SENTENZE CON COMMENTO Thomas Tassani · 2018-12-20 · GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE Fascicolo 1 -...

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE Fascicolo 1 - Annata 2012 - Vol. n.LXXXV diretta da Bruno Assumma, Claudio Berliri, Adriano Di Pietro, Marco Miccinesi, Ivan Vacca SENTENZE CON COMMENTO Thomas Tassani Trasferimento di sede sociali in altro stato UE ed “exit tax”. nota a Corte UE, 29 novembre 2011, C- 371/10. 1 Gianluca Selicato Rivalutazione monetaria, interessi compensativi e differenze stipendiali. nota a Cass. sez. trib., 22 settembre 2011, n.19325. 9 NOTE REDAZIONALI Consultabili su www.giurisprudenzaimposte.it sezione “Ricerca avanzata”

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE

Fascicolo 1 - Annata 2012 - Vol. n.LXXXV diretta da

Bruno Assumma, Claudio Berliri, Adriano Di Pietro, Marco Miccinesi, Ivan Vacca

SENTENZE CON COMMENTO

Thomas Tassani Trasferimento di sede sociali in altro stato UE ed “exit tax”. nota a Corte UE, 29 novembre 2011, C- 371/10. 1 Gianluca Selicato Rivalutazione monetaria, interessi compensativi e differenze stipendiali. nota a Cass. sez. trib., 22 settembre 2011, n.19325. 9

NOTE REDAZIONALI

Consultabili su www.giurisprudenzaimposte.it sezione “Ricerca avanzata”

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T. Tassani, nota a Cass. sez. trib., 29 novembre 2011, C-371/10

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SENTENZE CON COMMENTO

Thomas Tassani

Trasferimento di sede sociali in altro stato UE ed “exit tax” Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione (A. Tizzano, Pres.; K. Lenaerts, Rel.; J.

Kokott, Avv. Gen.), 29 novembre 2011, C- 371/10, National Grid Indus BV

- Una società costituita secondo il diritto di uno Stato membro, che trasferisce in un altro

Stato membro la propria sede amministrativa effettiva, senza che tale trasferimento di sede

incida sul suo status di società del primo Stato membro, può invocare l’art.49 TFUE al

fine di mettere in discussione la legittimità di un exit tax ad essa applicata dal primo Stato

membro in occasione di tale trasferimento di sede.

- L’art.49 TFUE osta ad una normativa di uno Stato membro che impone ad una società

che trasferisce in un altro Stato membro la propria sede amministrativa effettiva la

riscossione immediata, al momento stesso di tale trasferimento, dell’imposta sulle

plusvalenze latenti relative agli elementi patrimoniali di tale società, mente non osta ad

una normativa ai sensi della quale l’importo del prelievo sulle plusvalenze latenti è fissato

in via definitiva nel momento in cui la società, a causa del trasferimento della propria sede

amministrativa effettiva in un altro Stato membro, cessa di percepire utili tassabile nel

primo Stato membro.

Con la sentenza che si annota, la Corte di Giustizia affronta la questione della compatibilità

comunitaria delle exit tax nazionali collegate al trasferimento di residenza fiscale delle

società.

La pronuncia costituisce l’occasione per chiarire, da una parte, entro quali limiti il

trasferimento di sede transfrontaliero ricada sotto il regime della libertà di stabilimento,

anche alla luce della giurisprudenza passata della Corte (dalla sentenza Daily Mail fino alla

sentenza Cartesio) e, dall’altra, per definire se ed in che misura i principi enunciati nelle

sentenze de Lasteyrie du Saillant e N, siano estendibili anche alle ipotesi di soggetti

imprenditori (e di società in particolare).

La controversia nazionale riguardava una società a responsabilità limitata di diritto

olandese (la National Grid Indus) che, costituita secondo il diritto olandese, trasferiva nel

2000 la propria sede amministrativa nel Regno Unito. Tale spostamento non aveva di per

sé inciso sullo status di società di diritto olandese, la normativa nazionale accogliendo la

teoria della costituzione, ma, ai sensi della convenzione stipulata tra i due Paesi, la società

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doveva essere considerata fiscalmente residente nel Regno Unito. Non disponendo la

società di una stabile organizzazione in Olanda secondo la convenzione, il diritto alla

tassazione dei proventi societari spettava, dopo il trasferimento, esclusivamente al Regno

Unito.

Tale modifica della residenza fiscale determinava, ai sensi della disciplina fiscale olandese,

la liquidazione finale delle plusvalenze latenti esistenti al momento del trasferimento della

sede amministrativa, applicandosi l’art. 16 della legge sull’imposta sul reddito del 1964, a

mente del quale “i profitti societari non ancora rilevati (…) vengono imputati all’utile

dell’anno di calendario in cui colui in nome del quale viene esercitata l’impresa cessa di

percepire da quest’ultima un utile imponibile nei Paesi Bassi”. La società ha contestato tale

imposizione, confermata invece nel primo grado di giudizio, ed il giudice di appello

(Gerechtshof Amsterdam) ha optato per la sospensione del giudizio, sottoponendo alla

Corte di Giustizia una serie di questioni pregiudiziali.

Con la prima questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiedeva se “nel caso in cui uno

Stato membro imponga ad una società costituita secondo il diritto di tale Stato membro,

che da esso trasferisce la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro,

un’imposta di liquidazione finale per il trasferimento della sede, detta società, allo stato

attuale del diritto comunitario, possa invocare l’art. 43 CE (ora art. 49 TFUE) nei confronti

di questo Stato membro”.

E’ da notare che secondo i governi intervenuti nel procedimento (Olanda, Italia, Germania,

Portogallo, Finlandia, Svezia e Regno Unito) una società che intenda trasferire la propria

sede amministrativa in un altro Stato, senza che ciò comporti una modifica statutaria e

quindi conservando la propria qualità di società soggetta al diritto dello Stato in cui è stata

costituita, non potrebbe invocare la libertà di stabilimento nei confronti di quest’ultimo,

neppure con riferimento ai provvedimenti di natura fiscale connessi al trasferimento di

sede.

La Corte di Giustizia rileva preliminarmente come, secondo la propria giurisprudenza, gli

Stati membri dispongono indubbiamente della facoltà di definire il criterio di collegamento

richiesto ad una società affinché essa possa ritenersi costituita ai sensi del suo diritto

nazionale, così come sono liberi nel definire i criteri in base ai quali tale società possa

continuare a mantenere detto status (sent. del 27/09/1988, C-81/87, Daily Mail; sent. del

5/11/2002, C-208/00, Uberseering; sent. del 16/12/2008, C.210/06, Cartesio)

Le società, infatti, sono “enti creati da un ordinamento giuridico nazionale che esistono

solo in forza delle diverse legislazioni nazionali” (sent. Daily Mail, cit.), il che equivale a

dire che il diritto comunitario lascia agli ordinamenti interni il compito di dare contenuto al

concetto di “nazionalità/residenza”, vietando solo i trattamenti lesivi del diritto

comunitario che su tale qualificazione normativa si basino.

In questa prospettiva, la Corte nota però come la normativa in esame non riguardi la

determinazione delle condizioni richieste da uno Stato membro ad una società affinché

possa mantenere il proprio status di società di tale Stato membro, bensì le conseguenze

fiscali ricollegate a tale trasferimento. Come notato dall’Avv. Generale Kokott nelle

conclusioni presentate l’8/09/11 nella causa in oggetto, “il trasferimento di sede

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transfrontaliero, come tale, non è un’operazione che di per sé ricade al di fuori dell’ambito

di applicazione della libertà di stabilimento. Piuttosto, secondo il diritto dell’Unione, lo

Stato di uscita è in linea di principio obbligato a consentire l’emigrazione delle società

costituite secondo la sua legislazione”, disponendo della sola “discrezionalità di scegliere

se ammettere anche la conservazione della qualità di società di diritto nazionale”.

Sulla base di queste considerazioni, dunque, la Corte di Giustizia può giungere

agevolmente ad affermare la piena applicabilità della principio della libertà di stabilimento

nel caso in esame, dovendosi valutare a questo fine la legittimità di una imposta applicata

in occasione del trasferimento della sede amministrativa da uno Stato all’altro, anche

quando tale trasferimento non incida sullo status di società dello Stato di provenienza.

Con la seconda questione pregiudiziale, il giudice olandese chiedeva, in ipotesi di

soluzione affermativa alla prima questione, “se un’imposta di liquidazione finale, come

quella in esame, che include nell’imposizione le plusvalenze degli elementi patrimoniali

della società trasferiti dallo Stato membro di provenienza a quello ospitante, come valutati

al momento del trasferimento della sede, senza possibilità di differimento né di prendere in

considerazione perdite successive, sia contraria all’art. 49 TFUE, nel senso che siffatta

imposta di liquidazione finale non può essere giustificata dalla necessità di ripartizione dei

poteri impositivi tra gli Stati membri”.

Per determinare se la normativa in oggetto sia contraria all’art. 49 TFUE, la Corte di

Giustizia ricorda, in primo luogo, quale sia la portata della libertà di stabilimento, principio

che mira ad assicurare il beneficio della disciplina nazionale dello Stato membro ospitante,

ostando però allo stesso tempo, a che lo Stato membro di provenienza ostacoli lo

stabilimento in un altro Stato di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la

propria legislazione (sent. del 16/7/1988, C-264/96, ICI; sent. del 6/12/2007, C-298/05,

Columbus Container Services; sent. del 15/4/2010, C-96/08, CIBA).

In astratto, la violazione della libertà di stabilimento si potrebbe configurare sia con una

discriminazione diretta o indiretta fondata sulla nazionalità/residenza, sia con una

“restrizione” alla libertà di stabilimento ed è da notare che, secondo la costante

giurisprudenza della Corte, sono considerate restrizioni alla libertà di stabilimento tutte le

misure che ne vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio (oltre alle sentenze appena

citate, si veda sent. del 5/10/2004, C-442/02, Caixa Bank France; sul tema, ROSSI-

MACCANICO, Principi comunitari di fiscalità diretta delle imprese. Il principio di non

discriminazione, in Fiscalità internazionale, 2008, 226 ss. Sul tema, NUZZO, Libertà di

stabilimento e perdite fiscali: il caso Imperial Chemical Industries (ICI) plc, in Rass.trib.,

1999, 1814 ss).

Occorre anche sottolineare come una restrizione alle libertà fondamentali non possa

argomentarsi semplicemente in base ad un generico effetto dissuasivo della misura

nazionale, visto che, nonostante diverse tesi dottrinali (sul tema, MELIS, Il trasferimento

della residenza fiscale nella imposizione sui redditi, Roma , 2008, 613 ss.; TASSANI,

Trasferimento di residenza ed exit tax nel diritto tributario comunitario: l'esperienza

italiana, in Studi trib. europei, vol. 1; p. 25), la giurisprudenza della Corte sembra legare

fortemente il concetto di restrizione a quello di discriminazione, trattandosi di perseguire i

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casi di “discriminazioni contro i cittadini comunitari che vogliono far valere i loro diritti

connessi alla libertà di circolazione” (Avv. Generale Maduro, conclusioni presentate nella

causa Marks & Spencer, C-446/93, punto 28).

Nelle precedenti sentenze della Corte in tema di exit tax (sent. del 11/3/2004, C-9/02,

Hughes de Lasteyrie du Saillant e sent. del 7/9/2006, C-470/04, N.) emergeva infatti che il

punto fondamentale, per determinare la incompatibilità comunitaria delle discipline

nazionali, era costituito dall’effetto dissuasivo rispetto alla libertà di stabilimento,

derivante dalla disparità di trattamento che la exit tax determinava tra chi continuava a

risiedere nello Stato d’origine e chi si trasferiva al di fuori di tale Stato.

In particolare, la discriminazione derivava dalla tassazione sui plusvalori latenti in luogo

della tassazione al momento del realizzo (ossia, della cessione a titolo oneroso)

normalmente prevista per le persone fisiche.

I precedenti in materia di exit tax riguardavano però persone fisiche o, meglio, fattispecie

di tassazione di plusvalori su partecipazioni societarie detenute da persone fisiche al

momento del loro trasferimento di residenza (sul tema, anche per ulteriori riferimenti

bibliografici, DE PIETRO, Compatibilità comunitaria di exit tax su partecipazioni

rilevanti, in Rass.trib., 2006, 1377 ss.)

Nonostante la Commissione Europea abbia ritenuto estensibili i principi affermati dalla

Corte di Giustizia in simili sentenze anche alle ipotesi di trasferimento di residenza di

società (e, in generale, soggetti imprenditori, nella Comunicazione n. 825 del 19/12/2006),

la Corte non aveva fino ad ora avuto occasione di esprimersi sul punto.

Nella sentenza in commento, la Corte ritiene sussistente una restrizione della libertà di

stabilimento con riferimento alla normativa nazionale e, dunque, alla misura fiscale di

tassazione finale dei plusvalori latenti in capo alla società che trasferisce la propria

residenza fiscale.

Ancora una volta, tuttavia, tale restrizione è motivata valutando l’effetto discriminatorio, la

disparità di trattamento tra la società che trasferisce la propria sede amministrativa

all’interno del territorio nazionale e la società che trasferisca la sede amministrativa

all’estero. Mentre la prima non subirebbe alcuna tassazione in occasione della scelta

societaria, essendo questa collegata alla effettiva realizzazione dei plusvalori, in capo alla

seconda si determinerebbe invece un effetto di imposizione in grado di “scoraggiare una

società di diritto olandese dal trasferire la propria residenza in un altro Stato membro”.

Al tempo stesso, il trattamento discriminatorio non sarebbe, a giudizio della Corte,

superabile con una “oggettiva differenza di situazioni”.

Se, dunque, l’elemento dissuasivo connesso alla disparità di trattamento della exit tax è in

grado di essere rilevato anche con riferimento alle ipotesi di trasferimento della residenza

di soggetti imprenditori, configurando quindi una restrizione alla libertà di stabilimento, la

Corte enuclea una soluzione sicuramente importante ed articolata per quanto attiene il

profilo della “giustificazione” di tale restrizione.

Già la dottrina aveva rilevato come, in riferimento alle exit tax per i soggetti imprenditori,

la restrizione alla libertà di stabilimento dovesse ritenersi giustificata in base alle ragioni di

“coerenza del sistema fiscale” e di “motivi imperativi di interesse generale”, qualora la

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tassazione derivasse da una “esigenza strutturale, di sistema (LUPI, Coerenza del sistema

fiscale tra dividendi esteri ed exit tax, in Dialoghi dir.trib., 2004, 1366; MARINI,

Trasferimento di sede all’estero e rilevanza della “stabile organizzazione” ai fini della

titolarità di reddito di impresa, in Dialoghi dir.trib., 2005, 95) e non, invece, da finalità di

tipo antielusivo oppure antievasivo.

Allo stesso tempo, era stato sottolineato come la exit tax potesse conseguire, in questi casi,

l’effetto di salvaguardare la ripartizione delle competenze nazionali, sulla base del criterio

della territorialità; elemento particolarmente valorizzato nella giurisprudenza comunitaria

(CORTE GIUST. CE, sent. del 18/7/2007, C-231/05, Oy AA; Corte di Giustizia CE, sent.

del 7/9/2006, C-470/04, N. Sul tema, MELIS, Perdite intracomunitarie, potestà impositiva

e principio di territorialità: unicuique suum?, in Rass.trib., II, 2008) e che, con riferimento

ai redditi di impresa, condurrebbe a ritenere equilibrata la ripartizione delle competenze

impositive che si realizza attraverso la tassazione al momento della fuoriuscita dei beni dal

regime fiscale nazionale (così TASSANI, op.cit.).

Nella sentenza che si annota, la Corte di Giustizia affronta il profilo della giustificazione

della restrizione, dal punto di vista della configurabilità di motivi imperativi di interesse

nazionale e della proporzionalità della misura nel conseguimento di tale scopo,

coerentemente con la propria giurisprudenza sul tema (sent. del 13/12/2005, C-446/03,

Marks & Spencer; sent. del 12/9/2006, C-196/04, Cadbury Schweppes; sent. del 13/3/2007,

C-524/04, Test Claimants; sent. del 18/6/2009, C-303/07, Aberdeen Property Finivest

Alpha).

Il motivo imperativo di interesse nazionale sarebbe rappresentato dal mantenimento della

ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri che è stato riconosciuto quale

obiettivo legittimo da parte della stessa Corte, anche in considerazione del fatto che, in

mancanza di disposizioni di unificazione o di armonizzazione, gli Stati membri rimangono

competenti a definire, in via convenzionale o unilaterale, i criteri di ripartizione di tale

potere, anche al fine di eliminare le doppie imposizioni (sent. Marks & Spencer, cit.; sent.

Oy AA, cit.; sent. del 19/11/2009, C-540/07, Commissione/Italia).

In questo quadro, a giudizio della Corte, la normativa olandese “è idonea ad assicurare il

mantenimento della ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri interessati”,

considerando che l’imposizione al momento del trasferimento della sede amministrativa

“mira ad assoggettare all’imposta sugli utili dello Stato membro di provenienza le

plusvalenze non realizzate, originate nell’ambito della competenza fiscale di tale Stato

membro prima di detto trasferimento”.

Tanto da giungere alla affermazione tranchant per cui “uno Stato membro ha il diritto di

tassare il valore economico generato da una plusvalenza latente sul proprio territorio anche

qualora essa non vi sia ancora stata effettivamente realizzata”.

Non solo, ma risulta legittimo, a giudizio della Corte, che la determinazione definitiva

dell’importo del prelievo avvenga considerando il momento in cui la società trasferisce la

propria residenza, senza valorizzare eventi successivi, come possibili rilevazioni di

minusvalenze.

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Da questo punto di vista, la misura normativa nazionale risulta in linea con il principio di

proporzionalità, perché strettamente connesso all’obiettivo della ripartizione del potere

impositivo. In particolare, solo la netta delimitazione di tale potere impositivo (fattispecie

realizzate fino al momento del trasferimento e fattispecie realizzate dal momento del

trasferimento in avanti) è in grado, in termini generali, di evitare fenomeni di doppia

imposizione dei plusvalori, così come di doppia deduzione dei minusvalori.

Questo aspetto risulta estremamente importante perché, a giudizio della Corte, la misura

sarebbe legittima anche qualora lo Stato ospitante non tenesse conto, in base alla propria

legislazione, delle minusvalenze maturate nel periodo successivo al trasferimento di

residenza.

Il principio della libertà di stabilimento non impone, infatti, allo Stato di provenienza di

mutare la conseguenze impositive in base alle misure adottate dallo Stato di destinazione

(e, si dovrebbe dire, viceversa). Infatti, in assenza di una piena armonizzazione fiscale nel

settore dell’imposizione diretta, la simmetria fiscale tra l’ordinamento di provenienza e

quello di destinazione non può essere considerata come una esigenza derivante dalle libertà

fondamentali del Trattato.

Ricorda la Corte che il “Trattato non garantisce ad una società rientrante nella disciplina

dell’art. 53 TFUE che il trasferimento in un altro Stato membro della propria sede

amministrativa effettiva sia neutro sotto il profilo fiscale”. Tale trasferimento può essere

più o meno sfavorevole sul piano fiscale ma la “libertà di stabilimento non può essere

intesa nel senso che uno Stato membro sia obbligato a determinare le proprie norme

tributarie in funzione di quelle di un altro Stato membro al fine di garantire, in ogni

situazione, una tassazione che elimini qualsivoglia disparità derivante dalle normative

tributarie nazionali” (sul punto, anche sent. del 27/2/2008, C-293/06, Deutsche Shell).

La valutazione del rapporto tra lo scopo legittimo (la ripartizione del potere impositivo) e

la misura nazionale adottata, risulta tuttavia priva del carattere di proporzionalità, nella

interpretazione della Corte, per quel che riguarda il profilo della riscossione immediata

della imposta nel momento del trasferimento della residenza.

La Corte è molto chiara nel ritenere non accoglibile le argomentazioni proposte dai

governi, secondo cui il pagamento differito dell’imposta genererebbe un onere eccessivo

per le Autorità fiscali degli Stati membri e che, in questo modo, si eviterebbero rischi di

evasione fiscale.

Il giudice comunitario ritiene, da una parte, sufficienti i meccanismi di assistenza reciproca

tra gli Stati nazionali e, dall’altra, afferma che il mero trasferimento di residenza non può

giustificare una presunzione generale di evasione fiscale, né una misura che pregiudichi

l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato.

Lo svantaggio, in termini finanziari, derivanti dalla immediata riscossione della imposta

risulta dunque connotare in termini di non proporzionalità la misura nazionale anche se la

Corte pare suggerire al legislatore nazionale una possibile via di uscita per garantire la

compatibilità comunitaria della misura normativa.

A giudizio della Commissione, la riscossione successiva della imposta potrebbe essere

accompagnato da una dichiarazione annuale sottoscritta dalla società, che indichi il

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possesso degli attivi trasferiti e da una dichiarazione effettuata al momento dell’effettiva

cessione dell’attivo; in questo modo lo Stato di provenienza avrebbe la possibilità di

controllare e di riscuotere l’imposta determinata al momento del trasferimento.

Secondo la Corte e l’Avvocato generale, l’onere amministrativo collegato a simili

dichiarazioni potrebbe presentarsi come particolarmente gravoso, soprattutto nei casi di

situazioni patrimoniali complesse.

Tanto che la Corte di Giustizia giunge a ritenere come maggiormente equilibrata (“meno

contraria alla libertà di stabilimento”) quella normativa nazionale “che offra, alla società

che trasferisce la propria sede amministrativa effettiva in un altro Stato membro, la scelta

tra, da un lato, il pagamento immediato dell’imposta, che crea uno svantaggio in termini

finanziari per tale società ma la dispensa da oneri amministrativi successivi, e, dall’altro, il

pagamento differito di tale imposta, se del caso corredato da interessi conformemente alla

normativa nazionale applicabile, che necessariamente comporta un onere amministrativo,

legato alla individuazione degli attivi trasferiti” (lo Stato, inoltre, potrebbe anche

legittimamente imporre la costituzione di una garanzia bancaria in caso di pagamento

differito).

Per valutare l’impatto della sentenza in commento sull’ordinamento fiscale italiano,

occorre considerare quali siano gli effetti, nella imposizione sui redditi, del trasferimento

all’estero della residenza fiscale di un soggetto imprenditore (società o impresa

individuale).

Il trasferimento di residenza all’estero è fattispecie che, di per sé, non integra una ipotesi

liquidativo-estintiva del soggetto, ma che può, tuttavia, comportare l’espulsione dei beni

societari dal regime fiscale d’impresa. Con il trasferimento della residenza, infatti, si perde

il collegamento di carattere “personale” con il territorio italiano e, con esso, può venire

meno la rilevanza in termini tributari dell’attività di impresa svolta.

Detto in altri termini, nonostante il soggetto continui ad esistere in senso giuridico, il

trasferimento potrebbe determinare la cessazione dell’applicazione del regime fiscale

(ovviamente, italiano) d’impresa.

Ciò accade in tutte quelle ipotesi in cui il criterio di collegamento della residenza non

venga sostituito dal criterio di collegamento della fonte, dato dalla stabile organizzazione.

Elemento, quest’ultimo, che, nonostante il trasferimento della residenza all’estero, può

consentire, relativamente all’attività esercitata in Italia tramite la stabile organizzazione ed

ai beni che in essa sono confluiti, la continuità anche nell’applicazione del regime

tributario d’impresa.

Nel sistema italiano del reddito di impresa, le ipotesi di oggettiva fuoriuscita dei beni dal

regime d’impresa sono in grado di integrare la fattispecie realizzativa della “destinazione a

finalità estranee”, in grado di produrre ricavi e plus/minisvalenze (artt. 85, secondo

comma, 86, primo comma, lett. c, Tuir).

La norma è considerata una disposizione di “chiusura” del sistema (FALSITTA, La

tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi, Padova, 1978, 95;

MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa, Inquadramento teorico e profili ricostruttivi,

Milano, 1993, 158. Per una diversa ricostruzione della fattispecie di destinazione a finalità

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estranee, NUSSI, Trasferimento della sede e mutamento della residenza “fiscale”: spunti

in tema di stabile organizzazione e regime dei beni d’impresa, in Rass.trib., 1996, 1351 ss.

Sia consentito rinviare, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, a TASSANI,

Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, 2007, 216

ss), riferibile a tutti i soggetti che producono redditi di impresa, siano essi imprenditori

individuali e collettivi.

Emerge dunque chiaramente come la exit tax “italiana” contenuta nell’art. 166 Tuir abbia

una portata esplicativa di un principio immanente al reddito di impresa, prevedendo che il

trasferimento all’estero della residenza, da parte dei soggetti che esercitano imprese

commerciali, costituisce “realizzo, al valore normale, dei componenti dell’azienda o del

complesso aziendale”, salvo che “gli stessi non siano confluiti in una stabile

organizzazione situata nel territorio dello Stato”.

Non è in questa sede possibile soffermarsi sul dettaglio della previsione normativa italiana

(si rinvia, per questo a MELIS, Trasferimento della residenza fiscale e imposizione sui

redditi, Milano, 2008, passim), ma solo evidenziarne i caratteri strutturali alla luce della

recente sentenza della Corte di Giustizia.

In primo luogo, appare possibile affermare che, così come la disposizione normativa

olandese, anche l’art. 166 Tuir è in grado di rappresentare una restrizione alla libertà di

stabilimento, derivando dallo stesso una discriminazione tra società italiana che trasferisce

all’estero la propria residenza fiscale e società italiana che modifica la propria residenza

all’interno del territorio italiano.

Così come accade per la norma olandese, tuttavia, la restrizione alla libertà fondamentale

appare giustificabile alla luce del motivo di interesse nazionale, rappresentato dalla

equilibrata ripartizione del potere impositivo e, in questo senso, anche da una causa di

coerenza del sistema fiscale.

Proprio la riconducibilità dell’art. 166 Tuir alla norma generale di chiusura costituita dal

principio della tassazione per “destinazione a finalità estranee” e, quindi, la propria natura

di norma di sistema, anziché di norma in funzione antielusiva, rende possibile configurare

la sussistenza della causa di giustificazione.

Anche se, per come la disposizione è strutturata, risulta inevitabile una censura di non

proporzionalità perché l’art. 166 Tuir prevede, analogamente al sistema olandese, la

tassazione immediata, al momento cioè del trasferimento, dei plusvalori maturati.

In questa prospettiva, la disposizione normativa potrebbe essere immediatamente

disapplicata dai giudici nazionali, considerando l’efficacia diretta delle statuizioni della

Corte di Giustizia; mentre un possibile intervento normativo, per rendere la norma

compatibile con il diritto comunitario, dovrebbe prevedere la riscossione dell’imposta al

momento del realizzo (sia pure con la possibile contestuale previsione di obblighi di

dichiarazione e di prestazione di garanzie) o, quanto meno, prevedere la scelta, in capo al

soggetto imprenditore, tra pagamento immediato o futuro dell’imposta, che però può

legittimamente essere determinata al momento del trasferimento.

Thomas Tassani

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G. Selicato, nota a Cass. sez. trib., 22 settembre 2011, n.19325

9

Gianluca Selicato Rivalutazione monetaria, interessi compensativi e differenze stipendiali. Cass. civ., Sez. trib. (Pivetti, Presid., Merone, Relat.; Sepe, P.M., concl. conf.), 22

settembre 2011, n.19325, M.N. c. Agenzia delle entrate.

- La rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi per il ritardato pagamento delle

differenze stipendiali costituiscono reddito da lavoro dipendente e sono sempre stati

soggetti a tassazione, come è confermato dalla norma interpretativa contenuta nell’art. 1

del d.lgs. n. 314 del 1997.

Conseguentemente la percezione delle somme costituisce il momento decisivo ai fini

dell'imposizione fiscale, cui bisogna fare riferimento per individuare la disciplina

applicabile al prelievo.

Chiamata a pronunciarsi sull’imponibilità delle somme corrisposte dal datore di lavoro al

suo dipendente a titolo di rivalutazione monetaria e interessi compensativi, la Cassazione

torna ad occuparsi della qualificazione giuridica dei redditi soffermandosi, in particolare,

sulle modifiche che il d.l. n.557 del 1993 ha apportato al criterio di classificazione

contenuto nel secondo comma dell’art.6 del TUIR (nella versione anteriore alla modifica

del 2004). Dopo aver inquadrato tra i proventi sostitutivi del reddito di lavoro dipendente

le somme corrisposte dall’Amministrazione giudiziaria ad un avvocato distrettuale dello

Stato per compensare il ritardo nel pagamento delle sue differenze stipendiali, la Suprema

corte ha rifiutato l’eccezione d’incostituzionalità sollevata in riferimento all’adombrata

sperequazione tra i regimi fiscali antecedente e successivo al segnalato intervento

legislativo. Ad avviso del Collegio, infatti, l’introduzione della parte finale del secondo

comma dell’art. 6 Tuir, secondo cui “gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di

pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su

cui tali interessi sono maturati”, non avrebbe determinato conseguenze sulla disciplina del

reddito di lavoro dipendente che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, anche nel

sistema antecedente avrebbe attratto a tassazione i proventi in questione. Peraltro, proprio

il meccanismo di tassazione dei redditi oggi rubricati all’art.49 del Tuir renderebbe

superflua ogni indagine sul regime fiscale applicabile all’epoca di maturazione del relativo

diritto di credito, dovendosi comunque aver riguardo alle disposizioni in vigore al

momento della materiale percezione delle somme.

Prendendo posizione sulle conseguenze del principio di cassa sulla tassazione degli

interessi e rivalutazione monetaria su arretrati la sentenza presenta un primo profilo

d’interesse su cui occorre soffermarsi. L’argomento decisivo per la soluzione della

controversia viene infatti individuato nel criterio d’imputazione temporale dei redditi di

lavoro dipendente che induce i Giudici a ritenere del tutto ininfluente la circostanza

dell’eventuale intassabilità delle somme nel regime antecedente la loro percezione.

In verità, il principio di cassa individua il momento di applicazione del prelievo ma non

condiziona necessariamente il meccanismo impositivo applicabile alle somme ricevute. La

sentenza, invece, sovrappone tali profili nel solco di precedenti decisioni della stessa Corte

secondo cui rientrerebbe <<…ampiamente nella discrezionalità del legislatore tributario

… la decisione … di ancorare il discrimine temporale dell'applicabilità della nuova

normativa alla percezione degli interessi, da parte del lavoratore, costituendo quest'ultimo

momento quello in cui viene a sostanziarsi il fondamento costituzionale della capacità

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE n.1-2012

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contributiva…>> (così la sent. 7 luglio 2009, n.15873). Ad analoghe conclusioni, del resto,

sono pervenute le ordinanze nn. 22397 del 23 novembre 2010 e 24760 del 6 dicembre

2010, nelle quali i Giudici supremi hanno ribadito che, ai fini dell’individuazione del

regime fiscale applicabile al reddito da lavoro dipendente, occorre avere riguardo al

momento della riscossione e non a quello della maturazione del credito.

Per quanto maggioritario, questo orientamento rischia di condurre ad estreme conseguenze

gli effetti del principio di cassa, ancorandovi un meccanismo d’applicazione dell’Irpef che

anche a livello normativo contempla condivisibili deroghe a presidio della parità di

trattamento dei lavoratori dipendenti. Ci si riferisce, in particolare, alla tassazione separata

di alcuni proventi a formazione pluriennale o relativi ad arretrati, la cui ratio1 verrebbe

sicuramente svilita dall’applicazione astratta ed asettica del principio secondo le

indicazioni della giurisprudenza di legittimità. Che bisogno vi sarebbe, infatti, di applicare

distinte regole di determinazione dei redditi maturati in periodi d’imposta antecedenti se

l’impianto teorico dei redditi di lavoro impone comunque di applicare il regime fiscale

vigente all’epoca della percezione delle somme? Peraltro, sebbene la controversia sia

scaturita da un’istanza di rimborso delle ritenute fiscali operate dall'amministrazione di

appartenenza, la contrapposizione sul regime fiscale astrattamente applicabile agli

“interessi e rivalutazione monetaria su arretrati stipendiali” (cui le ritenute si riferivano)

avrebbe dovuto far emergere la possibilità di un loro assoggettamento a tassazione

separata. L’art. 17 del Tuir, infatti, riconduce a tale regime impositivo proprio gli

emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti e

percepiti per effetto di leggi, contratti collettivi, sentenze, atti amministrativi sopravvenuti

o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti.

Appare inoltre possibile prospettare una diversa ricostruzione del quadro normativo

capace, in riferimento a somme maturate in pendenza di un precedente regime fiscale – e a

prescindere dal “rimedio” offerto dalla tassazione separata – di mantenere distinta la

questione sostanziale dell’imponibilità del provento dall’elemento formale della sua

effettiva percezione. Ciò non solo nell’interesse del contribuente, ma anche a tutela del

Fisco, che rischierebbe altrimenti di essere leso allorquando le parti del rapporto di lavoro,

confidando ad esempio nell’annuncio di una variazione delle regole impositive, si

dovessero accordare per un differimento del pagamento di talune somme.

Una maggiore considerazione del momento della “maturazione” (che nell’attuale sistema

pervade la disciplina dei redditi di capitale) eliminerebbe il rischio di sperequazione – non

a caso denunciato dal ricorrente – tra chi riceve puntualmente quanto dovuto e che si vede

costretto, invece, ad assoggettare a tassazione somme maturate in pendenza di un sistema

che – a suo dire – ne prevedeva la totale esclusione dal reddito2.

Non sono mancati, del resto, contributi giurisprudenziali favorevoli alla separazione del

momento di percezione dal meccanismo impositivo, com’è avvenuto nella sent. 16

settembre 2005, n. 18370 3, in cui la Cassazione, dopo aver riconosciuto che <<il momento

di riferimento per la tassazione di qualsiasi provento, e perciò anche per la tassazione

degli interessi, è quello in cui maturano, non quello in cui è maturato il credito cui

1 La circolare ministeriale 23/E del 5 febbraio 1997 connette l’istituto proprio all’esigenza di <<attenuare gli

effetti negativi che deriverebbero dalla rigida applicazione del criterio di cassa>>. 2 Rischio che la Cassazione ha generalmente riconosciuto, pur non associandovi conseguenze significative

sul piano della tutela dei diritti in ragione dell’esistenza di rimedi esercitabili in sede civilistica a tutela del

lavoratore dipendente eventualmente discriminato (Cfr. la Cass., sent. 15873/2009, cit.). 3 Annotata in Giur. It., 2006, 874.

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G. Selicato, nota a Cass. sez. trib., 22 settembre 2011, n.19325

11

afferiscono>>, ha segnalato la necessità di distinguere <<gli interessi maturati nei diversi

periodi di imposizione, quelli afferenti periodi in cui gli interessi non erano soggetti ad

imposizione, e quelli relativi, invece, a periodi in cui lo erano>>.

Quest’impostazione, che appare più attenta all’uguaglianza dei contribuenti, ha indotto la

Corte (in quel caso) a ritenere applicabile il criterio del pro rata temporis in virtù della

ritenuta non imponibilità degli interessi per competenze arretrate nel sistema antecedente al

d.l. n. 557/93. Anche a tale riguardo emerge un conflitto con le conclusioni raggiunte dalla

sentenza in commento che individua un ulteriore profilo di interesse della sua motivazione.

Sebbene l’assunto di partenza, secondo cui l’unica disciplina fiscale applicabile sarebbe

quella vigente all’atto della percezione, avrebbe dovuto far perdere d’ogni interesse la

questione dell’imponibilità – nel tempo – dei proventi di cui si discute, la parte conclusiva

della sentenza si è preoccupata di chiarire quale sia <<sempre stata la natura, ed il

conseguente regime fiscale, delle somme di cui all’art. 429 c.p.c., comma 3>>.

L’affermazione sollecita una ricognizione delle modifiche intervenute nella disciplina

fiscale delle somme corrisposte a titolo di rivalutazione monetaria e interessi compensativi,

che evidenzi le principali “tappe” del processo di specificazione del contenuto della

categoria reddituale oggi indicata all’art. 49 Tuir. Anche perché, per quanto la sentenza

non fornisca sufficienti elementi sull’origine dei crediti correlati al rapporto di lavoro, il

riferimento alle modifiche apportate al secondo comma dell’art. 6 del Tuir lascia

presumere che almeno una parte degli interessi dedotti in giudizio riguardasse differenze

stipendiali relative a periodi d’imposta antecedenti al 1994.

Rispetto a tali proventi non può evidentemente invocarsi il principale argomento che

nell’attuale disciplina delle imposte sui redditi milita a favore dell’imponibilità delle

somme corrisposte a titolo di rivalutazione monetaria. Ci si riferisce all’art. 49, secondo

comma, del Tuir che, solo a seguito delle modifiche apportate dall'art. 1, comma 1, del

d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314, ha annoverato esplicitamente tra i redditi di lavoro

dipendente le somme corrisposte in virtù dell’art. 429, ultimo comma, del c.p.c., secondo

cui <<il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di

denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il

maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del

suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno

della maturazione del diritto>>.

Anche prima di tale intervento, però, l’imponibilità delle somme de quibus sarebbe

comunque discesa dal secondo comma dell’art.6 del Tuir, in virtù dell’integrazione

disposta dal d.l. 30 dicembre 1993, n.5574. Si tratta di una modifica entrata in vigore l’1

gennaio 1994 cui la Cassazione, nella sentenza in esame, riconosce natura interpretativa.

Senza dar conto che, appena pochi mesi prima, la stessa Corte aveva incidentalmente

osservato che gli interessi corrisposti sui crediti di lavoro per competenze arretrate

sarebbero <<divenuti tassabili dalla data di entrata in vigore del D.L. n. 557 del 1993

(conv. in L. n. 133 del 1994)>> (così la sentenza 9 marzo 2011, n. 5575)5.

Oltre che minoritario, tale orientamento non sembra però coerente con i profili sistematici

della categoria reddituale che hanno generalmente indotto la dottrina a riconoscere la

4 Sull’imponibilità di questi interessi come redditi di lavoro dipendente, quanto meno a decorrere dal 1

gennaio 1994, vds A.F. URICCHIO, Inquadramento della categoria dei redditi di lavoro dipendente nel

t.u.i.r.: segni distintivi tra reddito di lavoro dipendente e redditi di lavoro autonomo, in AA. VV., La

disciplina tributaria dei redditi di lavoro dipendente, (a cura di) N. D’AMATI, Padova, 2003, 141 e ss.. 5 Peraltro annoverata tra i precedenti conformi alla decisione in commento, sia pure riguardo al distinto

profilo della tassazione per cassa.

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE n.1-2012

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parificazione tra redditi di lavoro dipendente e crediti per interessi su indennità lavorative,

a prescindere dalle ricordate specificazioni legislative6. A favore del carattere

interpretativo della norma, del resto, si era chiaramente espressa la circolare 23 dicembre

1997, n. 326/E7, del Ministero delle finanze attingendo dalla relazione illustrativa del

provvedimento e dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato8 argomenti convincenti. Ma

la stessa funzione “antielusiva”9 del c.d. principio di sostituzione contenuto nell’art. 6, co.

2, avrebbe dovuto comunque ricondurre al reddito di lavoro dipendente gli interessi

maturati sugli arretrati stipendiali10

.

Almeno sotto tale profilo, allora, le conclusioni cui approda la sentenza in commento

meritano pieno apprezzamento. Esse contribuiscono all’ulteriore consolidamento

dell’orientamento favorevole all’odierna imponibilità di ogni provento sostitutivo del

reddito di lavoro dipendente, alla cui formazione hanno contribuito – tra le tante – la sent.

27 gennaio 2004, n. 1381 (secondo cui <<gli interessi su retribuzioni pagate in ritardo

sono elementi costitutivi del credito principale e, quindi, addendi del reddito di lavoro

dipendente e, come tali, tassabili>>)11

e la sent. 26 gennaio 2005, n.1574, nella quale il

Supremo collegio ha considerato la rivalutazione monetaria una componente essenziale del

credito di lavoro tardivamente soddisfatto, riconoscendone l’assoggettabilità alla ritenuta

d'acconto ai fini Irpef.

Gianluca Selicato

6 Cfr. A.F. URICCHIO, Il reddito dei lavori tra autonomia e indipendenza, Bari, 2006, 134, ss.

7 Secondo cui: <<nel comma 2 è stato ribadito che gli interessi su crediti di lavoro e la rivalutazione sono

assoggettati a tassazione quali redditi di lavoro dipendente>>. 8 Sent. 2 febbraio 1996, n. 121, Sez. V, nella quale i Giudici amministrativi mutavano indirizzo riconoscendo

che le somme dovute dalla pubblica amministrazione, nella veste di datore di lavoro, ai propri dipendenti, a

titolo di interessi corrispettivi e di rivalutazione monetaria sulle retribuzioni corrisposte in ritardo, sono

elementi costitutivi del credito principale di cui costituiscono altrettanti addendi. 9 Vds. A. FANTOZZI, Il diritto tributario, 1993, 781.

10 Cfr. G. TINELLI, Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, Padova, 2009, 74.

11 Commentata da G. FERRAÙ (Spunti ricostruttivi in tema di trattamento fiscale degli interessi per i crediti di

lavoro), in GT, 2004, 732, ss.

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE

I

INDICI DEL FASCICOLO n.1 del 2012

INDICE DEGLI AUTORI

Thomas Tassani Trasferimento di sede sociali in altro

stato UE ed “exit tax”. nota a Corte UE, 29 novembre 2011, C-

371/10. 1

Gianluca Selicato Rivalutazione monetaria, interessi

compensativi e differenze stipendiali. nota a Corte UE, 22 settembre 2011,

n.19325. 9

INDICE PER MATERIA

Diritto Comunitario

Libertà di stabilimento

Thomas Tassani Trasferimento di sede sociali in altro

stato UE ed “exit tax”. nota a corte UE, 29 novembre 2011, C-

371/10. 1

Reddito di lavoro dipendente

Interessi

Gianluca Selicato Rivalutazione monetaria, interessi

compensativi e differenze stipendiali. nota a corte UE 22 settembre 2011, n.19325. 9

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE

II

INDICE CRONOLOGICO

Note con commento

Corte UE

2011 22 settembre 2011, n.19325, con commento di Gianluca Selicato

29 novembre 2011, C-371/10, con commento di Thomas Tassani

Note Redazionali

2011 6 luglio 2011, n.14922, con nota di A.G. 4 marzo 2011, n.5182, con nota di N.P.

4 marzo 2011, n.5182, con nota di N.P. 12 dicembre 2011, n.26512, con nota di N.P. 12 dicembre 2011, n.26513, con nota di V.C.

16 settembre 2011, n.18898, con nota di G.C. 26 ottobre 2011, n.22282, con nota di F.M.

26 ottobre 2011, n.22283, con nota di E.M. 7 novembre 2011, n.23021, con nota di A.B. 14 novembre 2011, n.41444, con nota di N.P. 18 novembre 2011, n.24231 con nota di V.C. 18 novembre 2011, n.24258, con nota di F.M.

23 novembre 2011, n.24579, con nota di N.P. 23 novembre 2011, n.24687, con nota di M.F. 25 novembre 2011, n.24944, con nota di A.C.D.

25 novembre 2011, n.24930, con nota di N.P. 25 novembre 2011, n.24936, con nota di N.P.

25 novembre 2011, n.24933, con nota di N.P. 30 novembre 2011, n.25499, con nota di A.C.D. 30 novembre 2011, n.25501, con nota di N.P.

30 novembre 2011, n.25522, con nota di N.P. 30 novembre 2011, n.25525, con nota di A.C.D.

30 novembre 2011, n.25537, con nota di N.P. 30 novembre 2011, n.25526, con nota di N.P. 30 novembre 2011, n.25531, con nota di N.P.

30 novembre 2011, n.25540, con nota di N.P. 6 dicembre 2011, n.26167, con nota di N.P.

16 dicembre 2011, n.27141, con nota di V.C. 16 dicembre 2011, n.27136, con nota di A.B. 22 dicembre 2011, n.338, con nota di N.P.

29 dicembre 2011, n.29579, con nota di E.M.

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE

III

29 dicembre 2011, n.29587, con nota di N.P.

29 dicembre 2011, n.29565, con nota di N.P. 29 dicembre 2011, n.29576, con nota di N.P.

29 dicembre 2011, n.29580, con nota di N.P.

2012 12 gennaio 2012, n.255, con nota di N.P. 12 gennaio 2012, n.268, con nota di V.C.

18 gennaio 2012, n.649, con nota di N.P. 18 gennaio 2012, n.651, con nota di N.P.

27 gennaio 2012, n.1166, con nota di N.P. 3 febbraio 2012, n.1552, con nota di A.C.D. 3 febbraio 2012, n.1553, con nota di N.P.

3 febbraio 2012, n.1555, con nota di N.P. 10 febbraio 2012, n.1944, con nota di N.P.

10 febbraio 2012, n.1961 con nota di V.C. 13 febbraio 2012, n.22, con nota di N.P. 16 febbraio 2012, n.2193, con nota di N.P.

22 febbraio 2012, n.2610, con nota di A.C.D. 24 febbraio 2012, n.2816, con nota di V.C.

CORTE DI CASSAZIONE

Sezione Civile 2011

15 settembre 2011, C-132/10, con nota di N.P.

20 ottobre 2011, C-284/09, con nota di C.B. 27 ottobre 2011, C-93/10, con nota di A.B. 27 ottobre 2011, C-504/10, con nota di A.B.

27 ottobre 2011, C-530/09, con nota di A.B. 21 dicembre 2011, C-250/10, con nota di F.M.

21 dicembre 2011, C-250/10, con nota di F.M 10 novembre 2011, C-259/10 con nota di A.B. 21 dicembre 2011, C-503/10, con nota di F.M. 21 dicembre 2011, C-499/10, con nota di F.M. 10 novembre 2011, C-260/10, con nota di A.B.

2012 16 febbraio 2012, C-118/11,con nota di A.B.

Sezione Penale 2011

19 luglio 2011, n.28731

3 ottobre 2011, n.35730 19 luglio 2011, n.28724

4 ottobre 2011, n.35858

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GIURISPRUDENZA DELLE IMPOSTE

IV