Sogni di Morte  · Quarto appuntamento col meglio del NeroPremio. ... cagnolino della signora Neri....

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“Sogni di Morte” Prima Edizione eBook: Marzo 2004 Realizzazione: La Tela Nera http://www.latelanera.com/ “La Spada” 2004 by Shin Bilstein “Il Bacio del Serpente” 2004 by Mario Campaner “Di Notte” 2004 by Roberto Colantonio “Rewind” 2004 by Giansant “L’Ombra della Strega”, “L’Eco” 2004 by Lorenzo Nicotra “Cuciture” 2004 by Walter Reno Immagine di Copertina: “It was a smile” 2004 by Roberto Paolini http://www.rupkingdom.com/dream Questo testo può essere liberamente distribuito a mezzo internet, previa autorizzazione degli Autori, in nessun caso può essere chiesto un compenso per il download dell’e-book che rimane proprietà letteraria riservata degli Autori. Sono consentite copie cartacee di questo e-book per esclusivo uso personale, ogni altro utilizzo al di fuori dell’uso strettamente personale è da considerarsi vietato e perseguibile a norma di legge. Tutti i diritti di copyright sono riservati.

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SOGNI DI MORTE

il meglio del NeroPremio

La Tela Nera Marzo 2004

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SOMMARIO 7 Prefazione 9 L’Ombra della Strega Lorenzo Nicotra 19 La Spada Shin Bilstein 27 Di Notte Roberto Colantonio 43 Il Bacio del Serpente Mario Campaner 53 Cuciture Walter Reno 61 Attimi di Follia in Rewind Giansant 67 L’Eco Lorenzo Nicotra 73 Gli Autori 75 Il NeroPremio

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PREFAZIONE Quarto appuntamento col meglio del NeroPremio. E’ passato un anno da quando il concorso è nato, e le “prenotazioni” per parteciparvi arrivano fino alla Sedicesima Edizione… Un risultato che mi riempie di soddisfazione, e che spero non sia una meta ma solo una delle tante tappe di un lungo viaggio insieme. Sogni di morte raccoglie le sette storie meglio classificate nelle edizioni numero Otto e Nove del concorso, e vi farà conoscere sei validissimi autori, sconvolgendo (spero) le vostre ronfate notturne. I contenuti sono vari: streghe e strani pozzi, serpenti socialmente attivi e pazzi scatenati in libertà, coincidenze sanguinarie e spietete notti buie… Gustatevi questi sette racconti, e non esitate a scrivermi per le vostre impressioni, le critiche, i suggerimenti: [email protected] Ringrazio tutti i partecipanti al premio e i componenti della giuria, passati, presenti, e futuri: senza di loro il mio sito e questo eBook non esisterebbero. La nostra torre nera è ancora troppo lontana dal cielo: avanti, non fermiamoci, continuiamo ad impilare cadaveri…

Alec Valschi Marzo 2004

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Lorenzo Nicotra L’OMBRA DELLA STREGA

I bimbi amano essere rassicurati, prima di andare a dormire.

“Chi è che piange?” disse fra sé la mamma, alzandosi dalla sedia di vimini e tendendo l’orecchio. La sedia scricchiolò, e dopo un attimo ella pensò che si era sbagliata: le era parso di sentire un singhiozzo. Ma forse se l’era immaginato. Si aggirò per la stanza. Il caldo sole di quella mattina di luglio si intrufolava con i suoi lunghi raggi per tutta la casa. Non poté fare a meno di preoccuparsi per i suoi figlioletti. Provò una fitta di apprensione: erano due diavoli, quei bambini. Ormai li conoscevano in tutto il vicinato. Ne combinavano una ogni giorno! Sospirò. Mille marachelle, quei due! Dio solo sapeva quanto la facevano stare in pena. Uno di questi giorni avrebbero potuto cacciarsi in qualche brutto guaio. Chissà cosa stavano architettando in quel momento, si chiese. Chissà dov’erano! Forse a spaventare il gatto del signor De Bellis. O a torturare quel povero cagnolino della signora Neri. Oppure, forse, a imbrattare di panna le finestre della scuola elementare, come avevano fatto la scorsa settimana. E se qualcuno li stesse sgridando?, pensò, con un nodo alla gola. O peggio, se qualche vicino esasperato li stesse sculacciando?, penso, arrabbiandosi. Nessuno aveva il diritto di alzare un solo dito sui suoi figli! Oh, se solo qualcuno avesse osato... Nella casa vuota il ticchettio dell’orologio a muro sussurrava flebili rintocchi. Posò il lavoro di ricamo sulla spalliera della sedia, e i ferri sul tavolino rotondo. Sbirciò in tutte le stanze.

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Guardò in ogni angolo, e il sole la seguiva dappresso, filtrando dalle finestre con le tendine aperte, mentre lei apriva e chiudeva le porte, mentre usciva e rientrava nelle stanze solitarie. Si posò una mano sulla guancia e disse fra sè: “Mi era parso di sentire...” Il suono si ripetè di nuovo. Un lamento sottile. “Chi è che piange?” Un gemito. No. Erano due. Due voci diverse. Singhiozzanti. “Chi c’è?” Veniva da fuori. Da dietro la porta d’ingresso. Sentì uno scalpiccìo e le voci si fecero più chiare. Adesso le riconobbe. “Daniele! Flora!”esclamò. Piccole mani picchiarono alla porta, poi il campanello squillò più volte. “Mamma!” “Mamma, mamma!” Aprì l’uscio e li trovò sul pianerottolo, abbracciati e tremanti come due cagnolini bagnati. “Oh, mamma!” esclamarono di nuovo i bambini. “Cos’è accaduto? State bene? Vi siete fatti male?” Daniele si passò una mano ad asciugarsi le lacrime. “Stiamo bene” disse. “Ma state piangendo, perbacco. Cos’è accaduto?” “E’ una strega, una strega!” piangeva Flora. “Zitta” sussurrò in fretta Daniele. “Tanto non ci crederà mai” disse alla sorella. “Oh” sospirò la mamma. “Mi farete venire il crepacuore, uno di questi giorni! Cosa avete combinato stavolta?” Flora si manteneva abbracciata al fratellino, e non smetteva di tremare. “Nulla. Non abbiamo fatto niente, noi.” La mamma sbuffò, arricciò il labbro e si puntò i pugni sui fianchi. “Non dite bugie!” “Noi non abbiamo fatto niente!” insistè Daniele, singhiozzando. “Dimmelo tu, Flora” disse la mamma, con voce più severa. La bambina tirò su col naso. “Stavamo giocando nel suo cortile e...” “Il cortile di chi?” “Non dirlo, Flora!” si affrettò a suggerire il fratellino. “Oh, mamma. Non volevamo fare niente di male.” “Il cortile di chi, Flora?” insistè la mamma adirata. Flora abbassò il capo con aria colpevole. “Casa Corvino” disse.

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“Lidia Corvino!” La mamma si portò le mani alla fronte, esasperata. “Ancora quella storia. Quante volte vi ho ripetuto di smetterla con la faccenda della signora Corvino?” “Volevamo solo dare un’occhiata” intervenne Daniele. “Certo” confermò la sorellina. “Niente di male.” “Non stavate giocando” asserì la mamma. “La stavate spiando. Siete andati lì a spiare la povera signora Corvino. Non è così?” Nessuno dei due bambini ebbe il coraggio di controbattere, questa volta. “Siete due diavolacci! Smettetela di tormentare quella povera vecchia.” “Mamma! Ma lei è una...” “Quando vi acchiapperà e ve ne darà di santa ragione non potrò neppure darle torto. Non sta bene perseguitare un’anziana signora. Questa storia deve finire.” “Ci ha spaventati a morte. E’ venuta fuori e...” “Basta! Non voglio ascoltare. E non voglio altre scuse!” “Ci ha mostrato delle strane cose e...” “Dovrei mettervi in castigo, per questa faccenda.” “...e poi...e poi...” “Oh, come farò con due figli così pestiferi?” si lamentò. “Ci ha mostrato delle cose orribili!” Flora ricominciò a singhiozzare, e si strinse di nuovo a Daniele, presa dallo spavento. La mamma puntò minacciosamente il dito e ordinò: “Adesso andrete di sopra a studiare, o sarò molto severa con voi due!” “Ma...” “Non una parola di più” tagliò corto la mamma. I bambini la fissarono ad occhi spalancati. “Adesso cominciate proprio ad esasperarmi, con le vostre storie.” Daniele e Flora furono costretti a battere in ritirata, e lentamente si avviarono dentro. Arrivati sulla soglia della porta della stanza, la mamma si sentì stringere il cuore. “Aspettate!” I bambini si fermarono. “Tornate un attimo qui.” Girarono su se stessi, tenendo sempre gli occhi bassi e fissi sul pavimento. La mamma si sedette sul divanetto, esausta. “Qui, vicino a me” la mamma li esortò a farsi più vicini. Aprì le braccia e li strinse a sé, quasi soffocandoli nella sua stretta. Li baciò e li abbracciò. “Siete dei diavolacci, questo siete.” “Oh mamma, noi non volevamo...”

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“Mi farete ammalare di cuore.” La mamma sospirò e sbuffò, ma carezzò più e più volte il capo dei figli. “Adesso ripetetevi questa frase in mente: le streghe non esistono.” “Oh, mamma!” protestarono i bambini, convinti del fatto loro. “Su, senza storie: le streghe non esistono. Sono solo leggende. E di certo la signora Corvino non è una strega. Avanti, ripetete con me: le streghe non esistono.” Dopo qualche giorno Daniele e Flora rientrarono in casa portando con sé un grosso sacco scuro. Trascinarono il sacco lungo la strada acciottolata, tirandolo per i lembi all’estremità attraverso polvere e pietrisco. Giunsero alla stecconata di casa e attraversarono il piccolo giardino. Era un’altra bella giornata. Il cielo era azzurro e la luce del mezzogiorno inondava le strade e i giardini. Le siepi erano alte e le nuvole lontane. Era quasi ora di pranzo. “Caspita!” fece Flora. “Siamo quasi arrivati” la consolò Daniele. Giunsero alle scale e sollevarono il sacco fin sul pianerottolo. “Ooohhff” sbuffò Daniele, trascinando il sacco oltre la soglia di casa. Entrambi stringevano il logoro tessuto tirandolo lungo il pavimento. Ogni tanto il sacco si impigliava in qualche irregolarità tra le assi di legno. Flora boccheggiò, ansante. “Non ce la faccio più” sospirò, lasciando andare il sacco e chinandosi a terra per riprendere le forze. Daniele insistè caparbiamente fino al centro del soggiorno. Poi lasciò andare anch’egli il sacco e si accasciò lì vicino. “Gesù, quanto pesa!” Erano sudati e stremati, e alquanto spaventati. “E adesso?” si interrogò Flora. Daniele si morse il labbro. Infine si decise: “Dobbiamo farla vedere alla mamma.” Flora sgranò gli occhi, incredula. “Daniele!” “Non abbiamo altra scelta, Flora. Le diremo tutto. E poi, quando la vedrà si renderà conto che...” In quel mentre la mamma uscì dalla cucina per piazzarsi con aria sospettosa davanti a loro. “Cos’è questo sacco?” Flora ebbe un tremito. Daniele tentò di dire qualcosa, ma dalla bocca non gli uscì parola. La mamma strinse gli occhi e formulò di nuovo la domanda. “Cosa c’è li dentro?”

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Flora guardò il fratello. “Diglielo tu!” urlò. “Sei stato tu a voler tornare. Adesso devi dirglielo.” Lui disse solo: “L’abbiamo presa.” La mamma sbattè le palpebre in un’espressione di incomprensione. Il piccolo Daniele continuò: “L’abbiamo presa mentre era distratta, così non si è potuta difendere.” “E non ha potuto usare quei suoi strani oggetti” aggiunse Flora. “Non ne ha avuto il tempo.” La mamma si irrigidì, cominciando a preoccuparsi. Un improvviso timore le serrò la mascella. “Ma cosa... Di che diavolo state parlando?” si sforzò di chiedere. “La strega. La signora Corvino. L’abbiamo colpita alla testa con un grosso sasso e poi l’abbiamo infilata nel sacco. Non preoccuparti mamma, adesso non potrà più farci del male.” La mamma sbiancò fino a prendere il colore e la consistenza di un fiocco di neve: si sentì mancare le gambe e dovette appoggiarsi al tavolo per non crollare a terra dallo spavento. “Voi...” balbettò. “Voi mi state dicendo che...” “L’abbiamo presa. Non può farci più nulla, ora.” “Oh mio Dio!” esclamò la mamma, portandosi entrambe le mani al volto. Aveva la pelle come di ghiaccio, tanto era scioccata. “Cosa avete fatto!” Flora bisbigliò qualcosa al fratellino. La mamma disse con voce fioca: “Mi state prendendo in giro. Oh, sì. Mi state facendo uno scherzo, non è vero? Non fareste mai una cosa del genere, su, ditemelo, ditemi che è tutto uno scherzo!” Daniele disse: “Apri il sacco, mamma, e vedrai.” La mamma restò muta come un pesce. Lentamente, molto lentamente, si avvicinò al sacco con mani tremanti, mordendosi il labbro con i denti. La povera signora Corvino, pensava tra sè. No, non può essere, pensava un’altra parte del suo cervello, sovrapponendosi al timore che la vecchia fosse davvero morta. Non è vero, non possono averla uccisa! Adesso era proprio davanti al sacco. Tese la mano. Le dita tremanti percorsero l’infinita lunghezza che correva tra sè e il ruvido bordo di stoffa. Afferrò quasi l’estremità del lembo di pezza, ma la mano si bloccò, e le ricadde lungo il fianco, immobile e inerte come se fosse morta. “Non ce la faccio, non ce la faccio!” Si sentì avvilita.

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“Oh, se davvero avete fatto una cosa simile, io...io...” Ma non era possibile, si disse ancora una volta. I bambini non se ne vanno in giro ad ammazzare le vecchine. Comandò al cervello di alzare il braccio. Il cervello inviò l’impulso e il braccio si rialzò. Decise che avrebbe teso la mano. Il cervello raccolse l’ordine inviatogli con la forza di volontà - era una lotta estenuante! - inviò il segnale e la mano si tese. Le dita fredde, tremanti e affusolate ebbero uno scatto e si strinsero a pugno nel vuoto, come in un atto di rivolta. La mamma si costrinse a scioglierle e finalmente toccò il sacco. Chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì. Si fece più forza, e finalmente tirò il laccio del sacco. Il laccio si allentò e i lembi di tessuto ricaddero su se stessi, rivelando poco a poco l’intimità del contenuto. L’interno del sacco era quasi visibile ormai... La luce esterna fu la prima a scoprirne il segreto, insinuandosi tra le pieghe interne. Gli occhi della mamma seguirono i raggi dorati del sole... C’era un cadavere. Nel sacco. Un cadavere. Una carcassa. Mio Dio. Una cosa morta... Ma fortunatamente non era la signora Corvino. La mamma vide che cos’era. Cominciò a piangere. Non sapeva se sentirsi meglio o peggio, dopo la scoperta. Oh, certo, la certezza che non fosse la signora Corvino era una benedizione del Cielo. Ma restava il fatto che era uno scherzo troppo macabro e sanguinario per esserne realmente felice. Era un gatto. Un grosso gattone nero, occhi sbarrati nell’abbraccio della morte, denti scoperti in un ultimo ghigno felino. Lasciò cadere il bordo del sacco e restò un attimo immobile, i pensieri raggelati in un turbine di fredda confusione. Poi si voltò verso i bambini, ma non riusciva a fissarli in viso. “Come avete osato?” “Era una strega, mamma. Se non fosse stato per questo noi non...” La mamma urlò, travolta dall’orrore e dalla collera. “Un povero gatto, mio Dio! Un povero animale! L’avete ammazzato!” I bambini restarono ammutoliti.

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“Non voglio più parlarvi! Non vi rivolgerò la parola sino a che non l’avrete seppellito! Sotto un metro di terra e con una croce di legno piantata su in cima al terreno! Siete dei mostri!” Scappò in camera e lasciò i due bambini a se stessi. Daniele ripeteva: “Non è possibile. Non è possibile.” “E’ proprio un gatto, Daniele. E adesso cosa facciamo?” “Non credo che sia un gatto, Flora. Secondo me c’è qualche mistero sotto.” “Be’, adesso, se non altro, peserà di meno.” Giunsero al campo verso le due. Non c’era nessuno in vista. L’ultima casa distava da loro almeno un chilometro, e in lontananza era una sagoma immobile e senza segni di vita nei pressi. Flora scavalcò il reticolato e Daniele le passò il sacco. Poi saltò anch’egli dall’altro lato. “Bene, questo non è privato” disse Daniele indicando il terreno incolto. Flora raccattò le vanghe e cominciò a trascinarle sotto il sole. Daniele fece lo stesso con il sacco. “Ehi” disse un attimo dopo “adesso pesa di più.” Flora pensò che Daniele volesse fare un cambio: a lui i badili e a lei sarebbe toccato trascinare il sacco col gatto. Niente da fare, pensava. Era lui l’uomo, quindi lui avrebbe fatto il lavoro più pesante. “Oh” esclamò Daniele tutto a un tratto. “Adesso, invece, è più leggero. Proprio più leggero.” “Non prendermi in giro” lo ammonì Flora. Daniele si voltò e prese a sciogliere il laccio. “Voglio proprio vedere cosa c’è dentro, stavolta.” “Lo sai già, stupido. Un gatto. E molto morto, per giunta.” Appena il sacco fu mezzo aperto, tre lunghe zampe pelose si affrettarono fuori, e un corpo tozzo e nero fece capolino all’esterno. “Un ragno!” La cosa cacciò fuori una quarta, poi una quinta zampa di ragno, poi restò per un attimo impigliata nel sacco. “Gesùmmio, Flora, fa’ qualcosa, presto.” L’enorme ragno prese a dibattersi freneticamente, imbrigliato nel laccio del sacco. Una zampa toccò il braccio di Daniele, che urlò come un forsennato e ricadde all’indietro nel campo. Era un grosso corpo tondo e scuro, un ragno grande quanto la carcassa del gatto che prima aveva abitato la stessa sua dimora. Flora era terrorizzata. Istintivamente alzò la vanga e sferrò un feroce colpo. L’animale, l’insetto o quel che era sibilò spaventosamente, contorcendosi e

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rattrappendosi in un corpo tondo e, stavolta, senza zampe. In qualche modo fu di nuovo dentro, e Daniele balzò sul sacco e tirò forte il laccio. Lo annodò tanto stretto da farsi sanguinare le dita. “Almeno, di qui non esce tanto facilmente.” Il sacco prese a vibrare. Quel che c’era dentro si agitava all’impazzata. Era uno spettacolo orribile. “Gesù” fece Flora. Daniele indicò un grosso albero nodoso. “Laggiù. Presto. Lo seppelliremo dietro quel tronco.” Cominciarono a correre in mezzo al campo. Di colpo, il forte sole delle due sbiadì come se qualcuno avesse chiuso il rubinetto del gas. Enormi nuvoloni presero posto sopra di loro, sulle loro teste, riempiendo gli spazi azzurri del cielo. In un attimo tutto fu più scuro, la giornata si fece buia e cominciò a piovere. “E’ lei” gridò Daniele mentre un tuono ingoiava le sue parole. “Cosa?” urlò Flora di rimando. “Dev’essere lei. La signora Corvino!” “La strega!” “Sì, la strega.” Daniele si guardò attorno, mentre il giorno veniva inghiottito da una precocissima sera. “Dev’essere tutta opera sua.” Cominciarono a scavare. I lampi grattavano il nero del cielo come artigli di gesso su una lavagna scura. “Presto! Più presto!” Le vanghe mordevano la terra e la sputavano via, e il fosso cominciava a mostrare il suo fondo buio. Si voltarono verso il sacco. Adesso era immobile come un sasso. “Forse è finita, Daniele. Forse adesso è morta.” “Non vorrai correre il rischio, spero?” Continuarono a spalare la terra. La pioggia cadeva graffiante su di loro. Quasi come se la natura avesse liberato i suoi artigli e tentasse di strappar loro le vanghe da mano. Più di una volta Flora cadde o perse la zappa, e una volta dovette persino rincorrerla, tanto il vento la portava via! “Abbiamo finito?” chiese Flora, stremata. “Sì. Quasi.” Il terreno era pieno di vermi, e la pioggia lo riempiva come se fosse impaziente di richiuderlo. “Ancora un po’” gridò Daniele, spalando via l’acqua e scavando nuova terra. Ormai la buca era di un metro e forse più. Forse erano ore che scavavano.

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Quando ebbe giudicato che fosse abbastanza, Daniele si avvicinò prudentemente al sacco e lo guardò con sospetto. “Be’. Adesso devo solo...” Strinse le mani attorno al laccio e afferrò pieno di disgusto e di terrore il sacco scuro. Lo sollevò da terra. Adesso era pesantissimo. L’acqua piovana lo aveva reso ancora più pesante. Provò nuovamente a strattonarlo o a sollevarlo, ma gli costava una fatica del diavolo. Sembrava ci fosse del piombo, lì dentro. “Aiutami Flora.” Insieme, riuscirono a portarlo fin sul bordo della fossa. Di colpo qualcosa lacerò la stoffa, e, un attimo prima di scaraventarlo giù, una mano scarna e ossuta afferrò Flora per il polso. “Danieleeee!!!!” urlò la bambina. “Mi ha preso, mi ha preso!” “Oh, Dio!” Daniele corse al badile. Impugnò la vanga e la alzò. Per un solo attimo - che gli sembrò infinito- la tenne alta su di sé. Finalmente vibrò il colpo. Il polso della strega scricchiolò come una noce. Ma la stretta non si allentò. Flora si sbilanciò e ricadde all’indietro. Il peso fece scivolare anche il sacco lungo la parete di terra. Lei e il sacco atterrarono sul fondo, tra i vermi e il terreno bagnato. Ci fu il suono di altra stoffa che si lacerava. La strega cacciò il volto rugoso fuori del sacco, sotto la pioggia che picchiava selvaggiamente. Il viso era un ovale scuro. I capelli arruffati avevano le sembianze degli stessi lampi che squarciavano l’aria. Gli occhi erano due cavità scure, simili allo stesso fosso che i bambini avevano scavato, ma più profondi. Anche all’interno di quegli occhi brulicavano vermi grassi e repellenti. Le labbra livide erano sollevate sopra le gengive, lo stesso ghigno del gatto morto... ...solo che questa volta quel ghigno si apriva e richiudeva a formare suoni e parole incomprensibili, antichi come lo stesso vento che adesso li rapiva e li portava via, nell’aria magica e malvagia. In qualche modo Flora era riuscita a svincolarsi, durante il ruzzolone, dalla morsa della signora Corvino. Urlava a squarciagola e tentava di arrampicarsi sul bordo scivoloso del fosso. Daniele, dall’alto, le tese una mano e finalmente riuscì a tirarla su. “Adesso la terra!” le gridò, passandole velocemente la vanga. “Ricopriamo la buca, presto!”

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Ancora la furia degli elementi era contro di loro. Il vento artigliava, la pioggia strappava e tirava. Ma continuarono a buttar giù la terra freneticamente, come impazziti, più veloci del lampo che li illuminava dal cielo, più veloci del tuono che li minacciava dall’alto. Quando la terra ebbe raggiunto il livello del campo, finalmente, gettarono via le vanghe e crollarono esausti. Il giorno si rischiarò. Le nubi furono spazzate via, e nel cielo brillò di nuovo il sole in mezzo all’azzurro. Daniele e Flora ansimavano fin quasi a soffocare. Le gambe non li reggevano più. Quando finalmente riuscirono a tirarsi in piedi, qualcosa smosse la terra sotto la buca. Dei movimenti veloci grattarono al di sotto della zolla di terra, e il terreno in superficie schizzò via, ma essi non rimasero lì ad aspettare. Fuggirono a gambe levate, attraverso i campi e per il paese, senza mai voltarsi indietro. “Ancora pasticci! Siete davvero perfidi, voi due.” La mamma richiuse la porta e osservò depressa i loro vestiti bagnati e sporchi di fango e terriccio, i loro capelli impregnati di polvere. “Spero che abbiate fatto il lavoro per bene” si augurò. “Oh, sì” risposero in coro i bambini. “E la croce? Gli avete messo la croce di legno? Anche se era solo un gatto, voglio che sia fatto tutto come Dio comanda!” “Certo. Oh, sì, certo.” La mamma annuì, con un’espressione severa come non mai. Li guardò in cagnesco e disse: “Bene, perchè c’è qui qualcuno che vorrebbe sgridarvi di persona. E stavolta penso che abbia proprio il diritto di farlo.” I due rimasero di ghiaccio. Boccheggiarono a vuoto, senza riuscire a spiccicare parola. La mamma riprese a parlare, mentre la porta della cucina si apriva lentamente. “Questa volta non mi intrometterò affatto” disse la mamma. “La povera signora Corvino è letteralmente a pezzi per la morte del suo gatto.” La porta della cucina si aprì pian piano, con un flebile scricchiolìo. L’ombra della strega si proiettò oltre la soglia. La porta gemette. Daniele e Flora urlarono, quando si spalancò del tutto.

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Shin Bilstein LA SPADA

George Flower aprì la porta della soffitta e una zaffata di cattivo odore 1o immobilizzò sulla soglia con una smorfia sul viso. Era puzzo di vecchia naftalina, di chiuso, di polvere e di escrementi di topo, un cocktail davvero singolare. E davvero schifoso. George valutò la possibilità di rinviare il lavoro, ma subito dopo la cancellò dalla mente. Non era salutare.

Aveva deciso di mettere un po’ d’ordine in soffitta un sabato pomeriggio di due mesi prima, dopo aver falciato l’erba del giardino, operazione che eseguiva puntualmente una volta al mese. A dirla tutta, però, non era stata una sua decisione. A dirla tutta, glielo aveva quasi strillato Ruth, comodamente seduta davanti al televisore a guardare un vecchio film di gangsters, con un enorme sacchetto di patatine fritte sulle ginocchia. Ruth era sua moglie. Ruth pesava ormai cento chili.

“Quando ti deciderai a sgomberare la soffitta da tutte le cianfrusaglie che ci sono?” gli aveva chiesto, continuando a macinare una boccata di patatine e posando su di lui il suo tipico sguardo da Torquemada.

“Fra qualche giorno”, aveva risposto George, a disagio. Ma aveva mentito.

In buona fede, ma aveva mentito. E il sabato successivo Ruth aveva ripetuto la sua domanda e George aveva ripetuto la sua risposta, non più in buona fede, ma consapevole dell’intenzione di rimandare il più possibile quell’incombenza e ogni sabato seguente la scena si era ripetuta, finché George non aveva deciso di mettere fine a quello che ormai era diventato un insulso romanzo a puntate. Era sabato, naturalmente, e Ruth se ne stava in salotto a sgranocchiare pop-corn con i piccoli occhi da topo fissi sul televisore. Trasmettevano un film di Alfred Hitchcock, La signora è scomparsa. George le era accanto da qualche minuto. Non gli piaceva molto starle vicino, almeno non più, ma qualche volta era inevitabile.

“Quando ti deciderai a togliere di mezzo la robaccia della soffitta?” aveva domandato lei.

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George si era voltato a guardarla. In quell’istante, osservando il profilo sformato di Ruth con le mandibole in azione, si era sorpreso a domandarsi perché l’avesse mai sposata. La risposta era semplicissima e George la conosceva, eppure stentava a crederci. Aveva sposato Ruth Woodward perché l’aveva trovata giovane, carina e soprattutto magra. Ma non era tutto lì, naturalmente. L’aveva sposata perché l’aveva trovata dolce e comprensiva. Tutti buonissimi motivi affinché Ruth Woodward diventasse Ruth Flower, indubbiamente. Eppure la verità era diversa. Ma allora, diciassette anni prima, George non poteva neppure sospettarla. Adesso, però, le cose stavano diversamente. Come una stella che ha bruciato gran parte del suo idrogeno e si trasforma in gigante rossa, dopo il matrimonio Ruth aveva cominciato a espandersi, a raffreddarsi e a distruggere tutto ciò che di buono c’era in lei. Aveva iniziato a mangiare davvero parecchio quando era incinta e da allora non si era più fermata. Alla nascita di Sidney, il loro unico figlio, aveva lasciato l’impiego di segretaria per dedicarglisi completamente. E per mangiare. In quindici anni, da quarantanove chili era passata a novantotto. Le curve sinuose del suo corpo si erano trasformate in esagerate masse di grasso e George aveva gradatamente perso ogni interesse per loro. Sì, qualche volta faceva ancora l’amore con lei, ma certamente non con la predisposizione e la passione di quando lei era magra. Anche perché era Ruth a chiedergli di farlo.

Non era cambiata soltanto fisicamente. Forse un mutamento fisico e basta sarebbe stato sopportabile, ma non era andata così. Ruth si era inacidita, aveva cominciato a parlare volgare, a insultare George per motivi anche soltanto minimi, a deriderlo. Questo era il lato peggiore. George non aveva idea del motivo che aveva innescato il processo di deterioramento, eppure sentiva di non esserne lui la causa. Intimamente, Ruth doveva essere sempre stata così come era adesso. Si era semplicemente mimetizzata come un insetto per trovare l’uomo adatto, l’uomo sulla cui testa poter mettere i piedi e ballare. George aveva pensato che, se non avesse sposato Ruth Woodward, molto probabilmente lei sarebbe stata ancora magra e piacevole. E in caccia.

George non aveva risposto alla domanda/ordine di Ruth. Si era semplicemente alzato, era salito le scale e adesso era fermo sulla soglia della soffitta a respirare quell’incredibile miscuglio di cattivi odori. No, non era salutare rinviare ulteriormente il lavoro. Ruth non l’avrebbe presa bene. Ormai George la conosceva alla perfezione, la sua Ruth. Quando lei rivolgeva una domanda senza guardare in faccia la persona alla quale la poneva, mantenendo i suoi occhietti fissi sul televisore, significava soltanto una cosa. Ubbidisci o sono cavoli amari. Bene. George avrebbe ubbidito. Dopotutto, che cosa faceva da non ricordava più quanti anni, se non

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ubbidire e stare zitto a subire e a sopportare i continui rimproveri stupidi di sua moglie e l’atteggiamento vacuo, quasi irreale di Sidney? Sì, perché anche Sidney era un mutante. Aveva quindici anni ed era la fotocopia di sua madre. Pesava anche quasi come lei.

Complimenti, Georgie, bella famiglia, pensò e premette l’interruttore. La lampadina nuda che pendeva dal tetto si accese e la sua luce, opaca e sporca come il cuore di Ruth, bagnò ciò che Ruth definiva robaccia e che George invece riteneva ricordi. Un fischio gli uscì dalla bocca. Eh sì: c’era davvero bisogno di una sistemata. George scavalcò un paio di cassette di legno che contenevano la sua giovanile collezione di riviste di donne poco vestite. Era intenzionato a raggiungere la finestrella sotto l’angolo del tetto per dare un po’ di aria nuova al locale. Ce n’era bisogno. Non fece molti passi: si fermò davanti a un cassettone che gli sbarrava la strada. Non ricordava di averlo messo così di traverso, eppure doveva averlo fatto. Ma erano secoli che non metteva piede in soffitta. La sua dimenticanza era più che lecita.

Poggiò le mani sul mobile e spinse. I suoi bicipiti da impiegato si contrassero fino a raggiungere la consistenza di una mozzarella avariata. Il cassettone non si mosse. George pensò a quando riusciva a sollevare un bilanciere da settanta chili, qualcosa come venticinque anni prima, e la rabbia, seppur leggera, s’impadronì per un attimo di lui. Si pulì le mani, sollevando una nuvoletta di polvere. Si guardò in giro, in cerca di una leva o di un oggetto qualsiasi adatto a dargli un po’ d’aiuto per spostare quel dannato cassettone di piombo. I suoi occhi incontrarono un altro cassettone, più rovinato, con sopra una bambola di porcellana i cui capelli, un tempo neri, erano ora grigi e spettinati e che indossava un vestitino rosa sbrindellato; poco più a destra c’era l’armadio contenente i vecchi abiti del bisnonno, abiti da cow-boy e da fante nordista, a lato del quale vi era la sagoma alta un metro e ottanta di un sorridente ufficiale di polizia che alzava una mano ed esibiva il cartello con la scritta SCHOOL ZONE - SLOW. Ancora più a destra c’era un terzo cassettone, coperto male da uno straccio liso dal tempo, su cui era appoggiata una fotografia incorniciata, una fotografia di due uomini che si stringevano la mano e che sul momento George non riconobbe come suo padre e suo nonno. Davanti alla finestrella chiusa, la vecchia sedia a dondolo sulla quale suo nonno amava passare le serate estive, in veranda, a fumare la pipa, era immobile e ancora in buono stato, imprigionata tra un rimasuglio di camicia che pendeva da un gancio e un maglioncino di ragnatele disabitate che ondeggiavano pigramente.

— Questa non è robaccia —, disse George, sorridendo. Aveva ragione. Ruth non capiva nulla che non potesse essere ingerito e metabolizzata o mandato in onda alla TV. George sapeva anche questo.

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Nonostante l’ordine ricevuto, non avrebbe buttato via niente. Si sarebbe limitato a spazzare, a togliere le ragnatele e a mettere a posto gli oggetti che non lo erano, dopo averne assaporato il carico di emozioni che si portavano appresso, emozioni profonde e sincere come possono essere soltanto quelle legate al passato. Ruth avrebbe sbraitato più del solito, ma a George non interessava. Era abituato a ricevere strigliate.

Si chinò e aprì le ante cigolanti del cassettone. Lo avrebbe svuotato e avrebbe cercato un posto dove sistemarlo. Sarebbe stato un gioco da ragazzi, e dopo avrebbe aperto la finestrella. Dentro il cassettone c’era un forte odore di muffa. George storse il naso, poi allungò le mani e tastò sotto i vecchi stracci sbiaditi che ricoprivano gli oggetti sui ripiani. Erano tutti oggetti duri. George aveva creduto di trovarvi qualcosa di cedevole e molliccio, dato il fetore che investiva le sue narici, forse i resti di un animaletto morto. Non palpò nulla di tutto ciò. Tolse rapidamente tutti gli stracci e se li gettò alle spalle, coprendo le stesse con un leggero strato di polvere. Nella semioscurità del cassettone, i suoi occhi viaggiarono a destra a sinistra. I due ripiani erano colmi di statuette e di vasetti e di cocci di vasetti in creta. George aggrottò le sopracciglia e per un istante realmente non seppe che cosa ci facessero tutti quegli oggetti d’artigianato in casa sua.

Mia madre, ricordò. Li ha fatti mia madre. Papà era contento che li facesse perché poi trovava sempre qualcuno, un collega o un amico, disposto ad acquistarne. Questi sono in soffitta però...

La gola gli si chiuse e fu costretto a tossire per riaprirla. Non era la polvere. Erano le cose che aveva lì davanti, erano i ricordi. Sapeva perché i vasetti e le statuette e i cocci erano lì, in soffitta, relegati nel vecchio cassettone come galeotti in un isola, a morire, e gli faceva male. Sua madre era morta mentre stava completando uno di quegli oggetti. Infarto, quando George aveva dodici anni. I pezzi erano tali perché suo padre aveva scaraventato a terra alcuni vasi, in un attimo di disperazione, dopo il funerale. Poi aveva preso tutto e l’aveva chiuso in soffitta perché vedere le creazioni artistiche della moglie equivaleva a vedere lei in giro per casa, a sorridere come era solita fare.

— Robaccia —, sibilò George e per la prima volta sentì di odiare la donna deformata dalla cellulite che se ne stava stravaccata nel divano del soggiorno di casa sua a guardare la tele e a immagazzinare calorie che non avrebbe mai bruciato. La scoperta del nuovo sentimento non lo stupì. Aveva sempre sospettato, in un angolino della sua mente, di odiare Ruth.

Allungò le mani, stavolta per prendere gli oggetti tra le dita, delicatamente, come reliquie, e posarli a terra, accanto a sé. Allungò le mani e toccò qualcosa che non era né una statuetta né un piccolo vaso.

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Dapprima credette che fosse una sbarra di ferro, ma poi, accarezzando il nuovo oggetto con la punta delle dita, capì che non poteva esserlo. Era proprio in fondo, dietro tutto, contro la parete del cassettone, affondato nel buio e nell’odore di muffa che non gli apparteneva, nascosto. George l’afferrò con entrambe le mani e lo portò alla luce, pian piano, per non urtare le statuette di sua madre. Quando infine lo vide, cadde istintivamente in ginocchio, come se una mano lo avesse spinto giù.

Teneva una spada, lo vedeva bene, ma non sembrava per niente una spada normale. La soffitta era immersa nella polvere e nelle ragnatele, le cose che vi erano presentavano chiaramente l’odore e i segni del tempo, eppure la spada era lucida, addirittura scintillante, come se fosse stata da poco forgiata. George cercò di rammentarsi se l’avesse già veduta in giro per casa o se qualcuno, suo padre, suo madre, suo fratello maggiore, gliene avesse mai parlato. Buio. Accarezzò con il palmo gli intarsi della coccia e ne ricavò una sensazione di potere che s’irradiò velocemente per tutto il suo corpo, facendogli provare un brivido di piacere che però non riuscì a spiegarsi. Sollevò la spada tenendola per la lama, con attenzione, per non ferirsi — non ne sapeva il perché, ma la lama gli sembrava affilatissima — e ne osservò l’impugnatura. Sia da una parte sia dall’altra c’erano, in bassorilievo, due persone, un uomo e una donna, e un volatile. L’uomo era seduto e si sorreggeva il capo con una mano, come se stesse disperandosi; la donna, raffigurata in modo da sembrare più dietro, aveva una mano alzata e sembrava agitare l’indice in modo accusatorio e di rimprovero, mentre nell’altra mano stringeva una frusta e sul suo volto era dipinta un’espressione dura, truce. L’uccello era accanto all’uomo, ma il becco era sollevato verso la donna. La guardava. George alzò ulteriormente la spada. Era talmente affascinato da quell’oggetto così strano, così fuori posto da non accorgersi che Ruth, dal soggiorno, stava gridando per la terza volta consecutiva il suo nome.

Per trenta centimetri di lama, tra due gruppi di ghirigori, cinque cavalieri galoppavano contro quattro cavalieri. Entrambi i gruppi avevano le spade e gli scudi sollevati. La battaglia era imminente.

George distese la bocca in un sorriso, senza davvero rendersene conto. Gli odori della soffitta svanirono improvvisamente e l’aria si riempì dell’odore della terra sollevata dagli zoccoli e dall’aroma dell’erba calpestata. George udì distintamente il clangore delle spade contro le spade, i tonfi sordi di altre spade contro gli scudi, le grida dei cavalieri, i nitriti dei cavalli, il sibilo di un vento freddo che scompigliava le criniere. Alle sue orecchie non giunsero i tonfi cadenzati di Ruth, che continuava a chiamarlo, mentre sbuffava sulle scale trascinandosi dietro il maxi sacco di pop-corn. No. La battaglia infuriava e George non era più nella soffitta, era

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nella pianura inglese, sotto un cielo cupo che altro non presagiva se non pioggia, guardava lo scontro che si svolgeva davanti a lui, guardava i cavalieri senza volto che cercavano di affondare le rispettive spade nei ventri degli avversari. C’era qualcosa di sacro in quella battaglia tra pochi, qualcosa che la mentalità di un uomo del Ventesimo Secolo non avrebbe potuto comprendere senza una spada tra le mani. Senza quella spada.

— George! — strillò Ruth, riempiendo con il suo fisico obeso l’entrata della soffitta. Il suo petto enorme andava su e giù con ritmo e sulla sua fronte vi erano numerose gocce di sudore. Non era più abituata a salire quattro rampe di scale tutte di seguito. George fu strappato dal sogno come un ramo da un albero durante una violenta tempesta autunnale e si ritrovò in piedi, girato verso Ruth, verso sua moglie. Gli occhi torbidi di lei lo fissavano e George si sentì di colpo sporco, colpevole. Gli sguardi di Ruth erano tali da rendere paranoico anche la persona più sicura del mondo.

— Cosa cazzo stai facendo? E’ mezz’ora che ti chiamo, imbecille. Si può sapere che cos’hai?

George aprì la bocca e gli uscì fuori un verso senza senso. Ruth increspò le sottilissime sopracciglia e compresse le labbra tra di loro, assumendo in tutto e per tutto l’aspetto di una troia da porcile in camicione. George sentì le viscere riempirsi di odio. I suoi occhi si abbassarono al pugno con cui stringeva l’impugnatura della spada che raffigurava lui, lei e l’Araba Fenice, il dorso della mano si accostò al guardamano fino a aderirvi saldamente. Le sue labbra si piegarono in un ghigno.

— La spada mi stava raccontando una storia bellissima —, disse, a denti stretti. — La spada ha storie da raccontare. Tu non ne hai.

Per la prima volta, Ruth Flower ebbe paura di suo marito. L’aveva sempre giudicato uno smidollato, qualche volta un coglione bello e buono, ma ora che lo vedeva con un arma in pugno... Non avrebbe potuto metterlo a posto con due parole, come era solita fare. Non stavolta.

Ruth Flower si girò di scatto, incredibilmente rapida, nonostante la mole. George fu più veloce di lei. Scavalcò con un balzo aggraziato le cassette

con le riviste, nuovamente l’odore della terra nelle narici, nuovamente le grida dei cavalieri nelle orecchie. Gridò a sua volta. La spada penetrò di punta poco sopra il rene destro di Ruth. Ruth sentì una fitta dietro, come uno strappo muscolare. Gorgogliò. Prima di vedere la punta della spada uscire dal suo ventre, gocciolante del suo sangue, pensò che fosse giunta l’ora di iniziare una dieta.

George continuò a tenere stretta la spada anche quando Ruth fu immobile davanti a lui, il sacchetto di pop-corn ancora in mano, consumato per metà, e mezzo metro d’acciaio nelle viscere. Fissava la nuca di lei, morbosamente. I cavalli scalpitavano. Il suo cuore scalpitava.

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Ruth fece per avanzare, ma fu un tentativo del tutto privo di fondamento. Cadde sul pianerottolo di piastrelle bianche due secondi dopo, espellendo la spada dal suo corpo come un calcolo. Il sacchetto cadde con lei. Il pop-corn si sparse alla sua sinistra.

George la guardò cadere con il sorriso sulle labbra, soddisfatto, e quando vide da sotto il cadavere allargarsi una pozza di sangue cominciò non a ridere, ma a gridare la sua vittoria, la sua incredibile vittoria. La spada era scarlatta, gocciolava sul pavimento, era ancora nel suo pugno. E aveva storie da raccontare, molte storie. E sussurrava dolci parole d’amore.

George non perse tempo: prese il cadavere di sua moglie e lo trascinò all’interno della soffitta, imbrattandone il pavimento di sangue e liberando una larga porzione dello stesso dalla polvere. Sto pulendo, tesoro, pensò. Sto per buttare via la robaccia. La spada mormorò di fare in fretta.

George lasciò le inesistenti caviglia di Ruth e udì in quel preciso istante che la porta di casa era chiusa. Non si spaventò. Conosceva benissimo chi era entrato.

— Mamma! — La voce di Sidney. — Dove sei? Sono tornato. — Un tonfo. Probabilmente era la chitarra. Sidney seguiva un corso già da due anni e ancora non sapeva suonare nulla di melodico.

— Siamo in soffitta —, disse George, sorridendo. La sua voce era calma, serena. Le parole gli uscivano dalla bocca sicure e ben scandite. — Stiamo mettendo un po’ d’ordine —, aggiunse. — Vieni a darci una mano. E portati dietro uno straccio e un secchio d’acqua. Tua madre ha rovesciato sul pianerottolo il nostro spuntino. Pop-corn e sciroppo d’amarena. Sbrigati.

— Va bene —, sbuffò Sidney. George spalancò gli occhi, esultante. Lasciò la spada e spinse Ruth a

sinistra, verso il muro, in modo che fosse invisibile quando Sidney fosse comparso. Il casino sul pianerottolo non lo avrebbe insospettito anche se non vi erano i cocci di vetro dei bicchieri che dovevano aver contenuto l’amarena. Sidney era sempre stato corto di cervello.

— Come sua madre —, sussurrò George e si morse il pugno per non scoppiare in una risata da folle. Brandì la spada e si accostò alla porta spalancata, tenendo l’arma dietro quest’ultima. Tese l’orecchio. I passi sorprendentemente rapidi di Sidney cancellarono il cocktail della soffitta in pura aria d’Inghilterra, striata dall’aroma di terra e erba.

— Vieni, Sidney —, disse George. — Vieni ad aiutare la mamma.

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Roberto Colantonio DI NOTTE

Una donna correva di notte sul cornicione di via Marina, in mezzo alla strada. A piedi scalzi, con strisce di nero sulla faccia e il vestito che le pendeva da tutte le parti, come se fosse di almeno due taglie più grande della sua misura.

Che ora era? Non avrebbe saputo dirlo. In genere a queste domande rispondono persone che hanno un orologio e

lei il suo non l’aveva più. Ma l’aveva prima? Prima di cosa? Prima che accadesse tutto questo.

Ti sbagli, non è accaduto. È soltanto cominciato. Sta accadendo. Non sapeva nemmeno da che parte stesse correndo. Andava avanti e indietro, sulla linea immaginaria che divideva le due

corsie. Ferendosi le caviglie e i polpacci con l’erbaccia che cresce tra i pezzi di

cemento e il pietrisco. Un’erbaccia forte, insdradicabile. Ha covato silenziosa il suo astio

quando uomini sudati avevano portato colate di pece e poi si era ridestata, irresistibile, sbriciolando quella pietra artificiale che viene creata a pani dentro incubatrici di ferro, Macchine che allattano i loro piccoli con acqua di calce.

Le capitava di cadere e allora poggiava per terra, sui ciottoli appuntiti, le palme delle mani, ben aperte, come se si stesse arrendendo ad un qualche nemico o insegnando a degli scolari a lasciare impronte sulla sabbia.

In quelle occasioni le mani si posavano accanto ai brandelli delle scarpe, basse, estive, fatte tutte di lacci incrociati fino al ginocchio.

Quei lacci erano una dannazione quando si era in ritardo e ti aspettavano da sotto il portone e bussavano ogni cinque minuti.

Dal labbro inferiore, che si era gonfiato allo spasmo, colava un perpetuo filo di saliva rossa.

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In bocca si sentiva pezzetti di dente che scricchiolavano quando gli altri denti, sani, li calpestavano. I denti non sono trentadue fratelli, la maledizione delle famiglie numerose.

Avrebbe gridato, aveva bisogno di aiuto, che il mondo la aiutasse. Ne aveva un bisogno disperato. Che questo incubo della domenica sera finisse e nightmare si togliesse la maschera ributtante e, facendo una gran risata, le dicesse che era tutto uno scherzo.

Uno di quelle feste a sorpresa che si vedono nei film. Nei film non c’è un compleanno senza festa a sorpresa.

È così che si comportano le persone nei film. Fino a mezz’ora fa, un’ora o anche dieci minuti andava tutto bene. Perché fino a dieci minuti fa non viveva in un film dell’orrore. Era in auto con Mario. Tornavano da… Già, da dov’è che tornavano? E dov’era l’automobile adesso? Che se ne fosse andato? Impossibile. Magari l’aspettava a casa, preoccupato e telefonava alle sue amiche per

chiedere se potevano dirgli dov’era andata. Ed era un’allucinazione così reale, assurda e insieme desiderabile che

allungava il braccio per toccargli la spalla. Dirgli: guarda, sono qui. Dirgli: è finito, siamo a casa, non pensiamoci più. Oppure: se è uno

scherzo, non è divertente. Torniamo per davvero a casa, a casa nostra. Ma lui si allontanava sempre di un passo quando stava per raggiungerlo,

lo faceva apposta? Infatti le dava le spalle e parlava con qualcuno al telefono.

- Abbiamo un telefono così vecchio noi? L’apparecchio aveva un filo con un bicchiere attaccato invece della cornetta. Da dove era spuntato fuori quel telefono?-

Stava chiedendo di lei. Ma Giorgio, come fai a non ricordare? È appena successo. Tu eri in

macchina, con tutto quel… Si chiama sangue. L’avevi dappertutto. Sangue, ricordarsi che si chiama sangue.

Ed eri incastrato, non ti potei muovere. Mi hai detto tu di andare, di lasciarti, per cercare aiuto. Trova qualcuno

che ci possa aiutare, mi hai detto. Non sono un’egoista. Ho fatto come hai detto tu. Perché racconti quelle cose brutte alle mie amiche? Non ne hai il diritto. Ora l’avrebbe schiaffeggiato.

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Stava dicendo a Carla, la sua migliore amica, la sua amica da anni, che avrebbe voluto baciare il ragazzo con i capelli bellissimi, lunghi, che invece aveva giurato non le piaceva per niente.

Gliel’aveva anche scritto sul diario. “Carla sei la mia amica del cuore”, alla pagine del giovedì c’era ancora spazio. Il giovedì danno sempre meno compiti da fare. C’è ginnastica alla prima ora e religione alla quarta.

Ma poi, perché lo dici? Non l’ho fatto. Non è successo. Non l’ho mai baciato. Sono solo cose che si pensano.

Non siamo a religione, non è un peccato, che per commetterlo basta pensarlo.

Pensare non vuol dire volere, o comunque volere con tutte le forze. Pensare non è come soffiare su delle candeline per esprimere un

desiderio. È successo anni fa, eravamo due ragazzine e tu, tu Giorgio neanche

esistevi. Cioè si, ovviamente esistevi. Hai tre anni più di me. - Avevi? – Facevi la

licenza liceale quando Carla mi chiedeva se piaceva anche a me quel ragazzo.

Sei geloso? Non devi. Sarebbero passati dieci anni prima che poi ci conoscessimo. Come fai a sapere tutte queste cose di me? Era rannicchiata, facendosi più piccola che poteva. Tanto piccola che le venne paura potesse scomparire e allora, se fosse

accaduto, cosa avrebbe fatto? I fari delle auto passavano ad alta velocità per la strada deserta, la

investivano con una violenza che era tutta di luce, eterea, ma senza forza. Non avevano forza le code dei fari che si frangevano contro di lei.

Si teneva le mani sugli occhi, sulle orecchie, sul naso. Non voleva sentire, non voleva vedere. E invece le sembrava di poter ascoltare quello che la gente diceva nei

palazzi bui a centocinquanta metri di distanza. Potevano fare la stessa cosa con lei? Vedeva attraverso i muri, aveva poteri di superman, facoltà da

extraterrestre. Ma anche il senso del dolore era più acuto che mai. Un dolore al petto. Per quello che era successo. Il fatto che ci fosse voluto meno di un secondo perché accadesse. Un secondo – meno - perché si passasse dalla normalità all’orrore –

meno di un secondo. Esiste meno di un secondo? -.

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Se almeno avesse potuto gridare – ma cosa avrebbe gridato?- . Anche se nessuno l’avesse sentita, anche se a nessuno sarebbe importato. Forse poteva bastare. Perché non c’era dubbio che quello era l’incantesimo di un brutto sogno. Cose del genere accadono nella realtà, vero, ma non accadono a me. Non a me. Perché io sono io. Per quanto avesse corso, ed era sicura fossero trascorse ore, esausta, si

ritrovava sempre sotto un brutto ponte nero dove camion ridevano volgarmente tutto il tempo.

Era lo stesso ponte o ce n’erano cento uguali? È che una linea retta, se non la si completa, finisce per diventare una

ruota. Il cerchio di un hula hop – mai stata brava. Chiedete a mia sorella. Lei

era capace di far girare un hula hoop facendo perno sul ginocchio. Vi dico che è vero. Lo faceva, ma ora non lo fa più. Ha due figli e dieci chili di più. Non so se sarebbe ancora capace. Forse è per questo che non ci prova. Per non dover ammettere che non saprebbe più farlo -.

Si staccò allora dal cordolo, prendendo un grosso respiro, come chi stia per immergersi a lungo, sott’acqua ed era proprio questo che si preparava a fare.

“Fai come me, le diceva sua sorella quindicenne sul bordo della piscina, con la cuffia a righe rosse e bianche in testa. Ti mostro come si fa e mimava dei grandi respiri.

- Smettila Giorgia o non resterà più nemmeno un poco d’aria per me. - Non è l’aria che serve per andare sotto. Non tutta l’aria, solo

l’ossigeno. - Ma non si può prendere l’ossigeno dall’acqua come i pesci? H2O

hanno scritto sulla lavagna a scuola. - Questa è una piscina, qui non ci sono pesci. Il tuo trucco non

funzionerebbe. - Ma neanche tu hai più quindici anni. Il tuo figlio più grande compie sei

quest’anno. Abbiamo fatto la festa nel mio giardino perché casa tua è piccola.”

Nuotare in crawl, la regolarità poteva salvarla dalle correnti e dai vortici. Due bracciate e un respiro sopra la spalla sinistra. Cinque anni di nuoto. Titolare della squadra under dodici della sua palestra. Gare in tutta la

regione e anche un’esibizione a Roma. E lei aveva solo nove anni. Una gran voglia di nuotare.

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Durò un anno, quello stato di grazia. Poi cominciò a crescere il seno e la bella ragazza che ne stava uscendo fuori affogò definitivamente la bambina nuotatrice prodigio.

Ma non ne sentì mai troppo la mancanza. Si era fatta ammazzare senza opporre alcuna resistenza.

Brava e veloce, nel crawl e nel dorso, però era una mocciosa che sapeva solo stringere i denti per frenare le lacrime se le succedeva qualcosa che la contrariava.

E tutto il mento le tremava per lo sdegno e la rabbia. Sembrava una bambina dal forte carattere. Al momento decisivo si vide che non sapeva far molto altro che stringere

i dentini appuntiti. Fu così che finirono le gare, gli allenamenti. Iniziarono altre cose, cose diverse, come i sabato sera e i ragazzi.

Sua sorella le disse: lo sapevo che mollavi. Non sarai mai brava in niente, smetterai sempre prima.

Ora però quella piccola nuotatrice che era stata poteva tornarle utile. Perché il marciapiede era dall’altro lato di quel viale larghissimo, una

piscina olimpica, dietro tutto quel buio. Ma è veramente buio questa cosa nera?

Poteva farcela se si concentrava sul punto di arrivo. Era più difficile del solito, non c’era il bordo bianco di una piscina.

Avrebbe dovuto immaginarselo, il suo punto di arrivo. La sua salvezza. L’allenatore l’aveva sempre sconsigliata di pensare a quanto mancasse

alla fine, ma lei era testarda, faceva sempre di testa sua. E, naturalmente, stringeva i denti. Se ci pensi, le raccomandava l’allenatore, vuol dire che ti senti che non

ce la fai a fare nemmeno un metro in più. Vuol dire che permetti all’acido lattico di uscire dalle ossa per appestare

i legamenti, i muscoli. Si, perché l’acido lattico ha un suo odore particolare. L’odore della sconfitta. È panico. Perciò prima di una gara annusa i tuoi avversari, annusa che puzza

spandono quei perdenti. Se sei una campionessa lo puoi sentire, quell’odore, molto prima che

avvenga. Molto prima di loro stessi. Se sei una campionessa quest’odore sarà appiccicato sempre sugli altri,

non su te stessa. Non permettere che accada. E questa cosa, avrei dovuto concentrarmi anche per non far uscire di

strada l’automobile?

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No, non potevo saperlo… E’ al di là delle mie capacità. Inutile, mamma, più di tanto non posso fasciarlo. Non c’è alcun modo

perché non si veda. Ma perché doveva mettersi a crescere proprio adesso? Le gare regionali

sono tra un mese esatto. Adesso mi servi, piccola nuotatrice prodigio, non mi abbandonare. Insegnami come si fa, non ho più forze. Mostrami il crawl. Come facevi tu quando ti veniva l’acido lattico? Ricordi? Alla seconda, terza ora di allenamenti, con il rischio di

annegare in quell’acqua di cloro e di pipì dei seienni che il turno prima imparavano a nuotare. Quanto li hai odiati?

Non avevano diritto a stare lì. Lei era più importante, perché si doveva allenare e allenare seriamente.

Non puoi essertene dimenticata. Io sono cresciuta da allora, ma tu sei rimasta ferma a quell’età, come in

una fotografia. Come si fa a vincere se il tuo corpo si arrende, se il tuo corpo ha perso? Qual è il segreto? Cosa ci diceva l’allenatore, a noi, a me? Forza di volontà. No, dammi un aiuto più facile. Non mi serve a niente

se mi parli di forza di volontà. Non vedi che sono a terra? Io ho la testa pesante, non potrei impormi niente. Nuota tu per me, come nuotavi per tutt’e due, allora. Non riesco ad alzarmi. Non riesco ad aprire gli occhi. Ma non penso di essere arrivata al marciapiede di fronte. Ho appena fatto pochi passi. Devo essermi sdraiata sulla strada. Un vecchio elefante stanco di vivere nel centro di Malgudi, ma io voglio

vivere. Alzati elefante, fai presto, che gli elefanti se stanno seduti per troppo

tempo non si rialzano più. Un qualsiasi veterinario di uno zoo te lo saprebbe dire, stupido plantigrado.

Voglio quanto? Quanto veramente desidero rialzarmi? Abbastanza, però non voglio altre cose in un modo più intenso e quindi mi basterà. Mi deve bastare.

Forse, in questo momento, vorrei più gridare che vivere. Ma griderai dopo. C’è sempre tempo per gridare, miss Rossella. Devi rialzarti, prima. Ti prometto che potrai gridare se ti alzerai. Non si è mai visto qualcuno gridare da sdraiato. Vuoi essere tu la prima? Me lo prometti? Promettimi di alzarti. Ma cosa posso mai promettermi,

piccola sorellina-me stessa? Sei stata fortunata finora, prima o poi arriverà un auto e ti travolgerà.

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Vuoi diventare una bambola rotta? Non è una bella cosa, una bambola rotta. Chi ci vorrà più giocare? No, una bambola rotta rischia molto. Potrebbe anche arrivare un camion. Un camion sarebbe meglio.

Finirebbe prima, il dolore. Ma cosa dici? A queste cose brutte non devi nemmeno pensarci. Non sono reali, mettile fuori dalla porta. Si rialzò – visto che potevi farcela? Sono ore che te lo ripeto - , mise il

resto della sua forza di volontà nei passi che spingeva avanti al corpo martoriato. Una pattinatrice.

Non aveva coscienza da quanto durasse questo supplizio. Perché ogni passo era una sofferenza atroce, ma ad un certo punto la punta di un piede urtò contro qualcosa che sembrava un gradino. Di certo significava che la strada era terminata. L’altro marciapiede, finalmente!

Grazie a Dio, il marciapiede, pensò e vi si buttò sopra come fosse un materasso. Sognò di addormentarsi.

Ma non riusciva a prendere sonno abbastanza velocemente. Vedeva l’auto che si capovolgeva… No, non pensarci, dormi. Non voglio dormire, voglio andarmene da questo brutto posto.

Affianco a lei, Mario guidava. - Simona, sono stato proprio bene questa sera. Lei – un’altra lei, ben vestita, in ordine – gli si stringeva al braccio,

felice. Non era una scena originale, ma andava bene lo stesso. Chi ha detto che

la felicità deve essere originale? Anzi, meglio che non lo sia affatto. Guarda come ho ridotto la gonna e le calze. E ho tutte le braccia

graffiate. È stato Pingo, il mio gatto? Pingo, cattivo, mentre dormivo mi hai graffiata tutta. Poi tornarono le visioni di lei che agitava spasmodicamente le braccia da

fuori al finestrino per darsi lo slancio necessario a uscire fuori. Pensava che la macchina sarebbe esplosa, come nei film Americani. Era

frenetica. Qualcuno gemeva. Mario, ti prego, aiuta questo signore. Deve sentire molto male. Fallo

smettere. Questi lamenti mi innervosiscono. No, Simona, non è un signore, sono io. Sono io che sento tanto male.

Scusami, ma non ce la faccio a non lamentarmi. Mamma, mi sono fatta la bua. Oh, Simo, che bua cattiva! Cos’è successo?

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Sono caduta dalla bicicletta. La bicicletta che ti ha regalato papà? Le vennero delle grandi, pruriginose lacrime agli occhi. Non è colpa mia. Non l’ho rotta io. Si… Si è rotta da sola. La bicicletta mi ha fatto cadere, è stata lei. Oh, che bicicletta cattiva. Che bua cattiva. Ora ci soffierò sopra e la bua se ne andrà. Mamma, soffiaci sopra, fai andare via la bua. Già non sento più male, mamma, soffiaci un altro poco, per favore. Simona, amore mio, aiutami. Ho tanto male. Simona, mi sento di morire.

Ma non posso morire. Non si può morire così all’improvviso, vero? Un minuto fa stavo benissimo e ora mi tocca morire.

Piegata sulle ginocchia stava vomitando, era riuscita finalmente ad uscire.

Si teneva la gola con entrambe le mani e aveva ancora dei conati. Inghiottiva saliva, la sputava. Non finiva mai. E quel sapore acido in

bocca. Qualcosa le era andata in gola. Cos’ho ingoiato? Ma non aveva ingoiato niente. Aveva tenuto i denti serrati, come faceva

da quando era una bambina prodigio nuotatrice. Ne era sicura. Quando qualcosa non andava per il verso giusto stringeva

i denti, i suoi denti appuntiti. Sporgeva in fuori i canini, così non si consumavano. Il dentista si era deciso a darle questo consiglio quando era chiaro a tutti che non c’era verso a convincerla di non digrignare i denti. Lo capirà da sola, ma invece non c’era mai arrivata.

Stringeva con i molari, masticava quello che non le andava bene, quello che non le piaceva.

Ma quello che era successo non lo si poteva ignorare, era troppo evidente.

Non lo si poteva mangiare, macinare con quei suoi molari formidabili. Provaci, Simo… Ci ho provato, è la prima cosa che ho provato a fare.

Sforzarmi di pensare che non fosse successo niente e che andava tutto bene. Perché c’era farina dappertutto. Era uscita da tutto quel suo masticare. La

farina non la si può mandare giù come fosse aria – Ossigeno, Simo, che te ne importa di tutta l’aria? Solo l’ossigeno è importante, il resto dell’aria è schifezza- .

Era tutta ricoperta di farina – farina? Come è possibile? - . Se la toglieva dai vestiti – farina? -, dalle braccia nude, perché era estate

e portava un vestito senza maniche – ma non è già passata l’estate? Sono cento anni che sto in questa notte - .

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Quando cercava di ripulirsi però, le rimanevano delle strisce nere. Strisce nere da che la farina era bianca.

- Simona, dove sei? Non ti posso rispondere. Ho qualcosa in gola. Non ti posso rispondere, amore mio. Non avercela con me. Ti prego, non

litighiamo. È stata una serata così bella. Non siamo stati bene? L’hai detto anche tu. Cos’è successo alla macchina? Facciamo finta che quello che è accaduto non sia accaduto. Per piacere,

non litighiamo. Ma come faccio a dirtelo? Non posso parlare. Cos’ho in gola? Passerà presto, non ti preoccupare. È solo un brutto raffreddore. Stasera

non usciamo. Si, stasera rimaniamo a casa. “ Non è possibile, Simona. Siamo già usciti questa sera. Dovevamo

pensarci prima. Potevi inventarti un mal di testa. Con una telefonata avvertivamo che non saremmo andati, ci saremmo detti dispiaciuti con il nostro invisibile interlocutore all’altro capo del telefono e poi avremmo fatto l’amore. Perché fai la bambina? Perché vuoi ignorare la verità? “

Mario, come stai? Perché non dici più niente? Non sarai arrabbiato? Forse anche tu non puoi più parlare. Forse le persone possono dire solo

un certo numero di parole nella loro vita. Quando le hanno finite devono andare in qualche posto a farne scorta – comprarle, scambiarle, rubarle - , altrimenti devono accontentarsi di starsene zitte e ascoltare.

Anche questo è un modo per rifornirsi di parole, ascoltare e quando a qualcuno cade qualche parola, raccoglierla e farci delle sigarette, come dopo la guerra si faceva usando vari mozziconi.

Mario, Mario… Mi sto addormentando e non so se è una cosa buona o cattiva.

Dici che mi può far bene dormire un poco? Si, lo so che ho promesso di aiutarti. Lo so che hai bisogno di aiuto. Ma se mi riposo cinque minuti poi potrò aiutarti meglio, e aiutare anche

me stessa. Cinque minuti solo. Guarda, sono già arrivata al marciapiede. Non sono

stata brava? Non è stato facile, c’era tutto quel buio. Tra cinque minuti andrò a cercare qualcuno che ci aiuti. Possiamo darci cinque minuti, possiamo fermare l’orologio per cinque

minuti? Non sarà la fine del mondo, cosa sono cinque minuti?

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Sono cose che avremmo dovuto imparare un’altra volta, a fermare il nostro tempo; ora, ad impararlo in fretta, tutto assieme, sarà più difficile. Che dici, vogliamo provarci lo stesso?

Ma non abbiamo scelta, è adesso che ci serve saperlo fare. Ce la caveremo in un modo o in un altro. Cose del genere accadono, accadono spesso. Si chiama realtà.

Anche se a noi non sarebbero dovute accadere. Non eravamo intoccabili? Mario, eri tu che accennavi ai miei superpoteri. Anche noi viviamo nella realtà, ma ci sono persone a cui succedono

determinate cose e altre persone cui accadono altre cose. Lo ripeto, a noi non sarebbe dovuto accadere. Non mi chiedere perché avevo questa convinzione. Non pensavi la stessa cosa, tu?

Il sonno è arrivato. Avrei preferito che tu fossi arrivato prima, sonno. Non sono stati belli gli ultimi cinque minuti. Ho dovuto ricordare delle cose brutte.

O sono io che le ricordo brutte? E’ giorno, mattina. Da quanto tempo sarò stata qui sdraiata? E nessuna

automobile mi ha investita? Nessuno mi ha visto? Perché non vogliono vedermi, non sono invisibile.

Non voglio essere invisibile, ma cosa posso farci se non riescono a vedermi?

Ah, già, certo, sono riuscita a tornare sul marciapiede prima di svenire. Ero caduta e stavo tanto bene a terra, ma era anche pericoloso. Non ci si

siede su una strada. C’è bisogno di una sedia per sedersi, altrimenti è sbagliato.

Non mi chiedere altro, ti prego. La testa mi scoppia. Te l’ho detto – o te lo dico ora- : non potevo restare distesa per strada. Le macchine non mi avrebbero vista. Ma finora sembra nessuno mi abbia visto, non ti pare? Sembra anche a

me. Quanti saranno passati durante la notte? Almeno cento. Almeno venti. E io me ne sono rimasta qui… Mario, stai bene? Mario, dove sei? L’auto è qui. No, non è possibile. L’ho lasciata ore fa, per cercare soccorso. Sei rimasto intrappolato nell’auto. Mario, ma sei qui. Puoi sentirmi? - Si, Simona. Ma non parlare troppo forte. Mi fanno male le orecchie.

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- Come sono contenta che puoi sentirmi, anche se ti fanno male le orecchie.

- Hai trovato aiuto, Simona? Ti sei data da fare? E, indicando lo spuntone dell’albero della trasmissione che gli era

entrato in pancia, aggiunse, allargando il braccio libero in un gesto eloquente – Penso di aver bisogno di un dottore. Non mi sento molto bene.

- Come stai? Ripeté lei inebetita, ignorando quando le aveva appena detto.

Ma lui non sembrò darsene pena. - E’ che ho questa punta in pancia. Senza penso che me la passerei

benino, ho solo delle ammaccature. Ma c’è questa cosa. Mi ha inchiodata al sedile. È per questo che non mi alzo e non vengo con te. Vorrei venire con te. Non avertene a male.

- Ma siamo insieme, adesso. Lui rise, amaro e la corresse, pedantemente: - no, tu sei uscita dall’auto.

Io sono rimasto. Per via di questa punta. Te l’ho detto. Non posso alzarmi. A proposito, hai trovato aiuto?

- Ho cercato, mi sono sforzata, c’era tutto quel buio e non avevo più le scarpe…

Mario sputò un po’ di sangue. – Brava, sapevo ce l’avresti fatta. Sei una ragazza in gamba. Allora i soccorsi stanno arrivando?

- Si, ma… Ecco, non credo tanto presto. Non sapeva come dirglielo, anche se era solo un sogno e lei lo sapeva,

provava lo stesso vergogna. Mario si infuriò: - non mi dire che ti sei addormentata. Cercò di rabbonirlo: - solo cinque minuti , ero tanto stanca, tanta

stanca… Ti prego, non ti arrabbiare. Non voglio litigare. Abbassò la testa sul sedile e con la mano libera di asciugò la fronte.

Sudava copiosamente. Quando parlò aveva una voce sconsolata e guardava da un’altra parte –

quella fu la cosa peggiore, per lei. Che non volesse guardarla mentre le parlava -

- Va bene, non litighiamo. Non fa niente, Simo. Vedi, a questo punto non ha più molta importanza.

- Non dire così, adesso vado… Sono riposata, sarà molto meglio. Tornerò presto con qualcuno che ci possa aiutare.

- Non fa niente, non fa più niente, Simo. - Io vado. - Non tornerai più, lo so. - Perché mi dici questo?

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- Simo, sono quattro ore che ho questa cosa in pancia. Quanto pensi potessi – potessi? Si, “potessi” - sopravvivere? Ma non voglio litigare.

Per tutto il tempo Simona aveva tenuto gli occhi aperti. La luce, del resto, bianchissima, senza colore non dava fastidio. Era la luce delle cinque di mattina, che non ha nulla a che vedere con la

luce esplosiva di mezzogiorno, o anche quella prestante delle undici. È una luce che ha nostalgia della notte che è finita da così poco tempo

che sta ancora ad asciugarsi sui muri, assieme alla sporcizia e al sudiciume che resta mentre cola nei tombini e negli scarichi.

Perché la notte è lurida, sempre, anche quando è una notte stellata. Devo cercare soccorso, qualcuno che possa aiutarci, fu il pensiero che la

svegliò del tutto, perché uscire da un sogno non significa necessariamente tornare alla realtà.

E scoprì piacevolmente che si era già messa a sedere. Ma non era arrivata sul marciapiede dal lato delle abitazioni, e neanche dall’altro lato, dalla parte del mare, e quest’ultima cosa era una fortuna: avrebbe voluto dire allontanarsi ancora di più. C’erano solo dei capannoni industriali da quella parte.

Era ritornata invece al cordolo che faceva da guard rail a via Marina, che più volte si allarga e restringe come un inumano intestino.

Con la luce del giorno si alzò davanti a lei, in lontananza, una torre. Prima era troppo scura perché potesse distinguerla dal resto del buio. Cosa ci fa là una torre? Una torre molto brutta. Di giorno però quel pezzo di strada non faceva la stessa impressione

della sera prima. Anche perché si era riposata – deve essere per questo. Niente acido lattico - . Dovevano essere passati molto più di cinque minuti.

Non si vedeva nessuno in giro, ancora. Tutto pareva ancora più deserto che alle due o alle tre, perché i lampioni si erano spenti e mancavano anche gli occhi malevoli di gatto delle auto che transitavano tra il centro città e San Giovanni – Perché non mi hanno visto? Non hanno visto l’auto rovesciata? Siamo diventati invisibili, devo credere questo? E come è successo? - .

Simona era arrivata finalmente dove cominciavano i palazzi, brutti palazzoni che non lasciavano presagire l’intenzione di aiutarla. Si mise a premere tutti i tasti sui citofoni.

Molti non risposero, chi lo fece dava l’idea di essere molto arrabbiato. Era molto presto, in effetti.

Nonostante quelle voci scontrose e assonnate, avrebbe anche tentato di convincerli, che non era uno scherzo.

Ma aveva un buco in gola.

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Da questo buco che aveva in gola usciva il fiato sibilando prima di poter arrivare a modulare accordi per mezzo delle corde vocali. Non poteva che pronunciare parole mute, parole che non uscivano dalla bocca e che anzi si accavallavano l’una sull’altra, formando dei mucchi inutili sotto la lingua – Devo aver ingoiato qualcosa. Ne sono sicura - .

Si accorse presto che citofonare a sconosciuti non avrebbe portato a nulla, al massimo le avrebbero buttato dell’acqua dal balcone, per vendicarsi – non riesco a parlare, non posso parlare. Cosa è successo alla mia voce? - .

Prese allora a vagare per le vie circostanti, che erano tutti viottoli in salita, schiacciati tra quei brutti palazzoni malevoli e che finivano sempre per ritorcersi, come unghie di Mandarini oziosi, e ributtarla sulla strada principale.

Sembrava una maledizione. Cominciò ad esasperarsi. Non si vedeva nessuno – forse non sono

diventata invisibile, ma tutta la gente è scomparsa. Si, deve essere andata sicuramente così, non c’è altra spiegazione, Non un’altra spiegazione logica, almeno - , poi da lontano scorse un uomo che portava a spasso un piccolo cane, un barboncino forse. Un cagnolino tutto bianco, un bonsai di pecora di cotton fioc. Rimase per un attimo ferma, erano veri? Aveva anche paura potessero scomparire come il resto della gente se avesse attirato la loro attenzione.

Ma non poteva aspettare più a lungo. Aveva già perso un’infinità di tempo.

Corse in quella direzione e per l’eccitazione gesticolava allargando nell’aria fredda le sue lunghe braccia.

Ma quando l’uomo si accorse di lei – e lei vide con stupore che aveva gli occhi truccati e due labbra disegnate con la matita, sotto fiorenti baffi biondi, e radi capelli – si mostrò subito molto spaventato e rimase immobile, paralizzato.

Poté quindi raggiungerlo con un altro paio di grandi passi e afferrarlo per le spalle, scotendolo. Più basso di una decina di centimetri balbettava che gli dispiaceva per il cane, che sarebbe andato da un’altra parte la prossima volta.

Lasciò la presa. Ma cosa stava dicendo? - Si, porterò una busta di plastica con me e non sporcheremo più per

terra. Cacche, quell’uomo stava parlando di cacche di cane. Si poteva fare un

discorso più assurdo in quel momento? Inutile, non c’era al mondo persona che potesse comprenderla.

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In un attimo, l’attimo di quel maledetto incidente che aveva catapultato in aria l’auto dove viaggiavano e la loro stessa vita, per intero, senza sconti, si doveva essere creata una frattura insanabile tra lei e il resto del mondo.

No, non il mondo, solo la gente. È con la gente che non riesci più a spiegarti. Si sedette per terra e cominciò a piangere. Ma anche piangere era assurdo e perciò smise quasi subito. Era fermamente convinta non le restasse altro che starsene seduta a non

fare niente. L’ometto, grato di essersela scampata, allungò in direzione della stradina

più vicina, ben intenzionato a sparire, poi si fermò anche lui, interdetto. Non sembrava esserci più pericolo, quella donna gli voltava le spalle e

non si interessava più a lui. Continuava a pensare che avrebbe fatto molto meglio a farsi gli affari

propri – non mi riguarda. Mi spiace per lei, ma non mi riguarda - , però non riusciva a decidersi ad andarsene e il suo barboncino uggiolava vicino alla donna, spingendole il muso appuntito sotto l’ascella.

Sentiva un odore di sudore che riteneva interessante. Passò altro tempo, era vagamente cosciente che quell’uomo era dietro di

lei, ma oramai poteva prendersi tutto il tempo che voleva. Era troppo tardi. Venti minuti dopo o venticinque, il baffettino si affannava a spiegare

qualcosa a dei poliziotti con un’inequivocabile tono di scusa. Lei riusciva persino a distinguere alcuni brani di frasi, del tipo: “… Non la conosco, mai vista… Correva come una pazza…”.

Una sirena faceva troppo rumore, forse un’autoambulanza. Sognò di Mario – Mario, quanto ti amo. Lo sai? - , ritornando a quella

maledetta macchina abboccata su un fianco. Questa volta ci tornò con intenzione, perché immaginava sarebbe stata una specie di commianto.

Con sua grande sorpresa non lo vide intrappolato nella sua morsa mortale, ma allegro e cordiale che costruiva uno dei suoi amati modellini di aerei.

Ci lavorava con passione, come l’aveva sempre visto fare con quei cosi di plastica con le ali – che lei considerava perfettamente inutili e, insomma, si avvicinava ai quaranta - , circondato dai suoi barattolini di colla e le vaschette con i pezzi avanzati. Una collezione variegata e raccolta in anni, ora poteva vedere anche lei che aveva una certa bellezza

Quando tornerò a casa cosa dovrò farne? Non penso che buttarla sarebbe una cosa giusta e non mi va di regalarla. Probabilmente lascerò tutto così.

- Questo è il più bello di tutti. Le disse e le mostrò l’armatura di un idrovolante che scompariva nelle sue mani che, al confronto, parevano immense, senza proporzione.

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- Sono due anni che ti conosco e dici sempre così di ogni modellino che metti insieme.

Mario abbassò lo sguardo, al piccolo idrovolante. - Mi sa che hai ragione. Faccio aeroplani da quando sono bambino. Un

idrovolante è un buon finale per un modellista, ha un calibrato rapporto di difficoltà di assemblaggio e grazia aerodinamica. E poi… Sorrise… Poi è buono anche ad andare sull’acqua. Ammaraggio, mi sono spesso chiesto come deve essere a pilotare uno di questi cosi.

Ma penso che i piloti non la considerino una cosa eccezionale. Dipende tutto dalla ripetitività.

Non può essere speciale una cosa che faccio tutti i giorni. La tragedia piombò tra loro all’improvviso, se n’erano dimenticati, o ci

avevano provato. Si, ci avevano solo provato. Perché, se no, quelle chiacchiere sugli aerei?

Cosa importava loro degli aerei arrivati a questo punto? - Mi dispiace… - Mi sono anche chiesto… Cominciò lui, facendo intendere che era

passato molto tempo da allora e non che fosse appena successo, come invece era andata e che quindi lo chiedesse solo a titolo di curiosità, non più così importante. Perciò le chiese senza alcun tono di accusa:

-ma perché poi non mi hai salvato? - Non riuscivo a parlare, ho cercato ma… Ho qualcosa in gola che non

funziona. - Però – rispose tornando apparentemente ad occuparsi del minuscolo

idrovolante, e ancora dando l’idea di non voler formulare un’accusa- mi sembra che parli benissimo.

Non poté rispondergli – non è giusto. Non è giusto che tu mi dica così. Non è colpa mia - perché a quel punto svenne del tutto, l’organismo totalmente svuotato.

Forse fu questo a non farla impazzire, alla fine. Che si fosse spento l’interruttore generale prima della crisi definitiva.

Una specie di salvavita. Al pronto soccorso con un’operazione chirurgica non troppo complicata

riuscirono ad estrarle dalla gola una medaglietta che doveva portare attaccata ad una catenina.

La catenina, spezzatasi, s’era persa. Ma il ciondolo si era conficcato a quattro centimetri di profondità. Aveva un lato che era diventato tagliente, dove finiva la barba del Santo,

e che aveva quasi cauterizzato la ferita nel momento stesso in cui era penetrato nella pelle.

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Una vera fortuna, un po’ più a destra e… “Fortuna, fortuna, fortuna. Ma di cosa sta parlando? Come ragiona?

Come ragionate voi tutti?” Al pronto soccorso i paramedici parlavano appunto della fortuna che

aveva avuto la paziente che ora riposava sotto sedativo in una cameretta tranquilla. La fortuna e il caso. La fatalità.

- Poteva capitarle di peggio, era il succo dei loro discorsi, che trovavano unanimi consensi.

Gli infermieri la pensano nello stesso modo davanti a certi avvenimenti. Sicuramente lo facciamo un po’ tutti. - Il Santo l’ha protetta. Se non è un miracolo questo… Un’infermiera con zoccoli ortopedici di qualche misura maggiore della

sua, e che per questo sciabattavano ogni volta che attraversava la corsia, con un rumore che ricordava la suola di uno stivale da gomma sul bagnato, era la più convinta: - Un miracolo, non c’è dubbio. Si farà una nuova vita; in fondo, è così giovane.

- E il ragazzo che era con lei… Intervenne un’infermiera più giovane. Erano fidanzati?

- Si, gli amici della coppia hanno detto di si. - Anche lui è stato portato qui, in quest’ospedale? - Penso di si, non ero di guardia quella notte, volle risponderle u altro. Ma l’infermiera con gli zoccoli troppo grandi zittì tutti dicendo, con aria

di grande mistero, - Come, allora non sapete niente? Il medico non ha ancora potuto

dirglielo, perché continua a non parlare e sembra sempre che non ascolti quando le si parli.

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Mario Campaner IL BACIO DEL SERPENTE

Ancora cinque costrittori e ci si vede la prossima stagione delle piogge. Questo pensavo la sera prima dell’orrore strisciante, mentre guardavo il

fuoco spegnersi ai miei piedi, in bocca il sapore del whisky, qualche goccio per ricordare la civiltà, nel cuore della foresta amazzonica.

Ironia della sorte: il numero di prede che avevamo fissato all’inizio della stagione era già stato ampiamente superato, mai come in quell’anno le precipitazioni erano state abbondanti e ciò aveva favorito la nostra caccia.

Saremmo potuti partire anche quel giorno stesso, dannazione! Ma Fernando non voleva, preferiva sfruttare in pieno quell’occasione di

guadagno per sistemarsi una volta per tutte, già da qualche anno aveva iniziato a mettere da parte del denaro, per aprire una qualche attività che gli avrebbe permesso di vivere anche senza rischiare la pelle quattro mesi l’anno nei luoghi più disparati e selvaggi del pianeta.

-Magari una birreria. Mi confidava ogni tanto, sorridendo. Non posso sopportare l’idea del suo corpo errante nelle nere acque del

Rio, con un mio proiettile in testa. Fernando era un bravo ragazzo, non troppo intelligente ma onesto e

altruista. Io no, io non ero come lui, io avevo lasciato la scuola a diciotto anni

nonostante fossi uno dei migliori della mia classe, non ho più rivisto mio padre da allora, quella fu una decisione presa con il cuore e non con la testa, della quale, pensavo, non mi sarei mai pentito.

Non volevo che la mia vita fosse un monotono scorrere verso la morte, prigioniero di un ufficio, nessuna evasione dal grigiore della città.

Andai a Parigi e poi a Londra, trovai lavoro in un negozio di animali esotici, dove conobbi Fernando.

Arrivò quell’offerta, cacciatore di serpenti per un noto importatore.

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Lo spirito di avventura, la voglia di avere una vita da raccontare ai nipotini, una proposta che non si sarebbe mai più ripetuta.

Finii con l’amare la giungla, di notte in particolare, starmene ore ad accarezzare Cerbero, il possente molosso nostro compagno di spedizioni, vedere le braci spegnersi lentamente, tingendo di rosso la punta dei miei anfibi.

Ascoltare la tenebra intorno a me, quella tenebra viva e pulsante della giungla, animata da elusivi fruscii e dal canto folle delle raganelle sugli alberi, dal grido di qualche carpincho in lontananza e dallo stridere degli insetti.

Occhi gialli nel buio, un giaguaro forse. Cose normali in quel mondo dimenticato, sul corso del Rio Negro, tra il

Venezuela e il Brasile, tre giorni via fiume da San Felipe, tre giorni dalla civiltà.

Ero sicuro che non avrei potuto rinunciare a quella vita, per niente al mondo, amavo troppo le insidie della foresta.

Illuso. Quella notte fu Fernando a svegliarmi, lo vidi in piedi accanto alla mia

branda, il volto alterato, impaurito. -Hai sentito? Ma io non avevo sentito assolutamente nulla, il mio era un sonno

profondo, privo di sogni, lo guardai negli occhi, cercavo parole razionali nella mia mente confusa, cosa poteva averlo spaventato tanto?

-Hai sentito? -No, io... -Delle scosse come di terremoto. -Forti? Fernando non rispose, io non mi capacitavo di come quell’uomo, che

aveva spesso dato prova di grande coraggio e resistenza al dolore, potesse essere posseduto da una paura così cieca, d’altronde era cosa non troppo bizzarra, qualche lieve scossa ogni tanto.

-Non mi pare ci sia niente di strano. -Tu non la hai sentita, questa era diversa... possedeva una qualche

qualità... un battito... -Una tua impressione, il bicchiere di troppo fa questi effetti, torna a

dormire che... Il furente abbaiare di Cerbero mi interruppe, uscimmo di corsa per

vedere cosa lo turbava, il terremoto probabilmente, ma lui reagì ringhiandoci contro, e provando addirittura a mordere Fernando che aveva allungato una mano verso il cane, nel tentativo di accarezzarlo.

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Ed era strano, cazzo. Cerbero non aveva mai morso nessun essere umano, un cane tranquillo e

intelligente, ma ora pareva impazzito, non ci fosse stata la catena a fermarlo ci avrebbe assaliti, schiumava bava bianca e continuava a fissare, accecato dal terrore, un qualche punto non ben definito verso nordest.

Anche il resto della giungla era in subbuglio, non sfuggenti rumori notturni ma tumulto generale, stormi di uccelli in fuga, grida di scimmie negli alberi, altri schiamazzi che nemmeno in pieno giorno avevo mai udito.

-Probabilmente la scossa è stata molto più forte del solito, l’epicentro deve essere qui vicino.

Dissi per convincere non tanto il mio compagno quanto me stesso. Decidemmo di vegliare a turni, io per primo, Fernando sembrava essersi

rassicurato e dopo mezz’ora tornò la calma anche fra gli animali. Ma era una calma apparente, elettrica, bastava un nulla, lo scricchiolio

più debole, per vedere Cerbero scattare in piedi e ringhiare. Mi fumai uno spinello per rilassarmi, e proprio quando ebbi terminato ci

fu il primo degli episodi sui quali ora medito con disperazione, il primo dei segnali di pericolo che avrei dovuto cogliere e che invece ignorai colpevolmente.

Ebbi più volte l’impressione di un rumore flautato proveniente da nordest, ma eliminai ogni fantasiosa congettura con la convinzione che doveva trattarsi della mia immaginazione eccitata, era lei che fantasticando impaurita con la giungla misteriosa produceva quel suono.

Doveva per forza essere una coincidenza se Cerbero tremava quando questo si faceva sentire.

-Domani andrò a dare un occhiata a nordest. Prima di addormentarmi riflettei a lungo su quanto accaduto, sulla

reazione assolutamente imprevedibile degli animali alle presunte scosse sismiche, specialmente sul comportamento di Cerbero e Fernando, a me assolutamente nuovo.

Mi ricordai di Joe, la guida della nostra prima spedizione in quei luoghi. Joe era un ragazzo di colore, nato e vissuto in riva al Rio Negro, figlio di

pescatori. Conosceva benissimo la zona, sapeva come muoversi nella giungla, ma

le sue superstizioni spesso ci avevano impedito nel nostro compito. Più di ogni altra cosa temeva gli Uroplatus, grosse lucertole arboricole e

notturne dal bizzarro aspetto, con occhi verdi enormi ed escrescenze simili a foglie sopra tutto il corpo, a suo dire gli Uroplatus erano per metà demoni

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degli alberi, non bisognava disturbarli se non si voleva che la giungla rispondesse a suo modo.

Pensavo turbato ai trenta Uroplatus che quell’anno avevamo catturato, a come quelle bestie se ne stessero assolutamente immobili dentro le loro teche, non fossero stati valutati 1500 dollari l’uno Fernando li avrebbe liberati all’istante.

Dormii sonni agitati quella notte, feci singolari sogni, di posti fantastici e selvaggi, accomunati dall’oscurità e da una presenza, un qualcosa di strisciante e ambiguo, in essa.

Quella mattina c’incamminammo all’alba verso il presunto epicentro

delle scosse, Fernando era, se possibile, ancora più agitato della notte precedente, anche se tentava di nascondere il suo stato nervoso.

Probabilmente non aveva chiuso occhio, era semplicemente rimasto disteso nel suo giaciglio, pronto a balzare in piedi alla prima vibrazione sospetta, fino all’alba.

Invece, evidentemente confortato dalla luce del sole, io ridevo dei pensieri partoriti sulla soglia del sonno, la paura è figlia della notte, mi dicevo, e marciavo sicuro verso una soluzione razionale ad ogni cosa apparentemente inspiegabile nel buio della giungla.

E la follia è figlia della ragione. Dopo due ore di cammino Fernando ruppe il silenzio calato fra di noi

facendomi notare, non senza un qualche allarmismo in ciò, che non avevamo ancora incontrato un animale, non un cerbiatto non un uccello non una scimmia urlatrice.

Lo rasserenai, sicuramente il terremoto... In seguito a quattro ore di marcia ininterrotta arrivammo ad una specie di

radura in seno a due colline, man mano che avanzavamo in essa la vegetazione si diradava lasciando spazio a delle piccole palme velenose.

Appena fui in grado scorgere chiaramente il centro della grande radura, percepii il sangue gelarmi in corpo, materialmente, il cuore prese a battere con un ritmo alterato, sentii il mio compagno gridare e poi sussurrare qualcosa, una preghiera forse.

In quel momento colsi per la prima volta il significato di paura irrazionale, dinanzi ai nostri occhi non c’era nulla di fis icamente pericoloso, eppure l’istinto della fuga, una folle corsa attraverso la giungla, ci assalì, ci morse con violenza alla bocca dello stomaco.

Ma nel mio cuore non c’era solo paura, anche qualcos’altro, qualcosa che non potrei definire.

Attrazione.

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In mezzo alla radura si erigevano, inquietanti e misteriose, tre nere costruzioni, alte circa quattro metri, somiglianti ai denti di un enorme carnivoro, forgiate in un materiale liscio e simile alla pietra.

I tre abominevoli obelischi rilucevano alla luce del mezzogiorno, sembrava quasi emanassero a loro volta una luminescenza, un’aurea oscura.

-Andiamo a vedere. Avrei voluto dare un tono di sicurezza, apparente è ovvio, a quelle

parole, ma quello che scaturì dalle mie corde vocali fu un sibilo incerto. Presi a camminare in quella direzione senza badare se Fernando mi

seguisse o meno, camminavo fissando i tre denti neri, cercando di capire se la mia era solo un impressione.

Ma non lo era. Fernando urlò, evidentemente mi aveva seguito fin lì, anche lui aveva

visto, aveva capito di cosa si componeva quella specie di massa pulsante attorno alle costruzioni, quel grande cumulo, anch’esso nero, che cambiava freneticamente forma.

Nella mia mente le supposizioni si infiammarono, senza tutta via riuscire a spiegare.

Da un approccio scientifico ad uno totalmente superstizioso, ai limiti dell’assurdità, un pensiero di quelli che Joe avrebbe formulato senza esitare un istante.

Quelle sono rocce composte da uno strano minerale che li attira. Si tratta di un rituale di corteggiamento. La luce nera, quella vogliono. Pregano le loro divinità, i loro dei. Serpenti, si trattava di serpenti, tutti corvini e lucenti, probabilmente tutti

della stessa specie. Raccolte le forze mi avvicinai ancora, la paura era stata sostituita da quel

sentimento, quel sentimento inizialmente appena percettibile, ora divenuto principale nel mio ego.

Attrazione. Distavo solo cinque metri dai denti di pietra, due e mezzo dall’ammasso

che emanava un forte odore, acre, un odore che solo la mia grande esperienza in materia mi permise di riconoscere, l’odore dell’accoppiamento.

Una gigantesca orgia squamosa. Si agitavano freneticamente, scivolavano furiosi nel cuore dell’immonda

visione, lubrificati dal loro stesso sperma, il ritmo degli accoppiamenti si faceva sempre più frenetico, sempre più l’umida massa pulsava e si attorcigliava su se stessa, in se stessa.

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Quelli erano serpenti veramente strani, indubbiamente una specie ancora sconosciuta, con gli occhi completamente blu, senza pupilla, come se fossero ciechi, non più lunghi di un metro, la loro fisionomia era simile a quella delle vipere europee, corte e muscolose.

Neri. Chissà quanto possono valere sul mercato? Ricordai di quel giapponese che aveva acquistato un’esemplare di una

nuova specie di anaconda, quanto lo aveva pagato? 250000 dollari. Un’idea, ancora più folle della situazione in cui mi trovavo, s’insinuò,

strisciò è il termine esatto, nel mio cervello. Presi dal mio zaino il bastone bifido munito di laccio, apposito per il mio

lavoro, preparai il sacco di tela aperto, con calma, mentre a due passi da me si svolgeva un baccanale tanto orrido che nemmeno la più malata delle menti avrebbe potuto concepire.

La fronte imperlata di gelido sudore, le mani tremanti. Calai il mio strumento nel mucchio, con lentezza disarmante, temevo

forse che si accorgessero della mia furtiva presenza? Ne estrassi un grosso esemplare, quell’orrenda bestia sibilante mi guardò

dritto negli occhi, non si contorse rabbiosamente come tutti i serpenti erano soliti fare, ebbi il tremendo presentimento che quello squamato riuscisse a capire cosa stava succedendo, anche se la sua intelligenza, ferma ad uno stato pre-emozionale non avrebbe dovuto consentirglielo.

Avvicinai la mia mano tremante al suo viscido collo, teoricamente la sua testa avrebbe dovuto essere bloccata dal laccio, impedendogli di mordermi.

E così fu, la serpe se ne stava ora avvinghiata attorno al mio braccio, le sue possenti mascelle serrate dal mio polso, stava andando tutto bene, a qualche passo l’orgia continuava, incurante dell’assenza di un suo partecipante.

Ma lui continuava a guardarmi. Delicatamente liberai il mio braccio dalle sue spire, pronto oramai a

gettarlo nel sacco. Fu in meno di un istante. Mi irrigidii innaturalmente, il mio corpo divenne freddo all'improvviso,

immobile, privo di nervo. Gli occhi! La presa della mia mano si affievolì nonostante io tentassi

disperatamente di evitarlo, il serpente, tranquillo, si divincolò quel tanto che bastava per mordermi e fuggire, ritornare al disgustoso ammasso.

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Il dolore fu lacerante, tre brividi violentissimi mi corsero sulla spina dorsale, una sensazione indescrivibile di smarrimento e sofferenza fisica, la vista mi si annebbiò, sentivo i sensi abbandonarmi, il cuore rallentare.

Il buio. Eterno? Il dio serpente brucia, avvelena, uccide, ma può anche scaldare, dare

nuova vita. Il dio serpente è donna è uomo, è male è bene, nel suo viscido grembo è

germinato il mondo. Il dio serpente viene dagli inferi ma la sua fine, o il suo inizio, è il sole. Il dio serpente è eterno. Al mio risveglio la prima cosa che notai fu il cambiamento della luce,

una luce inaspettata, candida e meno martellante di quanto mi aspettassi. Il motivo fu presto chiarito: era mattina. Svenuto per quindici ore circa, ma forse di più a giudicare dal buco nello

stomaco dolente, dalle mie membra disidratate. I neri denti. L’orgia delle serpi. Spariti, esterrefatto mi guardai intorno alla ricerca di almeno uno di quei

rettili degenerati, ma tutto pareva essersi dissolto nel nulla, di quelle nere costruzioni non restava nemmeno il segno sul terreno.

Tutto un incubo? No, questo non era possibile, sulla mia mano il marchio profondo del

tetro rettile era ancora pulsante, la ferita si era gonfiata e colorata di un brutto violaceo, ma non doveva trattarsi di un veleno particolarmente potente.

Nonostante tutto stavo bene, terribilmente bene, mangiai con foga animale tutte le provviste contenute nello zaino e ben presto mi incamminai verso sudovest, ricordavo ancora discretamente la strada e non mi sarebbe stato difficile trovare l’accampamento.

Ci arrivai verso sera, mi ero perso ben tre volte e, alla fine, per trovarlo

avevo dovuto costeggiare il Rio Negro. La natura aveva ripreso il suo naturale corso, non c’era più quella

tensione elettrica palpabile nella notte delle scosse e neanche l’estraneo silenzio della mattina precedente.

Mi sentivo forte, pieno di energia, pronto ad una nuova battuta di caccia attraverso putride paludi, ma ciò che trovai all’accampamento mi rese furibondo.

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Fernando aveva preparato tutto per la partenza, smontato ogni cosa, anche i contenitori per gli animali, che ora erano tutti ammassati in un angolo, vuoti.

La nostra caccia migliore buttata via. Lo vidi, nervoso, all’attracco della barca, che presumibilmente sarebbe

arrivata presto, aveva fatto tutto in fretta e furia, di sicuro nessuno sarebbe venuto a cercarmi.

Mi avvicinai, e lui non si accorse di me fino a quando non gli fui qualche metro dietro.

Si voltò di scatto e mi guardò come avesse visto un demone vendicatore venuto direttamente dagli inferi.

-Pensavo fossi morto... La sua voce era tremula, i suoi occhi correvano veloci da me a ciò che ci

stava intorno. -Non sono morto, che cazzo hai fatto? -Senti... hai visto anche tu... ho capito... la natura è più forte di quanto

noi crediamo, è più grande... Joe aveva ragione... hai visto anche tu, come puoi non capire!

Le ultime parole sgorgarono faticosamente dalla sua bocca, sotto forma di grido strozzato, era sudato e spaventato, terribilmente spaventato.

Da me. -Sei... Ma venni interrotto dal suo urlo, un urlo colmo di angoscia, mi guardava

esterrefatto la mano, che, a dire il vero, appariva molto più sana di quando mi ero svegliato, buona parte del violaceo era scomparso ed era anche considerevolmente meno gonfia.

-La mano... -Mi hanno morso, non deve essere un veleno potente, anzi, sto già

guarendo. Continuava a fissarla. -Sei infetto... Un attimo dopo, era morto. I suoi occhi si erano mossi rapidamente, senza darmi il tempo di pensare

ma permettendomi di carpire le sue intenzioni, si erano posati sul machete accanto a lui, infilzato nella corteccia di un grande albero.

La mia mano, quella mano, si mosse da sola, senza che io la controllassi, veloce come non era mai stata, s’infilò nella mia giacca e ne estrasse una pistola, la mia pistola.

Il suo braccio si era appena posato sul machete che io avevo già premuto il grilletto, rimase immobile, un rivolo di sangue scendeva sul suo occhio.

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Ho pensato molto a quell’istante, a come ho freddato il mio migliore amico, e più ci penso più mi pare di non aver pensato che la mano abbia agito di sua volontà, priva di controllo, che il pensiero di usare la pisto la sia entrato nella mia mente quando questa già era salda nella mia mano, istinto?

Non è finita qui, magari lo fosse, non eviterei ogni contatto con la razza umana se la mia “malattia” si limitasse a quell’episodio, non me ne starei rinchiuso in questa stanza, subaffittata per pochi soldi, nella zona povera di Londra.

Si tratta di Leonora, io amavo quella donna più di ogni altra cosa, volevo che la mia vita ricominciasse, lontano dai pericoli e dai remoti misteri della giungla, sotto il suo segno, con i suoi capelli biondo cenere e i suoi occhi grigi accanto.

Ma una sera di maggio, dopo l’amplesso, Leonora ha detto di non sentirsi bene, il suo volto da bambina è sbiancato, le sue morbide membra sono divenute rigide, fredde...

Ed io mi ostinavo a non capire. I dottori non hanno potuto salvarla hanno detto che è morta avvelenata

dopo una lenta agonia, avvelenata da un veleno molto simile, per struttura molecolare, a quello di un viperide, nel mio sperma!

Ora mi cercano, ovunque, hanno indagato su di me, hanno scoperto di Fernando, di come non sia più ritornato da quella nefasta spedizione e non perché è andato a vivere in Venezuela, secondo la mia versione.

Passerò il resto della mia vita come cavia in un laboratorio? Non credo, i miei occhi un tempo castani iniziano a tingersi di azzurro,

sempre più spesso vedo la mia pelle farsi opaca e staccarsi, le mie capacità visive così come quelle sensitive vanno cambiando...

Mentirei se negassi di sentire l’oscuro richiamo della giungla, nei miei sogni e nei miei pensieri, riuscirò a resistere?

Non lo so, so solo che la mia anima è ancora umana e che una via di fuga, per quanto difficile, mi resta.

La morte.

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Walter Reno CUCITURE

La spiaggia era una conca sferzata dal vento, deserta in quel caldo giorno d'Ottobre con tutti gli esercizi chiusi e le bancarelle coperte dai teli verdi sporchi di terra; la tempesta del giorno prima aveva ripulito il mare e infestato la battigia: una scia di elementi naufraghi correva lungo tutta la lunghezza del litorale e terminava lungo il muretto del porto adiacente.

Il giorno era buono per una passeggiata, aveva pensato Marco mentre s'incamminava verso un tratto di spiaggia selvaggia coi piedi che sprofondavano nella sabbia umida, le scarpe da tennis tenute in una mano e la giacchetta ocra che gli penzolava da una spalla. Chiunque l'avesse guardato avrebbe visto un uomo alto e abbronzato, coi capelli troppo lunghi e ingrigiti e la barba sfatta; una considerevole gobba pronunciava il suo ventre di bevitore e le sembianze con l'uomo che prima era stato stavano scomparendo lentamente, come la stagione calda e le sue baldorie erano scomparse dalla spiaggia poche settimane prima.

Quella mattina il sogno l'aveva tradito per un incubo e di buon ora si era svegliato di soprassalto nel letto, tastando inconsciamente il giaciglio al suo lato e non meravigliandosi di trovarlo vuoto e freddo: Marta se n'era andata da dodici mesi oramai. C'era ancora la sua roba negli armadi, i suoi cosmetici nei cassetti e i gioielli tenuti al sicuro in una cassetta immurata dietro una riproduzione di Van Gogh. Se n'era andata con un solo abito, un solo paio di scarpe e un'ultima e infausta predica urlata per le scale e che ancora lo rodeva: che quella piccola baldracca ti strozzi nel sonno quando capirà che razza di aborto umano sei ! Vigliacco ! Vigliacco ! Poi Marta aveva sbattuto la porta d'ingresso e lui non l'aveva più rivista. Nessuna autorità giudiziaria si era presentata sventolando un esposto di separazione fino a quel momento o una terribile e temuta denuncia per molestia di minore. Quella cagna alla fine aveva tenuto la bocca chiusa. Meglio così per tutti.

Aveva spento il televisore che era rimasto acceso durante la notte e si era trascinato in bagno, facendosi largo fra le bottiglie di birra e il ciarpame

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sparso sul pavimento. La stanza puzzava di fumo e di alcolici e raramente l'apriva di giorno. Solo di notte spalancava le impose e sostava ad ascoltare le onde che s'infrangevano sulla cosa, aspettando un suo richiamo che mai arrivava.

Nel bagno sudicio si era lavato e vestito in fretta e furia, guardandosi nello specchio macchiato e sentendosi troppo vecchio dall'ultima volta che aveva visto la sua piccola. Lui l'aveva aspetta con estrema pazienza per tutto quel tempo, non dubitando mai della sua onestà ma vacillando talvolta nella misantropia, evitando di uscire per settimane di fila , mentre la segreteria telefonica si riempiva di messaggi che lui ripetutamente ignorava. Le sole voci che ascoltava erano le sue, che si ripetevano all'infinito come un disco con una pista rovinata: sarebbe tornata da lui ? l'avrebbe riconosciuto ? l'avrebbe amato come prima ? La sua piccola che era entrata nella sua squallida vita all'improvviso, aveva spodestato la cagna regina e l'aveva riportato agli anni della sua gioventù con una magia. Aveva il cuore rapito dal suo ricordo: il suo corpo liscio, teso e acerbo; l'incommensurabile gusto della sua fica in bocca. A volte gli era sembrato di impazzire, quando il ricordo e le insicurezze tornavano a tormentarlo. Dov'era finita per tutto quel tempo ? Perché non lo chiamava più ? Aveva urlato, inveito contro Dio e la schiera di apostoli, aveva bevuto, fumato e dormito dopo essersi furiosamente masturbato. Una mattina si era svegliato tossendo e con la gola in fiamme e l'esatta sensazione che lei fosse venuta dietro la porta per svegliarlo, perché si era addormentato con la sigaretta fra le dita e aveva bruciato mezzo materasso. Aveva urlato quando aveva scoperto di avere un ago scintillante infilato fra l'indice e il medio della mano destra, spinto nella carne fino alla cruna.

Ma ora, ora era giunto il tempo. Nel bagno non era riuscito a radersi tanto le mani gli tremavano. Ora che l'aveva chiamato ancora una volta non c'era più ragione d'indugiare. Doveva andare al più presto a raggiungerla alla spiaggia. Il messaggio vergato con la sua bella e sottile grafia e spinto sotto la porta non aveva dato adito a dubbio. La lettera era piena del suo profumo, un profumo di rose selvatiche, e lui ne era rimasto estasiato. L'aveva letto almeno una dozzina di volte, lasciandosi sfuggire grosse lacrime dagli occhi e tirando su sonori colpi col naso. Aveva preso due aspirine, sperando che in qualche modo riuscissero a calmare gli spasmi dei suoi nervi. Poi era uscito ed era sceso sulla spiaggia.

Ora camminava spedito col vento fra i capelli, gli occhi celesti a scrutare l'immensità dell'orizzonte mentre la sua mente sognava di lei. I gabbiani stridevano nel cielo maculato di nubi, virando pigramente sopra lo smeraldo marino e le barche distanti lanciavano suoni nasali e misteriosi

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,che si perdevano fra il rombo delle onde che s'ingrossavano e ingoiavano la sabbia con rinnovata forza.

Attraversò una piccola duna erbosa e la vide. Il suo cuore si fermò per un breve istante.

Lei era la, seduta a gambe incrociate sulla sabbia e col mento leggermente spinto in fuori, gli occhi chiusi e la testa inclinata al cielo, ad ascoltare il vento, ad ascoltare il mare e tutti gli elementi che alimentavano la sua genialità artistica. Poi l'aveva udito e si era voltata con un bel sorriso stampato in volto, i capelli castani al galoppo nel vento e il prendisole giallo che si gonfiava come una vela sotto la sua pelle troppo scura. Era rimasta la a sorridergli per tutto il tempo, la sua diciottenne... e lui, che era oramai alla soglia dei quaranta, non aveva fatto altro che lasciarsi rapire dalla purezza della sua gioventù e dalla semplicità e dalla schiettezza del suo corpo.

-Ciao - Marco le sedette accanto. Il cuore era un tamburo nel suo petto. -Ciao, piccola - Lei gli diede una leggera pacca sulla schiena perché odiava sentirsi

chiamare piccola. - Alla fine sei venuto. Ero stanca di aspettare qui tutta sola. Questo posto

è così malinconico quando non c'è nessuno che mette un po' di allegria. Sembra raccogliere tutta la tristezza di questo mondo e scagliartela addosso. - si strinse le braccia sul seno appena pronunciato. - Hai letto il mio messaggio dunque. Dovevo vederti ancora una volta. -

Lui le passò un braccio attorno alla schiena, strisciando volutamente il palmo della mano contro la sua pelle nuda e fresca. La baciò su una guancia. Il suo profumo gli fece ricordare le loro copule, furibonde e clandestine della primavera scorsa. Ah, quanto gli mancavano quelle giornate di infiniti peccati.

- Mi sei mancata per tutto questo tempo. - le sussurrò all'orecchio. - E tu sei mancato a me. Ma questa separazione è stata necessaria. Ad un

certo momento ho dovuto smettere di vederti. Ho sofferto, ovviamente. Ma era così che doveva essere.-

- Perché ?- - Il mio lavoro non poteva aspettare. Poi è stato tutto più difficile ma alla

fine ce l'ho fatta ugualmente. Devo ringraziare i miei genitori per questo. Mi hanno aiutata moltissimo per tutta l'estate. Se non fosse stato per loro non sarebbe mai progredita. -

- Parli della tua scultura ? - - E di chi altrimenti ? E' la cosa più importante della mia vita. Ci ho

dedicato anima e corpo fino a star male. Mi hanno ricoverato in ospedale.

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E' stato orribile e ho sofferto per parecchi giorni. Quando mi hanno dimesso hanno detto ai miei genitori che dovevo rimanere lontana dal mio lavoro. Questo mi ha fatto star male ancora, ma poi tutto si è sistemato nel migliore dei modi. -

Per un po' rimasero in silenzio, stretti l'uno all'atra a guardare il moto delle onde e il lento migrare delle nuvole nel cielo. Poi lui parlò.

- Ti ho sognato poco prima dell'alba. - - Un sogno triste ? - - Non triste, ma in parte terribile.- - C'era anche tua moglie nel sogno ? - - Come lo sai ?- - Sono strana, no ?- - Non l'ho mai pensato che sei strana. - - Eppure l'hai detto mesi fa. Tutti gli artisti sono strani. - Marco si morse la lingua. - Non preoccuparti di aver sbagliato, hai perfettamente ragione. Mi sento

strana. Ora che sono giunta quasi alla fine mi sento come svuotata, privata di qualcosa di mio. E' come se una parte di me mancasse. So che dentro a quella stanza c'è tutta la mia vita... eppure, chi lo sa...-

- E' naturale sentirsi abbandonati dall'opera una volta che è giunta a compimento. Credo che faccia parte delle regole del gioco. - disse Marco.

Questo sembrò irritare la ragazza. Si girò con uno scatto verso di lui, con gli occhi fiammeggianti e collerici. - Quali regole ? L'arte non ha regole. Le barriere sono per gli inetti e gli imbecilli che si credono degli artisti. Questi luoghi comuni sono idiozie belle e buone. Mi fanno impazzire dalla rabbia !-

- Volevo solo... - - No, non volevi essermi di aiuto. Io non sto mica ammazzando un

giorno triste quaggiù. Qui sto creando, anche in questo momento, mentre parliamo. Ma non c'è bisogno di dire altro. So quello che sei venuto a fare, so quali sono i tuoi desideri, i tuoi intenti. Io li conosco perché li ho cuciti tutti quanti e ora sono miei. -

Un raggio di sole comparve da una nuvola e le rischiarò il viso teso, mentre una lacrima le si ingravidava all'angolo di un occhio e crollava lungo la guancia. Trattenne lo sguardo fisso su di lui. - E' tutto intorno, capisci amor mio ? Vengono da me e io non posso fare altro che... che modellarli. Ignorarli mi farebbe soffrire di più, perché in fondo in fondo l'arte non è che una maledizione dell'anima e una condanna per il corpo.-

- Se le mie parole ti hanno recato offesa di chiedo scusa.- Le sfiorò il braccio con la mano e lei lo scostò. La ragazza sospirò, guardandosi le mani.

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- Credo che tu la debba vedere - disse alla fine. Si alzarono entrambi dalla sabbia e si spazzolarono i vestiti. Quindi si

avviarono verso la macchina di lei senza parlare. La ragazza fermò la macchina di fronte a un vecchio e basso fabbricato

di cemento e mattoni rossi, appena fuori città. -Questo è il mio laboratorio - disse. - Un tempo apparteneva ad un mio

parente. Poi è morto pazzo. - finì con un breve risolino che Marco trovò fuori luogo. Spinse il tasto del telecomando e l'antiquato cancello si aprì silenziosamente. Lei accelerò la decappottabile e la guidò in un parcheggio infestato dalla gramigna e dai rampicanti selvatici.

Scesero. Lei gli fece strada attraverso il decadente edificio, aprendo troppe porte e

passando attraverso troppe stanze vuote e puzzolenti. Marco si chiedeva come una ragazza sana di mente potesse lavorare tutta sola in un posto del genere, in special modo la notte. Poi i suoi pensieri vennero distratti dai ganci che pendevano da una sbarra al soffitto. Capì subito in che genere di posto si trovava.

- Ma, ma questo è un mattatoio. - - Era - disse lei. - E' stato visitando questo posto la prima volta che ho

avuto l'idea per la mia scultura. Mio padre ha ereditato tutto quanto... ti ricordi il mio parente morto pazzo ? Beh, dicono che si sia ucciso proprio qui dentro. Naturalmente so che è una bugia che si era inventato mio padre per scoraggiarmi nei miei intenti. Lui voleva farci una discoteca. Sai che spasso. Da questa parte. -

La ragazza azionò un interruttore e una fila di luci al neon si accesero sfavillando, rivelando un'angusta scala di mattoni che conduceva al piano sottostante. Mentre scendevano di sotto Marco udì un ronzio elettrico farsi sempre più distinto e quando raggiunsero il salone principale capì da dove arrivavano: sui due lati della stanza erano state ricavate tre porte munite di oblò. Prima che potesse aprir bocca la ragazza parlò per lui.

- Quelli sono freezer. Funzionavano ancora per fortuna. Mi sarebbe costato un capitale ripararli con quello che costa la manodopera al giorno d'oggi. Ma, mi stai seguendo ?-

No, Marco non la stava seguendo affatto. Il suo sguardo si era concentrato nell'identificare un oggetto abbandonato a terra, ma la stanza era troppo poco illuminata per poterlo distinguere con chiarezza. Fece qualche passo avanti.

La ragazza lo prese per un polso e lo trattenne. I suoi occhi erano grandi e pieni di dubbio.

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- Che c'è amor mio ? Non la vuoi vedere la mia scultura. E' laggiù. - indicò la porta al centro delle tre che occupavano la parete. - Ma ti avverto, fa freddo. -

A malincuore Marco si lasciò trascinare verso i frigoriferi. La sensazione di non voler spingersi oltre, di non volere guardare all'interno di quella cella frigorifera era forte in lui, ciononostante non riuscì a divincolarsi dalla stretta della ragazza che quasi lo trascinava. Si sentiva come sull'orlo di una fossa senza fine, mentre tentava di mantenere disperatamente l'equilibrio. Aveva la bocca amara, il naso pieno di uno strano odore dolciastro e pungente. La ragazza spinse un tasto. La porta della cella frigorifera sbuffò, scivolando sui sui binari e fermandosi a lato. Una fine nebbia bianca si materializzò a terra, formando pigre volute sul bordo della porta. E Marco vide la scultura.

- Vedi - disse la ragazza. - Vedi la qualità del materiale ? Ho dovuto fare varie ricerche, inventarmi espedienti sempre nuovi per portarli quaggiù...-

Marco non la sentiva. La mandibola era cascata fino al limite concesso dai sui muscoli e aveva la bocca che formava una O perfetta. I suoi occhi erano spalancati a fissarne altri mille, dislocati senza arbitrio sulla scultura.

Soprattutto non riusciva a smettere di guardare la testa della donna spinta in avanti, le gote squarciate e tirate in un lifting di follia, il moncherino peloso completo di piede che gli fuoriusciva dalla bocca, il paio di pollici anneriti che le spuntavano delle orbite vuote.

Volle urlare ma non ci riuscì. La sua bocca era bloccata in un'eterna espressione di sbigottimento. Al contrario la ragazza era animata da un'insolita allegria.

- Che ne dici, allora ? Li ho cuciti con gusto, no ? Laggiù, se guardi bene, c'è tua moglie Marta e qui, la mamma e il papà. Li il piccolo Andrea. Sono sempre stati inseparabili in vita mah... mi è dispiaciuto non averli più intorno. Loro non volevano..., beh sai, dopo che tu, cioè noi... Volevano tenersi il nostro bambino, capisci ? Ma dove stai andando ?-

Marco camminava all'indietro, a piccoli passi. Le mani contratte ad artiglio. Lo sguardo lacerato da quell'abominio. Poco dopo inciampò in qualcosa di duro e andò a gambe all'aria. Era la cosa che aveva visto abbandonata nel centro della stanza. E prima di battere la testa e di svenire la vide, la vide. Era la carrozzina vuota che aveva contenuto il loro bambino.

... La ragazza era seduta sulla spiaggia a guardare il mare. Era primavera e

le prime orde di turisti avevano invaso la costa coi loro schiamazzi e i loro

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giochi. La ragazza era felice di tutto questo trambusto. La rendeva allegra, viva. La brezza le si intrufolava fra i capelli e lei chiudeva gli occhi sognando nuovi amori.

Un'ombra le si sparò davanti. Alzò lo sguardo e lo vide. Era un ragazzo di forse sedici anni, il petto glabro e muscoloso, i capelli ricci e rossastri. - Hi, Bella !- le disse. - I've never seen such a beautiful, pretty, pair of eyes. -

Lei gli sorrise amabilmente.

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Giansant ATTIMI DI FOLLIA IN REWIND

scena prima.. Sul freddo pavimento di marmo bianco venato di rosa giacciono quelle

che un tempo non troppo lontano erano cinque persone. Tre sono donne. La scena di questo orrendo massacro è un ampio bagno arredato con

molto buon gusto. I cadaveri e il sangue, però, non fanno immediatamente saltare all’occhio la qualità e la raffinatezza dei mobili e dei sanitari.

Immersa nella vasca da bagno – una splendida Jacuzzi – giace il corpo nudo di Marianella, diciassettenne, studentessa liceale. Marianella è stata la prima dei cinque a morire, innescando, involontariamente, con la sua morte una catena inarrestabile di eventi che ha avuto come epilogo la triste scena ora sotto i nostri occhi. Vicino a lei c’è un phon che galleggia nell’acqua come un pesce morto. È stato quello ad uccidere Marianella.

Disteso su un fianco ai piedi della vasca c’è un ragazzo vestito in maglietta e pantaloni a tre quarti, è Vittorio, ventunenne, studente universitario di medicina. La T – shirt è totalmente inzuppata del suo sangue vermiglio, che ancora scaturisce, seppur meno copiosamente di prima, dai fori provocati da tre proiettili. Ha un bel viso, coi lineamenti delicati, orecchie piccole, labbra sottili – appena un tratto di pennello, se fossero state dipinte in un quadro – e un naso un po’ più grosso della media, a incorniciare il tutto, una folta chioma di capelli biondi decolorati. Sarebbe un ragazzo piacevole da vedere, se non fosse per l’espressione di terrore che ha stampata in volto.

Un’altra ragazza, coperta solo da uno striminzito asciugamano, di quel tipo che è facile trovare negli alberghi, giace lungo distesa sul pavimento. Lei è Chiara, diciottenne, commessa in un negozio d’abbigliamento. Ha un bel visino, o per lo meno è bella la metà che ne rimane, perché l’altra parte le è stata strappata via da un colpo di pistola sparato a bruciapelo, ed è andata a imbrattare il muro dietro di lei, creando un singolare e a suo modo terrificante ventaglio di spruzzi.

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A fianco di Chiara c’è il corpo del secondo uomo, impugna un revolver munito di silenziatore. Il suo nome è Piero, anche lui ventunenne, anche lui studente di medicina, nonché fidanzato di Marianella. L’indice puntato sul grilletto e la tempia forata da un proiettile lasciano poco spazio all’immaginazione, per quanto riguarda la sua fine.

L’ultimo cadavere è quello di una donna, Roberta, ventiduenne, studentessa di legge. È lei, tra tutti, ad aver fatto la fine peggiore, in quanto la sua testa, staccata dal corpo, osserva con occhi freddi, aperti, dall’alto del water, mentre il resto del suo corpo giace vicino ad un’accetta.

scena seconda.. Nel bagno giacciono tre cadaveri, uno nella vasca, due distesi sul

pavimento, martoriati da colpi di pistola. Un uomo e una donna sono in piedi a contemplare la scena, vivi.

“Piero, mio Dio”, urla la donna. “Che cazzo hai combinato?!” Lui la guarda con una faccia mefistofelica e gli occhi iniettati di sangue.

“Cristo santo, Robertina cara, LA VUOI PIANTARE DI BLATERARE? STO PENSANDO!” In mano stringe la pistola e, nel gridarle addosso, la muove convulsamente contro di lei.

“Tieni lontano da me quella pistola! Non puntarmela addosso, ti ho detto!”

Piero la guarda con occhi di ghiaccio, lame taglienti per Roberta, e le sussurra piano: “Non gridare.”

“Ma… ma che cosa possiamo fare, ora?” Roberta scoppia a piangere. “Robi, non piangere…” Fa per avvicinarsi a lei ma viene respinto. “Non ti avvicinare!” Anche

stavolta Roberta urla, ma lui sembra non farci caso. “Chiama la polizia.” “Zuccherino, non posso chiamare la polizia: mi arrestano se lo faccio.

Car – ce – re, zuccherino, rendo l’idea?” Ora, pensa Roberta, la sua mente è del tutto ottenebrata dalla follia. Lei bisbiglia qualcosa. “Cosa?” fa lui. “Chiama la polizia…” La sia voce è poco più di un sussurro. “Non posso.” La sua voce è, invece, dolce, come se sussurrasse parole

d’amore. “TI HO DETTO CHIAMALA!” Questa volta è lei ad urlare, m lui non

ne rimane sorpreso. Tace, anzi, per un minuto o due, durante i quali rimira il macabro spettacolo intorno a loro.

Finalmente risponde. “Se è questo che vuoi, andrò a chiamarla.” Nella mente, Roberta ringrazia tutta la Sacra Famiglia.

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Piero esce dalla stanza, lasciandola sola. Roberta, evitando i cadaveri di quelli che una volta erano i suoi amici, si siede sul water, appoggiando i gomiti alle ginocchia e mettendosi le mani sulla faccia, a smorzare i singhiozzi. Ma cerca di non piangere, o almeno di farlo sommessamente, perché vuole sentire quello che, al di là della porta chiusa

(ma perché mai l’avrà chiusa) Piero sta raccontando alla polizia. Sente: “Pronto? C’è… c’è stato un massacro, molti morti… tre…Sì,

nell’albergo Splendor, a Palma de Maiorca. No… cioè, sì, sappiamo chi è stato… No, niente feriti. Venite subito. Presto…” Poi più nulla per cinque minuti. L’angoscia prende il sopravvento su di lei. Smette di singhiozzare, si leva le mani dagli occhi e si alza in piedi. Non può che sospirare di sollievo, quando vede, nel lavandino, la pistola di Piero. Ora non le resta che andare a vedere dove si è cacciato. Fuggire era inutile, perché anche un cieco avrebbe notato la sua camicia macchiata di sangue, e, senza la pistola, non poteva farla finita in modo indolore.

Ma ad un folle cosa importa di andarsene in modo indolore? Con cautela esce dalla stanza e si ritrova in camera da letto, dove cinque

letti ancora da rifare indicano che non sono ancora passate le donne della pulizia e che quindi è ancora mattina.

Buttato su uno dei letti c’è il piccolo cordless dell’albergo, Piero avrà usato quello per chiamare…

Un terribile dubbio l’assale, di scatto s’impossessa del telefono e schiaccia il tasto che ripete l’ultima chiamata. Roberta lancia un urlo quando sente: “Servizio meteo isola di Maiorca. La giornata di oggi sarà caratterizzata da bel tempo con temperature che supereranno…”

Col cuore colmo di terrore, Roberta si volta verso l’uscita della camera, con tutte le intenzioni di abbandonare di corsa quel posto maledetto. Quasi sviene quando vede Piero guardarla con gli occhi fuori dalle orbite per l’eccitazione e un ghigno di follia in volto.

“Piero, ti prego”, gli sussurra, ma è inutile. Roberta si accorge solo ora che il ragazzo dallo sguardo allucinato che blocca l’uscita regge in mano una di quelle accette da usare solo in caso d’incendio.

Non le resta che scappare in bagno, ma Piero è veloce quanto lei e s’infila nella stanza prima che lei abbia il tempo di chiudere la porta.

Roberta urla, subito dopo un colpo di scure le fa partire via la testa. Il corpo rimane per un attimo in piedi; dal collo mozzato, come da una macabra fontana, zampilla del sangue.

Piero prende la testa di Roberta per i capelli e la posiziona sul water, quindi si punta la pistola alla tempia e preme il grilletto.

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scena terza.. La porta del bagno si apre. Entra Piero. Il suo sguardo si posa sul corpo

nella vasca da bagno. Marianella è morta davvero – fino a pochi istanti prima non voleva credere di aver udito davvero un grido strozzato. Un asciugacapelli è caduto nella vasca da bagno e ha fulminato la sua ragazza, Piero sta per dare di stomaco ma si trattiene.

Il suo sguardo si sposta poi sulle altre due persone che osservano incredule la scena. Il suo più caro amico Vittorio e Chiara, la sua ragazza. Anche loro, come lui non hanno l’aria di stare granché bene. Lei, in particolare: i suoi occhi sono vacui e opachi, come se fosse morta anche lei insieme a Marianella.

Ma non è così, nella vasca c’è la sua ragazza, non la fottuta Chiara! Fa capolino sulla scena un altro personaggio, Roberta che, con la sua

professionalità analitica, subito pensa a come possono essere andati i fatti. Di certo Marianella si stava facendo il bagno, ed è probabile che Chiara, avvolta com’è nella salviettina da bagno, avesse appena finito di lavarsi a sua volta. Magari si stava asciugando i capelli col phon. Ecco com’è successo, quel dannato aggeggio le sfugge di mano e va a finire nella vasca. È stato per forza un incidente, pensa, non può essere stato altro.

Ma Piero non la pensa così. Piero, infatti, sta ripercorrendo con la mente gli ultimi minuti: lui è in

camera sua a farsi candidamente i cazzi suoi e sente l’urlo terribile che della vita che viene strappata via dalla morte e si precipita in bagno.

Tutto qui. Non una parola. E un solo grido, dannazione! Un solo fottutissimo grido! Ha gridato solo Marianella, non quella puttana di Chiara, né Vittorio.

Perché? Perché loro non avevano motivo di gridare, essendosi preparati alla

scena. Avendo ucciso Marianella… “Tu stronzo”, dice Piero rivolto a Vittorio; “l’hai uccisa!” Vittorio lo guarda, gli occhi persi nel vuoto. Tace. Al colmo dell’ira, Piero esce dalla stanza, urtando con una spallata

Roberta, incapace di muoversi e di parlare, tanto da riuscire a malapena a respirare.

“Dove vai”, gli chiede Chiara, ma non ottiene risposta. Nella stanza regna il silenzio. Vittorio, Roberta e Chiara sembrano

statue di sale, nessuno ha il coraggio di dire niente, riescono solo a scambiarsi furtive occhiate.

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È ormai palese che Piero sia pazzo. Il silenzio è interrotto dall’entrata di un sempre più folle Piero. Non è

solo: è in compagnia di una Colt. “PAGHERAI”, urla a Vittorio, ed esplode tre colpi. Cade su un fianco,

morto, il petto sconquassato. Nessuna delle due donne lancia un grido – e a Piero, d’altronde, non

viene in mente che così possa essere stato anche per Marianella. Roberta sembra addirittura essere altrove, su una luna di Saturno, o giù di lì, mentre il respiro di Chiara si fa più affannoso.

Ed è proprio verso di lei che Piero si volta. “Tu eri d’accordo con lui, non è vero?” Più che una domanda, un’affermazione.

“No Piero…” balbetta lei. “Ehi?” la voce di Piero si fa più rassicurante. “Hai paura?” Si avvicina a

lei con aria inoffensiva; lei non si muove. “U-un poco, sì.” “Ah, fai bene.” In un attimo Chiara si ritrova con la pistola puntata in

faccia. L’attimo dopo Piero spara e pezzi della sua faccia imbrattano il muro dietro di lei.

Piero si gira verso Roberta. Scena quarta.. Chiara si chiede perché si sta asciugando i capelli, in quel momento, se

poi dovrà bagnarseli di nuovo con l’acqua salata del mare. Manifesta i suoi dubbi a Marianella, che si sta facendo un bagno. “Perché sei scema!” le risponde quella ridendo. “E allora tu, che fai il bagno alle nove?” Mentre Chiara lo dice,

Marianella muove freneticamente i piedi, mimando i primi goffi tentativi di un bimbetto che impara a nuotare.

“Beh, siamo sceme uguali…” “No, tu di più!” Le fa una linguaccia. “Gneeee!” Insomma, tutto procede nel migliore dei modi, con calma e allegria. Fino a che Chiara non scivola su dell’acqua che Marianella ha fatto

cadere mentre sguazzava scioccamente come una bambina. Chiara riesce a non schiantarsi a terra, ma per farlo deve aggrapparsi al

lavandino, lasciandosi sfuggire dalle mani l’asciugacapelli, che cade nella vasca.

Marianella grida come un’animale sgozzato, mentre i suoi occhi schizzano fuori dalle orbite, tanto che sembrano scoppiare.

Alla fine di tutto, si leva una penetrante puzza di bruciato.

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scena quinta.. Roberta apre un occhio e guarda l’ora dalla sveglietta sul comodino: le

cinque e trenta. Ancora presto, pensa, ma comunque oggi sarà una giornata

meravigliosa, ne sono certa. Chiude gli occhi e si rimette a dormire.

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Lorenzo Nicotra L’ECO

La sedia a dondolo era il posto preferito della nonna. Si sedeva sempre lì, dopo pranzo, e parlava con Milo e raccontava, e

descriveva cose meravigliose che nessuno tranne lei aveva visto. Milo era un buon ascoltatore, nonostante la sua giovane età, e non gli

dispiaceva imparare cose nuove. Nonna posò il libro che stava leggendo e si stiracchiò nella sedia. Il

legno cigolò e sussurrò, e il dondolìo si interruppe. Milo guardava dalla finestra, osservava la neve che si scioglieva sotto i

raggi sempre più caldi di un sole bruciante. Fra poco tutti gli alberi sarebbero stati verdi, tutte le case sarebbero state

disseppellite dal manto bianco che le aveva cullate per tutto l’inverno. Già molti tetti erano asciutti, e molte colline erano di un verde brillante. Nonna soffriva sempre più di artrite, e i dolori si accentuavano con

l’inverno. Ma quell’anno, stranamente, sembrava che l’artrite non l’avesse fatta soffrire come gli anni precedenti.

Milo ricordava i dolori ch’ella aveva dovuto sopportare l’anno prima. Non ti fa più male la tua schiena? chiese, con l’ingenuità e la

curiosità tipiche della sua giovane età. Quest’anno no rispose pacatamente nonna, sorridendo tra sè. Non ti fanno più male tutte le ossa? Oh no rise lei. Sei stata così male, l’anno scorso. Già annuì nonna. E l’anno addietro. E anche quello prima, te ne ricordi? Oh sì. Me ne ricordo eccome! Perchè non ti fa più male? La nonna rise ancora, di cuore, e disse: Vorresti che mi facesse male? Oh no, nonna, no! Nonna sorrise.

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Milo era il ragazzo più curioso che avesse mai visto. Non era facile imbrogliarlo. Ho stipulato un patto col Signore. Una volta ho fatto una buona

azione, ma di quelle veramente buone, e in cambio Lo pregai di portarsi via tutti gli acciacchi nell’ultimo anno della mia vita. Voglio andarmene silenziosamente, niente lamenti, e soprattutto senza dolori!

Milo si rannuvolò. Sapeva che nonna diceva sempre la verità, e che quindi se ne sarebbe andata presto. Gli dispiaceva, ma sapeva pure di dover accettarlo. Era un fatto naturale.

Come fai a sapere che sarà tra poco? Sei curioso. Proprio un nipote curioso. disse nonna. Riflettè un

attimo come se ponderasse una scelta importante, poi si decise a parlare e disse: Prima di andarmene, ti svelerò qualche segreto che ti farà smettere di provare curiosità per una trentina d’anni!

Oh sì nonna! esclamò Milo. Quale segreto? Conosci un segreto? Dimmelo, dimmelo, dimmelo!

Adesso basta. Te lo dirò a suo tempo. Cioè fra poco, molto poco. Aspetta solo qualche giorno.

Milo era visibilmente contrariato. Avrebbe voluto parlarne ancora, parlare del segreto.

Nonna si tirò in piedi, stancamente. Adesso devo andare disse tra sè, sì, devo andare. In giardino.

Devo. Devo proprio. La nonna si tirò in piedi come se il suo vecchio, fragile e scarno corpo fosse di un peso eccezionale. Milo la osservò mentre sospirava flettendo le deboli gambe e barcollando un attimo fino a che non ebbe ripreso l’equilibrio.

Posso venire con te? La nonna si voltò e sorrise. Forse è meglio cominciare oggi stesso, con i segreti. Vedo che sono

sempre più stanca, e non vorrei certo lasciarti senza aver soddisfatto le tue curiosità.

Arrivarono oltre la staccionata del giardino, e nonna condusse Milo attraverso la terra coltivata.

Dopo un po’, gli rivelò: Quando si ha una certa età si possono vedere molte cose che prima

non si scorgevano neppure. Milo annuì. Se nonna diceva una cosa, doveva essere vera. Lo vedi quell’albero?

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Milo seguì la direzione degli occhi di nonna e inquadrò un albero nodoso e stanco.

Sì, lo vedo. Di che colore ha le foglie? Verde scuro disse lui. Nonna scosse il capo. Io invece lo vedo color argento. Argento? Sì. ribattè lei. D’argento. E sai perchè? Quello è il mio albero.

Ognuno di noi ha il suo albero. Il proprio tronco, le proprie foglie. Quello è il mio albero, e i rami sono bassi, ripiegati, e le foglie hanno perso la loro lucentezza, e adesso sono diventate argentate, color della luna. Color del crepuscolo. Perchè ormai il mio sole è tramontato, e io sto per scomparire dentro la terra, come fa il sole quando va a dormire.

Milo guardò meglio. Se nonna diceva una cosa, quella era vera. Strizzò gli occhi e guardò ancora meglio. Ora c’era un luccchìo... sì, ecco... Foglie d’argento, disse tra sè, e si impose di ricordare. Nonna lo portò alla vecchia fontanina. Con una ciotola di ferro raccolse l’acqua e disse: Specchiati. Milo annuì e si sporse sulla ciotola. Vide il suo stesso volto curioso che lo fissava dalla superficie levigata

dell’acqua dentro la ciotola, e rise. Adesso cerca di vedere il mio riflesso fece nonna. Si sporse sulla ciotola e si specchiò. O, perlomeno, tentò di farlo. Per quanto Milo si sforzasse, non riuscì a vedere il volto di nonna dentro

l’acqua. L’acqua rifletteva solo una sagoma confusa, sbiadita. Questa fontana è molto antica disse nonna. Nella sua acqua

sono sepolti i segreti della vita e della morte. Perchè la tua immagine non si specchia? disse Milo. Perchè il mio tempo è giunto alla fine. Il mio debole corpo è solo un

involucro consumato che fra poco non mi sarà più di nessuna utilità. Tornarono verso casa, ripercorrendo il cammino attraverso la terra

coltivata sulla strada che portava verso casa.

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Adesso ti mostro la cosa più bizzarra disse lei, e lo condusse al pozzo.

Il bordo di mattoni era consumato, la pietra erosa dal tempo, tutta smangiucchiata come se fosse stata addentata. Tra un mattone e l’altro viveva il muschio, e sottili fili d’erba si nascondevano tra le crepe.

Cosa c’è qui? chiese Milo curioso. Cosa vuoi che ci sia in un pozzo? Un po’ di fango sul fondo, qualche

pipistrello. E l’eco. L’eco ripetè Milo, incantato. Si sporsero sulla bocca scura e pietrosa. Adesso cerca di non parlare e tendi l’orecchio. Sì, nonna. La gola del pozzo era fredda, muta. Una corrente d’aria dispettosa entrava e usciva soffiando

ininterrottamente. Dopo un poco nonna chiese, in un sussurro: Li senti? Milo tese l’orecchio ancora di più. Dapprima gli parve che non ci fosse nulla. Poi dovette ricredersi. C’erano dei suoni, che rimbalzavano tra quelle pareti muschiose e scure. Un ronzio. Voci accavallate. Sovrapposte. Le voci erano come una marea che saliva, saliva, saliva, finchè da quella

risacca non spuntò un’onda più alta sopra le altre, e disse: Ti amo Laura... Ti ho amata tanto... Ti amo Laura ripetè la nonna in un sussurro, mentre le guance le

si imporporavano e una lacrima le spuntava dagli occhi. Questo era tuo nonno, Milo. Il mio Franco. Lo hai sentito?

L’eco ripeteva, incessantemente: Ti amo Laura... Ti amo Laura... Ti ho amata tanto... Ti ho amata tanto... Milo disse di sì. Poi tese ancora l’orecchio e sentì un’altra frase. Questa volta era una voce diversa. Cara Laura... Quando verrai da noi?... Cara Laura... Cara Laura...

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Oh, Riccardo! esclamò nonna. Questo è Riccardo, mio fratello. Te lo ricordi? No, non puoi, eri troppo piccolo quando... Si interruppe, allegra. Lo senti? Lo senti?

Sì nonna, lo sento. E questo è zio Ettore diceva la nonna. E le voci rimbalzavano. E poi: E questa è Maria! Oppure: Questa è zia Eva! E le voci soffiavano, portate dall’eco come da un vento gentile. Dopo, Milo chiese: Posso dirlo a mamma e papà? La nonna rise di cuore. Oh, no! Assolutamente. Ti prenderebbero per pazzo, ti

impacchetterebbero per bene e ti spedirebbero da qualche strizzacervelli. Milo strizzò gli occhi. Non capiva cosa volesse dire nonna. Perchè non

l’avrebbero creduto?, si chiedeva. Forse non l’avrebbero sentito! Ecco la risposta. Loro non potevano

sentire l’eco. Lo disse alla nonna, e lei annuì. Perchè? Perchè cosa? ribattè lei? Perchè mamma e papà non riuscirebbero a sentirlo? La nonna sembrò rifletterci un attimo sopra. Si passò le secche dita sul

mento ossuto, poi disse: Suppongo perchè non sono abbastanza vecchi. E nemmeno abbastanza giovani.

Oh! Credo che potrebbero sentirlo anche loro, un giorno. Sì, credo di sì.

Più in là. Quando saranno cadenti come sono io ora rise. In questo momento loro si trovano in un’età di mezzo. Ma, bada bene, non è il giusto mezzo.

Milo annuì, e si impose di ricordare. La neve si sciolse del tutto. La case erano di nuovo calde e felici, il sole spazzava via ogni angoscia

invernale. Vieni qui. Milo si alzò. La sedia a dondolo aveva smesso di ondeggiare. Vieni qui, ora, su, sbrigati. Nonna se ne sta andando e vuole che ti

ricordi tutte le cose che ti ho mostrato. Milo le gettò le braccia al collo.

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Ti voglio bene, ragazzo mio, lo sai? Sì nonna. Adesso nonna ha sonno, e deve riposare, e vuole tenerti vicino finchè

non chiude gli occhi. Ma nonna vuole che prometti che appena chiuderà gli occhi il suo bel nipotino vola via, schizza via senza guardare indietro, fino al pozzo. Lo farai?

Sì promise Milo. Bene disse nonna, e sembrò stiracchiarsi nella sedia a dondolo. Quando ebbe chiuso gli occhi, Milo scattò come il fulmine, corse senza

pensare, facendo come gli era stato detto. Giunse al pozzo, si mantenne sul bordo con entrambe le mani, e guardò

giù. Dritto nella bocca scura del pozzo. Il sole batteva ancora sotto il cielo, ma l’aria fredda che saliva da lì

dentro non sembrava volersi riscaldare. Le pietre erano fredde, e il muschio silenzioso. Milo non sapeva bene cosa fare. Restò in silenzio per un po’, ricordando quello che nonna gli aveva

svelato, in attesa. Un altro po’ ancora. Niente. Nessun suono, nessuna voce. Si protese maggiormente, fino a che la testa non gli girò per lo spavento

di finire giù, nel pozzo scuro. Quando già stava per voltarsi e andarsene, gli giunse un mormorio di

voci, di parole. Nonno Franco. Zio Riccardo. Maria. Eva... Sì! Le voci erano lì, salivano volteggiando tra le pareti del pozzo: i sussurri,

le parole, le frasi. Milo si sporse di più, di più, di più ancora, per sentirle meglio. Le frasi lo raggiunsero, lo inondarono d’incanto. E sopra tutte spiccò chiara una voce: Ti voglio bene, ragazzo mio. Lo sai? Ti voglio bene, ragazzo mio. Ti voglio bene...

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GLI AUTORI

Shin Bilstein Scrivo da quando ero molto piccolo, appena 11enne, e sono appassionato dei generi giallo, horror, noir, e fanta-cyber-horror; il mio primo lavoro pubblicato è il racconto "La via di casa" (pubblicato nel febbraio 1994 da una rivista locale di nome "Fred") e ho pubblicato il mio primo romanzo nel marzo 2001 con il mio vero nome - "Il piatto freddo" Ed. L'Autore Libri Firenze, un romanzo giallo. Questo è l'indirizzo del mio sito: http://bilstein.altervista.org

Mario Campaner Nato nell'86 in provincia di Treviso, frequento il quarto anno del Liceo Scientifico, amo la letteratura in genere, Lovecraft, Poe, Conrad e Maupassant i miei autori preferiti, altre mie passioni sono il metal estremo e l'erpetologia. Ho vinto il premio Narrativa Ghost 2002 (clubghost.com) con la relativa pubblicazione in antologia cartacea. Finalista del concorso Anticristo (ilcancello.com). Diciottesimo classificato su 393 racconti al Premio Narrativa Ghost 2003 (clubghost.com). I miei racconti possono essere letti su diversi siti dedicati alla letteratura nera. Roberto Colantonio Nato nel 1976, figlio illegittimo di Evita Peron ed Antonio Banderas, che allora non era ancora così famoso, portato di fretta e furia in Italia per sfuggire agli scagnozzi del generale Videla (Quel gran ijo de p...). Ha dei complessi di colpa per non aver scommesso sulla Corea all'ultima partita con l'Italia, nonostante un cugino di Moreno gli avesse giurato e stragiurato che e sappiamo com'è finita, e si macera nell'infelicità per tutti i punti Parmalat sprecati (volevo il giubbotto...volevo il giubbotto...). Per il resto non ha commesso grandi sciocchezze nella vita e detiene tutt'ora il record di più grande piccolo ometto del mondo, con i suoi centottantasei centimetri per cento chili. Ha recentemente aggiunto ai suoi titoli quello di Balivo dell'isola Piri Piri, appena descoverta. All'uopo, ha iniziato a studiare "corruzione 1 e 2" all'Università.

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Giansant Sono nato a Milano nel 1987 e vivo tutt’ora in provincia di questa straordinaria città. La mia passione per la scrittura è nata grazie ad Agatha Christie e, soprattutto, ad un gioco per PC, che si presentava come un affascinante giallo, e che non lo era per niente. Dopo averlo finito mi sono detto: “Scommetto che posso fare di meglio” e mi sono messo a scrivere. Scrivo per diletto, per piacere e per divertirmi. Sono autore di una ventina di racconti ed altrettante poesie, e sto lavorando al mio primo romanzo. Le mie sono storie a tinte horror o gialle, spesso ai limiti della follia. Perché mi intrigano, principalmente. Lorenzo Nicotra Lorenzo Nicotra ha ottenuto vari riconoscimenti letterari, tra cui il 1° posto alla prima edizione del concorso Preludioscuro, il 1° posto alla prima edizione del Premio Inchiostro Bizzarro, il 1°posto al Premio Emily Dickinson, il 1°posto al Premio Petrarsa, il 1°posto al Premio Akery, oltre a varie segnalazioni ai premi Lovecraft, Alien, Courmayeur e Yorick. Ha inoltre pubblicato le antologie personali di racconti del fantastico: "Zone d'Ombra", “L'inganno e altri racconti”, "Il lago", "Dieci Storie della Mezzanotte", “Strane Storie”, e la raccolta di poesie "Sign' o'the Times". Un suo racconto è stato inserito nell'ambizioso progetto multimediale "Cyber-Ghost volume 1", a cura del Club GHoST di Torino. Le sue opere sono state recensite positivamente su vari quotidiani tra cui Il Corriere della Sera, La Repubblica, Il Giornale, Il Corriere del Mezzogiorno, Il Cerchio, Radio Corriere TV. Walter Reno Ho 27 anni ed abito ad Asola, un piccolo comune della provincia di Mantova. Divoro di tutto, sia in italiano che in inglese. Amo inventare storie nere e buttarle su carta appena posso.

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IL NEROPREMIO

http://www.LaTelaNera.com/NeroPremio.htm Il NeroPremio è un concorso letterario dedicato a racconti di tipo horror, mystery, noir, e thrilling organizzato dal sito La Tela Nera (http.//www.latelanera.com) Il concorso è completamente GRATUITO e vi possono partecipare opere inedite su carta, di lunghezza inferiore ai 30.000 caratteri (spazi inclusi), e mai premiate in altri concorsi. Il NeroPremio è un concorso aperiodico: sarà effettuata una premiazione ogni 34 racconti ricevuti in Redazione. Questo concorso non ha quindi termine o scadenza! GLI AUTORI POSSONO SEMPRE SPEDIRE LE LORO OPERE, al raggiungimento di 34 racconti ricevuti si provvederà a designare i vincitori per quella edizione. Ogni autore partecipa con UN SOLO RACCONTO PER OGNI EDIZIONE del concorso; ogni racconto inviato in più verrà considerato in gara a partire dall'edizione successiva. Per inviare un racconto basta spedire un'email all'indirizzo

[email protected]

allegando il file col racconto in formato .txt, .doc, .pdf, o .rtf. I racconti partecipanti al concorso verranno pubblicati on line sul sito (l'autore ne conserva tutti i diritti). Se l'autore è contrario alla pubblicazione on line della sua opera è pregato di comunicarlo all'atto della spedizione della stessa. Gli autori dei racconti giudicati come i migliori dalla giuria saranno premiati con dei libri. La quantità di libri in premio e il numero dei premiati può variare da edizione a edizione. Il vincitore sarà SEMPRE premiato. Un elenco più esauriente dei libri in premio può essere consultato alla pagina

http://www.LaTelaNera.com/neropremio.htm I partecipanti verranno avvisati dell'avvenuta premiazione via email. Potete spedire i vostri racconti fin da oggi. Buona fortuna a tutti!

Alec Valschi [email protected]