Siamo il sogno e l'incubo di Dio - ancoralibri.it fileIl profeta. Vita di Carlo Maria Martini...

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2015, Ancora

Versi, cronache, passioni da Martini a Bergoglio

MarcoGarzonio

Siamo il sogno e l’incubo di Dio

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Quaranta composizioni poetiche che vanno dalla riflessione esistenziale alla rievocazione interiore di luoghi del cuore (come Milano e Gerusalemme) e di figure significative (come Etty Hillesum e papa Fran-cesco). Su tutti, spicca la memoria di Carlo Maria Martini, di cui Garzonio è considerato uno dei più acuti biografi. «Cronache dell’anima scandite entro una scansione di tempo preciso, “da Martini a Ber-goglio”: evocata la stagione della nascita dei testi, ma evocato anche un amore, non celato, quasi da privilegio, per un vescovo e un papa. (…) Spesso nelle pagine cogli una passione ferita – siamo il sogno, ma siamo anche l’incubo di Dio –, passione che leva grido, a volte anche urlo dalle poesie, là dove immobilità, indifferenze, ingiustizie sporcano sogni, nella vita della società e della chiesa» (dalla prefazione di don Angelo Casati).

Marco Garzonio, il «maggior esperto martiniano» come ha scritto il cardinal Ravasi, ha seguito l’episcopato di Martini sin dagli inizi per il Corriere della Sera, di cui è tuttora editorialista. Ha pubblicato numerosi volumi tradotti anche all’estero, tra cui Il profeta. Vita di Carlo Maria Martini (2012). Psicologo analista e psicoterapeuta, la-vora privatamente a Milano ed è docente di Psicologia del sogno presso la Scuola di Psicoterapia del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA), dove svolge anche la fun-zione di training. Felice sintesi dei suoi interessi per la re-ligione e la psicologia è il volume Le donne, Gesù, il cam-biamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei Vangeli. È presidente della Fondazione Ambrosianeum.

www.ancoralibri.it

disponibile in ebookISBN 978-88-514-1537-2

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collana

ORSA MINORE



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Siamo il sogno e l’incubo di Dio

Versi, cronache, passioni da Martini a Bergoglio

Prefazione di Angelo Casati

Marco Garzonio

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© 2015 ÀNCORA S.r.l.

ÀNCORA EDITRICEVia G.B. Niccolini, 8 - 20154 Milano Tel. 02.345608.1 - Fax 02.345608.66 [email protected]

N.A. 5510

ISBN 978-88-514-1581-5

Immagine di copertina: Rinaldo Invernizzi, Notturno

Prima edizione digitale: aprile 2015

mailto:[email protected]

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PREFAZIONE

di Angelo Casati

Vado spigolando. Contrastando la fretta, anche la fretta che legittimamente ti mette in corpo un editore. Poi mi arrendo, scrivo. Vado spigolando dietro una let-tura. Quella dell’ultimo libro di Marco Garzonio: Sia-mo il sogno e l’incubo di Dio. Dietro e dentro un parados-so: sogno, incubo, non l’aut aut, ma l’et et. Così la vita.

Vado spigolando, mi chino, raccolgo. Giocoforza lascio sul terreno spighe in attesa, silenziose. È un li-mite. Confessato.

«Versi, cronache, passioni» sottotitola Garzonio. Sai che cosa cercare nel libro, che cosa attendere. La po-esia sfiora la cronaca, sfiora anche il paese dell’anima, quest’ultimo un paese senza rif lettori, ne sfiora le passioni. E accende. Pregiudizio è che poesia sia stare fuori dalla storia in una sorta di disincanto. Non sarà invece un sentirsi raccontare o, meglio, alludere al profondo, l’invisibile agli occhi? Agli occhi di coloro che vedono senza vedere, senza vedere l’anima delle cose, ciò che le abita.

Cronache dell’anima scandite entro una scansione di tempo preciso, «da Martini a Bergoglio»: evocata la stagione della nascita dei testi, ma evocato anche un amore, non celato, quasi da privilegio, per un vescovo



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e un papa. A legarli il sussulto di un sogno. A Garzonio parve che il sogno e la preghiera del cardinale per il futuro di una chiesa, minacciata nella brace da pesan-tezze di cenere, avessero avuto risposta con l’elezione di papa Francesco. Ne scrisse sul Corriere immaginan-do che la preghiera del cardinale dovesse aver bussato molto in alto se al conclave la scelta cadde su Bergoglio.

Lo sguardo è a tutto campo, dalla vita alla morte, all’oltre. Ad limina la prima poesia della raccolta, In exi-tu l’ultima. Può forse apparire strana inclusione, quasi invadenza, il pensiero della morte, che ricorre più volte nel libro, ma non ha figura di chi porta minaccia senza scampo, non «icona di uno scheletro / avvolto in torvo mantello», se mai «badante di bianco vestita». E mai fine corsa, sempre soglia, «ad limina»; sempre nell’atto di uscire, «in exitu». Sarà perché hai sostato come figlio alla morte di un padre, di un uomo pastore di chiese, o sarà anche perché si è fatto leggero, per andare di anni e per ripulsa di sovraccarichi e di orpelli, lo zainetto, fedele compagno anche nell’ultimo tratto del grande viaggio: «Al tocco esco. / Mi prenderai per mano / nel buio / camminando / andremo».

«Andremo», vita come viaggio, quaggiù e nell’oltre: chi scrive del sogno e dell’incubo di Dio è, per voca-zione, della razza dei viandanti, quelli della via, come erano detti i primi cristiani. Non quelli della dottrina. Quelli della Parola, che è lampada per il cammino, come insegnò il grande vescovo e padre. Chi scrive – trovi tracce nella lettura – per vocazione è della razza dei nomadi, e non dei vaganti: «Lampada ai miei passi la tua Parola, luce sul mio cammino».



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Spesso nelle pagine cogli una passione ferita – siamo il sogno, ma siamo anche l’incubo di Dio –, passione che leva grido, a volte anche urlo dalle poesie, là dove immobilità, indifferenze, ingiustizie sporcano sogni, nella vita della società e della chiesa. Passione per fe-deltà alla lezione del Maestro: «Dicevi che era meglio lasciare il potere, / attraversare il deserto; / mentre c’era chi trattava favori / per ospedali e scuole / che di cristiano hanno solo il nome, / esenzione di impo-ste, / rappresentanze in consigli di amministrazione». Passione ferita, mai doma: «Coraggio, sono io, non abbiate paura».

E sempre a ricercare, a cercare ragione, in un dialogo estremo con Dio, che appunta come preghiera il libro: «cerco ragione del mio credere / non in un dogma, / non in una dotta / scintillante, argomentata discussione / colma di ansie da prestazione dottrinale, / ma nel Male di vivere / che prende anche me, / che mi scuote, / che mi interroga, / che mi invade».

Ma il viaggio non è solo passione ferita, è anche te-nerezza, è «la neve che bianca veste la montagna», è «il gracidio degli scarponi che fende / l’ovattato silenzio della valle». Ti accorgi che chi scrive va disseppellendo. Disseppellire, gesto tenero, caro a Etty Hillesum, cui va, nel saggio, una preghiera accorata, lei per vocazio-ne votata a disseppellire Dio dai cuori devastati, lei il cuore pensante della baracca.

La poesia ha dono di disseppellimento da cronache anche minori, che minori non sono. Cronache dissep-pellite lungo il libro. Possono essere le parole e i gesti di un papa venuto dai confini del mondo, nude nella loro



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semplicità: «Disorienta il “Buona sera!” / detto al tuo popolo / dal balcone di San Pietro: / vale un’enciclica, come la mozzetta di velluto rosso / orlata di ermellino / (insegna del potere) / rifiutata, / come la Croce di ferro / che rimpiazza quella d’oro / sul petto bianco, purificato / come l’anello d’argento, senza pietre pre-ziose, / all’anulare destro / benedicente».

Cronaca maggiore, cronaca minore? Le mille sto-rie. In attesa. Mi sono chiesto leggendo il libro se alla poesia non potessimo dare anche l’immagine, cara a Garzonio, del fiume interrato che scorre sotto il parco di via Solari. C’è chi per grazia dà voce ai fiumi car-sici. Chiudo così con questa poesia per andare oltre le parole pallide di questa mia nota: colori, volti, suoni, le storie, le mille storie, mentre «bruciano lente le ore nell’attesa».

Sotto il parco di via Solariscorre quanto restadel vecchio fiume ormai interrato:nutre gli alberi, i prati,i giochi dei bambini,l’abbaiare dei cani nei recinti,la libera uscitadelle badanti ucraine rumene filippinein rigidi capannelli separati,la lettura del giornaledi anziani curiosi sempre della vita,il ripasso di studentiprossimi all’esame,le rade panchine



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di amantigioiosamente avvinghiati,

invidiati.

Cammino su è giùper i vialetti;la ghiaia freme,racconta le storiedi uno spicchio di terra emersanella distesa d’asfaltoe di cemento armatosotto cui scorrono altri fiumi:sono le memorie di desideri umaniinascoltati,sono i gemiti di una natura incatenata,sono il mistero di un Dioche tanti hanno incontratoma che nessuno ha mai veduto;dal profondoall’unisonofessure d’aria e di luce inseguono:premono, vogliono vincereil neghittoso adattamentoalla cultura della resain cui si spegnea poco a pocouna città

stranita,scipita,

dall’anima dolente,ferita.



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SIAMO IL SOGNO E L’INCUBO DI DIO

A Ermanno Olmicon riconoscenza e gioiaper i germogli dischiusi

dal lavoro comunenel film su Martini,

affidando al ventoi nuovi semi

di quello straordinario incontro



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AD LIMINA

ad Deum, qui laetificat juventutem meam

Lo zaino è apparecchiato.Del grande viaggiosi profila l’ora.Al tocco esco.Mi prenderai per manonel buiocamminandoandremo.



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MORTE DI UN UOMO *

Aspettiamo l’attimo che deve venire, che verrà,è questione di temponella penombra della stanzetta al terzo piano.Respiri a fatica, rantoli. Un pretecamiciola azzurra, maniche corte,ti sta di fronte, ai piedi del letto,cantilena pagine di Vangelo.

Fissole pareti spoglie, utero biancoche ti sta per generare al cielonelle contrazioni degli ultimi spasmi.La dottoressa ti prende la mano,guarda la f lebo, cerca il polso abbandonato.

In punta di piedic’è chi lascia la stanza. Si apparta.Regge a fatica.Odo bisbigliche spronano al coraggio,all’audacia da te sempre evocata.Vorrei assecondare i ricordi

* Al capezzale del cardinale Carlo Maria Martini.



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che premono,ma la mente rifugge: «Stai qui», ripete severa.«Stai qui: è l’ora. Stai qui: è il momento!».

Prego.Il mio sguardo vagama su di te ritorna. Seguo il filo del naso sottile,degli occhi chiusi, delle guance tirate,mi scuote il sussulto del petto che geme, vedo la vitadivincolarsi da membra forti e stremate.Giunge all’apice il tremendo duello…

La dottoressafa un cenno d’intesa. Il segretario invita a uscire.Nel salotto dove ricevevi col tuo dire muto ormaiallo sguardo l’uno dell’altro ci aggrappiamo.Aspettiamo.

«I parenti possono rientrare».Vien dato l’annuncio: «Carlo Maria Martiniè spirato alle quindici e quarantatré. Chiedodi attendere a dare la notizia. Sarà prima comunicataal cardinale Scola, che annuncerà al Papa il decesso».Ma un prelato (neanche la morte ha ragione dei narcisi)è già corso tra le braccia dei cronistiche aspettano sotto chiaccheriniall’ombra degli alberi possenti. Grazie alle loro frondel’Aloisianum vegliò sul tuo passeggiare orantedi gioia e di faticaquando ogni giorno discorrevi con loro,ascoltavi il frusciar delle foglie,rispondevi al silenzio fremente della natura amica.



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«Chi vuole può dare l’ultimo saluto»annuncia il segretario. Ci guardiamo, lo abbraccio.Anche per te, Damiano, è finita:comincia un’altra vita, per tutti.Torno nella stanza,esito nell’accostarmi al letto,sfioro la mano tuache tante volte ha benedetto me e figli e nipotie sposa. Orfano piango lacrime asciutte,levo lode al Signore che ci ha donatoun inviato di speranza e di luce per i nostri giorni

[tormentatie per i tempi a venire,un pastore che camminava davanti a noi,che rese inquiete e curiose e che scaldòle nostre tiepide coscienze,fece spirare un vento forte e sottile di silenzioche ridestò braci timide e spauritesotto soffocanti coltri di cenere grigia,le trasformò in fiamme ardenti,contagiose come sa essere l’amore:ci hanno animati loro,loro ci hanno scaldati, consolati,portati sino a qui.

In questa Gallarateper un giorno al centro dello sguardo attonitod’un mondo che non conosce resaed esigente cerca testimoniche siano credibili,raccolgo la consegna da te Carlo Maria Martini,



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uomo con gli uomini,cantore della Parola detta in parole,cardinale di una Chiesa bisognosa di misericordiapiù che di cattedrali e paramenti,profeta d’un Dio che muore e risorge,che scende agli Inferi, riscatta gli aff litti,prende per mano chi patiscenelle membra e nell’anima,sorride,rallegra e proteggechi ha fame e sete di giustiziabeato di sempree per sempre.

Davanti alla luminosa serenità del tuo corpofinalmente placato, distesoche mani premurose e reverentipresto rivestiranno dei sacri, solenni panni,ti salutoCarlo Maria mio santo vescovo,che hai abbattuto mura spesse e pesantiarroccate per secoli,che sei morto con eleganza, come auspicavi,che angeli sono venuti a prendereper rendere leggera la tua salita al Diodel Cantico dei Cantici così tanto amatoricambiando la tua inesausta passioneper il Crocifisso,vescovo Carlo Mariache vivi oranella gloria dei cieli



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e nei cuori e nelle mentidi uomini e di donneconsapevoli che nulla sarà più come prima!

Riconoscenteti chiedo di intercedereperché si avveri un sogno: che anch’iodiventi sentinella d’un’albain cui si può crederedi cambiare le cose.Così sia.



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CUORE LIBERATO

«È soltanto a partire da un cuore così liberato che è possibile pra-ticare la giustizia sino in fondo».

C.M. Martini

Mandasti a dire da Gerusalemmeche imparassimo a pensare, a inquietarci:era più importantedel nostro apparteneread una Chiesa,degli affetti che consolano,cullano, mettono al riparo,rendono sicuri,

protetti.

Fu il riepilogo di una vita.«Ha un carisma della Madonna!»aveva sussurrato l’operaiadella Pirelli, alla Bicocca,stringendo forte a sé l’amicamentre passavi fra migliaia di tute biancheassiepate, attonite,



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con la mano levatabenedicente dopo l’assemblea con i lavoratoriche contavano su di teper salvare la fabbrica e la storiadi Milano.Nel tic leggero della guanciati si leggeva un interrogativo:avrò portato il vangelo?Avevi l’abitudine di farti domande,scomode possibilmente;altri nutrivano se stessie le loro corti affollatedi certezze. E diffidavano di te:«Ma dove crede di arrivarese continua a parlare

da comunista?».

Non ti avrebbe fatto vescovose ti avesse conosciuto meglioKarol Wojtyla!Lo dicevi e ci scherzavi sopra:l’ironia ti è sempre piaciuta(dove sta scrittoche i cristiani siano musoni?).Alto, severo, controllatoincutevi soggezione;addolciva l’impattola fossetta del mentoche ispirava tenerezza,ma ci pensavano le grandi mani,tra le quali scivolava la Parola



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quando parlavi,acqua sorgiva,e fresca nello scrollarci di dossola falsa pace

delle coscienze.

Ci chiamavi piccolo gregge,seme, lievito, granello di senape.Sulle orme di Cristo che aveva confortato i suoi,increduli al par nostro,«Coraggio, sono io: non abbiate paura»,la lezione della storia coglievi,dicevi che era meglio lasciare il potere,attraversare il deserto;mentre c’era chi trattava favoriper ospedali e scuoleche di cristiano hanno solo il nome,esenzione di imposte,rappresentanze in consigli d’amministrazione.Il tuo modo di opporti fu di non ricevere maiSilvio Berlusconitu che anche a Craxi ti eri risolto,un giorno, a concedere

udienza.

Sapevi di essere sgraditoa molti confratelli,vescovi e cardinaliimbarazzatidal mettere la verità dell’intimo sentireal centro della vita,



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contrariatidalla rinuncia a riti,dogmi, stanze riscaldate,berrette e stole,collusioni e compiacenze,dall’ammainarele insegne del comando,dal fare a meno

delle sicurezze.

Ai giovani lasciasti una consegna:«Attraversate la città, come Gesù!».Nessuno osi chiamarsi fuori dall’impegno ora:popolo siamo;grazie a te dal vento e dal fuoco risvegliatiprocediamo a testa altafinalmentee portiamo in donoagli uomini e a Dioun cuore liberato,che ama anche chi non ci ama,saluta coloro che non ci salutano,perdona le offese,prega per quelli che non ci capiscono.E sono tanti,sono delusi dalla tentazione continuache ci prende

d’essere pusilli.



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SIAMO IL SOGNO E L’INCUBO DI DIO

Anche Dio ha un sogno:siamo noi.La parte è assegnata a ciascuno

sulla scenadel mondo.

Il copione? Si recita a soggetto:non esistono piccoli e grandi ruoli

nel sogno di Dio,ma piccoli e grandi attori:chi è piccoloe chi è granderesta da vedere.

Quando cala il siparioe si riaccendono le luciscopri se qualcuno ha tradito la libertàsua e quella di tutti,trasformando il sogno in incubo

anche per Dio.

Uscire dal sogno di Dioè un piano inclinato



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saponato e scivoloso,lento ma inesorabilescende giù, sempre più in basso;è tardi quando te ne accorgirasenti l’abisso:si può finire nel campo di Auschwitzo in un lampoilluminare il cielo

a Hiroshima.



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È NOTTE

«Sentinella, a che punto è la notte?Sentinella, a che punto è la notte?».Il giorno vienee passa.È notte,il mio lavoro è triste,vano:è disumanose il tuo cuore resisteal mio richiamo.



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INIZI

Noi siamo la terra informe e deserta,noi le tenebre che assediano all’intorno.Noi siano il caos che tutto confondestinge, appiattisce, rende vano.Noi siamo gli abissi del mare,le acque dove lasciarsi andarepavidi, neghittosi, arresi.Vieni, o spada:taglia, recidi, separa,allevia la gravità d’un peso che trascinae affonda.E tu Spirito alita,alita ancorae sempresulla desolazione grigia, sabbiosa, infeconda.

Liberaci!Libera nos a malo, liberaci da noi stessi,rendici canne vibrantidocili alla sottile voce di silenzioche spira da ogni dove,infinitamente.Liberaci dalle resistenze quotidiane:



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che luce sia,che cosa buona e giusta diventila nostalgia di te,che la faticosa, erta viail firmamento abbia come guida.Noi siamo il domani,se tu vuoi.

Noi siamo il domani:eccoci! Eccoci una volta ancora.Ripartiamo, ti prego:sono pronto.Dammi la tua mano,ecco la mia.



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ADAMO ED EVA

Quanto su Adamo avrà pesatol’esser privatodel donodi vivere bambino,nascere adultoe solo,anche se all’interno d’un Giardino.

Per Eva fu diverso.Non ha succhiatolatte di madre,ma il seno di Diol’ha nutritacon premura.

Dio vedevaAdamo sperso,ignaro dell’amore,estraneo alla passione,così inutile alla Creazione.Gli mise dentro alloral’acuta nostalgiadella riunione



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col grembo di fangoda cui l’aveva tratto.

Al calore del contattoe sorpreso dall’estro del momentoAdamo s’accontentò beatoe fierod’esser venutoal mondolui per primo.

E fu l’eterno bambino,nostalgico del perduto Giardino:un autenticograve, intollerabile peccatoche rende faticosal’invenzione operosae continuadel Creato,da Dio pensato,dalla donna nell’amore generato.



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FUORI DALL’EDEN

Camminie lasci improntemai uguali.

Sei diverso,passo dopo passovai.Procedi.

Sola certezzaè la viache hai tracciato.

Sei unico,mai solonel cammino.

La meta è il viaggio.Ti guida la speranzadi ritrovarela Sua mano tesa,mai stanca.



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IL SEPOLCRO VUOTO

Non mi appassionail dibattere intellettualesull’esistenza di Dioche alimenta il mercato editoriale,occupa paginate nel giornale,accende i rif lettori di salotti impegnati,procura audience nei talk showe fa opinione,ma dà tanto l’ideache parlare di Diosia un brillante esercizio razionaleche il narcisismo appagama la vita lascia uguale.

Mi ritrovo più a mio agiose contemplo il volto di Gesù,in silenzio;nella mia camera con la porta chiusacerco il suo sguardo,affondo negli occhi immensidel Mandylion,e alla sacra icona bizantinanon dipinta da mano umana



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chiedo se valeva la penasudare sangue nel Getzemani,lasciato solo a bere il caliceamaro come fiele,tradito dai discepoli che lui stesso aveva sceltoincapaci di vegliare con lui,di reggere al dolore dell’incomprensione,ottusi davanti a un mistero grande più di loro(e di noi!),tramortiti dalla tragica verità segnata,impotenti e soli a loro volta(ancora come noi);e poi affrontare il Golgota,subire, patire,morire d’ignominiaper essere riconosciuto Figlio di un Dioche nessuno ha mai vistoma che da sempre molti hanno cercato,nonostante che Gesùrivelato si sia,coronato di spine,trapassato da chiodi,trafitto da una lancia,bruciato dalla sete

Uomo anch’io di poca fedeavverto quella setedell’ora della mortecome l’arsurache fu della Samaritana;mi associo allora alla ricerca



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che continua,guardo al Gesù appeso sulla Croce,rischiarato dal fondo oro del Masaccio,mi fisso sul Cristo morto del Mantegna,cerco ragione del mio crederenon in un dogma,non in una dottascintillante, argomentata discussionecolma di ansie da prestazione dottrinale,ma nel Male di vivereche prende anche me,che mi scuote,che mi trafigge,che mi invade:è il bisogno di capirecon l’intelligenza di un cuore di carne(se non questo, che abbiamo d’altroper cui valga penare?)la comune, diffusa frustrazionedi avere fedeo di negarlasenza disporre mai di proveche, in un senso o nell’altro,chiudano una buona voltala partita,di perseguire la stradaaccidentatache porta al senso ultimo da darea questa umanità ferita,sorretta dalla libertà di scegliere e pensareche alla speranza di cambiare venga unita,



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perché sorelle sono:estranee ad ogni arrampicata cerebralelibertà e speranzasi devon nella vita ritrovare.A Dio, allora,ci possiamo appassionare.E lasciarci andare,in Lui precipitare,dal mistero farci illuminare.



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DIABOLICUM

L’ho incontrato, ma non l’horiconosciuto.

L’ho udito, ma non l’hocompreso.

Gli ho parlato, ma non mi harisposto.

L’ho inseguito, ma non l’horaggiunto.

Sono fuggito, ma mi haripreso.

Ho fatto quel che lui voleva,non me ne sono accorto.

Gli sono andato dietro e lui haghignato.

Credevo d’avere io il controllo e lui le fila hatirato.

Si è appartato preparando un nuovoassalto.

Bastava che gli avessi urlato:vattene!

Ma era così bello lasciarsi tentare,cedere,

abbandonato sprofondare.



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ISAIA A QUMRAM

Nel nido rocciosoinaccessibile rifugio di caprecustodisti i segretid’un Libroche segreti non haper chi lo ama,anfore cui attingeree avere sempreuna grande,inesauribile sete:perennemente.



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LUCIFERO

Da Dioa d’Io:una virgolettasopra l’universoti proiettae ti fa credered’essere tu la Luce.Ciao,addio,amico m’Io!



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SOGNO

Dammi la forza del sogno,del sogno che mi generòe infuse il soffio di vita,

dammi la luce del sogno,del sogno che squarci l’opacitàstesa dagli anni,

dammi la verità del sogno,del sogno che è quanto apparee che per ciò non ti inganna mai,

dammi la passione del sogno,del sogno che suscita amoree rinsalda slancio e coraggio,

dammi l’indecenza del sogno,del sogno che rivelacome sia transitorio ogni piacere,

dammi la precarietà del sogno,del sogno che insidia la tenutadi piedi piantati troppo per terra,



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dammi la pregnanza del sogno,del sogno che figlia desiderisenza saturare i bisogni,

dammi l’oscurità del sogno,del sogno che scuotela falsa pace della mia coscienza,

dammi l’autonomia del sogno,del sogno che accadee sorprende ogni volta,

dammi la moralità del sognodel sogno che sovverte le convenzionie induce a provare strade diverse,

dammi le invenzioni del sogno,del sogno che dipana il filodi quanto sembra confuso e perduto,

dammi la solidarietà del sogno,del sogno che mi unisce agli altrie ci spinge tutti avanti popolo in cammino,

dammi la fiducia del sogno,del sogno che continueranno a viverefigli e generazioni di nipoti,

dammi l’assurdità del sogno,del sogno che con immagini astrusescompagina i recinti della ragione,



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dammi la concretezza del sogno,del sogno che ricompone scheggevaganti, incoerenti, sospese,

dammi la curiosità del sogno,del sogno che squarcia i velidi accidie, apatie, impotenze,

dammi la memoria del sogno,del sogno che sa più cosedi quelle che ciascuno possa mai ricordare,

dammi l’eternità del sogno,del sogno che fu di Dioe che noi proseguiamo senza saperlo,

dammi le certezze del sogno,del sogno che inocula profezienell’uomo e nella storia,

dammi la misteriosità del sogno,del sogno che adombra disegnigrandi più d’ogni immaginazione,

dammi l’energia del sogno,del sogno che trasformale pietre in pani,

dammi l’improbabilità del sogno,del sogno che suscita nostalgiadel buono e del giusto,



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dammi la vertigine del sogno,del sogno che è gioco sapientedi scambi tra cielo, terra, abissi, infinito,

dammi la creatività del sogno,del sogno che ti associaall’architetto dei mondi,

dammi la poesia del sogno,del sogno che parla e ipso facto èeco di primigenio motore,

dammi la ruvidità del sogno,del sogno che non lascia maicome nulla fosse stato,

dammi la paura del sogno,del sogno che pone domandee lascia indizi di risposte ambigue, svianti,

dammi la libertà, la bellezza, l’avventura del sogno,del sogno che ti fa sentire diavolo e Dioe mi riporta ogni volta a me stesso.



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VALLE SPLUGA

Neve che bianca vesti la montagnadialoghi col cielo in uno scambiofrenetico di raggi e di cristalli.

Il gracidio degli scarponi fendel’ovattato silenzio della vallee mi dice che non andrò lontanose la tua luce non mi graffia il cuoree il tuo manto non custodisce il seme.



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SOTTO L’ORSA MAGGIORE *

«E ora non riesco più a scrivere perché ho le mani gelate».

E. Hillesum, Lettere

Scegliesti la via del lagerper aiutare Dio a non morirenei tuoi compagnidi prigionia.E Dio ti venne incontro,ti aiutò sino alla fineallora:ti elesse come il Figlio,come Lui ti lasciò sulla croceperché tu vivessi.

Etty, poetessa della storia,ricca d’amore,allergica ai canonidel «si è fatto così sempre»,d’una fragilitàche fa arricciare il naso a molti

* Leggendo le Lettere e il Diario di Etty Hillesum.



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preoccupati d’incasellare persone ed esperienze,esperti di intelletto e di sicurezze pienima nel cuore afoni e sordastri,generosa ed incoscientesino alla perdita di te e all’annientamentoperché altri ritrovasserodignità dopo l’abietta resad’ogni senso del vivere civilee dai campi di stermino nascessero germoglidi nuovi pensieri.

Etty, Etty: ho nauseadi parole squadraterisuonanti come bronzi,di buoni sentimenti,di edificanti letture,di monumenti, lapidi, musei,di calendari e commemorazioni,di reiterati, anemici propositi,di inconcludenze,di prudenti esitazioni.

Etty, o veniamo rapiti,messi a soqquadro,rivoltati nelle visceredal tuo, dal vostro cantoche levaste sul treno piombatoquando lasciò Westerborkper la Polonia,e cambiamo davvero, allora,ci trasformiamo dentro,



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e costruiamo un mondocompletamente nuovoe riscattiamo l’ignavia e il disonore.Altrimenti continuerà a covarecome brace pronta per nuovi fuochi d’odioil manicomio dei carnefici(che deportarono ad Auschwitzte e la tua famiglia)e degli altri (essi pure manicomio!),inerti e inebetiti spettatorid’una macchina di mortedell’umanità intera (non d’un popolo solo).E molti di essi si dicevano cristiani, Etty,bestemmiando il Cristoed usurpando il nome della Croce!Potremo mai farci perdonare?

Dio mio, Dio mionulla abbiamo imparatoda Gesù sul Golgota?Dai fili spinati?Dai carri bestiame sigillatiche lasciavano vedere mani intente a salutare,proprio come le mani di chi affoga,attraverso qualche asse sconnessa?Dai corpi andati in fumosu per i camini dei forni crematori?

Non mi arrendo, Etty,levo un grido sommesso, duro e fermo,mi unisco allo stupito rosario di domande



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che da allora sono salite al cielo:anche tu, Dio, dov’eri?E dove sei oggiDio che tacesti ad Auschwitze a Birkenau?Era tuo il soffio che formò il ghiaccioa Theresien, a Bergen Belsen,a Buchenwald?Speravi forse in un soprassalto d’umanità?In una ribellione?O eri curioso di vederedove arrivasse l’abiezione?Era questa l’intelligenza da te ispirata?Non nutrivi sospetti per le vette e gli abissi della

[menteche tu avevi forgiato?O la sfida inebriava anche te,la scommessa della libertà per te tanto era assoluta?Costasse quel che doveva costare? (E che costò!).Non conoscevi la pasta di cui l’uomo avevi fatto?Eppure, ti compiacestiin principio,giorno dopo giorno,che tutto quel che dicendo avevi fattoera buono…

Se davvero il grido di Ettye degli altri milioni di sorellee di fratelli suoiè salito in alto, sino alle tue orecchie,non tacere più, mio Dio,



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non trincerarti dietro un laconico e severo«Tocca a voi, vi ho fatto adulti:a voi ho affidato il mondo,siete voi responsabili di pensieri e azioni!».Se davvero hai messo la Sapienzaa governare l’universoperché non dai voce allo sdegnoche da soli non riusciamo neanche a immaginare,perché non infondi energie a chi parla di resisterema non sa che cosa sia opporsicostruire progettie alternative,perché non ascolti i lamenti che covanoin un continente vecchio e lacerato,ottuso, pieno di sé,sul proprio ombelico concentrato,dimentico di ciò che non offre utile immediatocon interessi doviziosi compensato,perché consenti che il luttomai elaboratoci renda estranei l’un l’altroindifferenti,rinunciatari, depressi,accidiosi,soli, ostili, morti al futuro.

Mi viene il vomito e lo tramuto in urlo,e chiedo a te, Dio, misericordiae a me, a noi, ai fratelli domando:cosa deve accadere ancoraperché un sussulto ci agiti dentro,



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ci si risvegli dal torporefinalmente,perché ciascuno faccia quello che puòcontro il male che ci abitae ci succhia, e ci corrompee ci prosciuga l’anima,perché si conquisti in noi stessiun frammento d’amoree lo si opponga all’ingiustiziae faccia nuove le cose!

Tu l’hai scritto da Westerbork, Etty:possiamo soffrirema non dobbiamo soccombere,perché in ogni luogo di questa terra,sotto l’Orsa Maggioreche brilla nel cielo di un paesino sperdutoo all’orizzonte di una città grande,si può vivere la vitain modo significativoo altrimenti morire,trascinando nell’abisso con noifigli, nipoti e le generazioni a venire.

E tu, Dio, dimmi: come puoi tollerare altre iniquità?Stai preparando forseun nuovo Diluvio per la nostra povera,inaridita Terra?Angeli della prossima fined’un’Europa fiacca,povera di idee,



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spenta d’immaginazione,disamorata, ingenerosa,cieca e intorcinata su se stessa,attenta a salvare le banche non le persone,matrigna dei suoi figlinon solo di chi bussa alle sue portee preme ai suoi confini,Angeli sono forse le bare senza nomedistese dentro l’hangar laggiùai confini del mondo,a Lampedusa?Angeli sono forse i corpi dispersiper anni nel Mediterraneosenza che alcuno reclamassele ossa, le ceneri, i sogni,senza che Stato, nazione, autorità internazionalepensasse a un mausoleo,a un luogo della memoriae del silenzioper questo sterminio dei giorni nostricinici, egoisti, disperati?Senza che un’Etty nera,un’Etty irachena, somala, siriana,palestinese, afgana, curda,sola o con un bambino al senoo nel grembo ancoralanciasse da un barcone sul mare alla derivauna cartolina postalea monito indelebile,gridato all’Eterno e a noi:«Questa carretta non è poi tanto male!».



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SCINTILLE *

Hai la tua testa per pensare:dalle fiducia,piena, totale.Se ti accontenti di quel che ti trasmettoe delle mie premureimpoverisci l’anima,plachi l’inquietudine,smorzi i desideri,restringi gli orizzontiche puoi e devi spostare in avanti,

sempre.

Liberati da te stessa,dall’istintoa venir dietro, a somigliare,lascia i nidi accoglienti,sicuri, caldisenza voltarti:il tempo è amico

per pensare.

* Per una psicoanalista in formazione.



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Con i piedi ben piantatisulle nuvole dei sognivola,spaziae guarda di sotto,valuta con attenzionedove sarà bene che il tuo corpotocchi terrae lì chinati,presta ascoltocon sollecitudinee generoso slancio sororale,offri vicinanzae opportunità

di senso.

Ma non ti appagare,riparti e risali presto in altoe vai lontanoa cavallo di immagini e visioni,proseguiincessantementelungo il cammino che ad ogni auroraritornando a terrati si parerà dinanzi.A chi ha bisognooffri l’esempio della tua ricerca:quello è il vero,il genuino,

l’inconfondibile aiuto.



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Sei tu il farmaco,la tua vita è la terapiapiù bellae il tuo amore per l’altrosarà pegno della prossimitàche le sofferenzeaccomunae che la speranza rinnova,della voglia di comprendere

che trasforma il male,della promessa di giustizia

che genera fiducia,delle scintilleche il contatto con te

sprigiona,dissemina,

propaga,del domaniche viene ancora

e sempre,sino a che Dionon si sarà stancatodi fare conto su di te,

su noi,sugli uomini,

sul mondo.



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STO SOSPESO

È il buio del mattinoche più ferisce gli occhiin questo inverno diacciodi cui la fine non vedo.Tornerà la primavera?Tremoal solo pormi la domanda.Ho le vertigini;sospeso,il fiato trattengo,sull’orlo di una valleinvasa dalla nebbia.



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MANI APERTE

Di mani aperte, tese nel darenon solo pronte a ricevereho bisogno,non voglio restar solo,ma con te,con voi,con tutti essere fratellodell’unico padrenato un tempoa Ur dei Caldeie oggi primo cittadinod’ogni luogodove si ama l’uomo,la terra,il cammino,la pace,le stelle,i sogni.



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GLICINI

Le glicini che infiorano la stradasi inchinano alla corsa dei tram vecchisballottati sui binari,complici danno alla città il sapored’un incontro di terra, ferrugine, sudorecui la vita è abbarbicatain questa primavera

e sempre:così avanti va Milanorecando il futuro impressonell’antico rizoma amico.



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DAI CONFINI DEL MONDO

Vengono dai confini del mondoeffettivamentele parole che schioccano sulla facciadella gente convocataad ascoltareun habemus che tutti credonoconvenzionalee come schegge incontrollateinvadono le case,rimbalzano sui teleschermi,sommergono le redazioni dei giornali:scuotono abitudini,calcoli, equilibri, pregiudizi,scrollano gli alberi degli accomodamenti,delle false coscienze,delle pretese interessate.

Disorienta il «Buona sera!»detto al tuo popolodal balcone di San Pietro:vale un’enciclica,come la mozzetta di velluto rossoorlata d’ermellino



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(insegna del potere)rifiutata,come la Croce di ferroche rimpiazza quella d’orosul petto bianco, purificato,come l’anello d’argento, senza pietre preziose,all’anulare destrobenedicente.Il «Pregate per me!», poi,sembra un appello venuto dall’Orto degli Ulivi;chiedi silenzio,susciti raccoglimento,ingeneri spirito di penitenza.S’inizia il tuo cammino di passione tra noi,papa Francesco!

Stranito, ti prendo così come mi apparie sei: rischio,torno a sperare(mi insegnò che Dio non s’è pentitoun frate poeta,quel Turoldo cui saresti piaciuto:ti avrebbe forse salutato con un Salmo,uno dei suoi)e mi domandose avremo il coraggiodi cambiare,se riusciremo a vegliareal tuo fiancodiscepoli insiemed’un Amore



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immensamente più grandedel nostro infinito peccare,alieno da entusiasmi effimerie scontati,inquieto,spogliato da ogni attesa impropria,toccato dalla Graziadel dono,che non so (parlo per me)se meritato.



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FARE POESIA

«Dalle molte preoccupazioni ven-gono i sogni e dalle molte chiac-chiere il discorso dello stolto».

Qohelet 5, 2

C’è un tempo per isolarsie uno per gettare ponti,

c’è un tempo per pensarsie uno per ascoltare,

c’è un tempo per rif letteree uno per dire,

c’è un tempo per scendere dentro di sée uno per restituire,

c’è un tempo per tratteneree uno per donare,

c’è un tempo per proteggersie uno per condividere,



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c’è un tempo per meditaree uno per comunicare,

c’è un tempo per seminaree uno per mietere,

c’è un tempo per parlaree uno per fare poesia.



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DIVERSI

Siamo diversi infinitamente – dici – e procediamo lungo una stradache non si sa dove conduca.

Sarà. Ma viviamo una storia comune,non dimenticarlo:in cammino, siamo.

La via della ricercaè un ruscello di montagnache viene da nevai lontani:non li vedi.Lungo pendii scoscesiscende a vallee varchi si apretra sassi, cespugli, prati,sparisce e ricomparein cascatelle,si confonde in pozze erbose,scivola viae ritrova lenain una conca amica,costellata di ranuncoli,



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di nontiscordardime,di margheritee cardi,la china lo accompagna al fiume.

Altre acque lo aspettano,di ruscelli prossimi e diversi:insieme proseguono un viaggiosenza fine,corrono uniti,f luiscono,

si perdono,lontano.



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HO SOGNATO UN MONDO

In un mondo sono natodove non si andava oltre i Bastionieretti dai conquistatoriche avevano abbattuto le muraposte a difesadi botteghe e di palazzida dominatori precedenti,i quali, per la volta loro,l’avevano fatta da padroninel borgo ed in campagnalungo una storia senza treguadi scorribande, di difese,di continue pretese.

Ho sognato un mondoche alzasse i ponti levatoie non muovesse guerraallo sconosciutoche arriva da lontano,fratello nell’umanoe poi cristiano,ebreo, o musulmano.



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Vivo in un mondodove fa la voce grossachi fossi scavaed erge barricatenell’indifferenza diffusae nella compiacenza neghittosa,in un meriggiare di coscienzee di intelligenze appannamento.

Non mi arrendo:resisto fin che vivoe la memoria di figli e di nipotispero che prenda il testimone,vada avanti con lena rinnovata.

Se il Padre mi accoglieràtra le braccia amicheuna preghiera d’intercessione eleverò:sia concessoa chi dopo di me vienesino alla generazionedi cui non so pensareil numero a seguire,perseveranza,determinazione generosa,forza di dire «sì, sì, no, no»;il rimanentedal Maligno procedee verità non vede,nemmeno con l’aiuto della fede.



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GENIUS LOCI

Non riconoscoquesta città che cresce in verticale:mostra un’erezione ostentatadi cemento,

innaturale.

Eppureresistere vedol’Anima di un luogoancora umano,che rifiuta di esseresemplicementeagglomerato urbano.La ritrovonel tappeto di muschio e funghisopra gli alberi

del parco,nei vasi di fiori ben curati

sui balconi,tra i banchi dei mercati rionalitavolozze di colorisovrastate da urla corpose

e poliglotte,



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negli anziani che il sole prendonoai giardini,

nei passeggini sospinti da tatedi colore,

nello sferragliare dei vecchi tramserie millenovecentoventotto,

nelle ragazzine sfacciateinconsapevolmente

e nei loro coetanei maschi al confrontobambini,

nello scorrere lento dei Navigli,leonardescamente geniali,belli,

poetici,vitali.



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PERSEVERANZA

«Se non vedete segni e prodigi, voi non credete».

Giovanni 4, 48

Sì, anch’io chiedevo segniche a credere mi costringessero,che rendessero faciledirmi cristiano(duemila anni sono trascorsi invano:mi aspetto la tua risposta risentita);invocavo un cenno,un indizio almenoche garantisse la strada segnata

per venirti dietro.

Sì, anch’io sognavo di poter pregaresalmodiando che luce sul mio camminoè la tua Parola.Invece trovo un velo di caligine

disteso.Mi chiedo se strabico e appannatoè il mio sguardoo diverso il tuo disegno.



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Vedo – questo sì mi è chiaro –che non viene consentita a mepacificante adesione.Dirsi sicuri? È perdizione.

Non ho scampo.Sono preda di una voglia senza fine:tu me l’hai impressa dentro,riconoscilo, perdio! –chi altro può aver posto nel cuorela brace del desiderio di te,un’inquietudine che rimette in giocoogni conquista?Resisto,

non mi arrendo.Insisto.

Riprendo da capo ogni volta,senza sosta.

Mi chiedo se perseveranza basteràa rinnovarel’antica tua promessa,a riaccendere l’immaginario di Dio,mio e di un popolo interoche nell’anima fruga e fugge il vuoto.

Continui a tacereo io mi ostino a non udire:sento crescere l’ansia,acuirsi il patire.Procedo a stento.



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L’irrequietezza prende, salesu per la schiena, attanaglia.

Non ritrarti,non lasciareche agli occhi miei e degli amicipossa sembrare un visionario.Se puoi, non mi fare ancora male.Non ti basta il mio cercare?



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ANIMA MIA

Dove vai anima mia,quale giaciglio cerchi per posare il capoe ricevere tenere carezzeche ripaghino il pesodi frustranti andirivieninel cammino senza sostae la paura allontaninodi un domani senza cielo.

Che fai? Una volta ancora mi trascininelle morbidezze di sussurri,di parole dolci,di allusive proposteseducenti;incontreremo – dici –il divino e l’umanoabbracciati

e distaccati in una delicatafestosa danza

colorata di verde,di azzurro,di carminio smaltato

rilucente.



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Ci sto, lo sai! Balleremo;nel vorticemani, passi, corpisi rincorreranno;cercherò di toccarti,di tenerti ferma,di averti per me solo,almeno un attimo, al volo…

Ma già lo intravvedo:la testa mi farai girare,mi lascerai sorpreso,ripartirai di scatto,mi condurrai oltreancora danzandocome fosse il grande giocodella Creazionequando Dio nell’uomo impressel’istinto della somiglianza a Luima non segnò la via maestralasciando a ciascuno la sceltase seguirlo o bestemmia proferire:la tremenda domanda del che faree dove andare!

Tu ed io siamoanima che mi fu data:è l’oggi miod’una peregrinazione senza resasospinta dal bisogno



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di mendicare un sensoche senza di te

non mi so dare.Eppure agogno.



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L’APPUNTAMENTO

Quando agli occhi la luce verrà spentachi sa cosa vedrò,se il tuo volto(ma neanche a Mosè tu lo mostrasti:desti un ammonimentosin da quei tempi?)o le tenebreche ricoprivano in principiola terra informe e deserta

e l’abisso.

Recherò comunque un dono con me:la gratitudined’aver vissuto questa vita;e se tu mancherai all’appuntamentoe regno del nulla fosse l’al di lànessuno mai potrà direche non ha avuto senso ed allegrezzal’essere venuto al mondoin un’appassionante storiadi fratelli e di sorelle,amato più di quanto io

ho amato.



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PASQUA A CHIAVARI

Nelle bianche striature sopra i sassidi lavagna grigia e neravedo le nervature della carnee le tessiture dell’anima miacon gli uomini e con Dio:il resurrexit annunciala riva quieta del mareper i Crocifissi della crisia patto che anch’io levi una preghierafacendo la mia partein agonia continuafino a che riconciliati non sarannoil cuore ulceratoda insature domandee la speranzache nasce dal Sepolcro vuotoe nessuno vede.



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CORRUZIONE

Braccia, mani, dita tutte nervi e nodialla maniera di Giacomettigli alberi del parcoprotendono nel cieloil lamento sordo e furentedi una città delusa, abitatama non più amata;chi dovrebbe prendersene curatira dirittonella selva oscurapopolata di case,svaghi, appartenenze interessate,affari;oltre il parco, poco più in làsul limitare della piazzanessuno si accorge della scrittascalpellata nella pietra grigiamangiata dall’inquinamentodel vecchio Fopponino*

antica dimora di monatti,

* Antico cimitero di Milano, a porta Vercellina, dove vennero sepolte le vittime della peste del 1630 narrata dal Manzoni nei Promessi Sposi.



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rapaci con i don Rodrigo,delicati con la piccola Cecilia,quando la peste era un nero bubbone nel corponon corruzione della vita pubblica,anima buiacarogna cieca,svuotata di idealicol ghigno insolentedi chi la fa franca;là fuori da porta Vercellinapotevi [e puoi!] leggere in trepida orazioneil monito del sempiterno scontrotra la morte e la vitache penetra le viscereed atterrisce giustamente:quel che sarete voi noi siamo adesso,chi si scorda di noi scorda se stesso.

Ferma la gente che passa distratta,conducila all’edicoladel vecchio Fopponino;portiamo un cero,inginocchiamoci,chiediamo perdono tutti insiemeper questa città smarrita,un confiteor collettivo proclamiamo,invochiamo l’aiutoad essere noi stessifinalmente,a rinascere dai crani e dalle ossaimpilati lì sotto l’altare,



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a liberare l’immaginazione,a ritrovare una scintilladi creatività sociale(la invocòin processione penitenzialeun Venerdì Santoil nostro Cardinale),chiediamo alla Crocecon il Santo Chiododi far da pungoloper un guizzo di passione,un’illuminazione di futuro,una voglia di buona politicadi santità civile e laicale,una scelta di vita solidale.Rigenerati dal lavacro salutarenel vecchio Fopponinoriprendiamo il cammino,impariamo a vigilare,ritorniamo a sperare,amare.Allora anche figli torneremo a generare.



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FIUMI CARSICI

Sotto il parco di via Solariscorre quanto restadel vecchio fiume ormai interrato:nutre gli alberi, i prati,i giochi dei bambini,l’abbaiare dei cani nei recinti,la libera uscitadelle badanti ucraine rumene filippinein rigidi capannelli separati,la lettura del giornaledi anziani curiosi sempre della vita,il ripasso di studentiprossimi all’esame,le rade panchinedi amantigioiosamente avvinghiati,

invidiati.

Cammino su è giùper i vialetti;la ghiaia freme,racconta le storiedi uno spicchio di terra emersa



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nella distesa d’asfaltoe di cemento armatosotto cui scorrono altri fiumi:sono le memorie di desideri umaniinascoltati,sono i gemiti di una natura incatenata,sono il mistero di un Dioche tanti hanno incontratoma che nessuno ha mai veduto;dal profondoall’unisonofessure d’aria e di luce inseguono:premono, vogliono vincereil neghittoso adattamentoalla cultura della resain cui si spegnea poco a pocouna città

stranita,scipita,

dall’anima dolente,ferita.



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DISGELO

Stropicciate le nuvole nel cielodanzano tra cime, vallate e abetimentre bucaneve e violesui prati che il disgelo inturgidiscein girotondo inseguononontiscordardime a ciuffi.Vorrei levare lode e dire grazieper i doni d’un mondo che nuovo tornacome mai primae intacca un cuore fatto di Verde Splugacon il muschio soprache credeva tutto fosse già sperimentato,noto, spiegato.



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IL SORRISO DI DIO

Quando stanotte, domani,o tra sei mesi o sette anninell’attimo in cui sceglierai tucome chiamarmi,mi presenterò senza stupore,che il tempo giusto è venuto.Sono pronto,tutto è apparecchiato,i rimpianti sfumati,il colloquio tra noi avviato,lo sai perché dentro di me hai casa,la mia memoria abiti,il cuore scaldi,nervi e muscoli protendi,i sensi rendi vigili,i luoghi dell’anima presidimentre io vago impenitentee spesso mi disperdo,erro nel cercarti altrovedimentico che in medalle origini fecondi operano i tuoi doni.

Ho faticato,ma la vita molto mi ha dato,



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più di quantoogni volta sognato.Sono appagato,voglio tramandareuna verità a me cara, testimoniareche se del sentire scendo alla radiceoso dirmi felice creaturanel peregrinare prodigo d’incontri,amici, opere, visioni,figlio d’una natura possente,dolce, umida, caldagenerosa genitriceper tuo antico mandato, esigente.

Lascia però che sin da orauna richiesta avanzi per quel giorno,un’orazione:indulgenza ti chiedose insopportabili fossero i dolori,se recriminazioni invadessero la mentee contaminassero le labbrao se all’improvviso opponessi resistenza,se avessi la pauradell’ignotoche lucidamente oggistimo ininf luente,se dovessi contraddirela docilità che la penna ha messoora nella manoe ha disteso in ali soffici il pensiero,protestare, rivoltarmi,



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implorare,chiedere di procrastinare,mendicare un’ultima carezza, un saluto,un abbandono tenero sponsale,un bacio prolungato,una parola amicache posticipi il nostro appuntamento.

Tendimi le braccia in quel momento,te ne prego,fa’ con un sorriso quel che devi fare.Da quel volto addolcitoche finalmente mi si sveleràsenza bisogno d’immaginazionecapirò che tutto è compiutoe nulla è finito.



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RICORDO

Quando il ricordo di meabiterà il tuo cuoreusa per favore ogni riguardo:lui saprà dove annidarsifermo e discreto,pronto, solerte.Se pensieri nasceranno dall’incontro,se immagini, emozioni e sentimentiprodurranno il turbamentoche attendoe desidero sin da oracon sgomento,al tuo seno accoglienteprofesserò riconoscenza:la corrispondenza feconda,che una volta ancoratra noida egoismi mondaintrecciata si sarànel corso di giorni senza tempo,avrà corroboratoil sempiterno evento della vita,nella memoria di un umano appassionato,



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che per generazioni meritad’esser tramandato,e nel desiderio di un Dioche non sapremo mai,da vivi almeno,quanto con la nostra avventuras’è immischiato.



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ALTROVE

Faccio il mio ingressonel Club dei Grandi Anziani;sempre più chiaro si delinea l’indomani:il nuovo giorno è donoed il procedere è a vista.Non mi spaventase è senza ritornol’ultimo tratto, il restante

cammino.

Sono lucido:la meta sarà Altrove, mi dico,e bagaglio (non da poco) per il viaggioresto convinto siaciò che ho studiato, appreso,condiviso lungo gli anni:un’altra vitadarà il cambio a questaquando scoccherà

l’ora.

Morte e nascitasono sorelle,



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abitano l’antica casadell’uomo,

l’una alla notte oscura sovrintendel’altra l’aurora accudisce;sono come Marta e Maria:senza di loro anche Dio

si smarrisce.

D’improvviso, sul percorsoun ripido tornantedi fronte mi si para:l’orizzonte è impeditoda un minaccioso, alto sperone di roccia

che incombe;amico degli occhi e dei passi incertinon sembra lo sfasciume di pietre,il sedime di radici divelte,di cardi e ortiche,di sterco di vacche disseccato

intorno;livida e limacciosa l’orecchio feriscel’acqua fragorosa del fiumedi sottorigonfiato dalle dighe aperte a montedopo i temporalitra ripidi e grigi dirupi nella gola erosa:precipita di sottocon rimbombo di sassie sinistra

rintrona.



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Dissolto è il parapetto,sono sulla soglia di una cengiain bilico,sospeso a un fascio di nervimentre dal fondo valle risalefitta e veloce la nebbiache oscura il cielo:penetra, sfuma, pervade, avvolge

e paralizza.

Della solarepromessa pasqualei fianchi mi ero cintonel tempo,di margherite e anemoniho tinto la speranzadel lungo cammino,ma confusione ora m’assalee disorienta,mi avvinghia la paura,cado:il vuoto è un grembo accogliente,

di pece.

Ho un soprassalto, mi chiedose mi è capitato il sognodi risalire l’antica strada verso il passoche traversa le Alpie conduce oltre il confinea nuovi inattesi incontrio se sogno è un Altrove,



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immaginatoe a lungo coccolato,all’ombra di un’idea di Dioinseguito e amato alla follia,via d’una nuova vita,mentre una tomba di sasso rimarrà

soltantoalla finecon sopra il mio nome

tracciato.



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MORIRE CON ELEGANZA

Sorprendesti tutti una seradicendo dal pulpito a San Marcoche bisogna morire

con eleganza.

Qualcuno compatì il vecchio presule:«È malato»,ma stramberia non venne dalla tua parola.La danza della Sapienzache, lieve di giubilo,in quel tempogiocava con il Creatoreecheggiò nella voce provata,mai fiaccata però,prospettando la strada dell’attesa reiteratadi una cosmogoniache di privato ha il corpo nostroma nella storia comune universaleopera, prega, s’inebriain un abbraccio gioiosodi musica, passi leggeri, abbandono

celestiale.



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COME UN’ANCELLA

Perché l’icona di uno scheletroavvolto in torvo mantelloche con falceminacciosasenza scampoavanza ed atterrisce;perché un’immaginenordica e diacciada fine irrevocabile del mondo.

Come un’ancelladi poppe f loridae con larghi fianchidipinta andrebbe Morte:badante di bianco vestitapremurosa protegge, e sostiene, incoraggia

la Vita.



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CANTO DELLE CORIFEE BADANTI

Le badanti che portano gli anziani al parcoin processione,

corifee della tragedia di cui noi siamoil copione,

silenziose e composte nelle multiformi foggesono lo strumento d’un destino ingrato nella loro

occupazione:accompagnano l’Europa per lo sdrucciolevolepiano inclinato della cultura del

declino.

Le badanti sono gli avamposti di popoli enazioni:

con determinato e naturale f lusso,come fa la Terra quando tellurico sommovimento

assesta,dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina si mettono

in cammino,ripercorrono nell’inversa direzionele avventure, le strade, le rotte, le conquistedi pionieri, mercenari, esploratori, eserciti, mercanti

e missionari,facendo pari e patta con l’antico nostro



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ottuso e pervicace vizio: lacolonizzazione.

Le badanti poi che dai Paesi dell’Estsgangherati pullman portano ogni giornosono il contrappasso del sogno

comunista,delle visioni d’un mondo che gulag creò, inf lisse

pene,procurò vittime innocenti perché a tutti fosse dato

il giusto(ma oligarchi soltanto e Gazprom oggi restano

alla vista),sono la Nemesi dell’imperialista mania

[dell’Occidente,che, relegati radici giudaicocristianeed epici scontri con le antiche deità pagane

nell’inconscio,superficialmente procede nell’esportar democrazia

(se conviene),liberismo, bulimia nei consumi, paradisi

artificiali,razionalismo, anoressia dell’anima,

morte di Dio.

Le badanti hanno figli, mariti, vecchi da mantenerea casa

e lavorano sperando di portarli presto quida noi;

nelle traversie d’un laborioso convenienteadattamento



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molte, intanto, si fanno anche un compagno(sono donne!),

ma di affetti, ricongiungimento, voglia di viveree di amare

non interessa nullaai tutori della morale sessuale (altrui)e dell’ordinata (si fa per dire)cattolica (c’era una volta) istituzione

familiare.

Alle badanti la professione nessuno l’hainsegnata:

le ha ispirate un arcaico bisognodi sopravvivenza,

necessità ha fatto per loro le veci della scuolae lo spasmo del trovare un proprio posto a questo

mondoha suggerito la via del possibile

nell’esistenza.

Nel caos di una legislazione inadeguata,complicata da pregiudizi, cattiva coscienza, sinistra

ipocrisia,nella nebbia di chi chiude gli occhi davanti

all’evidenza,la Grande Madre d’un’antica religione che mai fu

soppiantataprotegge le badanti nella migrazionedai trafficanti di donne e da chi le vuol pagare

in nero(se protestano, «tanto c’è la coda fuori»



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minaccia la signora milaneseimbellettata);

su tutte quel fiero simbolo del Femminile,grembo di vita che ad ogni ciclocol sangue ribadisce un secco no

alla morte,stende un velo di solidarietà e di compassione,promette una sorte amicasenza guardare in faccia a fede, Paese, colore, usi,

acconciatura.

Le badanti dalla fine del mondoson partite,

nel cuore recano l’eterno alitodel generare,

del soffio che in principio ha separatola luce dalle tenebre, la volta celeste da monti

[e da pianure,le acque del cielo da quelle del

mare,che di tutte le creature l’universo ha popolato,che di uomo e donna s’è da principio

innamorato,e se il nostro Dio incontrato non l’hanno nel

peregrinareper il solo loro lanciarsi nella vita arditedalla Madre Terra comunque vengono

accudite.

Le badanti si prendono cura di noi(fin quando?),



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uomini e donne che neppur più atei riusciamo adiventare

e abbiamo perso la gioiae la speranza

di avere un santo a cui votarcie di accampare motivi

di sostanzaper mettere al mondo figli e sognare nipotinisenza prendersi cura unicamente di gatti

e cagnolini.



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LE CASTAGNE MATTE

Grandinano a settembre le castagne mattesul viale del parcoche da casa allo studio mi conducee al mistero dell’altroin uno stretto varcomi introduce.

Do piccoli calcinella terra battuta, tra la ghiaia,al guscio aculeatoche la caduta dal ramo non ha rotto;si apre finalmente:raccolgo, accarezzo, rigiro,dalla polvere pulisco,metto in tascail frutto lucente e scuro;lo passo tra le dita,lo premo e lo struscionel palmo della mano,lo rivolto,talismano nella città infinitadi amori e di dolori:in essa mi accomuno



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con chi dentro il parco camminae alle stagioni dell’ippocastanosi avvicina,medicamento naturaleper una Milanodal cuore oggi villano.



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I PICCIONI DI GERUSALEMME

I piccioni di Gerusalemmesbriciolano col beccoil pane buttato dal cuoco arabosul tetto di lamierae poliziotti in assetto di guerrasparano fumogenirincorrendo invisibili ragazziche sassi lanciano contro i blindatisotto le mura vecchie schierati.

I piccioni di Gerusalemmesbriciolano col becco il panee al checkpoint una guardia armatas’infila il giubbotto antiproiettileprima di salire sul bus dei pellegriniper controllare i passaporticon occhi azzurri di gatto impauritomentre il collega sul grilletto del mitra tiene il dito.

I piccioni di Gerusalemmesbriciolano col becco il panee uno scooter rombandoa zigzag evita i turisti



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nella Via Dolorosanascosto il centauroin un casco integrale,i negozianti dai volti scurie pose indifferentiaspettano improbabili acquirenti.

I piccioni di Gerusalemmesbriciolano col becco il panee bambini dai lunghi cernecchisotto la kippahi volti bianchi più della nevea Mea Shearim vanno per manoa mamme infagottate di gonne e di parrucchedue passi indietro a mariticoi filatteri che spuntano dai neri vestiti.

I piccioni di Gerusalemmesbriciolano col becco il panee una vecchia accovacciata sui gradinisotto la Porta di Damascodivide prezzemolo e cornetti nella cesta a fiancoche ragazzi di corsa sfioranospingendo tra le urla carretti a tre ruote verdipieni di mercanziaguardati a vista dalla polizia.

I piccioni di Gerusalemmesbriciolano col becco il panee comitive di russi e giapponesisgomitano per fotografarsi



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davanti all’altare del Calvario,monaci ortodossi ruvidi dan di vocea chi nel Santo Sepolcro vorrebbe sostareun momento soltanto per pregare.

I piccioni di Gerusalemmesbriciolano col beccoil pane buttato dal cuoco arabosul tetto di lamierae non si alzano in volonel cielo azzurro della Città Santa.



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IN EXITU

Domine ivimus*

Raccogli questa gomena che lancioal caro, saldo approdo silenziosodelle tue rive aperte e impervie.

Dentromi scopro a dirti in orazionequel che ogni giorno senza una paroladirti vorrebbe ogni mio gesto.

Intantobruciano lente le ore nell’attesa.

* «Signore siamo arrivati» è il canto del Pellegrino arrivato finalmente a Gerusalemme. La locuzione è graffita su un muro del Santo Sepolcro (cappella di San Vartan), sotto una barca anch’essa graffita. Echeggia il Salmo 122: «Fui pieno di gioia quando mi dissero: / Andremo alla casa di Jahweh!».

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