L'incubo del declassamento. Appunti per una storia del malessere dei ceti medi

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1 L’incubo del declassamento. Appunti per una storia del malessere dei ceti medi Gianni Silei* in Società in rivolta. Alle radici del disagio collettivo nel XXI secolo, a cura di Fabio Lucchini, Milano, Stripes edizioni 2012, pp. 33-69. Tema centrale delle analisi imperniate sullo sviluppo della stratificazione sociale delle società avanzate, la questione dei ceti medi impegna ormai da alcuni decenni economisti, scienziati sociali, storici e filosofi. Le sue origini sono strettamente collegate al progressivo avvento della società post-industriale, definizione tanto azzeccata quanto indefinita e ambigua 1 . Argomento di una letteratura sterminata e soggetto anch‟esso dai tratti indistinti e di difficile definizione (sul finire degli anni venti Benedetto Croce ne parlò come di «un equivoco concetto storico» e più tardi Ralf Dahrendorf giunse a definirli «gruppo che non è un gruppo, classe che non è una classe, strato che non è uno strato»), i ceti medi sono stati i principali protagonisti della golden age (l‟«età dell‟oro»), la fase che va dalla fine del secondo conflitto mondiale alla prima metà degli anni settanta 2 . Per un curioso scherzo della storia, il dibattito sul declino della middle class 3 si aprì negli Stati Uniti nel luglio del 1983 , cioè all‟inizio di quel decennio che in apparenza ne avrebbe celebrato l‟apogeo, con un articolo di Bob Kuttner sull‟Atlantic Monthly. L‟analisi di Kuttner attingendo ai dati occupazionali evidenziava una crescente polarizzazione dell‟offerta di lavoro tra lavori di prestigio altamente remunerativi (destinati ad un numero limitato di persone specializzate) e lavori di basso profilo e a bassa retribuzione mentre mostrava una progressiva diminuzione delle mansioni tradizionalmente riservate ai ceti medi. Di questo passo, vi si sosteneva, l‟America avrebbe avuto «difficoltà a rimanere una middle-class society» 4 . Ripreso da altri contributi, l‟allarme di Kuttner venne rilanciato da Lester Thurow che sul New York Times del 5 febbraio 1984 giunse a una conclusione inappellabile: «The American middle class is disappearing» 5 . Un anno più tardi, di fronte a questa preoccupante prospettiva, Neal H. Rosenthal si chiese se questo declino fosse mito o realtà 6 . La risposta fu apparentemente interlocutoria: negli Stati Uniti erano effettivamente in atto dei mutamenti che parevano evidenziare un declino dei ceti medi, tuttavia i dati mostravano una sostanziale tenuta, al punto che, di questo passo, la temuta polarizzazione dei redditi si sarebbe forse compiutamente realizzata solo a partire dalla seconda metà degli anni novanta. Il fatto che certi toni allarmistici fossero usati in prevalenza dagli editorialisti e dalla stampa d‟opinione di oltre Oceano poteva indurre a ritenere che si trattasse di esagerazioni oppure di valutazioni dettate da una sorta di «sindrome da accerchiamento» tipica della cultura e della sensibilità americana 7 . Invece, l‟inquietudine della middle class americana parve progressivamente contagiare anche quella europea. Con gli anni novanta, il malessere dei ceti medi cominciò a 1 Cfr. D. Bell, The Coming of Post-Industrial Society, New York, Basic Books 1973. Cfr. inoltre U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, pp. 13 e ss. e in C. Crouch, Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Roma-Bari, Laterza 2011, pp. 5 e ss. 2 B. Croce, Di un equivoco concetto storico: la borghesia, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 26, 1928, pp. 261-274; R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Bari, Laterza 1970, p. 101. 3 Il termine middle class, più correttamente traducibile come “ceto medio”, rimanda al concetto, tipicamente americano (e più teorico che reale), di un corpus sociale omogeneo sul piano culturale, dello stile di vita e dei comportamenti politici. Anche se non sono propriamente sinonimi, sempre allo scopo di rendere meglio la complessità e l‟articolazione si è liberamente associata a middle class l‟espressione ceti medi. 4 B. Kuttner, The Declining Middle, in “The Atlantic Monthly”, July 1983, pp. 60-72. (< http://www.theatlantic.com/past/politics/ecbig/declkutt.htm>). 5 L. Thurow, The Disappearance of the Middle Class, in “The New York Times”, February, 5, 1984, p. 3. 6 N.H. Rosenthal, The shrinking middle class: myth or reality?, in “Monthly Labor Review”, march 1985, pp. 3-10. 7 F. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell‟immaginario americano, Bologna, Il Mulino 2002, p. 13.

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Estratto da Società in rivolta. Alle radici del disagio collettivo nel XXI secolo, Milano, Stripes edizioni 2012, pp. 33-69(da non citare senza il consenso dell'autore)

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L’incubo del declassamento. Appunti per una storia del malessere dei ceti medi

Gianni Silei*

in Società in rivolta. Alle radici del disagio collettivo nel XXI secolo, a cura di Fabio Lucchini, Milano,

Stripes edizioni 2012, pp. 33-69.

Tema centrale delle analisi imperniate sullo sviluppo della stratificazione sociale delle società

avanzate, la questione dei ceti medi impegna ormai da alcuni decenni economisti, scienziati sociali,

storici e filosofi. Le sue origini sono strettamente collegate al progressivo avvento della società

post-industriale, definizione tanto azzeccata quanto indefinita e ambigua1. Argomento di una

letteratura sterminata e soggetto anch‟esso dai tratti indistinti e di difficile definizione (sul finire

degli anni venti Benedetto Croce ne parlò come di «un equivoco concetto storico» e più tardi Ralf

Dahrendorf giunse a definirli «gruppo che non è un gruppo, classe che non è una classe, strato che

non è uno strato»), i ceti medi sono stati i principali protagonisti della golden age (l‟«età dell‟oro»),

la fase che va dalla fine del secondo conflitto mondiale alla prima metà degli anni settanta2.

Per un curioso scherzo della storia, il dibattito sul declino della middle class3 si aprì negli Stati

Uniti nel luglio del 1983 , cioè all‟inizio di quel decennio che in apparenza ne avrebbe celebrato

l‟apogeo, con un articolo di Bob Kuttner sull‟Atlantic Monthly. L‟analisi di Kuttner attingendo ai

dati occupazionali evidenziava una crescente polarizzazione dell‟offerta di lavoro tra lavori di

prestigio altamente remunerativi (destinati ad un numero limitato di persone specializzate) e lavori

di basso profilo e a bassa retribuzione mentre mostrava una progressiva diminuzione delle mansioni

tradizionalmente riservate ai ceti medi. Di questo passo, vi si sosteneva, l‟America avrebbe avuto

«difficoltà a rimanere una middle-class society»4. Ripreso da altri contributi, l‟allarme di Kuttner

venne rilanciato da Lester Thurow che sul New York Times del 5 febbraio 1984 giunse a una

conclusione inappellabile: «The American middle class is disappearing»5. Un anno più tardi, di

fronte a questa preoccupante prospettiva, Neal H. Rosenthal si chiese se questo declino fosse mito o

realtà6. La risposta fu apparentemente interlocutoria: negli Stati Uniti erano effettivamente in atto

dei mutamenti che parevano evidenziare un declino dei ceti medi, tuttavia i dati mostravano una

sostanziale tenuta, al punto che, di questo passo, la temuta polarizzazione dei redditi si sarebbe forse

compiutamente realizzata solo a partire dalla seconda metà degli anni novanta.

Il fatto che certi toni allarmistici fossero usati in prevalenza dagli editorialisti e dalla stampa

d‟opinione di oltre Oceano poteva indurre a ritenere che si trattasse di esagerazioni oppure di

valutazioni dettate da una sorta di «sindrome da accerchiamento» tipica della cultura e della

sensibilità americana7. Invece, l‟inquietudine della middle class americana parve progressivamente

contagiare anche quella europea. Con gli anni novanta, il malessere dei ceti medi cominciò a

1 Cfr. D. Bell, The Coming of Post-Industrial Society, New York, Basic Books 1973. Cfr. inoltre U. Beck, La società del rischio.

Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, pp. 13 e ss. e in C. Crouch, Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il

neoliberismo, Roma-Bari, Laterza 2011, pp. 5 e ss. 2 B. Croce, Di un equivoco concetto storico: la borghesia, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 26, 1928, pp.

261-274; R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Bari, Laterza 1970, p. 101. 3 Il termine middle class, più correttamente traducibile come “ceto medio”, rimanda al concetto, tipicamente americano (e più teorico

che reale), di un corpus sociale omogeneo sul piano culturale, dello stile di vita e dei comportamenti politici. Anche se non sono

propriamente sinonimi, sempre allo scopo di rendere meglio la complessità e l‟articolazione si è liberamente associata a middle class

l‟espressione ceti medi. 4 B. Kuttner, The Declining Middle, in “The Atlantic Monthly”, July 1983, pp. 60-72. (<

http://www.theatlantic.com/past/politics/ecbig/declkutt.htm>). 5 L. Thurow, The Disappearance of the Middle Class, in “The New York Times”, February, 5, 1984, p. 3. 6 N.H. Rosenthal, The shrinking middle class: myth or reality?, in “Monthly Labor Review”, march 1985, pp. 3-10. 7 F. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell‟immaginario americano, Bologna, Il Mulino 2002, p. 13.

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diventare argomento di discussione e di confronto non solo per studiosi o addetti anche nel vecchio

continente, compresa l‟Italia «arrabbiata per le tangenti» e in cerca di identità8.

Il centro del dibattito restavano comunque gli Stati Uniti. Nell‟estate del 1997, Rudi Dornbusch

confermò le cupe previsioni formulate da Rosenthal scrivendo una sorta di epitaffio per i ceti che

venivano salutati con un «bye bye middle class» che lasciava poco spazio all‟immaginazione9. Nel

2003, Paul Krugman che da tempo si occupava di questi temi nei suoi editoriali sul New York Times

e su Slate tornò sulla questione della disappearing middle class denunciando l‟aumento della

diseguaglianza negli Stati Uniti (proprio in quell‟anno venne diffusa una statistica secondo la quale

il 20% di americani ricchi controllava il 50% dell‟intero reddito nazionale) e sottolineando la

perdita di centralità del ceto medio: «L‟America in cui sono cresciuto, quella degli anni cinquanta e

sessanta» – scriveva – «era una società costruita sul ceto medio, nei fatti e nei sentimenti».

Quarant‟anni dopo, questo il senso dell‟articolo, non era più così10

. L‟anno successivo, Michael

Lind, citando peraltro molti degli stessi riportati dallo stesso Krugman sul New York Times, fu

ancora più esplicito: «siamo ancora una nazione di ceti medi?»11

. Di lì a poco gli fece eco Samuel

Huntington con una disamina più ampia sulla nuova America multiculturale che si apriva con

ulteriore e forse ancor più inquietante interrogativo: «chi siamo?»12

.

Per quanto le argomentazioni imperniate sul cupio dissolvi dei ceti medi restassero

prevalentemente economiche e si focalizzassero sui mutamenti nel sistema di produzione, nel

mercato del lavoro e della composizione dei redditi, tra la fine degli anni novanta e l‟inizio del

nuovo millennio emersero contributi di impostazione differente, che alla ricerca di risposte,

spostavano l‟analisi sulle condizioni politiche e sociali che avevano invece favorito l‟ascesa dei ceti

medi nel corso del novecento. Incapace di mantenere il proprio stile, «fragile» e «intrappolata» in

una condizione di crescente precarietà13

, la classe media diventò ben presto oggetto non solo di

ricerche economico-sociali ma anche di alcune importanti inchieste giornalistiche: da quella in

undici puntate del New York Times, a quella del Wall Street Journal14

. Anche le principali testate

europee, dal Corriere della Sera con “Profondo Italia” a Repubblica con il suo forum telematico a

Le Monde, si mossero in questa direzione. Nel 2006, mentre il disagio della middle class

statunitense diventava anche quello dei ceti medi europei, Jacob Hacker mise in luce il progressivo

scivolamento delle famiglie americane verso la società del rischio, quasi preannunciando la bolla

immobiliare e la crisi dei subprime15

. Com‟è noto, la crisi americana innescava una «valanga»

destinata a varcare l‟Oceano e colpire duramente la finanza e l‟economia del vecchio continente,

anche in questo caso con pesanti ricadute sul piano sociale16

. Si trattava, se ve ne fosse stato

8 G. De Rita, Ma l‟Italia arrabbiata per le tangenti è una società vitale che cerca identità, in “Corriere della Sera”, 31 agosto 1992,

p. 15. 9 R. Dornbusch, Bye bye middle class, MIT Editorials, July 1997, pp. 1-8. 10 P. Krugman, Requiem per la gloriosa classe media, in “Reset”, 75, 2003, p. 31. Cfr. inoltre P. Krugman, For Richer, in “New

York Times”, October 20, 2002 e Id. The Great Unraveling. Cfr. P. Krugman, La deriva americana, Roma-Bari, Laterza 2004. 11 M. Lind, Are We Still a Middle-Class Nation?, in “Atlantic Monthly”, January-February 2004. 12 S. Huntington, La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Milano, Garzanti 2005. Il titolo dell‟edizione originale,

pubblicata nel 2004, era Who Are We? The Challenges to America's National Identity. 13 J.L. Westbrook, T.A. Sullivan, E. Warren, The Fragile Middle Class. Americans in Debt, New Haven, Yale University Press 2000;

E. Warren, A. Tyagi Warren, The Two-Income Trap. Why Middle-Class Mothers and Fathers are Going Broke, New York, Basic

Books 2003. 14 Cfr. The State of Working America, indagine annuale curata dai ricercatori dell‟Economic Policy Institute dal 1988 e di D.P.

McMurrer, I.V. Sawhill, How Much Do Americans Move Up and Down the Economic Ladder?, The Urban Institute 1996; Class

Matters. Social Class in the United States of America, iniziata con l‟articolo di J. Scott e D. Leonhardt, Shadowy lines that still divide

pubblicato sul “New York Times” del 15 maggio 2005 e Moving Up: Challenges to the American Dream, Wall Street Journal,

maggio-giugno 2005. 15 J. Hacker, The Great Risk Shift. The New Economic Insecurity and the Decline of the American Dream, Oxford-New York, Oxford

University Press 2006. 16 M. Gaggi, La Valanga. Dalla crisi Americana alla recessione globale, Roma-Bari, Laterza 2009.

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bisogno, della conferma che l‟«onda lunga del benessere, all‟insegna di forme ormai consolidate di

protezione sociale e di nuove prospettive di sviluppo» si era definitivamente esaurita17

.

Il problema del quando: le dinamiche dei ceti medi

Nell‟introduzione alla prima edizione del libro Il ritorno dell‟economia della depressione, uscito

nel 1999, Krugman dopo aver evidenziato sinistre analogie tra la Grande Depressione e la crisi delle

economie asiatiche degli anni novanta, aveva messo in guardia i suoi lettori: «per ora» - scriveva -

«solo un numero limitato di persone è stato vittima di questo nuovo malessere incurabile; ma anche

quelli che hanno avuto la fortuna di non essere contagiati sarebbero degli sciocchi se non cercassero

nuove cure, nuovi accorgimenti preventivi, qualsiasi cosa occorra, per evitare di diventare le

prossime vittime»18

. Alla luce di quel che è avvenuto dopo, l‟idea che la crisi asiatica degli anni

novanta fosse una specie di «prova generale» di qualcosa di più grande e devastante (la crisi globale

del 2008) si è rivelata una straordinaria intuizione. Lo stesso paragone della crisi delle ex tigri

asiatiche con una pestilenza appare suggestivo. Tuttavia partire da questi fatti e associare

direttamente le crisi recenti e la recessione alle angustie dei ceti medi, come spesso avviene in

alcune semplificazioni mediatiche, può essere fuorviante. Certe discontinuità (al pari di certe

continuità) rischiano di essere ingannevoli. Per quanto le crisi comportino inevitabilmente delle

ripercussioni sociali i processi che incidono sulla stratificazione hanno dinamiche ben più lunghe. In

altri termini, le crisi accelerano o frenano i processi sociali, che però si compiono in un arco

temporale più ampio e possono dunque essere meglio compresi e inquadrati attraverso la loro

storicizzazione.

Volendo fissare un ipotetico termine a quo della parabola ascendente dei ceti medi e prendendo

in prestito un‟immagine fortunata soprattutto nella letteratura d‟oltralpe ed entrata nel lessico

quotidiano, si potrebbe dire che l‟«ascensore sociale» si sia messo in moto con la fine della seconda

guerra mondiale. Tuttavia, le conseguenze di questa crescita verso l‟alto non si manifestarono

almeno fino alla metà degli anni cinquanta. A seguito di questo processo, quando la crescita

raggiunse il suo apogeo, cioè nella prima metà degli anni settanta, da un quarto a un terzo della

popolazione urbana di alcuni dei più importanti paesi industrializzati era passata «da classe

lavoratrice (o “manuale”) alla classe media (o “non manuale”) o viceversa»19

. L‟alta mobilità,

prevalentemente ascendente, portò un po‟ ovunque alla diminuzione (e poi alla quasi scomparsa)

degli occupati in agricoltura, alla diminuzione dei commercianti e degli artigiani (il “ceto medio

indipendente”) e all‟espansione dei quadri e delle professioni (il “ceto medio dipendente”). La

stessa classe operaia, pure in espansione, per effetto del miglioramento delle proprie condizioni

(frutto dell‟incremento dei salari e della vasta protezione sociale pubblica garantita dalle strutture

del welfare state) si avvicinò progressivamente allo status (aspettative e stili di vita compresi) della

“nuova” middle class.

All‟inizio degli anni settanta, anche se sulla base di stime percentuali indicative calcolate sulla

sola popolazione maschile attiva, i ceti medi rappresentavano la fetta maggioritaria delle società più

avanzate: il 50% in Giappone, il 44,2% negli Stati Uniti, il 41% circa in Francia, Italia e Svezia,

intorno al 35% in Germania e Regno Unito. In questo ambito, inoltre, soprattutto nei paesi

anglosassoni e in Svezia, i cosiddetti “nuovi ceti medi” (tecnici professionali, amministrativi,

impiegati) avevano sopravanzato i cosiddetti “ceti medi tradizionali”20

. Il tramonto della vecchia

17 V. Castronovo, Le ombre lunghe del „900. Perché la Storia non è finita, Milano, Mondadori 2010, p. 237. 18 Cfr. P. Krugman, Il ritorno dell‟economia della depressione e la crisi del 2008. Nuova edizione aggiornata ed ampliata, Milano,

Garzanti 2009, p. 9. 19 F. Barbano, Mutamenti nella struttura di classe e crisi (1950-75), in La crisi italiana. I. Formazione del regime repubblicano e

società civile, a cura di L. Graziano e S. Tarrow, Torino, Einaudi 1978, p. 197. 20 Cfr. C. Carboni, Tra ceto e classe, cit., p. 60, tabella 2.

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classe media autonoma e l‟avvento dei colletti bianchi, nuovi ceti medi dipendenti nel settore

privato e soprattutto in quello pubblico, che Charles Wright Mills aveva descritto nel suo studio

sulla società americana dei primi anni cinquanta21

, fu favorito da quelle componenti politiche di

ispirazione riformista (socialdemocratiche ma anche cattoliche e liberaldemocratiche) che videro

nell‟intervento dello Stato nell‟economia e nell‟espansione della sicurezza sociale (la ricetta con cui

Roosevelt aveva combattuto negli Stati Uniti gli effetti della crisi del ‟29) la strada per promuovere

crescita e sviluppo.

Pur manifestando dinamiche analoghe, il caso italiano mostra alcune peculiarità. Anche qui i ceti

medi vissero nel corso dell‟immediato secondo dopoguerra una fase di ascesa che si accompagno

alla più generale «rivoluzione dei consumi»22

. Anche qui, ai settori tradizionali della borghesia e del

ceto medio si andarono aggregando nuovi soggetti sociali. Secondo alcune interpretazioni, però,

questa espansione fu anche una conseguenza del carattere peculiare di “democrazia protetta”

(bloccata dalla conventio ad excludendum) che il paese aveva assunto dopo il voto del 1948 (anzi in

realtà dal maggio del 1947, cioè dall‟esclusione della sinistra socialcomunista dal governo). In

Italia, l‟ascesa dei “colletti bianchi” si accompagnò alla «fabbricazione di un “ceto medio

artificiale”» che rispondeva a un preciso disegno di stabilizzazione politica, economica e sociale

perseguito sin dalla stagione del centrismo23

.

Questa compresenza all‟interno dei ceti medi di qualcosa di “nuovo” accanto a qualcos‟altro di

più “antico” fu messa in luce da Paolo Sylos Labini all‟inizio degli anni settanta24

. Suffragata da

dati quantitativi che delineavano l‟evoluzione sociale italiana a partire dal tardo ottocento, questa

ricerca metteva inoltre in evidenza come l‟ascesa di nuovi settori sociali, composti in prevalenza da

una vasta piccola borghesia impiegatizia e in parte commerciale, fosse scaturita dalla rapida

espansione della burocrazia privata e soprattutto pubblica. Tale espansione aveva portato a una

riduzione del divario tra stipendi e salari con un conseguente avvicinamento delle rispettive

condizioni materiali. Fatto importante, ciò era avvenuto «in salita», cioè nell‟ambito di un

generalizzato miglioramento del tenore di vita. Nel descrivere i tratti dei nuovi ceti medi emergenti

Sylos Labini ne ribadiva la frammentarietà e l‟instabilità: «i ceti medi non sono propriamente una

classe» - scriveva - «si può parlare, al massimo, di una quasi classe, che possiede alcune solidarietà

di fondo (per ragioni economiche e culturali), ma che è suddivisa in tanti e tanti gruppi, con

interessi economici diversi e spesso contrastanti, con diversi tipi di cultura e con diversi livelli di

quella che si potrebbe chiamare moralità civile»25

. Le dinamiche, anche perverse, di questi nuovi

soggetti che a suo dire rappresentavano il vero fulcro dell‟Italia del secondo dopoguerra,

emergevano da un raffronto, ancorché imperniato su stime di massima, delle variazioni negli anni

della composizione sociale. Sotto questo aspetto, il cambiamento, strettamente correlato al processo

di industrializzazione del paese avvenuto negli anni della ricostruzione e del boom economico, più

che quantitativo, era stato qualitativo. Dal punto di vista percentuale, infatti, le classi medie, dopo

aver raggiunto il 56,9% della popolazione all‟inizio degli anni cinquanta, avevano subito una

leggera flessione (controbilanciata in alto da un leggero incremento della borghesia e, in basso, da

un aumento della classe operaia) attestandosi al 49,6% nel 1971. Scendendo nel dettaglio, al deciso

incremento della piccola borghesia impiegatizia (sostanzialmente ripartita equamente tra pubblico e

privato), che dal 5% del 1936 saliva al 17,1% del 1971, faceva da contraltare una riduzione della

piccola borghesia autonoma, che nello stesso arco temporale scendeva dal 47,1% al 29,1% per

effetto della forte contrazione dei coltivatori diretti, non altrettanto controbilanciata dalla pur

21 C. Wright Mills, Colletti bianchi. La classe media americana, Torino, Einaudi 1967 [l‟edizione originale è del 1951]. 22 S. Cavazza, E. Scarpellini (a cura di), La rivoluzione dei consumi: società di massa e benessere in Europa 1945-2000, Bologna, Il

Mulino 2010. 23 S. Lanaro, Storia dell‟Italia repubblicana. L‟economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ‟90, Venezia,

Marsilio 1992, p. 293. 24 P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Roma-Bari, Laterza 1974. 25 Ibidem.

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sensibile crescita degli artigiani e dei commercianti, soprattutto medi e piccoli (i cosiddetti

«proletari della borghesia»)26

.

Quando, a metà degli anni ottanta, Sylos Labini tornò a fare il punto della situazione sulle classi

sociali in Italia, il «grande imborghesimento» stava per raggiungere il suo culmine. Il paese era

stato investito da «diversi grandiosi mutamenti economico-sociali» che ne avevano radicalmente

mutato la stratificazione: rispetto al 1881 gli occupati in agricoltura era crollati di 45 punti

percentuali, quelli dell‟industria e artigianato (dopo aver raggiunto il loro apice nel 1971) del 5%. I

dati più rilevanti riguardavano gli addetti nei servizi (cresciuti del 27,5%) e della pubblica

amministrazione (+12%). «In complesso» - scriveva - «è la crescita enorme delle classi medie che

domina il quadro delle trasformazioni sociali in Italia»27

. La terziarizzazione, in Italia e ancor prima

nel resto dell‟occidente, si accompagnò a una «mutazione individualistica» al termine della quale i

nuovi ceti medi svilupparono una identità condivisa che travalicava la mera questione del reddito

(che viceversa era talmente diversificato da essere da tempo paragonato ad una vera e propria

giungla)28

. In questa stagione dell‟apparente ritrovato ottimismo e del riflusso (almeno questa è

stata a lungo la vulgata di un contesto che in realtà appare ben più articolato)29

contrapposta alla

stagione dei movimenti e delle spinte collettive degli anni sessanta e ai (sempre presunti tali) cupi e

critici anni settanta, si completava la modernizzazione avviata con il miracolo economico. Il

processo di aggregazione proseguì e i ceti medi, fino a quel momento rimasti “nascosti” e per molti

versi ai margini del dibattito politico e delle analisi sociali (che viceversa si erano prevalentemente

concentrati sulla classe operaia), vennero definitivamente posti al centro del dibattito. I

quarantamila impiegati e quadri intermedi della Fiat che marciarono nell‟ottobre del 1980 ne

divennero il simbolo. Insieme a essi c‟erano pure i piccoli imprenditori della “Terza Italia”30

e dei

distretti industriali ma i nuovi ceti medi, a differenza di quelli tradizionali, erano in prevalenza

lavoratori dipendenti. E maggioritari sarebbero rimasti, visto che di lì a poco, «nonostante

l‟affermarsi di una cultura „mercatista‟ e l‟enfasi ideologica posta sulla figura del piccolo

imprenditore di successo» il progressivo processo di de-industrializzazione verificatosi nel corso di

quegli anni avrebbe fatto tra le sue prime vittime proprio i «padroncini»31

.

All‟inizio degli anni novanta, quando il processo di “cetomedizzazione” iniziò a regredire, la

struttura della società italiana – ha scritto Giuseppe De Rita – aveva assunto la connotazione «di una

“grande pera”, era cioè composta da una numerosa e indistinta classe media, sempre più benestante

in termini assoluti e sempre più schiacciata verso livelli medio-bassi in termini di differenze

relative». Le fortune del “secondo miracolo economico italiano” si erano costruite attorno ad alcuni

indubbi punti di forza: il consumismo e il benessere quali assi portanti e identitarie dell‟intero

paese; il saldarsi attorno ai ceti medi, sul piano dello stile di vita così come su quello reddituale e

dell‟organizzazione del lavoro, tanto dei settori più avanzati della classe operaia quanto di quelli più

bassi della borghesia; la progressiva «terziarizzazione del sistema economico»32

. Un quadro

(almeno in apparenza) idilliaco. Ma proprio in quegli anni i molti nodi irrisolti generati dalle

profonde trasformazioni intervenute nel campo dell‟organizzazione della produzione e del mercato

del lavoro imperniate sulla flessibilità, culminate nel corso dell‟ultimo decennio del XX secolo con

l‟aumento esponenziale dei contratti atipici, provocarono, in Italia come negli altri paesi a economia

26 Cfr. B. Maida, Proletari della borghesia. I piccoli commercianti dall‟Unità ad oggi, Roma, Carocci 2009. 27 P. Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ‟80, cit., p. 28. 28 E. Gorrieri, La giungla retributiva, Bologna, Il Mulino 1972. Cfr. inoltre G. Gozzini, La mutazione individualista. Gli italiani e la

televisione 1954-2011, Roma-Bari, Laterza 2011. 29 Cfr. M. Gervasoni, Storia d‟Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Venezia, Marsilio 2010. 30 A. Bagnasco, Le tre Italie, Bologna, il Mulino 1977. 31 M. Paci, Le dimensioni della disuguaglianza. Rapporto Fondazione Cespe sulla disuguaglianza sociale in Italia, cit. in E.

Pugliese, Le trasformazioni delle classi sociali in Italia negli ultimi decenni, in “Economia Italiana”, anno 2008, n. 3, settembre-

dicembre, p. 622. 32 Cfr. G. De Rita, Composizione sociale e borghesia: un‟evoluzione non parallela, in A. Bonomi, M. Cacciari, G. De Rita, Che fine

ha fatto la borghesia? Dialogo sulla nuova classe dirigente in Italia, Torino, Einaudi 2004, pp. 40-43.

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postindustriale, un progressivo incremento della disuguaglianza. Rimessi in discussione in nome del

ritorno al mercato e all‟iniziativa individuale, i meccanismi redistributivi, già in crisi per gli effetti

delle crisi degli anni settanta, smisero di rappresentare una rete di protezione contro il

declassamento. I primi a esserne colpiti negativamente furono gli esclusi e il «proletariato dei

servizi»33

. Ma il contraccolpo fu sentito anche dai ceti medi. La golden age era ormai dimenticata.

Il come e il perché

Anche se ai tempi della «terziarizzazione degradata» e dello «sciupìo vistoso» e con l‟avvento

della «società liquida» avevano quasi dato l‟impressione di dimenticarsene34

, i ceti medi, in Italia in

misura forse ancor più marcata rispetto ad altri paesi, erano e sono una comunità di destino. Ciò

significa che i vantaggi e gli svantaggi individuali legati all‟appartenenza tendono a trasmettersi alle

generazioni successive. Un modo per cogliere queste dinamiche è quello di misurare le

disuguaglianze attraverso alcuni indicatori quali il grado di istruzione, la tipologia di occupazione, il

livello e la distribuzione del reddito o la mobilità intra e inter generazionale. Questa operazione,

peraltro delicata e complessa perché pone il problema del raffronto di dati non sempre omogenei e

immediatamente comparabili e lavora in un contesto (quello della stratificazione sociale) in perenne

mutamento, risulta comunque utile anche ai fini di una periodizzazione, sia pure di massima, della

“parabola” dei ceti medi.

Se il problema è stabilire se le classi medie sono davvero in declino occorre rispondere ad alcune

domande chiave. I ceti medi hanno migliorato o peggiorato le loro condizioni? E se impoverimento

c‟è stato quando è iniziato? Quali fattori lo hanno provocato? Rispondere a questi interrogativi

significa in prima istanza porre l‟attenzione sulla povertà, tematica non a caso tornata argomento di

discussione intorno alla seconda metà degli anni ottanta, cioè col riemergere della questione

dell‟esclusione sociale. Fino a quel momento, le analisi quantitative mostrano come l‟occidente

avesse vissuto una fase di generalizzata attenuazione delle disuguaglianze. L‟Italia aveva seguito

questa tendenza: sin dagli anni della ricostruzione divario economico e divario sociale erano infatti

entrambi costantemente diminuiti. Per un trentennio il reddito individuale medio era cresciuto con

conseguente attenuazione delle distanze sociali, e del divario tra salari e stipendi. A partire degli

ottanta, tuttavia, erano emersi i primi segnali di un parziale cambiamento di rotta: mentre il divario

sociale continuò a diminuire grazie ai positivi effetti del welfare state (che, non dimentichiamolo, in

Italia giunse a definitivo compimento, con la creazione del Sistema Sanitario Nazionale, solamente

alla fine degli anni settanta) quello economico prese salire sia per il riemergere della

disoccupazione, sia per il permanere del divario Nord-Sud, solo parzialmente colmatosi con la

crescita degli anni precedenti35

.

Questa tendenza proseguì in tutti i paesi occidentali negli anni successivi. Nel 2008, un rapporto

dell‟Ocse ha evidenziato come gli indici di povertà relativa (cioè il reddito di quei nuclei familiari

inferiore o uguale a una soglia di povertà calcolata sulla base della spesa familiare rilevata

annualmente da una indagine sui consumi) salirono mediamente di 0,6 punti proprio dalla metà anni

ottanta alla metà degli anni novanta e poi di un ulteriore 0,6 nel decennio successivo. In questo arco

temporale, durante il quale questa aumentò soprattutto negli Stati Uniti (il che contribuisce in parte

a spiegare il dibattito oltre Oceano) la povertà relativa diminuì in Grecia, Regno Unito e Italia. Qui

però, il dato complessivo (medio) era frutto di due differenti e contrastanti andamenti: la forte

diminuzione della povertà avvenuta tra metà anni ottanta e metà anni novanta e il suo incremento

tra la metà degli anni novanta e il 2005. Nel 2008, secondo l‟Istat le famiglie italiane che si

33 Cfr. M. Paci, La mobilità sociale in Italia, Bologna, il Mulino 1994. 34 P. Spanò, Ceti medi e capitalismo. La terziarizzazione degradata in Italia, Bologna, Il Mulino 1977; E. Berselli, Post-italiani.

Cronache da un paese provvisorio, Milano, Mondadori 2003, p. 12; Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza 2002. 35 Cfr. P. Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ‟80, cit., pp. 31-39.

7

trovavano in condizioni di povertà relativa erano stimate in 2 milioni e 737 mila (circa l‟11% delle

famiglie residenti) vale a dire 8 milioni e 78 mila individui (il 13,6% dell‟intera popolazione)36

.

Quanto alla povertà assoluta (ovvero quote di reddito inferiori all‟insieme dei beni e servizi

considerati essenziali per una determinata famiglia a conseguire uno standard di vita minimamente

accettabile), i suoi valori tendenziali registrati a partire dalla metà degli anni novanta si mantennero

pressoché ovunque in declino, eccettuato la Germania, almeno fino al 2005.

E le disuguaglianze? Il già citato rapporto Ocse ne evidenzia una accentuazione «diffusa e

significativa» le cui dinamiche temporali seguono quelle della povertà: iniziato nel corso degli anni

settanta, questo fenomeno è proseguito nei tre decenni successivi. Dal 2000, la disuguaglianza del

reddito, in parte diminuita ad esempio nel Regno Unito e in Grecia, è invece ulteriormente

aumentata in Nord America (Canada e USA), in alcuni paesi scandinavi (Norvegia e Finlandia), in

Germania e in Italia, che si caratterizzava per una accentuata polarizzazione dei redditi in un

contesto di forti differenziazioni territoriali37

.

Gli indici di povertà e diseguaglianza di queste e di altre recenti rilevazioni sembrano dunque

evidenziare come la crisi del 2007-2008 e la successiva recessione abbiano in realtà soltanto acuito

effetti e tendenze già in atto da alcuni decenni38

. Una ulteriore conferma di questo andamento

giunge anche dalla comparazione dei coefficienti di Gini (una misura convenzionalmente adottata

per misurare il grado di disuguaglianza) raccolti nel database del Luxemburg Income Study. L‟“onda

lunga” degli anni settanta caratterizzata da una generale diminuzione delle disuguaglianze prosegue

almeno fino ai primissimi anni del decennio successivo, nonostante i primi segnali di segno opposto

(particolarmente evidenti nel Regno Unito). La fase seguente, fatta eccezione del caso spagnolo

(che si mostra in controtendenza anche per effetto della fine del franchismo e dei positivi effetti

della transizione alla democrazia) e quello dell‟Italia (per la quale i valori dopo il picco del 1987

scendono fino al 1991), è caratterizzata da un generalizzato incremento e poi da una tenuta

dell‟indice. Negli anni novanta la disuguaglianza è ulteriormente cresciuta. A metà degli anni 2000

Francia e Germania (quest‟ultima sia pure con un andamento più altalenante) erano i paesi con il

minore scarto tra i valori iniziali e quelli finali. Regno Unito, Stati Uniti ma anche la stessa Italia e

Spagna erano invece quelli dove le disuguaglianze erano cresciute. La Svezia, simbolo del welfare

nordico, si confermava uno dei paesi a reddito più equamente distribuito, addirittura migliorando i

valori registrati alla fine degli anni sessanta.

Ulteriori spunti giungono da un altro indicatore, quello che oltretutto rimanda più direttamente

alla fortunata e spesso abusata metafore dell‟«ascensore sociale»: quello della mobilità. Per quanto

riguarda il caso italiano la mobilità ascendente è cresciuta pressoché costantemente per quasi un

intero secolo. I dati sono diventati particolarmente significativi a partire dagli anni cinquanta, cioè

in concomitanza con il boom economico: in questa fase la mobilità assoluta (ovvero la possibilità di

un individuo che occupa una certa posizione sociale di raggiungerne un‟altra) è fortemente

cresciuta, favorita non solo da fattori economici (la crescita del comparto industriale) ma anche da

fattori sociali (il processo di scolarizzazione, il miglioramento delle condizioni di vita, l‟espansione

del sistema di welfare e così via). L‟ascensore sociale – in linea con quanto stava avvenendo anche

nel resto dell‟occidente39

– ha continuato a funzionare anche negli anni sessanta, con indubbi effetti

positivi ma anche con inevitabili costi sul piano psicologico e sociale (si pensi ai problemi

dell‟integrazione a seguito dei forti flussi migratori dal mezzogiorno al nord Italia). Già a partire da

questo decennio, tuttavia, la mobilità assoluta cominciò ad interessare un numero sempre più

circoscritto di individui. Quanto alla mobilità relativa o fluidità sociale in Italia (cioè le opportunità

36 ISTAT, La povertà in Italia nel 2008, Istat, 30 luglio 2009. 37 Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries, OECD Publications, Paris 2008. Sull‟Italia cfr. ISTAT,

Distribuzione del reddito e condizioni di vita in Italia. Anni 2008-2009, dicembre 2010. 38 Cfr. A.B. Atkinson, E. Marlier (eds.), Income and living conditions in Europe, Luxembourg: Publications Office of the European

Union, 2010 e Divided We Stand. Why Inequality Keeps Rising, OECD Publications, Paris 2011. 39 Cfr. D. Glass (ed.), Social Mobility in Britain, London, Routledge & Kegan Paul 1954.

8

effettive per un individuo di modificare la propria collocazione di classe di partenza) anche durante

la stagione del “miracolo economico” essa è stata sempre sostanzialmente stabile. Nel corso degli

anni settanta emerse una prima discontinuità: non solo la mobilità ascendente rallentò ma i tassi di

quella discendente subirono un incremento40

. Questo fenomeno, proseguito nel corso degli anni

ottanta, si manifestò in tutta la sua rilevanza negli anni novanta in un contesto di generalizzato

irrigidimento delle opportunità di mobilità ascensionale. Rispetto ai paesi più avanzati il caso

italiano mostrava alcune peculiarità: la prima, di carattere generale, riguardava il permanere di forti

differenziazioni di ordine territoriale. Mentre infatti i dati dell‟Italia centro-settentrionale sulla

mobilità mostravano andamenti in linea con quelli di altre realtà continentali, il mezzogiorno

registrava una rigidità assai maggiore. Rispetto ad altri contesti nazionali restavano inoltre forti

privilegi ereditari soprattutto nell‟accesso alle posizioni superiori: in altri termini, i figli di alcune

categorie (imprenditori, liberi professionisti, dirigenti) erano nettamente più avvantaggiati

nell‟acceso alla medesima occupazione dei padri. Essi inoltre tendevano a subentrare

immediatamente nelle mansioni dei padri (o ad affiancarsi ad essi), senza un percorso formativo o

senza che le loro effettive capacità venissero messe alla prova. Anche i dati della mobilità relativa si

rivelavano tutt‟altro che incoraggianti al punto che l‟Italia era la «nazione europea in cui il principio

delle pari opportunità di destino occupazionale trova[va] minore applicazione»41

. Almeno nel corso

degli anni ottanta questa immobilità della società italiana non ebbe però conseguenze

eccessivamente negative, almeno per la maggior parte dei ceti medi. Era vero che i figli delle classi

privilegiate ereditavano il mestiere dei padri ma ciò avveniva anche per i figli dei ceti medi

impiegatizi. Insomma, se l‟ascensore saliva verso i piani alti più raramente rispetto al passato, esso

però difficilmente scendeva a quelli più bassi. E questa regola valeva per i 2/3 della borghesia e dei

ceti medi impiegatizi. Tale tendenza si perpetuò anche negli anni novanta. Al termine di quel

decennio l‟Italia era però diventata secondo alcuni un paese a «immobilità diffusa», con un grado di

persistenza delle disuguaglianze tra generazioni molto vicino a paesi come Regno Unito e (dato

questo in contrasto con l‟American exceptionalism e la visione degli USA come «terra delle

opportunità») gli Stati Uniti42

.

In estrema sintesi, a partire dagli anni ottanta la povertà e le disuguaglianze sono aumentate, la

mobilità e i redditi sono sostanzialmente rimasti bloccati ed è emersa una tendenza alla

polarizzazione. In un contesto come questo è indubbio che anche i ceti medi abbiano subito dei

pesanti contraccolpi. Tuttavia, queste valutazioni, frutto della comparazione di indici medi, valgono

sul piano tendenziale. Scendendo nel dettaglio le cose sono molto più complesse e diversificate. Ad

esempio, si scopre come in realtà i mutamenti economici e la crisi abbiano colpito soprattutto quei

settori della società che già si trovavano in condizioni di deprivazione materiale (o assai vicini alla

soglia di povertà) e la classe operaia. I settori dei ceti medi maggiormente in difficoltà sono stati (e

probabilmente lo saranno anche in un prossimo futuro) quelli della piccola borghesia direttamente

confinanti con essa. Restando al caso italiano, sarebbe dunque in atto un riassestamento, un

“riallungamento” della stratificazione sociale da quella conformazione a campana che la società

aveva raggiunto con l‟avvento dei nuovi ceti medi. Più che a un crollo, saremmo insomma di fronte

a una sorta di «bradisismo sociale che allontana far loro le categorie sociali»43

. Una deriva iniziata

da alcuni decenni, accentuata dalla crisi e tutt‟ora in atto, certamente dagli esiti incerti e pericolosa

40 Cfr. Generazioni disuguali. Le condizioni di vita dei giovani di ieri e di oggi: un confronto, a cura di A. Schizzerotto, U.

Trivellato, N. Sartor, Bologna, Il Mulino 2011, in particolare il capitolo curato da S. Marzadro e A. Schizzerotto, Giovani e mobilità

sociale. Un‟analisi delle disuguaglianze nelle opportunità occupazionali delle generazioni nate nel corso del XX secolo. 41 A. Cobalti, A. Schizzerotto, La mobilità sociale in Italia. L‟influenza dei fattori di diseguaglianza sul destino educativo,

professionale e sociale dei singoli nel nostro paese, Bologna, Il Mulino 1994, pp. 216-231. 42 D. Checchi (a cura di), Immobilità diffusa. Perché la mobilità intergenerazionale è così bassa in Italia, Bologna, Il Mulino 2010,

pp. 14-16. 43 A. Bagnasco, Premessa. La questione del ceto medio in epoca di crisi, in R. Sciarrone, N. Bosco, A. Meo, L. Storti, La costruzione

del ceto medio. Immagini sulla stampa e in politica, Bologna, Il Mulino 2011, p. 17.

9

per gli equilibri sociali ma che comunque ridimensionerebbe, almeno in parte, una certa retorica

declinista.

Resta infine il quesito più complesso di tutti, cioè il perché tutto questo sia accaduto. Sotto

questo aspetto hanno certamente avuto un ruolo di rilievo i molteplici macrofattori che hanno

modificato il sistema economico e finanziario e che si sono susseguiti dalla crisi petrolifera degli

anni settanta in avanti: la fine del “sistema” di Bretton Woods; l‟inizio dell‟era dei petrodollari; la

rivoluzione informatica e la new economy; l‟affermazione del neoliberismo e delle politiche di

deregulation; il crollo dell‟URSS; il risveglio della Cina e delle nuove potenze emergenti; l‟avvento

dell‟economia post-industriale e globalizzata e del nuovo capitalismo (speculativo) finanziario tanto

per citarne alcuni. A questi si sono aggiunte le nuove politiche dei redditi e la trasformazione del

lavoro (su tutti l‟avvento del flexible capitalism) e i tagli ai meccanismi redistributivi statali (il

welfare e, più in generale, i servizi pubblici). Tralasciando i loro talvolta pesanti costi sociali, queste

scelte, compiute nel segno delle liberalizzazioni e della diminuzione del carico fiscale (e della sua

progressività), nell‟immediato hanno liberato risorse e favorito la ripresa, ma nel segno della

polarizzazione sociale e della concentrazione della ricchezza nelle mani di una sorta di

“superclasse” dalle connotazioni transnazionali44

. Negli Stati Uniti, nel 2007, al culmine di un

processo iniziato nei primi anni settanta, il 10% più ricco della popolazione americana è giunto ad

avere il 50% di tutto il reddito di mercato, un dato mai raggiunto in passato, neppure all‟apice degli

“anni ruggenti” che precedettero il crollo borsistico di Wall Street45

. Ma l‟America, come recenti

ricerche che puntano a comparare l‟evoluzione nel lungo periodo dei redditi sembrano dimostrare,

non è l‟unico esempio di queste dinamiche46

. Nella stessa Italia dell‟inizio del nuovo millennio,

statistiche alla mano, redditi e ricchezza si sono concentrati «nelle mani di uno su dieci»47

. Un

cambiamento rilevante che annuncerebbe un paradossale ritorno delle classi soltanto pochi anni

dopo che se ne era (forse prematuramente) celebrata la fine48

.

Conclusioni

Il malessere dei ceti medi si conferma questione assai più articolata e sfuggente di quanto molte

rappresentazioni mediatiche lascerebbero supporre. Le sue origini sono certamente riconducibili

allo spartiacque tra i cosiddetti «Trenta gloriosi» e i «Trenta pietosi»49

. Ma la storia non procede a

salti e anche «il passaggio dalla società della speranza a quella del dubbio non è successo in un

giorno»50

. Tale periodizzazione vale perciò sul piano generale poiché, come alcuni recenti

contributi sembrerebbero suggerire, alcune tendenze si manifestano prima. Per quanto gli anni

ottanta, intesi come la stagione della progressiva conversione al neoliberismo e delle politiche

imperniate sulla filosofia del winner-take-all51

, abbiano rappresentato un importante momento di

svolta, occorre ricordare che l‟attuale malessere dei ceti medi è la conseguenza di un processo di

destrutturazione e ristrutturazione della stratificazione sociale le cui origini sono comunque

44 L. Sklair, The Transnational Capitalist Class, Oxford, Blackwell 2000. 45 A.B. Atkinson, T. Piketty, E. Saez, Top Incomes in the Long Run History, in “Journal of Economic Literature”, p. 6. 46 Cfr. A.B. Atkinson, T. Piketty (eds.), Top Incomes over the Twentieth Century. A Contrast Between Continental European and

English-Speaking Countries, Oxford-New York, Oxford University Press 2007 e Id., Top Incomes. A Global Perspective, Oxford-

New York, Oxford University Press 2010. 47 M. Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Roma-Bari, Laterza 2012 e A. Brandolini, La

disuguaglianza dei redditi personali: perché l‟Italia somiglia più agli Stati Uniti che alla Germania? in R. Catanzaro, G. Sciortino (a

cura di), La fatica di cambiare. Rapporto sulla società italiana, Bologna, Il Mulino 2009, pp. 133-152. 48 Cfr. Le classi in una società senza classi, a cura di P. De Nardis e E. Bevilacqua, Roma, Meltemi 2001, in particolare E.

Bevilacqua, Globalizzazione e analisi di classe, Ivi, pp. 19-39. 49 Cfr. J. Fourastié, Les Trente Glorieuses, ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Paris, Fayard 1979 e N. Baverez, Les Trente

Piteuses, Paris, Flammarion 1998. 50 C. Lambert, La société de la peur. La France peut-elle encore s‟en sortir?, Paris, J‟ai lu 2007, p. 29. 51 J.S. Hacker, P. Pierson, Winner-Take-All Politics. How Washington Made the Rich Richer – and Turned Its Back on the Middle

Class, New York-London, Simon & Schuster 2010.

10

sfumate. Sotto questo aspetto, ad esempio, in un suo recente lavoro dedicato alle trasformazioni

dell‟America “bianca” nell‟arco del cinquantennio 1960-2010, Charles Murray, nel confermare la

polarizzazione in atto della società statunitense sulla base della comparazione di numerosi indicatori

statistici, ha proposto per gli USA uno spartiacque epocale evocativo e ben più indietro nel tempo,

rispetto alle interpretazioni correnti, dei fatidici anni settanta: la data dell‟assassinio di J.F.

Kennedy52. Le stesse «angustie del ceto medio» italiano nel nuovo millennio hanno mostrato di

avere radici ben più antiche, e di essere il risultato «di processi di lungo periodo, di una

concatenazione di cause di diversa natura, endogene ed esogene, che si sono susseguite nel corso

degli anni». Anche quella dei ceti medi italiani è «una crisi che viene da lontano», simile a quelle

che pervade i ceti medi occidentali nel loro complesso, cui si aggiungono semmai, a complicare il

quadro, «specifiche aggravanti»53

.

Le difficoltà dei ceti medi sono certamente prima di tutto strutturali. Tuttavia, come ha scritto Le

Monde in una delle numerose inchieste dedicate all‟argomento, il declassamento sociale non è

soltanto «una questione di diplomi e di mobilità sociale» o di indicatori economici ma riguarda

qualcosa che ha a che fare con sentimenti individuali e collettivi54

. Qualcosa di ancor più

difficilmente quantificabile dei dati che abbiamo poco sopra ricordato. Sebbene sotto molti aspetti

radicalmente diversi rispetto alla borghesia ottocentesca o di inizio novecento, i nuovi ceti medi

hanno tuttavia conservato molti tratti dell‟antica sensibilità borghese. A partire dagli anni ottanta, ad

esempio, la maggioranza di essi ha abbracciato il neoliberismo facendo propria la storica avversione

che i ceti medi tradizionali avevano nutrito nel primo dopoguerra nei confronti dello Stato,

dimenticando che quello aveva favorito la loro ascesa era un «individualismo protetto» e che il loro

consolidamento (soprattutto in Italia) era stato ottenuto «con il carburante della spesa pubblica»55

.

L‟avvento della società dei ceti medi, con la omogeneizzazione dei consumi e degli stili di vita, e il

progressivo passaggio al post-fordismo, con il declino delle “tute blu” proprio a scapito dei “colletti

bianchi” ebbe dunque anche il suo risvolto della medaglia. Restando al caso italiano, numerosi

contributi hanno sottolineato come questo processo di espansione e omogeneizzazione si sia

accompagnato a un appiattimento della società con pesanti ripercussioni sul processo di formazione

della classe dirigente e, più in generale, innescando quei perversi meccanismi culturali e morali

prima ancora che materiali, che sono in parte alla base dell‟attuale crisi56

. Tralasciando il dibattito

coevo sulle conseguenze culturali del miracolo economico e dell‟avvento della società dei consumi

di massa, dei rischi di un livellamento culturale come conseguenza della terziarizzazione del paese

aveva parlato già Sylos Labini a metà degli anni ottanta57

. Questo tema sarebbe però diventato

centrale dopo Tangentopoli e con il polarizzarsi dello scontro politico durante il berlusconismo. Al

culmine di questa stagione, riecheggiando gli strali che già Pasolini dedicò loro negli anni sessanta,

molti sono stati coloro che, alle ricerca delle cause scatenanti della «slavina» che aveva travolto il

paese, hanno posto l‟accento sulla «regressione psicoculturale» e tutti gli altri elementi degenerativi

che avevano accompagnato l‟ascesa e l‟apogeo dei nuovi ceti medi58

.

52 C. Murray, Coming Apart. The State of White America, 1960-2010, New York, Crown Forum 2012. 53 V. Castronovo, Le paure degli italiani, Milano, Rizzoli 2004, p. 17 e pp. 8-9. 54 Cit. in S. Caulier, Faut-il réparer l‟ascenseur social? Si l‟égalité des chances est un des fondaments de la République la réalité est

plus discutibile, Paris, Éditions Scrineo 2007, p. 19. 55 R. Koshar, Splintered classes. Politics and the Lower Middle Classes in Interwar Europe, New York-London, Holmes &

Meier, 1990; Ripercorrere gli anni 80. La fedeltà ai processi nei rapport Censis dal 1981 al 1991, Milano, F. Angeli 1992, p. 15 e G.

De Rita, A. Galdo, L‟eclissi della borghesia, Roma-Bari, Laterza 2011, p. 10. 56 Ivi, p. 41. Si veda anche il contributo di M. Cacciari, Passato futuro del “borghese”, in A. Bonomi, M. Cacciari, G. De Rita, Che

fine ha fatto la borghesia?, cit., pp. 3-32. 57 P. Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ‟80, cit. p. 28. 58 C. Donolo, Italia sperduta. La sindrome del declino e le chiavi per uscirne, Roma, Donzelli 2011, pp. 15-16; Per un quadro del

dibattito sulla crisi italiana di inizio XXI secolo alla luce delle sue vicende storico-sociali cfr. G. Crainz, Autobiografia di una

Repubblica. Le radici dell‟Italia attuale, Roma, Donzelli 2009.

11

Ad accentuare la sensazione di spaesamento dei ceti medi contribuiscono i mezzi di

comunicazione che attraverso il ricorso al cosiddetto «effetto Hello Magazine» (il richiamo a

notizie sulle ricchezze degli ultramiliardari) hanno accresciuto nell‟opinione pubblica l‟impressione

di un una ben più marcata accentuazione delle diseguaglianze59

. Sotto questo aspetto, il malessere

dei ceti medi è stato di volta in volta declinato ricorrendo ad alcune specifiche categorie

interpretative: l‟impoverimento, la perdita di status, l‟aumento dell‟incertezza verso il futuro fino al

rischio dell‟estinzione60

. Quando nel 2007 l‟Eurobarometro si è occupato della percezione della

povertà tra i cittadini europei, escludendo quelli dei paesi dell‟ex blocco sovietico (Ungheria in

testa) tra i più preoccupati sono apparsi gli intervistati di nazionalità italiana e poi quelli francesi61

.

Un sondaggio della BBC del 2008 sulla percezione degli effetti della globalizzazione condotto su

un campione di cittadini di 35 nazioni di tutto il mondo pareva confermare questa tendenza

mettendo in luce come molti degli intervistati, in taluni casi addirittura ben oltre l‟80% (era il caso

dei cittadini di Portogallo, Giappone e ancora una volta Italia) ritenessero che i benefici del recente

sviluppo economico non fossero stati equamente distribuiti62

. Sovrastimata o sottostimata che sia la

crisi dei ceti medi, la percezione che essi hanno del proprio status e le speranze che essi nutrono

nella possibilità di miglioramento delle loro condizioni restano fattori altrettanto decisivi in quanto

ne influenzano i comportamenti economici e le scelte politiche.

«Né borghesi, né proletari» i ceti medi rappresentano, ieri come in passato, in Italia come nel

resto dei paesi più avanzati, il soggetto sociale inquieto per eccellenza63

e nello stesso tempo il

perno delle democrazie occidentali. La sterminata letteratura dedicata alle dinamiche (e alle

distorsioni) del rapporto tra politica e ceti medi, sia di quelli nuovi che di quelli in declino, nella

cosiddetta prima repubblica – su cui Pizzorno scrisse uno dei più importanti contributi proprio nello

stesso anno in cui Sylos Labini pubblicava il suo Saggio sulle classi sociali64

– lo testimonia

ampiamente. Non stupisce allora, all‟indomani dei rivolgimenti che hanno colpito i partiti

tradizionali, che il loro ondeggiare e il loro apparente voltare le spalle alla politica, dato comune a

molte democrazie dei paesi avanzati (e peraltro costante storica in momenti di crisi), metta in seria

apprensione le forze politiche. Guadagnare il consenso e la fiducia dei ceti medi resta l‟obiettivo

prioritario della classe dirigente di ogni latitudine. Vista la patologica insicurezza dei ceti medi, nel

momento in cui, come adesso, le differenze tornano a manifestarsi il problema per le classi dirigenti

è trovare le risposte adeguate alla crisi e, conseguentemente, “rassicurarli e proteggerli”. Negli Stati

Uniti, Barack Obama ha costruito la propria vittoria elettorale proprio sulla base di un progetto che

puntava a riportare la middle class al centro del modello di vita e di società americano. Intervistato

per la prima volta dopo le elezioni dall‟anchorman della ABC George Stephanopoulos, il

vicepresidente Joe Biden annunciò la volontà della nuova amministrazione di creare una task force

composta dai responsabili delle politiche del Lavoro, della Sanità, dell‟Istruzione e dell‟Office of

Management and Budget (il dicastero che coordina le varie agenzie federali) con l‟obiettivo di

monitorare lo “stato di salute” dei ceti medi. Nonostante alcuni importanti provvedimenti (su tutti la

storica riforma dell‟assistenza sanitaria) la recessione ha tuttavia impedito la realizzazione di molte

di quelle promesse, al punto che nel 2011, l‟economista ed ex segretario del Lavoro

dell‟amministrazione Clinton Robert B. Reich, che da almeno vent‟anni invita a non sottovalutare la

59 Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries, cit., p. 15. 60 Cfr. R. Sciarrone, N. Bosco, A. Meo, L. Storti, La costruzione del ceto medio, cit., in particolare pp. 129-197 e N. Bosco, A. Meo,

R. Sciarrone, L‟emergenza di un discorso pubblico: il ceto medio nelle rappresentazioni della stampa, in A. Bagnasco (a cura di),

Ceto medio. Perché e come occuparsene, Bologna, Il Mulino 2008, pp. 75-118. 61 Eurobarometer, European Social Reality, Special Report No. 273, Brussels, 2007. 62 Widespread Unease about Economy and Globalization – Global Poll, BBC World Service 2008

(<http://www.worldpublicopinion.org/pipa/pdf/feb08/BBCEcon_Feb08_rpt.pdf>). 63 J. Ruhlmann, Ni bourgeois ni prolétaires. La défense des classes moyennes en France au XXe siècle, Paris, Seuil, 2001; Z.

Bauman, Paura liquida, Roma-Bari, Laterza 2008. 64 Cfr. A. Pizzorno, I ceti medi nei meccanismi del consenso, in F.L. Cavazza, S.L. Graubard (a cura di), Il caso italiano, Milano,

Garzanti 1974.

12

portata dei mutamenti provocati dal «capitalismo del Duemila»65

, nel ribadire la tendenza di lungo

periodo alla polarizzazione dei redditi (con un grafico che di fatto era lo stesso utilizzato da

Krugman nel suo blog quattro anni prima), ha descritto un ceto medio ancora in forti difficoltà,

anzi, per usare le sue stesse parole, «zoppicante»66

. Il risultato è stato che una parte dei ceti medi,

quella tradizionalmente attestata su posizioni più conservatrici, si è mobilitata nel movimento del

Tea Party e si accinge a dar battaglia nelle elezioni per il rinnovo del mandato su posizioni ancora

più radicali di quelle dello stesso partito repubblicano.

In ogni caso, l‟esito di questa “lunga transizione” appare incerto. I pessimisti paventano una

sorta di riedizione della lotta di classe otto-novecentesca – magari nella versione di una lotta di (e

fra) ceti - o, peggio ancora, parlano del rischio del ripetersi di una involuzione di stampo

neoautoritario o addirittura neototalitario67

. Altri, rifacendosi a quanto evidenziano le analisi di

molte realtà sociali di paesi emergenti (dove paradossalmente “nuovi ceti medi” appaiono in

ascesa), immaginano alle porte un nuovo processo di espansione anche se su scala globale e in

forme diverse dal passato68

. A ben guardare, infatti, il nodo di fondo non è rappresentato tanto dalla

questione dei ceti medi ma, più in generale, dalla capacità delle società del terzo millennio di

ridistribuire equamente una parte delle ricchezze ma soprattutto di continuare a garantire una

diffusa rete di protezione contro i nuovi rischi in una società che pretende di conciliare il massimo

della libertà individuale con il “rischio zero” (dimenticando che questo non esiste). Come già dopo

la crisi del 1929, le conseguenze sociali del cambiamento ripropongono dunque la questione della

sicurezza. Nel secolo appena trascorso, questa importante funzione è stata assicurata dal welfare

state. Nell‟Europa del secondo dopoguerra esso rappresentò una «barriera contro il ritorno al

passato: contro la depressione economica e il suo violento esito polarizzante della politica estrema

del fascismo e del comunismo». Non bisogna insomma dimenticare, a proposito di malessere e

percezione dell‟incertezza, che «gli Stati assistenziali erano [prima di tutto] Stati preventivi»,

«ideati abbastanza consapevolmente per soddisfare il desiderio generalizzato di sicurezza e stabilità

che John Maynard Keynes, tra gli altri, anticipò molto prima della fine della Seconda guerra

mondiale»69

. L‟erosione delle tutele fornite dal welfare state ha reso più vulnerabile le società

occidentali, aumentandone i rischi di declassamento e rendendone più difficile la mobilità verso

l‟alto. È vero che le maggiori e più devastanti conseguenze di questo processo hanno riguardato gli

strati più deboli e meno tutelati della società ed è altrettanto vero che, nonostante la gravissima

situazione in cui versa, l‟Italia dei ceti medi ha mostrato insospettabili doti di tenuta. Ma disagio dei

ceti medi, al di là di alcune esagerazioni mediatiche, è però reale così come reale è il rischio di

declassamento dei suoi strati più deboli.

A metà degli anni ottanta, nel momento di massimo successo del neoliberismo e nel pieno

dell‟offensiva anti-welfarista, Peter Glotz mise in guardia la classe dirigente europea, soprattutto

quella della sinistra riformista, dai rischi di una imminente «scissione sociale» che avrebbe potuto

acuire le disuguaglianze e aumentare i rischi di esclusione70

. Anche se alcuni contributi successivi

hanno sottolineato alcuni limiti di questa visione di una «società dei due terzi», imperniata sulla

«contrapposizione fra gli in e gli out», cioè fra coloro che usufruiscono di una rete di protezione

sociale e coloro che restano senza tutele71

, la soluzione al malessere del ceto medio e alla indubbia

erosione delle status raggiunto durante la seconda metà del novecento sta forse proprio nel rimettere

65 R.B. Reich, L‟economia delle nazioni: come prepararsi al capitalismo del Duemila, Milano, Il Sole-24 Ore libri 1993. 66 R.B. Reich, The Limping Middle Class, in “New York Times”, September, 4, 2011. 67 L. Chauvel, Les classes moyennes à la dérive, cit., p. 14. 68 Cfr. J. Attali, Breve storia del futuro, Roma, Fazi 2007. 69 Cfr. T. Judt, Guasto è il mondo, Roma-Bari, Laterza 2012, pp. 126-129 e Id., L‟età dell‟oblio. Sulle rimozioni del „900, Laterza,

Roma-Bari 2011, p. 13. 70 P. Glotz, La socialdemocrazia tedesca a una svolta. Nuove idee-forza per la sinistra in Europa, a cura di R. Uesseler, Roma,

Editori Riuniti 1985, pp. 7-8. 71 R. Castel, Diseguaglianze e vulnerabilità sociale, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, 1, 38, 1997, p. 55.

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al centro la questione dell‟equità distributiva. Viste le tendenze in atto, il rischio che la quota degli

esclusi aumenti continuando a inglobare porzioni crescenti di quella che un tempo fu la “gloriosa

classe media” è concreto. Stante il tramonto dello stato-nazione, si pone dunque la necessità di

ridare nuova linfa attraverso l‟adozione di provvedimenti concreti – magari in forme nuove, più

adatte ai tempi e soprattutto più efficienti rispetto al welfare state tradizionale (ad esempio

imperniate su un mix tra azione volontaria e intervento pubblico) – alla dimensione della solidarietà

sociale. Uno dei lasciti più importanti del secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle, che per

giunta si già dimostrato una buona ricetta per lenire la paura del declassamento dei ceti medi.

*Gianni Silei è Professore Aggregato presso la Facoltà di Scienze Politiche dell‟Università di

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