Sentenza n. 545/2018 pubbl. il 26/01/2018 RG n. 6253/2015...2018/01/26 · Sentenza n. 545/2018...
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Sentenza n. 545/2018 pubbl. il
26/01/2018 RG n. 6253/2015
R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Roma
Terza Sezione Civile composta dai signori magistrati
Dott. Giuseppe Lo Sinno Presidente, relatore ed est., Dr.ssa Antonella Miryam Sterlicchio Consigliere Dott. Michele Di Mauro Consigliere,
ha pronunciato la seguente
“S E N T E N Z A” nella causa civile di II° grado iscritta al N. 6253/2015 del Ruolo Generale degli Affari Civili Contenziosi, posta in decisione ex art.352 c.p.c. all’udienza del 12.09.2017 (con concessione dei termini ex art.190 c.p.c. di gg. 60 + 20 scaduti il 4.12.2017) e vertente
tra
T P + 8 tutti rapp.ti e difesi dagli avv.ti Stefano Mancini e Simona Cicchitti del foro di Roma e dom.ti in Roma, via Alberico II n.4, presso lo studio dell’avv. Stefano Palmieri, giusta delega in atti;
- appellanti - c/
S dott. G rapp.to e difeso dall’avv. Giuseppe Padula del foro di Latina ed elettivamente dom.ta in Roma, via Degli Scipioni n.110, presso lo studio dell’avv. Nicola D’Ippolito, giusta delega in atti;
- appellato -
e ISTITUTO con sede in Sabaudia (LT), in persona del suo legale rapp.te p.t.,
rapp.ta e difesa dall’avv. Paolo Pasquali del foro di Latina ed elettivamente dom.ta
in Roma, via Scipioni n.110, presso lo studio dell’avv. Nicola D’Ippolito, giusta delega
in atti;
- appellata e appellante incidentale - A ASSICURAZIONI S.p.A. con sede in Milano, corso
Como n. 17, in persona del legale rapp.te p.t., rapp.ta e difesa dall’avv. Giuseppe
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Incannò del foro di Roma ed elettivamente dom.ta in Roma, via Vespasiano n.17/A, presso lo studio del medesimo avvocato, giusta delega in atti;
- appellata –
(risarcimento danni per responsabilità medico/sanitaria).
CONCLUSIONI DELLE PARTI: come da rispettivi atti e verbale dell’udienza di p.c..
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 14.12.2012 e 13.05.2013 i sigg. TP + 8, in
proprio ed anche nella qualità di eredi della madre (per le prime tre), nonchè zia,
sig.ra N L, avevano convenuto innanzi al Tribunale di Roma l'Istituto S.r.l. ed il dr.
G S chiedendo l'accertamento della responsabilità degli stessi in relazione al
decesso della congiunta con la loro condanna, in solido, al risarcimento dei danni
subiti.
A sostegno della domanda deducevano che la sig.ra N, affetta da sindrome
psico/organica con deterioramento cognitivo, cardiopatia scleroipertesa,
incontinenza urinaria, con accertamento di necessità di assistenza continua
riconosciuta in sede di accertamento di invalidità civile, era stata ricoverata il 4
aprile 2003 presso l'Istituto e riconosciuta affetta da polineuropatia agli arti
inferiori con deficit deambulatorio, tremori, ed assumeva farmaci antiaggreganti,
farmaci per la cura del Parkinson e della patologia ischemico-ipertensiva.
Nel pomeriggio dello stesso giorno la figlia R T si era recata a trovare la madre
verso le ore 17,00 trovandola in stato di agitazione e si era trattenuta fino alla ore
20,30 provvedendo ad alimentarla.
Alle ore 6,30 del mattino successivo il dr. S aveva telefonato alla sig.ra P T
avvertendola che la madre era caduta la sera precedente e che a causa
dell'aggravarsi delle condizioni era stata trasportata all'Ospedale, dove era
arrivata solo alle ore 7,27 in quanto la prima ambulanza era giunta priva di medico a
bordo.
Al loro arrivo al Pronto Soccorso dell'Ospedale avevano trovato la madre in coma
con un grosso ematoma sulla parte destra del viso e dagli esami effettuati era
stata accertata la presenza di un vasto ematoma extra durale in sede temporo-
fronto-parietale causato dalla caduta dal letto.
La madre era stata portata d'urgenza a Roma in elicottero e malgrado
l'immediato intervento chirurgico era deceduta (in data 5 aprile 2003).
In seguito si era accertato che la madre era caduta alle ore 22,40 e che alle
cinque del mattino successivo aveva accusato un improvviso peggioramento e che
malgrado ciò solo alle 6,10 era stato contattato il 118 senza però chiarire le
condizioni della paziente tanto che l'ambulanza era giunta senza medico a bordo e
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che, di conseguenza solo alle 7,27 la paziente era arrivata presso l’ospedale
contattato.
Per i fatti era stato instaurato procedimento penale che si era chiuso con
sentenza di non doversi procedere per prescrizione in data 2 febbraio/2 aprile
2012.
Poiché anche il tentativo di mediazione non era andato a buon fine, gli attori
avevano chiesto il risarcimento del danno subito per effetto della tardiva
assistenza che era stata assicurata alla congiunta dopo la caduta e che aveva inciso
sulla determinazione dell'evento morte.
Innanzi al Tribunale si era costituito s.r.l. deducendo che nel caso di specie erano
state adottate le necessarie cautele mediante l’utilizzazione delle barre laterali di
contenimento del letto che la paziente aveva scavalcato nel tentativo di scendere
dal letto. Dopo la caduta erano stati assicurati i controlli necessari per il trauma
cranico riportato nella caduta, controlli ripetuti nel corso della notte e che avevano
consentito di accertare alle ore 5,00 una improvvisa perdita di coscienza. La
chiamata dell'ambulanza del servizio 118 era stata tempestiva non potendo
rispondere l'Istituto del tempo occorso al servizio 118 per trasportare la paziente
da Sabaudia all'Ospedale di Terracina che si era rilevato non attrezzato per la
patologia insorta tanto che era stato necessario un successivo trasporto con
eliambulanza a Roma; eccepiva la prescrizione della domanda proposta dai nipoti in
quanto il primo atto notificato all'Istituto era avvenuto in data 13 maggio 2013,
contestando anche la domanda di risarcimento danni iure hereditatis dal momento
che non vi era prova che la paziente fosse stata cosciente.
Chiedeva l'autorizzazione a chiamare in causa l'Assicurazione che la garantiva
per la responsabilità.
Si era costituito anche il dr. S eccependo la prescrizione quinquennale; nel
merito deducendo che il 4 aprile 2003 verso le ore 23,00 era stato avvertito dagli
infermieri che la paziente aveva scavalcato le barre di protezione del letto
cadendo a terra e riportando un trauma contusivo non cranico né commotivo in
regione zigomatica destra con piccola ferita sopracciliare. All'esame la paziente
rispondeva alle domande ed agli stimoli; i controlli vennero ripetuti nel corso della
notte anche da parte degli infermieri cui era stata richiesta una costante
osservazione. Alle ore 5,00 della mattina venne rilevato uno stato soporoso, con
rallentamento della risposta agli stimoli fisici con ipotonia dell'emisoma sinistro ed
inversione dei riflessi plantari bilateralmente.
Aveva provveduto ad infusione di diuretici in funzione antiipertensiva e di glicerolo
in funzione di antiedemigeno cerebrale. Contemporaneamente aveva provveduto a
contattare il Servizio 118 per il trasferimento della paziente all'Ospedale civile di
riferimento indicando all'operatore la gravità del quadro clinico. Dopo alcuni
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tentativi giunse un'ambulanza da Sabaudia che però, constatate le condizioni della
paziente, richiese l'intervento di altra ambulanza con medico a bordo. Giunta tale
ambulanza la paziente venne trasportata a Terracina. Di conseguenza era stata
assicurata alla paziente una corretta assistenza pur nella gravità della patologia
insorta.
Si era, infine, costituita la A Assicurazioni s.p.a. (chiamata in causa dall’Istituto)
eccependo che la garanzia non era operativa nei confronti dei medici non
dipendenti e che il dr. S non risultava essere un medico dipendente non essendo
inserito nei libri paga e matricola dell'Istituto; nel merito ha indicato che nei
confronti della paziente erano state apprestate tutte le necessarie precauzioni di
guisa che la caduta era stata accidentale. Dopo la caduta era stata assicurata la
necessaria assistenza con la sutura della piccola ferita che si era determinata
procedendo al controllo della paziente nel corso della paziente, controlli nel corso
dei quali la paziente aveva risposto agli stimoli. Inoltre nessun rimprovero poteva
essere rivolto al sanitario per aver chiamato il Servizio 118 per il trasporto presso
l'Ospedale di Terracina Ha chiesto la determinazione della quota di responsabilità
tra i soggetti responsabili ed ha eccepito la prescrizione della domanda di
risarcimento proposta dai nipoti della paziente; contestando, infine, la misura del
danno di cui era stato richiesto il risarcimento, proponendo azione di regresso nei
confronti del dr S.
Espletata una consulenza medico/legale la causa veniva decisa dall’adito
Tribunale con sentenza in data 22/25.07.2015 che rigettava la domanda e
compensava le spese del grado.
Con citazione notificata in data 15.10.2015 i sigg. T P + 8 hanno proposto
appello deducendo e sostenendo l’erroneità della sentenza di primo grado e
chiedendone la riforma.
Si sono costituiti in questo grado le tre parti appellate e ciascuna ha chiesto il
rigetto dell’appello (l’Istituto ha ribadito la domanda di manleva e chiesto in via di
appello incidentale la condanna della Compagnia di assicurazione alle spese del
primo grado).
All’esito della verifica della costituzione delle parti, rimessa ogni decisione circa
la necessità di ulteriori mezzi istruttori (come richiesti dagli appellanti), sono
state precisate le conclusioni all’udienza collegiale del 12.09.2017 dove la causa è
stata trattenuta per la decisione ai sensi dell’art.352 c.p.c. con concessione dei
termini fissati dall’art.190 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Nel rispetto delle previsioni dell’art.342 c.p.c. la parte appellante ha impugnato la sentenza di primo grado chiedendo, in via preliminare, la rinnovazione della ctu (richiamando le ragioni già palesate innanzi al Tribunale e le considerazioni tecniche dei proprie c.t.p.) e la totale riforma della decisione di primo grado in relazione alla negata sussistenza della allegata responsabilità della
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Struttura sanitaria (e del suo medico) per l’assistenza prestata alla paziente ivi ricoverata e poi deceduta in conseguenza di una caduta dal proprio letto.
I due aspetti di impugnazione vanno esaminati congiuntamente perché connessi ed attinenti alla stessa questione.
Ritiene la Corte che l’appello sia fondato e che vada riformata la s entenza di
primo grado senza necessità di una rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio.
In via preliminare, appare necessario mettere in evidenza come risulti del tutto
errato l’approccio dato dal Tribunale alla verifica dell’oggetto della controversia
(“osserva il giudicante che l'oggetto del presente giudizio attiene alla valutazione
della correttezza dell'assistenza prestata dal personale dell'Istituto Fisioterapico di Riabilitazione in relazione ai controlli eseguiti dopo la caduta al fine di valutare
le lesioni riportate, verificando se la diagnosi sia stata posta tempestivamente o, in
caso contrario nell'accertare quali sarebbero state le probabili conseguenze nel caso che fossero state apprestate tempestivamente le necessarie terapie”).
In verità la domanda che le parti attrici avevano proposto innanzi al Tribunale si presentava basata con due distinti addebiti di responsabilità: - uno rivolto, in special modo, alla Struttura Sanitaria (e riguardante il carente controllo e la carenza nella cura della paziente ivi ricoverata ciò avendo determinando la caduta della medesima dal letto ove era stata collocata) – un altro riferito ad entrambi i convenuti (e riguardanti le carenze dell’assistenza prestata alla paziente dopo la caduta e sino al momento in cui era stata chiamata l’ambulanza del 118).
In merito ai rilievi sollevati dalla parte appellante giova riportare la decisione del Tribunale che aveva così motivato il rigetto della domanda attrice (per l’aspetto della caduta della paziente ricoverata) – poiché questo consentirà di meglio comprendere le ragioni della decisione di questo Collegio.
Il Tribunale aveva motivato che <<per quanto riguarda la caduta è risultato
provato che il letto avesse le sponde laterali e che il rumore della caduta venne sentito dagli infermieri del reparto che si recarono immediatamente nella stanza.
Di conseguenza non appare esservi stato un ritardo nell'intervento di primo
soccorso da parte degli infermieri del reparto e del medico che ha provveduto
anche alla sutura della ferita.
Non appare, quindi, sussistere una responsabilità del personale dell'Ospedale nella
verificazione della caduta anche perché, da quanto risultante dalla cartella clinica o dalle deposizioni dei testi, non vi era alcuno stato di agitazione ritenuto fonte di
pericolo per sé o per gli altri che potesse giustificare interventi contenitivi, interventi che presuppongono una assoluta necessità e la assenza di qualsiasi altro
intervento idoneo a risolvere l'eventuale problema insorto per la sua efficacia
limitativa dei diritti del paziente, tenuto conto anche delle scadute condizioni della paziente con difficoltà alla deambulazione per problemi muscolari e neurologici
come attestati sia al momento del ricovero sia nella certificazione di invalidità>>.
A giudizio del Collegio risulta evidente l’errore del primo giudice nel non avere considerato il dato oggettivo della <<caduta>> della paziente ricoverata nella
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struttura sanitaria e della <<condizione>> psico/fisica della stessa paziente (soggetto che era stato ricoverato presso l’Istituto Fisioterapico di Riabilitazione con diagnosi di “polineuropatia agli arti inferiori con deficit deambulatorio, tremori…..” e che assumeva farmaci antiaggreganti e farmaci per la cura del morbo
di Parkinson, e con un precedente accertamento della Commissione medica AUSL per
accertamento dell’invalidità civile del 4.11.2002 che aveva indicato come diagnosi
“sindrome psicoorganica con deterioramento cognitivo, cardiopatia scleroipertensiva; incontinenza urinaria” e come giudizio finale “soggetto … con necessità di assistenza continua non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita” - vedi allegati
n.1 e n.2 delle produzioni di I grado degli appellanti).
Tale situazione oggettiva doveva spingere l’analisi della controversia nella direzione della verifica del come la Struttura Sanitaria avesse adempiuto alla sua obbligazione contrattuale verso una persona ricoverata che si presentava in condizioni tali da necessitare di assistenza, cura e controllo adeguati alla sua condizione; e la circostanza oggettiva rappresentata dalla caduta nella serata del 4.04.2003 – ore 22,40 (e quindi nello stesso giorno del ricovero, avvenuto alle ore 11,00 circa) dimostra l’avvenuto inadempimento (od inesatto adempimento dell’obbligazione assunta) della struttura sanitaria appellata con onere di dare prova del contrario, posto che spettava alla stessa dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto (confr. Cass. civ. 3 marzo 2010, n. 5067; Cass. civ. 10 ottobre 2008, n. 24992).
E’ noto, a tal riguardo, che accettando il ricovero del paziente, la struttura sanitaria stipula con lui un contratto da cui discendono, quali effetti naturali ex art. 1374 c.c., l’obbligo di apprestargli le cure mediche e l’obbligo di proteggerlo e sorvegliarlo, adeguato alle sue menomate condizioni di salute, per prevenire danni a terzi o alla sua persona (cfr. Cass. civ., sez. III, 22-10-2014, n. 22331), anche sul presupposto della specializzazione della struttura sanitaria come tale in grado di valutare (tramite il suo personale medico) le condizioni dei pazienti che accetta presso di sé e le necessità di cura ed assistenza necessarie (cfr. Cass. civ., sez. I, 10-11-1997, n. 11038); con l’ulteriore precisazione che “la presenza della capacità di intendere e di volere nel paziente ricoverato o l’assenza di condizioni per assoggettarlo a un trattamento sanitario obbligatorio non escludono l’obbligo di sorveglianza a carico della struttura sanitaria, con estensione e contenuto variabili in funzione delle circostanze del caso concreto” (così Cass. 22331/2014, già citata).
Nel caso in esame, quindi, la condizione sanitaria in cui si trovava la signora L N (di anni 78) doveva spingere la Struttura appellata ad adeguare i suoi comportamenti finalizzati alla protezione ed alla sorveglianza della medesima paziente tanto più perché si trattava della prima notte di degenza di un soggetto che risultava non essere del tutto in grado di muoversi (polineuropatia = patologia che interessa il sistema nervoso periferico e che interessa più nervi; e quando interessa gli arti inferiori può comportare difficoltà a salire o scendere scale, a camminare ecc.; e quindi anche a scendere da un letto).
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Va disatteso, pertanto, il ragionamento del primo giudice nel punto in cui
affermava che “non appare, quindi, sussistere una responsabilità del personale
dell'Ospedale nella verificazione della caduta anche perché, da quanto risultante
dalla cartella clinica o dalle deposizioni dei testi, non vi era alcuno stato di
agitazione ritenuto fonte di pericolo per sé o per gli altri che potesse giustificare
interventi contenitivi, interventi che presuppongono una assoluta necessità e la
assenza di qualsiasi altro intervento idoneo a risolvere l'eventuale problema
insorto per la sua efficacia limitativa dei diritti del paziente, tenuto conto anche
delle scadute condizioni della paziente con difficoltà alla deambulazione per
problemi muscolari e neurologici come attestati sia al momento del ricovero sia
nella certificazione di invalidità”.
Proprio quest’ultimo passaggio dimostra l’erroneità della decisione appellata
perché “tenuto conto anche delle scadute condizioni della paziente con difficoltà
alla deambulazione per problemi muscolari e neurologici come attestati sia al
momento del ricovero sia nella certificazione di invalidità” la Struttura Sanitaria
era tenuta ad adempiere la sua obbligazione (anche di sorveglianza della paziente)
in modo diligenze e puntuale.
L’avvenuta caduta (con le tragiche conseguenze ne sono derivate sino alla morte
della paziente) determina la prova dell’inesatto adempimento, ed in difetto di prova
che la sorveglianza praticata in concreto fosse stata idonea ed adeguata ad
evitare il danno per la paziente, sussiste la responsabilità della appellata Casa di
Cura con suo obbligo di risarcire i danni subiti dalla paziente.
L’ulteriore censura proposta dagli appellanti attiene alla responsabilità anche del
sanitario che ebbe a seguire la paziente dopo la caduta e sino al suo affidamento al
mezzo di trasporto per l’Ospedale di Terracina.
Anche su tale aspetto della vicenda si ritiene di dover pervenire ad una
decisione di riforma della decisione del primo giudice, il quale aveva motivato che
“occorre, a questo punto esaminare l'assistenza prestata alla paziente dopo la
caduta.
Per effetto della caduta è pacifico, a differenza di quanto dedotto dal S, che si
era verificalo un trauma cranico come confermato dalla annotazione della presenza
di una ferita lacero-contusa alla zona sopracciliare e dal vasto ematoma allo zigomo
ed alla regione periorbitaria per effetto dell'urto che, come accertato in seguito,
aveva anche determinato una frattura dello zigomo e della parete anteriore del
seno mascellare.
Il trauma cranico può produrre un danno definito primario che si manifesta al
momento del trauma, un danno secondario che può manifestarsi a distanza di ore o
giorni dal trauma ed è causato da complicazioni sistemiche o intracraniche, un
danno terziario (quale sensi, malattie tromboemboliche e polineuropatia) che può
comparire a distanza di giorni o settimane dal trauma.
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Per quanto riguarda la classificazione del trauma viene in genere utilizzata la scala
di Glasgow nella quale vengono valutate oltre le condizioni del paziente anche i
singoli fattori dì rischio quali la incertezza sulle modalità della verificazione del
trauma, la presenza di amnesia posi-traumatica o retrograda, segni clinici di
frattura del cranio, grave cefalea, vomito, focalità neurologica, crisi convulsiva, età
superiore ai sessanta anni, coagulopatia.
Nel caso di specie sulla base degli elementi presenti in cartella clinica si ritiene
che la stessa avesse riportato un trauma cranico lieve con identificazione del punto
del cranio che aveva urtato il pavimento, evidenziato dalla presenza della ferita
lacero-contusa nella regione sopracciliare, che non aveva comportato lesioni
craniche della teca cranica, ma dello zigomo e del seno mascellare, lesione che non
venne affatto indagata neppure con una radiografia, seppure non significativa in
relazione ad eventuale insorgenza di emorragia cerebrale, che avrebbe reso
evidente la presenza di fratture e quindi fornito un ulteriore elemento in ordine
alla violenza dell'urto contro il pavimento.
Tuttavia la paziente non aveva perso coscienza, non presentava vomito, cefalea o deficit neurologici.
Per quanto riguarda i fattori di rischio ritiene il giudicante, condividendo la
valutazione espressa dal CTU, che la paziente dovesse essere ritenuta portatrice
di un rischio intermedio tenuto conto dell'altezza della caduta, dell'età, della
coagulopatia, attestata dalla assunzione di un farmaco anticoagulante, paziente,
inoltre affetta da sindrome psico-organica e deterioramento cognitivo che rendeva
difficile poter valutare le differenze rispetto alla situazione precedente, specie in
considerazione del fatto che il personale aveva appena iniziato il servizio alle ore
22 e che la paziente era stata ricoverata nel pomeriggio, di guisa che gli stessi non
l'avevano mai vista in precedenza e quindi non avevano parametri per confrontare il
comportamento.
Nel caso di specie non venne eseguilo alcun accertamento diagnostico né venne
richiesto, come sarebbe stato necessario sulla base delle linee guida in materia
limitando, sulla base di quanto emerso nel corso della istruttoria dibattimentale, i
controlli a quelli clinici mediante due accessi da parte del medico e due o tre da
parte degli infermieri che, però, nulla hanno annotato al riguardo nella cartella
clinica. Non risulta, in particolare essere stata effettuata una valutazione sulla
base della scala Glasgow, valutazione che venne operata la prima volta solo dal
personale del Servizio 118 quando il primo equipaggio arrivò alle 6,20 del 5 aprile
2003 e dette atto che la paziente si trovava in uno stato profondo di coma.
Alle cinque della mattina - ore 4,30 come indicato nella relazione redatta dal dr S
per il trasferimento della paziente all'Ospedale di Terracina — la paziente ha
subito un repentino peggioramento con la insorgenza dello stato soporoso con
ipotonia dell'emisoma sinistro con pressione 220/110 e venne attivato il
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trasferimento da Sabaudia all'Ospedale di Terracina essendo l'Istituto privo di un apparato per la TAC cerebrale.
L'ambulanza risulta essere stata chiamata alla ore 5,45 e la stessa giunse alle ore
6,20, circostanza che non contrasta con la dichiarazione rilasciata dall'Azienda
sanitaria di Latina secondo la quale l'ambulanza era partita alle ore 6,12. All'arrivo
dell'ambulanza le condizioni della paziente erano ancora peggiorate dal momento
che nella valutazione della scala Glasgow il punteggio era 3, equivalente allo stato di
coma, paziente considerato avente chance di sopravvivenza corrispondenti quasi a
zero. Quando alle 6,52 giunse la seconda ambulanza con il medico a bordo la
valutazione venne confermata, vale a dire paziente incosciente, scala Glasgow pari
a 3, midriasi bilaterale fissa.
Di conseguenza, come indica il CTU alle 6,52, come attestato dal medico, ma anche
già alle 6,20, la paziente era pervenuta ad una situazione di sostanziale morte
cerebrale.
La diagnosi posta dall'Ospedale di Terracina fu errata avendo ritenuto trattarsi di
un ematoma extra durale temporo-fronto-parietale destro, mentre si trattava di
una diversa patologia vale a dire un ematoma sotto durale acuto emisferico destro,
avente anche origine diversa rispetto a quella erroneamente ipotizzata
all'Ospedale di Terracina ed erroneamente presa in considerazione dal consulente
del PM nel procedimento penale.
Tuttavia tale errore non ha prodotto conseguenze in quanto secondo il consulente
tecnico d'ufficio l'intervento presso il CTO, che ha identificato correttamente la
patologia, non aveva alcuna possibilità di salvare la vita della paziente, come
riferito dalla attrice la quale ha confermato che i medici del CTO le avevano
evidenziato la gravità della situazione ed il fatto che l'intervento veniva operato
solo quale tentativo.
Secondo il consulente tecnico d'ufficio non vi erano chance di sopravvivenza, sulla
base del criterio del più probabile che non, già al momento dell'arrivo della prima
ambulanza presso l'istituto Franceschini, alle ore 6,20, che pacificamente non era
attrezzato per la gestione di una simile patologia, come non lo era l'Ospedale di
Terracina.
Tuttavia, occorre ricordare che in tema di responsabilità professionale del medico
chirurgo, una accurata ricognizione del complesso rapporto intercorrente tra la
fattispecie del nesso causale e quella della colpa, con specifico riferimento ai
rispettivi, peculiari profili probatori, consente la enunciazione dei seguenti principi:
1) il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre - su di un
piano strettamente oggettivo e secondo una ricostruzione logica di tipo sillogistico
- tra un comportamento (dell'autore del fatto) astrattamente considerato (e non
ancora utilmente qualificabile in termini di ''damnum iniuria datum") e l'evento; 2)
nell'individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento, si prescinde,
in prima istanza, da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto
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"oggettivata", da parte dell'autore del fatto, essendo il concetto logico di
"previsione insito nella categoria giuridica della colpa (elemento qualificativo
dell'aspetto soggettivo del torto, la cui analisi si colloca in una dimensione
temporale successiva in seno alla ricostruzione della complessa fattispecie
dell'illecito); 3) il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per
cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia
generato, o anche solo contribuito a generare, tale obbiettiva relazione col fatto
deve considerarsi "causa" dell'evento stesso: 4) il nesso di causalità giuridica è, per
converso, relazione eziologica per cui i fatti sopravvenuti, di per sé soli idonei a
determinare l'evento, interrompono il nesso con il fatto di tutti gli antecedenti
causali precedenti; 5) la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il
profilo della dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali. quanto sotto
l'aspetto della individuazione del "novus actus interveniens", va compiuta secondo
criteri a) di probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se
appare non praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi
scientifiche di copertura; con l'ulteriore precisazione che, nell'illecito omissivo,
l'analisi morfologica della fattispecie segue un percorso affatto speculare - quanto
al profilo probabilistico - rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini,
accertare d collegamento evento/comportamento omissivo in termini di probabilità
inversa, onde inferire che l'incidenza del comportamento omesso si pone in
relazione non/probabilistica con l'evento (che, dunque, si sarebbe probabilmente
avverato anche se il comportamento fosse stato posto in essere), a prescindere,
ancora, dall'esame di ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione
dell'evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell'agente; 6) Il
positivo accertamento del nesso di causalità, che deve formare oggetto di prova da
parte del danneggiato, consente il passaggio, logicamente e cronologicamente
conseguente, alla valutazione dell'elemento soggettivo dell'illecito, e cioè della
sussistenza, o meno, della colpa dell'agente, che, pur in presenza di un comprovato
nesso causale, potrebbe essere autonomamente esclusa secondo criteri
(storicamente elastici) di prevedibilità ed evitabilità; 7) criteri funzionali
all'accertamento della colpa medica - la prova della cui assenza grava, nelle
fattispecie di responsabilità contrattuale, sul professionista/debitore - risultano
quelli a) della natura, facile o non facile, dell'intervento del medico; b) del
peggioramento o meno delle condizioni del paziente; e) della valutazione del grado
di colpa di volta in volta richiesto (lieve, nonché presunta, in presenza di operazione
"routinarie"; grave, se relativa ad interventi che trascendono la preparazione media
ovvero non risultino sufficientemente studiati o sperimentati, con l'ulteriore limite
della particolare diligenza e dell'elevato tasso di specializzazione richiesti in tal
caso). d) del corretto adempimento dell'onere di informazione e dell'esistenza del
conseguente consenso del paziente (Cass. sez. III, 18 aprile 2005, n, 7997).
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Occorre, quindi, valutare, secondo il giudizio controfattuale, se qualora l'attività
omessa fosse stata regolarmente posta in essere, l'evento morte avrebbe potuto
essere evitato secondo il criterio probabilistico del più probabile che non.
Sotto questo aspetto il consulente tecnico d'ufficio ha messo in evidenza che
comunque una diagnosi tempestiva e la introduzione di specifiche terapie non
avrebbero modificato l'evoluzione naturale verso il decesso della patologia
emorragica insorta dopo il trauma cranico, tenuto conto della rapida evoluzione del
danno cerebrale giunto in meno di due ore dalla emersione dei sintomi ad una
sostanziale morte cerebrale.
Deve, quindi, escludersi che l'evento mode, secondo il criterio del più probabile che
non, avrebbe potuto essere impedito attraverso una diagnosi tempestiva e l'avvio
di una terapia e possa essere posto a carico dei sanitari non essendo presente un
valido nesso di causalità”.
La decisione sopra riportata non è condivisibile perché non ha tenuto conto della
fattispecie sottoposta all’esame del giudicante (con causa petendi ben delineata in
citazione) e della causa prima del fatto dannoso subito dalla paziente (e poi dai suoi
eredi).
Gli appellanti (attori in I° grado) avevano evidenziato in citazione che “in secondo
luogo non meno importante, al momento della caduta dal letto della paziente,
avvenuta alle ore 22,40 p.m. del 4.4.03, il dott. S medico di turno la sera
dell’accaduto, non sottopose la paziente ad accertamenti e cure in un caso che non
presentava alcuna difficoltà diagnostica e nella prescrizione di accertamenti
relativi; le linee guida in tali casi raccomandano TC del cranio il prima possibile e
un’osservazione clinica per almeno 24 ore (vd. Consulenza Tecnica del P:M. della
Procura di Latina dott.ssa Setacci, testimonianza della stessa doc., 27 e doc. 40).
Alle ore 5,00 a.m. del giorno successivo (dopo circa sette ore dalla caduta)
accertata la possibile (?) gravità dello stato della sig.ra N esegue terapia del tutto
inutile al caso e perde altre due ore prima di chiamare l’ambulanza con codice
errato o, comunque, non evidenziando lo stato di coma in cui versava la stessa. <la
paziente giunge al P.S. dell’Ospedale di Terracina, a causa de comportamento
gravemente omissivo del sanitario dr. S, dopo NOVE ORE dal sinistro”.
I rilievi sollevati dagli appellanti sono fondati.
L’inadempimnento imputabile al sanitario, per vero, attiene proprio alla gestione
del caso medico insorto dopo la caduta della paziente e sino al momento in cui la
stessa venne affidata (In modo adeguato) al servizio di trasporto tramite
ambulanza, per condurla presso un ospedale attrezzato per la gestione della
patologia (trauma cranico).
Richiamando anche alcune delle considerazioni fatte in precedenza (sulla
responsabilità della Struttura sanitaria) non par dubbio che l’appellato medico
abbia eseguito la sua prestazione professionale (nei riguardi della paziente sig.ra
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N) in modo non adeguato alla condizione che si era venuta a determinare per la
caduta dal letto della paziente.
Il giudizio conclusivo fornito dal perito del Pubblico Ministero (dr.ssa Maria
Cristina Setacci) il 25.5.2004, conforta in tal senso perché giungeva ad “affermare
che il sanitario della Casa di cura, di turno al momento in cui la signora N ha riportato il trauma cranico, non ha coordinato il soccorso, non ha agito con la
sollecitudine e con la cautela necessaria. E non si è attenuto alle conoscenze tecniche ordinarie in tale tipo di traumatismo. Tale comportamento si può definire
censurabile. Si può ragionevolmente ritenere. Che un tempestivo svuotamento della raccolta ematica, prima che questa provocasse il danno cerebrale irreversibile da
compressione, avrebbe con grande probabilità evitato il decesso della paziente”.
Ciò che va attribuito a responsabilità del medico appellato, in verità, non è la non adeguata cura della patologia di cui risultava affetta la sig.ra N (come se il dr. S avesse avuto la veste del sanitario cui era stata sottoposta la paziente dopo la caduta per la cura del trauma cranico riportato), quanto piuttosto, la non diligente cura ed attenzione nel seguire la paziente dopo la caduta al fine di verificare le sue necessità di assistenza tenuto conto che la Casa di Cura non aveva alcuna possibilità di apprestare cure specifiche per la patologia insorta dopo ed il conseguenza diretta della caduta.
E per questo va integralmente condiviso quanto affermato dal già citato consulente del P.M. a pagina 11 della sua relazione tecnica, nel punto in cui scrive che “è censurabile dunque il comportamento del sanitario che non ha sottoposto la paziente ad accertamenti e cure, in un caso che non presentava difficoltà nella diagnosi e nella prescrizione di accertamenti relativi; ove fossero stati svolti questi accertamenti e quindi fosse stata fatta diagnosi di emorragia endocranica, cosa che poteva essere fatta, si sarebbe dovuto immediatamente procedere ad intervento di neurochirurgia…” .
A ben vedere anche le considerazioni medico-specialistiche fatte dal ctu nominato dal Tribunale (anche se pervenute a conclusioni che sembrano esimere da responsabilità il sanitario appellato) spingono nel senso sopra indicato risultando evidenti le inadeguatezze dell’operato del dr. S in particolare per non avere richiesto immediatamente l’ausilio di uno specialista neurologo o, tenuto conto dell’assenza presso la casa di cura di medici specialisti come pure di attrezzature per eseguire una TC al cranio della paziente, per non aver prudentemente disposto l’immediato trasferimento della paziente presso un ospedale vero e proprio; anche perché lo stesso ctu di primo grado aveva concluso affermando che <<immaginando che l’evento fosse accaduto in un Ospedale fornito di TASC Cerebrale, Neurochirurgia e Rianimazione, e fatta diagnosi di ematoma sotto durale emisferico destro, fosse stata sottoposta ad intervento chirurgico entro 2-3 ore dal trauma, è più probabile che non che, se sopravvissuta, gli esiti neurologici sarebbero stati comunque altamente invalidanti”.
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Con il che si ha la riprova che nel progressivo affiancamento delle cause che portarono al decesso della paziente si inseriva anche il comportamento omissivo del sanitario dell’a Casa di Cura, dato che ove lo stesso fosse stato più pronto, tempestivo e prudente, con l’invio immediato della anziana paziente - in
condizioni sanitarie generali non buone (la ctu di primo grado definisce la paziente con una “performance ridotta”) e sotto terapia farmacologica anticoagulante - presso un ospedale attrezzato le possibilità di sopravvivenza vi sarebbero state (anche se la paziente avrebbe comunque risentito di conseguenze ulteriormente invalidanti rispetto alle sue già deteriorate condizioni sanitarie, precedenti la caduta: “affetta da una sindrome psico-organica con deterioramento cognitivo”).ù
E proprio le condizioni deteriorate della paziente (con performance ridotta) avrebbero dovuto spingere l’appellato (quale semplice medico di guardia di una struttura di mera assistenza sanitaria) ad una prestazione medica più attenta, sollecita e prudente al massimo (nell’interesse primario della paziente); a tal riguardo, invero, quanto “ una paziente con performance ridotta, è affetta da una sindrome psico-organica con deterioramento cognitivo quindi resta difficile immediatamente dopo il trauma cranico per chi la visiti notare fini differenze rispetto a prima della caduta: scarsa se non nulla è la collaborazione al colloquio ed alla visita dei soggetti affetti da deterioramento mentale. Si mette in atto il
criterio dell’osservazione clinica” (così pagina 21/22 ctu dr. Fiore).
E l’osservazione clinica presuppone, appunto, una attenzione della condizione della paziente che deve essere condotta in modo prudente, attento e sollecito da parte del medico (non essendo sufficiente la delega ad un infermiere od altro personale para/medico) che deve saper valutare e soppesare la condizione generale della paziente non affidandosi a dati non sicuri proprio quanto quel soggetto – per le sue condizioni precarie – non è in grado di collaborare nell’anamnesi perché “scarsa se non nulla è la collaborazione al colloquio ed alla visita dei soggetti affetti da deterioramento mentale”.
E questo che conta nel caso in esame, mentre tutte le considerazioni (tecnicamente corrette) fatte dal c.t.u. nominato dal giudice di primo grado potrebbero avere una rilevanza solo dove il dr. S avesse inteso procedere tecnicamente come indicato dal ctu, e cioè avesse posto in atto (e dato contezza di ciò in cartella clinica) tutte quelle verifiche e procedure di cui ai “protocolli” ben indicati dalla ctu a pagina 22/23.
Al contrario, nella cartella clinica dell’Istituto (come indicato dettagliatamente sia dal perito del PM che dal ctu) risulta unicamente che dopo la cauta delle ore 22,40 del 4.4.03 – annotate le condizioni della paziente (ferita lacero contusa sopraccigliare destra che viene trattata con due punti di sutura e medicazione…) – la diaria clinica del giorno 05.04.03 ore 5,00 riportava che ”dopo essere stata agitata tutta la notte la paziente accura improvviso deterioramento dello stato di coscienza. Stato soporoso. Risponde in modo rallentato a stimoli fisici. All’esame obiettivo si rileva ipotonia dell’emisoma sinistro con inversione dei riflessi plantari bilateralmente…..” .
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L’interesse della paziente e le sue condizioni generali, valutate in coincidenza con un evento comunque grave ed anomalo – quale era l’avvenuta caduta dal letto “battendo il viso” con ferita lacero contusa – avrebbero dovuto spingere l’appellato ad una attenzione specifica e mirata sulla paziente onde gestire la stessa in modo da non comprometterne ulteriormente le già precarie condizioni; e poiché era tra le evenienze mediche del caso quella dell’insorgenza di un “trauma cranico” – anche se minore o lieve – era tra le più probabili (dopo una caduta con colpo subito dalla testa), il dr. S avrebbe dovuto gestire quella situazione in modo più prudente onde evitare che si sviluppassero quelle complicanze neuorologiche del trauma cranico (ben note a tutti gli operatori medici) soprattutto “tenendo conto dell’assenza o della presenza di uno o più fattori di rischio pre-esistenti o conseguenti al trauma” (pag.23 ctu) che nel caso in esame è stato ritenuto di grado “intermedio” per la presenza di coagulopatia o terapia con anticoagulanti.
La stessa ctu dr. Fiore a pagina 24 ha evidenziato come fosse “più probabile che non che la nostra paziente rientrasse nel trauma cranico lieve con grado di rischio intermedio che richiede: osservazione clinica di almeno 6 ore dal trauma, indicata l’esecuzione di TC del cranio anche con finestra ossea durante le prime ore di osservazione (basale), l’osservazione protratta fino a 24 ore e la ripetizione della TC è indicata in presenza di coagulopatie o di trattamenti anticoagulanti, in presenza di una lesione intracranica documentata alla TC è necessaria consulenza neurochirurgica”.
Tutto questo non venne fatto né vi è prova (spettante al sanitario appellato) che si posero in atto interventi similari volti alla continua osservazione della paziente nelle prime ore dalla caduta; intendendosi per osservazione clinica di un paziente soprattutto il controllo eseguito da un medico su cui grava un dovere di controllo del paziente derivante dalla sua posizione di garanzia.
Il fondamento di questa posizione è da ricercare nei principî solidaristici che impongono (oggi anche in base alle norme contenute negli art. 2, 32 e 41, 2° comma, Cost.) una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni — non essendo i titolari di essi in grado di proteggerli adeguatamente — con l’attribuzione, a determinati soggetti, della qualità di «garanti» della salvaguardia dell’integrità di questi beni ritenuti di primaria importanza per la persona; a questa qualità, naturalmente, devono contestualmente accompagnarsi poteri impeditivi dell’evento; diversamente, sotto il profilo soggettivo, difetterebbe l’esigibilità della condotta (e si è fatto l’esempio della madre che risponde di non aver nutrito l’infante ma non di aver omesso di salvarlo dall’annegamento se non sapeva nuotare).
Sull’origine e sull’ambito di applicazione della posizione di garanzia v’è contrasto tra le teorie che ritengono che gli obblighi del terzo possano derivare soltanto da una fonte formale (e infatti si parla di teoria «formale» della posizione di garanzia) e le teorie che fanno riferimento piuttosto a criteri sostanzialistici (ma esistono anche teorie c.d. «miste»).
La prima teoria, che sembra accolta dal cpv. dell’art. 40 c.p. (che parla infatti di obbligo «giuridico»), individua, quali fonti dell’obbligo in questione, la legge e il
contratto (e su queste fonti sostanzialmente non esistono divergenze; l’unica
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difformità di orientamento riguarda forse il caso del contratto cui non partecipi il titolare del bene protetto) nonché la precedente condotta illecita o pericolosa, la negotiorum gestio e la consuetudine (e su queste fonti invece le opinioni sono divergenti anche perché, più in generale, la soluzione del problema della fonte è strettamente connessa al rispetto del principio di determinatezza della fattispecie).
Naturalmente, anche se venga accolta la teoria sostanzialistica, il rispetto dei principî di tassatività e determinatezza richiede che la cerchia dei titolari dell’obbligo di garanzia sia determinata soggettivamente e che gli obblighi siano oggettivamente determinati con esclusione quindi di doveri esclusivamente morali. E naturalmente i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante purché gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare (al limite anche giudizialmente) che l’evento dannoso venga cagionato.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte riaffermato che la posizione di garanzia può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l’evento (cfr. Cass. penale 12 ottobre 2000, imp. Avallone; Cass. pen. 1° ottobre 1993, Cocco; Cass. pen. 21 maggio 1998, Fornari).
Passando ad esaminare più specificamente il tema della responsabilità medica va osservato che una posizione di garanzia del medico può sorgere esclusivamente con l’instaurazione della relazione terapeutica tra il paziente e il medico, e questo sia che vi sia stato un rapporto diretto ma anche nel caso di rapporto mediato dalla presenza di una struttura sanitaria ove quel professionista operi.
V’è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione.
La prima categoria concerne la posizione di garanzia c.d. «di protezione» che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l’integrità: tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici, ecc. in relazione ai beni della vita e dell’incolumità personale ma anche di altri beni (per es., per i genitori, l’integrità sessuale dei minori).
Come è evidente l’ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l’obbligo di protezione può derivare anche dall’assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).
La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. «di controllo» che impone di
neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto:
questa categoria riguarda tutti i casi di esercizio di attività pericolose —
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che trova il fondamento normativo nell’art. 2050 c.c. — il dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale, ecc.
Il più delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati all’esistenza di un «potere di organizzazione o di disposizione relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose», come nel caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti ad amministrazioni pubbliche cui sono attribuiti compiti di prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica incolumità.
Da quanto in precedenza esposto non si comprende come si possa negare che al dott. S fosse attribuita una posizione di garanzia in relazione alla tutela della salute psichica e fisica della paziente ricoverata presso l’Istituto, e questo a prescindere dalla sua veste di medico di turno in servizio nella notte tra il 4 ed il 5 aprile del 2003, incombendo su di lui l’obbligo di controllare costantemente la paziente nelle prime ore dopo il trauma subito e di attivarsi prontamente per prevenire le prevedibili complicanze neurochirurgiche.
Ed infatti, per come lo stesso ctu dr. Fiore aveva evidenziato (pag. 24): “nel caso di specie non viene riportata la valutazione in base alla Glasgow Coma Scale ma fu comunque visitata dal Medico di Guardia, l’osservazione clinica è iniziata immediatamente da parte degli Infermieri e del Medico di Guardia perché era ricoverata: non fu invece eseguita una TAC cranio basale rientrando il caso nel trauma cranico lieve con grado di rischio intermedio perché paziente in terapia con Coumadin e quindi secondo protocollo era consigliabile eseguire la TC del cranio inizialmente e successivamente al variare delle condizioni neurologiche. - Solo alle ore 05.00 del 05.04.03 a 6 ore e venti minuti dalla caduta dal letto quando sopraggiunge un improvviso deterioramento dello stato di coscienza con lo stato soporoso, l’ipotonia dell’emisoma sinistro la P.A. 220/110 viene messa in
atto la terapia d’urgenza anti-edemigena (glicerolo e lasix) e il meccanismo di
trasferimento presso l’Ospedale di Terracina in quanto l’Istituto Fisioterapico
di Riabilitazione non è in possesso di TAC cerebrale”.
Deve ritenersi che questo dimostri l’inadempimento del medico appellato e la sua diretta responsabilità nella determinazione dell’evento (già attribuito a responsabilità anche della Casa di cura).
Pertanto, le due parti qui appellate debbono rispondere in via solidale dei danni cagionati alla paziente, e per essa ai suoi eredi, ed in difetto di elementi probatori su cui poter fondare una decisione di effettiva graduazione delle loro reciproche responsabilità nella determinazione dell’evento finale, entrambi i responsabili dovranno tener conto del criterio presuntivo di cui all’art. 2055, comma 3, c.c..
Prima di passare alla quantificazione del danno, occorre affrontare la questione
relativa alla eccepita prescrizione del diritto vantato dai nipoti della defunta; questione riproposta in questo grado dal dr. S che ha evidenziato come “i
nipoti non si sono mai costituiti parte civile nel procedimento penale intrapreso né hanno mai
interrotto alcun termine di prescrizione”.
L’eccezione è infondata.
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Trattandosi di responsabilità contrattuale il termine di prescrizione è quello decennale (Cass. civ., sez. III, 19-04-2006, n. 9085); e poiché la citazione di I grado era stata notificata al dr. S il 18.12.2012 rispetto al decesso della paziente avvenuto il 5.04.2003, il decennio non era ancora decorso.
II) Passando alla determinazione del risarcimento del danno richiesto dai singoli appellanti (già attori) è necessario partire dalla posizione delle tre figlie della defunta che hanno chiesto il danno da esse subito, oltre a quello subito dalla congiunta ed a loro trasferito in via ereditaria (e a tal riguardo dovendosi tenere conto di quanto esposto nella citazione di I° grado a pagina 18 e seguenti).
IL DANNO x LE FIGLIE. Senza dubbio deve essere riconosciuto alle appellanti il danno non patrimoniale
per la perdita del rapporto parentale legato alla morte del proprio genitore che è una tipica voce di danno a più facce afferente anche le sofferenze di tipo morale subite dalla persona (cfr. tra le più recenti Cass. civ., sez. III, 08-07-2014, n. 15491: <<il danno qualificabile come «edonistico» per la perdita del rapporto parentale deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale iure proprio; infatti il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. preclude un risarcimento separato e autonomo per ogni tipo di sofferenza patita dalla persona, fermo l’obbligo del giudice di tener conto nel caso concreto di tutte le peculiari modalità di manifestazione del danno non patrimoniale, così da assicurare la personalizzazione della liquidazione>>).
Questa Corte, infatti, ritiene del tutto condivisibile il principio “contenitivo/restrittivo”, affermato dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza dell’11 novembre 2008 n.26974, per cui dà luogo a una duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione, al familiare della persona defunta (o gravemente lesa al punto da determinarne lo stato vegetativo o il coma), del danno morale e del danno da perdita del rapporto parentale, in quanto la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita dai familiari e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subìta non sono ontologicamente diverse e sottendono lo stesso disagio psichico e, dunque, la lesione del medesimo bene della vita; per contro, il danno morale che degeneri in pregiudizio alla sfera psichica - traducendosi in un danno di tipo biologico - non può essere considerato un «mero doppione» del danno da perdita del rapporto parentale ma – tuttavia - necessita di una specifica domanda, oltre che della prova della sua concreta ricorrenza. Premesso ciò, al fine della concreta determinazione del danno spettante alle
sigg.re T deve farsi uso delle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano (edizione
2014); tali tabelle possono essere applicate in virtù del richiamo che la Suprema
Corte ha inteso fare con la nota sentenza n.12408/2011, con la precisazione che “le
tabelle elaborate dal Tribunale di Milano a partire dal 2009, che la sentenza Cass. n.
12408/11 ha dichiarato applicabili, da parte dei giudici di merito, su tutto il territorio
nazionale, non hanno mai cancellato la fattispecie del danno morale intesa come voce
integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale; tali tabelle, infatti,
propongono la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale conseguente alla lesione
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permanente dell'integrità psicofisica suscettibile di accertamento medico legale e del danno non patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di dolore, sofferenza soggettiva in via di presunzione in riferimento a un dato tipo di lesione, vale a dire la
liquidazione congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di danno biologico standard, personalizzazione del danno biologico, danno morale” (così Cass. 12.9.2011 n.
18641).
Le tabelle in uso presso il Tribunale di Milano prevedono i seguenti importi per il caso di perdita del genitore a favore di ciascun figlio:
una somma tra €. 163.990,00 ed €. 327.990,00;
con una forbice di risarcimento che deve essere colmata facendo ricorso a tutte le circostanze del caso concreto e tenendo conto che: a) la categoria generale del danno non patrimoniale, attinente alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di scambio, è di natura composita e si articola in una pluralità di aspetti, quali il danno morale (da intendersi nella duplice accezione di patema d’animo e di lesione alla dignità o all’integ rità morale), il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o c.d. esistenziale; b) il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere all’esatta commisurazione del pregiudizio, sicché se ne impone la valutazione equitativa, da condursi con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, dovendosi considerare in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione e facendo ricorso a criteri idonei a consentire la personalizzazione del ristoro, al fine di pervenire a una liquidazione equa, e cioè congrua, adeguata e proporzionata; c) in virtù del principio dell’integralità del ristoro, la liquidazione del danno non patrimoniale non deve essere puramente simbolica o irrisoria o comunque priva di correlazione all’effettiva natura o entità del danno, ma deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento e deve comprendere tutti gli aspetti della composita categoria del danno non patrimoniale, pur evitando inammissibili duplicazioni, il giudice, nel liquidare il danno non patrimoniale, deve dare conto del particolare significato che ha attribuito al danno morale, e cioè se lo abbia valutato non solo quale patema d’animo, sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva o interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale e riconoscere il danno da perdita del rapporto parentale o esistenziale in caso di sconvolgimento della vita subìto da uno dei congiunti per la morte dell’altro (cfr. Cass. civ., sez. III, 23-01-2014, n. 1361).
Nel caso in questione tenuto conto che si tratta di morte dovuta a carente assistenza di una paziente ricoverata presso una struttura sanitaria, per un soggetto dell’età di anni 78 (essendo nata il 21.06.1924) che conviveva con l’anziano marito, e che aveva anche tre figlie (all’epoca del decesso esse avevano una età di anni 54 – 51 - 49) che in difetto di prova positiva devono essere considerate tutte come non conviventi con la madre al momento dell’evento, si ritiene di poter riconoscere il danno non patrimoniale per la morte della congiunto nella somma di € 200.000,00 per la odierna parte attrice, con valutazione all’attualità .
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La somma sopra liquidata non può essere ulteriormente aumentate per
l'incidenza della svalutazione monetaria maturatasi post factum perchè in questa
sede si è proceduto ad una liquidazione con valutazione con moneta attuale, posto
che il criterio tabellare è frutto di liquidazione eminentemente equitativa che
tiene conto dei valori attuali, e che la rivalutazione non è altro che il mezzo di
attualizzazione, alla data della decisione, dell'ammontare del debito di valore fatto
valere dal creditore.
Inoltre la suddetta somma che viene calcolata come già valutata all’attualità ed adeguata anche con il calcolo di interessi legali dal fatto ad oggi ritenendo questa Corte di poter condividere il principio circa la possibilità da parte del giudice di effettuare una liquidazione equitativa globale in una unica somma, comprendente sia la prestazione principale che quella relativa agli accessori, ove sussistano le condizioni di cui all'art. 1226 c.c., senza la necessità di specificazione dei singoli elementi della liquidazione (cfr. Cass. n. 14678 del 2 ottobre 2003; Cass. n. 10089 del 12 ottobre 1998; Cass. n. 2910 del 13 marzo 1995, Cass. civ., sez. lav., 04-02-2011, n. 2771).
La somma determinata, pertanto, andrà aumentata dei soli interessi al tasso
legale dalla data della sentenza al saldo.
Le appellanti hanno chiesto, inoltre, il risarcimento del danno subito dalla madre
prima e collegato al c.d. danno biologico subito per effetto della caduta e sino al
decesso.
La pretesa va accolta perché si ritiene di dover considerare rilevante ed
apprezzabile il lasso temporale di ipotizzabile sofferenza patita dalla vittima per il
fatto colposo attribuito alle parti appellate; ed in questo seguendo i criteri
delineati dal Supremo Collegio (v. per tutte Cass. civ., sez. III, 19-10-2016, n.
21060: <<il diritto al risarcimento del c.d. danno biologico terminale è configurabile,
e conseguentemente trasmissibile iure hereditatis, ove intercorra un apprezzabile
lasso di tempo (nella specie, dieci giorni) tra le lesioni colpose e la morte causata
dalle stesse, essendo irrilevante, al riguardo, la circostanza che, durante tale
periodo di permanenza in vita, la vittima abbia mantenuto uno stato di lucidità, il
quale costituisce, invece, il presupposto del diverso danno morale terminale>>).
Le caratteristiche del fatto oggetto del presente giudizio e la effettiva durata
temporale intercorsa tra la caduta della sig.ra N (intorno alle ore 22,40 del
4.4.2003) e l’accertamento del decesso (avvenuto alle ore 19,15 del 6.4.2003 dopo
l’esecuzione dell’intervento neuro-chirurgico) spingono ad affermare che la
paziente subì una compromissione, temporanea, della sua integrità psico/fisica.
In questa prospettiva nelle pronunce intervenute più di recente vale segnalare
la precisazione per cui il danno biologico terminale, ovvero il danno subito dal de cuius nell'intervallo di tempo tra la lesione del bene salute e il sopraggiungere
della morte conseguente a tale lesione rientra nel danno da inabilità temporanea, la
cui quantificazione equitativa va operata tenendo conto delle caratteristiche
peculiari di questo pregiudizio, consistenti nel fatto che si tratta di un danno alla
salute che, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità (cfr.
Cassazione civile sezione 3^ n. 7632 del 16 maggio 2003), in quanto danno da
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inabilità permanente il danno biologico terminale si verifica sempre quando uno
spazio temporale intercorra fra lesione e morte a causa di essa. In questa
prospettiva l'apprezzabilità dello spazio intertemporale richiesta dalla
giurisprudenza (Cass. sezione 3^, n. 9959 del 28 aprile 2006, Cass. n. 6946 del 22
marzo 2007) consiste nel requisito di una netta separazione temporale fra i due
eventi che valga a distinguere la loro verificazione nel tempo. Verificatosi questo
requisito il danno biologico terminale è sempre esistente per effetto della
percezione anche non cosciente della gravissima lesione dell'integrità personale
della vittima nella fase terminale della sua vita (in termini vedi Cass. civ., sez. III,
28-08-2007, n. 18163).
In via equitativa il danno liquidabile a tale titolo, ed jure hereditatis alle
appellanti T, appare congruamente conteggiato in €. 10.000,00; somma considerata
tenendo conto della tabella milanese 2016 per il danno non patrimoniale terminale
ridotto del 50% (considerato che quella tabella ha calcolato nelle somme un
importo “comprensivo della componente biologica temporanea”).
Somma che viene calcolata come già valutata all’attualità ed adeguata anche
con il calcolo di interessi legali dal fatto ad oggi ritenendo questa Corte di poter
condividere il principio circa la possibilità da parte del giudice di effettuare una
liquidazione equitativa globale in una unica somma, comprendente sia la prestazione
principale che quella relativa agli accessori, ove sussistano le condizioni di cui
all'art. 1226 c.c., senza la necessità di specificazione dei singoli elementi della
liquidazione (cfr. Cass. n. 14678 del 2 ottobre 2003; Cass. n. 10089 del 12 ottobre
1998; Cass. n. 2910 del 13 marzo 1995, Cass. civ., sez. lav., 04-02-2011, n. 2771).
IL DANNO x IL CONIUGE (poi deceduto il 25.12.2003)
Osserva la Corte che le appellanti, eredi anche del defunto padre sig. A T, hanno
evidenziato che il loro congiunto era deceduto pochi mesi dopo la morte della
moglie, allegando che tale decesso fosse collegato alle ripercussioni di ordine
morale e psicologico patite post/evento; il che, all’evidenza, impone di fare
applicazione del principio giurisprudenziale che segue: “in tema di risarcimento del danno biologico, ove la persona offesa sia deceduta per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del danno spettante agli eredi del defunto iure successionis va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato, e non a quella probabile, in quanto la durata della vita futura, in tal caso, non costituisce più un valore ancorato alla mera probabilità statistica, ma è un dato noto (Cass. civ., sez. III, 18-01-2016, n. 679).
E poiché risulta che il sig. A T era deceduto dopo 8 mesi e 19 giorni (6.4.2003 ->
25.12.2003) senza prova alcuna di danni ulteriori oltre a quelli già sopra delineati
con riferimento alle tre figlie (in merito cfr. Cass. civ., sez. III, 19-10-2016, n.
21060: <<nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale
diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (c.d. danno da rottura del
rapporto parentale) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il
superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la
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dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è
onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va
adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni
generiche, astratte od ipotetiche>>), il danno va liquidato come segue.
Come già evidenziato la Corte di Cassazione, con la pronuncia a Sezioni Unite n.
26972/2008, ha inteso - superando definitivamente la nozione di danno morale
soggettivo transeunte automaticamente legato al pregiudizio alla salute -
ricondurre ad una unitaria voce di danno tutti i pregiudizi non patrimoniali connessi
alla lesione della integrità psicofisica del soggetto vittima di un illecito, sulla
scorta dell’apprezzamento delle sofferenze concrete - anche sotto l’aspetto
relazionale ed esistenziale - patite dal danneggiato e del pregiudizio estetico ad
esso residuato.
Al tempo stesso, proprio per evitare duplicazioni risarcitorie, si deve verificare se
la liquidazione tabellare base sia realmente satisfattiva del pregiudizio, ovvero se
sussistano fattori ulteriori ricollegati alla fattispecie concreta che importino la
necessità di un incremento della liquidazione (non più automatica nell’an e nel
quantum, come avveniva nella prassi con la dicotomia danno biologico/danno
morale).
Nella fattispecie si deve tuttavia tenere conto della durata effettiva della vita e
non della vita presunta.
Alla valutazione probabilistica connessa con l'ipotetica durata della vita del
soggetto danneggiato va sostituita quella del concreto pregiudizio effettivamente
prodottosi, cosicché l'ammontare del danno biologico che gli eredi del defunto
richiedono "iure successionis" va calcolato non con riferimento alla durata
probabile della vita del defunto, ma alla sua durata effettiva, pur tenendo conto
del fatto che nei primi tempi il patema d'animo è più intenso rispetto ai periodi
successivi (nello stesso senso da ultimo Cass.13331/2015).
In ossequio a tale principio, va liquidato in via equitativa il cosiddetto danno
intermittente per il periodo di poco superiore agli 8 mesi di sopravvivenza (gg.259)
del sig. T A, ed in applicazione, non totale ma meramente indicativa, dei criteri
elaborati nel 2016 dal Tribunale di Milano, il danno può essere liquidato nell’importo
complessivo di €. 74.000,00 [€ 10.000,00 per i primi tre giorni e € 250,00 per
ciascun giorno successivo = 256 x 250 = 64.000,00].
Somma che viene calcolata come già valutata all’attualità ed adeguata anche con
il calcolo di interessi legali dal fatto ad oggi ritenendo questa Corte di poter
condividere il principio circa la possibilità da parte del giudice di effettuare una
liquidazione equitativa globale in una unica somma, comprendente sia la prestazione
principale che quella relativa agli accessori, ove sussistano le condizioni di cui
all'art. 1226 c.c., senza la necessità di specificazione dei singoli elementi della
liquidazione (cfr. Cass. n. 14678 del 2 ottobre 2003; Cass. n. 10089 del 12 ottobre
1998; Cass. n. 2910 del 13 marzo 1995, Cass. civ., sez. lav., 04-02-2011, n. 2771).
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IL DANNO x I NIPOTI
La risarcibilità dei danni morali per la morte di un congiunto presuppone, oltre al rapporto di parentela, anche la perdita, in concreto, di un effettivo e valido sostegno morale, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per il tipo di parentela, non abbia diritto di essere assistito anche moralmente dalla vittima; in particolare, devono senz’altro considerarsi come aventi diritto al risarcimento il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli e le sorelle (in breve, tutti i componenti della c.d. famiglia nucleare, per i quali appare irrilevante anche la cessazione della convivenza); quanto agli altri parenti ed affini (nipoti, zii, cugini, cognati ecc.), la legittimazione attiva può esser loro riconosciuta soltanto se, oltre all’esistenza del rapporto di parentela o di affinità, concorrano ulteriori circostanze atte a far ritenere che la morte del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno morale.
Soccorre a tale generale valutazione anche la composizione parentale considerata nelle tabelle di risarcimento in uso presso il Tribunale di Milano, che arriva fino al caso del danno per il nonno per la morte di un nipote.
Nel caso in esame gli appellanti si sono limitati ad affermare che tutti i nipoti (di età compresa tra i 15 e 31 anni al momento del decesso della nonna) avevano un rapporto ultradecennale con la congiunta e che la morte aveva avuto su di loro una grave ripercussione morale e relazionale; senza provare od allegare come in concreto si svolgessero i rapporti tra i singoli nipoti e la nonna Lucia, essendo fatto notorio che con l’aumentare dell’età e il superamento dell’adolescenza i giovani si allontanano sempre più dalla famiglia e diradano i rapporti di affetto e frequentazione soprattutto con le persone più anziane (sulla necessità di questo specifico controllo e approfondimento si veda Cass. civ., sez. III, 06-09-2012, n. 14931 che aveva cassato la sentenza del giudice di appello che era pervenuto alla liquidazione del danno parentale in maniera indiscriminata in favore di ciascun nipote, con il mero ricorso al metodo tabellare; in tal modo dimostrando di non avere svolto alcuna individuale indagine, neppure in via presuntiva, circa l'intensità del rapporto sussistente tra i nonni i ciascuno dei nipoti; tanto più che non è neppure possibile ipotizzare (anche presuntivamente) che così numerosi nipoti fossero tutti nel medesimo rapporto con i nonni).
III) LA MANLEVA ASSICURATIVA.
L’appellato Istituto ha ribadito in questo grado la domanda di manleva nei confronti della propria Compagnia A Ass.ni S.p.A., e la stessa è ammissibile e fondata.
L’ammissibilità deriva dalla circostanza stessa della natura della domanda di
manleva azionata dal convenuto che, in esito al giudizio di I grado, abbia visto respinta la domanda del danneggiato che si era rivolto nei suoi diretti confronti; in tale situazione l’assicurato, a fronte dell’appello del danneggiato soccombente, deve solo riproporre la domanda di manleva innanzi al giudice di secondo grado non essendo necessario l’appello incidentale proprio perché la sentenza di I grado non lo aveva visto affatto soccombente.
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La riproposizione della domanda di manleva legittimava l’Istituto a chiedere la garanzia assicurativa in caso di eventuale riforma della decisione di I grado (garanzia che si stende, come appare del tutto palese, anche al fatto commesso tramite dipendenti o collaboratori della struttura sanitaria, quale era il medico di guardia dr. S).
Nel merito la domanda di manleva è fondata essendo basata sulla polizza sottoscritta a suo tempo con la A Ass.ni S.p.A. con il limite del massimale ivi indicato.
IV) IL REGRESSO DELLA COMPAGNIA A ASS.NI.
Già in primo grado la chiamata in causa A ass.ni aveva esercitato il diritto di regresso nei confronti del dr. S per le responsabilità a quest’ultimo attribuite in via solidale o sussidiaria con la propria assicurata.
Orbene, evidenziato che in tema di assicurazione della responsabilità civile, nel caso
in cui l’assicurato sia responsabile in solido con altro soggetto, l’obbligo indennitario
dell’assicuratore nei confronti dell’assicurato, nei limiti del massimale, non è riferibile
alla sola quota di responsabilità dell’assicurato operante ai fini della ripartizione della
responsabilità tra i condebitori solidali, ma concerne l’intera obbligazione
dell’assicurato nei confronti del terzo danneggiato, ivi compresa quella relativa alle
spese processuali cui l’assicurato, in solido con il coobbligato, venga condannato in
favore del danneggiato vittorioso, solo in tal modo risultando attuata
- attraverso la conformazione della garanzia sulla obbligazione - la funzione del contratto di assicurazione della responsabilità civile di liberare il patrimonio dell’assicurato dall’obbligazione di risarcimento, ferma restando la surroga dell’assicuratore, ex art. 1203, n. 3, c.c., nel diritto di regresso dell’assicurato nei confronti del corresponsabile, obbligato solidale (Cass. civ., sez. III, 20-11-2012,
n. 20322), nel caso concreto il diritto qui azionato non ha necessità di accertamento e dichiarazione espressa essendo già previsto per legge e per il suo concreto operare è necessario che l’assicuratore verifichi il come ed il quando i danneggiati avanzino richiesta di pagamento in base alla presente pronuncia.
Sull’onere delle spese processuali. In conseguenza dell’esito finale del giudizio le parti qui appellate – parti
soccombenti - vanno condannate in solido al pagamento delle spese dei due gradi del giudizio, a favore degli appellanti (intesi e considerati come unica parte); spese liquidate tenuto conto del valore della controversia (il decisum pari alla somma attribuita: valore tra 260.000 e 520.000 euro) e delle attività compiute dal loro procuratore nel corso del giudizio secondo i parametri ministeriali attualmente in vigore - d.m. 10.3.2014 n.55 (che trovano applicazione per tutti i gradi di giudizio già svolti dovendo darsi rilievo al momento in cui il giudice procede alla loro concreta determinazione; cfr. Cass. civ., sez. un., 12-10-2012, n. 17405).
Per il I° grado (con 4 fasi processuali) applicandosi i valori “medi” si ottiene la
somma di €. 21.387,00 di compenso + spese vive (€ 507,00 per contributo
unificato).
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Per la causa avanti alla Corte di Appello i parametri ministeriali per le fasi processuali n.1 – 2 – 4 di tabella, prevedono un compenso di €. 13.560,00 + spese vive (777,00 contributo unificato).
Negli stessi importi di compenso vanno liquidate le spese che la A Ass,ni S.p.A.
deve rifondere alla assicurato Istituto. Infine, sussistono evidenti e giusti motivi per compensare le spese dei due
gradi del giudizio con riferimento alla posizione processuale dell’Istituto e del consorte in lite dr. S.
P. Q. M.
LA CORTE DI APPELLO DI ROMA
- Terza Sezione Civile -
definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione
respinta, così decide sull’appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma
emessa in data 22.07.2015 (depositata in data 29.07.2015 con il N. 16627/15)
proposto da T P + 8 nei confronti di Istituto S.r.l. (appellante incidentale), dr. S G
ed A Assicurazioni S.p.A.:
a) in accoglimento per quanto di ragione dell’appello proposto, ed in riforma della
sentenza appellata, Dichiara che il decesso di N L, avvenuto in data 6.04.2003, va
ascritto a fatto e responsabilità dell’Istituto. e del dr. S G; b) per l’effetto, Condanna l’Istituto., in persona del suo legale rappresentate
pro tempore, ed il dr. S G, in solido tra loro, al pagamento, in favore di T P della somma di €. 200.000,00#, con l’aggiunta degli interessi al tasso di legge
a decorrere dalla data della presente sentenza sino al saldo effettivo, in favore di T R della somma di €. 200.000,00#, con l’aggiunta degli interessi al
tasso di legge a decorrere dalla data della presente sentenza sino al saldo
effettivo, e in favore di T P, della somma di €. 200.000,00#, con l’aggiunta degli interessi al
tasso di legge a decorrere dalla data della presente sentenza sino al saldo
effettivo; c) Condanna ancora l’Istituto
S.r.l., in persona del suo legale rappresentate pro tempore, ed il dr. S G, in solido
tra loro, al pagamento, in favore di T P, T R e T P della ulteriore somma di €.
84.000,00#, con l’aggiunta degli interessi al tasso di legge a decorrere dalla data
della presente sentenza sino al saldo effettivo; d) Rigetta l’appello proposto, e di conseguenza anche la domanda di A R A A, R
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A, con compensazione delle spese dei due gradi del giudizio con riferimento alla
loro specifica posizione processuale;
e) Condanna le medesime parti indicate sub b) in solido tra loro, alla rifusione
delle spese processuali sostenute dalle appellanti sigg.re T P, R e P nei due gradi di
giudizio, liquidandole:
per il I° grado in €. 507,00 per spese e €. 21.387,00 per compenso (oltre
rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge),
e per questo giudizio di appello in €. 777,00 per spese ed €. 13.560,00 per
compenso (oltre forfettario, IVA e CAP come per legge);
f) condanna la A Assicurazioni S.p.A. a manlevare l’Istituto S.r.l. da quanto lo
stesso Istituto sarà chiamato a pagare in esecuzione della presente sentenza nei
limiti del massimale fissato nella polizza sottoscritta; con suo diritto e facoltà di
agire in regresso nei confronti del dichiarato corresponsabile dr. G S; g) Condanna, infine, la A Assicurazioni S.p.A. alla rifusione delle spese
processuali sostenute dall’Istituto S..r.l. nei due gradi di giudizio, liquidandole:
per il I° grado in €. 21.387,00 per compenso (oltre rimborso forfettario, IVA e
CAP come per legge),
e per questo giudizio di appello in €. 13.560,00 per compenso (oltre forfettario,
IVA e CAP come per legge);
h) Compensa le spese dei due gradi nei rapporti tra S G e l’Istituto S.r.l..
Così decisa in Roma nella camera di consiglio del 12.12.2017. Il Presidente est.
(dr. Giuseppe Lo Sinno)
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