Senza padre e madre, né rimorsi - PREVIEW primo capitolo

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Salvatore Corbello, un giovane psicolabile, ricostruisce i suoi ultimi anni nel mondo dei sani di mente attraverso l’estenuante ricerca della verità scritta in uno stile irruento e allucinato, ma sempre ironico e divertito. Anni in cui smette di assumere psicofarmaci e rovina per sempre il rapporto che ha con la propria famiglia, tanto da sceglierne un’altra composta dai suoi migliori amici. I quattro, fragili creature vittime di un contesto arretrato, difficile e indifferente, formano una banda irriverente e autarchica, fanno del loro legame l’unica ragione di vita e consumano il loro tempo mettendo in atto una serie di folli goliardate. Ma il passaggio dalla minore alla maggiore età non sarà facile per Salvatore, alle prese con il Sud, quello delle dure periferie, con il rendersi conto di quanto l’amore sia smisuratamente più devastante dell’amicizia e con la sua solitaria battaglia contro la teoria psichiatrica della pazzia...

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OZIOSAPIENTE

collana di narrativa diretta daDante Maffia

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© Edizioni Libreria Croce di Fabio Crocevia Noto, 23 - 00182 Romatel./fax: 06 4746780e-mail: [email protected]

Impaginazione: Preview - viale Manzoni, 24a - 00185 Roma

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Sergio Covelli

Senza padre e madre,né rimorsi

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Amorequesta parola si è conservata solo come metafora poetica

la composizione chimica di questo prodottoci è ignota.

Noi, Evgenij Ivanovic Zamjatin, 1921

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PUNTODANIELA

Sembrava quasi di volare nell’acqua o di nuotare nell’aria. Non ricordo esat-tamente, ma mi pare che la sensazione fosse riconducibile proprio ad una di que-ste due. Il nero era così nero, ma così nero, che non c’era verso di discernere illiquefatto dall’etereo e le stelle, che brillavano sopra di noi, ci attorniavano tre-molanti specchiandosi sulla superficie del mare. Un leggero e caldo vento diterra teneva a bada le onde e, nonostante la corrente ci stesse trascinando al largopian piano, sembrava quasi di essere immersi in uno sconfinato e piatto lagosalato che, vista l’omogeneità di colore e consistenza col cielo sovrastante, face-va un tutt’uno con lo spazio celeste come se l’orizzonte non esistesse più.

“ANDATE PIANO, MA A VOI NON VI PESA ‘STO FERRO?”“Schhhhh, zitto Figlio, che ci sgamano!”“Nuota a rana e muto, arriviamo alla boa e poi ci dividiamo.”Come al solito Papà e lo Zio apparivano ben determinati a portare a termine

la missione che ci eravamo prefissati di compiere quella notte e sarebbe statomeglio anche per me riuscire a divertirmi il più possibile cercando di emular-li… La piccola boa arancione ci aspettava ignara gorgogliando e schiumandoleggermente. Non appena la raggiungemmo ci attaccammo tutti e tre conentrambe le mani sfiorando con le ginocchia la catena mucillaginosa che lacostringeva a convivere con un’ancora adagiata sul fondo ad una decina di metridi profondità.

“Senti che silenzio.” Disse a voce bassissima Papà.“Davvero, però, porca puttana, mi sto cacando addosso, con questo mare

così nero… Mi aspetto sempre che appaia qualcosa all’improvviso.” Asserii io.“Macché! Il solito cacone! ‘Sto mare è bello, ma ormai i pesci scarseggiano.

Cosa vuoi che spunti fuori? Tutt’al più appare un bel bidone pieno di scorieradioattive.” Il sempre apocalittico Zio ridendo.

Nonostante fosse solo metà giugno l’acqua era una zuppa di pesce caldaappena cucinata e si rivelava davvero soddisfacente lo starci a mollo. Se nonfosse stato che eravamo lì per scopi tutt’altro che di piacere quel bagno pensoche me lo sarei proprio goduto. Lontano, a riva, ad una cinquantina di metri danoi, non c’era anima viva o, perlomeno, non si riusciva a vedere nessuno.Nemmeno Mamma che era rimasta a terra, contro voglia, a fare il ‘palo’.Sebbene fosse così buio quasi mi sorpresi per come si erano abituati veloce-mente gli occhi a quei barlumi di luminosità che provenivano esclusivamente

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dalle galassie lontane, dai satelliti artificiali e dagli aerei che passavano sullenostre teste, ad una decina di chilometri di quota, in direzione Africa. Sarannostate le tre del mattino, eppure la strada con il maggior numero di morti all’an-no in Italia, la Strada Statale 106, sembrava essere abbastanza trafficata. Difattisul lontano cavalcavia, che tuttora sovrasta la spiaggetta di Caminia di almenouna quarantina di metri, fasci di luce anabbagliante passavano in un senso e nel-l’altro, ad alta velocità, come comete nello spazio infinito. Il momento era pro-pizio, ma nessuno dei due aderenti alla ‘Famiglia’ che emergevano vicini sidecideva a dare il via alle operazioni. Io aspettavo il loro segnale. D’altrondeerano loro i più entusiasti per quello che ci stavamo accingendo a compiere…

“Via, si parte. Lo Zio va lì sulla sinistra. Tu, Figlio, vai sulla destra ed iovado di qua. Ok?” Decise Papà, guardandoci con quegli occhi dalle iridi azzur-rissime circondate dal rosso dei bulbi infuocati dal sale marino, uno sguardopressappoco diabolico.

“A me va bene.” Rispose lo Zio. “Facciamole fuori tutte e poi ci ritroviamoqui. Non vedo l’ora!” Anche lui aveva la bava alla bocca.

“Vai, però facciamo in fretta. Massicci!” Dichiarai cercando un po’ di autoen-tusiasmo nelle parole che da sole erano fuoruscite tra le mie labbra salmastre.

Ci guardammo nelle pupille, che espressioni! Eravamo decisi, non c’eranodubbi. D’altronde questo progetto lo avevamo messo a punto già da un po’ disettimane. Avevamo aspettato la Luna vuota per essere più al buio possibile.Eravamo andati a comprare tre tronchesi, di quelle massiccissime che spaccanoqualunque lucchetto, in posti separati: io a Catanzaro, Papà a Soverato e lo Zioa Catanzaro Lido, per non destare sospetti. E, a questo punto, già non vedeva-mo l’ora di raccontare l’impresa a Volpe e a Gatto che avevano preferito anda-re a trascorrere la notte con le rispettive ragazze…

Oramai i due compari non li capivamo più, in passato erano stati anche lorodel gruppo della Famiglia e sulle loro qualità sovversive nessuno nutriva alcundubbio, però, da mesi, si stavano assentando un po’ troppo per colpa del loroinappagabile desiderio sessuale ed avevamo deciso di comune accordo, sì, diraccontargli sempre tutto, ma di non farli partecipare mai più direttamente alleimprese familiari. Peccato per loro.

Un po’ a rana, un po’ annaspando mi diressi in direzione delle barche e deimotoscafi che stavano sulla destra rispetto alla boa e mi fermai ad una quin-dicina di metri da essa non appena udii un leggero rumore metallico proveni-re da dietro.

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“Porca miseria, lo Zio ha già iniziato!” Pensai facendomi prendere subitodalla fretta.

Mi guardai attorno meglio che potei. Feci un veloce conto dei natanti cheondeggiavano nelle vicinanze e mi diressi in prossimità del più vicino. Iniziavogià a sentirmi stanco e a corto di fiato, ma meno male che per ogni barca c’eraquanto meno una boa dove potersi sorreggere di tanto in tanto. Sentii altri stre-pitii metallici cronologicamente ravvicinati, erano il segnale lampante cheanche Papà aveva dato inizio alla sua parte nella missione, d’altronde l’idea ini-ziale era stata proprio sua ed era quello più contento di tutti di poterla portare atermine come da programma prestabilito. Non c’era altro tempo da perdere.Come al solito ero rimasto l’ultimo. La cesoia era sempre lì, infilata per metàmanico fuori dal costume a battere sulla mia coscia destra e per metà dentro,con la parte a tenaglia in fuori verso il mio ombelico. La estrassi dal mio ‘fode-ro-boxer’ e anch’io detti inizio alle danze. Con un aggeggio simile avevo l’im-barazzo della scelta, avrei potuto stroncare in mille pezzi quello che mi pareva,o il lucchetto che legava la barca alla boa o la catena che legava la boa all’an-cora, l’importante era mollare gli ormeggi, lasciare la barchetta che avevo difronte in balia delle correnti per non fargliela mai più ritrovare al suo scono-sciuto ignaro padrone. Scelsi di spaccare il lucchetto piuttosto che la serie dianelli di ferro. Era un gingillo che avrei potuto rompere anche con la pinzettaper le sopracciglia di mia nonna. Figuriamoci con gli arnesi da scassinatori pro-fessionisti che ci eravamo procurati… Lo schiamazzo metallico avrebbe aller-tato gli altri membri della Famiglia che anch’io finalmente, come loro, avevoiniziato a divertirmi come un forsennato. Ah, che soddisfazione fu spaccare quelprimo lucchettino dorato! Si spezzò in un attimo e la forza che impressi fu deci-samente sovradimensionata per quella facile rottura. La tronchese neanche se neaccorse. Vai, la prima barca mi diede una bella scossa. Mi elettrizzò immagina-re le espressioni dei proprietari, quasi tutti ricchi e ignoranti borghesi diCatanzaro con la villetta al mare sul Golfo di Squillace, quando, arrivando inspiaggia per far fare un giretto ai familiari sui loro riprovevoli motoscafini, sisarebbero trovati solo una distesa di colorate boe dondolanti… E, forse, nean-che quelle. Così pensando mi diressi verso la seconda barca liberandola dal gal-leggiante in un secondo. Poi verso la terza e, poi, la quarta. Era fin troppo faci-le. L’acqua era un consommé troppo salato, bastava non berlo e, per il resto, cisi stava d’incanto. Nonostante l’assenza della Luna in cielo riuscivo a vedereabbastanza da non dover sbattere la capoccia contro i natanti. La cesoia era unperfetto arnese da guerriglia marittima e, un po’ per l’adrenalina del rischio diportare a termine l’impresa senza essere arrestati dagli sbirri o linciati a sangue

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da qualche barcaiolo, un po’ per il fatto che ci si poteva riposare aggrappati aigavitelli, non avvertivo nessuna stanchezza. Era tutto fin troppo perfetto e me lastavo spassando come un matto. Presto sarebbe finito tutto e saremmo andatiinsieme a sbronzarci, soddisfatti, in qualche bettola sulla costa. Quella missio-ne sarebbe stata una grande opera. Non la migliore di tutte. Ovvio. La Famigliaannoverava una serie di malefatte ben più scellerate e criminali, ma mandare allargo una trentina di natanti a motore ancorati abusivamente davanti alla spiag-getta superturistica di Caminia solo e soltanto per ammazzarci dalle risate dopoaver concluso l’operazione non era certo impresa da poco. Soprattutto conside-rando che una serata di svago di questo livello ci stava costando, sì e no, unadecina di mila lire cadauno per l’acquisto dell’arnese. Vale a dire, più o meno,un decimo di quanto stavano spendendo a quell’ora, tra discoteche, bevute edroghe leggere, la maggior parte dei nostri coetanei disseminati lungo la pano-ramica litoranea Catanzaro Lido - Soverato. La nostra era una ricreazione trop-po più sana, salutare, economica, fuori dalle imposte leggi della mercificazionedel divertimento e del consumismo più becero. Una serata trascorsa con un benpreciso scopo. Mica così senza sapere dove si va e cosa si fa. Insomma, uno diquegli spettacoli serali da affiliati alla Famiglia che ci piaceva realizzare, prati-camente quotidianamente, da cinque o sei anni a questa parte.

“Che culo, è toccato proprio a me il motoscafo di Nisticò! Bene! Ora te lolascio in balia delle correnti, mafiosetto di merda! Fanculo, ti sta bene!” Pensaialla vista della mia quinta barca da scarcerare.

Era un bel motoscafone bimotore tutto bianco in vetroresina e materiali com-positi moderni, con le rifiniture a bordo cromate. A occhio e croce doveva costa-re almeno quanto un appartamento di media grandezza in centro. La cosa che, lìper lì, mi entusiasmò di più fu, non tanto il valore dell’oggetto, che ovviamentesperavo potesse affondare o sbattere contro qualche spigoloso scoglio quantoprima, bensì il fatto che fosse di proprietà del padre di un nostro coetaneo cheodiavamo a morte per colpa dei suoi atteggiamenti a dir poco riprovevoli.

Descrivere questa figura di contorno della storia è tempo sprecato per cuimi limiterò a dare giusto qualche tratto, ahimé dovuto, di tale VitalianoNisticò… Chi era? La risposta è semplice: un ‘figlio di papà’, uno di quelli checambia moto ogni tre mesi, a marzo aveva una Honda NSR 125 ed a giugnoera passato già ad una Suzuki RGV 250, indossava stivali da paninaro model-lo cow-boy ed i suoi capelli erano perennemente unti di gelatina, aveva unostuolo di pischelle microcefale sbavanti sempre dietro ed era considerato unodei più promettenti giovani ‘capetti’ dei Giardini di San Leonardo, un luogo

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dove la maggior parte dei teenagers catanzaresi si ritrovava nel tardo pome-riggio, una specie di zoo delle vanità dove tutti potevano guardarsi a vicendasenza spendere i soldi del biglietto d’ingresso di un vero e proprio giardinozoologico. La Famiglia abominava questi elementi. Erano degli ignari nemiciperché noi disprezzavamo i prepotenti, gli ignoranti, gli attaccabrighe, gliultras del Catanzaro, i ricchi, gli incolti e quelli sempre alla moda. E lui rias-sumeva il tutto in un unico individuo. Non ancora adulto e già un pericolo perla società…

Il lucchetto era il più grosso in circolazione su quell’ettaro di superficieacquosa, ma la sua vista non mi scoraggiò affatto, c’era pur sempre da control-lare lo spessore della catena che univa la boa all’ancora…

“Che dementi!” Pensai divertito. “Mettono un lucchetto gigantesco alla boae poi, per risparmiare, la catena è quanto un braccialetto!”

Staccai di netto il galleggiante dall’ancora e diedi una spinta al motoscafo ilquale si trascinò dietro l’impotente boa. Mi sentii veramente forzuto. L’impetodei miei due esili braccini, in mare, era in grado di muovere un aggeggio cosìgrosso. In quell’attimo gioii e, pieno di rinnovato vigore, mi accinsi a raggiun-gere la mia sesta barchetta.

”Fanculo, Nisticò! Ben ti sta! Fanculoooooooooo!”L’intera operazione di liberazione dai nazi-fascisti durò in tutto una ventina

di minuti. Una volta letteralmente annientato il decimo o undicesimo camerata-lucchetto, il sottoscritto partigiano Figlio rimise nel fodero-costume la suamagnifica kalashnikov-tronchese e si volse, con il mento a pelo d’acqua, versoil segnale marittimo galleggiante dell’appuntamento. Mi sentii felice.Nonostante il freddo mi stesse prendendo sempre più ed i polpastrelli fosseroridotti ad un paesaggio desertico con le dune sabbiose visto dall’aereo, tutto eraandato liscio, non rimaneva che tornare sulla spiaggia dalla Mamma e sgattaio-lare via fino alla macchina di Papà che era parcheggiata, ben nascosta, ad uncentinaio di metri dal bagnasciuga. Quindi ce l’avevamo quasi fatta. Tornarealla boa più prossima alla riva però non fu per niente un gioco da ragazzi. Avreivoluto nuotare a stile libero per arrivare prima, ma i patti erano le leggi cheregolamentavano la vita familiare, ed erano stati accettati da tutti. Non mi restòche inspirare ed espirare meglio che potei per ossigenare al massimo i mieiindolenziti tessuti muscolari. La corrente si era fatta più vivace e la sbilencaflotta di barche e barchette si allontanava sempre più dalla costa. Era uno spet-tacolo straordinario vederla spostare come se, a bordo di ognuno di quei natan-ti, ci fosse un invisibile pirata che li stesse rubando tutti scappando in direzione

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della Grecia. Alla boa ci trovai già lo Zio. Tutto rilassato faceva il morto perriposarsi e, soprattutto, per godersi la vista della Via Lattea.

Lo Zio era un grande appassionato di astronomia. Aveva appreso tutto delcielo e delle stelle, ed ogni notte serena dal terrazzo di casa col suo megatele-scopio computerizzato in configurazione altazimutale, un Celestron 8 costatoalla sua famiglia un occhio della testa di entrambi i genitori, non mancava maidi ammirare i pianeti, le galassie lontane e, soprattutto, il satellite della Terra.Io ci capivo praticamente zero, ma gli credevo. Secondo lui sulla Luna l’uomonon c’era mai stato, tutti gli allunaggi erano stati delle messe in scena delgoverno statunitense, attuate unicamente allo scopo di impaurire l’Unionedelle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel periodo della Guerra Fredda, gira-te niente meno che da Stanley Kubrick e la scenografia delle riprese cinemato-grafiche era stata realizzata in una zona militare desertica del Nevada, più pre-cisamente a Groom Lake, famosa in tutto il mondo con il nome di Area 51.Aveva letto decine di studi al riguardo e proprio questo suo convincimento lospingeva a sognare quell’impresa mai riuscita ad alcuno, vale a dire prenderela laurea in Fisica Astronomica ed il brevetto di volo, realizzare la tesi di dot-torato all’ESA, l’Ente Spaziale Europeo, recarsi a lavorare all’Ente SpazialeNazionale Cinese e, infine, diventare il primo ‘vero’ cosmonauta ad atterraresul nostro satellite! “Altro che quei bugiardi degli americani! Solo coi cinesipotrò arrivare per davvero fin lassù!” mi ripeteva di tanto in tanto…

“Chi è?” Disse senza distogliere lo sguardo dai corpi celesti.“So’ io, Zi’. Fatto?”“Chiaro!” Si rimise in posizione da vivo, ma con lo sguardo sempre rivolto

alla Stella Polare. “Ma Papà è sempre a spaccare lucchetti?”“Mah? Bisogna filare, che cazzo fa ancora lì?”Cercammo di scorgere la sua figura tra le barche dondolanti, ma il suo capo

non era visibile. Stavamo quasi per preoccuparci, quando, improvvisamente,percepii l’acqua nei pressi del mio corpo muoversi in malo modo e, un istantedopo, vidi la testa di Papà affiorare velocemente dall’acqua spruzzandomi inviso, dalla bocca, un grosso schizzo di liquido salino.

“MA VAFFANCULO!” Replicai allo scherzetto cattivo mentre lo Zio se larideva di gusto.

Lui, dopo lo zampillo, prese ad imitare un mostro marino da poco emersodalle nere acque. Non si chetava mai. La vita era tutta uno scherzo continuo perPapà. Io, invece, mi impaurii non poco per quella sua improvvisa fuoriuscita

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dagli abissi, ma cercai di non darlo a vedere per compiacere sia lui che lo Zio ilmeno possibile.

“Bene, ci siamo, operazione compiuta! Ora non ci resta che atterrare, vero,base lunare alfa?” Disse subito dopo Papà prendendo in giro lo Zio.

”Sì, un cazzo!” Rispose l’attimo dopo lui. “Non ci siamo proprio, guardatelà! E pure là! Ve le siete scordate!”

Miseriaccia! C’erano ancora due barche ben ancorate sul fondo.“Chi se ne frega. Lasciamole lì e andiamo via. Mi sta facendo freddo e tra

un po’ albeggia. Cazzoni, andiamo via subito!” Feci io prontamente. “Va a fini-re che Mamma si preoccupa.”

“Cosa? Me ne fotto di Mamma! Vuoi lasciare incompiuto un simile magni-fico capolavoro? Io le ho fatte fuori tutte, perciò tornate lì e completate l’opera.Cazzi vostri!” Ribatté lo Zio a denti stretti.

“Accidenti a lui e a quanto cazzo è pignolo e ordinato!” Pensai arrabbiato trame e me.

”Ok, ha ragione Zietto caro. Io vado, però aspettate qui perché è meglio seusciamo dall’acqua tutti insieme.” Disse Papà che mai e poi mai avrebbe com-piuto una qualunque opera peggio dello Zio…

“Porca troia, non ce la faccio mica ad andare e tornare!” Replicai cercandouna scusa per andar via prima possibile da quel Mar Jonio che mi si stava tra-sformando, sull’epidermide intirizzita, in Mar Baltico.

“Figlio, cazzi tuoi. I patti sono patti. Io vado e perciò vai anche tu. Al miotre, ok?” Mi redarguì Papà.

“Ok.” Asserii senza troppa convinzione.“Cin, boom, tre!”Partimmo in direzioni difformi verso le barche sopravvissute. Lo Zio si rimi-

se a galleggiare a morto concentrandosi nell’osservazione di Giove che si distin-gueva dalle stelle per il fatto che brillasse di una luce più biancastra e non tre-molante. Incredibile, ma vero, dopo tutte le lezioni dello Zio, quella notte riu-scivo a vederlo anch’io. Arrivai in prossimità della detestata barca che avevodimenticato. Mai e poi mai, guardandola da vicino, avrei immaginato che quelmezzo di trasporto galleggiante, qualche tempo dopo, avrebbe irreversibilmen-te segnato a vita la mia vita. Era una specie di grossa vasca da bagno con loscafo arancione e l’interno biancastro. Sul fianco c’era una scritta nera, fatta apennello, tutta sbilenca, sembrava fosse stata dipinta da un marinaio ubriaco, dabordo, durante una tempesta tropicale: ‘DANIELA’, il suo nome. Indubbiamenteera una barca per andare a pesca al largo con la lenza, non sicuramente perandare a fare i gradassi con le bagnanti… Vedendola, quasi mi dispiacque di

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doverla mandare alla deriva. In fondo non era altezzosa e prepotente come lealtre che avevo liberato. Forse era di un vero amante del mare, non di uno diquelli che si comprano la barca tanto per fare il ‘VIP’ la domenica scorrazzan-do pericolosamente a venti metri dalla battigia. In generale dava un senso diabbandono. Non aveva motore e mi sembrò abbastanza mal ridotta. Va be’.Poco importava. Dovevo eliminarla e zitto. Nessun ripensamento. Non in quelmomento, almeno. Poi, a riva, avrei avuto tutto il tempo per deplorare il mioinfame gesto. A cinque metri dalla barca già mi preparavo ad aggrapparmi allaboa, quando, improvvisamente, sentii alle gambe la stessa sensazione di spo-stamento anomalo dell’acqua che avevo avvertito cinque minuti prima, quandoPapà era fuoriuscito improvvisamente dalla superficie marina. Mi parve chequalcosa avesse spinto la massa acquosa verso di me con una forza maggiorerispetto a quello che era il normale movimento del mare in quel momento.Pensai subito ad uno scherzo del solito Papà, ma era improbabile. Come avevafatto a compiere la sua missione ed arrivare fino a me, sott’acqua, così veloce-mente? No, era impossibile. Allora mi guardai attorno. Madonna, quanto eranotte. Buio e silenzio profondi come la Fossa delle Marianne. Dallo specchiod’acqua non c’era verso di vedere al di sotto nemmeno di venti centimetri. Eratutto un tremolar di lucciole che nascondeva ai miei occhi, addirittura, i pochipeli del mio gracile petto che sembrava essere fatto apposta per farmi riforma-re dal servizio militare per insufficienza toracica.

“Ok, meglio non pensarci, sarà la solita paura del mare che mi fa autosug-gestionare!” Pensai preoccupato.

Arrivai alla boa e, con enorme sorpresa, non trovai nessunissimo lucchetto aproteggere dai ladri la barca e nessunissima catena a tenere unita la boa all’an-cora. Non c’era nemmeno un irrisorio pezzettino di ferro da dover annichilirecon l’acciaio temperato della mia fantastica tronchese da guerra.

“Peccato!” Pensai amareggiato. “Tutta ‘sta nuotata per tagliare una miseracordicella! Effettivamente chi cazzo vuoi che gliela rubi ‘sta bagnarola!”

Boa, àncora e barca erano tenute insieme da un vecchio canapo annodato dachissà quale pescatore. Non so bene se fosse un nodo a gassa d’amante, a fri-zione o all’inglese, ma di sicuro non mi sembrò come un normale nodo da laccidi scarpe. Non me ne preoccupai. Per fortuna non avrei dovuto scioglierlo. Tiraifuori la cesoia e, pinnando con le gambe più che potei per tenermi a galla conla bazza fuori dall’acqua, diedi una bella sforbiciata alla corda appena sopra laboa. Porca miseria! La sartia, formata da un intreccio di fini corde raggruppate,non si tranciò nemmeno d’un filino. Praticamente si piegò tra le lame della tron-chese, torcendosi ed espellendo l’acqua che dimorava tra i cordini, come una

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spugna strizzata. Ci riprovai di nuovo. E ancora e ancora. Penso di averlo fattopiù di dieci volte, sia sopra la boa, con la corda quasi tesa per aria, sia sotto laboa, con la fune allungata sott’acqua, ma nulla. Assolutamente niente. Nessunrisultato apprezzabile. Incredibile a dirsi, ma quella cordicella era più resisten-te e tenace di qualunque catena metallica e, per assurdo, quella cesoia cosìpoderosa nulla poteva contro l’astuzia di quel cavo di canapa così debole, eppu-re così elastico.

“Cazzo! Non mi potevo portare un coltello? A quest’ora l’avevo già mozza-ta ‘sta corda di merda! Porca miseria, altro che tronchese gigante! Il proprieta-rio la sa lunga in fatto di barche, mica come i cazzoni che hanno gli yacht!”

Mi resi conto che non mi restava altro che sciogliere il nodo o, in alternati-va, con l’aiuto di un complice, mettere in tensione la corda allontanando l’im-barcazione, per sperare di tagliare con le lame della cesoia quella maledettagomena che se la stava ridendo di me. Logicamente optai per la prima soluzio-ne. Infilai la grossa tenaglia spaccatutto nei boxer. Sentii il gelo dell’acciaiocontro il mio pene che, nel frattempo, era diventato, per il freddo, una minu-scola appendice rugosa e rattrappita come la sagola che dovevo evirare.Riguardai il nodo che avevo dinanzi. Non c’erano dubbi. Doveva essere una diquelle astute legature che resistono in trazione a qualunque forza, ma che, cono-scendo quale estremità mettere in tensione ed in che direzione, si sarebbe sciol-ta in un baleno. Era un gioco d’intelligenza, non di forza, perciò decisi di resta-re calmo. Nel momento in cui presi la grossa annodatura tra le dita, di nuovo econ una forza decisamente maggiore rispetto a pochi minuti prima, percepii unospostamento dell’acqua che mi bagnava intorno assolutamente SPA-VEN-TO-SO. In quell’attimo percepii un grosso brivido sulla colonna vertebrale ed i mieiorgani prensili si bloccarono irrigidendosi agghiacciati sulla corda. Va bene cheio ero famoso nel quartiere ed oltre per le mie visioni derivanti da autosugge-stione, ma non poteva essere autocondizionamento quello, non poteva esserepaura del buio, terrore del mare profondo. Non era possibile. Era stato qualco-sa di tangibile e reale perché la barca fece un brusco, e piuttosto anomalo, sob-balzo, allontanandosi di mezzo metro da me. Come un’onda incorporea che siera intramezzata all’improvviso alla corrente che mi circondava. Mi girai discatto. Avevo paura. Tanta paura. Era un essere vivente che aveva provocatoquel movimento. Non c’erano dubbi. Guardai verso la boa dell’appuntamento emi sembrò di scorgere tre teste, o meglio due teste ed un galleggiante, quindiPapà non poteva essere nei paraggi. Cazzo, dovevo sciogliere quel nodo e fila-re via come un siluro all’uranio impoverito sparato da un sottomarino nucleare.Cosa diavolo poteva esserci attorno a me? Eravamo a una cinquantina di metri

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dalla spiaggia. La profondità era di una decina di metri. La temperatura del-l’acqua sui venticinque gradi. Quale maledetto essere marino poteva gironzola-re vicino ai tre membri della Famiglia? Un tonno? Nooooo! Un delfino?Bbbbboh! Un’orata gigante? No di sicuro! Un sarago di dimensioni fuori dalcomune? E chi lo può dire! Uno squalo? Macché! Un polpo gigan… Cosa?Come? Cosa ha appena pensato Figlio? Uno squalo? Eh? Iniziai a considerarese-ri-a-men-te di avere un pescecane nelle vicinanze…

“Ma no! Ma che cazzo pensi! Figlio! Come al solito, ti stai solo autosugge-stionando! Maledetti film sugli squali! Servono solo a mettere timori allagente!” Un turbinio di supposizioni cercò di prendere il sopravvento sul miosenno cercando di scacciare la fifa.

Va bene che lo Jonio è un mare profondo e, una volta all’anno, la notizia diavvistamenti di pescecani era sulla bocca di tutti, ma proprio ora, proprio men-tre dovevo districare quel maledetto nodo doveva farsi vivo un malauguratosqualo? Non era possibile. Ripresi l’operazione di dissoluzione del legaccio. Lemani mi tremavano. Agganciai con forza un capo della fune e tirai verso di me.Non feci a tempo a vedere che avevo ottenuto l’effetto contrario allo sciogli-mento che la sensazione del movimento d’acqua si tramutò, in un attimo, in unasensazione di contatto con qualcosa di solido. Come un sentirsi sfiorare appe-na. Girai di scatto i bulbi oculari intirizzendomi tutto in un fremito raggelante.Il cuore mi sobbalzò in gola battendomi a velocità forsennata nelle tempie. Identi si misero a sfrigolare gli uni sugli altri con un rintocco velocissimo nellamia muta bocca. Avvertii un terrore sconvolgente impadronirsi di tutto il mioencefalo in un botto solo. Non riuscii a pensare che a una ed una sola cosa: lamia scomparsa dalla faccia della Terra. Altro che film! La pinna di uno squalo,un vero e proprio pescecane, vivo e vegeto, si stava muovendo al mio fiancopiiiaaanooo piiiaaanooo, molto lentamente, allontanandosi fendendo l’acquadelicatamente. Intravidi bene tutto il resto della sagoma che dalla pinna dorsa-le si estendeva fino alla coda, a pelo d’acqua, per almeno un metro e mezzo odue. Si muoveva sinuosamente, come se stesse annusando qualcosa sul fondoseguendola dalla superficie senza troppa foga. Non riuscii a ragionare comeminimo per cinque secondi, dopodiché con un deciso colpo di reni mi tirai sullabarca che, fortunatamente, non ero riuscito a mandare alla deriva. Lì, in quelpreciso istante, vissi il momento più terrificante, anche più spaventoso rispettoal vedersi passare a dieci centimetri dal proprio naso uno squalo di tre metri dilunghezza, perché, tirandomi su, mi agganciai con la tronchese al bordo del-l’imbarcazione restando con le gambe a penzoloni e con i piedi nell’acqua perun lunghissimo interminabile secondo e mezzo in cui vidi, con la mente, la

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bocca spalancata del pescecane prendermi per le estremità con un rapido guiz-zo e portarmi per sempre giù negli oscuri abissi dell’abisso oscuro. Così, ovvia-mente non fu, altrimenti non sarei qui a raccontare questa mia storiaccia, ma,comunque, un evento abbastanza spiacevole accadde ugualmente. Allungan-domi in su, con tutta la forza che avevo nei tricipiti e nei dorsali, mi gettai nellabarca, e con mia enorme sorpresa, mi accorsi di aver smarrito la cesoia in maree di avere al posto del costume uno straccetto squarciato sul davanti. Guardai ilmio intirizzito pene pendere verso il basso. Se prima era minuscolo per il fred-do, ora, aggiungendo nel mio sangue anche una bella dose di terrore, aveva rag-giunto dimensioni microscopiche: quasi non si scorgeva più in mezzo ai pelidell’inguine. Avrei voluto urlare, ma mi sentivo muto come un pesce sordomu-to, come un animale acquatico che è stato appena pescato e portato su una barcaa decedere annegato nell’aria. Sgranai gli occhi addosso alla boa dell’appunta-mento. Non riuscii a scorgere nessuna testa. Forse lo Zio e Papà erano già anda-ti via? Forse lo squalo mi aveva graziato perché ero troppo secco preferendo imiei due familiari? Li aveva già sbranati? Ebbi paura per loro. Mi angosciaicome non mai pensando alle loro vite in pericolo e, finalmente, mi misi a ber-ciare come un forsennato in direzione di quella che doveva essere la boa del-l’appuntamento. Fu, insieme, una liberazione dall’incubo che avevo appena vis-suto ed uno scoppio di preoccupazione per la realtà che poteva avverarsi:

“C’È UNO SQUALOOO! ZIO! PAPÀ! C’È UNO SQUALOOO! SCAPPA-TE A RIVAAA!!!”

“Che cazzo ti urli! Figlio! Ci beccano!” Sentii la voce dello Zio provenire datutt’altra direzione rispetto a quella che, secondo me, doveva essere il galleg-giante dell’appuntamento…

Ero stordito. Guardai meglio e scorsi le loro teste ad una certa distanza.Come un indiavolato mi rimisi ad urlare non curante del fatto che qualcuno,oltre la Mamma, a riva mi potesse ascoltare:

“C’È UNO SQUALOOO! ZIO! PAPÀ! C’È UNO SQUALOOOO! LOVOLETE CAPIRE?! VE LO GIUROOO!!!”

Ero ancora troppo terrorizzato per non riuscire a pensare che loro non potes-sero credere a quello che gli stavo gridando. Ero veramente troppo atterrito pernon vederla dal loro punto di vista: il solito comportamento da elementi dellaFamiglia, Figlio sta cercando di spaventare Papà, Mamma e Zio per aggiunge-re divertimento al divertimento e rischio di essere colti in flagrante al rischio giàesistente per conto suo…

“Ma vaffanculo! Figlio, ti vuoi sbrigare? E ammutati! Maledizione!” Questavolta era Papà a redarguirmi.

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“Maledetti coglioni! Non mi credono!” Pensai disperato.C’erano due grossi remi gettati davanti ai miei piedi. Ne presi uno ed iniziai

a batterlo contro il bordo dell’imbarcazione facendo un casino boia ed urlandoa squarciagola:

“C’È UNO SQUALOOOO VICINO A VOI!!! NON STO SCHERZAN-DOOO!!! CREDETEMIIII!!!”

A queste mie tenaci perseveranze Papà e lo Zio si zittirono, o meglio pensoche si congelarono letteralmente vedendomi picchiare come un pazzo quelremo sulla barca ancora vincolata al fondale e, dopo un parziale secondo diindecisione, li intravidi partire a razzo a stile libero verso la torcia elettrica cheMamma aveva appena acceso a riva, illuminandoli. La schiuma che stavano sol-levando era ben riconoscibile nel fascio di luce e si vedeva che avevano final-mente preso l’argomento sul serio. Andavano davvero a mille. Non li avevo maivisti nuotare così velocemente. Incredibile quali prestazioni sportive può fartiraggiungere la fifa… Dopo la sensazione di sollievo per il fatto che, finalmen-te, avevano creduto alle mie parole mi venne in mente che lo squalo, infastidi-to da tutto quel baccano delle loro bracciate in acqua, si potesse essere gettatoal loro inseguimento. Allora ripresi il remo ed iniziai a batterlo sulla superficiedell’acqua con tutta la forza che avevo. Cin, boom, tre, quattro volte. Fino a chenon caddi all’indietro nella barca bussando con le natiche sul fondo, con laschiena spezzata in due per lo sforzo, stremato e tremolante. Non seppi mai sequel mio comportamento era servito realmente a qualcosa, fatto sta che quandomi rialzai, una manciata di istanti dopo, intravidi le sagome lontane di Zio ePapà in piedi sulla battigia accanto a Mamma che aveva appena rispento il lume.Erano vivi. Meno male. A questo punto fui preso da un senso di angoscia cosìforte che, piuttosto, avrei preferito essere stato mangiato vivo da quel maledet-to squalaccio del malaugurio. Mi crollò il mondo addosso perché mi ero mise-ramente reso conto di molteplici e svariate congiunture negative che, tutte insie-me, almeno sette, avevano appena decretato il fallimento della mia missione:

1 - avevo un pesce di ragguardevoli dimensioni, piuttosto primitivo e pocoraccomandabile, che ronzava attorno alla barca;

2 - alle mie spalle c’erano una trentina di imbarcazioni e motoscafi, per unvalore totale di uno o più miliardi di lire, che stavano andando rapidamente alladeriva per colpa anche mia, anzi, in caso mi avessero colto in flagrante lì, percolpa solo e soltanto del sottoscritto;

3 - stava quasi albeggiando e dovevo scappare da quella situazione primapossibile, anche il tempo era a mio svantaggio;

4 - i miei complici erano sulla spiaggia, ma non potevo comunicare con loro

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a meno che sulla barca non ci fosse stato un megafono, ed anche se questo cifosse realmente stato non avrei, comunque, potuto mettermi ad urlare;

5 - la tronchese era a una decina di metri di profondità sotto di me e metter-mi a lottare con quel nodo mi avrebbe procurato visioni cerebrali troppo spa-ventose per poter riuscire nell’impresa di scioglierlo, intendo visioni del tipo‘scena di squalo che afferra al volo un giovane uomo per le mani con i suoiaguzzi e grossi denti staccandogli le braccia con un solo morso’;

6 - avevo un freddo bestia, ora quel venticello teso si faceva sentire parec-chio sulla mia pelle d’oca, battevo i denti e avvertivo uno spasmo di dolore allostomaco, forse mi stavo cacando addosso…(?);

7 - che figura di merda!, se mi avessero trovato lì non mi sarei neanche potu-to coprire l’uccello, visto che il mio costume mi copriva solo il sedere… Avreifatto la figura del maniaco sessuale che la notte va in giro a masturbarsi sullebarche altrui.

Unica piccola consolazione: per fortuna, anche se per pochi giorni ancora,ero pur sempre un minorenne e col cazzo che sarei finito in galera! Sì, mi sareipreso tante di quelle mazzate da mio padre da poter diventare interamente, dallatesta alle estremità, color viola livido, ma comunque in carcere non ci sarei fini-to ugualmente.

Attesi altri cinque minuti pensando e ripensando il da farsi e, soprattutto,rammaricandomi per non avere incluso nel progetto della missione l’imprevisto‘possibile presenza di giganteschi squali assassini’, per non essermi portato die-tro una moderna tuta metallica antisqualo o una fiocina per la caccia alle bale-ne bianche o un estintore ed un fucile per poter fargli saltare in aria la testa comesuccede in quella grande cazzata di film che è Lo squalo di Stephen Spielberg.

“Ma vaffanculo!” Maledii registi e produttori, attori e truccatori, controfigu-re e comparse, montatori e fotografi, creatori di effetti speciali e ideatori dimostri cinematografici, Hollywood e tutti gli statunitensi di questo mondo.

“Ma mi prendete per il culo? Ma allora c’ha ragione lo Zio che sulla Lunanon ci siete mai stati! Per voi anche la realtà è cinema! Ma altro che film!Maledizione, Figlio! Questo è uno squalo vero! Esistono davvero! Ed io chepensavo si trovassero solo nelle pellicole americane! Maledetti! Sei fottuto!Figlio, sei fottuto!!!”

Vidi Zio, Papà e Mamma allontanarsi, probabilmente avevano perso le spe-ranze, preferendo andar via augurandosi che io non spifferassi il fatto che c’e-rano anche loro. Effettivamente, non avevano avuto tutti i torti a lasciarmi lì. Seproprio la missione era stata un fallimento meglio un solo familiare nei guaipiuttosto che quattro, senza contare il fatto che, tra l’altro, loro erano già mag-

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giorenni e sarebbero stati problemi ben più seri… L’improvvisa sensazione ditrovarmi derelitto e abbandonato mi diede, comunque, un bello scossone.Cazzo, ora ero solo, solissimo in mezzo all’abisso blu. Non potevo arrendermicosì. Non dovevo. Che razza di figlio di serie B sarei stato se fossi stato coltosul fatto? Mi sollevai di scatto in piedi. Vidi che il mio pene aveva ripreso le giu-ste dimensioni.

“Meno male!” Pensai quasi contento. “Sai se fosse rimasto a vita piccolocome prima?”

Agguantai la corda che legava la barca alla boa e portai il nodo il più vicinopossibile a me. Effettivamente, per aggeggiarci non sporgevo troppo dall’im-barcazione e, in fondo, a nessuno squalo di questo mondo sarebbe mai passatoper la mente di venire a afferrarmi le mani con un morso al volo, soprattuttoconsiderando il fatto che quel pescione avrebbe potuto farlo tranquillamente,direttamente in acqua, almeno venti minuti prima…

Quando mi trovavo solo, purtroppo, sapevo che non potevo fidarmi al centoper cento delle sensazioni che provavo, perciò passavo da assurdi ragionamen-ti a raziocini più sensati nel giro di pochi minuti. Il mio psicologo prima, ed ilmio psichiatra dopo, avevano detto ai miei genitori che il livello di autosugge-stione che riuscivo a raggiungere arrivava addirittura a farmi avere delle per-cezioni illusorie visive, olfattive ed uditive che a me sembravano vere, però ilproblema fondamentale era che mi era successo anche di pensare di avere delleallucinazioni e invece queste poi si erano dimostrate vere per davvero, comeuna volta che immaginai di vedere un dobermann aggirarsi tra le aiuole dellacasa al mare della famiglia Torrisi e invece il cagnaccio c’era realmente…Quasi ci rimisi il braccio destro quando tentai, noncurante, di aprire il cancel-letto d’ingresso del giardino.

Ci impiegai un po’ a sciogliere quel deprecabile nodo, ma decisamente piùperché mi aveva buttato in paranoia poco prima che non per la ragione che ineffetti fosse difficile da districare. Agguantai i remi e li inserii nelle appositescanalature impostando da subito una vogata a ritmo indiavolato in direzionedella spiaggia che si allungava alle mie spalle. Andavo tutto storto. Nonostanteil mare non fosse agitato era incredibilmente difficile spostarsi in traiettoria ret-tilinea e, ad un certo punto, mi resi conto di non riuscire a muovermi in avantinemmeno di mezzo metro. Ero già troppo stanco e la barca era eccezionalmen-te pesante. Mi fermai un attimo per riprendere fiato ed ebbi la netta sensazionedi stare tornando indietro, spinto dalla corrente, verso il largo.

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“Porca troia! Non ce la farò mai!” Pensai e ripensai abbattuto quasi piagnu-colando.

Ero disperato. Non avevo scampo. Ora la situazione era peggio di prima!Accidenti, il pirata invisibile era salito anche sul mio maestoso veliero nono-stante la mia presenza a bordo? Mi guardai attorno e non potei far altro che ren-dermi conto che ero passato dalla padella alla brace. Ora o arrivavo a riva ovenivo portato al largo inesorabilmente facendo la stessa fine delle barche. Chila fa, l’aspetti…

“Maledetta corda di merda! Maledetto nodo bastardo!!! Era meglio se non tiscioglievo! Perlomeno restavo ancorato in un punto!!!”

Non avevo scelta. Dovevo tuffarmi e nuotare fino a riva. Non c’era nes-sun’altra alternativa. Neanche una. Nessuna. Iniziai ad autoconvincermi chequella era stata una delle mie solite autosuggestioni o, se proprio era tutto vero,quello doveva essere uno squalo buono, uno squalo che non avrebbe fatto delmale neanche ad una cozza, ma sì, uno di quei pescecani che non attaccano gliuomini, lo sanno tutti che esistono anche delle specie che evitano di sgranoc-chiare gli umani! D’altronde di avvistamenti in passato ce n’erano stati, sì, madi gente divorata viva da un qualunque animale acquatico nel Mar Jonio, perlo-meno, non ne avevo mai sentito parlare. E sennò perché non lo aveva fattoprima? Perché aveva preferito scansarmi discretamente evitando addirittura diincrociare il mio sguardo atterrito? Ma sì! Non mi avrebbe fatto assolutamenteniente. Niente di niente. Neanche un capello mi avrebbe torto! Guardai tuttointorno e dello squalo non c’era traccia alcuna, o meglio, scia alcuna. Guardaie riguardai e non vidi altro che buio, buio profondo come l’esofago di un capo-doglio. Forse mi stavo autoconvincendo che il pescecane non esisteva e per que-sto motivo non lo vedevo più? Maledetti dubbi!

“Certo che la mia situazione psicologica sta peggiorando sempre più!”Riflettei mentre il panico da solitudine cresceva come la distanza tra me e laspiaggia. “Accidenti a me! Maledetta barchetta di merda! E pensare che ti avreiaddirittura graziata! Daniela, ma vaffanculo, fai la fine delle altre!” Decisi e poi,l’attimo dopo, in un impeto di follia, urlai definitivamente a squarciagola “MIS-SIONE COMPIUTAAA!!!”

Con un tuffo alla Greg Luganis dei tempi migliori, prima di diventare siero-positivo e vincere una cascata di medaglie d’oro alle Olimpiadi di Los Angelesdell’84, mi immersi in acqua ed iniziai a battere braccia e gambe a più nonposso con uno stile libero un po’ a modo mio, ma comunque efficace. Respiravoe bevevo a bocca spalancata cercando di immettere più iodio e ossigeno chepotevo negli alveoli polmonari. Mi sentii terrorizzato come non mi era mai suc-

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cesso prima in nessuna delle nostre precedenti dannate missioni, ma io nuota-vo, nuotavo, nuotavo e continuavo a nuotare nonostante la sensazione che quelterrore stesse facendo di tutto per bloccare i miei muscoli ostacolando la fugadalla morte.

“MI STA INSEGUENDO! ODDIO! ODDIO! ORA MI AZZANNA!!!AHHHH! SONO LA SUA PREDA! ORA MI AZZANNA AI PIEDI! AHHHH!SARÀ A UN METRO DA ME! ODDIO! ODDIO!! LO SENTO!!! SARÀ AVENTI CENTIMETRI! ODDIO! ODDIO!! ECCOLO!!! MI HA RAGGIUN-TO! AHHHH!” Considerai immaginando la sua malvagia bocca dai mille dentisbilenchi spalancata alle mie spalle.

L’attimo dopo iniziò il mio atroce calvario. Avvertii nitidamente le faucidello squalo staccarmi di netto i piedi, giusto per assaggiarmi, dalle caviglie ingiù. ‘CRACK’: un rumore ovattato dall’acqua, ma ben definito. Che sofferen-za, il dolore fu lancinante, ma fortunatamente io nuotavo, nuotavo, nuotavo econtinuavo a nuotare e non avevo nessuna intenzione di smettere. Poi, pocodopo, percepii vagamente una pazzesca fitta all’altezza dell’inguine, o poco piùgiù, ed ebbi la sensazione di non battere più le gambe perché, di fatto, non face-vano più parte del mio corpo.

“PORCA PUTTANA! IL SAPORE DEI MIEI PIEDI PUZZOLENTI GLI ÈPIACIUTO ED ORA MI INGURGITA TUTTO! MA PERCHÉ NON ME LISONO LAVATI STAMATTINA? MALEDETTE CONVERSE ALL STAR!QUANTO CAZZO TI FANNO APPESTARE I PIEDI! EMANANO TANFOANCHE SOTT’ACQUA!”

Considerai a questo punto di essere spacciato, anche perché senza gambeavanzavo molto molto lentamente, ma fortunatamente io nuotavo, nuotavo, nuo-tavo e continuavo a nuotare con le sole braccia a più non posso e non avevo nes-suna intenzione di smettere. Dopo poco ancora, captai limpidamente la sensa-zione di un possente morso che mi divise in due l’addome dilaniandomi diver-se costole, buona parte degli organi vitali interni e la spina dorsale, lo spasmoaumentò a dismisura, ma fortunatamente io nuotavo, nuotavo, nuotavo e conti-nuavo a nuotare con i soli arti superiori e non avevo nessuna intenzione di smet-tere. Accidenti a lui! Non ce l’avrebbe fatta mai e poi mai quel maledettopescione cresciuto troppo, a far fallire la missione! Infine, con un’ultima azzan-nata mi si pappò anche il resto del torace comprese tutte e due le braccialasciandomi solo e soltanto la testa. A questo punto non avevo altra scelta. Avreidovuto continuare a nuotare con la lingua e le orecchie, ma io non mi persi d’a-nimo neanche questa volta e così feci sbattendo a ritmo indiavolato anche le pal-pebre, fino a che, ancora in preda al terrore da squalo che produceva simili ter-

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ribili visioni nel cinema horror che era diventato il mio cervello impaurito, nonmi ritrovai a battere con le mani sulla sabbia pervasa d’acqua dalle onde! Eroarrivato direttamente sul bagnasciuga nuotando e avrei continuato a sguazzarea più non posso anche sulla spiaggia se non fosse che, finalmente e fortunata-mente, capii…

“CAZZO, SONO SULLA TERRAFERMA? NON CI POSSO CREDERE!SONO VIVO! È FATTA! È FATTAAA!!!”

Così, steso sulla rena a pancia a terra, immaginai la scena dall’alto e la rivis-si in mente tutta a cartoni animati tipo quelli di Hanna & Barbera con tanto disigla musicale iniziale ad alto volume. Non mi interrogai più di tanto sul perchédi questa bizzarra visione e allucinazione acustica, pensai solo che quelle trom-bette scomposte suonate nelle mie orecchie ancora ricolme di acqua salata sta-vano cercando di darmi un segnale:

“Sveglia Figlio, sveglia! Alzati e fila via!”Mi drizzai in piedi, ma fui costretto dal fiatone a piegarmi in due per pren-

dere aria. Il cuore andava a diecimila all’ora, stava per abbattere il muro delsuono. Inarcandomi abbassai la testa e mi resi conto di avere definitivamenteperso, lungo l’infinito tragitto a nuoto, ciò che restava di ancora consistente delmio fodero-costume. Il mio pene, non che interessi, lo so, ma a diciassette anniè una parte del corpo che inizia ad assumere grande importanza e, per questo,non riesco proprio a non parlarne, era tornato a dimensioni microscopiche, nonfosse stato per i peli pubici sarebbe sembrato il pisellino di un bambino di dueanni. Incredibile, ma vero, sperai che intorno non ci fosse nessuno più per que-sto motivo che non per il fatto che potevo essere incolpato dell’irrilevante avve-nimento che una trentina di imbarcazioni erano sparite dal mare antistante laspiaggetta di Caminia…

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