Sebastiano Ricc (Belluni o 1659-Venezia 1734). Dodicenne ... · una vivace galleria di pittur...

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Sebastiano Ricci (Belluno 1659-Venezia 1734). Dodicenne era a Venezia, allievo di Federico Cervelli e poi dell'estroso Sebastiano Mazzoni; in pari tempo volgeva la sua attenzione alle pitture di Luca Giordano a Venezia. Il Ricci cioè si trova nel mezzo della crisi dell'arte veneziana e con la sua intelligenza curiosa e prensile va raccogliendo molti e diversi motivi da elaborare in modo personale, così da avviare un discorso nuovo. Nel 1678 è a Bologna per studiare gli artisti locali, poi raggiunge Parma, dove guarda al Cor- reggio, mentre dipinge con colore acceso e forti contrasti di chiaroscuro. Rag- giunge anche Roma e si avverte la sua attenzione alle opere di Pietro da Cortona. Nel '94 parte per la Lombardia, sostando a Pavia e a Milano. Quando torna di a poco nel Veneto è un pittore di cultura complessa, colorista ormai schiarito dai densi chiaroscuri e padrone di una vivacità compositiva. E in questo momento, ad apertura del Settecento, che attuando un'interpretazione rococò di altissimo gusto, ricorre con geniale slancio agli esempi del Veronese. Nel 1706-7 è a Fi- renze; nel 1708 dipinge e data a Venezia la pala di San Giorgio Maggiore, dove la sua personalità è quella di un maestro che riporta la pittura veneziana alla più aperta luminosità del colore e alle più ardite composizioni. Ancora a Milano nel 1711, vi conosce il Magnasco. Nel '12 col nipote Marco è a Londra; nel '16 è a Parigi. Pittore fecondo e prezioso, nel 1720 è di nuovo a Venezia e comincia a dipingere diverse tele per i Savoia, a diverse riprese fin verso il 1734. Altre opere sue partono per l'Inghilterra, comperate dal console Joseph Smith. La sua pittura, trasparente e vibrante, oltre a rinnovare i fasti dell'arte veneziana, è un veicolo di alti esempi rococò per tutta l'Europa. Luca Carlevarijs (Udine 1663-Venezia 1730). Ebbe Ì primi insegnamenti dal padre Giovanni Leonardo, pittore. Ma a sedici anni raggiunse Venezia, poi verso il 1685 andò a Roma e vide le «vedute» di Gasparo Vanvitelli. Ne portò il gusto in laguna, superando gli esempi di Giuseppe Heinz. Lo si considera l'iniziatore della pittura di vedute in Venezia e in effetti vi applicò una scienza prospettica per cui il paesaggio non è scena decorativa o folcloristica, ma già un deciso accertamento di realtà. La sua «veduta» tende sempre al grande, al monumentale, con effetti di nubi rosate e trasparenze azzur- rine, che si avvalgono ancora di visuali illusone più che di precise spazialità atmosferiche. Lavorò molto per i Contarini, dei quali decorò il Palazzo a San Trovaso. Molti dipinti suoi piacquero agli inglesi; l'ambasciatore Strange, in una volta sola, ne spedì una ventina a Londra, tra cui i diciassette dipinti con le «Feste del Doge».

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Sebastiano Ricci (Belluno 1659-Venezia 1734).

Dodicenne era a Venezia, allievo di Federico Cervelli e poi dell'estroso Sebastiano Mazzoni; in pari tempo volgeva la sua attenzione alle pitture di Luca Giordano a Venezia. I l Ricci cioè si trova nel mezzo della crisi dell'arte veneziana e con la sua intelligenza curiosa e prensile va raccogliendo molti e diversi motivi da elaborare in modo personale, così da avviare un discorso nuovo. Nel 1678 è a Bologna per studiare gli artisti locali, poi raggiunge Parma, dove guarda al Cor­reggio, mentre dipinge con colore acceso e forti contrasti di chiaroscuro. Rag­giunge anche Roma e si avverte la sua attenzione alle opere di Pietro da Cortona. Nel '94 parte per la Lombardia, sostando a Pavia e a Milano. Quando torna di lì a poco nel Veneto è un pittore di cultura complessa, colorista ormai schiarito dai densi chiaroscuri e padrone di una vivacità compositiva. E in questo momento, ad apertura del Settecento, che attuando un'interpretazione rococò di altissimo gusto, ricorre con geniale slancio agli esempi del Veronese. Nel 1706-7 è a Fi­renze; nel 1708 dipinge e data a Venezia la pala di San Giorgio Maggiore, dove la sua personalità è quella di un maestro che riporta la pittura veneziana alla più aperta luminosità del colore e alle più ardite composizioni. Ancora a Milano nel 1711, vi conosce il Magnasco. Nel '12 col nipote Marco è a Londra; nel '16 è a Parigi. Pittore fecondo e prezioso, nel 1720 è di nuovo a Venezia e comincia a dipingere diverse tele per i Savoia, a diverse riprese fin verso il 1734. Altre opere sue partono per l'Inghilterra, comperate dal console Joseph Smith. La sua pittura, trasparente e vibrante, oltre a rinnovare i fasti dell'arte veneziana, è un veicolo di alti esempi rococò per tutta l'Europa.

Luca Carlevarijs (Udine 1663-Venezia 1730).

Ebbe Ì primi insegnamenti dal padre Giovanni Leonardo, pittore. Ma a sedici anni raggiunse Venezia, poi verso il 1685 andò a Roma e vide le «vedute» di Gasparo Vanvitelli. Ne portò i l gusto in laguna, superando gli esempi di Giuseppe Heinz. Lo si considera l'iniziatore della pittura di vedute in Venezia e in effetti vi applicò una scienza prospettica per cui il paesaggio non è scena decorativa o folcloristica, ma già un deciso accertamento di realtà. La sua «vedu ta » tende sempre al grande, al monumentale, con effetti di nubi rosate e trasparenze azzur­rine, che si avvalgono ancora di visuali illusone più che di precise spazialità atmosferiche. Lavorò molto per i Contarini, dei quali decorò il Palazzo a San Trovaso. Molti dipinti suoi piacquero agli inglesi; l'ambasciatore Strange, in una volta sola, ne spedì una ventina a Londra, tra cui i diciassette dipinti con le «Feste del Doge» .

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Giovanni Antonio Pellegrini (Venezia 1675-1741).

Già in età giovanile, allievo del Pagani, si recò col maestro in Austria, rimanen­dovi sei anni. Era il primo dei suoi molti viaggi in Europa, portatore di una civiltà pittorica che avrebbe influito largamente sugli sviluppi del rococò europeo. Un viaggio a Roma sul finire del Seicento Io mise in contatto col fastoso barocco romano e quando torna a Venezia sposa la sorella minore di Rosalba Carriera (1704), già avviata a larga fama. Richiesti dal conte di Manchester, parte con Marco Ricci per l'Inghilterra, dove raggiunse largo successo. Nel 1715 è a Dus­seldorf, alla corte del Principe Elettore e dopo aver dipinto nel Castello Schless-heim, raggiunge i Paesi Bassi. Nel 1719 era all'Aja, torna a Londra poi va a Parigi e rientra a Venezia. A più riprese torna per lunghi soggiorni a Parigi, dove nel 1733 verrà nominato all'Accademia, e la sua ariosa pittura trasparente, di estrema raffinatezza, è importante per comprendere W'atteau e Fragonard. Va anche a W'ùrz-burg, chiamato dal Principe Vescovo, e poi sosta a Dresda e a Vienna. Nel 1730 è di nuovo nel Veneto e dipinge anche al Santo di Padova. Nel '36 è in Ger­mania per gli affreschi nel Castello di Mannheim. L'anno seguente rientra a Ve­nezia, dove muore di lì a pochi anni. La sua presenza in Europa come straordi­nario decoratore diffonde un virtuoso « capriccio» rococò del più raffinato e squisito gusto.

Rosalba Carriera (Venezia 1675-1757).

Fu allieva di Giovanni Steve, un miniaturista francese di Venezia, e tu ammi­ratrice dei dipinti di Christian Cole, un inglese. Ma l'incontro più risolutivo del suo destino di pittrice fu quello col Pellegrini, che ne sarebbe divenuto cognato. 1 suoi pastelli incontrarono tale successo, che la Carriera fu accolta all'Accademia di San Luca a Roma e fece ritratti per il regnante di Baviera. La fama come ritrattista si diffuse rapidamente in tutta Europa e non ci fu corte che non volesse suoi ritratti o addirittura la presenza dell'artista. Difatti nel 1720 andò a Parigi chiamata dal banchiere Crozat, e tornò a Venezia carica di onori. Anche il suo esempio pittorico influì notevolmente sul rococò europeo e francese in particolare. Lo stesso Pellegrini gli confessò il suo largo debito come pittore. Fu a Modena dagli F.stensi, nel 1723, e poi raggiunse Vienna per insegnare pittura all'impera­trice. Quando era a Venezia, principi e grandi personaggi frequentavano la sua casa per ottenerne il ritratto. Nel 1739 il Principe Elettore di Sassonia acquistò ben quaranta pastelli, ora a Dresda. Morto nel '42 il Pellegrini, prese con sè la sorella rimasta vedova. Visse ancora alcuni anni in maniera brillante, ma comin-

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ciarono le noie agii occhi, tanto che rimase cieca per tre anni, dal 1746 al '49. A seguito di intervento chirurgico recuperò la vista per breve tempo e di nuovo piombò nell'oscurità. Divenne scontrosa e malinconica e si perse in un vaneggia­mento mentale. I suoi ritratti, all'apparenza così frivoli, costituiscono al contrario una vivace galleria di figure. La pittura a pastello raggiunge estremi di grazia trasparente e perlacea, con tocchi di raffinatezza coloristica; ma nello stesso tempo la pittrice ha indagato sotto le apparenze divaganti con una penetrazione psicolo­gica di forte carattere.

Marco Ricci (Belluno 1676-Venezia 1730).

Nipote di Sebastiano, ebbe dallo zio i primi insegnamenti. D i temperamento violento, pare sia fuggito a Spalato per aver ferito in rissa un gondoliere e vi rimase quattro anni, affidato al paesista anconetano Peruzzini (Pilo, 1963), che fu in contatto con Salvator Rosa e collaborò col Magnasco. Si è fatto l'ipotesi che Marco abbia accompagnato lo zio a Firenze e fu di certo a Roma. Era già noto in Inghilterra quando nel 1708 il Conte di Manchester lo invitò a Londra col Pellegrini. Due anni dopo, per dissensi col collega, rientrò a Venezia, di dove ripartì alla volta di Londra con lo zio Sebastiano. Pare sia stato ancora a Roma nel 1720; poi visse gli ultimi anni in casa dello zio, dove morì. Aperto e sensibile, anche per sua natura, allo spirito preromantico di Salvator Rosa e del Lissan-drino, avviò una pittura di paesaggio autonoma dalla tradizione e di forte carat­terizzazione. Se a Roma, tra le rovine antiche, coltivò il gusto dei «capr icc i» , seppe raggiungere nei paesaggi di terraferma veneta, tra paesi, campagne, acque correnti, monti azzurri e boschi selvatici un senso vivo del reale, sottolineandolo tuttavia di interpretazioni fantastiche. Questi incroci di realtà e di fantasia avven­gono anche con l'ausilio di ricerche luministiche, dal Ricci portate ansiosamente a effetti molto arditi e innovatori.

Jacopo Amigoni (Napoli 1682-Madrid 1752).

E un altro dei pittori vaganti veneziani. Nel 1711 appare nella Fraglia degli artisti di Venezia, il che vuol dire che vi abitava già da alcuni anni. Cresciuto nell'area del Solimena e di Luca Giordano, assorbe presto non pochi caratteri della pittura veneziana, del Balestra in particolare. Nel 1719 va in Baviera e vi rimase dodici anni, con un breve intermezzo a Roma e a Napoli, operando nei castelli e nelle chiese bavaresi. Poi raggiunge l'Olanda e di lì Londra, dove rimase fino al 1739. Col soprano Farinelli compie un viaggio a Parigi e infine torna a Venezia, dove

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rimane fino al 1747; dopo di che va a Madrid e vi muore cinque anni dopo, ha sua pittura elegante e preziosa non si impegna certo nei problemi della vita del tempo, si appaga di fornire ai suoi contemporanei favole mitologiche immerse in un clima pastorale e realizzate con una scioltezza coloristica di ariose evanescenze e di sorprendente abilità. Un preziosismo edonistico, una bellezza incantevole ma un poco artefatta.

Giambattista Piazzetta (Venezia 1683-1754).

Figlio di un modesto intagliatore in legno è avviato dal padre alla scultura, se­condo la testimonianza dell'amico Giambattista Albrizzi (1760); ma poi il ragazzo andò nella bottega di Antonio Molinari pittore e nei primissimi anni del nuovo secolo raggiunse Bologna, dove nel 1703 appare presso Giuseppe Maria Crespi. Nel 1711 figura iscritto nella Fraglia dei pittori veneziani e ciò vuol dire che da qualche tempo era tornato in patria. Sposatosi nel '25, ebbe sette figli; nel '27 è nominato socio dell'Accademia Clementina di Bologna. I l gusto «tenebroso» del Molinari, seguito dal Piazzetta anche per la sua inclinrzione severa e malinco­nica, si arricchisce delle esperienze coloristiche bolognesi e, dopo il 1720, di una rilettura dei pittori secenteschi come il Liss e lo Strozzi. L'Albrizzi difatti scrisse che da Bologna tornò con «un particolar suo modo di dipingere, notabile per la macchia forte e risoluta e per l'ingegnoso contrasto dei lumi» , dalla quale ma­niera non deve essere estranea la «macchia» del Guercino. Questo chiaroscuro densamente timbrato di luci improvvise fu, in Venezia, rinforzato dagli esempi del Bencovich e si pose di traverso alla corrente luminosa e schiarita, neo-verone-siana, del rococò di Sebastiano Ricci e del Pellegrini. Non esce mai di Venezia, pittore moderno ma chiuso in suo drammatico esame introspettivo. A lui guar­derà anche i l Tiepolo giovane. Come si è detto, dopo i l 1720 il chiaroscuro acco­glie una luce più distesa che accentua i contrasti cromatici. Le sue composizioni si svolgono quasi sempre senza elementi di contorno, senza alberi cioè, senza architetture, figure emergenti a zig-zag repentini da un infinito d'ombra con im­provvisi e persino brutali brani di realtà naturalistica. Con la pala dei Gesuati (1738) la luce invade i l quadro, i bianchi si esaltano in grassi impasti schiumosi. D i questa nuova maniera sono testimoni la «Rebecca al pozzo» di Brera e la «Indo­vina» di Venezia. Anche i l suo accento drammatico si apre in questo periodo a una visione intima e confidenziale, profondamente emotiva, come si vede nella stupenda «Scena pastorale» di Chicago e nelP«Idill io sulla spiaggia» di Colonia. Nel 1750 insegna all'Accademia della sua città; ma solitario e puntiglioso com'era, ormai estraneo al gusto prevalente, visse in dolorosa indigenza gli ultimi anni della vita.

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Giambattista Pittoni (Venezia 1687-1767).

Suo zio Francesco, modesto pittore, gli fu maestro, ma il Pittoni ebbe occhi aperti per studiare le opere dei suoi contemporanei, fossero i l fiammeggiante Sebastiano Ricci o il drammatico Piazzetta o il veronese Balestra, che raccolse motivi barocchi un po' dovunque in Italia, da Roma a Napoli: ed è proprio per questo tramite, come ha rilevato il Pallucchini, che filtrano nel Pittoni certe flessuose pennellate e ricchezze di colore e dì luci. Poco dopo il 1720 esegue il «Mart i r io di San Tommaso» per la chiesa veneziana di San Stae, dove gareggiavano in quegli anni i migliori artisti del momento, dal Bambini al Lazzarini, dal Balestra al Ricci, all'Angeli, al Piazzetta, al Tiepolo. Dopo il 1730 lavora per la corte di Torino e dal 1735, per intervento del Juvara, cominciano i suoi rapporti con la corte di Madrid. Superati la drammaticità e il chiaroscuro del Piazzetta, cui si era avvici­nato in un primo tempo, e sviluppando l'esempio contrapposto di Sebastiano Ricci, negli anni successivi il Pittoni dà corso a una pittura fastosa, nervosa, im­maginaria, fatta di vivacissimi contrasti cromatici e di scattante invenzione prospet­tica, con arditi tagli di sottinsù e forti sbattimenti di luce. È su questo impegno coloristico e luminoso, aperto agli effetti scenografici, che il Pittoni si accosta verso il 1740 al Tiepolo. In quest'orbita, ma con un senso addirittura orgiastico del colore, esegue l'affresco del soffitto di Ca' Pesaro. Fu tra i fondatori della Accademia veneziana e succedendo al Tiepolo, dal 1758 ne divenne presidente. L'arditezza del suo rococò, come riconobbe i l Lanzi, lo sfarzo e le piacevolezze sparse nella sua pittura, lo fecero mettere in disparte con la reazione neoclassica prima e naturalistica poi dell'Ottocento. Ma non c'è dubbio che i l Pittoni, aiutato dalla facilità dell'ingegno suo, come disse l'Algarotti, fu pittore di fervide inven­zioni decorative e di esaltanti doti coloristiche.

Giovambattista Tiepolo (Venezia 1696-Madrid 1770).

Allievo prima del Lazzarini e seguace poi del Piazzetta, inizia con opere di forte chiaroscuro, come provano i dipinti per San Stae e per i Carmini, questo ultimo a Brera. Nel 1719 sposa Cecilia Guardi, da cui avrà nove figli, ed è in rapporti con i due cognati, Gian Antonio e Gian Francesco Guardi. L'opera di Sebastiano Ricci, tornato da Londra nel 1717, gli apre le prospettive coloristiche di una nuova interpretazione veronesiana e negli affreschi di Udine (1726-'28) se ne vedono gli effetti perchè ha schiarito il colore, le luci, ammorbidito le forme, assumendo con indipendente personalità la nuova corrente rococò. A trent'anni i l successo cresce. Affresca a Milano nel 1731 Palazzo Archinto; in Palazzo Dugnani dipinge alcuni episodi della storia romana puntando su ricerche di arioso spazio atmosferico,

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con una sapienza che gli permette di riassumere realtà e fantasia in straordinaria sensibilità coloristica. Nel '32-'33 è a Bergamo per la Cappella Colleoni; l'anno dopo è al Biron e nel '36 rifiuta di recarsi a Stoccolma dal re. Ormai i suoi viaggi di lavoro si moltiplicano: torna a Milano per la basilica di Sant'Ambrogio, torna a Venezia per il soffitto dei Gesuati e nel '41 è di nuovo a Milano per l'allegoria marina e solare di Palazzo Clerici, dove sciorina spettacolari effetti di colore, di luci, di scorci, di fantasia narrativa. Lo spazio, invaso di atmosfere trasparenti, si dilata all'infinito e le figure vi stanno immerse con risalti di colori splendenti. In due anni, 1743-44, affresca il soffitto degli Scalzi a Venezia. Dopo aver lavorato per molte famiglie patrizie e chiese in Venezia e in terraferma, nel 1750 parte per Wùrzburg, chiamato a dipingere nella Residenza del Principe Vescovo, dove nel 1753 firma lo strepitoso affresco sullo scalone con i quattro continenti allora cono­sciuti, in un vorticoso lancio di figure nello spazio. Sono con lui i figli Gian Do­menico e Lorenzo. Tornato nel Veneto, esegue altre parecchie opere, tra le quali gli affreschi della Valmarana a Vicenza, la pala del Duomo di Rste e il salone di Villa Pisani a Strà. La pittura, sempre più leggera e volante, si volge con pennel­late suntuarie ed estremamente rapide. Lo stesso disegno tende a sciogliersi nel riverbero colorato. Ancora accompagnato dai figli, nel 1761 parte per Madrid. Tre anni dopo ha finito l'affresco del Palazzo Reale e comincia a dipingere le sette pale per la chiesa di Aranjuez. Però le idee neoclassiche portate in Spagna dal Mengs mettono il punto fermo al successo del Tiepolo, che assiste amareggiato alla discesa dagli altari delle sette tele. Lo smagliante rococò non appaga più i nuovi clienti. La sua fortuna è conclusa e comincia i l silenzio, che una volta spen­tosi il pittore fuori di Venezia, durerà oltre un secolo.

Antonio Canal detto il Canaletto (Venezia 1697-1768)

Nacque in una famiglia di scenografi e seguì per qualche tempo la stessa attività; difatti col padre e il fratello nel 1716 dipinge le scene per il Teatro di Sant'Angelo e più tardi per il Teatro di San Cassiano. Nel 1719 va a Roma per dipingere dal vero e certo guarda ai dipinti dei paesaggisti nordici, numerosi in quella città, saturato dagli artifici teatrali e dall'irrealtà barocca. D i gusto nuovo sono difatti i paesaggi romani che egli dipinge, dove ritrae le rovine, i templi, le piramidi, con una decisa propensione al «capriccio» in questo periodo, cioè al paesaggio di fantasia che accosta monumenti tra loro lontani, come faceva già Marco Ricci. Però su questi nuovi soggetti il Canaletto si esercita per raggiungere man mano «quella certezza di verità assoluta» che Roberto Longhi gli riconosce come carat­tere prevalente della sua stupenda creazione vedutistica. Nel 1723, da tempo ritor­nato a Venezia, già dipinge le vedute della sua città e il successo dovette arridergli

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presto se raccoglitori forestieri, di Lucca o d'Inghilterra, gli richiedono quadri. I l successo non è condiviso dall'Accademia, che considera la veduta un'attività di poco conto. Verso il 1730 è a Venezia i l console Joseph Smith, intelligente amatore d'arte e un poco mercante; e sarà questo console uno dei maggiori acqui­renti di questi quadri. Serie intere di vedute veneziane passano nelle sue mani e partono per l'Inghilterra e anzi per anni il Canaletto è da lui impegnato a pro­durne, quasi in sua esclusiva. Per qualche tempo ebbe vicino i l nipote Bernardo Bellotto, almeno fino al viaggio che costui compie nel '47 verso Dresda. I l francese Charles De Brosses, che lo aveva avvicinato nel 1739, afferma che è tra i po­chissimi pittori italiani da prendere in considerazione. I l suo giudizio è ingiustamente limitativo per la pittura italiana; ma è giusta l'estimazione che egli professa per il Canaletto. Nel '42 è di nuovo a Roma; nel '46 parte per Londra, dove rimane fino al 1750, non sempre accolto con favore. A metà dell'anno successivo riparte per Londra e vi rimarrà fino al 1755. Le vedute inglesi hanno un colore più calmo, una luce più distesa e soffice. Malgrado la fama e i successi, l'Accademia continua ad essergli ostile; vi fu ammesso difatti soltanto nel 1765, quasi settantenne. L'anno seguente compie i disegni per le feste dogali, incise dal Brustolon e serviti anche a Francesco Guardi. SÌ possono trascrivere le parole che il suo contemporaneo Gian Antonio Moschini gli dedicò: «Antonio Canale veneziano particolarissimo dipintore di vedute, al quale e nell'intelligenza e nel gusto e nella verità, pochi fra gli scorsi e nessuno tra i presenti si può trovare che si accostano».

Gianantonio Guardi (Vienna 1699-Venezia 1760)

Figlio primogenito del pittore Domenico, a diciassette anni eredita la bottega del padre assieme ai fratelli Maria Cecilia (che sposerà Giambattista Tiepolo), Francesco e Nicolò. Tra i suoi primi clienti c'è il Maresciallo della Serenissima, Schulenburg, che lo retribuisce per eseguire copie di quadri celebri, con un accordo che dura fino al 1747. Tra le copie figura la «Cena di Cana» del Veronese ora a! Louvre. Copie vengono eseguite dalla bottega dei Guardi per altre famiglie veneziane, ad esempio i Giovannelli. Nel 1738 vengono collocate nella chiesa di Vigo d'Anau­nia le tre lunette, famose anche per le discussioni suscitate per l'attribuzione all'uno o all'altro dei Guardi. I l problema delle attribuzioni diventa diffìcile, anche perchè, come capofamiglia, a Gianantonio vengono fatti i pagamenti per quadri eseguiti nella bottega guardesca, anche se l'autore non è il capo-bottega. Nel 1750, da quanto si deduce dalle lettere di Francesco a Carlo Cordellina di Vicenza, i due fratelli erano già divisi. Nel 1755 Gian Antonio venne nominato socio dell'Acca­demia veneziana. Si apprende da recentissimi ritrovamenti di atti nell'archivio di Santa Maria Formosa a Venezia che, alla morte di Domenico Guardi avvenuta

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il 16 ottobre 1716, egli lasciò oltre ai già noti figli Gian Domenico, Cecilia, Fran­cesco e Nicolò, altri due figli: Jseppo Benedetto (nato i l 2 febbraio 1705 e morto l'8 luglio 1706), e Jseppo Benedetto Pietro, nato il 29 giugno 1709, vissuto in casa certamente fino al 1743 e di cui in seguito si ignora la sorte, forse perchè trasferito altrove. Da queste date è quindi possibile chiederci se abbia anche lui lavorato da pittore, almeno fino al 1743, nella bottega paterna, ereditata nel 1716 dal primogenito Gian Domenico.

Francesco Zuccarelli (Pitigliano, Firenze, 1702-1788)

Nel 1717, per informazione data dal Tassi ( «Le vite de7 pittori. . .» 1793, I I , p. 86), 10 si sa a Roma preso dal gusto cortonesco; si avviò alla pittura di paesaggio sugli esempi di Paolo Anesi e di altri, e soprattutto di Andrea Locatelli che a Roma proseguiva la tradizione del Domenichino, del Poussin e del Lorenese; ma si affermò in questo genere quando giunse a Venezia verso il 1732 e vide le opere di Marco Ricci. I l Tassi scrisse di lui perchè, dal '36, i l pittore soggiornò più volte a Bergamo; e come accadeva a molti altri pittori veneziani di quel tempo, acclamati in tutta l'Europa, raggiunse più volte Londra, Parigi, la Germania e l'Olanda. Lavorò a più riprese per il Maresciallo Schulenburg. Net 1743 l'Algarotti gli richiese diversi quadri di storia e mitologici da mandare alla Galleria di Dresda. Nel '63 fu ammesso all'Accademia di Venezia, divenendone presidente nel 1772. Da Marco Ricci prese amore per i l paesaggio, genere diverso dalla veduta, che gli permetteva di esprimere motivi di fantasia, che portò verso un'interpretazione arcadica e pastorale, secondo i l gusto diffuso dai letterati, tra alberi frondosi, paesi in lontananze sfumate, acque garrule e figure di donzelle e pastori che animano la scena con non poco artificio. Se sfiora a volte la leziosità preziosa, è tuttavia ammirevole il suo sentimento del paesaggio, immerso in una luce calda e vaporosa, con ombre vellutate e flabelli di alberi trasparenti sul cielo. I l suo modo di rendere 11 paesaggio ebbe non scarsa importanza sui pittori inglesi, che guardavano alle sue opere con l'interesse con cui guardavano ai dipinti dei paesaggisti olandesi. Dal Tassi apprendiamo pure che dipinse anche ritratti.

Pietro Longhi (Venezia 1702-1785)

Iniziato alla pittura dal veronese Balestra, passa poi alcuni anni nella bottega bolognese del Crespi e torna a Venezia intorno al 1730. Nel '32 si sposa e l'anno successivo nasce i l figlio Alessandro. Benché già pittore di fama, è iscritto alla Fraglia dei pittori dal '37. È stato anche pittoie di affreschi, nel 1745, nella cap­pella di Loreto in San Pantalon, ora frammentari e riconosciuti dal Valcanover (1956). Nel 1750 Carlo Goldoni gli dedica un sonetto in cui riconosce che la

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sua pirrura ritrae, come lui in reatro, la realtà del tempo: piccole figure, aristo­cratici e popolani, ambienti ben delincati e spesso riconoscibili, coloriti con mas­sima evidenza, come afferma il biografo Guarienti nel 1753. Fondatore dell'Acca­demia, vi rimase per tutta la vita. Il pittore è celebre, Gaspare Gozzi lo paragona a Tiepolo. I/apparente frivolezza dei soggetti dipinti non ha mai velato la sua importanza di pittore e di testimone diretto di una società sfarzosa, vista però al di fuori delle vicende ufficiali e più nelle sue faccende, nei giochi e nei conversari quotidiani. Definisce assai bene la sua personalità artistica un'altra dichiarazione di Goldoni: «Singolarissimo imitatore della natura, che ritrovata una originale maniera di esprimere in tela i caratteri e le passioni degli uomini, accresce prodi­giosamente la gloria del l 'arte» (1757).

Giuseppe Zais (forno di Canale, Agordo, 1709-Treviso 1784)

Il punto di partenza di questo pittore montanaro è in Marco Ricci, persona fonda­mentale del resto nel panorama della pittura veneziana del primo Settecento, da cui discendono molte invenzioni pittoriche e un'intelligenza nuova del paesaggio. Le prime opere dello Zais, due paesaggi con ruderi delle Gallerie di Venezia (cat. 846 e 847, probabilmente tolti dal convento di San Giorgio in Isola), rivelano chiaramente questa dipendenza dello Zais, verso il 1730. I l colore denso è forte­mente chiaroscurato e condotto in maniera più rustica. Secondo le vecchie fonti (G. A. Moschini, 1806), avrebbe schiarito le tinte e attuato una luminosità diffusa sull'esempio dello Zuccarelli; e l'emiliano Simonini gli fu d'esempio per quadri di battaglie. I suoi paesaggi conservano vivi ricordi delle montagne agordine, è una natura più aspra e accidentata, che lo Zais sfrutta con sagaci inscenature. Al suo confronto lo Zuccarelli è più prezioso, ma meno sincero. Dal 1748 compare nella Fraglia dei pittori; il console Smith gli acquistò non pochi dipinti; nel '65, presentando un saggio di pittura (« La fontana», oggi alle Gallerie veneziane, n. 447) fu accolto all'Accademia. Meno fortunato del collega Zuccarelli, fu presto dimenti­cato e come dice il Lanzi (1796) «mor ì come un mendico all'ospedale di Treviso» .

Michele Maneschi (Venezia 1710-1744)

I l padre forse gli insegnò qualche principio di pittura, ma morì quando Michele aveva appena undici anni e si pensa, anche perchè gli fu testimonio alle nozze, che maestro gli sia stato Gaspare Diziani. L'Orlandi (1753) nella biografia dà notizia di un suo viaggio in Germania, ma non dice dove nè quanto durò. Però nel 1735 il Maneschi era a Fano, perchè fornì alcuni disegni dei funerali colà fatti alla regina di Polonia. Il Morassi, che studiò gli archivi del maresciallo Schulenburg, appas-

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Bionato raccoglitore di pitture veneziane, ha trovato che il pittore nel 1736 rice­vette 50 zecchini per un quadro; l'anno seguente altri 55 zecchini per una veduta di Rialto e altre somme ancora per altri dipinti fino al 1740. Nel 1741 i ! Maneschi pubblicò, firmandole, le 21 vedute incise di Venezia. È ancora il Morassi a portare in luce criticamente i caratteri della pittura del Maneschi, ponendola in contatto col Canaletto per le vedute, mentre le figurette che compaiono nei quadri del Maneschi le attribuisce al Simonini, al Diziani, al Tiepolo, a Gian Antonio Guardi, opinione che il Pallucchini non condivide, ritenendole anch'esse del Maneschi nei momenti in cui il suo gusto si adegua ai suoi accrescimenti culturali. Anche la cronologia delle opere è ancora da stabilire e bisogna espungere quelle degli imi­tatori. 11 vedutismo del Maneschi ha più netta la derivazione dalla scenografia e risente di una pennellata corposa che rende più realistico il «mot ivo» , laddove il Canaletto è di una giustezza nei rapporti luce-colore-prospettiva di estrema lucidità. I l Maneschi, di intelligenza bizzarra, eccelle nei «capricci» e il suo mo­do pittorico aiuta a raggiungere un'invenzione originale e più libera.

Francesco Guardi (Venezia 1712-1793)

Terzogenito del pittore Domenico, alla morte del padre, avvenuta nel 1716, rimane nella bottega paterna ai SS. Apostoli a lavorare presso il fratello Gianantonio, divenuto capofamiglia. In tal modo gli inizi di Francesco e la successiva produzione si incrocia fittamente con quella del fratello maggiore, collaborando spesso al compimento di molti dipinti, tra i quali la importante pala di Belvedere, che è del 1746 circa e dove le diverse mani si sovrappongono. La divisione tra i due fratelli avviene in maniera più certa sui quadri di «veduta» che Francesco praticò con particolare successo, iniziando certo quella produzione ancor prima che il fratello morisse (1760). I l che vuol dire che, pur collaborando con Gianantonio, Francesco dipinse in maniera autonoma anche per opere di ispirazione sacra, come la stupenda cantoria dell'Angelo Raffaele. Tra le prime «vedute ideate» c'è quella firmata di Washington, del 1740 circa e di profonda ispirazione riccesca, tanto che si potrebbe dire quasi una derivazione letterale di quella di Sebastiano Ricci al Museo di Vicenza. La prova che già nel 1750 operava da solo è fornita dalle lettere spedite a Carlo Cordellina di Vicenza e in cui prende l'iniziativa di offrire alcuni quadri, senza mai accennare al fratello. A metà del secolo, mentre la sua genialità di pittore prende slancio, è persino facile osservare come Francesco tenga d'occhio il Canaletto e il Maneschi; ma secondo la giusta osservazione anche dello Zampetti, il vedutismo del Guardi si differenzia perchè si stacca dalla verità obiet­tiva per una trascrizione delle vedute di città e di laguna dettate da un'interna e sottile eccitazione fantastica, per cui anche la «veduta» più fedele finisce quasi

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sempre per apparire come un «capriccio», opera cioè di fantasia, che man mano diventa travolgente per spirito d'invenzione. Si capisce quindi come, su questa linea, anche le composizioni si dilatino e creino prospettive persino sbilenche. 11 colore si imbeve di una luce salmastra, scioglie gli impasti cromatici in una traspa­renza vetrina, che scintilla di gocce, di strappi, di improvvise lacerazioni d'atmosfera, con un effetto di immagine al limite della consistenza. Nel 1761 è iscritto alla Fraglia dei pittori. Nel '66 dipinge la serie delle feste per i l doge Mocenigo, servendosi dei disegni del Canaletto. La pala di Roncegno, che è del 1778, dimostra che Francesco non dipingeva solo vedute e «capr icc i» . Nel 1784 fu accolto nelTAcca­demia, quando era ormai più che settantenne.

Bernardo Bellotto (Venezia 1720-Varsavia 1780)

Sua madre era sorella del Canaletto e per questo motivo, ancor prima di lasciare l'Italia per le sue lunghe residenze nelle diverse capitali europee, si fece chiamare Canaletto, ingenerando più tardi confusione con le opere del grande zio. Ma in effetti i due pittori sono profondamente dissimili, almeno a partire dal viaggio a Roma del Bellotto, accaduto nel 1742: di un nitore quasi metafìsico il Canaletto che imposta le sue «vedute» sul colore luminoso; più attratto verso la nota­zione realistica, il colore denso e una luce fisicamente determinante il Bellotto. Nel 1744 Bernardo Bellotto è in Lombardia, poi è a Firenze, a Torino, a Verona, accentuando maggiormente la sua osservazione obiettiva e solida, marcata da valori grafici incisivi che lo zio risolve invece in rapporti più leggeri. Nel '47 i l Bellotto, accompagnato dalla famiglia si recò a Dresda, dove diverrà pittore di corte. Dieci anni dopo, per la guerra, si trasferì a Vienna presso Maria Teresa, raggiunse Monaco e poi tornò a Dresda, città che gli era cara. Ma la situazione civile è mutata e deve accettare nel 1763 la carica di professore di prospettiva al­l'Accademia. Preferisce cercare altrove una posizione meno precaria e parte per Pietroburgo, con la speranza di lavorare per Caterina I I . Raggiunta Varsavia, venne trattenuto dal re Stanislao Poniatowski, che stava trasformando la città sotto l'influsso della cultura occidentale. Ed anche qui il Bellotto crea le stupende serie dei dipinti di veduta della città e dei dintorni, con un colore limpido e secco, a toni freddi, estraneo al colorismo veneziano, ma tale da aprire col suo eccezionale taglio realistico un nuovo capitolo alla veduta europea.

Giandomenico Tiepolo (Venezia 1727-1804).

Ebbe non solo gli insegnamenti dal padre, ma col padre collaborò a più riprese, a W'urzburg per esempio nel 1750-'53 per gli affreschi della Residenza vescovile, e in Spagna, a Madrid e ad Aranjuez, dal 1762 al '70. Dimostrò tuttavia di aver

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talento per far anche da solo, a San Paolo nel '47 e nella villa di Zianigo nel '49; e benché fosse impegnato col padre, a Wtirzburg fece molti lavori indipen­denti, legati stilisticamente a quelli del padre, tanto da ingenerare confusione. Dopo Wiirzburg dipinse a Brescia nella chiesa dei SS. Faustino e Giovita. Lavora ancora col padre alla Valmarana; ma ormai i l giovane ha trovato uno stile suo, più concreto e attento alle vicende giornaliere di luogo, di luce e di figure, tanto che nella foresteria dipinge scene di carnevale e di vita campagnola in maniera del tutto diversa da quella paterna e con vivo interesse per un mondo nuovo, popolare, che si affacciava alla società di allora. Dopo la morte del padre avve­nuta a Madrid nel 1770, torna a Venezia e continua intensamente la sua attività. Nel '72 entra all'Accademia di pittura come insegnante; nell'80 ne diventa presi­dente. Cinque anni dopo è a Genova, nell'89 è ancora a Venezia e poi nella villa paterna di Zianigo dipinge con libero estro scene di costume, bianco su bianco a colori luminosi e con un disegno nervoso, del tutto remoto dalle mitologie e storie letterarie del padre. È un pittore nuovo a Venezia, cosciente che la realtà storica è ormai diversa, da guardare col massimo interesse anche se trapela una certa malinconia sotto i lazzi delle sue mascherate.

Alessandro Longhi (Venezia 1733-1813)

Benché fosse figlio di Pietro, apprese la pittura nella bottega del ritrattista Giu­seppe Nogari e ben presto raggiunse anche lui fama di valente pittore di ritratti. Eseguì anche opere di arte sacra, ma con scarso profitto. Invece nei ritratti riuscì a cogliere aspetti veri, acuti esami psicologici, testimonianze di vita reale. Nel 1759 fu ammesso all'Accademia ed eseguì in Palazzo Ducale un gruppo di alti dignitari veneziani. Nello stesso tempo badava a dipingere ritratti di gente del popolo, profondamente interessato più ai caratteri singoli che non allo sfarzo ufficiale. Tra gli uomini in vista del suo tempo ritrasse Goldoni, il padre Lodoli, il collega Fontebasso, i l Cimarosa nonché due gruppi di persone della Casa Pisani. Questa attività ritrattistica, in cui l'occhio individua le fisionomie, lo differenzia dal più celebre fratello, inteso a «raccontare» scene di vita giornaliera nei salotti, nei ritrovi pubblici o- nelle calli. Verso la fine del secolo, attento alle mutazioni storiche e sociali, la sua pittura tralascia man mano certe pompose evidenze, il suo occhio, fedele al soggetto, non manca di rivelare un'ironica condiscendenza, risolvendo ormai il ritratto in immagine in cui prevale la notazione coloristica e una descrizione profonda ma sobria, che mette in risalto una sensibilità nuova e moderna sollecitata dalla viva curiosità per l'essere umano.