal console Manlio Vulsone (178 a.C.) che decise di muoversi

senza ulteriori indugi entrando nell'Istria con un nutrito numero di militi e con il preciso

intento di sbaragliare le truppe degli Istri.

E' il caso di ricordare che Vulsone si trovava ad Aquileia solo di passaggio in quanto, il Senato

romano, gli veva affidato il governo di un'altra area, ma, vista la situazione, egli aveva deciso

di intervenire subito.

Vulsone si mosse da Aquileia con due legioni ed altri soldati e pose un campo (castrum)

con ogni probabilità sulla sommità dell'attuale Monte Bello, dove era già pronto un

insediamento di genti locali (castelliere).

Gli Istri raccolti da Epulo e radunati probabilmente sul monte Carso, controllavano

attentamente cosa facevano i militi romani e quanto veniva sbarcato dalle navi d’appoggio

che avevano seguito le legioni al comando di Vulsone.

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Dopo aver eliminato nottetempo le ancora limitate difese, attaccarono il castrum romano il

mattino successivo e furono in grado di invaderlo approfittando del favorevole momento

durante il quale questo veniva allestito e quindi ancora privo di adeguate e sufficienti difese.

Però i militi romani, dapprima fuggiti verso le navi di scorta, furono riorganizzati da Vulsone

e furono in grado di sferrare un repentino contrattacco. Il "castrum" fu riconquistato (molto

probabilmente lo stesso giorno). Gli Istri furono sopraffatti e messi in fuga.. Molti di loro

furono uccisi, mentre i superstiti si dispersero. La maggior parte di loro ritornò nei propri

insediamenti.

L’anno dopo il console Vulsone, dopo aver svernato ad Aquileia, e naturalmente

rinforzato il “castrum” sul Monte Bello e probabilmente anche quello a Sud-Est rientrò

nell'Istria, ricacciò gli Istri verso il Sud della penisola istriana e pose l’assedio alla loro

capitale Nesazio.

Qui Vulsone, a seguito di diatribe con i membri del Senato romano e con i tribuni della plebe

fu sostituito dal console Claudio il Bello che, licenziato Vulsone e congedate le sue legioni, fu in

grado di continuare l’assedio a Nesazio. Infine questa città-fortezza fu espugnata..

I Romani fecero una strage feroce dei suoi abitanti e la città fu rasa al suolo, comprese le

mura.

Epulo, pur di non cadere prigioniero, si suicidò trafiggendosi con la spada.

Molti dei suoi seguaci fecero lo stesso mentre altri, dopo aver ucciso le loro donne e i bambini,

gettarono dalle mura, addosso ai Romani i loro corpi.

Con la sconfitta degli Istri e con la completa distruzione sia della città di Nesazio che di altri

centri abitati vicini, Roma ottenne la cessazione delle azioni di disturbo verso il presidio di

Aquileia da parte delle genti istriane e, nello stesso tempo, anche limitando al massimo le

scorrerie piratesche nell'alto Adriatico.

Tuttavia alcuni gruppi di Illiri, dislocati più a Sud (lungo l'attuale costa dalmata), nell'Albania

e nella Grecia settentrionale (Epiro), continuarono ancora ad agitarsi ed a tentare di

ribellarsi al predominio romano. Questo malgrado fossero stati già pesantemente penalizzati

con la perdita del controllo dell’Istria e anche di quasi tutta la costa dalmata.

Roma allora prese di nuovo l’iniziativa di combattere gli Illiri e questa volta con il

proposito di imporre, una volta per tutte, la propria supremazia.

Così, nel 167 a.C. (10 anni dopo la distruzione di Nesazio) Roma inviò in Dalmazia un

nuovo esercito che assalì e sconfisse il superstite re illirico Genzio e ne occupò tutto il

territorio.

Purtroppo i resoconti di questo nuovo intervento, così come quello del pretore

F. Buteone (183 a. C.) e quello della guerra di Vulsone prima e di C. il Bello poi contro

gli Istri (178 – 177 a. C.), redatti dallo storico romano Ostio, sono andati perduti.

Pertanto le informazioni che abbiamo su questi avvenimenti sono in pratica solo

quelle di Tito Livio, dimostratosi però talvolta, impreciso e non imparziale .

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A questo punto, per i particolari della guerra contro gli Istri, rimando alla mia traduzione dal

latino del “De Bello Histrico” di Tito Livio (inserito più avanti) ed alle mie note personali su

quanto relazionato da questo scrittore sullo scontro avvenuto tra Romani ed Istri e sulla

distruzione di Nesazio nel 177 a. C.

NOTE .

(1).Teuta era la regina degli Illiri. Risiedeva a Scodra (l’attuale Scutari). Era succeduta al marito Agrone nel 231 a.C .e reggevala Nazione in nome del figlio minorenne Pinne. Ammonita da Roma a smettere di assaltare le sue navi, lei rispose che la pirateria era un’attività lecita per gli Illiri e fece uccidere l’ambasciatore romano che le aveva posto l’intimazione. Da qui lo scatenarsi dell’offensiva de i Romani nel 229 a.C. ( Ia guerra Illirica). (2).Demetrio di Faro .Era un avventuriero che aveva iniziato la sua “carriera” al servizio di Teuta per poi passare al servizio dei Romani. Avendo partecipato fattivamente al successo romano in una guerra contro gli Illiri, fu premia to con l’affidamento da parte di Roma del governo delle isole e di parte della costa dalmata. Sobillato da Filippo il Macedone, Demetrio, dopo essersi assunto la tutela del figlio di Teuta Pinne, erede desiignato al regno dell’ Illiria (Teuta nel frattempo era deceduta) e progettando di eliminarlo per farsi lui un regno tutto suo, si rimangiò gli accordi stipulati con Roma e riprese l'attività piratesca. (3) Da notare certe similitudini con quanto riportato all'inizio di questo scritto nella terza leggenda.

E TERGESTE DOVE STAVA IN TUTTO QUESTO BATTAGLIARE ?

Non ci sono notizie storiche che citino l’esistenza di una città con il nome di Tergeste

antecedentementi il 100 a. C.. Nemmeno Tito Livio nel suo resoconto della guerra contro

gli Istri, nomina un centro abitato che possa essere attribuito a quello che sarebbe

divenuto poi Tergeste. D’altra parte, l’area dove oggi sorge il centro storico della città non

era a quei tempi consigliabile per un Insediamento. Infatti le genti che abitavano nella zona

vivevano ad una certa distanza dal mare e questo per avere una possibilità di difesa e/o

di fuga di fronte alle frequenti incursioni piratesche degli Istri e degli Illiri che arrivavano

dal mare.

Le genti locali abitavano arroccate sulla sommità di dossi o di colline in spazi

circondati da cinte murarie entro le quali tenevano il bestiame ed avevano delle casupole

(tuguri) dove dimoravano. Erano i cosidetti “castellieri”, descritti dal Marchesetti (noto

studioso, del secolo scorso della storia del Carso e dell’Istria (1)

Come già detto, sin dal 400 a.C. le zone dell’attuale Venezia Giulia settentrionale erano

abitate da gruppi di Carni frammisti a gruppi di Veneti.

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La prima indicazione storica ed ufficiale dell’esistenza di un nucleo abitato che

portava il nome di Tergestenicco è dello storico-geografo greco Termidoro (~ 100 a.C.). In

un suo manoscritto, egli nomina questo centro abitato e lo dice fondato dai Carni.

Il nome Tergestenicco derivava evidentemente dalla voce atriana “T(e)R” (che ha il significato

di “emporio”, “mercato”), alla quale è stata appiccicata la doppia desinenza di “ESTE” (di

derivazione veneta) ed “ICCO” (di derivazione celtica), ambedue sinonimo di “città”.

E’ mia supposizione (che ritengo però plausibile) che la citazione di "Tergestenicco" si

riferisca non al sito dove ora sorge il centro storico della città di Trieste, ma ad un

precedente castelliere effettivamente esistito poco distante, probabilmente sulla sommità

dell'attuale Monte Radio (200 m. slm) e che sarebbe stato fondato appunto dai Carni (2).

Potrebbe darsi anche che invece che sul monte Radio, il castelliere fosse stato posizionato

relativamente poco distante, sul colle dell’odierno Contovello (Moncolanum in latino).

Quasi un secolo dopo Vulsone, lo storico-geografo greco Strabone (vissuto a Roma, ~ 40 a.C.),

nomina in un suo manoscritto un centro abitato in zonza e lo indica con il nome "Tergeste":

“A Tergestum, vico carnico, transitus per Cranam est” (c’è un transito per la Carnia a

Tergeste, villaggio carnico – Geog. lib.7).

Probabilmente Strabone, in questa citazione, si riferirebbe non al castelliere sopra indicato

come "Triestenicco", ma ad un nuovo centro abitato, sorto probabilmente sulle pendici

dell'attuale colle di S. Giusto, attorno ad una probabile torre per segnalazioni tramite fumo

tra il "castrum" sul Monte Bello ed Aquileia (vedi più avanti).

Tergeste deriverebbe quindi da una "dependance" del "castrum" romano originario, situato con

ogni probabilità a Cattinara. La località denominata “Tergeste” sarebbe poi allargata e

rafforzata, soprattutto per ragioni logistiche, pur sempre essendo posta ad una distanza

relativamente breve (poco più di 1 km) dalla sommità del Monte Bello (3)

Ricordiamo che la scelta della sommità dell’attuale Monte Bello (283 m. slm) da

parte del console Vulsone per porre l’accampamento principale potrebbe essere stata

suggerita dal fatto che un castelliere di consistente entità si trovava già bell’ e pronto

sul posto. Dalla cima di questo colle la visuale sul golfo è ancor oggi vastissima (vedi foto

sottostante) e consente la visione dello sbocco della valle del fiume Rosandra (punto di

approvigionamento di acqua), della foce del rio Ospo e della piana di Zaule che a quel

tempo finiva in una spiaggia adatta all'attracco di navi. La distanza dal mare é di circa 4

km. ed anche in base ai motivi che ho esposto nel mio commento al “De Bello Histrico”

(riportato più avanti ) è in pieno accordo con il Gradenigo.

Il Console Vulsone, nel 178 a. C., probabilmente dopo aver sloggiato, senza tanti

riguardi, gli occupanti colà pre-dimoranti, avrebbe posto sul cocuzzolo di quel monte il

“castrum” principale (o forse avrebbe semplicemente occupato , almeno inizialmente, i ripari

in pietra costruiti dagli abitanti del castelliere e quindi già belli e pronti). Egli avrebbe poi

predisposto (come documentato da Tito Livio) dei punti di difesa (reali “castri”) nelle aree

vicine. (vedi foto a pg. seguente).

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Nella zona sottostante (a Ovest del colle), là dove oggi c’é la risiera di S. Sabba (4), esisteva

già un porto per l’ormeggio e stazionamento delle barche degli abitanti del castelliere, barche

adibite alla pesca e al trasporto di manufatti e altre merci verso i centri commerciali

della costa. (dimostrato anche dal ritrovamento di diversi reperti).

Ed è su questa spiaggia che le navi di appoggio alle legioni romane avrebbero approdato (5) e

scaricato merci, armamenti ed altro.

Un altro castelliere, più piccolo , ma di notevole importanza strategica per l’avvistamento

di navi e possibili incursioni piratesche si trovava sullo spuntone dove oggi sorge Contovello

(denominato dai Romani "Mons Moncolanum”)

Ritornando al "castrum" (o castelliere) sul Monte Bello, l’iniziale l'occupazione da parte dei

Romani non fu tanto pacifica e facile. Come ampiamente riportato da Tito Livio, gli Istri,

approfittando della carenza di adeguate difese nel corso dell’allestimento dell’insediamento

romano, attaccarono e costrinsero i Romani ad una ignominiosa fuga verso le navi

d’appoggio ancorate sulla spiaggia sottostante..

Tuttavia, dopo la batosta iniziale, seguita dalla successiva repentina riconquista del "castrum"

da parte dei legionari Romani, questo fortino fu non solo mantenuto, ma anche rinforzato.

In esso avrebbero stanziato per molti degli anni successivi numerosi militi romani. Un certo

numero di soldati di pronto intervento era infatti necessario in un' area dove i fermenti

anti-Romani a quel tempo, non erano mai del tutto sopiti .

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Anche il primitivo porto sulla spiaggia dell'attuale S. Sabba fu ampliato e rinforzato, come

è dimostrato da ritrovamenti di resti di moli e anche di una diga.

E ancora la costruzione di un acquedotto (~ 70 a.C.), lungo circa 6 km, che congiungeva

la fonte perenne di acqua dolce sita a metà dell'attuale Val Rosandra (la fonte Oppia)

dapprima solo con la zona del porto di S. Sabba e successivamente anche con

l'insediamento di Tergeste quando fu elevatao al rango di Cologna Romana.

E’ presumile che, in un’epoca immediatamente successiva alla campagna d’Istria, i

Romani abbiano costruito sulla sommità dell'odierno colle di S.Giusto (~ 80 m. slm.) una

torre di osservazione e di comunicazione con Aquileia tramite segnali di fumo. Da questa

torre infatti il segnale poteva facilmente essere captato dalla guarnigione stanziante a

Moncolanum (Contovello). Qui , da una una seconda torre (252 m. slm), a sua volta

ritrasmetteva i segnali ad una terza torre, situata sullo spuntone dove oggi sorge il

castello di Duino (ed i cui resti sono tutt’ora visibili all’interno del cortile del castello

stesso), e da quest’ultima i segnali potevano giungere al quartier generale di Aquileia. (vedi

disegno sottostante). Era così possibile inviare messaggi da Aquileia al “castrum” sul

Montebello e viceversa nel giro di qualche decina di minuti.

Ci si potrà domandare perchè tale torre di segnalazione sarebbe stata costruita sull'attuale

colle di S. Giusto e non all'interno del "castrum" più protetto e posto più in alto. La risposta

è semplice: perché il "castrum", posto sulla sommità del Monte Bello, non é in linea visiva

diretta con la torre di Moncolanum in quanto questa risultava nascosta dal dosso di Scorcola.

E' verosimilele che, una volta costruita la torre di segnalazione sull'attuale colle di S.

Giusto, questa sia stata dotata di adeguate difese e presidiata da soldati contro possibili

incursioni piratesche provenienti dal mare.

Come ci informa il Gradenigo, nell'esercito romano alcuni "milites veterani" non

più idonei al combattimento, ma con provata esperienza, venivano tenuti in servizio come

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consiglieri ed era loro prescritto di riunirsi periodicamente nei "conciliabula" per discutere di

fatti e altri argomenti inerenti sia il "castrum", sia su quanto succedeva nella zona

circostante. Questi “veterani” normalmente avevano una famiglia ma non dimoravano

all’interno del “castrum”, adibito esclusivamente al servizio militare. Alloggiavano nelle sue

vicinanze.

E’ abbastanza logico ipotizzare che questi “veterani”, con mogli e figli (i "mamuli" (6))

avessero posto le loro dimore non troppo distanti dal “castrum”, presumibilmente vicino alla

torre di segnalazione. Questa, in quanto eretta in una zona di importanza militare, era

sempre protetta da una guarnigione addetta alle segnalazioni ed era pur sempre vicina al

“castrum" (meno di 2 km.).

Ed é pure verosimile che, con l’arrivo di altri ex militi, di mercanti, di funzionari e di

altri, (più le loro famiglie), l’area abitata attorno alla torre si sia andata sempre più

ampliando. Numerosi sarebbero stati anche gli abitanti del castelliere di Tergestenicco e

quelli sloggiati dal castelliere del Montebello che, approfittando dell'ampliamento della zona

“protetta” dalle milizie romane, incominciarono a sistemarsi anche loro in quell'area ed

a sviluppare attività di servizio e di commercio con gli ex militi, nuovi funzionari e le loro

famiglie, contribuendo così ad incrementare ulteriormente il numero dei dimoranti attorno

alla torre.

Fu così che nel 129 a.C. (50 anni dopo l'arrivo di Vulsone) il Senato romano decise di elevare

tutto il complesso (“castrum” + insediamento con la torre di segnalazione) al rango di

presidio militare, che divenne poi “Colonia Romana", ma solo nel 33 a.C.

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Con un certo realismo si può allora ipotizzare, che:

i fondatori ed i primi abitanti di quel nucleo abitato, che poi sarebbe diventato

la città di Trieste, sarebbero stati gli ex- militi romani (7) provenienti dal

“castrum” del Montebello ai quali si sarebbero aggregati gruppi di origine

veneto-carnica scesi dai castellieri di Tergestenicco, dallo stessso Monte Bello

e da quello di Moncolanum.

E’ così che il sempre più consistente trasferimento e successivo stanziamento di genti, con

conseguente aumento della popolazione, avrebbe fatto assumere a quest'area la denominazione

di “Tergeste" (città di scambi commerciali, politici e militari).

Secondo me, probabilmente questo sarebbe il centro abitato indicato da Strabone (ca

40 a.C.) differente come posizione (anche se di solo qualche km) da quello indicato da

Termidoro come "Tergestenicco" (ca 100 a.C.). Da considerare che, nel nome “Tergestenicco”

la desinenza “icco”, di origine carnica (celtica), è unita a quella“este”, di origine veneta ,

mentre nel nome “Tergeste” è stata mantenuta solo la desinenza "este", mentre quella

"icco" è scomparsa.

Nel contempo, consistenti gruppi di Giapidi e di Catali, che, come precedentemente

indicato , avevano preso dimora già 4 secoli prima nelle zone dove ora sorge Lubiana, in

quelle dell’alto Timavo e del monte Nevoso, in quanto stanzianti al di là dei confini

dell’allora sfera di dominio di Roma, non avevano risentito molto delle ultime campagne di

conquista effettuate dalle legioni romane. Non avendo quindi subito significative

perdite di uomini e di cose, questa gente si reputò in grado di confrontarsi con i Romani.

Istigate anche dai loro capi sia sull'opportunità di vendicare sia la distruzione di Nesazio, sia

con il proposito di far sloggiare le legioni romane da Aquileia, nel 53 a. C. gruppi armati

di queste genti (alle quali potrebbero essersi aggiunta anche qualche schiera di Carni)

assaltarono il quartier generale romano di Aquileia con grande vigore.

Ma furono naturalmente affrontati adeguatamente dai militi Romani e brutalmente respinti

con rimarchevoli perdite.

Allora, per dar sfogo alla loro disillusione per l’insuccesso e per poter soddisfare con altre e più

accessibili scorrerie i loro bellicosi istinti, (direi "vandalistici"), queste orde barbariche,

abbandonata la zona di Aquileia, assaltarono la colonia di Tergeste. Penetrarono in essa, la

misero a ferro e fuoco ed ammazzarono quanta più gente era possibile.

Molto probabilmente anche il “castrum” sul Monte Bello ed altri distaccamenti difensivi

romani situati nell’area circostante furono attaccati e distrutti.

Passata l’orda vandalica dei Catali + Giapidi, i superstiti “tergestini” dell'incursione si

dettero subito da fare per ricostruire la città devastata.

Roma da parte sua, dopo questo attacco, decise di rafforzare significativamente la sua

presenza nell’Istria, diventata ormai area di importanza strategica per i suoi progetti

espansionistici verso i Balcani e le terre dell’Est.

Quindi sia il presidio di Tergeste sia tutta la zona circostante furono ingranditi e rinforzati.

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.

Nel 50 a.C., anche il nucleo abitato di Tarsatica (Fiume) venne consolidato ed elevato

al rango di città fortezza a guardia del Quarnaro.

Nel 42 a.C. sulla punta della penisola istriana, il console romano Asinio Pollione

inaugurò la colonia di Pietas Julia (Pola), edificata su un pre-esistente fortino degli Istri.

Nel 33 a.C. Augusto elevò Tergeste al rango di colonia romana e la circondò di

mura (8). L’anno successivo la città fu dotata di Municipio, Foro, Arena e

Campidoglio.

Nel 32 a.C. Aquileia divenne la sede della X regione della Venezia e dell’Istria

Nel 20 a.C. venne fondata la colonia di Julia Parentium (Parenzo) ed il porto di

Aegida (Caput Histriae, l’odiena Capodistria) fu rafforzato e munito di guarnigione militare. NOTE

(1) Di castellieri nell’area dell’attuale Carso triestino, stando a quanto dice il Marchesetti, dovrebbero esserne sorti almeno 36. Da alcuni di questi avrebbero avuto poi origine i paesi di Sistiana, di S. Croce, di Sgonico, di Monrupino, di Opicina, di Trebiciano e di Basovizza.) (2) A favore dell'autenticità di questo appellativo va ricordato che, ancora oggi il toponimo "Triestenicco" esiste nell'area di Roiano e su, verso Opicina) e risuona anche nella parlata locale per indicare questa zona dove esiste pure una via con questo nome

(3) E' verosimile che il nome di "Monte Bello" derivi dal latino "Mons belli", ossia "monte della battaglia", con ovvio riferimento allo scontro tra Istri e Romani del 178 a.C. (4) Anche se non ha niente a che fare con il soggetto di questo mio saggio, penso sia doveroso ricordare che la risiera di S. Sabba é stata, nell'ultimo conflitto mondiale , l'unico campo nazista di stermino in Italia. (5) Tito Livio scrive: “Eae naves ad proximum portum in fines Histriae cum onerariis et magno commeatu missae”

(Quelle navi (furono) mandate al porto più vicino ai confini dell’Istria, assieme a quelle da trasporto con grande quantità di vettovaglie) secutusque cum legionibus consul quinque ferme milia a mari posuit castra (e il console, seguendo con le legioni, pose il campo a quasi 5.000 passi dal mare).

(6) Il Gradenigo vuol far derivare "mulo" da "Manlius", nome del console romano. Ma questa é una forzatura che non ha alcun. fondamento ne logico, ne glottologico. Considerando che i bimbi appena nati, per vivere hanno l'assoluta necessità della madre, sia per il latte che per tutte le altre cure di cui hanno bisogno, nella lingua latina, venivano denominati "mamuli" , cioè dipendenti dalla madre. L'epiteto "mamuli" é stato poi esteso anche ai fanciulli ed ai giovanotti in quanto, pur essendo nel frattempo cresciuti, approfittavano sempre della madre per essere nutriti, curati e vestiti ( ne più, ne meno de gli odierni "mammoni"). Il "mamulus" e la "mamula" cessavano di essere definiti tali solo al momento del loro matrimonio .Da quel momento infatti, nasceva un nuovo nucleo familiare, doverosamente autosufficiente e pronto a perpetuare la specie Col tempo, il termine "mamulus" ha perso il "ma" iniziale riducendosi a solo "mulus" ed infine, in lingua italiana a "mulo". Tuttavia, In certe zone dell'alto veneto e nel trevigiano, il termine "mamulo" sopravvive e viene citato ancora nella parlata locale.

Coloro che invece usano il termine "mulo" per affibbiare la similitudine dei giovani triestini con il risultato della copula tra un asino ed una cavalla (per indicarli come "bastardi"), dovrebbero ricordarsi che tale interpretazione é stata messa in giro e fortemente pubblicizzata soprattutto nel corso della guerra del 15/18, quando i fanatici della "razza latina" (taccio di proposito la loro origine), intendevano spregiare le popolazioni veneto-giuliane per i frequenti matrimoni misti fra le diverse etnie colà dimoranti (italiana, slovena, austriaca, dalmata, serba, greca ecc.), Questi individui, oltre alla loro maleducazione, dimostrano anche la loro ignoranza in quanto evidentemente dimostrano di ignorare che il "mulo" animale è un quadrupede che nasce sterile e che quindi non può procreare. Cosa assolutamente contraria a quanto invece, " per omnia secula seculorum" é buona ed inconfutabile realtà attribuibile ai "muli" e alle "mule" triestine.. (7) Va tenuto presente che col termine “Romani” si definivano tutti i soldati delle legioni guidate dai consoli eletti dal Senato . Questo non vuol dire che questi soldati fossero originari di Roma o del popolo latino. L'arruolamento della truppa avveniva

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infatti in tutto il territorio sotto la giurisdizione di Roma e quindi anche presso le genti alleate, anche se di etnia diversa. Tra queste sicuramente i Veneti e probabilmente anche qualche gruppo misto di Veneti +Carni. Una volta arruolati però, tutti venivano considerati “soldati Romani” con disciplina, doveri e salario eguali per tutti, ma anche con gli stessi di ritti che erano riservati ai cittadini romani dell’Impero. .(8) Plinio ( 50 d.C.), libro 3, cap. 18 “Tergestinus sinus, Colonia Tergeste est” [Il golfo triestino è Colonia Tergeste.]

Il proseguimento della storia sull’Istria è molto vario, ma è ben documentato e reperibile da

diverse fonti, certamente più approfondite di quanto io possa descrivere. Per questo, dopo la

traduzione dal latino di alcune parti che riguardano il “De Bello Histrico” di Tito Livio,

fermo la mia indagine.

Le parti del libro da me tradotte concernono la battaglia delle Legioni Romane contro gli

Istri, le diatribe occorse al Senato Romano e la successiva distruzione di Nesazio per opera del

Console Claudio il Bello,

Introduzione allo scontro tra le Legioni Romane e gli ISTRI

Nota: molte delle notizie che seguono sono state già riportate in precedenza, ma sono

riassunte in questa premessa al De Bello Histrico ed Istri, descritta da Tito Livio (per la

esattezza il III° ).

Parte delle notizie storiche riportate qui ed anche nelle pagine iniziali sono state riprese da

pagine di un frammento di quello che doveva essere un libro, vecchie di oltre un secolo e

mezzo ed avute in eredità da mio padre. Purtroppo non ho il nome del libro originale nè del

suo autore. Mi sono preso la responsabilità di riportare le notizie trovate e che ho ritenuto

valide per logica. In questi fogli sono riportate referenze di personaggi autorevoli del passato

sia remoto che recente, quali: Strabone, Plinio, Erodoto, Tito Livio, Mommsen, Kohen,

Kandler. Tali, referenze mi sono servite per approfondire quanto ho riportato, con accenni per

conferma a quanto oggi é disponibile in Internet.

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SITUAZIONE ANTECEDENTE lo SCONTRO tra le LEGIONI

ROMANE e gli ISTRI

Roma, dopo aver esteso il suo dominio sulle terre situate nella parte orientale

dell’Italia, mal tollerava che i suoi traffici marittimi lungo l'Adriatico fossero

continuamente insidiati da popolazioni dedite alla pirateria e presenti sulla costa della

penisola istriana e su quella dalmata. Particolare fastidio era dato dagli Istri e dagli Illiri,

soprattutto per il danno alle navi di rifornimento di vettovaglie e armi che supportavano i

presidi e le legioni dislocate nelle zone orientali dell’Italia.

Già nel 229 a.C., il Senato romano, avendo impegnate le sue legioni in una guerra

contro i Galli cispadani e quindi non potendo disporre di altre forze, aveva tentato di

porre un freno alle piraterie di queste popolazioni, capeggiate dalla regina Teuta (1). Il

Senato romano, aveva contattato un certo Demetrio (2), prima amico di Teuta e poi, per

opportunità, alleato dei Romani. A questo, in cambio di una sua azione di persuasione per un

contenimento delle incursioni degli Istri (3), erano stati concessi benefici sia territoriali che

fiscali. Tuttavia il suddetto Demetrio, dopo aver assunto la tutela del figlio minorenne di

Teuta (che nel frattempo era deceduta) e vedendo che le legioni romane erano ancora

duramente impegnate contro i Galli Cisalpini (nell’odierna Lombardia) e quindi

impossibilitate di intervenire nell’alto Adriatico, pensò che era il caso propizio per

approfittare della situazione e crearsi un regno tutto suo. Quindi, invece di combattere gli

Istri, si alleò con loro e si mise a pirateggiare pure lui. Ma i Romani, avuta la meglio sui

Galli, spostarono subito le legioni nelle terre orientali e quindi poterono affrontare

Demetrio e i pirati e ricacciarli all’interno dei loro territori. Fu così possibile frenare

nell’Adriatico le loro scorrerie. Due anni dopo, il console romano Emilio Paolo attaccò

Demetrio, lo vinse e lo costrinse a fuggire.

Nel 186 a.C. alcune tribù di Galli transalpini valicarono le Alpi Orientali ed entrarono

nella zona pianeggiante, identificabile con l'odierno Friuli. I Romani però, considerando

che la catena delle Alpi Orientali dovesse costituire una barriera non superabile per le

popolazioni barbare situate al di là, inviarono il pretore Lucio Giulio affinché persuadesse

con le buone queste genti a ritornare da dove erano venute. Avendo queste rifiutato di

sottostare all’imposizione, il Senato romano aveva ordinato al proconsole Lucio Porzio Licinio

di muovere le legioni contro di loro. Intimoriti da questa mossa i Galli, non volendo

sloggiare ma non volendo neppure scontrarsi con i Romani (quantunque contassero almeno

12.000 armati), consegnarono le armi e anche quello che avevano depredato nella

regione dicendosi anche favorevoli a offrire ostaggi. Il Senato romano però, preferendo

evitare lo scontro armato, propose la restituzione delle armi e del bottino ai Galli, ma a patto

che questi se ne tornassero al più presto da dove erano venuti, cosa che sembra sia

avvenuta. Pare che questo gruppo si sia trasferito al di là dell'odierna Vhrnika (valico di

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Nauportus), nella zona dove ora sorge Lubiana e dove si sarebbe unito e poi mescolato con la

popolazione locale.

In relazione a questa intrusione al di qua delle Alpi ed in previsione di altre

possibili future invasioni da parte di altre genti, forse anche più forti dei Galli

appena fatti retrocedere, Roma decise di fare una grande e forte guarnigione militare in

quell'area sia con lo scopo di sia sbarrare i varchi delle Alpi Orientali ad intrusioni di genti

“barbare” provenienti dai territori dell’Oriente, sia per porre fine alle scorrerie

piratesche degli Istri e degli Illiri nell'alto Adriatico, mai del tutto cessate.

Gli Istri infatti continuavano le loro scorrerie, soprattutto verso i rifornimenti per le

truppe romane che venivano via mare. Il console M. Claudio, incaricato della

costruzione del nuovo presidio, rese noto al Senato romano che, per poter portare a

termine l’opera era necessario domare prima di tutto gli Istri che, oltre alle azioni di

pirateria in mare, ostacolavano anche con azioni di guerriglia terrestre le operazioni

di costruzione. Perciò chiese l’autorizzazione per sferrare un attacco militare contro di

loro. Ottenuto il permesso, egli entrò nell’Istria, ma, o perché poco fiducioso nelle ridotte

forze concessegli, o perché fermato da una inaspettata resistenza ed inoltre perché non

sufficientemente sostenuto dal Senato, tornò dall’Istria senza aver conseguito alcun

risultato. Richiamato a Roma per presiedere i comizi per l’elezione dei nuovi consoli, fu

poi destinato ad altro incarico.

Gli Istri, resi euforici della ritirata delle legioni romane, divennero più temerari e

ricominciarono ad assalire ed a depredare con maggiore frequenza le coste dell’alto e

medio Adriatico. Anche questa volta Roma era in quel momento a corto di soldati in

quanto aveva impegnate altrove le sue legioni e non poté intervenire subito per

contrastare con efficacia le scorribande degli Istri.

Tuttavia erano troppi gli interessi politici ed economici in ballo per non sostenere ad

oltranza la decisione di realizzare il presidio militare e quindi i lavori per continuare

ad ampliare e finire le opere già iniziate proseguirono, anche in carenza di adeguate

protezioni militari. Ma tanto più impegno mettevano i Romani a concretizzare l’opera e

tanto più numerose e devastanti si facevano le incursioni degli Istri che assolutamente

non volevano vicino a loro un potente presidio militare romano.

Perciò al pretore G. Fabio Buteone fu ordinato di entrare con le sue legioni nelle terre

dell' Istria con il compito di porre termine a questa critica situazione e sottomettere gli

Istri. Egli pur non riuscendo ad assoggettare la regione, fu tuttavia in grado di

convincere gli Istri a desistere almeno dalle azioni di disturbo nei confronti del

presidio-colonia che stava nascendo, stipulando un più o meno tacito accordo con il loro re.

I lavori per la definitiva sistemazione del presidio poterono così concludersi e questo fu

ufficialmente inaugurato con i riti propiziatori richiesti, nel 182 a.C dai triunviri C. Scipione

Nasica, C. Flaminio e L. Manlio Acidinio. Il presidio assunse il nome di “Aquileia” (4).

Fu operante già dall’inizio con almeno 3.000 fanti e molti cavalieri, oltre a coloni,

mercanti ed altre corporazioni civili.

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Nei due anni seguenti (180 e 179 a.C.) le relazioni tra Romani ed Istri furono

relativamente tranquille, ma le cose cambiarono nel 179 a.C., quando il re degli Istri con il

quale il pretore Buteone aveva potuto negoziare qualche accordo, morì e gli succedette il

figlio Epulo.

NOTE (1) Teuta vedi nota (1) a pg. 26 (2).Demetrio di Faro vedi nota a pg. 26 (3) Istri. Con tale nome, usato dai Romani, vengono denominate quelle popolazioni che abitavano l’Istria e che erano nate dalla fusione tra genti di origine celtica (Giapidi e Catali) scesi nel 450 a.C. circa dal Nord e gli Illiri che, già attorno al 1000 a.C., che si erano stanziati sulle coste adriatiche della penisola balcanica (4) Il nome di Aquileia deriverebbe, secondo alcuni fantasiosi nella leggenda di Antenore, dal troiano Aquilo. Per altri, più realistici, dal fiume Aquilio (Natisone). Per altri ancora, a seguito della comparsa di un’aquila nel sito della fondazione. L'ipotesi più probabile è però quella che tale nome derivi dal celtico Akileja” ( "Aquileium" in latino), ossia "terra delle acque".

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DE BELLO HISTRICO TRADUZIONE dal LATINO delle parti del XLI LIBRO delle STORIE di TITO LIVIO

riguardanti la GUERRA contro gli ISTRI (178 – 177 a. C.)

Dalle Storie di Roma (Ab Urbe Condita)-libro XLI-edito dalla Società Dante Alighieri (1950)

(mio residuo liceale)

(I disegni ed i commenti riportati, quando non indicato espressamente, sono di mia

concezione e me ne assumo la responsabilità)

……. si diceva che Epulo (giovane re degli Istri) avesse armato il popolo che era stato

tenuto in pace dal di lui padre e che, a seguito di ciò, egli fosse molto accetto ai giovani,

avidi di (far) bottino.

Il console romano (Aulo Manlio Vulsone) (1) tenne un consiglio di guerra

riguardo all' opportunità di fare una guerra in Istria. Alcuni dei partecipanti erano

dell’opinione che bisognasse agire subito, prima che i nemici potessero radunare maggiori

forze, altri ritenevano che si dovesse consultare prima il Senato (a Roma). Prevalse il

parere di non procrastinare il giorno dell’attacco.

Il console, partito da Aquileia (2), si accampò nei pressi del lago Timavo (3) .Questo

lago è vicino al mare.

Nello stesso tempo il diumviro navale C. Furio giunse (là) con dieci navi (da guerra).

Due diumviri navali erano stati (infatti) nominati per fronteggiare la flotta degli Illiri

e per proteggere le coste del mare Adriatico con 20 navi da guerra (10 ciascuno).

Ancona era stata considerata come linea divisoria (delle aree di intervento). L. Cornelio

doveva difendere le coste di destra, sino a Taranto e C. Furio la costa sinistra sino ad

Aquileia.

(Le navi di C. Furio) furono affiancate da navi da trasporto cariche di grandi quantità

di vettovaglie e furono mandate al porto più vicino ai confini dell' Istria (4).

Il console seguì le navi via terra (5) e si accampò a meno di 5 mila passi dal mare (6).

Fu quindi ordinato a M. Ebuzio, tribuno militare della seconda legione, di predisporre in

permanenza due manipoli di soldati (circa 250 uomini) a difesa della via del fiume (con

ogni probabilità il Rosandra) per proteggere coloro che erano stati adibiti al rifornimento

di acqua.

I tribuni militari T. e C . Elio dislocarono la terza legione ( 3.000 fanti + 300 cavalieri)

lungo la via che conduceva ad Aquileia, a protezione dei foraggiatori e taglialegna.

Nel porto il commercio dei mercati divenne presto molto consistente. Da qui ogni cosa

veniva trasportata nell’accampamento. E perché questo (trasporto) avvenisse con più

sicurezza, in tutte le parti dell’accampamento fu ordinato di piazzare dei posti di guardia.

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Come presidio (di difesa) stabile verso l’Istria fu piazzata la coorte piacentina, di recente

formazione (circa 6..000 militi) . A circa 1.000 passi (circa 1,5 km) dal “castrum”

(principale) si trovava invece l ’accampamento dei Galli, (soldati reclutati in Lombardia),

comandati dal generale Catmelo con non più di 3.000 militi. (7)

Gli Istri, non appena le legioni romane si mossero dal lago Timavo, si appiattarono in luoghi

non visibili e di là, per sentieri nascosti, seguirono l'esercito in marcia, attenti ad ogni

sua mossa. A loro non sfuggiva nulla di ciò che accadeva sia in terra sia in mare. (Alcuni

giorni più tardi), dopo aver constatato che le difese dell’ accampamento erano (ancora)

incomplete e che il mercato, situato fra il mare ed il "castrum", era affollato da una

moltitudine di mercanti (non armati) ed era privo di qualsiasi difesa terrestre e marittima,

(gli Istri) sferrarono il loro attacco contemporaneamente su due fronti: uno contro la coorte

piacentina (8) e l'altro contro i manipoli della seconda legione (9).

La nebbia mattutina aveva protetto (il loro) attacco, ma al suo diradarsi al primo tepore

del sole, il chiarore già abbastanza risplendente, ma pur tuttavia ancora incerto, rendendo

allo sguardo l’aspetto delle cose molto più grande di quanto lo fosse in realtà, ingannò

i Romani e fece loro credere che l’esercito nemico fosse molto più grande di quanto lo

fosse in realtà.

I soldati dell’uno e dell’altro presidio (cioè quelli messi a guardia del “castrum” principale e

quelli messi a protezione della via dell’acqua), atterriti da quella vista, fuggirono con grande

disordine suscitando molto più terrore di quello che essi avevano portato con se.

Non erano in grado di dire da cosa erano fuggiti, né di dare una risposta (plausibile) a

quelli che domandavano (cosa stesse accadendo).

In più si udiva un forte clamore nel porto, là dove non c’era alcun corpo di guardia che

potesse affrontare l ’attacco (degli Istri).

Il correre nella luce incerta di coloro che cadevano incespicando gli uni sugli altri rendeva

incerto il fatto se il nemico fosse o no dentro la palizzata. (del “campus”)

Si udiva solo la voce di coloro che urlavano verso il mare e ciò che era stato gridato da

uno, senza alcun riscontro, risuonava presto ovunque per l’intera zona. Quindi, in un

primo momento, come se fosse stato preordinato, pochi armati e molti disarmati corsero

verso il mare, seguiti da altri e poi da quasi tutti. Anche dal console che, dopo aver tentato

inutilmente di richiamare i fuggenti, non era riuscito nell’intento (di raggrupparli) né col

comando, né con l’autorità , né con le preghiere .

Rimase soltanto M. Licinio Strabo, tribuno militare della seconda legione, che fu abbandonato

con tre soli manipoli (10). Gli Istri, fatta irruzione nell’accampamento abbandonato,

poiché nessun altro armato era andato incontro a loro, saltarono addosso a lui, mentre

stava dando istruzioni ed incoraggiava i rimasti nel pretorio. Il combattimento fu più

accanito di quanto l'esiguo numero dei resistenti lo richiedesse e non terminò prima che il

tribuno fosse ucciso assieme a coloro che si erano aggregati attorno a lui.

Demolito il pretorio e saccheggiato ciò che c’era dentro, i nemici (gli Istri) arrivarono alla

tenda del questore, al magazzino ed alla via quinta (11).

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Qui il capo degli assalitori (Epulo ? T. Livio non dice il nome)) avendo trovato in quantità

ogni cosa (già) preparata ed esposta e le tavole imbandite nella tenda del questore, dopo

essersi accomodato, incominciò a banchettare. Subito tutti gli altri fecero lo stesso,

dimenticandosi delle armi e dei nemici. Poichè il cibo insolito per loro era abbondante,

rimpinzarono con ingordigia i loro corpi con il cibo stesso e con il vino.

Nel frattempo la situazione presso i Romani era completamente differente. Si era in

preda al panico sia in terra che in mare. I marinai stavano ripiegando le tende e riportando

sulle navi i viveri depositati sulla spiaggia e i soldati atterriti stavano precipitandosi

sulle barche ed in mare. I nocchieri, temendo che le navi si sovraccaricassero, da una parte si

opponevano a questa moltitudine e dall’altra spingevano le navi lontano dalla spiaggia, al

largo. A causa di ciò sorse una rissa che degenerò poi in una lotta tra soldati e nocchieri

con feriti ed uccisioni vicendevoli, fino a che, per ordine del console, la flotta fu

allontanata da terra.

Solo allora si incominciò a separare gli uomini disarmati da quelli armati e, In una così

grande moltitudine di gente, furono alfine trovati 1.200 uomini che avevano le armi

e pochissimi cavalieri che si erano portati appresso i cavalli. La parte rimanente della

folla disarmata, come i vivandieri, i portatori e gli stallieri, avrebbe potuto essere una

facile preda, se i nemici avessero (continuato) nella battaglia. Solo allora, finalmente, fu

inviato un messaggero a richiamare la terza legione ed il presidio dei Galli .

Loro assieme (III legione + Galli), incominciarono a convergere da ogni luogo per riprendere

l’accampamento e lavare l’onta (subita) (12).

I tribuni militari della terza legione ordinarono di scaricare il foraggio e la legna (dalle

bestie da soma) e ordinarono ai centurioni di disporre i soldati anziani sulle bestie da

soma dalle quali erano stati gettati i carichi per dar modo a questi di prendere in groppa

con loro un soldato giovane ciascuno. I tribuni esortarono i soldati dicendo che la gloria

della legione sarebbe stata eccelsa se con il loro valore essi avessero riconquistato

l’accampamento, perduto per la viltà della seconda (legione).

E sarebbe stato facile riconquistarlo se i barbari, intenti a far preda, fossero stati assaliti

subito. Come loro (gli Istri) lo avevano preso, così lo stesso poteva essere riconquistato.

Tale esortazione fu accolta con sommo entusiasmo dai soldati. Velocemente vennero issate

le insegne e gli armati non esitarono (a schierarsi dietro) i porta-insegne. Intanto il console

(Vulsone) e quelle milizie che erano state (ricomposte) e ricondotte dal mare, arrivarono per

prime al vallo.

L. Azio, primo tribuno della seconda legione, non solo esortò i soldati, ma fece loro anche

notare che se gli Istri avessero avuto in animo di trattenere ciò che avevano razziato, con le

armi con le quali avevano preso l’accampamento avrebbero dapprima inseguito il nemico

(cioè i Romani) che era stato costretto a fuggire dal “castrum” sino al mare e poi

avrebbero certamente messo delle sentinelle a difesa del vallo (13).

(Non avendolo fatto) era verosimile che i nemici (gli Istri) giacessero immersi nel vino e

nel sonno (14). Quindi (il console) ordinò al suo porta-insegne A. Beculonio, uomo di

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noto valore (ma non era uno di quelli che poco prima se l’era data a gambe ?), di portare

avanti l’insegna. Perché ciò avvenisse con maggiore celerità, lui (il porta-insegne) disse che

lo avrebbe fatto, ma a patto che i soldati ( 1200 + qualche cavaliere) lo avessero subito

seguito. Fedele a questo giuramento, portò l’insegna oltre il vallo ed entrò, primo fra tutti

attraverso la porta (del “castrum”). Dalla parte opposta sopraggiunsero i tribuni militari T. e

C. Elio con la III legione e la cavalleria. Nello stesso tempo arrivarono anche quelli che avevano

ordinato di mettere due (militi) sulle bestie da soma.

Infine (ultimo 'drio de tuti ! ! !) arrivò il console (Vulsone!) con tutta la guardia del corpo.

Pochi gli Istri, quelli che erano usi a bere poco, si erano ricordati di fuggire, ma gli altri

passarono immediatamente dal sonno alla morte. I Romani ricuperarono le loro cose

intatte, all'infuori del vino e dei cibi che erano stati consumati. Anche i soldati feriti,

che erano stati lasciati nelle tende (sulla spiaggia), dopo aver visto i loro compagni

dentro il vallo, afferrate le armi, fecero una grande strage (degli Istri che erano

rimasti, a detta di Tito Livio, nel "castrum", ubriachi, mezzi o del tutto addormentati.

Bel valore militare ! ). Fra tutte fu segnalata l’azione del cavaliere C. Popilio, di cognome

Sabino. Egli, pur abbandonato e con un piede ferito, uccise molti nemici.

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Furono uccisi circa 8.000 Istri (15). Tuttavia il re degli Istri, ubriaco per il banchetto,

fu messo in fretta dai suoi su di un asino e riuscì a fuggire (16). Nessuno (degli Istri

rimasti) fu fatto prigioniero (ma fu trucidato) perché l’’ira e l’indignazione fecero

scordare (ai Romani) di far bottino (cioè di ricuperare armi e prendere prigionieri). Fra i

vincitori (cioè i Romani), morirono 237 soldati, la maggior parte più nella fuga

mattutina che nella riconquista dell’accampamento (17).

Il caso volle che, al momento dell'irruzione degli Istri nel “castrum”, due mercanti di Aquleia,

certi Cneo e L Gavillo Novello, del tutto ignari della situazione, portando della mercanzia,

finissero quasi nel sito appena conquistato dagli Istri. Abbandonata la mercanzia, essi

scapparono subito verso Aquileia (18) (cioè prima della riconquista del “castrum” dai Romani)

In Aquileia essi diffusero (con il loro racconto) in ogni luogo terrore e confusione e non solo in

Aquileia. Infatti, pochi giorni dopo, le notizie della disfatta furono riportate anche a Roma. Qui

fu riferito che l’accampamento era stato preso dai nemici, ma non (fu menzionata) la fuga

(dei soldati Romani), cosa che era (invece) la verità. Venne riferito che le tutte cose erano

andate perdute e che tutto l’esercito era stato annientato.)

Com’è solito accadere nella confusione, a Roma furono indetti arruolamenti e non solo in

città, ma anche in tutta l’Italia. Furono arruolate due legioni di cittadini romani

(12.000 uomini almeno) e fu ordinato agli alleati Latini di fornire altri 10.000 fanti e

500 cavalieri. Al console M. Giunio Bruto fu ordinato di passare in Gallia (cisalpina,

l’attuale Piemonte e Lombardia) e di esigere dalle città della sua provincia il maggior

numero di soldati che ognuna potesse dare. Nello stesso tempo fu ordinato al pretore

Tito Claudio di ordinare ai soldati della quarta legione, ai 5.000 forniti dagli alleati

Latini e ai 250 cavalieri di radunarsi a Pisa per difendere la di lui (di M. Giunio) provincia

(la Liguria) per tutto il tempo che lui, console, fosse stato lontano.

Il pretore M. Titinio ordinò alla prima legione ed a un eguale numero di fanti (5.000) e

di cavalieri alleati (250) di radunarsi a Rimini. Il capitano Nero fu trasferito a Pisa. .

M. Titinio, (dopo aver) mandato a Rimini il tribuno militare C. Cassio per assumere il

comando della legione, si occupò dell'arruolamento.

Il console M. Giunio Bruto, passato dalla Liguria nella provincia della Gallia , imposti

ed avuti gli aiuti richiesti alle popolazioni della Gallia ed i soldati dalle colonie, giunse

finalmente ad Aquileia (con tutto il seguito). Qui lui fu informato che l’esercito (cioè le

legioni al comando di Vulsone) era incolume (e che stava tranquillamente svernando in

Aquileia).

Il console M. Giunio Bruto allora inviò una lettera a Roma perché nessuno più si preoccupasse.

Dopo aver rimandato a casa gli aiuti che aveva ordinato ai Galli, si recò dal collega (il

console Manlio Vulsone) per essere informato della situazione.

A Roma la gioia per l’inaspettata notizia fu grande: l’arruolamento fu sospeso e coloro che

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avevano prestato giuramento furono congedati; l’esercito che stanziava a Rimini e che

era affetto dalla peste, fu messo in libertà (19).

Gli Istri, malgrado avessero un accampamento non lontano dal "castrum" dei Romani (20) Il caso volle che, al momento dell’irruzione degli Istri nel "castrum", due mercanti di Aquileia, certi Cneo e L. Gavilio Novello, del tutto ignari della situazione, portando mercanzia, finissercasRoma

con considerevoli forze (cioè il grosso del loro esercito) dopo aver saputo che era

arrivato un altro console (Giunio) con un nuovo esercito, si dispersero in tutte le direzioni

(rientrando) nei (loro) insediamenti.

Intanto i tribuni della plebe A. Licinio Nerva e C. Papirio Turdo (a Roma) stavano

denigrando nelle adunanze il console Vulsone (che era assente), e (stavano tentando di)

far promulgare una legge perché a lui fosse tolto il comando non appena fosse decaduto

dalla carica, (dopo le Idi di marzo del 178 a.C.). Infatti il (suo) incarico era stato

prolungato già di un anno e ciò perchè egli potesse nel contempo difendersi in tribunale.

Un collega (del console), il tribuno Q. Elio si oppose a questa richiesta e, con grandi dibattiti,

riuscì a non far approvare questa legge in quanto i (due) consoli (Vulsone e Bruto) si

dovevano accordare per stabilire chi di loro due dovesse ritornare a Roma per tenere i

comizi (per le nuove nomine). A Roma venne dall’Istria il console M. Giunio (Bruto) per tali

comizi .

(Omissis (argomenti non inerenti la guerra contro gli Istri)

Frattanto i consoli ( Manlio Vulsone e Giunio Bruto) riportarono le legioni ad Aquileia per svernare. Sedata (per il momento) la sommossa degli Istri, fu emessa una delibera dal Senat

I tribuni della plebe Papirio Nerva e Licinio Turdo, avendo infastidito (i membri del Senato)

con le esternazioni sulle operazioni che erano state condotte in Istria, portarono Giunio

Bruto nell’adunanza del popolo, Il console (interrogato) disse a quel proposito che le

operazioni (militari) erano avvenute in sua assenza. (Disse che) lui era stato in quella

provincia per non più di 11 giorni e che aveva avuto le notizie (sulla battaglia) come

loro, solo per sentito dire. I tribuni insistettero ancora chiedendo come mai a Roma non

fosse venuto piuttosto Vulsone per render conto (del suo operato) al popolo romano. E

inoltre (spiegare) perché dalla provincia della Gallia che gli era stata assegnata lui (Vulsone)

fosse passato in Istria . E (sapere) se il Senato aveva approvato quella guerra. E

ancora dire se la guerra fosse stata intrapresa di sua (di Vulsone) iniziativa e condotta

con prudenza e fermezza. Infatti non era stato possibile sapere se (la guerra) fosse stata

intrapresa per infausto consiglio o condotta con poco senno. Due posti di sentinelle

erano stati sopraffatti dagli Istri quando meno se l’aspettavano, l’accampamento romano

era stato espugnato ed erano stati uccisi tanti cavalieri quanti si trovavano al suo interno.

Tutti gli altri, senz’armi e sbaragliati e davanti a tutti lo stesso console, erano fuggiti verso il

mare e le navi. Egli (Manlio), una volta decaduto, certamente avrebbe dovuto rendere

conto di quei fatti da privato cittadino in quanto da console non aveva voluto farlo.

(Riassunto) In seguito si tennero i comizi. Furono eletti consoli

C. Claudio Pulcher (il Bello) e T. Sempronio Gracco.

C. Claudio il Bello ebbe in sorte l'Istria e T. Sempronio Gracco la Sardegna.

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Alle Idi di marzo (15 marzo 177 a.C.), giorno nel quale Sempronio Gracco e Claudio il Bello

iniziarono il consolato, si parlò soltanto delle provincie della Sardegna e dell’Istria e dei

nemici di entrambe che avevano fatto sorgere la guerra. Il giorno dopo, gli

ambasciatori dei Sardi, che erano stati rinviati ai nuovi magistrati e Lucio Minucio

Termo, che era stato delegato del console Manlio Vulsone in Istria, furono introdotti in

Senato. Da loro il Senato fu informato di quanto pericolosa fosse la guerra in quelle provincie.

(Riassunto) Per l’Istria fu decretato l’arruolamento due legioni ed più ulteriori

6000 fanti + 600 cavalieri che dovevano essere reclutati presso gli alleati.

Mentre a Roma accadevano queste cose, M. Giunio e A. Manlio Vulsone, che erano stati

consoli l’anno precedente, dopo aver svernato ad Aquileia, ricondussero le legioni romane nel

territorio degli Istri all’inizio della primavera del 177 a.C.

Qui i Romani si misero a saccheggiare ed a devastare (paesi e campi) senza alcun riguardo,

(suscitando) fra (gli Istri) dolore e sdegno. La gioventù (istra) , più che (credere) di avere

sufficienti forze per fronteggiare i soldati romani, pensò allora di contrastare queste

scorrerie ed accorse in massa da ogni regione (per arruolarsi).

Ma l’esercito (degli Istri), reclutato in fretta ed in modo disordinato, combatté il primo

scontro (non è indicato dove avvenne) più con la violenza (impulsiva) che non con la

tenacia (venendo sconfitto). Circa 4.000 di loro furono uccisi in battaglia ed i rimanenti,

abbandonata la lotta, fuggirono e ripararono nei loro insediamenti.

Diversi gruppi mandarono dapprima degli ambasciatori nell’accampamento romano per

chiedere la pace ed in seguito anche gli ostaggi che erano stati richiesti.

Poiché i successi dei due ex-consoli erano stati riferiti a Roma via lettera, il console

C. Claudio il Bello, temendo che questi fatti potessero far togliere a lui l’incarico ed il

comando delle legioni, dopo aver informato solo il suo collega, partì nelle notte

precipitosamente per la provincia (Istria) senza pronunciare i voti solenni e senza littori

paludati (20)

Qui giunto egli assunse un comportamento più insulso di quello di quando era partito.

Convocata un’adunanza, rimproverò Manlio Vulsone per la sua fuga dall' accampamento

(l'anno prima), circostanza che aveva suscitato la disapprovazione dei soldati e poi per

aver tenuto un comportamento (da vile), simile a quello di coloro che per primi erano

fuggiti. Poi lanciò ingiurie a M. Giunio perché si era associato al collega nell’onta e

infine ordinò che entrambi si allontanassero dalla provincia.

Ma i soldati (delle legioni di Vulsone) dissero che avrebbero ubbidito in futuro all’ordine del

console (Claudio il Bello) solo quando lui, secondo il costume degli antenati, fosse partito

dalla città (Roma) con i littori paludati e solo dopo aver pronunciato i voti in Campidoglio.

Il console, furente d’ira, chiamato colui che era questore , richiese le catene, minacciando di

mandare a Roma Giunio e Vulsone incatenati. Ma l’ordine del console fu disprezzato anche

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da questo (questore) e l'esercito, favorevole alla causa dei comandanti (Vulsone e Giunio) e

ostile al console Claudio Bello, circondò (il questore), rafforzando (in lui) il coraggio a

disobbedire. Allora il console sopracitato, avvilito dalle offese dei singoli e dagli scherni

della massa che lo derideva, ritornò a Roma con la stessa nave con la quale era arrivato.

Da lì scrisse una lettera al (suo) collega perché notificasse a quella parte delle reclute che era

stata già arruolata per la provincia d’Istria di radunarsi al più presto ad Aquileia, affinché a

Roma nulla lo ritardasse dal lasciare la città con le insegne del comando e dopo aver

pronunciato i voti solenni. Claudio il Bello seguì quasi subito la sua lettera. Le sue istruzioni

furono scrupolosamente seguite dal suo collega e fu stabilito un tempo breve per il raduno

(delle truppe ad Aquileia). Appena arrivato egli convocò anche l’assemblea del popolo (per

denunciare) Vulsone e Giunio. Si fermò a Roma per non più di tre giorni. Dopo aver avuti i

littori paludati ed aver pronunciato i voti solenni in Campidoglio, egli ritornò nella provincia

(Istria) precipitosamente, così com'era partito. (Nel frattempo), pochi giorni prima M. Giunio e M. Vulsone avevano attaccato (22) con somma violenza la città fortificata di Nesazio (23) dove si erano rifugiati i capi degli Istri e lo (Nel

(Nel frattempo), pochi giorni prima M. Vulsone e M. Giunio avevano già attaccato (22) con

somma violenza la città fortificata di Nesazio (23) dove si erano rifugiati i capi degli Istri e lo

stesso re Epulo.

Contemporaneamente però arrivò (ad Aquileia) il console C .Claudio il Bello che,

condotte là le due legioni appena arruolate, congedò il vecchio esercito ed i suoi due

comandanti (Vulsone e Giunio). Poi egli (Claudio il Bello) riprese l'assedio alla città

fortezza (Nesazio) e decise di assaltarla con le vinee (24). Inoltre, con un lavoro durato

molti giorni, egli fece anche deviare il corso del fiume che scorreva attorno alle mura (di

Nesazio). Questo era di impedimento agli assedianti ed inoltre forniva l'acqua agli Istri.

Egli fece scorrere il fiume in un alveo diverso. Questo fatto atterrì i barbari per il prodigio

della deviazione dell’acqua e quindi loro, senza pensare neppure di (chiedere) la pace,

iniziarono ad uccidere le proprie donne ed i propri figli. Perché una così orribile

carneficina fosse una dimostrazione (di fierezza) , essi precipitarono (dalle mura) sotto

gli occhi dei Romani (i corpi di) coloro che erano stati trucidati Fra i lamenti delle

donne e dei fanciulli e l’orrenda carneficina, i militi (romani), oltrepassato il muro,

entrarono nella città. Appena il re (Epulo) capì dalle grida di spavento dei fuggenti che la

città era stata presa, egli si trafisse il petto con la spada, pur di non esser preso vivo

(24) e così fecero anche molti dei capi degli Istri. Altri furono uccisi o presi prigionieri (25).

In seguito anche due altre città, Mutila (dovrebbe corrispondere all'odierna Medolino)

e Faveria (dovrebbe corrispondere all'odierna Mumiano) furono prese e distrutte.

Il bottino, sebbene di un popolo (ritenuto) povero, fu superiore alle aspettative e fu tutto

concesso ai soldati. 5.632 individui (più donne che uomini) furono catturate come schiavi,

mentre i promotori della guerra furono tutti uccisi con i bastoni e squartati con le

scuri. Con la distruzione delle tre città e con la morte del re (Epulo), tutta l’Istria fu

pacificata. I popoli di ogni regione, consegnati gli ostaggi, vennero (tenuti) in stato di

sottomissione.

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Intanto (a Roma), ricevuta una lettera dal console nella quale lui riportava le notizie

dell’'impresa compiuta in Istria, furono decretate preghiere pubbliche per due giorni.

Subito dopo Claudio il Bello fu mandato in Liguria dove, dopo un'altra carneficina (più di

15.000, trucidati e 700 schiavi), sottomise a Roma anche le genti colà dimoranti

A seguito delle sue imprese, Claudio il Bello, avendo pacificato (in realtà "annientato")

due popoli in un solo anno, il che raramente era stato realizzato da un altro console, ritornò

a Roma dove gli furono tributati gli onori ed il trionfo.

Fine della Storia

NOTE

(1).A Aulo Manlio Vulsone (console) era stata affidato dal Senato romano il governo della Gallia (Lombardia) per l’anno 178 a.C. Però in quel momento lui si trovava in Aquileia. Informato che gli Istri stavano concentrando armati, probabilmente per sferrare un attacco ai Romani, egli decise di intervenire subito contro gli Istri ed indisse un Consiglio di guerra per rendere ufficiale la sua azione. (2) Presumilmente con 2 legioni, cioè con circa 6.000 fanti e 600 cavalieri più altri soldati, per un totale non inferiore agli 8.000 armati, più gli equipagggi delle navi, gli ausiliari ed i mercanti. (3) Diversi storici identificano il “lacus Timavi” con l’attuale lago di Doberdò, altri addirittura la zona marina dinanzi all’odierno Monfalcone. Non è da trascurare la possibilità (più plausibile) che questa indicazione fosse attribuita invece alle risorgive del Timavo nei pressi dell'odierno S. Giovanni di Duino, località dove, nell’ antichità, c’era un importante centro di scambi commerciali ed era presente un porto (come afferma lo storico Strabone). Non va dimenticato che, nei suoi pressi, c'era ( e c'é tuttora) una caverna nel mezzo di un boschetto (in latino “lucus”), con l’effige del dio Mitra, a quel tempo venerato da molti soldati La zona inoltre è direttamente raggiungibile dal mare (vedi figura più sotto). E Tito Livio dice appunto: “Questo lago è vicino al mare”. Il Gradenigo dice che andrebbe presa in considerazione anche la possibilità di una svista nella trascrizione dal manoscritto originale (purtroppo perduto), effettuata in un convento. Cioè “ad lucum Timavi” (boschetto sacro del Timavo, con l'effige del dio Mitra) e non “ad lacum Timavi”. Si sarebbe confusa la vocale “a” con quella “u”di grafia molto simile. Ad ogni modo, “lacus” o “lucus Timavi” non ha molta importanza per il seguito degli avvenimenti in quanto si tratta soltanto di una breve sosta per radunare sia le forze di terra che quelle di mare e per predisporre un piano comune tra navi e truppe per l'avanzata nei territori dell'Istria . (4) L’identificazione del “porto più vicino all’Istria” con la baia di Sistiana oppure con il porticciolo di Grignano, avanzata da qualche storico, è da ritenersi priva di fondamento. A confutare queste ipotesi è sufficiente considerare che: a- le dimensioni della baia di Sistiana non sono idonee per consentire l'ormeggio sia di una flotta come quella

descritta (quelle militari del diunviro C. Furio (10 navi + quelle da trasporto viveri e materiali), sia della successiva sistemazione di un mercato, come narra Tito Livio. b - la baia di Sistiana é vicinissima sia al lacus Timavi (≈ 8 km) che al lucus Timavi (≈ 4 km). E' assurdo pensare all'installazione di due accampamenti (uno al lacus o al lucus Timavi e l'altro a Sistiana) a così poca distanza l'uno dall'altro .. c- la baia di Sistiana non si trova “in fines Histriae” (come indica invece Tito Livio. Ad ogni buon conto i “fines Histriae” iniziavano (ed inizano tott'oggi) dopo il fiume Rosandra e si estendevano verso Sud e verso Ovest. ) d - il porticciolo di Grignano, oltre ad essere molto più piccolo di quello di Sistiana non offriva alcun requisito di praticità e sicurezza per l’ormeggio di una flotta d’appoggio ad un esercito delle dimensioni di quelle descritte. Inoltre le comunicazioni ed il trasporto di attrezzature e merci tra le navi e le truppe di terra che, in questo caso, avrebbero dovuto accamparsi nel castelliere di Moncolanum (Contovello), sarebbero stato molto problematico soprattutto per la natura scoscesa del terreno. b.- la baia di Sistiana è vicinissima sia al “lacus” (~ 8 km) che al “lucus” (~ 4 km) Timavi. E' assurdo pensare all'installazione di due accampamenti, uno al lacus o al lucus Timavi e l’altro a Sistiana a così breve distanza ed a così pochi giorni nti) (5) Lungo il ciglione carsico, facendo probabilmente una sosta per il pernottamento sullo spuntone di "Moncolanum" (odierno"Contovello"). Il giorno seguente le legioni avrebbero proseguito la marcia sino alla odierna “Scala delle vacche”, dalla quale sarebbero poi scese con facilità verso la sommità dell'odierno Monte Bello, già sede di un importante castelliere.

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(6) Verosimilmente sulla sommità del Monte Bello, come S. Gradenigo sostiene con validi argomenti . Chi conosce la zona, può facilmente rendersi conto che il punto più idoneo per creare un “castrum” non può essere stato altro che quello della sommità dell'odierno Montebello (vedi foto a pg 28). Il declivio verso la spiaggia dove potevano ormeggiare le navi d’appoggio non è troppo scosceso e quindi il trasporto delle merci poteva essere abbastanza agevole. Dalla cima del Monte Bello poi, oltre ad avere una ottima visuale su tutta la regione sottostante, si potevano controllare le valli di Rozzol, di Longera ed il ciglione dell’altipiano, la sella di Cattinara e la valle di S. Giuseppe. Anche la visuale sul monte Carso, dove molto verosimilmente erano accampati gli Istri, non frapponeva ostacoli. In più, la sommità del Monte Bello era già da tempo sede di un insediamento di genti locali e quindi la sistemazione di un "castrum" lì poteva godere di un terreno già preparato. Tito Livio indica in circa 5 "milia" romane (che sono circa 7 km) la distanza tra il mare ed il castrum, distanza che è in realtà un po' troppo sovra stimata e poco credibile se si considera che, come lui stesso relaziona più avanti, era possibile sentire le grida dei soldati in fuga dal castrum alle navi. E’ probabile che T. Livio abbia riportato delle indicazioni sulla localizzazione del “castrum” principale non corrette o almeno non attribuibili a questo “castrum”, ma al “castrum” assemblato dai milit i comandati dal generale Catmelo, vedi nota (7). (7) Recentemente (fine del 2012), un gruppo di studiosi triestini, adoperando un nuovo sistema di rilevamento con raggi laser (LIDAR - Light Detector and Ranging) montato su un elicottero, ha individuato in una zona vicina a Basovizza i resti di una cinta muraria attribuibile ad un “castrum” romano. Questi resti, secondo me, dovrebbero corrispondere al “castrum” assemblato dai militi romani capitanati da Catmelo attorno al 178 a:C, come Tito Livio indica,. A parte qualche assunzione storica (non del tutto condivisibile) avanzata dagli scopritori (primo “castrum romano costruito !!) -vedi A. Danti -National Geographic-Italia ), tale scoperta confermerebbe quanto effettivamente il console Vulsone aveva predisposto come una delle difese contro possibili attacchi degli Istri. (8) Probabilmente era un piccolo distaccamento di militi della legione piacentina (9) Considerando quanto ha scitto Tito Livio, si può dedurre che l'attacco degli Istri non dovrebbe esser stato condotto dal loro esercito al completo, ma solo da una parte, con la tecnica della guerriglia. Questo giustificherebbe l'avvicinamento notturno non notato di un numero relativamente limitato di uomini, dell’eliminazione delle sentinelle messe a guardia della via d'acqua e, di quelle messe a vedetta del “castrum”. Poi, la salita, sempre senza essere notati, lungo la valle dove oggi c'è il paese di S. Giuseppe e l'attacco mattutino e repentino al "castrum" ancora in fase di allestimento e quindi non ancora completamente organizzato e privo di adeguate difese. A parte tutto, l'azione degli Istri, sino a questo punto, è da ritenersi un bel successo tattico, a differenza di quanto Tito Livio vuol far credere (10). Ogni manipolo dell'esercito romano contava di regola 120 soldati. Quindi, se Tito Livio avesse detto il vero, il tribuno Strabo avrebbe avuto a disposizione ben 360 uomini ben armati e quindi più che sufficienti per opporre una significativa resistenza. Probabilmente però in quel momento Strabone aveva mliti in difetto per organizzare una valida difesa in quanto parte era in fuga e parte in altre faccende affaccendati) 11) Il “castrum” romano era montato secondo regole precise (vedi disegno a pg. seguente). Era solcato da due vie principali (via pretoria e via principale) disposte perpendicolarmente l’una rispetto all’altra. All’incrocio c’era la tenda del comandante (pretorio) con a fianco le tende del questore e dei luogotenenti. Tutt’attorno, in quadrati concentrici, le vie terza, quarta, quinta. ecc, . dove alloggiavano i soldati. Gli Istri, giungendo sino alla quinta via (l’ultima per questo “castrum”), avevano praticamente in mano tutto l’accampamento. 12) E’ molto strano il fatto che, al momento dell’assalto degli Istri al “castrum”, nè il presidio dei Galli comandati dal generale Catmelo, nè il presidio della III legione schierato a difesa della via per Aquileia, si siano accorti di nulla e siano venuti a conoscenza di cosa stesse accadendoo solo più tardi, dal messo inviato da Vulsone. Almeno così Tito Livio racconta. tende dei militari disposte sulle file 1, 2, 3, 4 ecc.

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L'unica ipotesi plausibile è quella di supporre che nè l'uno né l'altro dei distaccamenti f ossero a portata sonora e visiva col "castrum" principale (situato presumibilmente sul cocuzzolo di Cattinara). Inoltre,considerata la distanza indicata da Tito Livio di solo 1000 passi (circa1,5 km) tra il gruppo dei Galli ed il “castrum”, questa situazione può essersi concretizzata solo se il presidio dei Galli fosse stato al di là del ciglione carsico (un po’ a Sud-Ovest della piana dove oggi sorge Basovizza), come sembra essere indicata dal la recente scoperta (vedi nota (7)). (13) Gli Istri, discesi dal monte Carso ( sul quale c’era probabilmente il grosso delle loro forze), potrebbero essere avanzati notte tempo dalla zona dove oggi sorgono S. Dorligo della Valle (Dolina) e Bagnoli della Rosandra (Bolijunec ). Eliminati i pochi militi Romani della II legione e quelli della legione piacentina messi a guardia della via dell'acqua e a difesa del “campus”, sarebbero saliti lungo la valle dell'odierno S. Giuseppe e, passando inosservati a sinistra del "castrum" dei Galli capitanati da Catmelo, sarebbero saliti, sempre non visti, verso il “castrum”. Da qui, alle prime luci del giorno, favoriti anche dalla foschia, avrebbero attaccato il “castrum" da Est,, sfruttando il fatto che da quella parte la pendenza del terreno verso la sommità del Monte Bello non è molto accentuata. In aggiunta avrebbero avuto il sole alle spalle, mentre i Romani lo avrebbero avuto di fronte. Questo spiega anche la direzione di fuga presa dei Romani , dalla sommità del monte direttamente giù verso il mare e le navi d’appoggio, cioè dalla parte opposta all’attacco degli Istri e quindi attraverso un terreno, in quel momento, sgombro da nemici. 13) recinto di difesa dell’accampamento, costituito da tronchi d’albero infissi verticalmente in terra. 14) Il fatto che gli Istri non abbiano inseguito i Romani in fuga va ancora a favore dell’ipotesi che l’attacco fosse stato condotto solo da qualche centinaio di uomini con l’unico scopo di devastare l’accampamento ancora privo di adeguate difese. Infatti, stando al resoconto di Tito Livio, gli assalitori si erano ben guardati dal rincorrere i Romani in fuga ed annientarli. Questi infatti, su un terreno sgombro da nemici e con il sole più alto, si sarebbero subito accorti del ridotto numero degli assalitori e, come in effetti é successo più tardi (probabilmente nel primo pomeriggio) avrebbero potuto contrattaccare e, con ogni probabilità, sopraffarli subito. L’ errore fondamentale degli Istri (almeno di coloro che, imbaldanziti dall’esito favorevole della loro sortita, erano rimasti all'interno del "castrum") fu proprio quello di attardarsi troppo nella ritirata dopo l’incursione, forse per arraffare il più possibile. questi infatti furono quelli uccisi dai Romani che, una volta riorganizzati e resisi conto del reale numero degli Istri e soprattutto forti del loro mestiere di soldati,, contrattaccarono e riprendersi il “castrum”. E più avanti Tito Livio lascia intravvedere questa situazione. (15) ma va là Livio, cala, cala; il numero complessivo degli assalitori doveva essere di appena qualche centinaio e di questi, molti si erano già ritirati in tempo. . Del resto lo riconosci anche tu quando dici che, all'inizio dell'attacco, "a causa della nebbia mattutina e del chiarore risplendente del sole", i Romani credettero che il numero dei nemici fosse molto più grande di quanto non lo fosse in realtà ! ". (16) Qui, il tentativo di Tito Livio di denigrare Epulo e di passarlo alla storia come "il capo ubriaco e ridicolo che fugge sul dorso di un asino!" raggiunge il patetico. Peccato per Tito Livio (e per Vulsone), che l'attacco al "castrum" e la messa in fuga dei Romani, non fu una semplice e fortuita improvvisata, ma un'azione probabilmente ben pensata e diretta da Epulo. Ciò costituisce un lavoro di strategia militare che esalta tutta la sua personalità di capo! Mi sembra anche poco credibile che Epulo, comandante in capo dell'esercito e re degli Istri, abbia partecipato di persona all' incursione contro il nemico, correndo il pericolo di esser catturato e ucciso. (17) Considerando la cronaca di Tito Livio e la sequenza dei fatti, é presumibile che, dopo l'attacco degli Istri al “castrum” e la fuga dei militi romani, la successiva riconquista dell'accampamento sia avvenuta entro la giornata stessa, prevenendo l'allestimento di difese nel "castrum" stesso da parte degli Istri. Lo riconosce anche L. Azio, primo tribuno della II legione ! (18) Poiché non risulta che questi due mercanti abbiano avuto contatti nè con la III legione, nè con l’accampamento dei Galli per informare degli avvenimenti che stavano accadendo é logico dedurre che essi, venuti via mare, si siano trovati di primo mattino, in mezzo ai Romani fuggenti, raccogliendo le loro esternazioni piene di terrore e poi, con addosso una paura da matti, sarebbero scappati precipitosamente abbandonando tutto. Poi sarebbero velocemente rientrati ad Aquileia (sempre via mare) dove, come narrato, divulgarono, esagerandola, la notizia della disfatta romana forse per giustificare la perdita della mercanzia. Va sottolineato che la loro fuga é avvenuta senza che essi si accorgessero della susseguente riconquista del “castrum" da parte delle milizie di Vulsone. O hanno taciuto il tutto per avere qualche indenizzo per la merce perduta ? (19) E’ da considerare che tutto questo trambusto è nato solo sulla base del racconto dei due mercanti fuggiti in preda al terrore. A questo però punto sorge un inquietante interrogativo: poiché la riconquista del “castrum” da parte dei Romani sembra sia avvenuta dopo poche ore, rimane inconcepibile per non dire incredibile, il fatto che anche questa notizia non sia stata subito (o almeno nel corso dei giorni seguenti) riportata ad Aquileia da qualche altro mercante o milite e da qui sia stata subito comunicata a Roma. Invece, da quanto scrive poi Tito Livio, Roma venne a sapere della riconquista del "castrum" solo dalla lettera del console Giunio Bruto, dopo quasi due mesi dopo, quando giunse ad Aquileia con le nuove legioni. Infatti quasi due mesi sono il tempo minimo per indire l'arruolamento delle nuove milizie, per radunare i militi, per organizzare il vettovagliamento e per tutti gli altri annessi e connessi di una simile mobilitazione, compreso il trasferimento ad Aquileia. Allora perché è stata

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(volutamente ?) taciuta la notizia della riconquista del "castrum" già poche ore dopo la batosta subita.? E gli spostamenti di tante persone su e giù per varie regioni italiche ed i tanti sesterzi spesi inutilmente? (20) Presumibilmente sul monte Carso e/o sull’altopiano dove oggi ci sono le rovine del castello di S.Servolo e dove sono state trovate evidenti tracce di pre-esistenti castellieri. (21) I littori paludati erano le guardie del console (erano 12) con i paramenti di guerra e portanti fasci di verghe con una scure. Rappresentavano il comando supremo conferito al console dal Senato. (22) Non esiste alcuna notizia circa la zona dove il “castrum” degli assedianti Romani venne montato nè dove si fossero ancorate le navi d’appoggio che sicuramente affiancavano le truppe di terra. (23) Nesazio era la città fortificata sede del re Epulo ed era considerata la capitale degli Istri .Si trovava nell’Istria meridionale, a NE di Pola, a poca distanza da questa città (vedi fig.6) .Era posta su di un ampio dosso sui cui fianchi si aprivano due profondi burroni. Sul lato di Ponente, dove il dosso si univa al pianoro circostante, c’era un robusto muraglione con una rocca alta una decina di metri. Tutto il colle era circondato da un quadruplice vallo. Il maggiore introito dei suoi abitanti derivava dalla pirateria esercitata con assiduità. Questo spiega anche l’inaspettata quantità di bottino fatta dai Romani, come Tito Livio ci ha tramandato. (24) Macchine da guerra costituite da una tettoia di legno montata su ruote o cilindri pure di legno che, spinte sotto le mura, permettevano ai soldati che attaccavano di operare al coperto (25) Se Epulo fosse stato preso vivo, sarebbe stato portato a Roma come schiavo e secondo la legge, torturato e poi strozzato in pubblico. (26) E quanti soldati romani furono uccisi dagli Istri ? In questa occasione fondamentale e conclusiva della storia Tito Livio, in confronto alla dovizia di particolari e di nomi che lui ci ha citato nella battaglia del Monte Bello, tace totalmente .Non sappiamo le fasi salienti di questa storia, la località dell'accampamento romano, la consistenza delle legioni di Claudio il Bello, cenni sulla conquista di Nesazio, la strage degli assediati e.... Con il nuovo Console, Claudio il Bello,.

cambiò solo il cronista di turno o a questo fu imposto di non dare troppe notizie ? Mistero..

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Curiosità

La carneficina avvenuta sotto e dentro le mura di Nesazio dovrebbe esser stata ancora viva e

nota con dovizia di particolari per molti secoli dopo il suo epilogo . Infatti Dante, quasi 1500

anni più tardi, nel IX Canto dell'Inferno, per descrivere il lugubre paesaggio infernale dove,

entro sepolcri infuocati, venivano messi per espiare la loro colpa i dannati per eresia ed

incredulità, ha scritto:

Com'io fui dentro,l'occhio intorno invio

e veggio ad ogni man grande campagna

piena di duolo e di tormento rio.

Si' come ad Arli, ove il Rodano stagna,

si' com'a Pola presso del Quarnaro (Nesazio)

che Italia chiude ed i suoi termini bagna,

fanno i sepolcri tutto il loro varo (*).

Così facean quivi da ogni parte,

salvo che il modo v'era più amaro.

(*) varo = terreno scabro e corrugato per la presenza di innumerevoli tombe

Ringrazio sentitamente le persone che hanno avuto la pazienza di leggere queste mie note.

Nel caso che qualche lettore abbia ulteriori informazioni da aggiungere e/o correggere, lo

prego vivamente di farmelo sapere e di scrivermi all’indirizzo sotto indicato.. Sarà mia

premura, oltre che un piacere, rispondegli.

ELIO RABUSIN

[email protected]

Nota: un dischetto con il teso integrale della mia ricerca storica è disponibile a semplice

richiesta. (digilander.libero eliorab).

Per colui che, “sponte sua”, volesse aggiungere altri e/o diversi fatti e/o episodi, ogni

informazione riportata nel presente documento può essere da lui usata senza alcun

vincolo. Viene richiesta solo l’indicazione del mio nome.

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INDICE Introduzione …………………………………………………………………………................ 2

Prima leggenda ……………………………………………………………………................. 3

Seconda leggenda ………………………………………………………………................... 4

Terza leggenda …………………………………………………………………….................. 5

Ipotesi sull’Origine delle Genti che popolarono le Aree del Nord-Est

della penisola Italica nella Preistoria ………..................................... 9

Il Veneto, il Friuli e l’Istria dalla Preistoria alla nascita di Cristo ..... 17

La Romanizzazione del Veneto e dell'Istria ................................................. 23

E Tergeste dove stava in tutto questo battagliare ? ............................... 27

Introduzione allo scontro tra le Legioni Romane e gli ISTRI ............... 34

Situazione antecedente lo scontro tra i ROMANI e gli ISTRI ............. 35

De Bello Histrico (traduzione dal latino delle parti concernenti la

guerra contro gli Istri del XLI libro delle Storie di Roma di

Tito Livio) .................................................................................................. 38

Curiosità ................................................................................................................ 50

Indice ..................................................................................................................... 51

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