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SEZIONE II

Storie dalle acque

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IL MARE DEGLI ANTICHI: TECNICHE E STRUMENTI DI NAVIGAZIONE

Sulle nostre carte geografiche la superficie dei mari offre un’immaginequanto mai omogenea e regolare (a parte, eventualmente, i diversi blù dellediverse profondità, e le sottili linee delle isobate). Se non abbiamo riflettutotroppo sull’argomento, ci sembrerà che ogni spostamento su questa superfi-cie debba obbedire a semplici leggi geometriche, in pratica solo al principiodella linea retta che è la più breve tra due punti, almeno finché ci si tienelontani dalla costa con le sue irregolarità.

In realtà, è facile rendersi conto che le cose non stanno affatto così: unospazio perfettamente omogeneo esiste solo come astrazione mentale, mentreogni spazio concreto è sempre articolato e reso disomogeneo da una quantitàdi fattori, da quelli fisici fino a quelli psicologici. La scienza moderna ci hainsegnato che neppure lo spazio cosmico è un mezzo omogeneo.

Sullo spazio in cui viviamo inteso come ‘campo di forze’, fisiche o dialtro genere, esistono ormai molte riflessioni anche sottili e mature, applica-te ai casi più diversi, che qui non sarà il caso di richiamare (1). Qui interessasolo ricordare che lo spazio marino, lo spazio della nautica, è in realtà artico-lato da molti fattori, è uno spazio non meno ‘vivo’ e complesso di ogni altro:contro l’apparenza immediata, la superficie del mare, di ogni mare, non èaffatto piatta e regolare; se potessimo tradurla in un’immagine ‘virtuale’,come usa adesso, la vedremmo piena di salite e discese, di vie aperte e diostacoli.

Stiamo parlando di spazio ‘vissuto’, e dobbiamo ricordare che tutto ciòvale solo in relazione al nostro modo di vivere lo spazio marino. Ogni suaimmagine che possiamo concepire, e che rivelerebbe tante irregolarità, sarebbevalida solo per noi uomini, più precisamente per noi uomini nella nostra con-dizione storica, e sarebbe completamente diversa per un pesce, per un cetaceo,per un uccello marino – e diversa anche per un uomo che vivesse e praticasse inun modo diverso lo spazio marino, vale a dire, nel caso che qui interessa, unuomo che disponesse di diversi mezzi tecnici per muoversi sulla superficie del

(1) A rappresentare una bibliografia diventata vastissima citiamo qui solo YI-FU TUAN1977; LÉVY, SEGAUD 1983.

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mare (e lasciamo da parte la navigazione sotto di essa, che ha aperto prospetti-ve ancora diverse in tempi che alla scala storica sono recentissimi). Il progressodei mezzi tecnici ha avuto l’effetto di attenuare quell’inomogeneità dello spa-zio marino, di rendere (per dirla un po’ paradossalmente) più piatta la super-ficie del mare, e meglio percorribile in ogni senso, obbedendo alla pura con-venienza delle distanze. Questo è stato il risultato di ogni progresso dellanautica, prima col perfezionamento della vela, poi soprattutto col passaggioalla navigazione a motore, con mezzi di propulsione sempre più efficienti, ecoll’aumento della sicurezza e dell’autonomia.

Facciamo un esempio storico illustre, anzi il più illustre di tutti. Cristo-foro Colombo ebbe uno straordinario tratto di genio (o una straordinariafortuna, dipende se diamo ascolto ai suoi ammiratori o ai suoi detrattori):intuì come erano disposte nell’Atlantico quelle ‘discese’ e quelle ‘salite’ cherendono tutt’altro che ‘piatta’ la superficie di ogni mare; così scelse la rottagiusta sia per arrivare in America sia per tornare: latitudini basse all’andataper farsi portare dagli alisei, latitudini alte al ritorno per trovare i prevalentiventi occidentali (com’è noto, di vento ne trovò anche troppo). In pari misu-ra, fu aiutato dalle correnti: quella delle Canarie e l’equatoriale all’andata, ilGulf Stream al ritorno. Per tutta l’età della vela, la rotta praticata rimase insostanza quella che Colombo aveva aperto nel primo viaggio! (A sud finchénon si scioglie il burro, dicevano i marinai inglesi, poi ‘due West’).

L’avvento della propulsione meccanica (per tornare a quello che dice-vamo prima) cambiò tutto questo: ora si va in America e si torna seguendosempre la stessa rotta, che sale molto a nord, descrivendo sulle carte geografi-che un apparente arco, cosa che qualche volta meraviglia chi non sa di rotte‘lossodromiche’ e ‘ortodromiche’!

O un altro esempio, quasi altrettanto illustre: i Portoghesi del XV seco-lo avevano imparato che per tornare in patria lungo la costa occidentaledell’Africa, dalle latitudini equatoriali, non conveniva tenersi stretti alla ter-ra, come all’andata; questo avrebbe significato un percorso di oltre ottocen-to miglia contro il vento e la corrente (della Guinea). Bisognava invece allar-garsi nell’Oceano, tirando dei bordi verso nord-ovest, e risalire così a latitu-dini abbastanza alte da trovare un vento occidentale per tornare in patria: lacosiddetta volta do mar, che divenne pratica normale. Insomma, i Portoghesiavevano capito che lungo la costa la strada da sud a nord era tutta in ‘salita’,mentre superando una salita relativamente breve verso nord-ovest si venivapoi ricompensati da una lunga ‘discesa’.

Per il navigante a vela, queste discese e salite, come abbiamo chiamato itratti con vento favorevole o contrario, sono ricercate o temute come daiciclisti. Bisogna però tener presente che la somma algebrica di salite e disce-se, per il navigante che va e torna poi a casa, non è necessariamente pari azero come per il ciclista: se ha abilità e fortuna può essere favorevole; in

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teoria il percorso potrebbe essere tutto in discesa, come in certi disegni irre-ali di Maurits Escher.

Ogni progresso della nautica, abbiamo detto, ha l’effetto di diminuirequeste irregolarità, di rendere il mare ‘più piatto’. Restando nell’ambito dellanavigazione a vela, questo è avvenuto coi perfezionamenti dell’attrezzaturavelica, che hanno prima di tutto accresciuto la capacità di stringere il vento edi bordeggiare, quindi hanno diminuito la temibilità del vento contrario.

La carta di Mercatore rappresenta lo strumento che si confà a una nau-tica arrivata a un grado di sicurezza relativamente avanzato, ne è quasi l’espres-sione visuale. Nonostante il suo carattere apparentemente primitivo e la gra-vissima alterazione che essa induce nelle dimensioni delle terre in funzionedella latitudine, essa ha un prezioso vantaggio per il navigante: ogni linearetta tracciata su di essa rappresenta una rotta che il timoniere può seguiremantenendo sempre lo stesso angolo di prora, senza ulteriori calcoli e corre-zioni (rotta lossodromica). Una situazione che è pienamente raggiunta quan-do non si devono fare più i conti col possibile vento contrario e coi bordi checomplicano terribilmente le cose (2); una situazione che si realizzerà coll’av-vento della navigazione meccanizzata, col vapore e coi successivi mezzi dipropulsione.

Ma non corriamo troppo, e restiamo al mondo antico e alla sua nauti-ca. Domandiamoci: a che punto dell’evoluzione dobbiamo collocare la capa-cità, per gli uomini dell’Antichità greca e romana, di recarsi senza troppecomplicazioni da un punto all’altro del loro mare? In altre parole, quanto erairregolare questo loro mare, quante salite e ostacoli esso conteneva?

La risposta è senza dubbio che il loro mare era molto irregolare, perchéil vento contrario era molto temuto; la differenza fra salite e discese eramolto sensibile e più che mai determinante per i tempi di un viaggio, o addi-rittura per la sua fattibilità.

Ci domanderemo a questo punto quanto le letterature greca e latina ciinformino sulla navigazione antica da questo punto di vista, dal punto divista delle rotte normalmente percorse nel Mediterraneo. Intendo soprattut-to le rotte commerciali, quelle che più interessano l’archeologo subacqueo,per un motivo che dovrebbe essere ben noto: i relitti scoperti e riportati allaluce dall’Antichità sono quasi senza eccezione relitti di imbarcazioni com-merciali. Questo a causa del diverso tipo di costruzione, molto più deperibilenel caso delle navi da guerra, che per il modo antico di combattere dovevanosoprattutto essere veloci e maneggevoli, quindi leggere; le navi da carico,invece, dovevano avere un minimo di consistenza e di solidità.

Stavolta dobbiamo rispondere che gli scrittori antichi non danno molte

(2) Nel Medioevo si inventò per questo il sistema di tabelle detto ‘tavola di martelojo’.

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informazioni di questo genere, per varie ragioni che qui non possiamo discu-tere troppo a lungo. Un’osservazione però sarà opportuna.

La storiografia antica, almeno da Tucidide in poi, è proprio storiografiadi quel tipo che le ultime generazioni hanno imparato a deprecare, fatta prin-cipalmente, o esclusivamente, di guerre o al massimo di vicende politiche ‘alpiù alto livello’, mentre la vita della gente qualunque in tempo di pace non vitrova alcun posto. In essa trova quindi accoglienza ogni possibile flotta ditrieri e affini, strumenti di guerra che si muovono obbedendo alle specialiesigenze della strategia, e soprattutto lo fanno (o almeno lo possono fare) aremi, quindi in parziale indifferenza all’andamento dei venti; ben di rado, opiuttosto mai, la storia antica si degna di descrivere con qualche particolare ipacifici traffici di passeggeri e merci che pure collegavano regolarmente lerive del Mediterraneo, magari con conseguenze più rilevanti per le futuregenerazioni che non tante battaglie o trattati di pace. Tutto quello che sap-piamo dei caratteri delle letterature antiche ci fa credere che non troverem-mo niente di simile neppure se possedessimo integralmente tutti gli autorigreci e latini, dei quali leggiamo invece una ben modesta parte.

Non dà molto neppure la poesia; l’Antichità, che ha inventato la poesiadidascalica e ha messo in versi tante cose, dall’agricoltura al calendario e alcielo stellato, e addirittura ai rimedi per i morsi degli animali velenosi, nonha fatto niente di simile per la nautica (3). I testi antichi che trattano conqualche sistematicità di cose marinare sono ben poca cosa: poche decine diversi di Esiodo (figuriamoci!) (4), i peripli (che mostrano per così dire lascena vuota, i luoghi della navigazione senza le navi e i marinai), e qualchepagina del lessicografo Polluce (5), che raccoglie un po’ di termini tecnicidella nautica senza spiegarli in modo esauriente (cosa che probabilmente nonavrebbe saputo fare).

Basta un’occhiata a un qualsiasi libro sulla nautica antica per accorgersiche le ‘fonti’, diciamo così, sono nella quasi totalità frammenti, cioè notazio-ni casuali cadute dalla penna di uno storico o di un poeta (e in questo secon-do caso molto spesso in forma di similitudini); gli ‘indici dei luoghi citati’sono un elenco di quasi tutti gli scrittori antichi, anche dei più impensati.Trattandosi di notazioni casuali, esse non partono mai da zero, bensì da unpatrimonio di nozioni che si poteva legittimamente attribuire a tutti; esserisultavano chiare per i lettori originari che già sapevano, ma oggi sono pocochiare o addirittura enigmatiche per noi che non sappiamo. Non c’è da illu-dersi: la nostra ricostruzione della nautica antica è come un grande puzzle,

(3) Altre considerazioni sulle nostre fonti in JANNI 1996, p. 27.(4) Le opere e i giorni, vv. 618-694.(5) I 80 sgg.

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messo insieme con pezzi ritrovati casualmente fra i resti di una grande distru-zione, in cui se ne sono perduti molti.

Eppure (questo è ciò che più indispettisce chi si occupa di queste cose),la storiografia antica non disdegnò affatto di scendere alle minuzie tecnichein altri casi, anzi spesso lo fece con particolare predilezione. Polibio descriveassai chiaramente il sistema di telegrafo ottico usato dall’esercito romano, esoprattutto i famosi castra, la mirabile fortificazione in cui la legione si chiu-deva la sera quando era in campagna di guerra (6). ‘Perché, perché non hafatto altrettanto (si chiede deluso e quasi irato il lettore interessato alla storiadella marineria), perché Polibio non ha fatto altrettanto con la classicaquinquireme delle guerre puniche?’ In poche pagine poteva dissipare gli enigmiche ci sono costati sforzi secolari e in sostanza vani.

Ma torniamo al nostro precipuo argomento, che oggi dovrebbe esserela navigazione in atto, e soprattutto la navigazione commerciale, con le suerotte e i suoi metodi.

Se le notizie sulla marina antica che troviamo nelle nostre fonti sono diregola frammentarie e casuali, ciò vale tanto più per la descrizione di viaggiper mare. Racconti in qualche misura completi, ‘diari di bordo’ con un mini-mo di attendibilità storica, sia pure rudimentali, ce ne sono arrivati estrema-mente pochi, e si trovano un po’ per caso, anche dove meno ce lo aspette-remmo. I primi che vengono in mente sono probabilmente tre, e la lista nonandrebbe molto avanti, neppure se ci si contentasse di poco. (Troveremmoqualcosa nei romanzieri, primo fra tutti Petronio.) In ordine cronologico sono:il viaggio di S. Paolo da Cesarea a Roma, interrotto dal naufragio a Malta(raccontato nel cap. 27 degli Atti degli Apostoli); il viaggio del mercantile Isisda Alessandria al Pireo (raccontato nel proemio del Navigium di Luciano); ilviaggio di Sinesio da Alessandria a Cirene (raccontato dal protagonista stessonella sua quinta lettera, molto letteraria e rielaborata). Se volessimo usciredal Mediterraneo e dalla marineria mercantile, troveremmo naturalmente ilviaggio di Nearco dalla foce dell’Indo al Golfo Persico, raccontato nella se-conda parte dell’Indiké di Arriano, ma questo sarebbe un altro discorso, cheinteresserebbe meno in questa sede.

Il semplice accostamento di questi tre pezzi di letteratura suggeriscevarie considerazioni, cioè ci fa osservare delle coincidenze significative. In-tanto, sono tutt’e tre in greco; tutt’e tre sono opera di passeggeri o di osser-vatori esterni e non certo di uomini di mare; tutt’e tre, infine, hanno perteatro il Mediterraneo orientale e le sue immediate adiacenze.

Tutto ciò non è un caso. Per prima cosa queste coincidenze ci ricordanoin generale quanto più ‘marinara’ fosse la cultura greca di quella latina, e

(6) Storie, X, 45-47; VI, 26-32.

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questo non ha certo bisogno di conferme. A questo proposito c’è da osserva-re che anche la presenza di un ampio e ricco racconto di mare negli Atti degliApostoli è significativa in questo senso, anche se in questo caso può sembrareche di greco ci sia solo la lingua. In realtà non è così: questo libro del NuovoTestamento è opera dell’evangelista Luca, che dei quattro è il più grecamentecolto. Infatti, la critica ha rilevato da molto tempo quanto questo famosocapitolo sia debitore alle forme della letteratura greca, precisamente alla let-teratura romanzesca, che nei racconti di mare, di tempeste e naufragi avevauno dei suoi temi più sfruttati. La critica più corrosiva è arrivata anzi a diffi-dare della storicità del racconto, rilevando in esso la presenza di certi topoiben noti ai lettori dei vari Achille Tazio e Senofonte Efesio. La soluzione piùequilibrata sarà quella di chi riconosce al racconto un solido fondamentostorico, attestato da tutta la struttura e dal tono, che è convincente in questosenso; di convenzionale c’è una certa stilizzazione delle forme, che non me-raviglia di certo chi abbia una minima familiarità con le letterature antiche.

La storia della Isis in Luciano, la navigazione fortunosa dell’enormenave granaria diretta da Alessandria a Roma che il maltempo dirotta al Pireo,fra gravi pericoli, disagi e ritardi, non si presenta come necessariamente sto-rica, ma ha tutta l’aria di derivare da un fatto storico, o almeno di esserecostruita su una base solidamente storica. Essa è finita al suo posto un po’casualmente, servendo solo da introduzione, da ‘stuzzichino’, per i lettori diun saggio che ha tutt’altro argomento, contiene delle considerazioni morali –e anche questo è caratteristico, come abbiamo detto.

Il racconto di Sinesio, nella lunga e ricca lettera indirizzata al fratello, èuna cosa letteratissima, con citazioni omeriche, reminiscenze mitologiche edi altro genere. Essa appartiene a un genere letterario (o sotto-genere) popo-lare in ogni tempo, quello del ‘viaggio tragicomico narrato in prima persona’(veramente qui tutto sommato più tragico che comico, perché si tratta di unviaggio disastroso). È quasi simbolico che i due più notevoli esempi del gene-re arrivatici dall’Antichità, questo e la satira odeporica di Orazio (il viaggioda Roma a Brindisi) (7), siano uno in greco e uno in latino, e rispettivamenteraccontino un viaggio per mare e un viaggio per terra. Sarebbe uno stranocaso se fosse accaduto il contrario! Naturalmente si devono fare i conti conla casualità della conservazione, nel naufragio delle letterature antiche (l’im-magine sarà a proposito). Eppure tutto dice che le cose stavano davvero così,e che non si rischia di peccare contro il buon metodo se si afferma che irapporti delle due letterature classiche col mare furono molto diversi.

Ma vediamo i fatti più specificamente tecnici ricavabili dall’accosta-mento di queste tre pagine di letteratura.

(7) Satire, I, 5.

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Due di questi tre viaggi ci mostrano due navi alle prese con il problemache era forse il più frequente nella navigazione antica al tempo dell’imperoromano: andare dal Mediterraneo del sud-est, dove erano alcuni fra i maggioricentri del mondo ellenistico, a Roma, vale a dire ai porti italiani del Tirreno,tenendo una rotta che nel suo insieme era per nord-ovest. Ora, è ben noto chein ogni stagione ma soprattutto in estate, quando navigavano gli antichi, ilregime dei venti nel Mediterraneo vede prevalere nettamente quelli di nord-ovest: la strada era dunque ‘in salita’ (Fig. 1). Capiamo ora il perché di questacoincidenza, che non è casuale: i viaggi nel senso opposto, da Roma ad Ales-sandria o alla costa siriana o palestinese, erano molto più facili, più spesso ‘nonavevano storia’, ed era meno probabile che qualcuno li raccontasse.

Nel caso della nave di S. Paolo, vediamo qual era un modo di affrontareil problema: si risaliva dall’Egitto o dalla Palestina verso nord fino alla costaanatolica meridionale, con venti al traverso o al massimo di bolina larga, poisi avanzava verso ovest approfittando probabilmente delle brezze diurne co-stiere, e delle correnti favorevoli; poi si poteva sperare negli etesii dell’Egeo,con cui arrivare sino a doppiare i capi meridionali della Grecia, poi – qualchesanto o qualche dio avrebbe provveduto. Il racconto non ci accompagna sinoalla fine: si interrompe drammaticamente col naufragio a Malta, facendosolo un accenno al seguito, che vide il viaggio proseguire fino a Pozzuoli.

Qui si dice espressamente che la nave passò «sotto» l’isola di Cipro(intendi: ‘sottovento’, a est) per evitare i venti contrari, e che avanzò «fatico-samente» lungo la costa anatolica fino all’altezza di Cnido. Poi le cose sicomplicano per il maltempo, dato che si era affrontato incautamente il mareautunnale.

È molto caratteristico che negli stessi Atti degli Apostoli (21,3) si rac-conti assai brevemente un altro viaggio di S. Paolo, da Patara, sulla costa sud-occidentale dell’Anatolia, a Tiro: non si parla di scali e si nota espressamenteche Cipro fu lasciata sulla sinistra. Insomma, una traversata in mare aperto dioltre 350 miglia marine, ma stavolta col favore del vento, perciò sbrigata inpoche righe. È interessante confrontare questa breve notizia con un’altra chesi legge in Filone di Alessandria: l’imperatore Caligola, dovendo recarsi permare ad Alessandria, non scelse il percorso in mare aperto (pelaégei), che erail più comune per le navi da carico, bensì seguì le coste dell’Asia (cioèdell’Anatolia) e della Siria, ciò che consentiva di fare frequenti tappe, assicu-rando all’imperatore la dignità e anche il comfort che si confacevano al suogrado (8). (Una pagina breve ma rilevante per l’atteggiamento degli antichi,o almeno dei Romani, verso la navigazione in genere).

L’Isis sembra partita con più ottimismo; oltre a essere eccezionalmente

(8) Legatio ad Gaium, §§ 250-252.

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grande aveva forse un’attrezzatura velica più efficiente. Confidando in unamaggiore capacità di stringere il vento contrario, si contava (stando alle pa-role di Luciano) di lasciarsi Creta sulla dritta, ciò che significa tagliare inmare aperto, cosa audace non perché si avesse paura di allontanarsi da terra,ma perché così si affrontava direttamente il prevalente vento contrario. (‘Inthe teeth of the wind’, dice con espressione pittoresca ed efficace la linguainglese). In realtà le cose non andarono così: la prima terra avvistata dopo lapartenza da Faro non fu un promontorio di Creta, ma di Cipro. L’Isis è co-stretta insomma a seguire una rotta molto simile a quella della nave di S.Paolo, finendo nelle acque di Sidone, che rispetto a Cipro sta a sud-est: iventi di nord-ovest esercitano un duro potere!

Facciamo un lungo passo indietro, come più tardi ne faremo uno avan-ti. In Omero si parla di andare dalla Grecia in Egitto come di cosa tutt’altroche inaudita, anche se non facile (9); può capitare di finirci anche involonta-riamente, come capiterà a Menelao, nel suo fortunoso ritorno da Troia. Sor-presa dalla tempesta al passaggio del temutissimo capo Malea, la sua flottaviene spinta fino a Creta, dove una parte delle navi si fracassano sugli scogli,

Fig. 1 – Correnti, regime estivo dei venti e rotte principali nel Mediterraneo (da PRYOR 1988).

(9) Odissea, IV, 480 sgg.

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tranne cinque che finiscono proprio in Egitto (10), spinte «dal vento e dal-l’acqua», cioè dall’andamento delle onde.

Per tornare, le cose stavano in modo alquanto diverso; non sarà un casoche Menelao, finito in Egitto nel suo fortunoso ritorno da Troia (una piccola‘odissea’) dovette ricorrere addirittura a un sacrificio umano, ai danni di duemalcapitati ragazzi egiziani, per ottenere il vento favorevole (11). La nauticanon aveva ancora conoscenze molto precise sulle rotte transmarine più con-venienti, e ci si arrangiava come si poteva.

E ci sarebbe da raccontarne ancora. Ci sono almeno un paio di altriluoghi nelle letterature classiche in cui l’Egitto appare come situato ‘in fondoa una discesa’: è relativamente facile arrivarci, e ci si arriva anche involonta-riamente, ma è difficile e faticoso ripartirne. In Erodoto, il leggendario red’Egitto Proteo parla degli stranieri che arrivano nel suo paese «afferrati daiventi» (12). Ancora in Erodoto (13) leggiamo che le navi mercantili straniereerano esonerate dall’obbligo di lasciare immediatamente i porti egiziani, adesse vietati, in caso di venti contrari che rendevano non difficile ma impossi-bile la partenza – il caso doveva verificarsi spesso.

Il viaggio di Sinesio da Alessandria a Cirene è anch’esso un viaggio ‘conmolta storia’, ancora un viaggio ‘in salita’, contro i venti predominanti eanche contro la corrente: qui concordano il regime dei venti (prevalente-mente da ovest), e l’andamento delle correnti, che nel Mediterraneo seguonogrosso modo una rotazione in senso anti-orario (Fig. 1).

Non si può tacere che questo è con ogni probabilità il racconto piùspiritoso e divertente di un viaggio per mare che ci abbia lasciato l’Antichità,un tesoro di umorismo che meriterebbe di essere ben altrimenti conosciuto,oltre che un documento raro e prezioso, ricchissimo di informazioni.

Per chi va in cerca di notizie del genere che interessa noi, il racconto diSinesio è molto stimolante, non nel senso banale che si dà spesso a questoaggettivo, ma in un senso più vero: stimola a indagare, al di là delle paroledel testimone, che cosa sia davvero successo in questa fortunosa navigazione,e come dobbiamo giudicare la competenza e la capacità di quelli che ne furo-no responsabili. Sinesio è infatti un testimone decisamente parziale.

Per cominciare, l’equipaggio della sua nave, compreso il kybernétes, lafigura che più si avvicina a quella di un nostro capitano, era costituito inmaggioranza da Ebrei, come apprendiamo con qualche meraviglia fin dallaprima pagina (gli Ebrei furono uno dei popoli meno marinai dell’Antichità, e

(10) Ibid. III, 286 sgg.(11) ERODOTO, Storie II, 119, 3.(12) |Up’ a\neémwn a\polamfqeéntev, ibid. II, 115, 4(13) Ibid., II 179.

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la Bibbia è un terreno ben poco redditizio per chi cerca notizie sulla nauticaantica). La cosa non suscita le simpatie di Sinesio, che farà bersaglio delle sueironie il fatto che il timoniere nel momento del maggior pericolo si metta aleggere la Torah, e che si decida a rompere il riposo del sabato e a provvederealla nave solo quando si è persuaso che la situazione di pericolo mortale loautorizza a farlo, incoraggiato in questa decisione dalla minaccia di morteper decapitazione fattagli da uno dei soldati (arabi), che viaggiano sulla navein pericolo. In tutto questo ci saranno delle frange, aggiunte da Sinesio chevuole fare un pezzo di colore; inoltre (ciò che più interessa qui) l’autore èignorante di nautica, come gli altri passeggeri, e si tradisce ingenuamentequando giudica incaute delle decisioni che a un occhio appena competenteappaiono del tutto sensate.

Queste pagine ci insegnano in piccolo qualcosa di molto importantesulla marineria antica: il fatto che a bordo di una nave mancasse affatto ilsenso moderno, rigidissimo e perfino spietato, della gerarchia e della respon-sabilità professionale. Era sconosciuta la figura del capitano, ‘secondo solodopo Dio’, carico di tutto il potere e di tutta la responsabilità; era sconosciu-ta, più generalmente, quella che noi chiamiamo ‘etica marinara’, con un’espres-sione che evoca un mondo severissimo di doveri e di valori. È noto che inmolti luoghi delle letterature antiche, vediamo le decisioni a bordo, anchenel momento del pericolo, prese collettivamente, secondo un principio dimaggioranza che a noi appare molto fuori posto. Ma non si deve neppuretacere che questo stato di cose, in una forma o nell’altra, continua anche nelMedioevo e in molti casi anche nella prima età moderna. La gerarchia rigida-mente piramidale nella marina, sia militare sia mercantile, si è costituita intempi relativamente recenti. Noi studiosi dell’Antichità rischiamo a volte diessere un po’ ingenui, quando attribuiamo agli antichi, come loro specialità,delle cose ben note al medievalista e in genere allo studioso di altre culture.

Un esempio ne abbiamo subito qui, quando i cinquanta passeggeri(fra cui un terzo sono donne) costringono i tredici uomini dell’equipaggio,col kybernétes in testa, a rinunciare a una rotta che appare troppo audace.Più avanti, Sinesio si vanta di essere intervenuto personalmente nella di-scussione (!) sulla rotta da tenere e di avere apostrofato il kybernétes, cioè ilcapitano (!), per mettere in dubbio la saggezza della sua scelta. Sia pure traqualche confusione, ricaviamo che il tanto bistrattato comandante avevafatto una scelta perfettamente logica, e che i fatti gli diedero ragione. Ilvento che girò improvvisamente a nord avrebbe rischiato di sbattere sullacosta la nave, se essa non avesse preso il largo e si fosse invece tenuta alla‘giusta’ distanza da terra, come volevano Sinesio e gli altri incompetenti.«Come si fa a condurre una nave con voi, che avete paura della terra comedel mare?», esclama il povero Amaranto; in realtà i rumorosi passeggeriappaiono ignari del fatto che per chi naviga la terra è spesso molto più

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pericolosa del mare. Ma Sinesio non se ne dà per inteso e lo ricopre di ironie.Il calunniato Amaranto ha trovato un difensore solo ai nostri giorni, in

compenso un difensore molto autorevole, cioè l’autore di quello che oggi èconsiderato il più importante manuale sulla marineria antica: Lionel Casson,che dedica alla causa un’appendice di due pagine del suo Ships and Seamanshipin the Ancient World (14). Casson non manca di punzecchiare lo storico in-glese A.H.M. Jones che dedica mezza pagina a riassumere il viaggio di Sinesio,compatendolo per la sua sfortuna nella scelta della nave (15). «Simpatia me-rita piuttosto lo skipper, un uomo competente diventato bersaglio di mali-gnità per aver fatto il proprio dovere nella maniera giusta – e con successo»,replica Casson.

A questo autore, oltre alla difesa di Amaranto, sta a cuore anche un’al-tra causa, quella di dimostrare che la nave di Sinesio aveva un’attrezzatura avela latina. Il titolo dell’appendice citata è appunto una domanda, «DidSynesius sail on a lateener?», cui nel seguito si dà una risposta positiva. Qui èdifficile seguirlo: il passo della lettera su cui Casson si fonda è veramentetroppo poco. Stavolta c’è davvero il rischio metodico in cui tanti sono cadu-ti: quello di voler spremere delle cose di per sé non molto probabili dalleparole di un testimone cui noi stessi abbiamo tolto credibilità. In parole piùsemplici: non si può dimostrare prima (e con successo) che Sinesio non capi-va nulla di manovre nautiche, per poi trarre da una sua paroletta una conclu-sione così audace come quella di attribuire a una nave mediterranea nei pri-mi anni del quinto secolo una vela latina. Questa precoce adozione della velalatina (così dobbiamo pensare se seguiamo l’eminente storico della marineria)avrebbe lasciato poche tracce o nessuna nell’iconografia, in una maniera cheè poco credibile. D’altra parte, chi conosce la produzione di Casson sa chefra le sue idee predilette c’è proprio questa, la presunta familiarità degli anti-chi con questo tipo di velatura, che secondo la dottrina storica comunementeaccettata sarebbe comparsa invece solo nell’alto Medioevo, proveniente dalVicino Oriente. Ma ogni studioso ha le sue marottes; questa è probabilmenteuna, e non gliene faremo troppo carico (16).

In realtà è molto più probabile che qui assistiamo, attraverso le paroledi un narratore incompetente (ma acuto osservatore), alla lotta impari di untipico mercantile antico a vele quadre contro dei venti incostanti e prevalen-temente sfavorevoli, lungo una costa difficile: proprio la situazione a cuidobbiamo gran parte del nostro patrimonio di relitti.

Un’ulteriore considerazione, altrettanto importante, che ci viene sug-

(14) CASSON 1971, pp. 268-269.(15) JONES 1964, II pp. 842-843.(16) Casson aveva già esposto le sue osservazioni in un articolo apposito: CASSON 1952,

pp. 294-296.

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gerita dall’accostamento di questi tre passi è la seguente: da nessuna parte sidice nulla sui metodi e sugli eventuali strumenti di navigazione. Si parla solodi avvistamenti, che hanno come oggetto sia aspetti del paesaggio marino siaopere umane, costruzioni situate in posizione caratteristica; in senso latoanche questo fa parte dei metodi di navigazione, ma a un livello elementare,diverso da quello cui pensiamo per prima cosa noi, che abbiamo alle spallel’esperienza delle navigazioni transoceaniche. C’è anche un possibile accen-no all’osservazione delle stelle, nel racconto di Luca (17), che non ci sorpren-derebbe, dato che un orientarsi in mare con le stelle è attestato addiritturasin dall’Odissea (18), anche se in forma evidentemente rudimentale, e anchese il caso rimane poi abbastanza isolato.

Nell’Odissea l’accenno è breve ma chiaro: Ulisse naviga osservando lestelle; sembra che gli sia ben noto il metodo più ovvio, più universale e piùsicuro di trovare la propria strada in mare, quello di guardare il cielo. Gliantichi lo sapevano tanto bene, che Virgilio, nelle Georgiche, attribuisce pro-prio al marinaio, non a qualche altra specie di osservatore del cielo, l’atto distabilire e battezzare le costellazioni (19). Questo metodo, peraltro, non ri-sulta che fosse portato a grande raffinamento nella marineria antica; proba-bilmente non fece mai molti progressi rispetto all’applicazione primitiva cheappare nel nostro luogo dell’Odissea (20). Ulisse bada semplicemente ad ave-re l’Orsa Maggiore a sinistra, ciò che gli assicura una rotta molto approssi-mativamente per est, con un’oscillazione intorno all’est esatto di molti gradiverso nord o verso sud, la misura di cui distano dal polo celeste le stelle piùsettentrionali della costellazione (o meglio distavano a quel tempo, quandoper la verità erano più vicine al polo).

Questo è tutto. Quanto agli altri astri nominati nel contesto, essi rap-presentano con ogni probabilità un ampliamento poetico che non ha niente ache fare con la navigazione astronomica, come suggerisce il fatto che questogruppo di versi ricompaia tal quale nell’Iliade, a tutt’altro proposito (21).Inoltre, stelle così lontane dal polo come quelle di Orione, Boote, o le Pleiadi,potrebbero servire a orientarsi in mare con qualche sicurezza solo con meto-di relativamente sofisticati di cui non c’è traccia neppure nell’Antichità piùmatura. Il poeta ha voluto indugiare sul cielo stellato perché non si contenta-

(17) Versetto 20.(18) Odissea, V, 272-275.(19) Georgiche, I, 137: «navita tum stellis numeros et nomina fecit».(20) Un filosofo del II secolo d.C., Sesto Empirico, colloca la kubernhtikhé, cioè l’arte

nautica, fra le tecniche in cui si «tira a indovinare» (stocastikaié, Adversus mathematicos, I72) e che dipendono dalla sorte. Davanti alla nostra navigazione astronomica e matematicaogni Greco avrebbe detto tutt’altro, e anche davanti a una forma meno perfezionata di essa.

(21) Iliade, XVIII, 483 sgg.

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va di un accenno troppo asciutto. Al più, avrà ricordato come tutte le stellepossano servire a tenere la rotta, per chi sta al timone e le prende volta avolta come punto di riferimento, come sa bene chiunque abbia guidato dinotte la più modesta imbarcazione.

Né i Greci né i Romani ebbero mai il concetto di ‘stella polare’, sebbenea Ursae minoris fosse ben visibile per loro come per noi. Ma per la precessionedegli equinozi (scoperta dal greco Ipparco!) essa si trovava allora molto piùlontana dal polo celeste di quel che non sia oggi, sicché non richiamò mail’attenzione al fine dell’orientamento. Al massimo i Fenici, più attenti deiGreci, si valsero della costellazione dell’Orsa minore, meno cospicua ma piùprecisa come indicatore del nord (22). È da notare, a questo proposito, chein epoca omerica le stelle b e g dell’Orsa Minore (le cosiddette ‘guardie’)furono molto più vicine al polo celeste che non a (Fig. 2), e più vicine rima-sero per tutta l’Antichità (Fig. 3). Si tratta di due stelle brillanti, sicché anchequesta concorrenza impediva che nascesse il concetto di ‘stella polare’ (23).

Tutti i successivi accenni alla navigazione astronomica, nelle letteratureclassiche, non mostrano grandi progressi. Gli spazi relativamente limitati incui si svolgeva la navigazione antica non stimolavano a fare molti passi avantiin questo campo. Nell’Egeo, che fu la prima scuola di navigazione per i Gre-ci, l’abbondanza di isole e alti promontori visibili a grande distanza consenti-va di guidarsi con avvistamenti successivi. E anche nel resto del Mediterra-neo le traversate in alto mare erano poche, non tali da richiedere metodi diorientamento molto raffinati o da favorire lo sviluppo di una vera cartogra-fia nautica (che con ogni probabilità non ci fu mai) (24).

(22) Il contrasto fra la maniera greca di orientarsi (con l’Orsa maggiore) e quelloFenicio (con l’Orsa minore) era un vero luogo comune, anche per la poesia. Arato di Soli: «El’una chiamano Cinosura, l’altra Elice. Con l’Elice gli Achei deducono dove guidare le loronavi; i Fenici invece si affidano all’altra quando devono traversare il mare. L’una, Elice, èbrillante, facile a riconoscere, ben visibile fin dall’inizio della notte; l’altra è piccola, mamigliore per i marinai, perché si aggira in un minor circolo. Grazie ad essa i Sidonii vannosicurissimi in mare». (Phaenomena 36-44) – Cose simili in Valerio Flacco, Argonautica, I, 17sgg.; OVIDIO, Fasti III 107 sg.; FILOSTRATO, Eroico, 1,3.

(23) Il concetto era già familiare al tempo di Dante: per far immaginare due girandoledi anime nel paradiso, scrive: «Imagini, che bene intender cupe/ … / imagini quel carro a cu’il seno/basta del nostro cielo e notte e giorno/sí ch’al volger del temo non vien meno;/imaginila bocca di quel corno/che si comincia in punta dello stelo/a cui la prima rota va dintorno …»(Par. XIII 1-12). Per Stella Polare e bussola, v. Par. XII, Ibid., cfr. p. 12, 28-30: «Del cordell’una delle luci nove/si mosse voce che l’ago alla stella/parer mi fece in volgermi in suodove». Ma il concetto di ‘stella polare’ è documentato da autori anche più antichi.

(24) Sulla probabile assenza di una cartografia nautica nell’Antichità v. JANNI 1984. Per lepossibilità navigatorie di una marineria senza carte, v. PATRICK GAUTIER DALCHÉ in AA.VV. 1992,pp. 285 sgg., che porta esempi dal Mediterraneo. Una Astronomia nautica, attribuita da qual-cuno nientemeno che a Talete, sarà stata di un autore molto più tardo, come supponevano giàgli antichi (v. DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, I, 23). L’attribuzione è purtroppo ripetutaacriticamente da HÖCKMANN 1985, p. 161.

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Fig. 2 – I dintorni del polo celeste in età omerica (750 a.C.): a Ursae Minoris, l’odiernaPolare, si trovava allora alla declinazione di 74° 9', distava cioè dal polo di quasi sedici gradi;molto più vicine ad esso erano le stelle b e g della stessa costellazione, le due ‘ruote posteriori’del Piccolo Carro. Per questo le fonti antiche parlano di orientarsi con la costellazione, noncon una precisa stella.Fig. 3 – La stessa zona del cielo in età classica (404 a.C.).

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La più estesa trattazione di navigazione astronomica, se così si può dire,si trova in un’opera poetica, la Farsalia di Lucano (25). Qui un gubernatortiene a Pompeo una completa lezioncina sull’aspetto del cielo stellato nellevarie regioni frequentate dalla navigazione, dal Mar Nero all’Egitto. Il passomerita un esame, per il suo carattere di quasi-unicità; e anche il più breveesame rivela che si tratta di un discorso in gran parte teorico, da tavolino:

… rectoremque ratis de cunctis consulit astris,unde notet terras, quae sit mensura secandiaequoris in caelo, Syriam quo sidere seruet,aut quotus in Plaustro Libyam bene dirigat ignis. 170Doctus ad haec fatur taciti seruator Olympi:«Signifero quaecumque fluunt labentia caelonumquam stante polo miseros fallentia nautas,sidera non sequimur; sed qui non mergitur undisaxis inocciduus gemina clarissimus arcto, 175ille regit puppes. Hic cum mihi semper in altumsurget et instabit summis minor Vrsa ceruchis,Bosporon et Scythiae curuantem litora Pontum,spectamus. Quicquid descendet ab arbore summaArctophylax propiorque mari Cynosura feretur, 180in Syriae portus tendet ratis. Inde Canoposexcipit australi caelo contenta uagari,stella timens borean; illa quoque perge sinistratrans Pharon, in medio tanget ratis aequore Syrtim» (26)

(Interroga [Pompeo] il reggitore della nave su tutte le stelle: di quali siserva per riconoscere le terre, quale sia in cielo il riferimento per solcare ilmare, quale stella gli sia utile per tenere la rotta verso la Siria, e quale fra lestelle del Carro diriga con sicurezza alla volta della Libia. Gli risponde quel-l’esperto osservatore del cielo: «Tutti gli astri che scorrono nel cielo stellato eche ingannano i poveri naviganti sulla volta che mai sta ferma, a quelli nonbadiamo; invece, quell’asse che non tramonta e non si immerge nelle onde,cospicuo grazie alle due Orse, esso insegna la via alle navi (27). Finché esso si

(25) VIII, 172 sgg.(26) Seguono delle notazioni molto interessanti sulla manovra nautica intrapresa dal

gubernator per indicazione di Pompeo, che vuole solo stare lontano dall’Emazia e dall’Esperia.È forse la descrizione più chiara in assoluto, in tutte le letterature antiche, di un’andatura avela non in poppa né di gran lasco.

(27) Traduttori e commentatori di Lucano si sono spesso dimenticati della precessionedegli equinozi, cadendo in errore. J.D. Duff (nella collezione Loeb, 1928) rende «axis» conun anacronistico «pole-star»; R. Badalì (Utet) ugualmente con «stella polare»; Bourgery ePonchont (Belles Lettres, 1930) traducono più opportunamente con «axe», ma fanno di peg-gio nella nota, parlando espressamente di «Etoile Polaire, la plus voisine du pôle».

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eleverà costantemente nell’alto del cielo, e l’Orsa minore starà sulla cima delmio albero, saranno visibili il Bosforo e il Ponto che dà forma curva alla costadella Scizia. Ma quando l’Artofilace scenderà dal sommo dell’albero e laCinosura si porterà più vicino al mare, la nave allora si avvicinerà ai portidella Siria. Poscia, ci accoglierà Canopo, la stella che teme Borea e che silimita a errare nel cielo australe; procedi oltre il Faro, tenendola a sinistra, ela nave andrà a toccare la Sirte, tra i flutti»).

Notiamo per prima cosa, a v. 173, una franca confessione di incapacità,che sembra peraltro smentita da quel che segue negli ultimi due versi: quisembra che anche una stella così meridionale come Canopo possa servireall’orientamento, non solo le circumpolari Orse. C’è poi la solita esagerazio-ne, o ‘estrapolazione’ come l’ho chiamata una volta (28), che fa parlare delBosforo e delle coste settentrionali del Mar Nero come se fossero a dir pocolo Skagerrak e le coste del Baltico: l’Orsa Minore allo zenith o quasi, mentrele relative latitudini sono di circa 41° (quella di Istambul, fra Napoli e Bari) e46° 28' (quella di Odessa, un po’ più a sud di Bolzano); ecco a che cosa siriduce la terribile nordicità di questi luoghi. In realtà, l’Orsa Minore restavasempre ben lontana dallo zenith. Topoi di questo genere si trovano poi intutta la poesia antica: Virgilio parla una volta di «medium Rhodope porrectasub axem» (29). Il monte Rodope, nominato insieme al Danubio, alla Meotidee alla Scizia in genere, sta fra Tracia e Macedonia, ha quindi la latitudinedell’Italia meridionale!

Poi, tornando a Lucano, Boote è nominato d’un fiato con l’Orsa Mino-re, come se fosse estremamente settentrionale, e infine viene il consiglio dilasciarsi a sinistra Canopo per andare da Alessandria alla Sirte, un’indicazio-ne imprecisa e inutile, perché per quella rotta si seguiva ovviamente la costasenza bisogno di guardare le stelle. Il gubernator ragiona come se le Orse, a32° o 33° N, non fossero più visibili (estrapolazione!), e ora bisognasse orien-tarsi su Canopo, che invece non è sempre visibile (30) – in compenso era pergli antichi il simbolo dei cieli meridionali, perché diventava visibile solo a suddi Creta e di Rodi. Solo a questo essa deve la sua presenza qui.

Insomma, il pilota di Pompeo non rilevava certamente la latitudine ser-vendosi delle stelle, cosa del tutto superflua per lui almeno finché si muovevanel Mediterraneo, e senza dubbio molto al di là delle sue possibilità. Misura-re l’altezza di un astro con qualche precisione è relativamente facile a terra,con strumenti di grandi dimensioni e ben installati. Lo faceva certamente

(28) JANNI 1994, pp. 97-124, versione riveduta della pubblicazione in «S.C.O» 28(1978), pp. 87-115.

(29) Georgiche, III, 351.(30) All’epoca, stava sopra l’orizzonte non più di cinque ore e un quarto, e culminava

a soli 5° (alla latitudine di Alessandria).

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Fig. 4 – Al tempo di Colombo (1492 d. C.).Fig. 5 – La situazione odierna: la Polare segna il polo celeste con buona precisione, che siaccrescerà ancora per qualche decennio, prima che la precessione degli equinozi torni adallontanarla.

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Ipparco, come lo farà Tycho Brahe nel XVI secolo, coi suoi quadranti daldiametro di parecchi metri – ma su una nave? Resterà difficile fino all’etàmoderna: Bartolomeu Diaz misurerà la latitudine del Capo di Buona Speran-za in -42°, mentre essa non arriva a -35° (31). Per capire l’entità dell’errore,ricordiamo che 7° sono pari a circa quattordici diametri medi della luna; inaltre parole, se valutiamo il divario in termini di posizione di un astro, dire-mo che fra la posizione vera e quella misurata erroneamente entravano quat-tordici lune piene messe in fila!

In realtà, nel passo di Lucano non abbiamo affatto un marinaio che fa ilpunto-nave, neanche approssimativo, guardando le stelle; abbiamo piuttostoun erudito, un dilettante di scienza che parla per bocca di un marinaio, e cheosserva compiaciuto la conferma di ciò che la cosmologia insegna, grazieall’esperienza della navigazione; insomma, il contrario.

Considerevole importanza doveva avere, come strumento di navigazio-ne, lo scandaglio, in maniera analoga a ciò che si è fatto nell’età moderna. Unpasso di Erodoto è rivelatore: il navigante che si avvicina alla costa egizianasa di stare a una giornata dall’arrivo quando il suo scandaglio «riporta su»,dalla profondità di undici braccia, del fango (32). È esattamente il genere dirilevamento che si farà fino ai nostri giorni con gli scandagli concavi e unti disego, che riportano in superficie dei campioni del fondo, utili a una formarudimentale di punto-nave.

Per il resto, abbiamo l’impressione di una marineria che va molto ‘alume di naso’. L’espressione non deve essere presa in senso troppo negativo.Il ‘naso’ del marinaio è qualcosa di molto importante e rispettabile, in tutte leepoche della marineria: è quell’istinto indefinibile che mette insieme tantecose piccole e grandi, l’andamento delle onde, una nuvola all’orizzonte, ilvolo di un uccello, tutto ciò che compone l’elemento marino, un mondofamiliare per chi ci è nato e vissuto, e sempre sa dove sta, e dove deve andare.

Quel che più colpisce è l’assenza del minimo accenno a qualunque for-ma di cartografia. Oggi, ci sembra che fra cartografia e nautica esista per cosìdire un matrimonio indissolubile, per motivi assai evidenti. Per secoli, abbia-mo pensato che la geografia sia naturale debitrice ai naviganti di un grandetesoro di informazioni; per contro, il navigante non può fare a meno di chie-dere lumi al geografo, soprattutto nella forma dell’indispensabile carta nau-tica. Insomma, uno scambio circolare di informazioni, un sapere comune cuile due parti contribuiscono ciascuna a modo suo. Non troppo di rado, le duecose si sono trovate unite nella stessa persona: l’anno colombiano ci ha ricor-dato che i due fratelli Cristoforo e Bartolomeo Colombo furono anchecartografi; Cristoforo si mostrò poi sempre tale anche nel corso dei suoi

(31) Con ogni probabilità misurò l’altezza del sole, servendosi delle ‘Tavole Alfonsine’.(32) Storie, II, 5,2.

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viaggi, lasciandoci degli schizzi cartografici che mostrano un occhio moltosicuro. Oggi, l’epoca della navigazione di scoperta è finita da un pezzo, e lacartografia procede con ben altri mezzi; per quest’aspetto, la situazione èmutata profondamente, mentre invariato è rimasto il necessario ricorso chela nautica deve fare alla cartografia, sia che si tratti di navigazione di piacerelungo le coste di casa, sia di traversate degli oceani.

Oggi, insomma, continuiamo a trovarci in una situazione tecnica (e pri-ma ancora intellettuale) in cui si considera normale che l’attività pratica delnavigare sia preceduta e guidata da un determinato modo di elaborare, ordi-nare e trasmettere i dati di un sapere empirico sul mondo in cui quest’attivitàsi svolge. È il modo della carta, rappresentazione omologa della superficieterrestre, secondo un codice molto preciso di corrispondenze, ormai tantoradicato nelle nostre abitudini mentali da sembrarci quasi l’unico possibile, eda farci dimenticare gli elementi di convenzione e di relatività che in esso pursi trovano. Eppure, sappiamo bene che non è stato sempre così. Oggi ammet-tiamo generalmente che l’umanità antica non facesse ricorso alla carta, nellapratica della navigazione, bensì alla descrizione verbale, cioè a quello che gliAntichi chiamavano ‘periplo’ e che noi chiamiamo ‘portolano’, che è fondatosu principi totalmente diversi. Il portolano, il periplo, la descrizione verbale,trasmettono le informazioni secondo una modalità che può essere perfetta-mente affidabile fin dai primi passi dello sviluppo intellettuale umano, vale adire secondo categorie che la mente umana ha padroneggiato fin da quandoha potuto chiamarsi così. Sono informazioni che si succedono linearmentenel tempo dell’esposizione e che corrispondono a momenti successivi nelreferente, momenti che si succedono nello spazio con la stessa linearità, uni-dimensionale. Questo è un modo di comunicazione perfettamente possedutoda ogni mente umana.

Nel caso della carta, le informazioni sono trasmesse in un linguaggiocompletamente diverso, attraverso un’immagine chiamata a significare uncomplesso di fatti spaziali che a loro volta non sono colti con un solo attopercettivo. C’è quindi un tradurre e ritradurre, in una lingua nuova e stranie-ra, ciò che costituisce un’operazione di tutt’altro ordine, molto più comples-sa, anzi qualitativamente diversa.

Qui possiamo fondarci su studi condotti con grande ampiezza e compe-tenza da specialisti di varie discipline. Oggi sappiamo che la memorizzazionedi informazioni relative a un percorso unidimensionale, anche complesso, ècosa cui arrivano anche gli animali da esperimento, nonché gli esseri umaninella prima infanzia, mentre il concetto di rappresentazione simbolica di unvasto complesso spaziale è un traguardo infinitamente più lontano e difficile.Certo, non si vuole negare che l’umanità antica ci fosse largamente arrivata;ma il cammino per giungere all’applicazione pratica era ancora molto lungo,come ci dicono molte testimonianze e considerazioni.

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Il problema di una possibile esistenza di carte nautiche nell’Antichitàgreca e romana si è affacciato diverse volte, e ha avuto non poche e non pocoautorevoli risposte positive. I nomi da ricordare comincerebbero alla fine delsecolo scorso con quello di A. E. Nordenskiöld, per proseguire con quello diJohn L. Myres. Nel nostro secolo l’assertore più famoso è stato probabil-mente il tedesco Richard Uhden (1935); ma anche uno storico della carto-grafia come Lloyd A. Brown (1951) introduce di testa sua un accenno a cartenautiche riferendo un passo di Strabone, in una maniera che certo avrà in-gannato più d’un lettore disarmato (33).

Oggi sembra che si sia diventati più cauti. Gli studiosi non particolar-mente interessati al problema si limitano a constatare che manca qualsiasitestimonianza in proposito. La più recente sintesi sulla cartografia antica,quella di O.A.W. Dilke, parla di nautica quasi solo in un capitolo intitolato‘Periploi’ e non lascia dubbi che per peripli intende delle istruzioni scritte,non disegnate. Due volte nota asciuttamente che nessuna testimonianza per-mette di attribuire agli antichi l’uso di carte nautiche (34). In maniera moltosimile si comporta lo storico oggi più autorevole della marina antica, il giàcitato Lionel Casson: «There is no evidence for the use of charts» (35). Unatrattazione più succinta della nautica antica, quella di Olaf Höckmann, è piùpossibilista. Tratta di questo possibile uso di carte marine nell’Antichità in unbreve capitolo, il penultimo, un po’ come appendice, e non porta alcun so-stegno all’ipotesi se non il noto passo di Erodoto, III 136, che ha ben scarsopeso. Varie asserzioni imprecise dimostrano che queste pagine sono propriole meno critiche di tutto il libro (36).

Credo però che non sia inutile tornare sul problema ancora una volta inmaniera un po’ più ampia. L’esperienza insegna che dove mancano testimo-nianze esplicite, dove c’è un vuoto nella nostra informazione, si ripresente-ranno certamente prima o poi ipotesi avventurose. Penso perciò che non siainutile formarci un’opinione più fondata, e confido che la discussione possaessere in ogni caso fruttuosa.

Metodicamente, la considerazione principale è questa: la carta (soprat-tutto quella nautica) è uno strumento, che serve a immagazzinare e a trasmet-tere informazioni. Perché questo strumento entri nell’uso, bisogna che si ab-

(33) NORDENSKIÖLD 1897; MYRES 1896, pp. 605-631; UHDEN 1935, pp. 1 ss.; BROWN1951.

(34) DILKE 1985, pp. 21 e 133.(35) CASSON 1971, pp. 283 n. 51 e 297 sgg.(36) HÖCKMANN 1985, p. 163: «Vielleicht ist sogar schon früh kartiert worden»; anche

R. BÖKER, Windrosen 1958, col. 2351, parla di carte nautiche un po’ troppo disinvoltamente:il rodio Timostene, ‘ammiraglio’ di Tolomeo Filadelfo, sarebbe stato il primo a stabilire unaregolare rosa dei venti, divisa in dodici; «ein nautisch brauchbares Instrument», che ebbegrande diffusione e che egli avrebbe impiegato insieme colla carta di Dicearco.

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biano le informazioni da metterci, da una parte, e dall’altra la necessità e lacapacità di servirsene. In questa ricerca, bisogna essere molto concreti, e nonstaccare mai le conquiste intellettuali e teoriche dai fatti pratici. Altrimenti,rischiamo di fare la figura di chi attribuisse l’invenzione dell’automobile auna civiltà che non conoscesse alcuna forma di strada adeguata, o il possessodi macchine calcolatrici a una di quelle la cui aritmetica non va oltre il nume-ro dieci. Questo lo fanno gli autori di certi best-seller da stazione ferroviaria,quando inventano storie mirabolanti sulle civiltà antiche che conoscevanogià certi procedimenti della chimica moderna, e cose simili. Probabilmente,molti che hanno scritto su quest’argomento hanno peccato in questo senso:non hanno collegato la questione dell’uso o non-uso della carta nautica almodo di navigare degli antichi, e non hanno tenuto abbastanza d’occhio quelloche sappiamo sull’uso della carta nautica nel Medioevo e nell’età moderna inrelazione ai progressi della navigazione.

Diamo prima di tutto un’occhiata all’Antichità. Ho detto (semplifican-do) che la navigazione degli antichi era una navigazione unidimensionale,cioè lungo la linea segnata dalla costa, cui si addiceva lo strumento del periplo.Con questo, non volevo dire che essi rifuggissero totalmente dalla traversatain alto mare, e che perdere di vista la terra fosse per loro motivo di invincibi-le terrore. Se lo facessi, cadrei in uno dei vari pregiudizi volgati sulla nauticaantica. In realtà, l’impressione sensoriale e psicologica del vero e proprioalto mare è espressa addirittura già nell’Odissea, che non rappresenta certouna nautica molto avanzata, neanche secondo il metro degli antichi:

a\ll \ o$te deè Krhéthn meèu e’leiépomen, ou\deé tiv a"llhJaiéneto gaiaéwn, a\ll &ou\ranoèv h\deè qaélssa ... (x 301-2)«Ma quando avemmo lasciata Creta, né si vedeva altra terra, ma solo cielo e

mare …»

Traversate in alto mare se ne facevano: quello che importa è come sifacevano. Esse costituivano un limitato numero di rotte, seguite molto stret-tamente; costituivano i necessari raccordi fra i percorsi lungo costa, non rap-presentavano un muoversi liberamente su una superficie. Schematizzando esemplificando ancora una volta, si può dire che la navigazione antica avevafatto di uno spazio bidimensionale una somma di linee unidimensionali, lun-go le quali basta come guida il periplo; e che essa non aveva ancora imparatoa pensare in termini di spazio bidimensionale, cui in termini di rappresenta-zione corrisponde la carta (37).

(37) Nella carta di Tolomeo l’Africa del nord presenta una successione di golfi, tutti‘spianati’ su una costa che corre quasi in linea retta. È proprio il modo di rappresentarsi unacosta quando se ne segue semplicemente la linea, senza curarsi di orientamento e tanto menodi latitudine.

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Quindi, il bisogno di una carta non poteva essere molto sentito, né sipossedeva la capacità di produrne di abbastanza perfezionate da imporsi perutilità e affidabilità. E credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che nellastoria dei progressi umani le conquiste scientifiche e tecniche non nascono acaso come fiori che sbocciano da un seme portato capricciosamente dal ven-to. Piuttosto, sono come frutti che cadono quando sono maturi, per un con-correre di circostanze ben precise e ben regolate. Fuori di metafora, i passiavanti della tecnica compaiono quando sono maturate le condizioni tantointellettuali che pratiche, che vanno di pari passo. L’uomo non intraprendedei compiti quando non è arrivato il momento giusto, quando egli non èancora in grado di padroneggiarne ogni aspetto, quello intellettuale e quellotecnico-pratico.

Stavolta voglio prevenire la critica di eccessiva ‘polarizzazione’, cioè ilrimprovero di contrapporre troppo rigidamente la mente antica a quellamoderna, sottolineando io per primo che le cose sono più sfumate di quantopotrebbe sembrare da questa prima enunciazione. Volgiamoci un attimo aiconcreti fatti storici. Le prime vere carte nautiche che conosciamo risalgonoal XIII secolo e vanno sotto il nome (improprio) di carte-portolano. Rappre-sentano il Mediterraneo con straordinaria esattezza, e contrastano incredi-bilmente con le contemporanee raffigurazioni delle terre, che hanno altriintenti e tutt’altro carattere. Secondo il parere concorde degli esperti, la lorocomparsa è legata strettamente all’invenzione della bussola, che ne rendevapossibile da una parte il tracciamento, dall’altra l’utilizzazione (38).

Nel XIII secolo, che dovette vedere se non propriamente l’invenzione,almeno la diffusione della bussola, si avvertono vari segni di novità, oltre allecarte: a quest’epoca risale quella specie di grande portolano del Mediterra-neo che va sotto il nome di Compasso da navigare, e che è una summa aggior-nata di molte esperienze più antiche. Il suo editore moderno, Bacchisio R.Motzo (39), ne ha rilevato un carattere che lo «stacca nettamente dai periplidei Greci e dagli itinerari marittimi dei Romani»: questo carattere è la «co-stante indicazione delle distanze in miglia, congiunte inseparabilmente colladirezione delle coste, la posizione relativa dei luoghi e la rotta da dare allanave indicate secondo il sistema italiano della rosa». Nella stessa pagina in-troduttiva il Motzo cita lo storico della geografia antica Richard Uhden (giànominato) che cercò vanamente nell’Antichità le origini di questo sistema diindicazioni, riuscendo solo a dimostrare, meglio di chiunque altro, che non

(38) L’enorme superiorità delle carte-portolano in confronto con Tolomeo è tanto piùsignificativa in quanto raggiunta in un’epoca che tecnicamente non era affatto superiore al-l’età ellenistica e del primo Impero, anzi per molti aspetti inferiore. Certamente, nell’AltoMedioevo nessuno avrebbe saputo scoprire la precessione degli equinozi!

(39) MOTZO 1947.

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esistevano (40). Cito ancora il Motzo: «Non basta che l’Uhden rintracci fati-cosamente nelle letterature classiche una dozzina di esempi (cinque di Plinio,due di Strabone, uno di Agatemero, cinque di Marino in Tolomeo) in cui deigeografi indicano la distanza di due isole o di due luoghi in miglia o in stadi,e la loro posizione relativa secondo i venti, per dimostrare che dunque sonoesistiti dei peripli che questo metodo usavano sistematicamente, e che sareb-bero i predecessori e i modelli dei portolani italiani del Medioevo. Dei peripligreci abbiamo non scarsi avanzi e tale sistema non vi è seguito, come l’Uhdenstesso deve riconoscere» (p. XL). In conclusione, il Motzo ammette per l’An-tichità l’esistenza di «rozzi disegni» (così più o meno si esprime, cfr. p. CIIIsg.) di origine empirica, dei quali i marinai si sarebbero serviti per comuni-carsi un’immagine a grandi linee, approssimativa, delle posizioni rispettive diporti e isole. Questi schizzi cartografici, secondo le sua parole, potevanoessere «non inutili», ma certo non sono paragonabili a «una vera carta nauti-ca» (p. CIV). La semplice verità è che «non vi è, alle attuali conoscenze delmondo antico, alcuna testimonianza che ci permetta di affermare che il corsodelle navi fosse retto in base alle Carte» (ibid.). Parole scritte nel 1947, chemezzo secolo dopo restano esattamente vere.

Ho lasciato parlare il Motzo perché si tratta di un autore competenteche parla sulla base di una ricerca di prima mano, e poi perché non ha alcunatesi speciale da dimostrare circa la nautica antica. Il suo appoggio ha quinditanto più valore. (A contrasto coi marinai europei del Mediterraneo, gli Ara-bi si comportavano più o meno come gli Antichi, p. XLI.)

Questo contrasto parla una lingua chiarissima, mi sembra, dopo le bre-vi riflessioni che abbiamo fatto. Non ci meravigliamo a questo punto se l’usodella carta è testimoniato espressamente da qualche fonte proprio in questosecolo XIII nel quale sembrano addensarsi le prime indicazioni di novità. Ilcronista Guglielmo di Naugis racconta come il re Luigi IX viaggiava su unanave genovese alla volta di Tunisi, per la sua famosa crociata. Il maltempodisperse le navi, e il re inquieto volle sapere dove ci si trovava. Allora inocchieri, ascoltiamo bene, «allata mappa mundi, regi situm terrae …ostenderunt» (41). Ora, so benissimo che l’argumentum ex silentio non èsempre un buon argomento; tuttavia non so trattenermi dall’invitare gli as-sertori della carta nautica greca e romana a trovare qualcosa di lontanamentesimile in tutte le letterature antiche. Eppure le occasioni non mancavano,perché se dall’Antichità sono arrivati pochissimi racconti di navigazione ric-chi di particolari, gli accenni parziali e i racconti limitati sono molti.

So bene che per noi, lettori di letterature antiche, è difficile immaginare

(40) UHDEN 1935, pp. 1-19.(41) GUILLAUME DE NANGIS, Gesta Sancti Ludovici, «Recueil des Historiens des Gaules

et de la France», t. XX, Paris 1840, p. 444.

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un poeta greco o latino che parla di carte nautiche; eppure ci sono degliesempi da altre epoche che ci mostrano come la cosa non sia impensabile. Diuna carta nautica si può parlare anche in versi, senza scendere a un tonotroppo prosaico. Ludovico Ariosto lo fa nel descrivere una navigazione inmezzo alla tempesta, nel canto XIX dell’Orlando furioso. La nave è smarrita,e tutti cercano di orientarsi e di ritrovare la rotta perduta:

«Chi sta col capo chino in una cassaSu la carta appuntando il suo sentiero ...»

Di carte su questa nave ce ne sono addirittura parecchie (dovremmoessere al tempo di Carlo Magno, e questo è certamente anacronistico!). Pocopiù avanti si tiene consiglio, e ognuno dice la sua:

«Indi ciascun con la sua carta fuoraA meza nave il suo parer risolve (42)».

Per rendere il confronto più frappant, siamo in pieno Mediterraneoorientale, proprio come nei romanzi greci o negli Atti degli Apostoli, e i pare-ri sulla situazione della nave oscillano fra Cipro, l’Anatolia e la Siria …

Di carte nautiche può parlare anche un poeta didascalico, facendoneanzi un pretesto per eleganze di stile e di erudizione. L’urbinate BernardinoBaldi compì nel 1585 la sua Nautica, dove delle carte e del loro uso si parlaalmeno tre volte. Naturalmente, non pretenderemo che gli antichi dovesserofare per forza quello che hanno fatto i moderni. Vorremmo solo riflettere peruna volta su quello che si potrebbe trovare nelle letterature antiche e cheinvece non vi troviamo; può darsi che qualche volta sia una riflessione noninutile.

Lo stesso Motzo cita un documento del 1244 dove si elencano, nell’in-ventario dei beni sequestrati a bordo di una nave messinese, ben tre oggettichiamati mappamundum, accanto a due calamite, «una cum apparatibus suis»(p. XLIX.)

Con queste testimonianze, siamo nell’ambito della marina mediterra-nea; ma è altrettanto ben testimoniato che nella marineria nordica e oceanicale cose stavano alquanto diversamente. L’inglese William Bourne pubblicò aLondra nel 1574 il suo Regiment for the sea, che è il primo manuale di navi-gazione scritto in lingua inglese. Qui leggiamo queste parole: «Sono giàvent’anni, lo so, che anche vecchi lupi di mare deridono e sbeffeggiano chi siè impossessato di carte e quadrante per navigare … e dicono costoro che aloro non importa nulla delle pergamene, perché le navi si governano megliorestando sul ponte di comando». (Apro una parentesi per osservare che que-

(42) Ottave 44 e 45.

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sta diffidenza beffarda dell’uomo d’azione verso la carta vista come inutilegiocattolo scientifico non giunge nuova al lettore degli scrittori greci: Plutarcoracconta che Filopemene, da comandante militare, non voleva saperne dicarte, taèv tw%n pinakiéwn diagrafaév, anzi le mandava a quel paese, e\w%ncaiérein. Il capitano serio, secondo lui, andava a ispezionare il terreno coipropri occhi) (43).

Ma sentiamo che cosa ne dice uno dei migliori storici di questa materia,l’inglese John H. Parry: «Nel nord la carta nautica rimase invece totalmentesconosciuta fino alla metà del Cinquecento, e una tradizione attendibile neattribuisce l’introduzione in Inghilterra a Sebastiano Caboto. Nell’area delMediterraneo l’uso della carta nautica risaliva al Duecento e la sua evoluzio-ne indica uno stretto parallelismo cogli sviluppi delle tavole e delle direzionidi rotta. Queste tre cose infatti conseguono dalla bussola. La parola compas-so indicava non solo il manuale del pilota, ma anche le carte nautiche, basatesu una serie di rilevamenti alla bussola» (44).

Abbiamo visto così, con rapidissimi esempi, che la creazione e l’impie-go della carta nautica sono il frutto di un insieme di circostanze che mancanoassolutamente nell’Antichità classica, e che invece vediamo formarsi (o alme-no intravediamo) in un’epoca molto più recente, che è il Medioevo avanzato.Fattori di vario ordine ci spingono tutti alla stessa conclusione: la carta nau-tica è a dir poco sostanzialmente ignota agli Antichi; quelli che ne hannopostulato l’esistenza e l’impiego hanno trattato l’ombre come cosa salda.

C’è un passo di Strabone che parla una lingua abbastanza chiara, e chenon ha ricevuto, per quanto mi consta, la meritata attenzione in questo con-testo: «Chi naviga in mare aperto, o viaggia in regioni pianeggianti, si guidacon regole empiriche e non tecniche (koinai%v tisi fantasiéaiv a"getai) cosìcome fanno l’incolto (a\paiédeutov) o un semplice cittadino, ignari di coseastronomiche (a"peirov w!n tw%n ou\raniéwn)» (II 5,1, C109). Si poteva direuna cosa così recisa, se davvero si usava la carta nautica o in genere qualchemetodo paragonabile lontanamente ai nostri? Eppure c’è stato chi ha volutoriconoscere uno strumento per la navigazione astronomica nel famoso stru-mento di Anticitera, ripescato in mare! (45).

Per concludere, io credo che sia metodicamente importante non caderein un pericoloso ‘egocentrismo’, quando si fa storia della tecnica. L’errore è

(43) PLUTARCO, Vita Philopoemenis 4,9.(44) PARRY 1991, p. 126. Cfr. anche PARRY 1984, pp. 45 e 47.(45) Subito dopo il ritrovamento, ci fu chi ci volle vedere un astrolabio (SVORONOS

1903, tav. X). DILKE 1987, p. 44, preferisce pensare a un calendario astronomico, ricordandoche si è ipotizzato anche «an ancient Greek computer»: D. DE SOLLA PRICE, Gears from theGreeks, The Antikythera Mechanism – A Calendar Computer from ca. 80 b.C., New York1975.

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stato già denunciato, e consiste nel credere che le esigenze avvertite dagliuomini, e anche il tipo di risposta a quelle esigenze, debbano essere identici oquasi in diverse culture. Il mondo antico, diciamo così, non fu un tentativomal riuscito di produrre qualcosa di simile al nostro mondo. Lo storico del-l’economia e della tecnica Carlo M. Cipolla ha scritto invece, a conclusionedi un suo piccolo e interessante libro sugli orologi, che una specifica culturacondiziona in una data maniera sia la percezione di un’esigenza sia la rispostache le si dà (46).

È vero che arrivare alla meta il più sicuramente possibile, quando si vaper mare, è un’esigenza materiale avvertita ugualmente da tutti, ma non èdetto che a questa esigenza si diano risposte simili, che si distinguano soloper il maggiore o minore avanzamento, come se la strada dovesse essere ne-cessariamente la stessa per tutti. La carta geografica è solo un modo fra tantidi rappresentare e trasmettere le forme della superficie terrestre, e altrettan-to vale in particolare per la carta nautica. Oggi siamo arrivati, attraverso glisforzi e i progressi compiuti in vari campi, da storici, osservatori di variaspecie e psicologi, a concepire anche altri generi di possibile risposta a questaesigenza.

In passato si è attribuito agli antichi l’uso delle carte nautiche in manie-ra aprioristica, come se l’onus probandi toccasse non già a chi afferma quel-l’uso, ma a chi lo nega. Oggi, speriamo di aver mostrato che il problemamerita qualche riflessione più cauta.

PIETRO JANNI

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(46) CIPOLLA 1996, p. 89.

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fra molte altre cose, un piccolo ‘planetario domestico’, che dà l’aspetto delcielo in ogni momento e da ogni punto della Terra, nell’arco di vari millenni).

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