SDID 03 1-31 - La Scuola · 2017. 11. 8. · virtuosi, acuti filologi, eccellenti Sherlock Holmes....

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editoriale editoriale 1 Sd Sd n. 3 • novembre 2017 © Editrice La Scuola Caterina Lazzarini Educare all’imperfezione Sono una perfezionista. Chi da adulto condivide questa condizione sa che non si tratta di una scelta, quanto di una vocazione, o meglio, forse si tratta di un por- tato dell’educazione, dei modelli recepiti nostro e loro malgrado, ma così pre- cocemente da innestarsi profondamente nella personalità, da essere percepiti come parte del “corredo genetico”. Da ragazzi è quell’asticella sempre più alta del salto che ci sentiamo di poter fare con agio, è il tarlo che lavora silenzioso dentro di noi, che non ci permette di essere mai contenti di un risultato, e che, in positivo, ci spinge a migliorarci sempre. È la molla per diventare musicisti virtuosi, acuti filologi, eccellenti Sherlock Holmes. È il nostro orgoglio e la nostra dannazione. Da più grandi, impariamo ad analizzare anche gli aspetti patologici e potenzialmente distruttivi, soprattuto autodistruttivi, di questa inclinazione: dobbiamo farci i conti, imparare a contenerne gli eccessi, guadagnare uno spa- zio a quella parte di noi disposta alla mediazione, quella che in generale non vogliamo ascoltare. Ci ho molto riflettuto durante le mie esperienze da insegnante, constatando, negli anni maturi, quanto la tensione, naturale o indotta, al perfezionismo, possa condizionare l’equilibrio emotivo degli adolescenti e comprometterne i risultati scolastici. Parallelamente, ho avviato una riflessione, mai conclusa, su quello che chiamerei il paradosso dell’educatore. Chi insegna, è chiamato a spronare al miglioramento, a chiedere molto ai ragazzi, a essere portatore di modelli “alti”, a cui è importante tendere (non farlo, significherebbe assecondare la pigrizia naturale di alcuni, frustrare l’ambizione all’automiglioramento di altri): la per- fezione è presente nel risultato di un’espressione matematica, nel formalismo di un documento scritto, come in svariate altre situazioni didattiche. Nello stesso tempo, chi educa ha il dovere di vigilare sempre sull’equilibrio emotivo dei ragazzi in un’età tanto delicata, di concorrere con le sue possibilità alla loro formazione globale, di fornire loro, sempre nei limiti delle sue possibilità, gli strumenti per attrezzarsi a entrare nella società degli adulti, con i suoi meccani- smi, positivi e negativi, fatti anche – oggi più che mai – di aspettative e pressioni sempre più forti. Come regolarsi, allora, tra due tensioni educative ugualmente fondamentali e che sembrano andare in direzione opposta? Ovviamente non ho una risposta univoca. Tuttavia credo che il paradosso sia sotto gli occhi di chi si occupa di pedagogia a livello alto e che oggi richieda un supplemento di riflessione, di fronte a una società complessa e “polifonica” come quella in cui viviamo e a una composizione delle classi sempre più strati- ficata, che è il segno più evidente di questa stessa società. Ho ripreso il bel libro di memorie di Rita Levi Montalcini, Elogio dell’imperfe- zione, uscito nel 1987, un anno dopo l’assegnazione alla scienziata del premio Nobel per la medicina. Il titolo, suggestivo, trova la sua spiegazione già nel Pro- logo, in cui l’Autrice, parlando del suo libro come di «una specie di bilancio o rapporto finale» delle esperienze di una vita, dice di aver tentato «di conciliare due esperienze inconciliabili, secondo il grande poeta Yeats: Perfection of the life, or of the work», ma in realtà di aver «realizzato quella che si può definire

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1SdSd n. 3 • novembre 2017 • © Editrice La Scuola

Caterina Lazzarini

Educare all’imperfezione

Sono una perfezionista. Chi da adulto condivide questa condizione sa che non si tratta di una scelta, quanto di una vocazione, o meglio, forse si tratta di un por-tato dell’educazione, dei modelli recepiti nostro e loro malgrado, ma così pre-cocemente da innestarsi profondamente nella personalità, da essere percepiti come parte del “corredo genetico”. Da ragazzi è quell’asticella sempre più alta del salto che ci sentiamo di poter fare con agio, è il tarlo che lavora silenzioso dentro di noi, che non ci permette di essere mai contenti di un risultato, e che, in positivo, ci spinge a migliorarci sempre. È la molla per diventare musicisti virtuosi, acuti filologi, eccellenti Sherlock Holmes. È il nostro orgoglio e la nostra dannazione. Da più grandi, impariamo ad analizzare anche gli aspetti patologici e potenzialmente distruttivi, soprattuto autodistruttivi, di questa inclinazione: dobbiamo farci i conti, imparare a contenerne gli eccessi, guadagnare uno spa-zio a quella parte di noi disposta alla mediazione, quella che in generale non vogliamo ascoltare. Ci ho molto riflettuto durante le mie esperienze da insegnante, constatando, negli anni maturi, quanto la tensione, naturale o indotta, al perfezionismo, possa condizionare l’equilibrio emotivo degli adolescenti e comprometterne i risultati scolastici. Parallelamente, ho avviato una riflessione, mai conclusa, su quello che chiamerei il paradosso dell’educatore. Chi insegna, è chiamato a spronare al miglioramento, a chiedere molto ai ragazzi, a essere portatore di modelli “alti”, a cui è importante tendere (non farlo, significherebbe assecondare la pigrizia naturale di alcuni, frustrare l’ambizione all’automiglioramento di altri): la per-fezione è presente nel risultato di un’espressione matematica, nel formalismo di un documento scritto, come in svariate altre situazioni didattiche. Nello stesso tempo, chi educa ha il dovere di vigilare sempre sull’equilibrio emotivo dei ragazzi in un’età tanto delicata, di concorrere con le sue possibilità alla loro formazione globale, di fornire loro, sempre nei limiti delle sue possibilità, gli strumenti per attrezzarsi a entrare nella società degli adulti, con i suoi meccani-smi, positivi e negativi, fatti anche – oggi più che mai – di aspettative e pressioni sempre più forti. Come regolarsi, allora, tra due tensioni educative ugualmente fondamentali e che sembrano andare in direzione opposta?Ovviamente non ho una risposta univoca. Tuttavia credo che il paradosso sia sotto gli occhi di chi si occupa di pedagogia a livello alto e che oggi richieda un supplemento di riflessione, di fronte a una società complessa e “polifonica” come quella in cui viviamo e a una composizione delle classi sempre più strati-ficata, che è il segno più evidente di questa stessa società.Ho ripreso il bel libro di memorie di Rita Levi Montalcini, Elogio dell’ imperfe-zione, uscito nel 1987, un anno dopo l’assegnazione alla scienziata del premio Nobel per la medicina. Il titolo, suggestivo, trova la sua spiegazione già nel Pro-logo, in cui l’Autrice, parlando del suo libro come di «una specie di bilancio o rapporto finale» delle esperienze di una vita, dice di aver tentato «di conciliare due esperienze inconciliabili, secondo il grande poeta Yeats: Perfection of the life, or of the work», ma in realtà di aver «realizzato quella che si può definire

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imperfection of the life and of the work», e così conclude: «Il fatto che l’attività svolta in modo così imperfetto sia stata e sia tuttora per me fonte inesauribile di gioia, mi fa ritenere che l’imperfezione nell’eseguire il compito che ci siamo prefissi o ci è stato assegnato, sia più consona alla natura umana così imper-fetta che non la perfezione». Con nitidezza e rigore, l’Autrice fa notare come il progresso è sostanzialmente legato non alla perfezione dei meccanismi, si tratti di macchine, artefatti o esseri viventi, ma a ciò che nasce in maniera imperfetta, ed è per ciò stesso duttile ad accogliere cambiamenti: di questa imperfezione l’esempio più affascinante è proprio il cervello umano, visto nella sua evolu-zione. Proprio su questo assunto, la Montalcini chiude ad anello il suo libro, con una nota a margine e commento della sua scoperta più significativa, quella del fattore di crescita delle cellule nervose, con acronimo inglese NGF (Nerve Growth Factor), che le è valsa il Nobel: «La saga del NGF prospettata [...] ha se-guito un percorso tortuoso non programmato e imperfetto. Come tale avvalora il concetto che l’imperfezione e non la perfezione sono alla base dell’operato umano». Credo che sia una possibile risposta, sufficientemente autorevole, al quesito che ponevo attorno al paradosso dell’insegnante e una spinta, per gli educatori, a guardare anche al loro compito con occhi diversi.