Sport 2.0 : febbraio 2011

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Il nuovo free magazine che parla di sport N° 4 - MENSILE - FEBBRAIO 2011 GRATIS MELANIA CORRADINI CAMPIONESSA PARALIMPICA BOB SLITTINO SKELETON HOCKEY SU PRATO

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Transcript of Sport 2.0 : febbraio 2011

Il nuovo free magazine che parla di sport

N° 4

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In TV, in edicola e anche dalla parrucchiera (pregevolissimo contesto di consultazione), Sanremo, San Valentino e l’immancabile calcio sembrano gli unici appuntamenti di febbraio degni di nota. Del resto, chi si prenderebbe la briga di seguire e raccontare eventi come la final eight di basket, il motocross free style, la ginnastica ritmica, i campionati paralimpici, le gare di skeleton, gli appuntamenti di tuffi e di paracadutismo? Per strano che possa sembrarvi, Sport 2.0 lo fa. Sport 2.0 indaga sul posto, fotografa, intervista, curiosa e racconta tutti gli eventi sportivi di Torino. Perché Sport 2.0 parla sì di sport, ma parla anche di personaggi storici o emergenti, di eventi colossali o microscopici, del bel salotto torinese e dei suoi mille paesini limitrofi, con le loro microsquadre e le loro tifoserie superagguerrite. Ne parla perché è lì che si tocca lo spirito di partecipazione e la voglia di esserci dell’attivissima community locale di sportivi, curiosi e tifosi. Una community che si fa sentire anche su www.sportduepuntozero.com, che chiede informazioni, che dirama notizie, che diventa nostra amica su facebook, che chiacchiera, litiga, ride e discute di sport a Torino. E parla anche di te, che ora sei il campione del vicolo cieco, ma che domani potresti diventare un oro olimpico. E in fondo, chissenefrega delle medaglie: a noi interessa solo lo sport perché siamo degli inguaribili appassionati...di tutto. Alla faccia dei compensi dorati dei calciatori, alla faccia degli interessi che ruotano intorno agli sport col pedigree e il codazzo di sponsor, Sport 2.0 parla di bouldering, tiro con l’arco, muay thai, bmx, surf, volo e di tutto quello che accade o accadrà nella Torino sportiva. Raccontateci le vostre storie alternative: Sport 2.0 c’è e vi ascolta.

Anno 02 Numero 04 Febbraio 2011

Direttore ResponsabileIlaria [email protected] EditorialeMarco [email protected] CollaboratoLeo NuceraVertical TeamPaolo MoiséPer fare pubblicità[email protected] LegaleCorso Vittorio Emanuele II, 6210121 TorinoDirezione Redazione AmministrazioneVia Cardinal Fossati, 5/P10141 Torino

Reg. Tribunale di Torino n°57 del 25/10/2010PeriodicitàMensileGrafica e ImpaginazioneHEYOU design s.n.c.StampaGrafica Piemontese s.r.l.

In corso di iscrizione al ROC - registro operatori della comunicazione.

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di IlariaGaraffoni

Sport 2.0 c’èFEBBRAIO 2011

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MarcoCasazza

Contributor

EdoardoBlandinoContributor

MassimoPinca

Fotografo

IlariaBucca

Contributor

SerenaViscovo

Contributor

19BOB

SLITTINOSKELETON

23SPORTFORLIFE

63SPORTBETA

06REALE

SOCIETA’GINNASTICA

10HOCKEY SU PRATO

26VERTICALIFETEAM

34TIRO CON L’ARCO

58PARACADUTISMOSPORTIVO

42MELANIA

CORRADINI

50TUFFI

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Reale Società Ginnastica Torino. Nome che sa d’altri tempi, come tante cose che si vedono e si sentono a Torino. Entrando in un palazzo anonimo in via Magenta, è la storia che mi accoglie e mi parla. Mi parla del silen-zioso lavoro di tanti atleti, che giorno per giorno hanno costruito le loro vittorie in diverse discipline. Vedo così la torcia olimpica di Londra e quella delle Olimpiadi In-vernali del 2006, documenti e foto antiche, come quella della squadra di rugby che nel 1947 vinse lo scudetto (unica piemontese nella storia).

Un museo dello sportLancio uno sguardo nella palestra, dove alcuni bambi-ni lanciano cerchi in aria e fanno esercizi di ginnastica ritmica. Ad aspettarmi ed accogliermi c’è il Presidente

RealeSocietà Ginnastica,prima dell’Unità d’Italia

LA STORIA

in persona: Emanuele Lajolo di Cossano. Mi mostra i cinque piani di palestra, dicendomi che ne hanno crea-ta una anche nel sottotetto. Ci rechiamo in presidenza, dove sono raccolti numerosi trofei e documenti storici. Una delle coordinatrici mi mostra un reperto trovato nell’archivio il giorno prima: un lembo della bandiera che il Re donò alla Reale e che nel 1917 fu restituito al sovrano. L’unico frammento di un oggetto scompar-so, memoria di una storia che può vantare quattro ori olimpici, cinque titoli europei, più di cento scudetti in differenti settori e, tra i vari riconoscimenti, il collare d’oro del CONI nell’anno 2006.

Due secoli di storiaCircondato dalle coppe che troneggiano sugli arma-di, il Presidente parla di quel mondo così particolare. «Siamo la prima società sportiva in Italia. Siamo nati il 17 marzo 1844, esattamente 17 anni prima dell’unità d’Italia. Tutti gli anni festeggiamo l’avvenimento con un saggio aperto al pubblico. Quest’anno festeggeremo i 167 anni di fondazione». Ma non finisce qui. All’interno della “Magenta” (il soprannome le deriva dalla via in cui si trova), è nato lo sport in Italia anche per altri motivi. «Da noi nasce lo sport nelle scuole, dato che le due leggi che la introdussero, nel 1858 e 1878, furono di due nostri soci: i Ministri Lanza e De Sanctis». An-che la ginnastica per le donne fu inventata dalla Reale

di Marco Casazza

Società Ginnastica di Torino. Ma non basta. Il binomio sport – salute è stato coltivato sin dall’ottocento, tanto da creare ad hoc la ginnastica correttiva per scoliotici, in collaborazione con l’ospedale torinese Maria Vittoria. «Da noi è nata l’educazione fisica in Italia, fino al livello massimo, quello universitario – continua il Presidente – infatti qui nasce anche l’ISEF”.

A scuola di circoAlla Reale si praticano diverse discipline, dalle più tradi-zionali (ginnastica artistica o ritmica), alle arti marziali (ju jitsu, karate). Ma non mancano le novità, anche sfi-ziose.L’ultima creatura della Reale è la scuola di circo “FLIC”: un corso biennale, che presto verrà esteso a tre anni, dove tutti i giorni per otto ore i ragazzi e le ragazze si preparano, sotto la guida di maestri di tutta Europa, per diventare esperti nelle arti circensi. Ogni mese, una do-menica sera si esibiscono con un saggio (io l’ho visto e lo consiglio). «Il progetto verso cui siamo orientati, co-munque, è lo sport per tutti. Vogliamo fare in modo che la ginnastica arrivi a tutti quanti. Per questo abbiamo sviluppato dei progetti per insegnare la ginnastica ai bambini attraverso dei giochi e le nostre palestre sono aperte a chiunque». Sarà anche d’antan, ma quello della Reale a noi pare un progetto parecchio 2.0.

www.realeginnastica-to.it

Curiosità

1847 - Scuola per Allievi Istruttori maschile1866 - Scuola Magistrale femminile1867 - Scuola di Ginnastica infantile1889 - Scuola di Ginnastica medica1898 - Corso Speciale per Diploma Universitario di Educazione Fisica1933 - Vittorio Emanuele III concede il titolo di “Reale”1967 - il Coni assegna la Stella d’oro al merito sportivo1992 - la Federazione Ginnastica d’Italia promuove la R.S.G.T “Scuola di ginnastica”2006 - il Coni assegna il Collare d’oro

Reale SocietàGinnastica Torino

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HOCKEYSU PRATO

Non servono pattini, ma solo un bastone e una palla. E naturalmente l’erba, naturale o sintetica, oppure un campetto con sponde laterali per la versione indoor. Parliamo dell’Hockey su prato, uno sport che risale addirittura al Medioevo. In Piemonte è arrivato nel 1968 e oggi soltanto in Val Chisone si contano ben cinque squadre, tra maschili e femminili. Sport 2.0 ha curiosato durante un allenamento dell’Hockey Club Valchisone.

Basta un pratodi Serena Viscovo

Mamma ho perso le rotelleSono in pochi a sapere che l’hockey su prato si pratica anche in Italia. “Qualcuno” - ci dicono sorridendo - “ne ha già sentito parlare ma, chissà perché, non si rasse-gna all’idea che non si usano i pattini.” L’hockey moderno nasce, quasi contemporaneamente a football e rugby, tra il 1863 ed il 1875 in Inghilter-ra, ma affonda le sue origini addirittura nel Medioevo e se ne ritrovano tracce in civiltà ancora più antiche. Il colonialismo britannico ne aiuta la diffusione in paesi lontani (India, Pakistan, Australia e Nuova Zelanda) e vicini, come Olanda e Germania. Queste nazioni, con l’Argentina, sono le squadre più forti dell’hockey mon-diale. L’hockey arriva in Italia nel 1935. Nel 1952 e nel 1960 la Nazionale, grazie all’aiuto di allenatori stranie-ri, partecipa ai Giochi Olimpici.

E in Val Chisone?“Nel 1968 l’hockey arriva in valle”, ci racconta il presi-dente dell’HC Valchisone Paolo Dell’Anno, ex giocatore della nazionale. Erano gli anni degli hippy e delle con-testazioni e l’arrivo dell’hockey a Villar Perosa avvie-ne in puro stile sessantottino. “Inizia come uno sport alternativo”, ma l’entusiasmo di qualche capellone è sufficiente a far nascere due squadre: Villar e Perosa. Il Villar è la squadra che resiste negli anni, e dopo allena-menti e scontri inizia ad accumulare risultati. Paolo trasmette tutto il suo orgoglio mentre racconta questa storia attorniato dai fedeli collaboratori ed ami-ci. L’orgoglio resta immutato quando si parla dei primi problemi, che iniziano nel 1986, proprio nella stagione

in cui l’HC Villar raggiunge il suo miglior risultato vin-cendo il campionato nazionale juniores under 20 del 1996 e diversi giocatori rientrano nelle selezioni per le nazionali di categoria. E’ ancora l’epoca dell’erba vera (quella per terra, s’intende ;-).La squadra si scioglie, però si guarda subito avanti. L’evoluzione dell’hockey non si ferma e il passaggio all’erba sintetica, che rende il gioco più veloce e spet-tacolare (e soprattutto riduce i costi di manutenzione), diventa obbligato.

Arriva l’erba sintetica A Villar Perosa nel 1994 arriva il campo in erba sin-tetica tanto atteso. Lo stiamo guardando adesso dalla finestra dell’accogliente club house, mentre i ragazzi della Prima Squadra continuano l’allenamento. Lo sport è appassionante, più dinamico ma molto simile al calcio, se non fosse che per colpire la palla viene usato un attrezzo. Due squadre da 11 giocatori, due tempi, l’hockey su prato è un misto di tecnica, agilità, destrezza e velocità, accompagnate dal rispetto di re-gole precise.“Il campo era arrivato, tuttavia mancava la struttura per definirci un club. Giocatori, ex giocatori, amici, so-stenitori: tutti abbiamo iniziato a costruirla.” Letteral-mente. Paolo ci mostra le immagini, dalle prime travi alla club house con spogliatoi. Come in tante piccole realtà sportive, però, i problemi economici sono difficili da superare. L’hockey in Val Chisone subisce un’altra battuta d’arresto. “Subentra il Comune, arriva una nuo-va gestione. E il calcio.” Ma la passione ha avuto la meglio e nel 2006 l’HC Val-chisone riconquista la sua sede e riprende l’attività a pieno ritmo. “Siamo ripartiti dai bambini e dalla colla-borazione tra genitori.” Visti i 130 tesserati si può dire che costanza, passione e sacrifici stiano dando i loro frutti. E anno dopo anno arrivano i risultati.

Ladies and GentlemanAd oggi l’HC Valchisone ha 5 squadre, tra maschili e femminili. Perché l’hockey su prato è uno sport da gentiluomini, fatto di regole e disciplina, ma da sempre praticato moltissimo anche dalle donne. Le prime giocatrici inglesi, nel 1895, decidono di adot-tare le stesse regole dell’hockey maschile ed esprimo-no la volontà di entrare a fare parte della Hockey Asso-ciation, ricevendo però un secco rifiuto. Fondano quindi una federazione femminile per l’hockey giocato con la gonna, gestita interamente da donne. Ancora oggi nes-

IN INVERNO L’HOCKEY SU PRATOSI GIOCA INDOOR

L’hockey indoor è la variante dell’hockey su prato che si pratica prevalentemente in inverno, quando i cam-pi all’aperto sono inagibili. Le regole sono molto simili alla specialità tradizionale. Si gioca però su campi più piccoli con sponde laterali per tenere la palla in campo, con meno giocatori e mazze più leggere. Nell’hockey indoor non si colpisce la palla, ma la si spinge o devia. “Praticare l’hockey indoor è molto utile per migliorare la tecnica” - spiega uno degli allenatori. Il gioco è più tecnico ma anche più veloce e fisico. In entrambe le varianti dell’hockey, rimane importante l’attenzione alla sicurezza. “L’uso di paradenti e parastinchi è obbliga-torio, è una delle prime cose che insegniamo ai nostri ragazzi”, raccontano, “e se dimenticano le protezioni non entrano in campo.”

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Un bastone coi ricci

Il bastone è diverso dai bastoni usati nell’hockey su ghiaccio o su pista. Termina infatti con una sorta di ricciolo. Un lato liscio (il lato dritto) e uno ricurvo (rove-scio) formano il bastone. Per segnare bisogna trovarsi all’interno dell’area di tiro. I materiali che compongono il bastone possono essere legno, kevlar o carbonio, o un misto di questi. La palla era costituita in origine da gomma, spago e cuoio cucito a mano. Dopo una fase intermedia con il sughero, si è passati alla palla compo-sta da resina sintetica, in uso ancora oggi: velocissima e tostissima.

sun uomo può ricoprire cariche direttive nell’associa-zione nazionale. Nel 1980 l’hockey femminile ha avuto la sua consacrazione diventando sport olimpico, con circa 70 anni di ritardo rispetto alla specialità maschile. La presenza femminile è stata probabilmente un ele-mento decisivo nella diffusione di questo sport a Villar Perosa. “Io ho iniziato a giocare a 14 anni e c’era an-che la squadra femminile. E’ un ottimo stimolo a 14 anni per andare agli allenamenti”, prosegue Paolo divertito. Difficile negare che nello sport il divertimento non sia importante quanto i risultati per alimentare la passione. All’HC Valchisone si divertono anche genitori e amici. Collaborano, lavorano e sono parte attiva tutti. “Dagli allenatori al consiglio direttivo, fino a chi prepara il caf-fè: siamo tutti volontari”. La collaborazione e il volonta-riato aiutano la crescita omogenea e costante del club e delle squadre.Ma non ci sono solo ragazzini all’HC Valchisone. Alcuni ex giocatori hanno fortemente voluto la nascita del pro-getto Prima Squadra, ora militante in serie B, la squa-dra dei grandi che garantirà continuità sportiva per i giovani che stanno crescendo. Per ora c’è solo la Prima Squadra maschile, “ma le ragazze dell’HC Valchisone sono molto promettenti. Una di loro è stata convocata per la nazionale”, ci informa il presidente. Resta solo da aspettare che crescano.

L’Hockey in Piemonte

Bra vanta una lunga tradizione nell’hockey e sul territorio sono presenti più società:

H.C. Bra, la società più storica e prestigiosa. Ha vinto svariati scudetti in Italia e ha raggiunto le fasi eliminatorie dell’Euro League, risultato storico per una

squadra italiana.H.F. Lorenzoni Bra

Scuola Hockey Inder SinghH.C. ‘95 Benevenuta Bra

Olimpic H.C.

Torino e provincia:H.C. Valchisone

Rassemblement Club H.TorinoCus Torino

Polisportiva Pecettese

Asti e provincia:U.S. Moncalvese Hockey

Novara:H.C. Novara O.B.

Dettagli sul sito della Federazione Italiana Hockeywww.federhockey.it.

Il terzo tempoL’allenamento finisce. Una doccia e ha inizio il terzo tempo, una vera e propria filosofia a Villar Perosa e nell’hockey in generale. Restare al club con gli amici, le trasferte, i viaggi all’estero per fare un po’ di espe-rienza sul campo, aiutano le amicizie del dopo-partita, con i compagni ma anche con gli avversarsi. “Voglia-mo crescere come club, come squadra ma soprattutto come gruppo, dentro e fuori dal campo”. Così all’HC Valchisone il terzo tempo è sempre in corso. Sarà per questo che uno degli sponsor è un’ottima birra?

HockeyValchisone

Nell’hockey su prato non c'è fuorigioco: lo spettacolo ci

guadagna... e i calciatori rosicano

Coppa del mondodi Bob e SkeletonCampionati mondialidi Slittino@Cesana Torinese

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L’EVENTO

SKELETON

SLITTINO

BOB

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Tennisti per casoSportforlife

sbarca a Pucket

Sportforlife è un’organizzazione non governativa che promuove lo sport nei paesi in via di sviluppo, quale scuola di vita e opportunità per costruire un futuro migliore. Nata da un’intuizione di Stefano Bozzo, Leo Nucera e Lorenzo Marcuzzi, Sportforlife coinvolge ora diverse persone e diversi progetti dislocati nelle aree più calde del globo. Dopo aver raccontato le esperienze di Sierra Leone, Congo e Timor Est, presentiamo oggi la storia di un viaggio a Pucket, dove Sportforlife ha messo in piedi un workshop di tennis a favore dei piccoli ospiti di un orfanotrofio.

di Leo Nucera

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Sono passati quasi quattro anni da quando io e Lorenzo Marcuzzi abbiamo organiz-zato, sostenuto e filmato un workshop di tennis a Freetown, in Sierra Leone. E’ stato l’inizio della nostra collaborazione, la nascita di un’idea, la base che ci ha por-tati a fondare Sportforlife. Lorenzo, ora come allora, vive a Phuket, dove è uno dei più ricercati maestri di filantropia di tennis, al centro di un attivo network di australiane appassionate di tennis e si filantropia. Tra queste ricordiamo Sarah Johnson, l’anima di kidstennis (vedi Sport 2.0 n. 2/2010), attiva in Sierra Leone, Etiopia, Mongolia e Timor Est.

Sarah ha invitato Sportforlife ad organiz-zare un altro workshop, sullo stile di quello di Freetown, in un orfanotrofio di Phuket. Abbiamo accettato, così io e Lorenzo ab-biamo ripreso da dove avevamo comin-ciato quasi quattro anni fa. Naturalmente Phuket non è Freetown, la Thailandia non è l’Africa, ma i bambini sono sempre bambini e un orfanotrofio è un luogo che richiede sempre delicatezza e supporto, strumenti che non ci sono mancati.

DAL MONDO

In realtà siamo rimasti piacevolmente stupiti quando siamo arrivati: più che un orfanotrofio sembrava un collegio svizzero, tanto il posto era ben curato e piace-vole. Piccole casette in stile austriaco tra gli alberi in un giardino con prati curati e il mare a poche centinaia di metri, che ci regalava una piacevole brezza.

Abbiamo cominciato mostrando a questi disciplinati e curiosi bambini il video della Sierra Leone, per renderli consapevoli di quello che li avrebbe aspettati, quindi abbiamo presentato loro un po’ di foto delle nostre attività in Etiopia, Mongolia e Timor Est, per dar loro un’idea di come le situazioni siano difficili in certe parti del mondo. Quindi abbiamo cominciato la parte fisica, il lavoro sportivo. Mentre io filmavo, Lorenzo organizzava il lavoro - esat-tamente come quattro anni fa - dividendo i ragazzini in due gruppi. Un gruppo lavorava con la palla e la racchetta, l’altro sul fisico, la coordinazione e la velo-cità. A nostro supporto avevamo una volenterosa ed entusiasta signora australiana, Diana, che si è seria-mente candidata come assistente di Lorenzo. Nel video toccherete con mano l’entusiasmo e la gioia che questo workshop ha portato agli orfani di Phuket.

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Fotografie: Adele Obice

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Low budget,big surf

di Vertical Staff

SURF

Come si può surfare alla grande con soli 50 euro in tasca? I ragazzi del Vertical hanno la risposta. Si chiama Sardegna, ma non quella delle file mostruose ai traghetti e nemmeno quella delle passerelle per veline, politici e paparazzi. Parliamo della Sardegna ruvida, aspra e straordinaria del mese di ottobre, quando solo le pecore accompagnano il rombo di onde del tutto simili a quelle oceaniche.

A metà ottobre, io (Chioccia), Cico e Adele siamo andati a Genova, abbiamo guardato le partenze dei traghetti, scucito 50 euro dal portafoglio e ci siamo imbarcati su un traghetto alla volta delle terre sarde. Ci siamo rimasti per quindici giorni. Al galoppo della favolosa Dacia a gas di Adele, abbiamo girato la Sardegna in lungo e in largo, ovviamente con la tavola sul tetto della macchina. La ricerca di buone onde ha delineato maggiormente il tragitto, ma il vagare a zonzo tra la costa ovest e l’interno dell’isola ha reso il viaggio molto più divertente.

Oceano mareLa Sardegna è a dir poco eccezionale sotto tutti i punti di vista. E’ un’isola dai mille volti; sembra di essere ovunque ma non in Italia: le onde sono oceaniche, sia per tipologia che per frequenza di mareggiate (200 giorni di surf all’anno). L’acqua è cristallina: i primi giorni fai fatica ad abituarti perché vedi le rocce passare sotto alla tavola e i pesci che ti accarezzano i piedi. Quando esci dall’acqua, ti togli la muta guardando dritto in faccia i fenicotteri. Ma basta fare 50 chilometri per entrare nel set di Blade Runner: cave abbandonate, pareti a strapiombo nel mare, enormi scogli che si innalzano nel bel mezzo dell’acqua, spiagge deserte con sabbia bianca e acqua azzurra. Ora capisco perché i Vip vengono a svernare da queste parti e molte troupe cinematografiche decidono di girare film o spot in queste terre.

Caccia a ottobre sardoIn ottobre l’isola svela tutto il suo fascino: le coste sono deserte, si trovano solo i pescatori, i pastori con le greggi, pochissime macchine, qualche cane e i surfisti. Alcuni arrivano dal “continente”; altri (quelli che hanno capito tutto dalla vita) vivono lì, hanno le loro attività estive e, una volta finita la stagione commerciale, vivono tranquilli nel paradiso sardo, surfando su onde tanto lisce da sembrare vetro e mangiando cose sane…Il nostro zingarare è filato alla perfezione, siamo partiti con l’intenzione di conoscere quest’isola e l’abbiamo fatto. Personalmente volevo surfare tanto e bene e l’ho fatto (compresa una volta in cui sono entrato da solo a Capo Mannu e non ho preso un’onda perché era troppo grossa per le mie capacità). Volevamo mangiare il porceddu e l’abbiamo fatto, volevamo mangiare i malloreddu ma erano da prenotare con un giorno d’anticipo e noi non sapevamo dove saremmo stati un giorno per l’altro…Poi ero partito con l’intenzione di ustionarmi la caviglia con l’acqua bollente del fornello e anche questo - senza neanche troppo impegno - sono riuscito a farlo!

Posso solo consigliarvi un giro in Sardegna, con o senza tavola sul tettuccio.

Possibilmente mangiate i malloreddu così mi dite come sono e prima di

partire imparate un po’ di parole in sardo. E’ importante perché, come

abbiamo letto su molti muri, “il sardo non è un dialetto ma una lingua”.

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Apollo era un dio con l’arco e sua sorella Diana non era da meno; Cupido scoccava frecce per dar vita a coppie improbabili; Robin Hood le scagliava a fin di bene; Gugliemo Tell usava la balestra per esercitarsi nel tiro alla mela e Orlando Bloom per fare il figo nei panni dell’elfo Legolas. Come se non bastasse, “arciere” è una delle rare eccezioni in cui la sillaba “ce” richiede la i. Insomma: gli ingredienti ci sono tutti per fare del tiro con l’arco un’attività per tipi un po’ speciali.

TIRO CONL’ARCO

L’eterno fascino dell’arco

di Marco Casazza

Marco Morello ed Elena Morabito sono arcieri e fanno parte della A. S. D. Arco Sporting Druento. Andiamo a cercarli in una sera d’inverno nella palestra della loro società sportiva e li troviamo intenti ad allenarsi. Il silenzio del luogo è rotto solamente dal rumore delle frecce, che si conficcano dure contro i bersagli. Una fila di arcieri è schierata. Tendono la coda dei loro archi, di colori e aspetti diversi, alzando il braccio lentamente. Poi, come le aquile in volo quando stendono le ali, si inarcano aprendo ancor di più le spalle. I respiri tratte-nuti. Sembrano trasformati essi stessi in quegli oggetti, che tengono tra le mani. Le frecce sembrano trattenute per miracolo dal partire. Sembra quasi di vedere una macchina impantanata con le ruote che slittano. Sap-piamo tutti che partiranno all’improvviso, di scatto. Ma non sappiamo quando. Ecco: all’improvviso, in sequen-za, come al comando di un colpo di frusta, saettano nell’aria, impassibili.

“stoc”E’ il rumore della freccia contro il bersaglio, mentre gli archi, elegantemente, si piegano in avanti. Sembra, al-lora, che l’arco si trasformi in un danzatore, elegante. Così, più volte, vediamo gli stessi gesti. Sono fermo in un angolo della palestra, incantato da quella precisione e da quella eleganza. Davvero è uno sport degno degli dei. Individuati Marco ed Elena, mi avvicino. Mi trovo di fronte un ragazzo semplice, con l’aria da scolaretto ed una ragazza con un sorriso solare. Raccontano la loro avventura, nata per caso qualche anno fa tra i banchi di scuola. Una proposta insolita: provare a cimentarsi a centrare un bersaglio. Provano per curiosità; se ne innamorano. Così vanno ad allenarsi insieme: d’inverno qualche volta alla settimana; d’estate, possibilmente, quasi tutti i giorni. Quei bersagli colorati, quelle frecce, quelle corde tese diventano il loro mondo. Per Marco, più giovane di qualche anno, si aprono le porte dei gruppi nazionali juniores. Elena sceglie una via diversa, meno frequentata: quella del tiro in campa-gna. Ciò significa tirare in terreni accidentati e penden-ti. Gli allenamenti, sono, quando possibile, diversificati. Non si tratta unicamente di allenare il fisico, ma anche la mente. Li vedo cambiare quando tendono l’arco. Gli occhi come falchi, l’anima dentro la freccia, che già cor-re, ancor prima di essere scoccata, per fare centro.

e infatti fanno centro...Dieci punti! Non basta allenare il respiro e avere for-za: occorre anche essere estremamente concentrati. Quel silenzio interminabile prima di sentire il rumore del bersaglio colpito lo dimostra. Non ci svelano il loro se-greto allenamento per la mente. Ma ne parlano come di una cosa importantissima. Non esistono, invece, diete o accorgimenti particolari per praticare questo sport. Marco mi mostra il suo arco. Formato da più strati di fibre di carbonio, poco sensibile alle condizioni atmosfe-riche; un mirino che viene regolato in base alla distan-za del bersaglio; il bilanciere, che, scoccata la freccia, fa scendere l’arco verso il basso con quel movimento che abbiamo visto alcune volte osservando gli arcieri durante l’allenamento; la corda, anch’essa di mate-riale sintetico, perché non risenta dell’umidità. L’arco può avere o meno degli strati di legno, se colui che lo utilizza desidera una diversa resistenza alla tensione.

Sapevate che...

Il tiro con l’arco fece capolino ai Giochi olimpici del 1900 a Parigi. Dopo parecchie traversie, dal 1972 è rientrato tra le specialità olimpiche, dando non poche soddisfazioni agli Azzurri. La pratica contemporanea si suddivide in Arco olimpico (o ricurvo), Arco nudo, Arco compound. Alle olimpiadi si tira ad un bersaglio a cerchi concentrici da 70 metri di distanza. Il punteggio va (dall’esterno all’interno) da 1 a 10. La freccia che tocca la linea di separazione tra due cerchi prende il punteggio più alto.

Marco me ne passa uno, per provare a tenderlo. Io ci provo - con scarso successo. Vedo, in lontananza, un arco di fattura diversa, che ha anche delle carrucole. Si tratta, mi dicono, del compound, che, grazie a quel si-stema, permette di accumulare una maggiore quantità di energia muscolare e ridurre lo sforzo nel momento della tensione. Guardo allora le frecce. Ne prendo una in mano: è leggera, con l’impennaggio variopinto. Allora noto, per caso, un toro di peluche appeso alla faretra. Marco mi spiega che è la mascotte della Società, che ha vinto come migliore arciere e che conserverà fino a quando verrà sconfitto da uno sfidante (che, peraltro, non si è ancora presentato). Marco mi dice che ci sono tanti arcieri bravi in Italia, quindi la strada è difficile, ma lui sembra promettere bene. Basta guardare i risultati.

Info: FITarco Piemontewww.fitarcopiemonte.it

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Fitarco

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Le tante facce dello

Sport 2.0

A 23 anni siede già nell’Olimpo delle sciatrici italiane. Portabandiera ai IX Giochi Paralimpici Invernali di Torino del 2006, ha collezionato un oro, due argenti e un bronzo ai mondiali di Pyeong Chang nel 2009, poi ha conquistato l’argento alle Paralimpiadi di Vancouver nel 2010. La montagna è la sua passione; la discesa è brivido; la gara è pura adrenalina. E’ Melania Corradini. Semplicemente, una grandissima atleta.

di Marco Portinaro

L’ATLETA

Palmarès

Giochi paralimpiciVancouver 2010Argento (Super G standing)Mondiali PyeongChang 2009Oro in super combinataArgento in discesa liberaArgento in slalom giganteBronzo in superG

Melania è un’atleta paralimpica, priva del braccio sini-stro dalla nascita. Per lei brivido e adrenalina si fondono con il rischio di buttarsi giù ai 120 km/h senza potersi aiutare con le braccia per mantenere l’equilibrio o anche solo attutire le cadute. Paura allo stato puro, che richiede una grinta e una tenacia davvero mostruose. Noi le abbiamo toccate con mano il 18 dicembre guardandola scendere dalla pista Banchetta Nasi del Sestriere. Melania sfrecciava con una determinazione assoluta. Purtroppo è finita con un quarto posto, che ha lasciato incredula pure lei. Perchè Melania ci cre-deva un sacco, e con lei la sua famiglia, ma anche la Presidentessa della Federazione Italiana Sport Inver-nali Paralimpici Tiziana Nasi, il giornalista Matteo Pacor, esperto in sport invernali...e la consueta “curva” di fedelissimi pronti a seguire le avventure di Melania in capo al mondo.

A gara conclusa, comodamente affondati sui divani del Villaggio Olimpico, chiacchieriamo con Melania per tutto il pomeriggio, nella più totale confidenza e armonia. Mi racconta che è una tipa decisamente 2.0: patita di internet, facebookkiana incallita, blogger e innamora-ta dello Sport, ciò che la rende viva e assolutamente unica. Il suo mito? Bode Miller, uno degli sciatori più forti di sempre. Americano, mondaiolo e un gran bel figaccione, a detta sua.

Alla fine, la domanda che tutti si aspettano e che Me-lania si sente rivolgere fin troppe volte: cosa significa sciare con un solo braccio. “Significa sfidare le leggi della fisica. La componente di rischio aumenta molto, ma l’autostima cresce proporzionalmente. Purtroppo i compensi economici non sono paragonabili a quelli dei normodotati”. Il motivo è tanto ovvio quanto ingiusto. “Nell’era 2.0 dovremmo andare oltre, pensare in gran-de, offrire di più, distribuire le risorse e contribuire alla diffusione dello sport per tutti”. Ha le idee chiare la ragazza.

E’ sera ormai e devo rientrare a Torino assieme a Mas-simo, il nostro fidato ed eccellente fotografo.Melania, ce lo fai un autografo? Lei sorride e ci fa uno schizzo su un un foglio.Mentre scrivo questo pezzo continua a sorridermi dalla scrivania. Alla prossima, Melania!

Campionati del mondo IPC@Sestriere

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2011 IPC Alpine SkiingWorld Championship

50

Stasera mi tuffo

Nella finale olimpica di tuffi il campione giapponese si

appresta all’ultimo, decisivo, salto. Cammina lentamente

verso il bordo. Si concentra, respira profondamente, ma

d’un tratto qualcosa lo sbilancia. Sesoki Maspinto cade

in acqua schizzando dappertutto. Dopo qualche secondo

riemerge e guarda sconsolato il suo allenatore: Suistà Tumì

gli ha giocato l’ennesimo scherzetto.

TUFFI

di Edoardo Blandino

Benedetta Sacchi, Edoardo Lo Prete e Francesca Za-gaglini non sono personaggi famosi del mondo dello sport. O perlomeno, non lo sono ancora. Oggi questi nomi dicono poco o nulla anche ai più infervorati se-guaci dello sport dei tuffi, ma chissà che un domani tra di loro non si nasconda la nuova Tania Cagnotto o il nuovo Klaus Dibiasi. Per adesso sono ragazzini che non hanno ancora raggiunto i 15 anni e hanno davanti a loro una vita intera ed un cammino lunghissimo, però hanno tanta passione e una voglia incredibile di tuffarsi. “Que Sera, Sera. Whatever Will Be, Will Be” cantavano Ray Evans e Jay Livingston nella celebre canzone di metà anni 50. Non si conosce il futuro, ma per adesso questi tre giovanissimi atleti della scuola tuffi di Tori-no Blu2006 vivono un presente ricco di soddisfazioni che li ha portati a gareggiare ai campionati nazionali

di categoria e a centrare alcuni successi e tanti ottimi piazzamenti.Per conoscere più da vicino la realtà dei tuffi di Torino abbiamo incontrato Claudio Leone, attuale direttore tecnico della squadra Blu2006 ed ex nazionale della squadra italiana tuffi. Come atleta, Claudio Leone (clas-se ’74) nasce e cresce nella Torino Tuffi, società storica nata all’ombra della Mole. Appena 18enne si trasferisce a Roma per continuare la carriera da tuffatore. Nella capitale entra prima a far parte della Nazionale Giova-nile, poi delle Fiamme Oro e della Nazionale Assoluta. Può andare ben fiero del suo curriculum: tra il ’95 e il ’99 è per sette volte campione italiano assoluto tra Piattaforma e Sincronizzati e in carriera ha partecipa-to a Campionati Europei, Coppa Europa e Coppa del Mondo, oltre a due competizioni mondiali riservate ai

militari. Nonostante nella sua attività agonistica abbia vinto tanto, Leone non tira mai in ballo i suoi successi, ma preferisce parlare del presente e della Blu2006. Sappiamo così che a seguire i ragazzi ci sono altri quat-tro collaboratori: Pierfrancesco Leone, Giuseppe Mina, Chiara Limerutti e Giulia Bonetto (della Reale Società Ginnastica di Torino, che una volta a settimana conce-de la propria palestra alla Blu2006). Ognuno ha una propria area di competenza e i ragazzi sono divisi in quattro diversi gruppi in base all’età: 5-7, 8-10, 11-15, 16+. Tutti possono iscriversi, partecipare e imparare.A vederli a bordo vasca fanno quasi impressione: nono-stante siano ancora dei ragazzini fanno delle acrobazie in area da far rabbrividire. C’è chi compie salti mortali in avanti, chi indietro, chi si butta guardando la piscina e chi rivolto al bordo. Qualcuno prende la rincorsa e

Piccoli spruzzi, grandi altezze

Avete mai notato che sotto il bordo del trampolino

o della pedana parte un piccolo spruzzo d’acqua?

Serve a increspare la superficie della piscina per far

capire al tuffatore a che altezza si trova. Senza questo

getto, l’atleta vedrebbe solo il fondo della piscina

senza capire quanto manca all’ingresso in acqua.

Klaus Dibiasi, l’angelo biondo che bucava l’acqua

Un fisico statuario e un’eleganza unica: immagini in bianco e nero di un campione nei

tuffi dalla piattaforma e dal trampolino, che ha collezionato 600 punti alle Olimpiadi di

Montréal del ‘76 e ben tre ori consecutivi nella stessa specialità. Klaus Dibiasi siede

a buon diritto nella Hall of Fame degli sport acquatici. In attesa degli Europei di tuffi

a Torino, Sport 2.0 ha intervistato un uomo che ha scritto una delle più belle pagine

dello sport italiano.

Klaus, sei l’unico atleta al mondo ad aver vinto tre olimpiadi di seguito nella stessa specialità. Cosa significa sapere che

non sarai ricordato solo per i tuffi?

Ovviamente è motivo di forte orgoglio. Certo la mia forza è stata quella di vincere tre ori in tre olimpiadi consecutive,

anche se nel 64 a Tokyo avevo già portato a casa un argento dalla piattaforma.

Come si diventa tuffatori? Da cosa si comincia?

Io mi sono avvicinato a questo mondo grazie a mio padre, Carlo, che era un tuffatore. Capita spesso così in questo

sport, che ha più in comune con la ginnastica che col nuoto e dove l’approccio è molto graduale: si comincia dal bordo,

poi si sale su trampolini sempre più alti.

Tutti hanno paura di beccarsi delle sonore “spanciate”. Quante ne hai prese nella tua carriera?

Qualcuna... Capita più che altro quando ci si lancia da un’altezza superiore ai propri limiti.

Ma la vera barriera da superare è quella del buio, cioè quei pochi secondi in cui il tuffatore è in avvitamento. Lì si perde

davvero la cognizione dello spazio.

In molti sport l’evoluzione tecnologica ha cambiato anche la tecnica di gioco: cos’è cambiato dai tuoi anni ad oggi in uno

sport dove l’uomo è nudo contro la gravità?

I materiali con cui sono costruiti oggi i trampolini hanno cambiato radicalmente la tecnica, la velocità del tuffo e le sue

evoluzioni. La maggior elasticità ha permesso di fare molti più avvitamenti agli atleti. Oggi si arriva addirittura a quattro

avvitamenti, mentre ai tempi di mio padre si parlava al massimo di uno e mezzo.

Tania Cagnotto è tornata a far parlare di tuffi in Italia, dopo anni di silenzio. Perché da noi serve un campione per dare

visibilità ad uno sport?

Ci sono troppi interessi economici in gioco e manca un vera politica sportiva. Nel mondo dei tuffi in modo particolare. Il

tuffatore è nudo, quindi non è facile dare visibilità ai brand dei potenziali sponsor, pertanto l’industria ha un interesse

relativo per questo sport.

E’ così in tutti i paesi o ci sono luoghi dove i tuffi sono più diffusi?

A livello mondiale la Cina è molto forte: esiste infatti una politica governativa che ha permesso ai tuffi di crescere molto,

riciclando tutti i vecchi campioni e impiegandoli come allenatori.

Quando si può cominciare a tuffarsi e con quali rinunce?

Come in ogni disciplina praticata a livello agonistico, bisogna fare dei sacrifici. Nei tuffi bisogna partire fin da piccoli

con le rinunce, perché l’elasticità muscolare dopo una certa età non consente più di ottenere certi risultati. Si può

cominciare già a 4-5 anni...e oltre i 9 è già troppo tardi.

Sono in arrivo gli europei di tuffi a Torino, dall’8 al 13 marzo: perché Torino?

Perché Torino ha una forte tradizione grazie a Cagnotto e Miranda: gli Europei sono un buon pretesto per rilanciarli.

Inoltre il successo del 2009 ci ha dato la possibilità di riproporli anche su volontà dei comitati internazionali.

Un tuo pronostico: porteremo a casa qualche vittoria?

Me lo auguro, le qualità le abbiamo.

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sfrutta tutta l’elasticità del trampolino per lanciarsi in aria, mentre altri si allenano dalla piattaforma fissa. Per fortuna nessuno soffre di vertigini, perché solo guar-dare l’acqua da 6 metri di altezza può fare una certa impressione. Non parliamo poi se si sale sulla piatta-forma più alta, quella posta a 10 metri. E pensare che non solo ci si butta da quell’altezza, ma si fanno anche delle acrobazie in volo. Ad ogni evoluzione corrisponde un coefficiente di difficoltà che viene moltiplicato al voto dato dai giudici. In ogni gara ci sono alcuni salti obbli-gatori e i tuffi hanno nomi davvero curiosi. Per esempio un salto in avanti, regolare, con mezza rotazione tesa (o più semplicemente il classico tuffo di testa teso) vie-ne chiamato 101A. Tre salti mortali e mezzo, rovesciato e raggruppato è il 307C. Per non parlare di quelli più complessi: partenza in verticale, doppio salto mortale con un avvitamento e mezzo si scrive 6243D. Semplice, no?Durante gli allenamenti, però, le cifre non importano. Leone segue con attenzione tutti i suoi ragazzi e di-spensa consigli preziosi mentre uno dopo l’altro sal-tano ancora e ancora e ancora. Le sedute continuano addirittura sei volte a settimana: un impegno gravoso per i giovani atleti, ma anche per lo staff. Ma come sem-pre è la passione che spinge a continuare e che ha riportato Leone in Piemonte dopo gli anni romani: «Mi sembrava giusto che Torino avesse una sua squadra che praticasse questa attività a certi livelli». Sono ormai quasi 5 anni che la Blu2006 è funzionan-te a pieno regime e i primi risultati si stanno vedendo. Purtroppo bisogna considerare le location, non sempre

ideali. In alcuni giorni, per esempio, la piscina di Corso Galileo Ferraris 294 deve essere condivisa con la squa-dra di pallanuoto, oppure bisogna attendere la fine dei classici corsi di nuoto prima di iniziare a tuffarsi. Ma una volta che si comincia si va avanti spediti, senza risparmiarsi. È questo l’unico modo per allenarsi bene. È questo l’unico modo per diventare dei campioni.

Tovaglioli di pelleAvete presente il “tovagliolo” che utilizzano i tuffatori per asciugarsi tra un salto e l’altro? Si chiama “pelle” perché somiglia alla

pelle di daino. È molto assorbente, ma allo stesso tempo rilascia immediatamente l’acqua appena strizzato, in modo da essere subito riutilizzato. Lo sfruttano i tuffatori per asciugarsi tra un salto e l’altro e per non scivolare una volta saliti sul trampolino o sulla pedana.

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1,2,3... jump!di Ilaria Bucca

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VOLO

Jump! L’urlo di Van Halen interpretava uno dei sogni più diffusi della storia dell’essere umano, da Icaro in avanti. Parliamo del volo, del brivido della discesa in picchiata, della carezza sferzante del vento. Un sogno che tutti abbiamo fatto almeno una volta nella vita. Un sogno che per qualcuno è realtà.

Il paracadutismo è uno sport poco diffuso, soprattutto in Italia, in parte perché poco conosciuto, ma soprat-tutto perché ritenuto pericoloso o dai costi proibitivi. Il paracadutismo ha però una caratteristica che pochi sport hanno: una volta provato, non puoi più smettere.

I centri di paracadutismo in Italia sono molti, solo in Piemonte se ne contano quattro: Albatros a Garzigliana; Malavasi a Vercelli; Sky Dream Center a Cumiana e l’Ac-cademia Italiana di Paracadutismo a Casale Monferrato. Se siete pronti per una bella scarica di adrenalina, non vi resta che sfidare le vostre paure e fare un salto di prova: il costo del primo lancio, detto “tandem” perché sarete assicurati all’istruttore con il quale condividerete il paracadute, si aggira intorno ai 160 euro. L’aereo sale a quota 4000 metri, saltate...e giù in caduta libera per un lunghissimo minuto, di sicuro il più lungo della vostra vita. Se dopo quel minuto avrete ancora voglia di volare, allora siete pronti per affrontare il corso.

Durante gli allenamenti ci si lancia senza essere attac-cati all’istruttore, ma in compagnia di altri due esperti. Può sembrare pericoloso, ma in realtà il rischio è ri-dotto: il paracadute dispone infatti di un dispositivo di sicurezza che fa sì che si apra automaticamente, se non viene attivato manualmente. I rischi maggiori sono quelli della fase di atterraggio, quando l’adozione di una posizione scorretta potrebbe costarvi qualche ammaccatura. Anche in questo caso, però, il rischio è inferiore a quello che sembra: la mag-gior parte degli incidenti, infatti, capita agli esperti più spericolati che, fin troppo sicuri di sé, si concedono qualche imprudenza.

Avete paura dell’altezza o non amate l’aria aperta? Il rombo del motore vi dà alla testa? Potete volare lo stesso. Dovete solo spostarvi nel Regno Unito o in Francia, per raggiungere una delle numerose “camere del vento” (o wind tunnel, per usare il gergo d’Oltre Manica). Si tratta di strutture del diametro di 4 metri e mezzo e dell’altezza di 5 metri, all’interno delle quali

FlyGang

vengono riprodotte forti correnti d’aria che simulano quelle reali, permettendo di rimanere sospesi.Dopo mesi - forse un annetto - di assidui allenamenti sarete pronti a gareggiare per mostrare a tutti i vostri progressi: per i più bravi esiste la categoria assoluti; per gli amatori, gli appassionati ed i dilettanti la cate-goria esordienti è la più adatta. Le competizioni, che prevedono la partecipazione di quattro atleti, consisto-no nell’effettuare quante più figure è possibile durante il minuto di lancio. Ne esistono 42, ciascuna indicata o con una lettera dell’alfabeto o con un numero: le prime prevedono che tutti e quattro i componenti della squa-dra rimangano attaccati fra di loro, le seconde, invece, prevedono che si formino due coppie.

Arrivare a gareggiare non è così difficile come potrebbe sembrare. Passione, grinta e tenacia sono le compo-nenti essenziali, secondo Filippo Caldera, atleta della Skyteam di Cremona, team che si è per sette volte clas-sificato primo ai campionati italiani e terzo agli Europei, in categoria esordienti. Filippo ha scoperto questo sport quasi per caso, ma dopo il primo lancio non è più riuscito a togliersi il pa-racadute dalla testa... ogni volta che alzava gli occhi al cielo, la voglia di volare si faceva più insistente. Dopo il lancio di prova, però, Filippo ha aspettato quasi un anno prima di decidersi ad affrontare il corso. Lo hanno trattenuto un po’ i costi e un po’ il timore che potesse essere troppo rischioso. Ma la seconda volta che ha indossato il paracadute, è stato per sempre.

Certo, l’Italia non è il posto migliore per il paracaduti-smo... Basti pensare che in Francia i corsi per i ragazzi minori di sedici anni sono addirittura finanziati dallo Stato. Anche gli USA, madre patria di questo sport, offrono numerose agevolazioni alle squadre, arrivan-do addirittura a stipendiare gli atleti professionisti fino all’età pensionabile. Per chi non è pronto ad espatriare, va benissimo una delle strutture piemontesi! Che aspettate? Non ci sono più scuse: 1, 2, 3... si salta!

“Se la prima volta non ti riesce, il paracadutismo non fa per te” (Legge di Murray)

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Vostro figlio vi sciorina un’equazione di terzo grado ma non salta sul lettone, non si lancia da un mobile all’altro, non striscia sul pavimento appena lavato e non si arrampica sull’armadio

di Paolo Moisé

SPORTBETA

della nonna? Gli mancano gli schemi motori di base. Ma niente paura: basta sguinzagliarlo al parco e farlo giocare in piena libertà: acquisirà tutti i pre-requisiti per diventare un futuro campione di fioretto, di bocce o di polka. E ovviamente un teppista domestico.

Si parla tantissimo – e a ragion veduta - dell’importan-za del movimento a tutte le età. Si sente spesso parlare di costruzione del fisico e della personalità, di prevenzione delle malattie metaboliche, di mantenimento del peso forma, di prevenzione delle problematiche legate all’invecchiamento, di spinta alla socializzazione, ecc.Se poi stringiamo il focus e ci soffermiamo sull’attivi-tà motoria e i bambini, l’attenzione aumenta ancora: l’offerta di attività sportiva da parte delle Federazioni e degli Enti di Promozione dello Sport è infatti cresciu-ta in maniera esponenziale. Nel 2010-2011 è partito il Progetto di Alfabetizzazione Motoria nella scuola primaria, voluto e finanziato dal CONI e dal Ministero della Pubblica Istruzione, che prevede l’inserimento di un esperto (Laureato in Scienze Motorie) incaricato di svolgere due ore settimanali di Educazione Motoria a integrazione e supporto della formazione dei bambini. Se questa generazione di bambini può quindi essere seguita da insegnanti e istruttori qualificati in una mi-sura superiore rispetto ai loro genitori, un aspetto ha però subito un drastico ridimensionamento. Parliamo del gioco libero.

Dr. Paolo Moisé

Insegnante di Scienze Motorie e Sportive, si occupa da anni di attività motoria e di allenamento in ambito accademico e sportivo.

Gioco libero = game overI bambini di oggi, per tanti e diversi motivi, solo in rari casi escono a giocare liberamente nei giardini o in spazi verdi - ciò che, invece, i loro genitori e ancor prima i nonni hanno fatto a sfinimento. Questo rappresenta un limite nella formazione motoria dei bambini, che si tro-vano impossibilitati a sperimentare le tante gestualità che un tempo i loro coetanei praticavano, ossia: corre-re, saltare, lanciare, strisciare, rotolare, arrampicare. Gli addetti ai lavori definiscono queste espressioni cor-poree “schemi motori di base”, cioè le forme elementari del movimento. Tutti coloro che si occupano di movimento in ambito educativo e sportivo - insegnanti e allenatori - lanciano segnali d’allarme perché i bambini lamentano preoccu-panti lacune rispetto a queste gestualità, che a loro vol-ta rappresentano i pre- requisiti per l’apprendimento delle tecniche delle diverse discipline sportive.

A piedi nudi sul parcoCome può un genitore aiutare il proprio figlio a riap-propriarsi dell’opportunità di apprendere in maniera naturale le gestualità di base? Non è così difficile. Ormai in quasi tutti i parchi cittadini vi sono delle aree attrezzate. Ebbene, i genitori possono accompagnar-ci i bambini e lasciare che si sbizzarriscano nelle più disparate attività, vigilando ovviamente sulla loro sicu-rezza, ma lasciandoli liberi di organizzare le attività e di muoversi a piacimento. Ci piace citare l’esempio del Parco Giochi Primo Sport 0-2-4-6 (per saperne di più http://www.0246.it/) presso La Ghirada a Treviso, svi-luppato su una superficie di circa 2000 metri quadrati con piazzole e percorsi a tema, che i bambini possono affrontare in assoluta libertà.Gli obiettivi che Primo Sport 0-2-4-6 vuole far raggiun-gere ai bambini di queste fasce d’età sono aumentare il livello di attività fisica, imparare ad agire di gruppo, promuovere la passione per il movimento, divertirsi e acquisire abilità motorie di base come gattonare, cam-minare, correre, saltare, arrampicarsi.Mamme, papà, nonni, cosa aspettate? Tutti al parco!

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