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Schifanoia e Francesco del Cossa L’ORO DEGLI ESTENSI

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Schifanoia e Francesco del CossaL’ORO DEGLI ESTENSI

€ 20,00 ISBN 978-88-89793-56-5

9 788889 793565

Schifanoia e Francesco del Cossa

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Schifanoia e Francesco del Cossa

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Schifanoia e Francesco del CossaL’ORO DEGLI ESTENSI

Ferrara, Palazzo Schifanoia

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MUSEI DI ARTE ANTICA

Conservatore archeologo Maria Teresa Gulinelli

Conservatori storici dell’arte e comunicazioneElisabetta LoprestiGiovanni Sassu

BibliotecaUmberto ScopaChiara Pertili

Personale e sicurezzaAlessandra BrunoTiziana Diomedi

Segreteria e comunicazioneElisabetta Capanna

AmministrazioneVittorina BragaFederica Pavanelli

ProtocolloMichele Gori

Assistenza tecnicaEnrico Bianchi

AccoglienzaMargherita BonettiMoreno CaselliMonica CornacchiaLia SansoniValentina Paesanti

FONDAZIONE FERRARA ARTE E GALLERIE D’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

Ufficio prestitiIlaria Mosca

ArchitettoLucia Angelini

Ufficio editorialeFederica SaniRossella MerighiMicol Boschetti

Segreteria di presidenza e rapporti con la stampaAlessandra Cavallaroni

Informazioni e prenotazioni mostre e museiFederica NovelliSilvia AffaticatiCristina Lago

AmministrazioneBarbara RizzatiCosetta RimondiPatrizia Sandoli

LibreriaDaniela VacchiStefania ZaghiPaolo Callegari

SicurezzaGiuseppe Cestari

TrasportiEnrico Nigro

Social mediaGloria Tarsitani

Ufficio stampaMatteo Langone

“La visione di Borso d’Este in Luce”

Studio Pasetti lighting

Progetto illuminazione Alberto Pasetti Bombardellacon Claudia BettiniChiara Brunello Caterina Salvini

Realizzazione a cura del Settore Opere Pubbliche – Servizio Beni Monumentali del Comune di FerraraLuca CapozziNatascia Frasson Rossella Bizzi

Tecnologia illuminotecnicaiGuzzini illuminazione

Installazione e montaggiMichele Brugnatti Srl

PROGETTO DI ALLESTIMENTO QB Atelier Popolare di Architettura Filippo Govoni Federico Orsini

Schifanoia e Francesco del Cossa L’ORO DEGLI ESTENSI

Ferrara Palazzo Schifanoia

COMUNE DI FERRARA

Sindaco Alan Fabbri

Assessore alla Cultura, ai Musei, ai Monumenti storici, alla Civiltà ferrarese, ai rapporti con l’Unesco Marco Gulinelli

Dirigente ad interim del Settore Cultura e Turismo Ethel Guidi

Relazioni istituzionali e supporto attività gestionali Anna Rosa Fava

FONDAZIONE FERRARA ARTE

Presidente Vittorio Sgarbi

Consiglio di amministrazione Arturo Artom Davide Urban

con il patrocinio di

Catalogo a cura di Pietro Di Natale e Giovanni Sassu

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10 Prefazione Vittorio Sgarbi

Schifanoia e gli Este nelle collezioni civiche

18 Palazzo Schifanoia. Cenni storici Giovanni Sassu

24 Il Salone dei Mesi Giovanni Sassu

130 La Sala delle Virtù Pietro Di Natale

138 La Sala delle Imprese Giovanni Sassu

142 Le medaglie Maria Teresa Gulinelli

148 La ceramica graffita Maria Teresa Gulinelli

154 Guglielmo Giraldi Bibbia di San Cristoforo alla Certosa Romeo Pio Cristofori

158 Guido Mazzoni Figura di dolente Elisabetta Lopresti

L’oro degli Estensi

162 Gli ori dei duchi

164 Antonio di Cristoforo Madonna col Bambino Alfredo Bellandi e Giancarlo Gentilini

166 Domenico di Paris Madonna col Bambino Pietro Di Natale

168 Domenico di Paris Madonna col Bambino e angeli adoranti Alfredo Bellandi e Pietro Di Natale

170 Giovanni Antonio Bazzi Madonna col Bambino e i santi Antonio Buitoni

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10 11È stata mia espressa volontà, nella delizia di Schifanoia a Ferrara, riaperta in questa occasione, con una illuminazione emozionante e progressiva, ripensare criticamente al pittore che più si è distinto nella decorazione del ciclo astrologico, compiuto parallelamente alla Camera degli Sposi di Andrea Mantegna a Mantova: Francesco del Cossa, al quale ho dedicato l’ultima monografia. È noto che, per l’insufficiente riconosci-mento del suo merito, il grande artista, consapevole della importanza della sua impegnativa impresa ferrarese, indignato e offeso, riparò a Bologna, trovando benevola accoglienza alla corte dei Bentivoglio.Alla fine della sua parete, con i mesi di Marzo, di Aprile e di Maggio, Francesco aveva chiesto, con candida convinzione, al duca Borso il giusto riconoscimento per il suo impegno. Il 25 marzo 1470 si lamenta per essere stato pagato per le pitture fatte a Schifanoia nella stessa misura degli altri pittori, nonostante egli per lungo e assiduo studio e lavoro ritenga di meritare di più: «Illustrissime Princeps et Excellentissime Domine Domine mi Singularissime etc. Adí passati insieme cum li altri dipintori suplicai ad Vostra Signoria supra il pagamento dela salla de Schivanoglio, dove Vostra Signoria rispose che se instasse la relacione. Illustrissimo Principe, io non voglio esser quello il quale et a Pelegrino de’ Prisciano et ad altri venga a fastidio, per tanto mi sonto deliberato a ricorrere solo a Vostra Signoria per che forsi a quella pare on egi stato referito che li sono de quelli che bene poteno stare contenti et sono tropo pagati del merchato deli deci bolognini; et ricordare suplicando a quella che io sonto Francescho del Cossa, il quale a sollo fatto quili tri canpi verso l’anticamara, sì che, Illustrissimo Signore quando la Signoria Vostra non mi volesse dare altro cha dece bolognini del pede et bene ne perdesse quaranta on cinquanta ducati, continuamente avenga viva sule mie braze staria contento et bene posato. Ma bene essendogli altre circonstan-cie assai me ne dolgeria et tristaria fra mi medemo; et massime considerando che io, che pur ho incomenciato ad avere uno pocho di nome, fusse tratato et iudicato et apparagonato al piú tristo garzone de Ferara, et che lo mio avere studiato, et continuamente studio, non dovesse avere a questa volta qualque più premio et masime dala Illustrissima Vostra Signoria, che quelli che è abesenti da tale studio, certo, Illustrissimo Prin-cipe, non poria esser che dentro da mi non me n’atristase e dolesse. E poi che lo mio lavorare a fede como ò fato, et ador-nare de oro et de boni coluri, foseno de quelo precio ch’è talle parte de i altri che se sono passato senza talle fatiche et spexe, mene pareria pure strano. Et questo dicho, Signor, perché io ho lavorato quaxi el tuto a frescho, che è lavoro avantazato e bono,

PrefazioneVittorio Sgarbi

Francesco del CossaParticolare del mese di Aprile, 1469-70

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12 13assoluta, mimetica, fedeltà con il metodo elaborato da Adam Lowe, che, in Italia, ha dato ottime prove nelle “duplicazioni” del Cenacolo di Leonardo e delle Nozze di Cana di Paolo Veronese per il refettorio di San Giorgio a Venezia. La preci-sione delle riproduzioni di Lowe è impressionante, e assolve anche dalla presenza comparativa degli originali. Nella mia monografia su Francesco del Cossa (Skira, 2003) la storia e la ricostruzione del polittico Griffoni, anche dopo gli studi e le proposte di Roberto Longhi, sono minuziosamente descritte. Qui mi preme illustrare la ragione della mostra di Francesco del Cossa su due sedi. Anche se il primato ferrarese su Bologna è incoercibile, dopo l’Officina ferrarese, la percezione, anche nell’ambito degli studi specialistici, dell’esistenza di un’alta e nobile stagione rinascimentale a Bologna, è molto flebile. Già nel 1890 Adolfo Venturi scriveva che «Bologna nel Rinasci-mento non ha una propria, varia e ricca fioritura artistica» e che «quanto resta oggidì dell’arte bolognese del Quattrocento, prima del Francia, se si eccettuino le tavole di Marco Zoppo, merita appena uno sguardo». Recentemente (2012), Giacomo Alberto Calogero, sulla scia delle aperture offerte a suo tempo da Carlo Volpe, ha giustamente precisato che «a seguito di un’impostazione critica così svilente, si è spesso teso a ridi-mensionare, se non addirittura negare, il contributo reso dall’arte bolognese allo sviluppo del Rinascimento padano. Tuttalpiù, ad essa è stato riservato il ruolo di ricettacolo passivo di linguaggi originali ma integralmente allogeni rispetto alla ritardataria cultura locale. In questa prospettiva, la desolata landa bolognese è a lungo apparsa facile “terra di conquista” di maestri stranieri, in primis dei grandi ferraresi. Luogo comune irriducibile che, ad un dato momento della vicenda critica, ha seriamente rischiato di trasformarsi in incrollabile dogma anche a causa di un’interpretazione fin troppo letterale dell’Officina ferrarese di Roberto Longhi». Fatto sta che proprio la ricostru-zione che Longhi «ha proposto della vicenda suprema dei ferraresi, in patria e nella vicina città bentivolesca, è apparsa a lungo come una conferma autorevole e definitiva di un’effettiva uniformità di cultura artistica tra Ferrara e Bologna, da leggersi però nei termini di una sostanziale dipendenza di quest’ultima nei confronti della capitale estense». Una facile riprova di questa prospettiva critica distorta è stata fornita, anche in tempi recenti, dalla mostra Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, curata da Mauro Natale a Palazzo dei Diamanti sul finire del 2007. Fin dal titolo, Francesco del Cossa era chiamato a figurare, potremmo dire contro la sua stessa volontà, come artista di spicco dell’età di Borso d’Este, ovvero quello stesso duca al

e questo è noto a tuti li maistri de l’arte. Tuta via Illustrissimo Signor me rimeto ali pedi de la Signoria Vostra et quella prego, quando havesse questo obieto de dire “Non voglio fare a ti, per che mi sarebe forza fare ali altri”, Signor mio, continuamente la Signoria Vostra poteria dire che così e stato extimato; et quando Vostra Signoria non volesse andare drieto ad extime, prego quela voglia se non el tuto che forsi me vegneria, ma quella parte li pare, de gratia et benignitate Sua me la doni. Et io per gracioso dono l’acceptarò et cossì predicarò. Me rico-mando ala Illustrissima Signoria Vostra. Ferrariae, die XXV° Martij 1470. Illustrissime Ducali Dominationis Vestre Servitor quamvis infimus Franciscus del Cossa». È notevole che, oltre al riconoscimento del proprio merito e dello studio («et continuamente studio»), Cossa rivendichi l’uso «de oro et de boni coluri» e chieda non il giusto ma il dono di «quella parte li pare, de gratia et benignitade», e di non essere «tratato et iudicato et apparagonato al più tristo garzone de Ferara», pur avendo «lavorato quaxi el tuto a frrescho, che è lavoro avantazato e bono», come è «noto a tuti li maistri d’arte». Insomma, dignità. Borso risponderà raccomandandogli di esser contento di quanto avuto. Dopo questo rifiuto, con lo scatto d’orgoglio di Francesco, la migliore scuola ferrarese si trasferisce a Bologna, dove già aveva dato, e continuava a dare, altissime testimonianze della sua drammatica visione il grande scultore pugliese Niccolò dell’Arca. Il percorso di Francesco del Cossa, così, si divarica. E, da tempo, nel 2015, io avevo proposto alla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna un focus sul “Rinascimento a Bolo-gna”, che tenesse conto di questi fatti essenziali, e del prezioso, vitale, innesto di gemme ferraresi.Il mio progetto oggi si realizza restituendo a Ferrara il ruolo centrale nella formazione e nella produzione del pittore, in dialogo con Piero della Francesca, attivo nella città estense in cicli perduti. Dunque, oggi, Ferrara e Bologna celebrano, insieme, per la prima volta, un grande pittore ferrarese che, con l’Annunciazione per la chiesa dell’Osservanza concepisce «un dipinto di invenzione calma e geniale, e di conduzione sottilissima, come mai si era visto a Bologna» (E. Riccòmini).Fulcro della sezione bolognese è la ricostruzione del polittico Griffoni per la basilica di San Petronio, diviso in nove sedi tra Europa e America, e che costituisce l’essenza della palingenesi bolognese di Francesco del Cossa, che nulla rinnega della sua formazione ferrarese. Per le difficoltà di ottenere gli scomparti del polittico, ho chiesto a Peter Glidewell, membro della Factum Foundation, di accelerare il processo di scansione digitale degli elementi che lo componevano, per riprodurli in

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14 15di San Clemente (1459) e la più malconcia Croce dei Cappuccini rivelano un’inedita sintesi fra la lezione padovana di Donatello e la “pittura di luce” di Piero della Francesca. Proprio in questo senso, l’esperienza determinante dello Zoppo preparò di fatto l’avvento di un artista ancora più grande: Francesco del Cossa. Ed è qui che la mostra dovrebbe raggiungere il suo acme, mettendo in fila le vetrate realizzate dai fratelli Cabrini su disegno del Cossa (Gallerie dell’Accademia di Venezia; Musée Jacquemart-André di Parigi), la pala dell’Osservanza oggi a Dresda (1467 circa), la Madonna del Barracano, affresco del 1472, la pala dei Mercanti ora alla Pinacoteca (1474). La ricostruzione del polittico Griffoni (1473) a Bologna, con gli originali a fianco delle citate riproduzioni, è l’inizio della definizione di questa cultura sincretica. Come già ricordato, l’esecuzione del polittico petroniano diede avvio «al più formidabile e producente sodalizio che la Storia dell’Arte conosca» (Volpe), ossia quello tra lo stesso Cossa e l’enfant prodige Ercole de’ Roberti, formato nel cantiere di Schifanoia. I dipinti di questi due straordinari artisti dovrebbero allora dialogare con le opere del terzo protagonista dell’arte bolognese del tempo, che contribuì a sollevare la città felsinea al rango di vera e indiscutibile capitale del Rinascimento italiano, ovvero lo scultore Niccolò dell’Arca. La difficile eredità di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che condusse l’arte emiliana al sublime approdo dell’«italianiz-zazione dello stile» (Longhi), fu in parte raccolta a Bologna, nel corso dell’ottavo decennio, da Antonio da Crevalcore e da un altro pittore ferrarese trapiantato a Bologna, l’autore della cosiddetta pala Grossi, esposta in questa occasione a Ferrara, Giovanni Antonio Bazzi. Presenza di formidabile importanza per i caratteri precipui di questo distinto Rinascimento a due piazze. La fusione sarà compiuta nella figura di Lorenzo Costa, ferrarese trapiantato a Bologna, organico ai Bentivoglio.Borso e i duchi d’Este, fino a Lucrezia Borgia, su medaglie e monete d’oro, di inarrivabile conio, guardano il lungo cammino dei ferraresi a Bologna, nella elaborazione di un mondo nuovo, e nel compiuto dialogo con gli scultori che si misurano, con pari dignità, nelle stanze di Schifanoia, la Sala delle Virtù e la Sala delle Imprese, memori, come Ercole pittore, della lezione di Niccolò dell’Arca: Domenico di Paris e Guido Mazzoni.

quale Cossa aveva indirizzato la lettera di indignata protesta per essere stato «tratato et iudicato et apparagonato al più tristo garzone de Ferara». Senza contare che uno dei momenti salienti dell’esposizione di Palazzo dei Diamanti coincideva con la ricostruzione, peraltro parziale, proprio del grande polittico concordemente concepito da Cossa ed Ercole de’ Roberti per Floriano Griffoni, anche se non è dato intendere, se non in forza dello stile, in che modo un’opera destinata alla cappella petroniana di una delle famiglie più strettamente legate alla signoria dei Bentivoglio possa considerarsi espressione dell’arte estense. Perché allora non ricondurre allo stesso milieu “ferra-rese” – cosa che la mostra del 2007 si è ben guardata dal fare – altri capolavori cosseschi come la tela commissionata da Alberto de’ Cattani e Domenico degli Amorini per il palazzo della Mercanzia a Bologna (pala dei Mercanti, oggi nella Pinacoteca Nazionale di Bologna), o la meravigliosa pala con l’Annunciazione dipinta per la chiesa dell’Osservanza, fuori porta San Mamolo? È piuttosto chiaro come questi dipinti che, al pari del polittico Griffoni, furono concepiti a Bologna e per Bologna, abbiano una radice comune con la inarrivabile, per fantasia e spirito di racconto, stagione artistica definitivamente conclusa alla corte degli Este con gli affreschi di Schifanoia. Bisognerà dunque ripartire dalla impeccabile lettura di Carlo Volpe per indivi-duare, proprio a partire dall’esperienza degli stessi artisti ferraresi emigrati a Bologna, i caratteri peculiari di un Rinasci-mento felsineo, i cui «ideali dominanti si possono ragionevol-mente distinguere da quelli trionfanti a Ferrara». Si delinea così il netto profilo di una cultura locale autonoma che trovò la ragione prima del suo affermarsi, anche in campo artistico, nell’illuminato mecenatismo dei Bentivoglio. Sono molte ed evidenti le ragioni per promuovere una mostra che, in dialogo con Ferrara, sappia restituire e diffondere l’identità rinascimen-tale di Bologna, fino ad oggi sommersa, o quantomeno soffo-cata. L’esposizione dovrebbe radunare un numero scelto ma significativo di pezzi, a partire dal principale artista bolognese del momento, Marco Zoppo: accolto nella bottega dello Squarcione, primo maestro di Mantegna, lo Zoppo fu uno di quei giovani – e tra i più spavaldi – venuti a Padova da ogni parte d’Italia per educarsi «all’ombra dell’altare criso-cupro-ele-fantino di Donatello» (Longhi). Una volta tornato in patria, Zoppo arricchirà ulteriormente la sua formazione attraverso «l’incontro vivificante con l’arte di Piero» (Calogero), che secondo l’affidabilissima testimonianza di Luca Pacioli, aveva lasciato alcuni suoi capolavori, oggi perduti, anche a Bologna. In effetti, lo smagliante retablo dipinto da Zoppo per la chiesa

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Schifanoia e gli Este nelle collezioni civiche

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18 19La storia di Ferrara si intreccia in modo quasi indissolubile con quella della casata degli Este. Le fortune e le sfortune di questa famiglia hanno infatti inciso in modo profondo e duraturo sul volto della città. Palazzo Schifanoia rappresenta uno dei luoghi simbolo di questo legame. Residenza magnifica connessa ai primi vagiti del potere estense e alla successiva fase di splendore quattrocentesca, essa è il teatro di molta parte della vita dei signori di Ferrara. Qui gli Estensi si riposano, “sfuggono alla noia”, ma adempiono anche alle mansioni amministrative e familiari: decidendo delle sorti del ducato, ricevendo ospiti di riguardo o facendovi nascere i rampolli della casata, come accade nel 1476 con Alfonso I, figlio di Ercole I ed Eleonora d’Aragona. Dopo la Devoluzione di Ferrara al papato nel 1598 e l’allontana-mento degli Este dalla città, Schifanoia segue il declino dei suoi creatori sprofondando lentamente in un oblio che recherà ferite irreparabili al suo aspetto e ne metterà in pericolo la stessa esistenza. Nel Settecento si assiste così alla distruzione del grandioso scalone esterno descritto con grande risalto dalle cronache e dai visitatori, mentre molte delle stanze vengono adibite a usi impropri e le decorazioni del Salone dei Mesi, voluto da Borso d’Este, sono interamente ricoperte. Ma, fortunatamente, Schifanoia è anche l’emblema della riappropriazione da parte di Ferrara di una porzione importante della sua storia. Quando a partire dal 1820, come d’incanto, riemergono dalle imbiancature le decorazioni sontuose del Salone appare da subito chiaro che con esse riaffiora una testimonianza di eccelso valore artistico della città rinascimen-tale. La riscoperta delle pitture murali genera entusiasmo anche al di fuori dei confini urbani, ponendo Schifanoia al centro dei dibattiti storico-artistici dell’epoca. Poco dopo, nel 1898, appare pertanto naturale scegliere l’antica delizia estense come sede del rinnovato Museo Civico. L’area interessata da questa nuova e nobile missione è il corpo di fabbrica fatto erigere da Borso, mentre l’area trecentesca, nel frattempo compromessa da gravi manomissioni, resta a lungo destinata ad uso civile. Il riscatto di questa porzione del Palazzo avviene nel 1991 quando, dopo un accurato restauro, viene inaugurata una nuova ala del Museo.Il terremoto del 2012 imprime una nuova e grave ferita ad un monumento già reso fragile dal celebre sisma del 1570. Dopo un’intensa fase progettuale, il Comune di Ferrara avvia nel gennaio del 2018 i lavori per la riparazione e il miglioramento strutturale antisismico dell’edificio grazie a finanziamenti regionali per la ricostruzione e fondi comunali da rimborsi assicurativi. Una riapertura parziale è operata in questa occa-

Palazzo SchifanoiaCenni storiciGiovanni Sassu

Palazzo Schifanoia in una fotografia di fine Ottocento

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20 21importanti a seguito di un ampliamento e di nuove decorazioni. Tra l’immagine colta e signorile di Leonello e quella più pragmatica e devota di Ercole I, che tra il 1471 ed il 1505 diede a Ferrara il suo volto moderno, la figura di Borso appare sostan-zialmente come quella di un politico accorto, vero restauratore della dinastia malgrado le accuse di doppiezza e di spregiudica-tezza che gli sono state rivolte. «Di questo signor splendido ogni intento sarà che il popul suo viva contento», scriverà Ludovico Ariosto, circa quarant’anni dopo la morte di Borso. Queste parole restituiscono bene ciò che i sudditi e le fonti locali pensavano del primo duca di Ferrara e degli anni del suo governo. A leggere la letteratura del tempo, infatti, si ricava l’idea di una sorta di età dell’oro, con Borso al centro di tutto, arbitro della pace e della prosperità. Questa immagine ha un effettivo riscontro con la realtà: sotto il suo governo la città visse un lungo periodo di prosperità economica, in cui le guerre – che avevano caratterizzato gli anni precedenti e che segneranno quelli futuri – furono di fatto assenti. Di tale periodo Schifanoia è, assieme alla Bibbia voluta dallo stesso duca ed ora conservata alla Biblioteca Estense di Modena, la testimonianza più alta e coerente. Non a caso Borso amava mostrare ai propri ospiti proprio questi due capolavori come testimonianze della sua magnificenza e del suo buon gusto. Dopo qualche lavoro marginale promosso già nel 1458, a partire dal 1466 il marchese incarica l’architetto di corte Pietro Benvenuto dagli Ordini (attivo nella seconda metà del XV secolo) di sovrintendere all’ampliamento della delizia. In breve tempo, meno di tre anni, il Palazzo viene prolungato verso est. Il nuovo corpo di fabbrica è strutturato su due piani ed incen-trato intorno all’ampio Salone, decorato da un’équipe di pittori guidati dall’umanista Pellegrino Prisciani (1435-1518), storio-grafo, bibliotecario e astrologo della corte estense.Il Palazzo di Borso è pressoché completato già alla fine del 1469: è uno dei più sontuosi che Ferrara possa vantare, assieme alla delizia di Belriguardo, rinnovata negli stessi anni, o al palazzo adiacente la Certosa, anch’esso fatto edificare dal futuro duca. La perdita delle decorazioni quattrocentesche della prima e quella totale del secondo acuisce il valore storico di Schifanoia, unica straordinaria testimonianza sopravvissuta in campo architettonico dell’esaltante età borsiana. Con la morte di Borso e la successiva amministrazione di Ercole I, nel 1493 il Palazzo è interessato da lavori alquanto consistenti: a seguito di un crollo, Biagio Rossetti – l’architetto dell’Addizione Erculea – interviene sostituendo i merli origi-

sione (marzo 2020) e presenta il Salone dei Mesi, la Sala delle Virtù e quella delle Imprese con impianti d’illuminazione del tutto rinnovati e un assaggio del museo che vedrà la luce prossimamente.

Storia del Palazzo

Una dimora che «splende come una gemma incastonata in un anello»: è in questo modo che in un documento del 1437 viene definito Schifanoia. Sono passati pochi anni da quando, nel 1385, ne è stata avviata la costruzione –ampliandone gli spazi una seconda volta già nel 1391 – eppure all’edifico sono già associati i concetti di magnificenza e di stupore derivanti dalla visione di qualcosa di unico e prezioso.Schifanoia nasce per volontà di Alberto V d’Este, signore di Ferrara fino al 1393. Noto per essere stato il fondatore dell’Uni-versità e per aver promosso la costruzione di luoghi dal grande fascino come Palazzo Paradiso o la delizia di Belfiore, Alberto sceglie un’area poco edificata, caratterizzata dalla presenza della chiesa di Santa Maria in Vado e dei conventi di San Vito e Sant’Andrea, per costruire una nuova residenza dedicata allo svago. Il nome prescelto, Schifanoia, ovvero “schivare la noia”, denota con chiarezza la funzione originaria che l’edificio ha avuto nei primi anni della sua esistenza. Schifanoia era infatti una delle “delizie”, uno dei luoghi – come Belfiore o Belri-guardo – che gli Estensi fecero costruire fuori città o in zone urbane molto ricche di verde, per trascorrervi periodi di riposo, studio o divertimento. Accompagnati dalla corte e da una nutrita schiera di convitati, essi vi organizzavano giostre e cacce, banchetti e ricevimenti.Il nucleo originario – ancora parzialmente visibile nell’ala occidentale del fabbricato (al momento non visitabile) – era formato da un corpo di fabbrica ad un solo piano, caratterizzato da un ampio giardino recintato collegato al Palazzo da una loggia che le fonti descrivono bellissima. Le decorazioni delle stanze, sopravvissute solo in parte, testimoniano della ric-chezza inventiva e cromatica che interessava l’intero edificio. In una delle stanze, peraltro, si nota l’aquila bianca, stemma di Leonello d’Este (1407-1450), marchese di Ferrara tra il 1441 ed il 1450, testimonianza di come anche questi, appassionato interprete della cultura umanistica e protettore di artisti e letterati, abbia avuto una parte importante nella storia di Schifanoia. Ma è con la carismatica figura di Borso d’Este (1413-1471), signore della città tra il 1450 ed il 1471, che Schifanoia assume l’aspetto attuale, diventando uno dei palazzi di corte più

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22 23nari con un cornicione a modiglioni, una soluzione che impiegherà in altre sue creazioni, come Palazzo Costabili, l’abside del Duomo o Santa Maria in Vado. All’aprirsi del nuovo secolo si registrano diversi passaggi di proprietà: da Ercole I il Palazzo passa al fratello Sigismondo, mentre qualche anno dopo risulta essere di Francesco d’Este, figlio del duca Alfonso I, che lo cede poco dopo alla figlia, la celebre Marfisa. Nel frattempo, Schifanoia viene inglobato in un sistema di collegamenti cortilivi che unisce i tre edifici di proprietà estense della zona: l’antica delizia, la Palazzina di Marfisa sita sul canale della Giovecca e il Palazzo poi noto come Bonacossi, posizionato tra i due.Con la cessione in affitto da parte di Marfisa nel 1582, poi con l’abbandono di Ferrara da parte degli Este e la Devoluzione del 1598, comincia il declino dell’antica dimora. Certo, essa non subisce il drammatico destino di distruzione che tocca, ad esempio, alla delizia di Belfiore, ma gli usi di carattere civile ne impongono un graduale, inesorabile ridimensionamento che assume toni drammatici dopo il 1674, quando i Romei, ultima famiglia ad occupare lo stabile, abbandonano il Palazzo. Si arriva così alla demolizione nel 1707 della loggia trecentesca affacciata sul giardino, mentre tra il 1727 ed il 1745 tocca al monumentale scalone esterno che portava al Salone dei Mesi. In questo stesso periodo le pareti della grande stanza dei fasti borsiani subiscono l’oltraggio di essere ricoperte di intonaco: scompare così l’immagine del Principe che aveva reso grande il Palazzo. La memoria delle decorazioni non è però persa del tutto: nel 1820 il pittore Giuseppe Saroli riporta alla luce alcune teste nella parte inferiore del mese di Marzo. La scoperta genera nuovo interesse attorno a Schifanoia e negli anni successivi a Saroli si affiancano Luigi Caroli e Francesco Avventi. Nel 1840 le pareti settentrionale ed orientale sono pienamente visibili ma, a seguito delle roventi polemiche relative al metodo da seguire nelle delicate operazioni di restauro, il Comune affida al pittore bolognese Alessandro Compagnoni l’incarico di proseguire e completare i lavori. Nel giro di circa dieci anni, a testimonianza del clamoroso impatto sulla cultura del tempo, Schifanoia entra negli studi sulla storia dell’arte italiana. Nella seconda metà dell’Ottocento sono in molti, da Giovan Battista Cavalcaselle a Jacob Burckhardt, da Fritz von Harck ad Adolfo Venturi, a misurarsi con il mistero rappresentato dall’identificazione degli artisti attivi nel Salone. La ritrovata centralità di Schifanoia nella storia e nell’arte estense porta dapprima, nel 1865, alla costruzione dell’atrio e dello scalone che tuttora consentono l’accesso al Salone, poi, nel 1898, alla decisione di farvi convergere parte delle collezioni

civiche d’arte e archeologia. Seguendo i suggerimenti di Adolfo Venturi, Palazzo Schifanoia diviene così la sede del nuovo Museo Civico, riprendendosi il posto centrale che merita nella storia e nella cultura non solo ferrarese. Di lì a poco, infatti, gli studi del grande Aby Warburg legheranno indissolubilmente Schifanoia alla storia del rinascimento europeo.

Bibliografia essenzialeR. Varese (a cura di), Atlante di Schifanoia, Modena 1989; S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, 2 voll. (con bibliografia precedente).

Il Salone dei Mesi durante le fasi conclusive di installazione della nuova struttura integrata per l'illuminazione delle decorazioni parietali

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A Palazzo Schifanoia si condensano i significati più profondi di quella “politica delle immagini” che caratte-rizza gli anni del dominio di Borso d’Este. Il Salone dei Mesi va letto nell’ottica di una nuova e più compiuta ricerca attorno alla propria effigie che l’allora marchese andava elaborando in previsione dell’imminenza della concessione papale a duca di Ferrara. Così, mentre a Mantova i Gonzaga celebrano la casata nella Camera degli Sposi dipinta da Mantegna e gli Sforza si preparano a rinnovare le decorazioni dei castelli di Milano e di Pavia, Borso celebra fra le pareti del Salone il suo stile di governo, la sua corte, la sua capacità di mantenere la pace, l’abilità di amministrare la giustizia e il territorio. Il risultato è una singolare commi-stione di astrologia di origine araba, di mitologia di derivazione medievale e di propaganda politica, secondo un articolato programma iconografico messo a punto forse da Borso stesso, coadiuvato per gli aspetti astrologici dall’umanista Pellegrino Prisciani (1435-1518) e da un regista artistico che la critica ha a lungo identificato, seppur senza successo, in Cosmè Tura (c. 1433-1495) ma che è ancora da indivi-duare.Ciascun mese è suddiviso in tre sezioni o registri. In alto il trionfo della divinità sotto la cui protezione è posto il periodo dell’anno raffigurato e dove trovano posto le attività umane legate

ad ogni specifico mese. Nella fascia mediana campeggia invece il segno zodiacale del mese accompagnato dalla rappresentazione delle tre decadi relative. Queste figure hanno appassio-nato a lungo gli storici finché Aby War-burg nel 1912 dimostrò che esse non andavano interpretate come allegorie delle virtù, bensì come figure mitologi-che legate alla cultura divinatoria di matrice araba, ovvero come le rappre-sentazioni dei 36 decani, tre per ogni mese, in cui si usava suddividere il cerchio astrologico. Warburg arrivava a questo risultato dimostrando che Prisciani conosceva perfettamente i testi del matematico e astrologo persiano Albumasar (IX sec.), i cui scritti, tradotti in latino, erano presenti nella biblioteca di corte, nonché quelli del poeta latino Mario Manilio (I sec.), segnatamente gli Astronomica. Nel più ampio registro inferiore, infine, il ciclo si completa con i ritratti a figura intera di Borso intento ad amministrare la città, a ricevere ambasciatori, a sfilare in parata, a dedicarsi ai piaceri della caccia, sempre attorniato dai fidi cortigiani. In questa parte della decorazione si riscontra una vera e propria ossessione ritrattistica la cui genesi va rintracciata nel tema della medaglia all’antica, tanto familiare a Ferrara sin dai tempi del soggiorno estense di Pisanello, ma che trova qui un’affermazione di stampo moderno, cerimoniale e propagandistico.

Giovanni Sassu

Il Salone dei Mesi

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26 27A Schifanoia l’utilitarismo di Borso raggiunge l’apice e forte si avverte la sua presenza. La sua immagine è riprodotta tramite l’uso di cartoni preparatori che vengono replicati serialmente, cosicché egli appare tre volte in ogni scena. Borso di profilo a cavallo circondato dai dignitari è, ad esempio, ripetuto con sottili varianti nei mesi di Febbraio, Marzo, Giugno, Luglio e Agosto. Si tratta di una nuova tipologia di ritratto equestre che, secondo alcuni studiosi, Borso può aver elaborato assieme al fratellastro Baldassarre d’Este, suo ritrattista ufficiale a partire proprio dall’impresa di Schifanoia.Per dare forma a tutto questo, è chiamata a lavorare una pattuglia di artisti che, dobbiamo immaginare, deve portare a termine l’impresa in previsione dell’imminente conces-sione del titolo di duca di Ferrara. Un metodo che replicava la convocazione di «tutti li pittori di Ferrara» emanata circa vent’anni prima per decorare nel Palazzo di Corte la camera del marchese in occasione della visita dell’imperatore Federico III.Tra i tanti artisti impiegati a Schifa-noia svetta Francesco del Cossa (c. 1436-1478), il pittore forse meno amato da Borso, che alla fine del lavoro, nel marzo del 1470, ebbe il coraggio di rivendicare un trattamento salariale all’altezza del capolavoro che aveva realizzato. Il rifiuto del marchese motivò l’allontanamento da Ferrara del pittore che trovò a Bologna la fama e il riconoscimento che meritava. La scintillante cromia dei suoi affreschi, l’abbagliante solarità delle figure che animano la parete est – quella con i mesi di Marzo, Aprile e Maggio (in quest’ultimo Cossa fu coadiuvato da un aiutante) –, rappresentano la più

matura e felice coniugazione tra la purezza di forme fiorentina e le bizzarrie cromatiche e lineari ferra-resi. Memorabili sono alcuni brani di sorprendente bellezza e originalità: nel registro inferiore di Marzo, i sontuosi abiti di Borso o il falconiere che cerca di tenere a bada il cavallo imbizzarrito; nella fascia cortigiana di Aprile, la scena del Palio che raffigura Borso mentre assiste alla corsa effettuata da muli e da popolani. Nel Trionfo di Venere, sempre nell’Aprile, svettano invece i dettagli naturalistici dei cigni e dei conigli e le suadenti pose dei giovani che amoreggiano ostentando una serenità che deve essere stata condivisa dalla opulenta corte borsiana. Sui muri della parete settentrionale si alternano invece artisti appartenenti ad almeno due botteghe (tre o più, secondo alcuni studi). La prima, capeggiata dal cosiddetto “Maestro dagli occhi spalancati”, ripropone nei mesi di Giugno e Luglio in una scala notevol-mente più grande, le conquiste calligrafiche ed ornate dei miniatori estensi, con uno stile che trova in Cosmè Tura, il caposcuola dell’Offi-cina ferrarese, il suo punto di riferi-mento. Più moderna appare la bottega attiva nell’Agosto e nel Settembre. Allo stato attuale degli studi sembra verosimile ipotizzare che sia Ercole de’ Roberti (c. 1450-1496) l’autore sorprendente, furioso e fantasioso oltre ogni limite, del mese di Settembre, capace di dipingere scene di un’espressività sconcertante come il Trionfo di Vulcano, dove fabbri rabbiosi appaiono intenti a fabbricare armi mentre due figure, identificate con Marte e Venere, sono coperte da un lenzuolo che sembra sbalzato nel metallo. Nel

mese di Agosto la critica ha recente-mente proposto di riconoscere il maestro di Ercole de’ Roberti, vale a dire Gherardo di Andrea Fiorini da Vicenza (doc. tra 1424 e 1485-86), citato nelle carte d’archivio come «depintore de corte» negli stessi anni di Tura. Infatti, ciò che nell’Agosto appare solo abbozzato trova nel Settembre la più compiuta espressione: certa espressi-vità nelle figure e certe danze quasi macabre che si ammirano nel Trionfo di Cerere dell’Agosto si ritrovano, con un maggiore dinamismo, nel Trionfo di Vulcano. Un esempio è costituito dall’evidente legame tra il contadino agostano piegato in avanti, col volto seminascosto dal cappello, e le già citate figure dei fabbri di Vulcano, che presentano la stessa interpretazione impetuosa dell’anatomia e delle espressioni facciali. Analoghe similitu-dini si riscontrano nei decani dei due mesi, nel Settembre sottoposti ad una deformazione quasi demoniaca che si riscontra anche nell’Agosto. Un elemento che rende ancor più parti-colare il Salone dei Mesi è l’aspetto tecnico: il ciclo fu realizzato infatti solo parzialmente ad affresco (le pareti est e nord con i mesi da Marzo a Settembre), mentre il resto dell’impresa, circa il 55 o 60%, a tempera (le pareti ovest e sud con i mesi, rispettivamente, Otto-bre-Dicembre e Gennaio-Febbraio, più le scene urbane), circostanza che ha

portato alla quasi totale scomparsa di queste porzioni. Il perché di questa curiosa scelta ci sfugge, ma occorre ricordare che questa tecnica non era ai tempi inusuale: negli stessi mesi, infatti, Tura dipinge la cappella (oggi purtroppo scomparsa) della delizia di Belriguardo con il medesimo metodo a secco su muro. Dalle indagini condotte sulle decorazioni e da una lettura attenta della lettera di Cossa inviata a Borso a conclusione dei lavori, sembra di intendere che fu la “direzione lavori” a richiedere il passaggio della tempera all’affresco. I motivi di questa prefe-renza sono intuibili (l’affresco consente una conservazione più tenace delle decorazioni rispetto a un’applicazione di colore su un intonaco asciutto), ma non certo documentabili: un altro dei tanti misteri che ruotano attorno al Salone dei Mesi.Dopo i lavori di riparazione e migliora-mento strutturale post sisma del Palazzo curati dal Servizio Beni Monumentali del Comune di Ferrara, il Salone è ora fruibile con una nuova illuminazione progettata da Alberto Pasetti Bombardella: un sistema dinamico a led capace di spaziare dalla luce omogenea a scene specifiche offre ora un’inedita esperienza di visita, immersiva ed emozionale, che muterà per sempre la percezione del capola-voro dell’Officina ferrarese.

Bibliografia essenzialeM. Bertozzi, La tirannia degli astri. Gli affreschi astrologici di Palazzo Schifanoia, Livorno 1999;R. Varese (a cura di), Atlante di Schifanoia, Modena 1989; S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, in particolare: M. Folin, Borso a Schifanoia…, pp. 9-38; V. Farinella, I pittori, gli umanisti, il committente…, pp. 83-141; V. Farinella, Il registro mitologico…, pp. 232- 234; M. Toffanello, Vicende critiche e attribuzione degli affreschi, pp. 234-237 (tutti con bibliografia precedente); G. Sassu, Verso e oltre Schifanoia, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, a cura di M. Natale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, 23 settembre 2007 – 6 febbraio 2008), Ferrara 2007, pp. 407-425.

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Le complesse vicende conservative del Salone hanno determinato la quasi totale scomparsa della superficie pittorica delle pareti meridionale, occidentale e, par-zialmente, settentrionale, porzioni dipinte non ad affresco ma a colla a uovo e a olio su una preparazione di gesso e colla. Tale tecnica, del tutto consueta nei centri artistici dell’Italia quattrocentesca, deve aver agevolato il rapido deperimento dei dipinti murali che risultano quasi illeggi-bili già nella prima metà del Settecento.Il problema della decorazione a secco si interseca con un’altra questione ancora aperta riguardante i settori non interes-sati dai dodici mesi. Qui, il poco che si intravede della decorazione originaria ha suggerito che si snodasse una sorta di ciclo parallelo raffigurante immagini della città connesse ad eventi storici avvenuti durante il regno di Borso. Tale ipotesi si basa essenzialmente sull’interpretazione del primo scomparto dell’ala sud, pro-spiciente l’accesso al Salone dalla parete nord, dove si intravedono una figura in piedi con una lunga veste bianca e un copricapo, e una seduta nella quale pare potersi riconoscere lo stesso Borso. Nella

parte inferiore si scorgono invece delle colonne che reggono la trabeazione che fa da base alla scena superiore e alcune figure maschili e femminili che assistono a quanto si consuma in alto. Per alcuni studiosi questa scena rappresenterebbe l’investitura di Borso d’Este a duca di Ferrara da parte di Paolo II, mentre per altri – in considerazione del fatto che tale avvenimento si consumò nel marzo del 1471, quando il ciclo era già terminato – vi sarebbe rappresentato l’Imperatore Fede-rico III che concede a Borso d’Este il titolo di duca di Modena e Reggio nel 1452. Nel primo caso, l’inizio del ciclo decorativo sarebbe caratterizzato dall’evento cul-minante della carriera politica di Borso, nel secondo invece dall’atto che ne diede avvio.Recenti rilevamenti condotti in occa-sione di un tentativo di ricostruzione da parte dell’artista Maurizio Bonora, hanno evidenziato che la scena era più ricca di quanto immaginato finora: ai piedi della figura in piedi, infatti, si scorgono fram-menti di figure che sembrano rappresen-tare autorità civili e religiose, sottoline-ando la solennità dell’evento narrato.

Artista ferrarese (?)

L’Imperatore Federico III concede a Borso d’Este il titolo di duca di Modena e Reggio (?)

oppure

Un papa benedicente alla presenza di Borso d’Este (?), 1469-70

Dipinto murale (tempere) parete sud

Bibliografia essenzialeM. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 228-232 (con bibliografia precedente).

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Ben poco si riesce oggi a scorgere del mese di Gennaio. Nello scomparto superiore del primo mese dell’anno era raffigurato il Trionfo di Giunone. Appa-iono oggi leggibili le silhouette dei cavalli e del carro, mentre a livello pittorico sopravvivono alcuni frammenti, come gli ori nel margine inferiore, che rendono l’idea dell’opulenza materica che carat-

terizzava la superficie. Sulla destra della composizione si scorgono alcune figure femminili che paiono muoversi attorno ad un’altra impegnata a suonare. La lettura è ardua ma le tipologie dei volti, dalla fiacca serialità lineare, paiono rife-rirsi a modelli degli anni Sessanta circa come le due Muse di Budapest. Ancor meno si legge nei due registri inferiori.

Artisti ferraresi (?)

Gennaio, 1469-70

Dipinto murale (tempere) parete sud

Bibliografia essenzialeF. Frisoni, M Bertozzi e M. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 237-238 (con bibliografia precedente).

Artista ferrarese (?)

Vedute di città, 1469-70

Dipinto murale (tempere)parete sud

Al centro della parete meridionale, tra Gennaio e Febbraio, si trovava un camino di dimensioni monumentali; attorno all’area occupata da quest’ultimo sono parzialmente visibili due quinte urbane popolate da cavalieri e da cortigiani festanti.Nel contesto della decorazione del Salone questa porzione doveva rive-stire notevole importanza, trattandosi di scene di dimensioni più ampie degli stessi mesi. Ciò ha spinto diversi studiosi

ad ipotizzare che vi fosse rappresentata la giostra che si tenne nel 1464 dopo la peste che colpì Ferrara, un evento ricordato dalle cronache come fastoso e al quale partecipò, oltre a Borso, anche il futuro duca Ercole d’Este. Nonostante la caduta della pellicola pittorica è possibile riconoscere alcune vedute della città come il Duomo, il Castello e il Palazzo Ducale (oggi Palazzo Comunale).

Bibliografia essenzialeM. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 238-243 (con bibliografia precedente).

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34 35Artista ferrarese (?)

Febbraio, 1469-70

Dipinti murali (tempere) parete sud

L’intero scomparto di Febbraio è quasi del tutto illeggibile ma si ipotizza che nella parte superiore vi fosse raffigurato il Trionfo di Nettuno. Nel registro cortigiano compare per la prima volta il profilo di Borso d’Este a cavallo, attorniato da cortigiani anch’essi

a cavallo, ricavato da un cartone che verrà replicato, con qualche variante, in almeno altre cinque occasioni e sempre nelle fasce “terrene”. Queste sono le sole a risentire di una regia unitaria che impone agli artisti le scelte compositive.

Bibliografia essenzialeM. Bertozzi e M. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 243-245 (con bibliografia precedente).

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Nella metà superiore si intravede una quinta urbana particolarmente elaborata, con un portico abbastanza inconsueto per lo scenario ferrarese.Nella porzione inferiore di quest’area si scorgono invece delle figure a cavallo che appaiono di impianto assai nobile e il cui disegno di fondo ritroviamo sulla parete simmetricamente opposta.Molti studiosi si sono interrogati sull’i-dentità del pittore, proponendo ora il nome di Baldassarre d’Este, di Cosmè

Tura o di un maestro affine a Ercole de’ Roberti, ma ogni tentativo è franato davanti allo stato di conservazione, con le ampissime cadute di colore che evi-denziano il verde della preparazione, impedendo, di fatto, una lettura ade-guata. Inoltre, va sottolineato che la composizione appare elaborata “sotto dettatura”, dal momento che il cartone che sottostà alla figurazione è uno dei più reimpiegati nel ciclo.

Artista ferrarese (?)

Scena urbana e cavalieri a cavallo, 1469-70

Dipinto murale (tempere) parete sud

Bibliografia essenzialeM. Bertozzi e M. Toffanello in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, p. 245 (con bibliografia precedente).

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Marzo è il primo mese della parete orientale. La parte mitologica è dedicata al Trionfo di Minerva, il cui trono è trainato da unicorni bianchi, animali mitologici amati da Borso a causa del valore simbolico legato alla purezza. La divinità è qui proposta come dea della giustizia e, seguendo gli Astronomica di Manilio, come protettrice del segno dell’Ariete e del mese che astrologicamente vi è associato. A sottolineare il ruolo della dea protettrice delle arti e delle mansioni riservate alle donne, troviamo a sinistra un gruppo di sapienti variamente identificati con giuristi, letterati e medici (tra questi è stato ricono-sciuto anche Leon Battista Alberti), mentre a destra un gruppo di donne è intento a filare. Quest’ul-tima porzione è stata interpretata come esaltazione del duca che aveva introdotto la lavorazione della seta a Ferrara e promosso le attività tessili. Nella fascia mediana il segno dell’Ariete è accompagnato da tre decani. A sinistra, l’uomo dalla pelle scura e il vestito stracciato è stato identificato, secondo la lettura di Warburg, col “vir niger” che Albumasar riteneva essere la rappresentazione dell’antica costellazione di Perseo, mentre la donna al centro con la costella-zione posta sotto la sovranità di Cassiopea e l’elegante giovane a destra allude alla costellazione di Enioco. Nella fascia “terrena”, come in

tutto il ciclo, domina la figura di Borso raffigurato in tre occasioni distinte. L’ossessione ritrattistica borsiana si sposa qui con la didascalica chiarezza con cui sono rappresentati gli effetti del suo buongoverno sulla natura (più che sul popolo), ma anche, e soprat-tutto, le virtù ducali tanto osannate dalla letteratura encomiastica del tempo. Tali virtù si condensano iconograficamente nelle aree in cui Borso è rappresentato in piedi, quasi sempre all’interno di una quinta architettonica, attorniato dai suoi consiglieri, cortigiani e sudditi. Nel caso del Marzo, il riferimento alla giustizia è sugge-rito dall’iscrizione sull’architrave ornato da un profilo in rilievo all’antica dello stesso marchese. L’attività agricola raffigurata sulla sinistra della scena cortigiana, nonché la descrizione del paesag-gio, ha fatto supporre che in questa porzione si possa riconoscere l’area di Casaglia Nuova, bonificata e resa fertile da Borso proprio in quegli anni. Per quanto attiene lo stile, il nome di Francesco del Cossa fu speso per la prima volta in via ipotetica da Fritz von Harck nel 1871, ipotesi confermata dal ritrovamento della lettera indirizzata a Borso nel marzo 1470, in cui l’artista si dichiarava l’autore di «quilli tri campi verso l’anticamera». Tra l’altro, la figura del cavaliere che tiene a bada il cavallo imbizzarrito, sul margine sinistro del registro inferiore, è stata più volte letta

Francesco del Cossa (Ferrara, c. 1436 – Bologna, 1478)

Marzo, 1469-70

Dipinto murale (pittura ad affresco e a secco) parete est

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come una citazione, in controparte, del San Giorgio delle ante d’organo del Duomo, dipinte da Cosmè Tura entro il giugno del 1469 ed ora conservate al Museo della Catte-drale, elemento che costituisce un solido punto di riferimento per la datazione di quest’area d’affresco. Un’ulteriore annotazione tecnica appare importante per la scansione dei lavori. Le sovrapposizioni degli intonaci e le tracce di buche pontaie sulla parete est consen-tono di determinare che la decora-zione è stata condotta da sinistra

verso destra e dall’alto verso il basso e che quindi il mese di Marzo è stato dipinto da Cossa per ultimo. La parte con la citazione del San Giorgio di Tura è stata così realizzata a lavori quasi terminati. La totale assenza di echi del capolavoro turiano nelle altre aree di questa ala del Salone lascia ipotizzare che il resto della parete sia stata realizzata prima del giugno del 1469, cioè prima che il dipinto di Cosmè risultasse terminato e quindi visibile.

Bibliografia essenzialeA. Bacchi, Francesco del Cossa, Cremona 1991, pp. 54-74; V. Sgarbi, Francesco del Cossa, Milano 2003, pp. 82-114, 226-227; F. Frisoni, M. Toffanello, M. Bertozzi, M. Folin e W. Cupperi in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 245-260 (con bibliografia precedente).

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Il mese di Aprile e il relativo segno del Toro sono posti sotto la tutela di Venere, il cui carro è trainato da eleganti cigni. Dinanzi a lei Marte è inginocchiato e incatenato, evidente allusione al potere che l’amore può avere sulla guerra. Attorno al carro alcuni giovani cortigiani si scambiano effusioni, giocano e suonano, a sottolineare il clima idilliaco favorito dalla protezione della dea. A destra le figure delle Tre Grazie, pur essendo esemplate su modelli antichi, appaiono carnose e naturalistiche, quindi distanti dalle raffigurazioni classicheggianti e astratte che diventeranno di moda verso la fine del Quattrocento. Lo spazio zodiacale è occupato dal Toro e dai suoi tre decani: a sinistra la donna col bambino allude alla costellazione delle Pleiadi, mentre la figura al centro con la grande chiave si riferisce a Sirio, la stella della costellazione del Cane. L’ultima figura, l’arcigno uomo scuro con i denti aguzzi da cin-ghiale, accompagnato da un cavallo e da un cane, sembra una sintesi iconografica di diverse tradizioni astrologiche e parrebbe potersi identificare con Aldebaran o con la costellazione delle Iadi, la cui traduzione latina risale a un vocabolo greco che indica proprio il cinghiale. Nella fascia “corti-giana” si scorge a sinistra la consueta scena di caccia. A destra, Borso, mostrandosi principe iocundus, consegna un’onorificenza a Scocola, il suo buffone di corte

preferito. Poco sopra è raffigurato il Palio di Ferrara, straordinario spaccato urbano di una città che appare memore dell’insegnamento classicista di Leon Battista Alberti. Per gli aspetti di carattere stretta-mente artistico, il mese di Aprile presenta le medesime vicende critiche del Marzo. Qui, come in tutta la parete, appare assai forte l’impronta che il viaggio a Firenze ebbe su Francesco del Cossa. Infatti, molte delle soluzioni espresse nella parete est di Schifanoia appaiono impensabili senza una profonda conoscenza di quanto artisti come Domenico Veneziano o Alesso Baldovinetti, fautori di un’arte di grande equili-brio formale e cromaticamente scintillante nota come “pittura di luce”, avevano proposto a Firenze tra gli anni Quaranta e Sessanta. È da rimarcare il miracoloso equilibrio raggiunto da Cossa in ogni parte dell’Aprile, senza dubbio la più riuscita composizione dell’intero ciclo. Memorabili risultano infatti molti dei brani del Trionfo, fortunatissima icona di Ferrara e dell’arte estense, come il vigoroso decano sulla destra o i popolani del Palio impegnati a correre. La varietà delle acconcia-ture, delle pose e delle espressioni, confrontate con le altre parti sopravvissute del ciclo, consente di affermare che i registi visivi (Prisciani e/o Baldassarre d’Este) dovettero esercitare un controllo ferreo esclusivamente nelle scene del registro inferiore. Negli altri

Francesco del Cossa (Ferrara, c. 1436 – Bologna, 1478)

Aprile, 1469-70

Dipinto murale (pittura ad affresco e a secco) parete est

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due si limitarono a fornire la composizione generale e ad indicare gli attributi iconografici delle figure. Sembra invece un’idea autonoma di Cossa la straordinaria invenzione del paggio seduto sulla cornice dipinta, con le gambe che inva-dono lo spazio reale, che non trova riscontro nelle altre scene soprav-vissute. Il varco che oggi collega il Salone alla Sala delle Virtù è quello

originario: il milanese Santo Brasca, che visitò Schifanoia nel 1480, testimonia infatti che dal Salone si accedeva ad est alla Sala degli Stucchi, mentre di fronte, ad ovest, alla cappella del Palazzo. È credibile che, in prossimità dei varchi, la decorazione continuasse sulle porte, come avveniva per i pannelli che oscuravano le finestre sui lati settentrionale e meridionale del Salone.

Bibliografia essenzialeA. Bacchi, Francesco del Cossa, Cremona 1991, pp. 54-74; V. Sgarbi, Francesco del Cossa, Milano 2003, pp. 82-114, 226-227; F. Frisoni, M. Bertozzi, M. Folin e W. Cupperi in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 260-269 (con bibliografia precedente).

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È l’area della parete est che ha sofferto di più gli usi impropri imposti al Salone nel Sei-Sette-cento. La fascia superiore raffigura il Trionfo di Apollo, il cui carro è guidato da Aurora ed è trainato da cavalli mentre la divinità posta a protezione del segno dei Gemelli regge in mano il sole. A destra, nella porzione superiore, sono effigiate le Muse mentre sotto di esse trovano posto diversi bambini il cui significato non è identificabile con certezza. A sinistra, si scor-gono vari umanisti intenti a discutere. La porzione zodiacale vede al centro i Gemelli attorniati dai tre decani: il primo da sinistra – diffi-cilmente riconoscibile – pare fare riferimento alla sfera persiana, probabile richiamo alla costella-zione dell’Auriga, il secondo è composto dalle figure di Apollo ed Ercole che l’astrologo greco Tolomeo identificava con le stelle di Castore e Polluce. L’ultimo decano, una raffinata figura di arciere, si riferisce ancora alla sfera indiana di Albumasar ed è desunto dalla raffigurazione dell’Apollo greco. La scena inferiore, purtroppo mutila per la quasi totalità a causa dell’apertura di una porta, presenta solo pochi brani di pittura: si scorgono scene di vita di campa-gna che sicuramente accompagna-vano il passaggio di Borso e del suo seguito. Stando alla testimonianza

settecentesca di Girolamo Baruf-faldi, qui si vedeva il duca ricevere un cesto di ciliegie da un conta-dino. Al di sotto di questa scena, la zoccolatura sopravvissuta è meglio conservata, circostanza che consente di apprezzare le figure degli amorini. Anche se Cossa afferma nella lettera a Borso di essere l’autore di tutti e tre i campi della parete orientale, l’analisi dello stile testimonia che nel Maggio l’intervento diretto del maestro è assai circoscritto. Come nel resto di questa parete, il registro superiore è stato dipinto da sinistra verso destra. In tutta la porzione di sinistra, comprendente il carro e Apollo, l’intonaco è matericamente diverso, ruvido, posato con ampi gesti, mentre a destra, nel gruppo dei bambini, compare una stesura più accurata, liscia e a piccole porzioni, che si ritrova poi nel resto della parete. La sovrapposizione degli intonaci testimonia che questo secondo intervento è successivo al primo, proseguendo poi uniformemente nel resto della parete. All’analisi della tecnica si aggiunge quella dello stile: la porzione ad intonaco “ruvido” corrisponde, infatti, a una mano diversa da quella che dipinge sull’intonaco “liscio”. Questa seconda è certamente identifica-bile con quella di Cossa, attivo poi integralmente anche nella fascia zodiacale. La tipologia di stesura dell’intonaco sembra la stessa nella porzione bassa, anche se qui

Francesco del Cossa (Ferrara, c. 1436 – Bologna, 1478) e bottega

Maggio, 1469-70

Dipinto murale (pittura ad affresco e a secco) parete est

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si riconosce all’opera il pennello di un altro maestro, dal tono più brusco, non dissimile da quello che si rivede nella porzione sinistra della predella della Pala dell’Osser-vanza, ora a Dresda, dipinta da Cossa a Bologna qualche mese prima. Il problema dell’identificazione, quindi, chiama in causa le modalità di inizio dei lavori di Cossa. Il

pittore ferrarese ha sostituito un meno dotato maestro o ha lasciato impostare a questo artista il lavoro a lui affidato per poi sostituirlo in corso d’opera? Per quello che ci dice lo stile, sembra di poter avvalorare la seconda ipotesi, essendo la porzione sinistra e centrale molto in linea con la cultura figurativa cossesca.

Bibliografia essenzialeA. Bacchi, Francesco del Cossa, Cremona 1991, pp. 54-74; V. Sgarbi, Francesco del Cossa, Milano 2003, pp. 82-114, 226-227; M. Toffanello, F. Frisoni, M. Bertozzi e M. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 269-273 (con bibliografia precedente).

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Nell’area adiacente l’angolo sud-est, che separa Maggio da Giugno, compaiono dei cavalieri dipinti ad affresco che portano degli stendardi oggi bianchi a causa della caduta delle rifiniture a secco. Questi cavalieri hanno molto intri-gato la critica nel corso degli anni, con proposte alquanto diverse volte ora a sottolineare la conso-nanza con l’autore dei mesi di Ago-sto e Settembre (in realtà di mani diverse), ora a proporre l’imman-cabile nome di Cosmè Tura o di un suo capace allievo. Occorre però rilevare che i cavalieri della parete nord sono stretti parenti di quelli che si trovano di fronte, dall’altra parte della sala: entrambi i gruppi sono costruiti partendo da una medesima idea figurativa, da un cartone impiegato specularmente. Del tutto simili risultano infatti il cavallo e il cavaliere principale, ma

anche alcune delle teste e delle figure che fanno parte della parata. Un cartone che sarà reimpiegato in almeno altre tre occasioni nel regi-stro cortigiano. Dal confronto con i cavalieri della parete sud, quelli della parte nord emergono con una qualità davvero notevole. Assai dif-ferenti sono infatti non solo le vesti delle figure, che nella parete sud portano l’armatura, ma anche la riuscita stessa della composizione che l’affrescatore della parete nord risolve in chiave di risoluto plastici-smo e di delicata cromia, muoven-dosi certamente nel solco di Tura ma con un personale sentimento luminoso che lo distacca dagli altri pittori della medesima parete. La sua personalità è forse da identi-ficare nel pittore che, circa dieci anni prima, dipinge l’Euterpe dello Szépművészeti Múzeum di Buda-pest.

Artista attivo a Ferrara (seconda metà del XV secolo)

Cavalieri portabandiere, 1469-70

Dipinto murale (pittura ad affresco e a secco) parete nord

Bibliografia essenzialeM. Folin e M. Toffanello in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 273-275 (con bibliografia precedente).

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Al centro della scena superiore campeggia il Trionfo di Mercurio, il cui carro è questa volta raffigurato di profilo. Il mese è posto sotto la tutela del dio tradizionalmente protettore del commercio. Si spiega così la presenza, a destra come a sinistra, di mercanti, alcuni dei quali indossano abiti alquanto preziosi. Rafforza il riferimento a Mercurio la presenza del corpo senza vita di Argo che fu decapitato dallo stesso dio su incarico di Giove al fine di liberare Io, la ninfa trasformata in giumenta da Giunone (come narrato da Ovidio nelle Metamorfosi). La fascia astrologica è contraddi-stinta dal Cancro attorno al quale troviamo il primo decano identifi-cabile con Orione; il decano successivo è costituito da due donne, la seconda delle quali, seduta, pare potersi identificare con Iside, mentre il terzo è parte della costellazione di Argo: le fattezze di quest’ultimo paiono rimandare a Canopo, nocchiere di Argo, morto per il morso di un serpente. Lo stato di conservazione dell’ul-timo registro, così come di tutta di parete settentrionale, appare più problematico a causa delle infiltrazioni d’umidità che nel 1964 hanno consigliato il distacco degli affreschi (poi trasportati su nuovo supporto nel 1999-2000). Nel paesaggio e nei caseggiati del fondale della scena borsiana si è proposto di riconoscere la delizia di Belriguardo e l’area circostante,

identificando nella scena di sinistra Borso che qui riceve il titolo di Signore di Ferrara da Agostino Villa, giudice dei Savi. In realtà, più semplicemente, Borso sembra intento a ricevere dal personaggio inginocchiato una supplica. Pur non essendo presente alcun documento relativo a questo mese, la critica è da tempo concorde nel ritenere unitaria l’esecuzione dei tre registri. Per identificare questo artista si è proposto, dapprima, il nome convenzionale di “Maestro B”, autore anche di quasi due terzi del Luglio, poi quello più caratteri-stico di “Maestro dagli occhi spalancati” (A. Venturi), a causa degli occhi dei personaggi dipinti da questo artista a forma «di romboide, spalancati con dilatate e nere pupille». Attorno all’affresco di Schifanoia sono state così raccolte altre opere, facendo emergere la figura di un pittore alquanto operoso nella Ferrara del 1470 circa. Tra queste, quelle più sicure appaiono la Madonna col Bambino già in collezione Santini, il paliotto o antependium a tempera Vendeghini Baldi, le decorazioni del soffitto del dormitorio piccolo di Sant’Antonio in Polesine (tutte custodite presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara) e, infine, l’Ascensione conservata presso l’Abbazia di Nonantola. Il Maestro dagli occhi spalancati si forma sugli episodi chiave della scena artistica estense degli anni Cinquanta del Quattrocento, come le Muse di Belfiore, rimanendo in

Maestro dagli occhi spalancati (attivo nella seconda metà del XV secolo)

Giugno, 1469-70

Dipinto murale staccato (pittura ad affresco e a secco) parete nord

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seguito irretito dalla foga espres-sionista di Michele Pannonio e del primo Tura. Al tempo degli affreschi di Schifanoia, egli dimostra di avere meditato a lungo sull’elettrizzata visione della realtà

proposta dai miniatori che diedero vita al capolavoro ferrarese per eccellenza, la Bibbia di Borso, custodita presso la Biblioteca Estense di Modena.

Bibliografia essenzialeF. Frisoni, M. Bertozzi, M. Folin e W. Cupperi in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 275-281 (con bibliografia precedente).

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Il mese di Luglio è caratterizzato nel registro superiore dalla rappresentazione del Trionfo di Giove. Questi siede sul carro con Cibele a proteggere il mese del Leone, come prescrive Manilio negli Astronomica. Con grande realismo è raffigurato anche Attis, sullo sfondo a destra, il quale, reso pazzo da Cibele, si evirò. Il matrimonio effigiato a sinistra è stato invece interpretato come un riferimento all’unione della sorella di Borso, Bianca, con Galeotto della Mirandola.La fascia astrologica si apre a sinistra con una figura con tunica talare assisa su albero, riferimento alla costellazione dell’Idra e al relativo mito. Segue il segno zodiacale del Leone con al di sopra il secondo decano, derivato, come il precedente, dalla sfera indiana di Albumasar, ed identifi-cabile con Regulus, come paiono testimoniare la presenza del mirto e della freccia. Questa porzione d’affresco si chiude con una truculenta figura che si nutre di carne individuata dagli studiosi con Boote, custode della costella-zione dell’Orsa. Nella fascia terrena il consueto corteo è ambientato in un paesag-gio nel quale si è provato a riconoscere le sembianze di San Giorgio fuori le Mura (a destra) e del monastero di Sant’Antonio in Polesine (a sinistra), luoghi cari all’immaginario politico-celebra-tivo borsiano.Dal punto di vista stilistico non c’è

concordia tra gli storici circa l’identificazione del numero di artisti attivi nell’intero mese. Se si è certi che il Trionfo di Giove spetti al Maestro dagli occhi spalancati, autore del Giugno, più complessa è apparsa invece la genesi del Leone, dei decani e della scena di corte. Per la fascia zodiacale si è molto insistito sulla presunta diversa esecuzione tra il decano di destra, quello centrale e il resto della composizione. Dopo i vari nomi fatti nell’Ottocento (Tura, Cossa e Baldassarre d’Este, Galasso, l’anonimo Maestro C), si è arrivati nel Novecento ad ipotizzare la presenza da un lato di un maestro dal fare più elegante, che Roberto Longhi battezzò “Maestro dagli occhi ammiccanti”, dall’altro addirittura il coinvolgi-mento di Ercole de’ Roberti, almeno a livello progettuale, soprattutto per il decano centrale e quello di destra.Analogamente frastagliata appare la situazione per la scena corti-giana, dove, sin dalla fine dell’Ot-tocento, si tende a vedere all’o-pera almeno due botteghe.Alcune di queste ipotesi sono venute a cadere col tempo e recentemente si è constatato che nei mesi del Leone e del Cancro non si notano differenze così sostanziali. I modi corposi e angolari di costruire le figure, le tinte delicate e luminose, gli occhi spalancati, persino la calligrafia della pennellata che chiude i contorni, non paiono affatto

Maestro dagli occhi spalancati (attivo nella seconda metà del XV secolo) e bottega

Luglio, 1469-70

Dipinto murale staccato (pittura ad affresco e a secco)parete nord

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distanti dal Maestro dagli occhi spalancati, soprattutto nel registro superiore e mediano del Luglio, dove lo stile è compatto, rivelando semmai, solo nel decano di destra qualche differenza di stesura. L’omogeneità stilistica che si riscontra nei mesi di Giugno e

Luglio lascia pensare che i due settori siano stati dipinti in stretta contiguità, operando forse su uno stesso ponteggio che veniva abbas-sato man mano che si terminava il lavoro sulle coppie dei Trionfi, per poi passare alle scene zodiacali ed arrivare al registro cortigiano.

Bibliografia essenzialeG. Sassu in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, a cura di M. Natale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, 23 settembre 2007 – 6 febbraio 2008), Ferrara 2007, pp. 444-445; F. Frisoni, M. Bertozzi, M. Toffanello e M. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 281-288 (con bibliografia precedente).

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La scena mitologica è incentrata sul Trionfo di Cerere, quella zodiacale sul segno della Vergine, mentre in quello inferiore l’attività ducale principale è stata identifi-cata tradizionalmente con Borso che riceve l’ambasciatore bolo-gnese.Cerere è raffigurata sul consueto carro qui trainato da dragoni alati. Ella reca nella mano destra la spiga, così come prescritto negli Astronomica di Manilio. Sulla destra si scorge sul fondo il ratto di Proserpina, figlia di Cerere, considerata protettrice dei raccolti. Non a caso quindi, questa parte della decorazione è dominata dall’attività agricola di numerosi contadini.Attorno al segno zodiacale della Vergine, troviamo personaggi tratti dalla sfera indiana e persiana di Albumasar: a sinistra Proserpina, al centro una figura di difficile interpretazione astrologica, a destra una donna in atto di pregare che, secondo studi recenti, pare fare riferimento ad Iside.Dal punto di vista dello stile, una tradizione critica che risale a Fritz von Harck (1884) ha riunito i mesi di Agosto e Settembre assegnan-done l’esecuzione al medesimo pittore, il cosiddetto Maestro C, la cui personalità era identificata dallo studioso tedesco con lo stesso Cosmè Tura. Attribuendo nel 1934 il Settembre al giovane Ercole de’ Roberti, Roberto Longhi tracciò un solco assai netto con il

mese di Agosto, specie nel Trionfo di Cerere, che egli riteneva di debole mano, forse del fantoma-tico Antonio Cicognara. Conte-stualmente, il critico introdusse un altro elemento che ha avuto un vasto seguito, cioè l’attribuzione a Francesco del Cossa del terzo decano di destra, la donna inginocchiata a mani giunte, nel quale vedeva una maggiore qualità esecutiva.Spetta a Carlo Volpe (1977) il merito di aver rivalutato il mese di Agosto, riscontrandovi una realizzazione unitaria e invertendo i rapporti di forza instaurati fino ad allora dagli storici tra i due mesi: ogni idea plastica ed espressiva applicata da Ercole nel Settembre trova un corrispettivo sostanziale e meno estremista nelle figurazioni del Maestro dell’Agosto. A riprova di ciò, si possono confrontare alcune soluzioni figurative come il volto del contadino piegato seminascosto dal cappello nel Trionfo di Cerere con i fucinieri di Vulcano, ma anche il risalto plastico che, ad esempio, il primo o il secondo decano della Vergine condividono con l’arciere il terzo decano della Bilancia. Volpe risolveva così questa relazione tra i due mesi in un rapporto maestro- allievo che porterebbe ad identifi-care l’autore dell’Agosto nel maestro di Ercole. Un fortunato ritrovamento docu-mentario testimonia che nel marzo del 1467 Ercole è garzone di

Maestro dell’Agosto alias Gherardo di Andrea Fiorini da Vicenza (?) (documentato tra il 1424 e il 1485-86)

Agosto, 1469-70

Dipinto murale staccato (pittura ad affresco e a secco) parete nord

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bottega presso il “depintore de la corte” Gherardo di Andrea Fiorini da Vicenza. È apparso così assai naturale collegare tale informa-zione con quanto appena descritto, svelando così il nome del Maestro dell’Agosto e tornando a dare forma a uno degli artisti meglio documentati della Ferrara estense, il cui ruolo a corte fu centrale. Curiosa figura di decoratore di oggetti, trofei e carte da gioco, il nome di Gherardo da Vicenza emerge dalle carte d’archivio

sovente in relazione alle imprese decorative borsiane, a Belfiore come a Belriguardo, sino a Schifa-noia e al monastero della Certosa. L’artista sembra conservare un ruolo di punta anche con Ercole I, distinguendosi come uno dei più longevi artisti del tempo (essendo, infatti, documentato tra il 1424 e il 1485-86).Va ricordato che a Schifanoia Gherardo decorò anche la distrutta ancona della cappella del Palazzo.

Bibliografia essenzialeG. Sassu in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, a cura di M. Natale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, 23 settembre 2007 – 6 febbraio 2008), Ferrara 2007, pp. 444-447; F. Frisoni, M. Bertozzi, M. Toffanello e M. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 281-288 (con bibliografia precedente).

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Se Agosto è il mese delle attività agricole, Settembre è votato alle arti meccaniche. Perciò il protago-nista della prima scena è Vulcano, il cui trionfo è evocato dal carro trainato da scimmie. A sinistra, dominano la scena i ciclopi intenti a creare le armi della divinità romana e lo scudo di Enea ornato dalla rappresentazione della lupa che allatta Romolo e Remo. A destra, le due figure distese a letto sono state interpretate come Venere e Marte o come Ilia e Marte, genitori di Romolo.I decani attorno alla Bilancia non offrono certezze interpretative. Assai dubbia l’identità del primo, un curioso suonatore di flauto, e del secondo, dalle caratteristiche animalesche, forse raffigurazione di Engonasin, padre di Calisto cioè dell’Orsa maggiore. Il terzo decano, composto da due personaggi, è invece ben descritto da Albumasar e allude alla costellazione del Centauro.Nella parte riservata a Borso, un’antica ma inverificabile teoria vede la scena di maggior impor-tanza incentrata sul marchese che riceve l’ambasciatore veneziano. Il mese di Settembre si caratterizza per la particolare veemenza espressiva e plastica presente nelle scene del Trionfo e dei decani ma anche per le straordinarie e felicissime invenzioni, che spaziano dalle due figure mitologiche a letto, alla barbara violenza della fucina di Vulcano, dal decano-arciere col

viso seminascosto a quello che sovrasta la bilancia con il tremendo volto fortemente scorciato rivolto verso l’alto. Nell’Ottocento, sulla scorta delle fonti settecentesche, il riferimento a Tura o alla sua bottega ha rappresentato a lungo un obbligo critico, finché nel 1934 Roberto Longhi separò nettamente il pittore dell’Agosto dal «giovane lavorante [che] trova ancor modo di inven-tare lì per lì un suo personale cubismo furente e immaginoso», identificando in quest’ultimo Ercole de’ Roberti. Esordirebbe così a Schifanoia il terzo grande protagonista dell’Offi-cina ferrarese, che in seguito avrebbe collaborato con Cossa al polittico Griffoni in San Petronio a Bologna, dipingendo tra l’altro la movimentata e stupefacente predella, ora conservata ai Musei Vaticani. L’intuizione longhiana ha trovato in Italia consensi che sfiorano l’unanimità, mentre gli studiosi di matrice anglosassone tendono tuttora a rifiutare tale attribuzione, contrapponendo l’argomento che nel 1469 l’artista doveva essere troppo giovane. Su questa via sono venute le proposte alternative in favore di Gherardo di Andrea Fiorini da Vicenza avanzata da Luke Syson nel 2002, figura che le fonti d’archivio testimoniano essere stata centrale nella Ferrara dell’età di Borso. Ma proprio la pubblicazione di un

Ercole de’ Roberti (Ferrara, c. 1450 – 1496)

Settembre, 1469-70

Dipinto murale staccato (pittura ad affresco e a secco) parete nord

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importante documento di cui si fa cenno nella scheda precedente – che attesta come Ercole de’ Roberti fosse nel 1467, prima che collabo-ratore di Cossa, garzone della bottega di Gherardo da Vicenza – tende a convalidare l’ipotesi che maestro e allievo devono aver

lavorato rispettivamente al mese di Agosto e di Settembre, mentre altre analisi documentarie testimo-niano che nel 1469 Ercole doveva avere almeno 19 anni, età più che compatibile, per i tempi, con l’incarico di eseguire la decora-zione del mese di Settembre.

Bibliografia essenzialeG. Sassu in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, a cura di M. Natale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, 23 settembre 2007 – 6 febbraio 2008), Ferrara 2007, pp. 420-422; F. Frisoni, M. Bertozzi, M. Toffanello, M. Folin e W. Cupperi in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 294-300 (con bibliografia precedente).

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La porzione ad affresco si arresta con il mese di Settembre. Dopo di questo, tanto nella parte setten-trionale quanto in quella occiden-tale, è stata impiegata la stessa tecnica pittorica a secco utilizzata nell’ala sud. Come in quelle aree, quindi, il colore è quasi del tutto scomparso. Al di sopra dell’antico accesso al Salone si intravedono in alto a destra, riconoscibili dallo scudo araldico, le possenti mura di Ferrara: in questa scena, quindi,

riprende il filone narrativo urbano delle scene “extra mensili”. Alla destra dell’accesso, ormai semi scomparso, si scorgono appena le sembianze del cartone che raffigurava Borso a cavallo di pro-filo, elemento che ha suggerito di leggere l’intera scena come la tra-sposizione figurativa di un evento storico narrato dalle fonti: l’uscita da Ferrara di Borso nel giugno del 1453 per raggiungere i territori di Modena e Reggio dei quali aveva acquisito titolo ducale.

Artisti ferraresi (?)

Veduta di città e cavalieri a cavallo, 1469-70

Dipinto murale (tempere) parete nord

Bibliografia essenzialeM. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 300-301 (con bibliografia precedente).

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Dei mesi di Ottobre e Novembre sopravvive ben poco: essi dove-vano recare nella parte superiore e mediana rispettivamente il Trionfo di Marte e il segno dello Scorpione, il Trionfo di Diana e il Sagittario.L’accesso murato che interrompe la parete nel mese di Ottobre non è frutto di manomissioni. Da questo varco Borso poteva raggiungere la propria cappella privata, che aveva sull’altare un dipinto di Gherardo di Andrea Fiorini da Vicenza. La cappella è stata abbattuta in occasione della costituzione dello scalone di accesso attorno alla metà dell’Ottocento.Del mese di Dicembre, invece, si scorge qualcosa in più. Il Trionfo di Vesta, infatti, conserva brani di pittura di altissima qualità: delicati accordi cromatici, una finissima capacità di dipingere i dettagli e,

infine, una luce radiosa che appare debitrice non solo della tradizione estense ma, ancora di più, di quella fiorentina. Per questo ancora ignoto artista è stato coniato l’appellativo di “Maestro del Trionfo di Vesta”.Nel registro terreno – come si evince dal poco che si vede e, soprattutto, grazie anche alle eliografie realizzate nel 1923 da E. Fontana, tratte dai rilievi tracciati da Giuseppe Mazzolani – il ciclo terminava non con la consueta scena cortigiana, bensì con la rap-presentazione del Volto del Cavallo di Palazzo Ducale (oggi Comunale) ove era collocata la statua eque-stre di Niccolò III: un’immagine che legava pertanto Borso al patriarca estense, a sottolineare la continui- tà della dinastia.

Artisti ferraresi (?)

Ottobre, Novembre e Dicembre, 1469-70

Dipinti murali (tempere) parete ovest

Bibliografia essenzialeM. Bertozzi, M. Toffanello e M. Folin in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 301-309 (con bibliografia precedente).

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La Sala delle Virtù, nota anche come “degli Stucchi”, è collocata tra il Salone dei Mesi e la Sala delle Imprese. Essa fungeva probabilmente da camera per udienze e fa parte dell’ampliamento architettonico del palazzo ordinato da Borso d’Este nel 1466 ed affidato all’architetto di corte Pietro Benvenuto degli Ordini, che concluse l’opera architettonica entro la fine del 1469. Il marchese decise di sopraelevare la costruzione per ricavarvi il piano nobile nel quale collocò il proprio appartamento e i saloni di rappresen-tanza. La Sala è la più notevole testimonianza pervenutaci di un tipo di decorazione eseguita con materiali plasmabili assai diffusa a Ferrara almeno dagli anni Sessanta del Quattrocento; l’intero fregio è stato modellato in pastiglia, un amalgama ottenuto impastando gesso e acqua secondo un procedimento già impiegato da Donatello nei rilievi della Sacrestia Vecchia in San Lorenzo a Firenze. Come attesta un rogito stipulato dal notaio Giovanni Pasetti, il 3 aprile 1467 Domenico di Paris da Padova, «intarsiator lignaminum» abitante a Ferrara nella contrada di San Martino, s’impegnava a realizzare il soffitto della camera superiore appena edificata. Dal documento si apprende che esso doveva essere composto da parti in legno e rilievi di buon impasto e stucco, che le spese erano a carico dell’artista, il quale doveva completare

il lavoro entro sei mesi, e che il suo compenso gli sarebbe stato consegnato in sei rate mensili dal maestro Pietro degli Ordini. Nello stesso giorno maestro Bongiovanni di Geminiano «pictor» s’impegnava a dipingere il soffitto con colori fini, «azurino de Alemanea» e oro. Il soffitto sarebbe stato messo in opera intorno al 1469, anno in cui il palazzo fu «messo a solaro», e i libri mastri della Camera ducale iniziano a registrare pagamenti per il mobilio. Di poco successiva fu la realizzazione dei fregi parietali, modellati quando la stanza era già coperta. Nel 1471 Bongiovanni di Geminiano attendeva ancora paga-menti per lavori «fatti in la casa di Schifanoya». Lo spettacolare soffitto ligneo a cassettoni – ottagonali, semiottagonali e irregolari, profilati da cornici – è arricchito da fantasiosi, fittissimi motivi decorativi in stucco realizzati a stampo e dipinti (come conchiglie, baccelli, cespi d’acanto, rosoni, fiori, cornucopie, ecc.). Si tratta di un vero e proprio universo dell’araldica estense: le sei specchiature rettangolari contengono compassi con gli stemmi della Casa d’Este (aquila d’argento), della contea di Rovigo (aquila imperiale bicipite) e del ducato di Modena e Reggio (inquartato, con l’aquila imperiale bicipite e i tre gigli di Francia) e scudi dorati con le imprese di Borso d’Este, alcune delle quali

Pietro Di Natale

La Sala delle Virtù

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136 137inoltre nella sala «si confermano le radici lessicali padovane: nel motivo dei festoni combinati a putti, come nei profili angolari di questi (tanto che Domenico può sembrare una specie di Marco Zoppo della scultura…); mentre le Virtù sembrano accostarsi, senza raggiungerne l’essenzialità bellissima, e insistendo anzi su svolgimenti più dipanati, alla Madonna in terracotta di Santa Giustina a Padova, che mostra un simile, magari indiretto, filtro di fatti fiorentini, in certo modo già alternativi a Donatello». Se a metà del Quattrocento pittura e scultura a Ferrara si configurano attraverso il rapporto con Padova nel

doppio binomio Donatello-Baroncelli e Mantegna-Tura, allo scadere del settimo decennio del secolo si stabili-sce un’identità propriamente ferrarese che collega i modi pittorici di Cosmè Tura e Francesco del Cossa alla produzione plastica di Domenico di Paris. Non a caso, a conferma di questa significativa congiuntura stilistica, l’ideazione della decorazione della Sala è stata riferita allo stesso Cosmè da Adolfo Venturi (1924), il quale rilevava che il nome di Domenico non è sufficiente a spiegare l’abbagliante esuberanza della decorazione di questo capolavoro.

rinviano alla sua attività d’incoraggia-mento dell’agricoltura attraverso le bonifiche del territorio (unicorno, siepe di graticcio, paraduro con il motto “Fido”, fonte battesimale, “chiavadura tedesca”, abbeveratoio dei colombi, “chiodara”, sole).Sotto il soffitto, lungo la parte alta delle pareti, corre un’ampia fascia con rilievi in stucco raffiguranti angioletti reggifestoni, conchiglie, cornucopie e altri motivi decorativi. Sotto questa fascia, sulle pareti lunghe, sono disposte sei figure femminili in stucco dipinto raffiguranti le virtù. Sedute su eleganti scanni, sono collocate all’in-terno di nicchie poco profonde decorate da conchiglie, rosette e collane di perle chiuse da nappe. Nelle sottostanti tabelle è riportato il nome latino della virtù corrispondente. Ognuna è affiancata da una coppia di angeli tubicini; altri sono sistemati in corrispondenza di paraste con un’am-pia varietà di frutti. Sulla parete est troviamo le virtù teologali: la Carità vestita da un abito rosso; la Fede con il calice dell’Eucarestia; la Speranza con le mani in preghiera e l’ancora ai piedi, simbolo di stabilità e sicurezza. Sulla parete ovest le virtù cardinali: la Temperanza colta nell’atto di miscelare il vino e l’acqua, gesto che rinvia alla padronanza di sé e alla moderazione; la Prudenza con un piccolo specchio, immagine dell’apparenza fugace da cui ella non si lascia sedurre; la Fortezza che stringe a sé una colonna con capitello, suo attributo consueto. Sulle pareti lunghe, tra le nicchie, sono presenti quattro specchiature rettango-lari delimitate da bande riccamente decorate con al centro eleganti, sfarzosi medaglioni recanti gli stemmi estensi sorretti da coppie di angioletti. Altri riquadri decorati con medaglioni con

lo stemma del ducato di Modena e Reggio e le imprese del battesimo e dell’unicorno si vedono sulle pareti corte (tre per parte). Anche in questo caso, come sulle pareti lunghe, gli spazi tra i riquadri sono scanditi da paraste di frutti coloratissimi sulle quali sono collocati angioletti tubicini. In totale si contano quarantasei sculture raffiguranti angioletti. Infine, come dimostra un piccolo frammento sopravvissuto, la parte bassa delle pareti era originariamente affrescata con un finto arazzo.Curiosamente è assente la raffigura-zione della Giustizia, la quarta virtù cardinale. Secondo alcuni studiosi essa sarebbe presente nell’affresco del Mese di Marzo di Cossa nell’adiacente Salone, nel quale Borso è raffigurato in veste di amministratore della giustizia (quindi essa sarebbe stata incarnata dal duca stesso). Secondo altri, invece, la virtù sarebbe stata in origine dipinta sul camino e, quindi, andata perduta. Come accennato, l’ambiente svolgeva il ruolo di anticamera agli appartamenti privati di Borso e doveva avere fun-zione di sala delle udienze. La raffigu-razione delle virtù, quindi, intendeva celebrare le qualità che guidavano l’azione di governo del principe e, al contempo, ne proteggevano la figura.La decorazione della Sala degli Stucchi è il solo termine di confronto sicuro per analizzare le opere attribuite a Domenico di Paris. Riferimenti donatelliani si riscontrano sia nei modelli degli angioletti sia nel reperto-rio decorativo (vasi e candelabre). Le Virtù, come ha notato Massimo Ferretti (1991), «offrono un confronto imperfetto con l’ispido ideale del Tura, perché Domenico, superata ormai la sintesi statuaria di Donatello, si volge ad un flusso plastico più addolcito»;

Bibliografia essenzialeP. Di Natale in V. Sgarbi (a cura di), Domenico di Paris e la scultura a Ferrara nel Quattrocento, Milano 2006, pp. 32-53 n. I.1.8 (con bibliografia precedente); S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 311-319.

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138 139La Sala delle Imprese

Caratterizza la sala, al punto da donarle il nome, il sontuoso fregio ligneo recante le imprese di Borso e il magnifico soffitto a cassettoni con decorazioni policrome e dorate. I sistemi di montaggio e le tipologie produttive impiegate per stucchi e colori suggeriscono che abbia operato la stessa bottega attiva nell’attigua Sala delle Virtù e che quindi, anche in questo caso, la cronologia debba cadere attorno al 1467-69.L’ambiente è il risultato di diversi rimaneggiamenti: le tipologie decorative della parte inferiore delle pareti, con imprese di dimensioni maggiori rispetto al fregio e stucchi frammentari, testimoniano che probabilmente, prima degli inter-venti del 1469 circa, questa era la porzione superiore degli ambienti sottostanti. Attraverso attestazioni documentarie apprendiamo che questa stanza era probabilmente la camera da letto del duca e che fino almeno al 1484 il pavimento era decorato da ricchi marmi.

Le imprese, o divise, araldiche di Borso d’Este, come si diceva, rappresentano l’elemento più caratteristico di questo ambiente. Esse compaiono nel fregio per ben 28 volte, lievemente variate e spesso combinate. Associate sovente a significati simbolici quasi apotropaici legati al benessere (il sole o la fiamma), spesso evocano il tema della sicurezza dei sudditi e della signoria (tavola chiodata e “chiavadura tedesca” o picchiotto) investendo l’attività di salvaguardia del territorio e la conseguente prosperità econo-mica e alimentare (unicorno, paraduro e abbeveratoio).Una fenomenologia per immagini delle qualità del regnate, quindi, che oggi può apparire ermetica ma che al tempo doveva essere facilmente interpretabile da tutti, essendo questi simboli sparsi in ogni luogo della città e in quanto tali familiari a qualsiasi cittadino della Ferrara del tempo.

Giovanni Sassu

Bibliografia essenzialeR. Varese e W. Cupperi in S. Settis e W. Cupperi (a cura di), Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, Modena 2007, vol. Testi, pp. 319-323 (con bibliografia precedente).

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La medaglia ritratto per le sue peculiarità formali e per il fine eminentemente celebrativo è consi-derata dagli studiosi, pressoché unanimemente, una creazione originale del Rinascimento italiano. Nata dall’aspirazione dei principi a realizzare e diffondere una immagine di sé capace di esaltare le virtù individuali e insieme di idealizzare il ruolo politico conquistato, ebbe grande successo nelle corti padane per le sue caratteristiche formali, espressive e per i messaggi di cui poteva essere portatrice. Fu Pisanello, interpretando tali esi-genze alla luce della dominante cultura dell’uma-nesimo, a introdurre questo oggetto, concettual-mente nuovo: un perfetto mezzo di promozione personale, in grado di diffondere l’immagine pubblica del Signore, documentandone al dritto la fisionomia ed esprimendo al rovescio il suo mondo ideale, raffigurato attraverso emblemi ed imprese. La corte estense svolse un ruolo centrale nella fase di esordio di questo inedito genere espressivo: è possibile che proprio a Fer-rara, in occasione del Concilio del 1438, l’artista abbia realizzato il suo primo esemplare, dedicato a Giovanni VIII Paleologo. Poco più tardi, tra 1441 e 1444, Pisanello fuse una celebre serie dedicata al marchese Leonello, dove allo splendido ritratto facevano da contrappunto una serie di immagini simboliche assai complesse e di controversa interpretazione. L’effigie pisanelliana è di grande forza espressiva e rivela i modi del grande maestro, che nella legenda ama definirsi pictor: la purezza della linea di contorno, l’incisività dei tratti, la sobrietà dei dettagli, richiamano infatti l’immagine di Leo-nello, finemente delineata dall’artista nel celebre ritratto su tavola ora nell’Accademia Carrara di Bergamo. Il marchese, di profilo secondo la tradi-zione classica, è abbigliato di cotta con sopra-veste ornata ed ostenta una capigliatura tanto folta da sembrare quasi una criniera; in ragione di questo gioco verbo-figurativo, Leonello verrà rappresentato come un vero leone nella fusione per il matrimonio con Maria d’Aragona.Sui rovesci di queste medaglie campeggiano rap-presentazioni simboliche dalla complessa allusi-vità, profondamente legate ai fondamenti della

cultura umanistica e filosofica del marchese e mai completamente decodificate. Tra le imprese più celebri è la lince bendata: leggendariamente capace di vedere attraverso i muri ed assunto come simbolo della vista, l’animale rappresente-rebbe la sagacia dell’uomo di governo, in grado di conoscere ogni cosa, anche senza vederla direttamente.Secondo una delle interpretazioni più accredi-tate, si ravvisa infatti nel contesto dell’intera serie un prevalente significato politico: la rappre-sentazione di un principe dotato di eccezionali qualità morali e capacità di governo e per questo garante di pace, sicurezza e prosperità per il suo popolo. Il triplice volto, affiancato da cataste di armi e rami di ulivo, in questa chiave può essere letto come un messaggio di prudenza e volontà di pace; tuttavia è stato variamente interpretato anche come simbolo di vigilanza e autodifesa o ricondotto al concetto di triplicità della filosofia medievale. La vela legata alla colonna, che qui vediamo sul pilastro retrostante il leone sulla medaglia nuziale, rientra nell’ambito delle allegorie allusive all’equilibrio tra forze contrastanti, espresso dal motto Festina lente (affrettati lentamente), tratto da un testo di Aulo Gellio (II sec. d.C.), molto apprezzato alla scuola di Guarino da Verona, precettore di Leonello. Si tratta di un monito per il buon condottiero, che deve decidere con ponderazione per poi agire con fulminea rapidità; in maniera più immediata l’impresa è stata letta altresì come messaggio di stabilità di governo.Dopo la morte di Niccolò III (26 dicembre 1441), Leonello commissiona una medaglia in memoria del padre ad Amadio da Milano, orafo noto per aver realizzato anche una serie di sigilli con le imprese e vari lavori in argento per Borso. Qui il profilo del marchese, fiero e possente, è carat-terizzato da fattezze piuttosto marcate: collo grosso, mandibola pronunciata, labbra carnose. Sul verso è rappresentato lo scudo estense nella forma inquartata, generata dall’accostamento dell’aquila d’Este con i gigli di Francia; per concessione di Carlo VII al marchese Niccolò, la casata poteva fregiarsi di questo privilegio dal

Le medaglie

Antonio di Puccio Pisano detto Pisanello (c. 1394 – 1455)

Leonello d’Este, 1441-44

D. Busto del marcheseR. Triplice voltoBronzo, diametro mm 66 inv. NU51185

D. Busto del marcheseR. Triplice voltoPiombo, diametro mm 66 inv. NU51184

D. Busto del marcheseR. Giovane semisdraiato e anfora con rami d’ulivoBronzo, diametro mm 68 inv. NU51189

D. Busto del marcheseR. Lince bendataBronzo, diametro mm 68 inv. NU51183

Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Medaglie

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144 145Antonio di Puccio Pisano detto Pisanello (c. 1394 – 1455)Leonello d’Este, 1444D. Busto del marchese R. Leone canta, Cupido gli regge lo spartitoBronzo, diametro mm 101 inv. NU51190

Amadio da Milano (doc. tra il 1437 e il 1483)

Niccolò III d’Este, 1444-50

D. Busto del marchese R. Stemma estense inquartatoBronzo, diametro mm 60 inv. NU51137

D. Busto del marchese R. Stemma estense inquartatoBronzo, diametro mm 63 inv. NU51138

Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Medaglie

1431. La corona d’alloro che lo circonda accentua il tono di esaltazione dell’oggetto, che compendia la glorificazione della casata e quella del prin-cipe, ritenuto dagli storiografi di corte il pater patriae che aveva saputo consolidare l’autorità della signoria. Negli stessi anni Leonello, con il medesimo intento, fa erigere nella piazza della città una statua equestre in bronzo, che ritrae il padre Niccolò come un imperatore romano in trionfo.Gli inconfondibili, marcati lineamenti di Borso in età matura vengono ritratti da vari medaglisti di ambito ferrarese, tra cui Petrecino, autore della più celebre di queste fusioni. L’identificazione di questo artista fiorentino, di innegabile mae-stria, risulta molto incerta: forse fu paggio del duca e pittore di carte da gioco. Sulla medaglia, datata 1460, il duca viene rappresentato in abiti sfarzosi, con l’alta berretta di panno rosso su cui risalta il balasso, una pietra preziosa simile al rubino, sul petto è appuntato uno splendido gio-iello a forma di fiore. L’elegante abbigliamento impreziosito da gioielli era una delle manife-stazioni esteriori peculiari di Borso, come ci è tramandato dalle miniature di vari straordinari codici (ad esempio le Tabulae Astrologiae di Giovanni Bianchini della Biblioteca Ariostea o il Trattato del modo di ben governare di Tommaso da Ferrara della Trivulziana).Il profilo dagli occhi sporgenti e dal caratteristico doppio mento, è quello della ritrattistica uffi-

ciale, più volte ripetuto nello straordinario ciclo affrescato del Salone dei Mesi, eletto a cele-brare la personalità del Signore e ad esaltarne il buon governo. Nella legenda l’Estense si fregia del titolo di duca di Modena e Reggio e conte di Rovigo, ricevuto dall’Imperatore Federico III; soltanto più tardi, nel 1471, papa Paolo II gli con-ferirà il ducato anche per Ferrara. Anche per le medaglie di Borso ricorre il motivo delle imprese: il fonte battesimale con la ciotola sul rovescio dell’opera di Petrecino è una delle rappresenta-zioni simboliche predilette dal duca; esprime, come l’unicorno, un concetto di purificazione allusivo alla importante opera di bonificazione intrapresa nelle malsane valli del ferrarese, evo-cando al contempo anche la pretesa castità del principe, che doveva garantire la successione del fratello Ercole.L’ultimo grande medaglista del Quattrocento attivo a Ferrara è Sperandio, figlio dell’orafo romano Bartolomeo Savelli; la sua abilità si manifesta nelle medaglie ritratto di straordinaria efficacia di Ercole I e del fratello Sigismondo, e infine nella fusione celebrativa del matrimonio di Ercole con Eleonora d’Aragona, sulla quale i due sposi vengono rappresentati affrontati entro una corona di alloro, mentre, in alto, un amorino protegge l’unione. Sperandio fu anche valente scultore: è opera sua lo splendido busto in marmo di Ercole I oggi conservato nella Palaz-zina di Marfisa, destinato, insieme ad un altro

Bibliografia essenziale: G.F.Hill, A Corpus of Italian Medals of the Renaissance before Cellini, London 1930 (rist. anast. Firenze 1984); G. Boccolari, Le medaglie di casa d’Este, Modena 1987; M.G. Trenti Antonelli, Il ruolo della medaglia nella cultura umanistica, in Le Muse e il principe. Arte di corte nel Rinascimento padano, a cura di A. Mottola Molfino e M. Natale, catalogo della mostra (Milano, Museo Poldi Pezzoli, 20 settembre – 1 dicembre 1991), Modena 1991, vol. Saggi, pp. 25-35; The Renaissance Portrait: from Donatello to Bellini, a cura di K. Christiansen e S. Weppelmann, catalogo della mostra (Berlino, Bode Museum, 25 agosto – 20 novembre 2011; New York, Metropolitan Museum of Art, 21 dicembre 2011 – 18 marzo 2012), New York 2011, cat. 82 (con bibliografia precedente).

ritratto gemello, a decorare la porta di accesso della tenuta di caccia del Barco. Qui il ritratto di profilo “all’antica”, la nettezza dei contorni, la cura calligrafica nella descrizione dei capelli e dei particolari della corazza, denunciano l’esperienza dell’autore come medaglista. La selezione scelta per questa occasione si chiude con una creazione estremamente pregevole nel disegno e del tutto particolare per la resa a bassissimo rilievo; vi è raffigurato Alfonso in tenera età, contrapposto ad Ercole bambino che, nel mito classico, strangola i serpenti inviati da Giunone per ucciderlo. La medaglia, fusa nel 1477

in occasione del fidanzamento del piccolo Alfonso con Anna Sforza, non solo intendeva presen-tare ufficialmente il legittimo erede al ducato di Ferrara, ma anche identificarlo, come il padre, con l’eroe del mito, già precocemente partecipe di straordinarie virtù fisiche e morali. Le eccezio-nali caratteristiche plastiche del ritratto, unite alla resa del fanciullo ed alla grafica eleganza della composizione sul rovescio, hanno attirato l’attenzione degli studiosi che ne ipotizzano una derivazione da disegno di Cosmè Tura.

Maria Teresa Gulinelli

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Scuola ferrareseBorso d’Este, post 1471Busto del ducaBronzo, mm 87 x 57inv. NU51110

Sperandio Savelli (1431-1504)Ercole I d’Este ed Eleonora d’Aragona, 1472Uniface: Busti degli sposiBronzo, diametro mm 110inv. NU51109

Scuola ferrareseAlfonso bambino, 1477D. Busto infantile R. Alfonso come Ercole stringe due serpenti Bronzo, diametro mm 68inv. NU51126

Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Medaglie

Petrecino da Firenze (doc. nel 1460)Borso d’Este, 1460D. Busto del duca R. Fonte battesimaleBronzo, diametro mm 93inv. NU51139

Jacopo Lixignolo (doc. nel 1460)Borso d’Este, 1460D. Busto del duca R. Unicorno che immerge il corno in un ruscelloBronzo, diametro mm 82 inv. NU51140

Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Medaglie

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Boccale con profilo derivato dall’iconografia di Leonello, terzo quarto del XV sec.Terracotta ingubbiata, graffita e dipinta, diametro cm 18,5 Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Giovanni Pasetti inv. OA166

La selezione esposta in mostra fa parte della cospicua collezione ceramica del ferrarese Giovanni Pasetti (1855-1933), acquisita dal Museo Civico di Schifanoia nel 1935. Il nucleo più celebre della raccolta è costituito da graffite, databili tra seconda metà del XV secolo e gli inizi del XVI, riferibili alla pro-duzione di Ferrara sulla base di attribuzioni stilistiche, dati tecnici e sito del ritrova-mento. La ceramica graffita è una tipologia di fine vasellame da mensa caratterizzata da un particolare processo di fabbricazione: la decorazione viene incisa con uno stilo sul vaso forgiato al tornio e ricoperto da un sot-tile strato di argilla bianca (ingobbio); dopo una prima cottura, la superficie viene colo-rata con ossidi metallici e successivamente coperta da vetrina piombifera impermeabi-lizzante, per poi accedere ad un’ultima defi-nitiva cottura. Alle varietà cromatiche fon-damentali, ottenute da ramina e ferraccia, si aggiungono più raramente il giallo antimonio e il manganese; la particolarità tecnica di produzione impedisce di ottenere campi-ture di colore precise e determina l’imporsi del disegno come elemento privilegiato nei confronti del colore. Tra le graffite ferraresi della seconda metà del Quattrocento alcuni esemplari presentano figurazioni partico-larmente notevoli: si tratta di vasellame raffinato, destinato alla tavola della corte e dei nobili, caratterizzato da un ricco reper-torio figurato. Per soddisfare la richiesta di committenti colti, facoltosi ed esigenti, gli artigiani attingono dalle espressioni artisti-

che del loro tempo: nel repertorio figura-tivo, in una variata decorazione vegetale, si replicano volti, animali, simboli, stemmi, tra i quali possiamo riconoscere imprese estensi, echi della ritrattistica di corte ed elementi iconografici derivati dai gruppi di cavalieri e di dame dei grandi cicli affrescati. Molte sono le suggestioni che scaturiscono dall’osservazione dei pezzi esposti, in cui ricorrono profili di giovani e busti di nobili con eleganti copricapo di ambiente cortese. In particolare il profilo di giovane dalla folta capigliatura, racchiuso in un grande meda-glione, si rifà palesemente alla ritrattistica pisanelliana di Leonello, mentre il paggio di spalle ci riporta alla mente i giovani amanti del giardino dell’amore di Aprile. Il ritratto di nobiluomo visto di trequarti sembra derivare dalle figure di nobili cavalieri che attorniano Borso nella fascia inferiore del Salone; qui il ceramista si cimenta con un tema di grande difficoltà, risolto con fatica, come dimostrano la sproporzione del collo e la postura innaturale dell’uomo. Uno dei pezzi più interessanti è infine il grande piatto con angelo sotto il padiglione. La figura, seduta su un basso trono, con l’indice destro rivolto verso l’alto ed una grossa sfera poggiata sul ginocchio, è portatrice di un forte messaggio simbolico; il significato di questa immagine, assimilabile alle rappresentazioni di Muse e Virtù, è ancora oggi da decriptare.

Maria Teresa Gulinelli

La ceramica graffita

Bibliografia essenziale: G.L. Reggi, Ceramica nelle civiche collezioni, Firenze 1972; A.M. Visser Travagli, Ceramiche a Ferrara in età estense dalla Collezione Pasetti, Firenze 1989; G. Cesaretti, L. Bonazzi, I. Galvani (a cura di), Ceramica graffita ferrarese: materiali per una bibliografia ragionata, Firenze 2011.

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151150

Frammento di piatto con giovane visto di spalle, terzo quarto del XV sec. Terracotta ingubbiata, graffita e dipinta, cm 24 x 15 x 4,5 inv. OA179

Frammento di boccale con profilo di giovane con cappello a punta, ultimo quarto del XV sec.Terracotta ingubbiata, graffita e dipinta, diametro cm 13inv. OA168

Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Giovanni Pasetti

Grande piatto con angelo,ultimo quarto del XV sec.Terracotta ingubbiata, graffita e dipinta, diametro originale cm 40,6Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Giovanni Pasetti inv. OA190

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Frammento di piatto con profili di due giovani, ultimo quarto del XV sec. cm 28 x 16 x 4,5 inv. OA177

Bacino con nobile visto di spalle, ultimo quarto del XV sec. diametro originale cm 29 inv. OA178

Piatto con fanciulla che suona il liuto, ultimo quarto del XV sec. diametro originale cm 26,9 inv. OA186

Bacino con busto di giovane con ampio copricapo, ultimo quarto del XV sec. diametro originale cm 23,3 inv. OA165

Piatto con giovane che cammina, ultimo quarto del XV sec. diametro originale cm 27,2 inv. OA180

Terracotta ingubbiata, graffita e dipinta Ferrara, Museo Schifanoia, Collezione Giovanni Pasetti

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La nomina, il 20 agosto 1461, di Filippino da Rancate come primo priore della Certosa di Ferrara segna l’inizio delle attività del mona-stero di San Cristoforo, fortemente voluto e sostenuto da Borso d’Este. La conclusione del cantiere non segna però la fine della munifica beneficenza del primo duca di Ferrara nei confronti dell’ordine certosino. Prova ne è la commissione della monumentale serie di libri liturgici, sei Gra-duali e dodici Antifonari, e dell’altrettanto imponente Bibbia in quattro volumi, desti-nati ai canti corali e alle letture comunitarie. L’esemplazione della Bibbia, di cui il codice qui esposto costituisce la prima parte, venne affidata al monaco professo Matteo d’Ales-sandria, come dimostrano le sottoscrizioni del terzo e quarto volume, terminati rispetti-vamente nel 1469 e nel 1476. La scrittura dei primi due tomi deve essere stata pertanto realizzata nel biennio 1467-69. L’ipotetica datazione risulta pienamente confacente all’attribuzione per via stilistica dell’intero apparato decorativo a Gugliemo Giraldi e alla sua bottega, che portò a com-pimento l’incarico ben oltre la morte del committente, come denota la presenza, già nel frontespizio del secondo volume, dello stemma estense con chiavi papali associate alle imprese di Ercole (successore di Borso a partire dal 1471). Se nel terzo e nel quarto volume, sempre riccamente miniati ma più piccoli e assai meno figurati, è difficile individuare la mano di un singolo artefice, nel secondo, e ancor più nel primo, la regia complessiva e l’autografia di Giraldi sono indi-scutibili. In quest’ultimo codice, che inaugura

il ciclo biblico e che contiene i prologhi di san Girolamo oltre ai sette libri prescritti in Qua-resima dall’ordo certosino (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosuè, Giu-dici e Ruth), la critica è infatti ormai concorde nel riconoscere la sola mano del maestro che, nel suo stile ormai maturo, lascia intrave-dere gli stretti vincoli con quanto si andava realizzando a Ferrara in quegli stessi anni, sia in scultura che in pittura. Con un raffinatissimo uso dello spazio Giraldi orna ogni carta d’inizio dei singoli libri grazie a ricchi fregi con stemmi, animali, figure di santi, simboli certosini e imprese di Borso, circondando le iniziali figurate con un appa-rato decorativo che fin dalla prima carta (c. 1r) conferma un’attenta conoscenza dei modi di Cosmè Tura e di Francesco del Cossa. Una padronanza del linguaggio figurativo dei pittori della scuola locale che nel frontespi-zio della Genesi (c. 7v) tocca uno dei punti qualitativamente più alti. Nella storia della creazione, frammentata nei quattro meda-glioni del fregio laterale e nella struttura architettonica del bas de pages, il miniatore si rivolge al fare stilistico di Tura prediligendo il suo duro panneggiare e la sua caratteristica esasperazione espressiva. Il risultato è una carta dove figure e ornato convivono in un raf-finato gioco di forme che, unendosi ad un uso dello spazio debitore di Piero della Francesca, dà vita alla straordinaria iniziale figurata I (In principio), non più semplice lettera ma architettonico spazio d’azione di giovani putti intenti a giocare e suonare.

Romeo Pio Cristofori

Guglielmo Giraldi (documentato a Ferrara tra il 1441 e il 1494)

Bibbia di San Cristoforo alla Certosa Volume I, c. 1467 – prima del 1471

Membranaceo, mm 697 x 500, cc.179 n.n. (numerazione recente a matita nel margine inferiore sinistro)Ferrara, Museo Schifanoia, inv. OA1346

Bibliografia essenziale: E. Bonatti in La miniatura a Ferrara dal tempo di Cosmè Tura all’eredità di Ercole de Roberti, a cura di A. M. Visser Travagli, G. Mariani Canova, F. Toniolo, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo Schifanoia, 1 marzo – 31 maggio 1998), Modena 1998, pp. 189-197, cat. 31 (con bibliografia precedente).

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L’opera proviene dalla chiesa di San Giovanni Battista, che probabilmente non è la sede originale poiché non è citata dalle guide cittadine del Seicento; è documentata per la prima volta nel 1722 da Brisighella che la descrive «mirabilmente formata dal nostro Alfonso Lombardi». L’attribuzione è mante-nuta da Barotti, Scalabrini e Frizzi; nell’Ot-tocento Aventi e Luigi Napoleone Cittadella menzionano il Lombardo e la sua scuola. Reggiani all’inizio del ‘900 non si discosta da questa posizione, mentre Medri, pur non risconoscendo la paternità ad Alfonso, avverte echi di una cifra artistica che lo porta ad inquadrare la terracotta nella produzione giovanile dell’autore, ravvisando l’influenza di Mazzoni. Per giungere al riconoscimento della maniera di Mazzoni, si deve aspettare la felice intuizione di Ranieri Varese che nell’essenziale contributo del 1972 sostiene un forte colle-gamento con il Compianto della scomparsa chiesa della Rosa, oggi nella chiesa ferrarese del Gesù. Con la chiusura di San Giovanni Battista, la scultura dal 1956 è trasferita all’I-stituto della Provvidenza e vi rimane sino al 1974, quando entra in deposito permanente ai Musei di Arte Antica. Tradizionalmente il busto è ritenuto un frammento di un più ampio gruppo scultoreo, un Compianto sul Cristo morto, una Crocifissione o una Pietà. Sposa questa ipotesi Beatrice Giovannucci Vigi, identificando il volto della Vergine Addolorata con quello della Madonna nel gruppo della chiesa del Gesù, nota l’affinità della veste che cela pesantemente le membra piegate

dal dolore, sottolineandone la differenza con l’abbigliamento delle altre Marie; la medesima tesi è sostenuta anche da Adalgisa Lugli che, però, puntualizza come la monacale severità dell’abito si ritrovi anche in quello delle due pie donne, ma solo nel Compianto di Busseto. Il restauro del 2000 modifica la visione della severa e uniforme cromia, riportando alla luce il verde all’interno del manto, il rosso della veste che dà rilievo al bianco freddo del soggolo che incornicia il rosa deciso dell’incarnato, in cui spiccano tragicamente le lacrime, e il manto è impreziosito da filetti in oro applicati con gomma arabica; elementi questi che suggeriscono un forte paralleli-smo fra miniatura e scultura, come rilevato da Barstow. Il capo inclinato, le dita delle mani nervosamente intrecciate e il panneg-gio serrato accostano la nostra Dolente alla postura delle Marie, suggerendo una forma monolitica, lontana dall’appariscente gesto di disperazione della Madre che nei Compianti a braccia aperte si inchina verso il corpo del Figlio. Lo sguardo della Dolente rivolto in alto a sinistra potrebbe richiamare una Crocifis-sione, ma ricorrendo all’iconografia classica la Vergine è sempre posta a sinistra della Croce per cui dovrebbe guardare verso destra. La nostra Dolente ci sembra in questa veste più in sintonia con la figura di una Maria, dalla forma vicina ai Compianti di Busseto e Modena e precedente a quello ora nella chiesa del Gesù, quindi fra il 1480 e il 1485.

Elisabetta Lopresti

Guido Mazzoni (1450 – 1518)

Figura di dolente, 1480-85

Terracotta dipinta, cm 67,5 x 45Ferrara, Museo Schifanoiainv. OA1634

Bibliografia essenziale: Earth and fire. Italian terracotta sculpture from Donatello to Michelangelo, a cura di B. Boucher, catalogo della mostra (Houston, Museum of Fine Arts, 18 novembre 2001 – 3 febbraio 2002; Londra, Victoria and Albert Museum, 14 marzo – 7 luglio 2002), New York 2001, pp. 146-147; P. Di Natale, Figura di dolente, in V. Sgarbi (a cura di), Domenico di Paris e la scultura ferrarese del Quattrocento, Milano 2006, pp. 172-173; E. Lopresti, Figura di dolente, in Emozioni in terracotta. Guido Mazzoni, Antonio Begarelli. Sculture del Rinascimento emiliano, a cura di G. Bonsanti e F. Piccinini, Modena 2009, pp. 133-134.

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L’oro degli Estensi

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162 163Gli ori dei duchi

Zecca di Ferrara Ducato, prima del 1475D. Ritratto di Ercole I d’Este / R. Cristo risortoOro, g. 3,43. Collezione privata

Questa emissione dovrebbe essere la prima; sospesa, poi ripresa con lo stesso conio di diritto, unito a quello che appare normalmente nella bibliografia tradizionale.

Zecca di Ferrara (Giovanni Francesco Enzola?) Grossone, 1475D. Ritratto di Ercole I d’Este / R. San Giorgio a cavalloArgento, g. 3,81. Collezione privata

È da condividere l’attribuzione a Giovanni Francesco Enzola: secondo alcuni documenti lavorò presso questa zecca nel 1472-1473. Di questo orafo, incisore e medaglista non conosciamo di preciso l’anno della nascita e della morte, fu però attivo tra il 1456 e il 1478.

Zecca di FerraraDucato, 1471 D. Ritratto di Borso d’Este / R. Cristo risorto Oro, g. 3,49. Collezione privata

Ritratto fondamentale del primo duca di Ferrara, ricco del fascino che egli è riuscito a creare attorno alla sua personalità, dedita all’arte, al mecenatismo e alla caccia; intuibile da que-sto stesso piccolo dischetto, che è certamente il migliore tra i pochi esemplari conosciuti.

Zecca di FerraraTestone, 1492D. Ritratto di Ercole I d’Este / R. IdraArgento, g. 7,62. Collezione privata

Oltre alla conservazione veramente eccezionale, vanta un magnifico ritratto, dove il duca sfoggia una espressione inter-rogativa attraverso un sorriso fortemente malizioso. Anche la qualità del rovescio è di notevole pregio.L’esecuzione dei conii spetta a Giannantonio Leli da Foligno. È documentata la sua attività orafa prima del 1493, nel 1494 esegue dei sigilli per Alfonso d’Este, nel 1502 alcuni conii per la zecca di Reggio. In un inventario delle gioie di Lucrezia Borgia figurano sue varie forniture. Celebri le targhe d’argento per il Reliquiario di San Maurelio commissionate dalla stessa duchessa.

Zecca di Ferrara (Giannantonio Leli?)Quarto, fine XV sec. – 1504D. Ritratto di Ercole I d’Este / R. CavaliereArgento, g. 9,68. Collezione privata

In questo conio il duca appare con espressione severa e fortemente introspettiva. Il cavallo, di belle proporzioni, procede con leggerezza e si colloca nella tipologia degli animali mesomorfi (proporzionati in tutte le loro parti). Normalmente i bei conii di rovescio si accoppiano quasi sempre a ritratti di alta qualità. In via ipotetica è possi-bile avanzare il nome di Giannantonio Leli da Foligno.

Zecca di Ferrara (Giannantonio Leli?) Medaglia, 1501-02D. Ritratto di Alfonso I d’Este / R. Ritratto di Lucrezia BorgiaBronzo dorato, g. 123,12. Collezione privata

Medaglia fusa in bronzo con doratura coeva, attribuibile a Giannantonio da Foligno, eseguita per il matrimonio del futuro duca con Lucrezia Borgia, celebrato il 30 dicembre 1501. Da come vediamo trattato il fondo sul diritto, in sintonia per un lavoro guilloché, lo smalto era previsto solo per Alfonso perché azzurro e oro spiccano, mentre smalto giallo su oro avrebbe avuto poco risalto. Cellini stesso nel suo trattato Dell’oreficeria, sconsiglia l’uso dello smalto giallo sull’oro. E pertanto logico che l’autore abbia realizzato il colore araldico giallo sul campo del rovescio tramite una satinatura opacizzata, permet-tendo allo splendido mezzobusto e alle grandi lettere in carattere lapidario tirati a specchio, di emergere in modo raffinato.

Bibliografia essenziale: G. Apparuti, Petrarchismo nell’icono-grafia medaglistica monetale nel XV-XVI secolo. Rassegna di medaglie, monete e placchette, s.l. s.d., pp. 27, 33 (con biblio-grafia precedente).

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L’autore di questa squisita composizione è lo scultore fiorentino Antonio di Cristoforo, protagonista della scena ferrarese agli albori del Rinascimento, una personalità di spicco, recentemente riscoperta dalla critica, il cui esiguo catalogo con questo inedito rilievo si arricchisce di una testimo-nianza notevole.Menzionato nel Trattato di Architettura di Filarete (1464) e poi nelle Vite di Vasari (1568) come allievo di Brunelleschi, l’arti-sta collaborò con Luca della Robbia nella celebre Cantoria per Santa Maria del Fiore (1435) per poi trasferirsi a Ferrara tra il 1442 e il 1443, attratto dalla notizia del con-corso indetto per il Monumento equestre di Niccolò III (distrutto dalle truppe francesi nel 1796) per il quale con Niccolò Baron-celli fornì un modello. Qui condusse la sua carriera al servizio degli Este realizzando opere in bronzo, terracotta e nel singolare ruolo di “festaiolo” di corte (ovvero allesti-tore delle feste sacre e profane), negli anni durante i quali la città si aprì all’apporto della cultura figurativa rinascimentale grazie alla presenza o all’invio di opere di artisti

toscani (Jacopo della Quercia, Niccolò di Pietro Lamberti, Michele da Firenze, Niccolò Baroncelli) che contribuirono all’avvio di una “scuola cittadina della scultura”.La scultura cardine per ricostruire il cata-logo di Antonio è la Madonna col Bambino (1451), già nella sagrestia nel Duomo, oggi conservata con ampie reintegrazioni presso i Musei di Arte Antica. Il rapporto con quella qui esposta è evidente nel volto tondeggiante di Maria, in quello arguto del Bambino o nel rigoglioso panneggio. In que-sti aspetti si avverte la lezione di composta volumetria di Luca della Robbia condivisa con la Madonna col Bambino proveniente dall’oratorio dell’Assunta a Costa di Rovigo ‒ confluita nella collezione Marcerano, oggi esposta al Museo Diocesano di Milano ‒ e con un altorilievo con la Madonna in ado-razione del Bambino nella sagrestia in San Gregorio Magno a Ferrara che reinterpreta, o forse formula, un modello compositivo adottato anche da Domenico di Paris.

Alfredo Bellandi Giancarlo Gentilini

Antonio di Cristoforo (doc. a Firenze tra il 1435 e il 1442, e a Ferrara tra il 1443 e il 1451 o 1459)

Madonna col Bambino, c. 1440-50

Bassorilievo in terracotta dipinta all’interno di un altarolo cuspidato in legno dipinto e dorato, cm 70 x 39,7Arté Gallery Sa, Svizzera

Bibliografia essenziale: V. Sgarbi (a cura di), Domenico di Paris e la scultura a Ferrara nel Quattrocento, Milano 2006 (speciatim P. Di Natale, p. 78, n. I.2.6; pp. 80-81, n. I.2.8; pp. 102-105, n. II.4); M. Ferretti, La scultura. Un filo tra le opere in mostra, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, a cura di M. Natale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, 23 settembre 2007 - 6 gennaio 2008), Ferrara 2007, pp. 125-141; A. Galli, Vocazione e prime esperienze di Antonio di Cristoforo e Niccolò Baroncelli, scultori fiorentini a Ferrara, in «Prospettiva», 139-140, 2010 (2012), pp. 35-57.

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La statua in terracotta dipinta fu oggetto di una vendita abusiva negli anni Venti del secolo scorso, in seguito alla quale fu rim-piazzata nella chiesa ferrarese di San Luca da una copia eseguita nel 1920 da Romano Alberghini. Dopo essere stata recuperata a Berlino, tornò a Ferrara, dapprima al palazzo Arcivescovile, poi al Palazzo dei Diamanti, al tempo Pinacoteca Civica, infine dal 1946 al Museo di Palazzo Schifanoia. Dal 2002 si trova sul primo altare a sinistra della chiesa di San Luca, sua collocazione originaria almeno a partire dalla fine del XVI secolo. Maria, seduta su uno scranno in adorazione del Bambino, porta sul capo un ampio velo bianco e indossa una sottoveste rossa e un manto celeste. Sotto le pieghe dell’abito, che ricadono verso il basso con un buon grado di naturalismo, spuntano i piedi scalzi.Dubitativamente attribuita a Domenico di Paris da Adolfo Venturi nel 1908, venne restituita definitivamente allo scultore padovano in occasione della celebre mostra ferrarese del 1933. L’opera è molto vicina alle Virtù della Sala degli Stucchi (lo dimostrano l’andamento delle pieghe delle vesti, il modo in cui la cinta le stringe sotto il seno e la posa con le ginocchia separate ed i piedi all’infuori, che caratterizza le figure della Speranza e della Prudenza). La fisionomia della Vergine rinvia a quella della Prudenza, mentre la struttura fisica del Bambino ai modelli degli angioletti tubicini. Queste tan-genze formali suggeriscono una datazione prossima a quella della decorazione della

sala di Schifanoia, affidata a Domenico di Paris il 3 aprile del 1467.Nell’elegante mondo figurativo di Dome-nico di Paris, la scultura dialoga aperta-mente con le altre arti, specialmente con la pittura. Non fa eccezione quest’opera: nel 1991 Massimo Ferretti ha confrontato la statua con la Madonna col Bambino in un giardino di Cosmè Tura oggi alla National Gallery of Art di Washington osservando che probabilmente di Paris fece «direttamente attenzione agli intenerimenti e alle ispidezze di Tura», pur mantenendosi «su un registro più ovvio», e che «le due opere segnano un virtuale ribaltamento di quello che fu il normale ordine di relazioni fra pittura e scultura nel Quattrocento, un ribaltamento che è ben rappresentato da un’altra opera di Domenico, la Madonna berlinese [distrutta nel 1945, sopravvive il frammento della testa della Vergine nel Bode Museum], ancor più scopertamente tributaria di Tura. Al segno opposto, alle radici della maturazione di Tura e del nuovo gusto ferrarese, stanno i bronzi della cattedrale, avviati da Baroncelli e finiti da Domenico di Paris». Più recentemente, tornando sull’argomento, Ferretti (2007) ha notato che la Madonna di San Luca potrebbe essere servita da modello a Taddeo Crivelli per la pagina miniata attorno al 1465 nel Libro d’ore della Universitätsbibliothek di Basilea (cod. AN VIII 45, c. 14r).

Pietro Di Natale

Domenico di Paris (documentato a Ferrara tra il 1443 e il 1503)

Madonna col Bambino (detta Madonna di San Luca), c. 1465-67

Terracotta dipinta, cm 101 x 60 x 44,5 Ferrara, Santuario del Crocefisso di San Luca

Bibliografia essenziale: P. Di Natale, in V. Sgarbi (a cura di), Domenico di Paris e la scultura a Ferrara nel Quattrocento, Milano 2006, pp. 58-59 (con bibliografia precedente); M. Ferretti, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, a cura di M. Natale, catalogo della mostra (Ferrara, Palazzo dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, 23 settembre 2007 – 6 gennaio 2008), Ferrara 2007, pp. 404-405 (con bibliografia precedente).

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L’opera, già del celebre antiquario fioren-tino Stefano Bardini e poi dell’artista inglese Frederic Leighton (che la custodiva intorno al 1890 nello studio della sua sontuosa abitazione londinese), venne presentata con un riferimento a Domenico di Paris da Mina Gregori alla mostra Le muse e il principe del 1991 e riproposta con la medesima attribu-zione alle esposizioni di Bruxelles (2003) e di Ferrara (2004). Gregori, dopo aver associato il motivo dei delfini stilizzati ai draghi-delfini nella Musa di Cosmè Tura della National Gallery di Londra, ha proposto di accostare la ricchezza decorativa del tabernacolo al prezioso repertorio figurativo della Sala degli Stucchi di Schifanoia e ha sottolineato l’af-finità della Madonna con le Virtù. In seguito (2003, 2004), ha avanzato un confronto con la statua in bronzo di San Giorgio della cattedrale di Ferrara (in cui si riscontrano la stessa «raffinatezza d’intervento sulle superfici» e la medesima «elegante esilità» della figura) e, rilevando una stretta dipen-denza da Tura («le pieghe che avvolgono le gambe [della Madonna] e la forza con cui gli scarpini puntano sul gradino del trono e ne escono»), ha ipotizzato un datazione forse oltre il 1470, probabilmente sulla scorta di un disegno fornito dallo stesso Cosmè. Gre-gori sottolineava altresì che l’insolita deco-razione in blu d’ispirazione islamica «deriva dalle copertine dei libri che si importavano dall’emirato mamelucco che comprendeva l’Egitto e la Siria. Le decorazioni alla “dama-schina” ornarono anche molte legature dei

codici degli umanisti e furono imitate nelle officine venete, tra le quali quella padovana di Felice Feliciano, il versatile antiqua-rio, scriba, tipografo e legatore amico del Mantegna e del Marcanova». La studiosa concludeva che fu proprio Feliciano, attivo a Ferrara tra 1475 e il 1476, a far conoscere questo tipo di decorazione, già diffusa a Padova, terra d’origine di Domenico di Paris. Nel 1992 Richard Stemp assegnò l’opera ad un seguace di Domenico («[it] is evidently Ferrarese, and shows some features similar to Domenico’s work, such as the boneless structure of the face and hands. However, the layering of draperies over the Virgin’s lap is unlike Domenico»). Nel 2006 Lucio Scardino ha osservato – ed è opinione con-divisibile – che il tabernacolo «sembrerebbe perlomeno rimontato, se non fortemente rifatto negli elementi attorno alla Madonna adorante il Bambino, nucleo centrale della composizione, invero assai caratteristico della maniera del di Paris». Il rilievo cen-trale, oltre alle affinità stilistiche con le Virtù nella Sala degli Stucchi, palesa strette tan-genze con altre opere dello scultore pado-vano, la Madonna di San Luca qui esposta e, in particolare, la Madonna adorante il Bambino nel Bode Museum di Berlino (soprattutto con il viso della Vergine, unico frammento sopravvissuto del rilievo in terra-cotta dipinta, distrutto nel maggio 1945).

Alfredo Bellandi Pietro Di Natale

Domenico di Paris (documentato a Ferrara tra il 1443 e il 1503)

Madonna col Bambino e angeli adoranti, c. 1465-70 Legno e stucco dorato parzialmente dipinto, cm 174 x 104 x 19,5 Collezione privataIscrizioni: nel cartiglio sulla cimasa “o maria mater gracie mater/ misericordie agiutati me/ do. m.”

Bibliografia essenziale: A. Bellandi e P. Di Natale in V. Sgarbi (a cura di), Domenico di Paris e la scultura a Ferrara nel Quattrocento, Milano 2006, pp. 54-55 (con bibliografia precedente).

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La pala, com’è stato dimostrato di recente (Mazza 2010), proviene dallo scomparso Oratorio della Concezione della Beata Vergine di Reggio Emilia. Nota anche come pala Grossi, dal nome della fami-glia proprietaria della tela dal 1960, l’opera propone una composizione maestosa con l’architettura che forma una sorta di sacello intorno alla Madonna, purtroppo gravemente alterata dai tagli inferti al dipinto per adattarlo a un altare di dimensioni infe-riori. La presenza di san Francesco e di santa Chiara è spiegabile con l’ubicazione dell’oratorio vicino alla chiesa di San Francesco e con la diffusione del culto dell’Immacolata Concezione, promosso dai Fran-cescani tra Quattrocento e Cinquecento (Buitoni 2013).La storia critica del dipinto inizia soltanto negli anni Ottanta del secolo scorso quando, senza alcuna indicazione di provenienza, compare nel mondo degli studi. Il termine di confronto più rilevante con la pala Grossi è stato identificato nella Madonna col Bambino del Museo di Springfield che Longhi aveva attribuito a Lorenzo da Lendinara prima che un restauro rivelasse la sigla “IO. AN. B. MCCCCC” sciolta nel 1985 come “Giovanni Antonio Aspertini”, pittore bolognese senza opere e padre di Guido e di Amico. Ma l’iniziale attribuzione di Filippo Todini della pala al bolognese Antonio da Crevalcore e del dipinto di Springfield al presunto Giovanni Antonio Aspertini si sono dimostrati sempre meno convin-centi (Buitoni 2013 e 2015).Una svolta si è avuta con la decifrazione della misteriosa sigla nella Madonna di Springfield, molto simile a quella che compare nel bel fregio del transetto sinistro di San Giovanni Evangelista a Parma (“IO ATO B. P. / M / CC / CCC / XIIII”) e in un

affresco perduto dell’adiacente convento descritto nell’Ottocento come firmato “JO. AN. B. P” e datato 1501. Riunendo le sigle, quindi, è emersa la figura sconosciuta di Giovanni Antonio Bazzi, dimenti-cato omonimo del Sodoma, documentato a Parma e a Reggio Emilia, ma stranamente dimezzato in due figure differenti (Buitoni 2013). Un fortunato ritrovamento archivistico ha inoltre permesso di collocare il pittore a Bologna nel 1487 in rapporto con il convento dei Santi Girolamo e Eustachio dei Gesuati, dove le fonti ricordavano dipinti di Guido e Amico Aspertini (come la celebre Pala del Tiro-cinio), dando così una spiegazione delle evidenti citazioni contenute nella pala Grossi dalla Madonna dei Mercanti di Cossa e del ricordo robertiano e costesco nel San Sebastiano. Quindi gioverà ribadire ancora una volta la datazione all’ultimo quarto del secolo della pala qui esposta, prima del ritorno alla lucida matrice prospettica della Madonna di Spring-field che aveva fatto pronunciare a Longhi il nome di Lorenzo da Lendinara. L’ultimo documento sul Bazzi (1518) aggiunge un particolare molto interessante: il pittore è testi-mone della convenzione fra Ludovico Tacoli, priore della distrutta chiesa di San Giacomo, vicina all’Oratorio della Concezione, e il maestro Giovanni Ruboni di Cremona. La conoscenza di Bazzi dell’an-tica famiglia reggiana fa pensare che fosse stato un Tacoli a commissionare la pala Grossi (forse non è una coincidenza che fu un altro membro della famiglia, il conte Nicola, a ritirarla dall’oratorio della Concezione prima del 1768).

Antonio Buitoni

Giovanni Antonio Bazzi (documentato a Bologna, Parma e Reggio Emilia dal 1487 al 1518)

Madonna col Bambino e i santi Sebastiano, Gioacchino, Anna, Francesco e Chiara (pala Grossi), c. 1490

Tempera su tela, cm 221,5 x 136,5Collezione privata (in deposito presso la Galleria Estense di Modena)

Bibliografia essenziale: A. Mazza, Il canonico Rocca, l’edizione mancata, il patrimonio disperso, in Descrizione delle Chiese di Reggio di Lombardia di Gaetano Rocca, a cura di M. Montanari, Reggio Emilia 2010, pp. 10-27; A. Buitoni, Percorso di Giovanni Antonio Bazzi tra Reggio, Bologna e Parma, in «Nuovi Studi», XVIII, 2013, pp. 32-49 (con bibliografia precedente); A. Buitoni, Antonio da Crevalcore nella cattedrale di San Pietro a Bologna, in «Nuovi Studi», XX, 2015, pp. 61-69.

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Crediti fotografici

Ferrara, Musei di Arte Antica © foto Ghiraldini / Panini: Salone dei Mesi, Sala delle Virtù, Sala delle Imprese;su concessione dei Musei di Arte Antica: pp. 18, 143-147, 149-153, 155, 159

Didascalie

in copertina Francesco del Cossa, Il giardino d'amore, 1469-70 Particolare del mese di Aprile

in IV di copertina Ducato, 1471 Ritratto di Borso d’Este

p. 8 Francesco del Cossa, Borso d'Este a caccia con il seguito, 1469-70 Particolare del mese di Marzo

© 2020 Fondazione Ferrara ArteTutti i diritti riservati

Finito di stampare nel mese di marzo 2020 da Tipografia Altedo

ISBN 978–88–89793–56–5

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Schifanoia e Francesco del CossaL’ORO DEGLI ESTENSI

€ 20,00 ISBN 978-88-89793-56-5

9 788889 793565

Schifanoia e Francesco del Cossa