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A COLLOQUIO CON

GABRIELE D’ANNUNZIO

Saggi di

Elena Brozzi, Claudia Chiricozzi, Laura Moretti, Pierpaolo Moroni,

Margherita Parlani, Fabiana Pellegrini, Luisa Sandoletti, Laura

Sorgato, Cecilia Stassi

a cura di

Gianluca Zappa

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“Il testo letterario è veramente compiuto

solo nel dialogo con la coscienza di un lettore,

cioè fuori del testo stesso.”

Questa frase della grande scrittrice americana Flannery O’

Connor identifica il punto di partenza che ispira ogni anno il mio

lavoro con alcuni studenti del Liceo “Mariano Buratti” di Viterbo.

Voglio dire che se non avessimo tutti la certezza che è nel dialogo tra

la nostra coscienza di lettori e il testo scritto che si compie

un’esperienza compiuta, e quindi piena di significato e di valore, non

varrebbe nemmeno la pena di impegnarsi nel difficile compito di

studiare l’autore che viene proposto di volta in volta dal concorso

nazionale “I colloqui fiorentini”, organizzato dall’associazione Diesse

di Firenze.

Più di quattrocento anni prima della O’ Connor, già Niccolò

Machiavelli nella sua celebre lettera a Francesco Vettori ci aveva

parlato della stessa esperienza. Vale la pena di riascoltare le sue parole:

“Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio et in su

l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et

mi metto panni reali et curiali, et rivestito condecentemente entro nelle

antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto

amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io

nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et

domandarli la ragione delle loro actioni; et quelli per la loro humanità

mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia...”.

Machiavelli ci rappresenta qui un dialogo tra uomini, tra l’uomo che

lui è hic et nunc, nel suo presente, e gli uomini che furono e che hanno

lasciato una traccia indelebile nei loro scritti. Un dialogo che avviene

su una comune base di humanità e che allontana la noia.

Bene, io credo che questo, poco o tanto, sia capitato agli studenti che

hanno lavorato a questi saggi su Gabriele D’Annunzio. Di sicuro è

capitato a me. L’autore proposto da Diesse per il concorso 2014 è

amatissimo e odiatissimo. Tutti abbiamo in mente l’immagine di un

D’Annunzio narciso, sempre in posa; lo sappiamo abilissimo

versificatore e prosatore, prodigioso manipolatore della parola, ma,

nello stesso tempo, superficiale, fatuo, o eccessivo nelle sue pose

supero mistiche. E poi, poco democratico, spregiatore del vulgo, amico

ed ispiratore di Mussolini e del suo regime. Poeta soldato, sì, ma

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lontano dal fango delle trincee e capace di trasformare anche la

tragedia della guerra (nella quale contribuì notevolmente a trascinare

gli italiani) in una sorta di rappresentazione teatrale in cui la sua

straripante personalità prendeva tutta la scena. Un poeta disonesto (per

citare Saba), dai molti versi altisonanti, ma dai pochi versi autentici. E

si potrebbe continuare a lungo.

Ma noi abbiamo voluto prendere sul serio anche Gabriele D’Annunzio

e abbiamo provato a dialogare, a colloquiare con lui. Abbiamo

ascoltato, dandogli credito, le confessioni che ci ha lasciato nel Libro

segreto, e siamo andati a verificare cosa e quanto di lui era disseminato

nei suoi romanzi e nei suoi versi.

Devo dire che ci si è davvero spalancato un mondo sconosciuto, un

D’Annunzio sconosciuto, molto più interessante dei cliché nei quali lo

avevamo già incasellato. Un D’Annunzio modernissimo, anzi, post-

moderno, contemporaneo, che aveva genialmente già intuito allora

certi problemi, certe ossessioni e certe strategie che l’umanità avrebbe

messo in atto per salvarsi dall’angoscia di un nichilismo fagocitante.

Abbiamo scoperto che tutta la grande arte di D’Annunzio, con quei

suoi tipici pirotecnici effetti speciali, altro non è che un disperato

tentativo di esorcizzare l’unica realtà che, nella sua visione, domina il

mondo: la Morte.

Lo abbiamo interrogato e lui ci ha risposto così: “Dinanzi ai visitatori

agli indagatori ai testimoni la mia cupa tristezza ha il volto e il gesto di

una allegrezza quasi frenetica”. Ci ha confessato che dietro i suoi testi

più roboanti, dietro le sue pose e i suoi atteggiamenti superomistici,

dietro le sue continue avventure amorose e le sue performance sessuali,

c’è in realtà una cupa tristezza, tenuta nascosta, inconfessata, causata

da un luridus horror della morte. E abbiamo anche capito che la

celebre multanimità dannunziana, non è altro che una dolorosa

condizione fluttuante, senza centro, senza speranza.

Questo è solo qualcosa di quello che abbiamo scoperto. Il resto lo

lasciamo alla lettura di questi due bellissimi e ricchissimi saggi, nati

dal dialogo con D’Annunzio e tra noi, dall’incontro prolungato di un

docente con i suoi studenti, da una sorta di avventura in cui tutti si era

coprotagonisti del proprio sapere e tutti portatori di un’esperienza; in

cui il professore non è stato un fornitore di dati e nozioni, ma un

compagno di viaggio più grande, che quell’avventura l’ha già vissuta.

Gianluca Zappa

Giugno 2014

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Opere di D’Annunzio lette ed analizzate:

Il Piacere (P)

L’innocente (I)

Il Trionfo della Morte (TM)

Le vergini delle rocce (VR)

La città morta (CM)

Il Fuoco (FC)

Forse Che Sì Forse Che No (F)

Il libro segreto (LS)

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Il cerchio fatale

Desiderio e sogno in D’Annunzio

I Colloqui Fiorentini

XIII Edizione

Marzo 2014

Terzo premio tesina triennio

di

Claudia Chiricozzi

Laura Moretti

Margherita Parlani

Fabiana Pellegrini

Luisa Sandoletti

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Nel cerchio del sogno

Il percorso che presentiamo è nato dalla somiglianza riscontrata

in due espressioni di Gabriele D’Annunzio: la prima è tratta dai

versi di Laus Vitae in Maia («Ah, perché non è infinito/ come il

desiderio, il potere/ umano?»); la seconda è una esclamazione di

Giorgio Aurispa nel primo libro del Trionfo della morte («Ah,

perché dunque non potremmo noi rendere la nostra esistenza

conforme al nostro sogno e vivere per sempre in noi soli?»).

Evidente è innanzitutto l’identità dell’incipit e sicuramente anche

lo sconforto e la rassegnazione che affiorano tra le righe per

l’impossibilità di rispondere in maniera adeguata al desiderio.

Ma mentre in Laus vitae il poeta parla di un desiderio infinito,

nel romanzo la parola utilizzata è sogno. D’altro canto, anche nel

prosieguo della poesia di Maia, dal desiderio presto si passa al

sogno:

Laudato sii, potere

del sogno ond’io mi incorono

imperialmente

sopra le mie sorti

e ascendo il trono

della mia speranza!

[…]

Laudato sii intanto,

o tu che apri il mio petto

troppo angusto pel respiro

della mia anima!

In questi versi il sogno, subentrato al desiderio, rappresenta ciò

che eleva il respiro dell’animo oltre l’angusto spazio in cui è

costretto dal petto, dunque dai limiti della condizione umana; è

ciò che eleva oltre ogni ostacolo, ogni destino imposto.

Le somiglianze e le differenze ci hanno incuriosito e ci siamo

chiesti se per D’Annunzio desiderio e sogno stessero ad indicare

una medesima realtà, se insomma fossero sinonimi.

Per prima cosa è stato necessario un nostro chiarimento di idee al

riguardo e la domanda che innanzitutto ci siamo posti è stata da

dove nasce il desiderio e da dove il sogno. Ci siamo trovati

d’accordo sul fatto che entrambi condividono il punto di

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partenza. Il desiderio ed il sogno, nell’uomo, nascono per la

mancanza ed il bisogno di qualcosa cui si aspira, qualcosa che

non si possiede, ma che si tende ad avere: questa mancanza

stimola e nutre, dunque, la volontà di arrivare al valore percepito

come mancante. Questo bisogno, a sua volta, è generato

dall’incontro con la realtà (naturale o umana), che ha il potere di

mettere in movimento la persona, ciascuno di noi.

Abbiamo considerato, però, che desiderio e sogno hanno anche

molto di diverso: se il desiderio, infatti, mantiene nel suo

percorso il contatto con la realtà, non la perde di vista, ed è per

questo più “naturale”, cioè immediato e genuino, il sogno è

invece una costruzione successiva, un qualcosa di “artificiale”,

perché nutrito dalla nostra immaginazione. Il desiderio è

un’apertura, è disponibilità all’imprevisto, mentre il sogno

chiude e crea una realtà diversa. Il desiderio resta in rapporto con

l’infinito, mentre il sogno perde l’infinito in favore di un proprio

modello di perfezione.

L’immagine di copertina che abbiamo scelto per il nostro

progetto raffigura proprio le dinamiche del desiderio e del sogno

come le abbiamo pensate. Il desiderio è rappresentato come una

linea continua che tende costantemente alla “x”, il valore

percepito. L’illustrazione del sogno rimanda invece ad una

spirale, un cerchio vorticoso, in cui si perde definitivamente il

contatto con la realtà da cui si è partiti e conseguentemente anche

il punto di arrivo. La linea retta del desiderio si incurva, dunque,

nel cerchio del sogno in cui si diventa man mano distanti dalla

vita reale, ma sempre più vicini ad una realtà ideale, figlia del

proprio ego, che è al centro di tutto.

E’ precisamente questo, a nostro parere, il movimento che

caratterizza D’Annunzio, un movimento che può essere

rappresentato con l’immagine del cerchio, perché il soggetto

ritorna di continuo sulle proprie costruzioni e si rifugia in una

realtà virtuale. Da qui anche la grande attualità dell’autore, il

quale, come prometteva una fortunata campagna pubblicitaria di

qualche anno fa, inventa un felice “tutto intorno a te” del tutto

illusorio e fittizio, ma apparentemente capace di sostenere il peso

e la tristezza dell’esistenza comune. Salvo poi provare un senso

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di angosciosa depressione quando il sogno s’infrange e lascia

soli con i propri problemi non risolti.

Il meraviglioso percorso del desiderio

L’infinità del desiderio è ciò che rende D’Annunzio vicino a tutti

noi, ad ogni uomo, il quale è per natura volto alla continua

ricerca di un bene nel quale possa quietarsi l’animo. Il desiderio

umano tende verso un valore ignoto, ma intravisto

nell’esperienza della realtà.

Sono numerosi i momenti nella produzione di D’Annunzio in cui

troviamo le tracce di questo desiderio infinito, che viene reso con

l’espressione tendere all’alto così come, ad esempio, si esprime

Giorgio Aurispa:

«E’ strano questo: come l’anima, dopo le peggiori cadute, tenda all’alto.

Quella sera io avevo una gran sete di poesia, di elevazione, di cose delicate e

spirituali» (T.M, libro primo, IV ).

Sono proprio i bisogni ad essere alti. Non ci si accontenta della

realtà comune ma si cerca qualcosa che sia molto superiore e

capace di dare serenità all’anima. Questo tipo di tensione è

presente anche in un personaggio che in altri momenti della sua

vicenda sembra cinico e spietato. Parliamo di Andrea Sperelli,

specialmente all’inizio del libro II del Piacere dove, come

Giorgio Aurispa reduce dalle “peggiori cadute”, concepisce un

Bene sconosciuto. Toccato quasi il fondo della depressione in

una crisi che culmina nel grido «A che vivere?», preso dal

disgusto di sé e dai rimorsi, ad un certo momento viene come

risvegliato dal suono delle campane di una chiesa. La musica

unita alla meraviglia del mattino gli fa provare una “beatitudine

immensa”. Si tratta di una sorta di estasi religiosa:

«Guardava, ascoltava, muto, raccolto, intenerito, lasciando entrare in sé

quell’onda di vita immortale» (P, libro secondo, I).

E’ un istante molto particolare nel quale Sperelli prova un

desiderio che va oltre i suoi desideri normali:

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«Ora, non poteva dire il suo desiderio; non sapeva. Ma, certo, la cosa

desiderata doveva essere infinitamente soave, poiché era una soavità anche

desiderarla».

Anche l’incontro con la donna non genera sempre e soltanto un

desiderio erotico, anzi, potremmo dire che il bisogno più intenso

provato dai personaggi dannunziani è più indefinito e si esprime

nel voler possedere l’anima dell’amata. Si tratta di un desiderio

profondo, intenso ma soprattutto impossibile da conseguire, che

viene espresso di frequente nell’opera di D’Annunzio. E’ più che

altro un amore dell’anima. Di fronte alla donna amata sorge il

desiderio di poter possedere la totalità dell’essere, di poter

abbracciare tutto di lei, nutrendosi di tutto ciò che lei

rappresenta. Si cerca una comunione totale, spirituale. Ad

Andrea Sperelli non basta più l’aspetto carnale di Elena:

«Egli voleva possedere non il corpo ma l’anima, di quella donna; e possedere

l’anima intera,con tutte le tenerezze, con tutte le gioie,con tutti i timori, con

tute le angosce, con tutti i sogni, con tutta quanta insomma la vita dell’anima»

(P, libro secondo, III).

Questo bisogno è espresso anche da Giorgio Aurispa, pur se in

una forma negativa:

«Tu mi sei ignota. Come ogni altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un

mondo per me impenetrabile; e la più ardente passione non mi aiuterà a

penetrarlo. […] L’anima è intrasmissibile. Tu non puoi darmi l’anima. Anche

nella più alta ebrezza, noi siamo due, sempre due, separati, estranei,

interiormente solitarii» (T.M, libro primo, I).

Qui è evidente come si vorrebbe penetrare completamente

nell’altro e come il vincere radicalmente la solitudine personale è

sentito come un bene superiore a qualsiasi incanto dei sensi.

Forse è questa possibilità di comunione profonda che i

personaggi di D’Annunzio intendono quando dicono di cercare

un amore che sia allo stesso tempo quello di una amante e di una

sorella:

«Avere un’amante, o piuttosto una sorella amante, che fosse piena di

divozione» (T.M, libro primo, III).

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All’inizio dei suoi approcci con Donna Maria, Sperelli «pensò

che sarebbe stato felice s’ella gli avesse permesso di chiamarla

semplicemente Maria, come una sorella» (P, libro secondo, III).

In effetti l’incontro di Andrea con Maria eleva il suo cuore in

una dimensione più alta:

«La bellezza della notte gli diede, d’improvviso,un’aspirazione vaga ma

affannosa verso un Bene sconosciuto; l’imagine di Donna Maria gli attraversò

lo spirito: il cuore gli palpitò forte,come all’urto d’un desiderio; gli balenò il

pensiero di tener le mani di Donna Maria nelle sue, di piegare sul cuor di lei la

fronte e di sentirsi da lei consolare senza parole, pietosamente. Quel bisogno

di pietà, di rifugio, di compianto fu come l’ultimo tratto dell’anima che non si

rassegnava a perire».

Maria fa sorgere in Andrea un forte senso di rispetto. Appare ai

suoi occhi come un essere superiore che necessita di maggiore

attenzione e considerazione, tanto che egli, pur se tutto

impregnato della massima habere non haberi, sente il bisogno di

donarsi e sottomettersi:

«Quella creatura così spirituale ed eletta gli inspirava un senso di devozione e

di sommessione, altissimo. Se gli avessero chiesto quale cosa sarebbe gli stata

più dolce, avrebbe risposto con sincerità: - Obedirla. – […] E l’ambizione sua

più ardente era di riempirle il cuore».

Anche Tullio Hermil ne L’Innocente esprime la magia

dell’incontro con la donna amata che fa sprigionare il desiderio

di una realtà superiore. E’ un incontro sempre possibile, una

sorta di grazia che può raggiungere tutti:

«Forse tutti gli uomini, vivendo, incontrano un punto decisivo in cui ai più

seguaci è dato di comprendere quale dovrebbe essere la loro vita. Tu già ti

trovasti in quel punto. Ricordati dell’istante in cui la mano bianca e fedele,

che portava l’amore, l’indulgenza, la pace, il sogno, l’oblio, tutte le cose belle

e tutte le cose buone, tremò nell’aria verso di te come per l’offerta suprema»

(I; III).

In D’Annunzio si trovano continuamente espressioni che

rimandano ad aspirazioni confuse di felicità, di vastità, di

grandezza, di bellezza. Si cerca una creatura ideale, «superiore,

impeccabile, degna di tutta l’adorazione» come quella che cerca

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Tullio Hermil. Si mette in contrapposizione la fede e l’idealità ad

una vita intesa come una «grande avventura senza scopo, alla

ricerca del godimento, dell’occasione, dell’ attimo felice», come

nel Piacere.

Ma soprattutto si percepisce una radicale contrapposizione tra il

bisogno di eternità che si sente nel cuore e il destino di morte che

incombe sull’uomo: «Bisogna che siamo felici» si ripetono a

vicenda Giorgio e Ippolita, mentre con angoscia sentono tutta la

condanna del tempo che passa inesorabile e fa scolorire la

bellezza degli istanti vissuti insieme.

Ed è proprio Giorgio Aurispa ad esprimere la suprema angoscia

e il supremo desiderio:

«Che cosa mi manca? Qual è il difetto del mio organismo morale? Qual è la

causa della mia impotenza? Io ho una brama ardentissima di vivere, di

svolgere in ritmo tutte le mie forze, di sentirmi completo e armonioso. E ogni

giorno invece io perisco segretamente; ogni giorno la vita mi sfugge da varchi

invisibili e innumerabili; e rimango come una vescica mezzo vuota che ad

ogni movimento del liquido sbattuto prenda una diversa deformità» (T.M,

libro secondo, II).

C’è come un “pugno di ferro” misterioso e incomprensibile e che

ha il potere sulla vita dell’uomo. Liberarsi da questo potere e

diventare signori della propria esistenza sarebbe il bene supremo.

L’esploratore e l’artefice solitario

Abbiamo visto che la realtà con il suo fascino mette in

movimento il desiderio. Ma la realtà stessa è di per sé

problematica in quanto presenta dei limiti.

Il primo di questi è contenuto nella domanda del verso di Laus

Vitae: «Ah perché non può essere infinito come il desiderio, il

potere umano?». Qui D’Annunzio coglie una profonda verità e

cioè che c’è una sproporzione tra il desiderio dell’uomo che è

potenzialmente infinito e la finitezza della realtà, che quindi

risulta incapace di corrispondere a quel desiderio poiché è

angusta e peritura. Il secondo limite che D’Annunzio individua è

nel fatto che la realtà non si fa dominare, non si lascia plasmare e

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modellare e sfugge sempre al controllo dell’uomo, il quale fa

dunque l’esperienza della propria impotenza.

Di fronte a questa situazione cosa fa D’Annunzio? Invece di

accettare la sfida della realtà e di mettersi in gioco con essa, sulla

base delle regole che impone, la fugge, creando un mondo che si

armonizzi con il proprio desiderio.

Nei frammenti del Libro segreto a più riprese ci illustra questa

sua strategia. Iniziamo da un passo molto significativo:

«Il mondo non è del vano conquistatore ma dell’artefice solitario. Il mondo

perituro e perenne non fu creato se non per essere converso dall’arte in forme

sovrane e immortali».

Se il conquistatore è colui che accetta così com’è il mondo, si

pone continuamente di fronte alla realtà e si mette in movimento

per cercare di comprenderla coinvolgendosi con essa, l’artefice

invece la possiede nella sua perfetta solitudine facendone quello

che vuole. Allora ecco che il mondo viene converso, verbo

significativo in quanto ci dà l’idea di un movimento circolare.

La volontà di sfuggire a ciò che è altro da sé risulta evidente in

un altro frammento:

«Ogni oggetto è attratto in me e si dissolve in me. Io creo trasfiguro invento.

Non accetto nulla di fuori. Non posso più tollerare nulla di estraneo» (LS,

Regimen hinc animi).

Colpisce, per la forza con cui è espressa, questa forma di

intolleranza nei confronti di tutto ciò che non coincide con la

propria costruzione. Il mondo è accettato solo in quanto può

essere trasfigurato, ricreato.

Quale vantaggio comporta questo metodo? Quello di sentirsi il

padrone assoluto dell’universo che si è creato:

«Ho costruito l’intero mio universo e ne sono l’unico signore» (LS, Regimen

hinc animi).

Un altro vantaggio è quello di non subire gli imprevisti della

realtà, quindi di tenere tutto sotto controllo:

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«Ho fatto di tutto me la mia casa e l’amo in ogni parte. Se nel mio linguaggio

la interrogo, ella mi risponde nel mio linguaggio».

Questa frase esalta e allo stesso tempo rivela l’armonia fittizia

che regna in questo mondo illusorio, dove non ci sono disturbi di

comunicazione, smagliature. In un altro frammento D’Annunzio

si spinge paradossalmente ad affermare che vivere sognando

rende la vita meno vaga ribaltando quello che è un

convincimento comune:

«Nel sogno quel che nella veglia è un senso vago, un sospiro di

malinconia senza signoria, mi si cangia in una specie di struttura

interna dalle linee manifeste e dai congegni esatti» (LS, Regimen

hinc animi).

Ma questo è ovvio, perché il sogno di D’Annunzio è una perfetta

costruzione, laddove invece i contorni della vita sono appunto

vaghi e sfumati.

Ecco allora che comprendiamo quei celebri versi di Laus Vitae:

Quel che non fu fatto

io lo sognai;

e tanto era l’ardore

che il sogno eguagliò l’atto.

Quindi l’artefice può anche risparmiarsi la fatica della conquista,

poiché al sogno è attribuita la capacità di rendere vero ciò che è

solo un prodotto del pensiero.

Nel Trionfo della morte, Giorgio e Ippolita stanno pianificando

una vacanza da fare insieme. Al momento di scegliere la

destinazione, la scelta cade inizialmente su Orvieto, dove

Ippolita non è mai stata. Giorgio allora le descrive con arte la

cittadina e il risultato è che Orvieto viene esclusa tra le scelte:

«Poiché nel sogno noi abbiamo già assaporata la miglior parte del piacere,

provando sensazioni e sentimenti della più rara delicatezza, io penso che noi

dobbiamo rinunziare all’esperienza della realtà» (T.M, libro primo IV).

Rinunziare all’esperienza della realtà in favore del sogno: non

c’è modo più esplicito di dichiarare una precisa filosofia di vita.

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Il passo del Trionfo della morte è riecheggiato proprio nel Libro

segreto, dove D’Annunzio parla di una propria esperienza

personale:

«Viaggiare non giova. Io conoscevo la vera Grecia prima di approdare a

Patrasso e di rivivere Erme in Olimpia, prima di toccare le colonne del

Partenone e le maschere micenee di oro. Io conoscevo l’Egitto molto più

veracemente che quando veleggia sul Nilo e galoppai nei rosati verso le

piramidi» (LS, Regimen hinc animi).

A questo punto l’unico obiettivo è che la realtà si lasci plasmare,

che non opponga resistenza alla volontà di dominio del creatore.

A D’Annunzio piacevano le donne che lo apprezzavano e si

conformavano al suo desiderio. Nel Libro Segreto egli definisce

una delle sue amanti femmina da conio, ma non in senso

dispregiativo secondo l’accezione dantesca, bensì come un

apprezzamento nei suoi confronti perché, le dice, «sei buon

conio a qualsiasi delle mie impronte».

Normalmente il personaggio dei romanzi di D’Annunzio eccelle

nella capacità di costruirsi una realtà ideale e fittizia, come

Giorgio Aurispa che «eccelleva nel metodo di far servire il noto

a comporre l’ignoto».

Allo stesso modo, Tullio Hermil parla di una speciale capacità

alchemica:

«Con quell’arte quasi direi alchimistica che io aveva nel combinare i varii

prodotti del mio spirito, analizzai la serie degli stati d’animo speciali […] ne

trassi alcuni elementi i quali mi servirono a costrurre un nuovo stato, fittizio,

singolarmente adatto ad accrescere l’intensità di quelle sensazioni che io

voleva esperimentare» (I, I).

Il possesso di tutto il potere nel trasfigurare la realtà è più volte

riconosciuto ad uno dei principali alter-ego di D’Annunzio,

Stelio Effrena. Egli infatti è l’Imaginifico che inventa una nuova

realtà. Nel corso di un dialogo con Lady Mirta, Stelio parla con

entusiasmo di un chiostro che ha appena visitato. La donna,

conoscendo l’attitudine fantastica dell’amico, non è più sicura

della realtà di cui lui parla: «Tutti i luoghi che vuoi guardate

diventano vostre invenzioni, Stelio».

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Una situazione simile è nel passo della tragedia La Città Morta,

nelle parole che Bianca Maria rivolge ad Alessandro:

«Voi siete ebro di voi medesimo. Quel che voi vedete in me è nelle vostre

pupille. La vostra parola crea dal nulla l’imagine che voi volete amare. È in

voi, è in voi tutto il potere...».

Qui è molto più esplicito il riferimento alla capacità del

personaggio dannunziano di creare un’illusione dove tutto viene

nobilitato e idealizzato, lontana dalla realtà.

In moltissimi passi dell’opera di D’Annunzio si insiste

sull’identità indivisibile di vita e sogno:

«La vita e il sogno erano una cosa sola» (Fc, parte prima). «Ma era la Vita? O

non forse il Sogno? “l’uno,sempre, è l’ombra dell’altra” egli pensò. “ Dov’è la

Vita è il Sogno; dov’è il Sogno è la vita» (T.M., libro quarto, IV). «Noi siamo

fatti della sostanza medesima di cui son fatti i nostri sogni» (T.M., libro

quarto, VI).

A questo punto l’illusione è l’unico mondo che ormai i

protagonisti conoscono e nel quale vogliono e possono vivere; il

totale rifiuto della realtà li immette in una sorta di oblio che li

condanna a essere prigionieri dello stesso mondo che hanno

creato, escludendoli per sempre dal mondo reale. Questo però

comporta degli effetti aberranti. Infatti se il desiderio tende verso

un valore, comprendiamo, dunque, la traiettoria dannunziana che

nel sogno si attorciglia su se stessa, così da perdere lo scopo

iniziale.

Andrea Sperelli confonde a tal punto le due amanti Elena e

Maria da chiamare la prima, mentre si trova a letto con la

seconda. Le due donne sono ormai state fuse per plasmarne una

terza, che rispecchia la perfezione:

«Gli balenò un pensiero folle. Quella voce poteva esser per lui l’elemento

d’un’opera d’imaginazione: in virtù d’una tale affinità egli poteva fondere le

due bellezze per possederne una terza imaginaria, più complessa, più perfetta,

più vera poiché ideale…».

Alla fine del romanzo le perderà tutte e due, sconfitto dai suoi

stessi sogni. Del resto essere illuso e deluso dai propri sogni è il

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destino di quasi tutti i personaggi dannunziani, soffocati da una

sensazione di schiavitù e resi incapaci di rientrare in un contatto

schietto e sereno con la realtà: «Io non osavo gittare uno sguardo

risoluto e profondo, perché il mio sogno di felicità mi tratteneva,

mi tirava indietro, attaccato a me tenacemente».

Ludere, illudere, deludere

A questo punto del nostro percorso possiamo meglio

comprendere quella domanda di Giorgio Aurispa già citata

all’inizio:

«Ah perché dunque non potremmo noi rendere la nostra esistenza conforme al

nostro sogno e vivere per sempre in noi stessi?» (TM , libro primo, I).

La tendenza di D’Annunzio a cercare infatti una via di fuga nel

sogno, considerato come risposta di fronte allo sconcerto

provocato dalla banalità e mediocrità della realtà circostante, si

rivela essere una soluzione impossibile, dal momento che il

sogno come tale non resiste di fronte all’aggressione della realtà.

E’ proprio questa l’esperienza che D’Annunzio fa fare, ad

esempio, ad Andrea Sperelli:

«Egli aveva troppo sognato, nella notte, a occhi aperti, nuotando in una

felicità senza fine […] Ora tutto quel mondo immaginario crollava

miseramente a contatto con la realità» (P, libro primo, III).

Da questa esperienza parte anche l’avventura di Tullio Hermil e

Giuliana ne L’innocente:

«Ambedue avevamo creduto al nostro sogno e avevamo proferito più d’una

volta, nell’ebbrezza, le due grandi parole illusorie: Sempre! Mai! […]

L’illusione era caduta; ogni fiamma era spenta».

Giorgio Aurispa, personaggio sempre in preda al contrasto

bizzarro tra la realtà e il sogno, continuamente teso

all’idealizzazione di Ippolita, protesta, come abbiamo visto,

contro l’impossibilità di realizzare il sogno, ma anche Stelio

Effrena si lamenta per il fatto che la realtà (anche in questo caso

la sua amante) non si lascia plasmare:

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«Perché, amica mia, non volete voi essere la divina statua mobile del mio

spirito…?» (Fc, parte seconda)

L’immersione nel sogno comporta la creazione di una realtà

altra, virtuale, che genera, come inevitabile conseguenza, un

profondo senso di delusione e di frustrazione nel momento in

cui, tramite il più o meno violento ed amaro impatto con la realtà

effettiva, si prende coscienza dell’illusione e della vanità del

sogno stesso. In questi momenti pare che «l’Anima rivolga alla

Vita con accenti sempre diversi una medesima domanda: Perché

hai delusa la mia aspettazione?» (I, IV).

Anche nei celeberrimi versi de La pioggia nel pineto, pur in un

contesto di entusiasmo e di accumulazione di sensazioni, si

indovina l’amaro retrogusto nell’apprendere che tutto quello che

si sta vivendo è in realtà solamente frutto della creazione

mentale, che l’idealità ha permeato ogni cosa e che il sogno è

effimero, vago e non può conformarsi con la realtà:

Piove

[…]

su la favola bella

che ieri

t’illuse, che oggi mi illude,

o Ermione.

Ma se nemmeno la realtà virtuale del sogno riesce a stare in

piedi, ed illude e delude, qual è allora la soluzione cercata da

D’Annunzio? Confrontarsi con la realtà? Accettare la sfida della

realtà? No, piuttosto passare di sogno in sogno, cercando sempre

distrazioni, novità, pensieri ed esperienze diverse e nuove, nel

tentativo di sfuggire continuamente alla miseria della vita reale.

Essere multanime, come viene spiegato ne L’Innocente, significa

proprio questo: avere il centro di gravità spostato, cioè passare

di continuo da una sensazione all’altra e da una costruzione

mentale all’altra. Essere contraddittori, frammentari, instabili.

Può sembrare una forma di malattia e in qualche modo lo è

davvero.

Questa condizione fluida, questa dispersione nella molteplicità

dei propri desideri-sogni, può essere ricercata in due modi. Il

primo è quello che passa attraverso il torpore, l’oblio. L’illusione

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diventa una sorta di droga, grazie alla quale si vive ai bordi della

realtà, sempre col pericolo che quest’ultima torni ad insidiarla.

Il secondo è quello che passa attraverso la sublimazione del

gioco.

Questa è una parola che diventa emblematica ed assumibile

come esatta definizione della vita per d’Annunzio, considerando

anche il fatto che la parola latina ludus è contenuta sia nella

parola illusione che in delusione.

In un frammento del Libro Segreto, D’Annunzio ricorda le

parole di un suo amico:

«Quando io gioco sento aumentare la mia vita come non mai, tocco il limite

sommo della felicità […] Chi disse che la vita è sogno? La vita è gioco».

Subito dopo si dichiara immediatamente d’accordo con lui

aggiungendo questa frase molto significativa: «Ho giocato col

destino, con gli eventi, con le sorti e con le chimere» (LS,

Regimen hinc animi), in altre parole con la vita.

Del resto i personaggi stessi di D’Annunzio mostrano spesso

questa attitudine al giocare, come Andrea Sperelli, o come Stelio

Effrena, di cui si dice che perseguiva perpetuamente il gioco

nella sua vita. L’eroe dannunziano gioca con se stesso e con gli

altri, ma viene anche giocato, da se stesso e dagli altri. Illusione e

delusione, appunto, in un movimento folle, circolare, estenuante

e senza fine.

Ecco allora che l’illusione del sogno si svela con una doppia

faccia: all’inizio sembra essere la risposta alla tristezza della

realtà, ma presto si trasforma in una catena invincibile, un anello

soffocante, un cerchio ferreo.

Il cerchio ferreo

La particolare dinamica che abbiamo fin qui delineato è

rappresentata da D’annunzio attraverso l’immagine del cerchio.

È un’immagine, questa, a cui lo scrittore sembra dare molta

importanza e che, infatti, ricorre spesso nelle pagine dei romanzi

che abbiamo preso in considerazione: ne Il fuoco 18 volte, nel

Trionfo della morte 19, ne L’innocente 9, in Forse che sì forse

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che no 25, ne Le vergini delle rocce 8 ed infine anche nell’opera

teatrale La città morta viene ripresa 3 volte. Il cerchio è la

rappresentazione grafica del genio di D’Annunzio che gira su se

stesso, come la fionda ebraica, il simbolo perfetto della

costruzione mentale.

Riporteremo qui solo alcuni esempi per dimostrare, oltre che la

presenza, anche l’ambiguità, l’ambivalenza di questa figura. Il

cerchio in D’Annunzio rappresenta allo stesso tempo sia il sogno

costruito, sia la soffocante chiusura che infine si prova.

Il personaggio che entra nel cerchio inizia a dar vita a una nuova

realtà di cui egli è l’artefice, distaccandosi sempre più dal mondo

reale per rifugiarsi in una creazione puramente mentale,

all’interno della quale si esalta e si sente padrone e in cui cerca di

trascinare anche gli altri:

«In tale affermazione di sé egli parve ritrovare tutta la sua sicurezza e sentirsi

omai signore del suo pensiero e della sua parola, fuor del pericolo, atto a

trascinar nei cerchi del suo sogno la smisurata chimera occhiuta dal busto

coperto di scaglie splendide» (Fc, parte prima).

Stelio Effrena è signore del suo pensiero, padrone, quindi, del

cerchio dove cerca di trascinare, attraverso la parola, tutta la folla

che ascolterà il suo discorso. È sempre Stelio a definire

Donatella Arvale «una pura forza ideale da attrarre nel cerchio

della sua impresa magnifica».

All’interno del cerchio l’uomo si sente appagato, mentre la realtà

non lo soddisfa mai, non è all’altezza delle sue aspettative:

«Io ero felice, felice, indicibilmente felice; ero posseduto come da una grande

allucinazione di felicità inaspettata, insperata, che trasfigurava tutto il mio

essere, suscitava e moltiplicava quanto di buono e di giovine era ancora

rimasto in me, m’isolava dal mondo, concentrava a un tratto la mia vita nel

cerchio delle mura che chiudevano quel giardino» (I, VII).

L’inadeguatezza della realtà porta Tullio a rifiutarla e ad isolarsi,

alienandosi così nel suo sogno.

La felicità del personaggio si rivela, ben presto, apparente e tanto

illusoria quanto lo è il cerchio, il sogno che ha costruito, di ciò

egli è consapevole.

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Ne La città morta Leonardo, dopo aver visto il cadavere della

sorella, di cui era innamorato, parlando di lei con Alessandro,

dice:

«Ella sapeva mutare il più tenue dei sorrisi in una grande felicità… La più

piccola delle mie gioie si dilatava nella sua anima all’infinito, all’infinito,

come un cerchio nell’acqua calma, sinchè mi dava l’illusione d’una grande

felicità» (CM, atto quinto, scena unica).

Una piccola gioia di Leonardo, all’interno del sogno, si

ingrandisce come un cerchio nell’acqua e all’interno del quale

gli sembra di immergersi nell’infinito .

È l’amante che il personaggio dannunziano cerca più

ardentemente di portare nel suo cerchio, affinché ella diventi

come lui vuole, una sua creatura, da lui plasmata e modellata,

che lo ami e gli doni tutta se stessa:

«Era nel puro bronzo l’effige di un giovine dalla bella chioma ondosa, dal

profilo imperiale […], così perfetto che l’imaginazione non poteva

rappresentarselo nella vita se non immune da ogni decadenza e immutabile

come l’artefice lo aveva chiuso nel cerchio di quel metallo per l’eternità» (Fc,

parte prima).

La statua osservata da Stelio Effrena sembra una metafora della

donna che una volta entrata nel sogno, come il puro bronzo, gli

appare immutabile per come lui l’ha modellata, chiusa nel

cerchio per l’eternità.

Dunque l’uomo dentro al suo sogno non è mai solo, con la donna

vive momenti di appagamento e complicità: nel Trionfo della

morte, ad esempio, i due amanti stanno per far ritorno a Roma,

dopo essere stati in Umbria, e Giorgio sente già che presto sarà

ripreso dal solito male; Ippolita lo intuisce subito e i due

sembrano essere in perfetta sintonia, quasi fossero un’anima

sola; lei sa il suo male e potrebbe guarirlo con la sua presenza,

andando con lui, seguendolo, continuando ad essere la creatura

del mio sogno. Giorgio Aurispa è convinto di poter star bene solo

rimanendo nel cerchio con lei accanto:

«Egli soggiunge, a voce bassa, chinando la faccia sul petto di lei:-Tu sai il mio

male. Ella pareva avere indovinato il pensiero dell’amante. Domandò, quasi in

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segreto, quasi restringendo con la voce sommessa il cerchio ove insieme

respiravano e palpitavano: - Come ti potrei guarire?» (TM, libro primo, VII).

Il cerchio, dunque, diviene anche simbolo della passione che

travolge i due amanti, tanto che le labbra stesse della donna

diventano un cerchio:

«Mandami un fiore lungamente baciato, segnami su la carta un cerchio dove

tu abbia premuta lungamente la bocca, fa che io possieda nell’imaginazione

una carezza tua inviatami di lontano» (TM,, libro primo, VI).

In un passo de Il fuoco la passione travolge totalmente i due

protagonisti, e anche i loro corpi, inseparabili, e completamente

persi nel cerchio di questa passione, sembrano diventare uno

solo:

«La donna gli pesava sopra con tutto il suo peso[…] con una stretta che non si

allentava mai, indissolubile, come quella del cadavere quando le sue braccia

s’irrigidiscono intorno al vivente. […] Egli sentiva nel cerchio la solidità e la

tenacia delle ossa, mentre sentiva sul suo petto e lungo le sue gambe la

mollezza di quella carne che gli tremava sopra a quando a quando come trema

sulla ghiaia l’acqua corrente» (Fc, parte seconda).

La donna, Foscarina, si è donata a Stelio Effrena, come egli

voleva, ma nella passione amorosa che sovrasta i due amanti,

non traspare la gioia, la leggerezza del momento, quanto più una

sensazione di pesantezza, di soffocamento, data soprattutto dalla

similitudine nel campo semantico della morte. Non è neanche

finito l’amplesso, che l’uomo già si sente soffocare nella sua

stessa creazione: il sogno si brucia subito e brucia tutto.

Dunque inizialmente la parola cerchio appare quasi magica,

l’equivalente di una favola bella, in cui si sta bene, ma poi

mostra un risvolto inquietante e quasi tragico, poiché questo

cerchio, che circonda le vite dei vari personaggi, finisce per

soffocarle. Lo stesso artefice rimane intrappolato, ingannato

dalla sua stessa creazione:

«Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo

apparecchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sé, vi

spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di

rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa

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insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un incantatore il quale

fosse preso nel cerchio del suo incantesimo» (P, libro primo, I).

Il sogno finisce per perdere il suo fascino, diviene monotono, e

per questo noioso e soffocante:

«Confessa che già cominciavi a sentirti esausta, perduta; perché credevi di

accrescere ogni giorno il tuo potere e lo consumavi ogni giorno, e rimanevi

serrata nel cerchio medesimo del tuo maleficio, ed eravate soffocati entrambi

dall’angustia, costretti a ripetere sempre gli stessi gesti come nelle manie» (F,

libro secondo).

A parlare sono le due sorelle Isabella e Vanina entrambe

innamorate di Paolo Tarsis, ma è solo la prima ad intrattenere

una relazione con lui: i due amanti bloccati nel cerchio sono

“soffocati entrambi dall’angustia”, condannati alla monotonia

che li consuma.

Il personaggio, che si sente ora imprigionato all’interno del

cerchio, comincia a provare anche nella sua stessa creazione le

angustie della realtà che aveva fuggito:

«Ma l’anima di Giorgio Aurispa, invece, si affliggeva e si disperava del suo

isolamento; e si dibatteva con mille furie cieche, come un prigioniero in un

carcere chiuso per sempre, finché cadeva estenuata. E allora si raccoglieva, si

restringeva, si ripiegava su se stessa come una gracile foglia. Nel cerchio

angusto le inquietudini sopravvivano egualmente acri e fermentavano;

cagionando una irritazione sorda e profonda, un malessere incomprensibile,

una sofferenza continua, ostinata, sottile» (TM, libro terzo, VI).

Stremato da questa sofferenza, l’uomo inizia a vedere l’amante

come una minaccia: è a causa sua se il cerchio diventa angusto:

«“Ella è dunque la Nemica”, pensò Giorgio. “Finché vivrà, finché potrà

esercitare sopra di me il suo impero, ella m’impedirà di porre il piede su la

soglia che scorgo. E come recupererò io la mia sostanza, se una gran parte è

nelle mani di costei? Vano è aspirare a un nuovo mondo, a una vita nuova.

Finché dura l’amore, l’asse del mondo è stabilito in un solo essere e la vita è

chiusa in un cerchio angusto. Per rivivere e per conquistare, bisognerebbe che

io mi affrancassi dall’amore, che io mi disfacessi della nemica …”» (TM,

libro quarto, III).

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Per rivivere Giorgio Aurispa dice di doversi liberare

dell’amante-nemica, quindi è consapevole che nel sogno non si

vive: è nella realtà che si vive, e per tornare a farlo egli deve

uscire dal sogno, dal cerchio soffocante in cui ha chiuso la sua

vita.

Ecco allora il bisogno espresso dal personaggio di abbandonare

quel cerchio che si è tramutato in una prigione:

«L’Atto puro segna la sconfitta dell’antico Destino. L’anima nuova rompe a

un tratto il cerchio di ferro ond’è stretta, con una determinazione generata

dalla follia, da un lucido delirio che è simile all’estasi, che è come una più

profonda visione della Natura» (Fc, parte seconda).

L’antico Destino è sconfitto, l’anima annienta il cerchio e ne

esce.

Altrove l’immagine del cerchio va caricandosi di un significato

più ampio, universale: diviene rappresentazione del destino

dell’uomo, del cosiddetto “cerchio fatale”, quello della vita che,

paganamente, è intesa come un “ex nihilo ad nihilum”:

«La mia vita è chiusa in un breve cerchio, forse per sempre. Io vi leggeva

dianzi l’Antigone. Di tratto in tratto mi pareva di leggere il mio Destino» (CM,

atto primo, scena terza).

Variante dell’immagine del cerchio è la figura del labirinto,

luogo al cui interno è difficile ritrovare la via d’uscita, come è

difficile per i personaggi dannunziani ritrovare la realtà una volta

che si siano persi nel proprio sogno. Emblematico l’episodio de

Il fuoco in cui Stelio Effrena vuole trascinare una riluttante

Foscarina all’interno di un labirinto, quasi a metafora dell’uomo

che cerca – riuscendoci - di portare all’interno del suo “ cerchio”,

della sua realtà, del suo sogno, la donna e fare anche di questa

una sua creatura. Una volta entrati, egli inizia a giocare con lei a

una sorta di nascondino, ma lei diventa sempre più ansiosa,

sempre più spaventata, fin quando Stelio Effrena, per chiedere

aiuto e chiamare qualcuno, la lascia sola nel labirinto. Qui la

donna resta intrappolata nel cerchio in cui è stata attirata e si è

lasciata attirare, mentre l’uomo trova la sua libertà evadendo e

mettendo fine ad un gioco pericoloso.

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La “tortura” del desiderio

Il sogno nel quale vive D’Annunzio è generato, come si è detto

nei paragrafi precedenti, dal desiderio, che a sua volta nasce

dalla mancanza di qualcosa. Quando la linea del desiderio si

incurva nel cerchio del sogno, si produce una realtà

immaginifica, una favola bella, di cui D’Annunzio è creatore e

signore. Ma si è visto anche che il sogno illude, essendo una

realtà fittizia, frutto dei pensieri del poeta, e delude.

Di fronte alla delusione, la tentazione è quella di incolpare il

desiderio:

«“Il desiderio!” pensò Giorgio, richiamato così alla sua donna, alla corporale

tristezza del suo amore. “Chi ucciderà il desiderio?”» (TM, libro quarto, IV).

Ma quando è massimo l’oblio prodotto dal sogno, questo ed il

desiderio si fondono e si confondono. E allora anche il sogno

viene messo sotto accusa:

«E per mettere fine a tutti i sogni egli non doveva se non sognare di non voler

più sognare» (TM, libro quinto, III).

Ma uccidere il sogno significa uccidere se stessi, togliersi la vita,

che con esso s’identifica. La tentazione è dunque quella del

suicidio, come D’Annunzio confessa apertamente nel Libro

Segreto:

«M’avvenne di ricorrere cinque volte al farmaco letale, al sonno senza sogni»

(LS, Via Crucis).

Il momentaneo ritorno alla realtà, a seguito della delusione dal

sogno, coincide molte volte con la “convalescenza” e la

“purificazione” dei personaggi, che provano un senso di disgusto

per le loro costruzioni mentali. E’ il momento in cui ci si rende

conto che giocare con se stessi, autoingannarsi, è un gioco

davvero sciocco ed inutile. Una volta uscito dal regno del

desiderio e del sogno, dopo aver colto la futilità di ciò che

l’idealità ha generato, si prende ad odiare la costruzione mentale.

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È questo lo stato d’animo di Giorgio Aurispa nel rileggere le

lettere che un tempo scriveva ad Ippolita; egli non riesce a

sopportare quelle parole generate dall’attitudine di creare un

mondo fittizio, non può fare a meno di disprezzarle e di sentirle

tremendamente distanti:

«Non gli riusciva di ravvicinare l’io di quel tempo all’io presente. Egli sentiva

pur sempre di rimanere estraneo all’uomo che si disperava e si accorava in

quelle frasi scritte; sentiva che quelle emanazioni del suo amore non gli

appartenevano più e sentiva anche tutta la vacuità delle parole» (TM, libro

primo, VI).

Andrea Sperelli vive una situazione di questo genere all’inizio

del libro secondo del Piacere, nell’ambito di una vera crisi

mistico-religiosa che potrebbe portarlo a cambiare vita. Se la

realtà è negativa, se il sogno illude, se tutto è vano, allora

l’aspirazione diventa quella della dissoluzione di sé come

soggetto desiderante:

«Egli non si ricordava più di nulla. Il suo spirito aveva fatto una grande

renunziazione. […] Egli riposava, poiché non desiderava più» (P, libro

secondo, I).

Nelle parole e nei pensieri che D’Annunzio attribuisce a Sperelli

c’è molto della filosofia orientale, c’è molto del metodo

buddhista, che all’epoca era stato diffuso tra gli intellettuali

anche dalla filosofia di Schopenhauer, teorizzatore della

noluntas. Giungere allo stadio di non desiderare più, di

trascendere se stessi, di adeguarsi ad un cosmo impersonale e di

sprofondarvi sembra essere la soluzione a tutti i problemi. E

infatti è proprio in quel momento del romanzo che a Sperelli

vengono in mente i precetti dei Veda indiani e in particolare la

formula sanscrita “TAT TWAM ASI” (questa cosa vivente sei

tu). Ricordiamo qui, per inciso, che nelle ultime pagine del

romanzo Andrea compra all’asta di fallimento alcuni beni

appartenuti al marito di Donna Maria, tra i quali c’è proprio la

statua di Buddha.

A riprova di questa attenzione di D’Annunzio per il buddhismo,

almeno in un certo momento della sua vita, c’è anche il fatto che

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Giorgio Aurispa incontra Ippolita Sanzio proprio in mezzo a un

gruppo di scienziati positivisti che coltivavano il buddhismo.

C’è in particolare un personaggio di D’Annunzio che rappresenta

questa linea ascetica orientale, capace di estirpare il desiderio. E’

Daniele Glauro, l’amico di Stelio Effrena. In una scena del

Fuoco si svolge un interessante dialogo tra i due. Daniele vi

appare come un asceta che ha domato il desiderio e invita Stelio

a fare altrettanto:

«-Vivere tutta la vita vorrei, non essere soltanto cervello» - dice appunto

Stelio all’amico - «-Un cervello contiene il mondo.

-Ah, tu non puoi comprendere. Tu sei l’asceta; tu hai domato il desiderio»

(Fc, parte seconda).

Stelio Effrena non riesce a seguire l’amico. È legato alla vita

dalle sensazioni prodotte dal sogno e per questo sente di non

potere uccidere il desiderio. Ha bisogno di vivere nell’eterna

bellezza del sogno, nel piacere che esso genera, in una propria

realtà. Per fare questo non può rinunciare alla realtà comune,

anche se poi questa gli serve solo per trasformarla in qualcosa

d’altro.

La critica che D’Annunzio fa alla antica sapienza indiana tramite

i personaggi dei suoi romanzi risiede proprio nel fatto che non

può creare sogni dopo averne negato la volontà, e non consente

di transitare da un centro all’altro del cerchio, di assaporare

sempre nuove sensazioni ed immaginazioni, dando vita ogni

volta ad un nuovo sogno. Se da una parte Glauro ha intrapreso la

via dell’ascetismo, annientando il suo ego desiderante, Effrena

non è in grado di smettere di fabbricare sogni. Per questo ad

Effrena non si addice il solo pensiero (egli non vuole essere

“solo cervello”), egli deve innalzarsi ad una realtà, pur sempre

immaginifica, che si domina solo con il pensiero, ma a partire dal

corpo:

«Per una di quelle transustanziazioni che senza miracolo compie il mio

cervello alimentato dal fuoco degli inguini, gioisco di Leila» (LS, Regimen

Hinc Animi).

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La fase della noluntas, dunque, non diventa una preparazione

all’ascesi per D’Annunzio, quanto una nuova consapevolezza di

non poter vivere fuori dal sogno. Lo conferma proprio la vicenda

di Sperelli:

«Ma questo periodo di visioni, di astrazioni, di intuizioni, di contemplazioni

pure, questa specie di misticismo buddhistico e quasi direi cosmogonico, fu

brevissimo» (P, libro secondo, I).

Riassumendo, dunque, la noluntas, che implica un confronto tra

soggetto e realtà, rappresenta da una parte la presa di coscienza

della delusione del sogno, dall’altra la consapevolezza del fatto

che è proprio la realtà stessa a nutrire i sogni.

D’Annunzio, dopo l’amara delusione, non rinuncia a

trasformare, modellare plagi e fascini della realtà per generare un

nuovo sogno: sono gli occhi, le labbra, le espressioni delle

amanti a muovere l’immaginazione, che si mette a servizio del

poeta per dare vita ad un nuovo cerchio:

«Tu esalti la mia forza e la mia speranza, ogni giorno […]. Allora nascono in

me le cose che nel tempo ti meraviglieranno. Tu mi sei necessaria» (Fc, parte

seconda).

Distruggere per possedere resta pur sempre il gioco preferito da

D’Annunzio: diventa necessario prendere tutto quello che la

realtà può dare, succhiarne il midollo, per fabbricare il piacere di

nuove sensazioni, nuovi sogni.

La crisi mistica e religiosa di Sperelli non porta dunque ad un

misticismo orientale, ma neppure in braccio al Dio cristiano (per

un breve attimo evocato dal suono di campane di una chiesa).

Solo una strada appare possibile, quella dell’Arte, come suprema

illusione. Nell’Arte D’Annunzio trova il proprio idolo cui

sacrificare tutte le sue forze e il suo genio, senza bisogno di

rinunciare agli stimoli e ai piaceri dei sensi. Attraverso l’Arte il

poeta non rinuncia alla costruzione, alla volontà di creare, di

dominare, di modellare, ma lo fa al di sopra della volontà stessa,

dello spazio e del tempo, trovando così la soluzione alla sintesi

tanto cercata.

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Con l’Arte, che si concretizza nel Verso, il poeta sperimenta,

appunto, la sintesi nel sogno.

«Il Verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessuno istrumento d’arte è più

vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele.

[…] chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai

riuscirà a rompere» (P, libro secondo, I).

Il cerchio perfetto lo crea il verso, dunque, l’Arte. Dietro la

massima di Andrea Sperelli si cela la poetica del Vate

immaginifico, che ha voluto rendere la sua vita conforme ad una

favola bella, ad un sogno, ad un cerchio in cui poter dominare la

realtà, modellarla come si modella la cera, in cui lo spirito

potesse saziarsi di sempre nuove sensazioni e immaginazioni.

Il pensiere ha per cima la follia

Nel 1908 Gilbert Keith Chesterton, nel suo saggio Ortodossia,

scriveva che tutta l’umanità contemporanea era incamminata

verso il manicomio e che il matto perfetto era quello che

ragionava troppo:

«Un pazzo non è trattenuto dal senso del ridicolo o dal sentimento della carità

o dalle mute certezze dell’esperienza. Egli è tanto più logico in quanto ha

perduto ogni affetto sano. […] La sua mente si muove in un cerchio perfetto

ma ristretto».

Di certo Chesterton non pensava a D’Annunzio quando scriveva

queste righe, ma è certo che D’Annunzio conferma proprio le

riflessioni dello scrittore e polemista inglese quando nel Libro

segreto scrive:

«Il mio genio sembra girare vertiginosamente intorno a sé come la fionda

rotata prima di lanciare il sasso o il piombo. La rotazione violenta e sempre

più rapida della fionda intorno al capo del fiondatore non è dissimile a quella

de’ miei pensieri agglomerati per ostile foltezza».

Un cervello che gira intorno a se stesso, dunque, in un cerchio

simile a quello del folle. E in effetti molti personaggi

dannunziani più che degli eroi sono degli inetti, anzi, dei malati.

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Ma in che cosa consiste questa malattia? È la stessa domanda che

si è posto Costantino Esposito a proposito dell’inetto sveviano

nel suo intervento ai Colloqui fiorentini del 2006 (Quella mia

assenza continua ch’è il mio destino. Il pensiero di Italo Svevo,

in AAVV, Italo Svevo, Società Editrice Fiorentina). La risposta

che egli dà è che «la malattia di Svevo è una malattia del

pensiero» e consiste «nel fatto che il pensiero si isoli

dall’esperienza, si eserciti staccato dal soggetto, non parta più

come genesi dall’esperienza […] il pensiero viene a identificarsi

sempre di più con le “mie idee”, mentre il pensiero è sempre

qualcosa che, insieme, attraversa ed eccede, supera le mie idee».

Esposito continua poi dicendo che «il pensiero non permette più

l’incontro con la realtà, ma in qualche modo si configura come

un’apertura che curva di nuovo in se stessa».

Dunque l’inetto sveviano, come anche il personaggio di

D’Annunzio, è «un io senza pensiero», che non riesce a vedere,

che perde la realtà e se stesso e che, essendo prigioniero della

propria analisi, trova la sintesi solo nel sogno. E’ un tipo umano

che vive continuamente “fuori di sé”. In questo D’Annunzio

condivide già la malattia di tutto il pensiero novecentesco.

Forse per questo lui stesso si considerava folle, come l’Ariel di

Shakespeare il cui nome aveva preso a prestito.

«Il pensiere ha per cima la follia.

E l’amore è legato al tradimento».

La realtà, che l’uomo ama, tradisce. Il pensiero si attorciglia nel

cerchio della follia. Sono questi i versi che chiudono il Libro

segreto.

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Arte e Morte “sorelle eternali”

La poesia di D’Annunzio come esorcismo della morte

I Colloqui Fiorentini

XIII Edizione

Marzo 2014

di

Elena Brozzi

Pierpaolo Moroni

Cecilia Stassi

Laura Sorgato

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Alla scoperta del segreto di D’Annunzio

È davvero strano trovare la continua, ossessiva, incessante

presenza della morte nelle opere di D’Annunzio, universalmente

associato a parole come vitalismo, panismo, superomismo. Il

poeta ha scritto il Trionfo della morte, ma non è mai riuscito a

scrivere il “Trionfo della vita”, sebbene l’avesse in programma.

Amore e Morte sono sempre insieme, in tutta la sua produzione,

da L’Innocente a La figlia di Iorio, dal Fuoco a La città morta,

testi che si spiegano a vicenda e che sono tutti impregnati di un

senso di disfacimento.

Memorabile l’incipit del Piacere, che contiene una sorta di

messaggio subliminale: «L’anno moriva, assai dolcemente….»

(P, libro primo, I). Un continuo senso di angoscia domina il

Notturno, la cui scena più celebre è forse quella della visita al

cadavere dell’amico Miraglia, steso sul letto dell’obitorio.

L’ultima lirica di D’Annunzio è dedicata ai suoi cani morti, che

rosicchiano i loro stessi ossi. La sua ultima opera significativa, Il

libro segreto, era intitolata Il libro segreto di Gabriele

D’Annunzio tentato di morire ed uscì listata a lutto.

Il testo si apre con il tentato suicidio del poeta, e proprio la

presenza ossessiva della morte nella vita appare come l’elemento

unificante della vicenda biografica dannunziana. «Nel nascere»

si legge proprio all’inizio, «io fui come impagliato dalla morte;

sicchè non diedi grido». Rievocando alcuni fatti vissuti da

bambino, egli scrive:

«Son tentato di chiamare studi di morte questi eventi della mia fanciullezza.

[...] Avevo nove anni. A quindici mi avvenne di voler morire».

E in un altro frammento confessa di essere ricorso cinque volte al

farmaco letale, al sonno senza sogni (LS, Via crucis).

Sembra quindi che il poeta della Vita, dell’attività continua e

frenetica, delle esperienze intense ed inimitabili, sia vissuto

continuamente ossessionato dalla paura della morte. La Vita, con

le sue promesse di bellezza, di felicità, di grandezza, con le sue

chimere, gli appariva sempre insidiata dal nulla («O vastità! O

dismisura, misurata dalla cassa d’abete e dalla fossa!» - LS,

Regimen hinc animi).

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D’Annunzio confessa, in un appunto del 25 dicembre 1932, che

c’è stato un momento della sua vita in cui questa verità gli è

apparsa in tutta la sua terribile evidenza:

«Ma perché non posso né potrò mai dimenticare l’ora quando per la prima

volta le mie mani apparvero cadaveriche al mio sguardo fisso?» (LS,

Regimen).

A giudicare da queste parole, l’impatto con la realtà della morte

è avvenuto a un’età piuttosto precoce. Il destino fatale che

attende ogni uomo gli sembrava un’atroce limitazione e una vera

e propria ingiustizia, tanto da fargli disprezzare la stessa

immagine superomistica che dava di sé e che di sé veniva

recepita da tutti:

«Pur essendo così vasto e sempre teso in tanto diversi sforzi, io abomino la

strettezza del mio vivere, odio il mio vivere chiamato inimitabile, maledico

l’ingiustizia che mi mozza e tronca, mi altera e mutila, mi storce e frange»

(LS, Via crucis).

Dunque il grido di Maya, «Ah perché non è infinito/ come il

desiderio, il potere/ umano?», diventa del tutto comprensibile: a

che serve infatti un vivere inimitabile, se poi si viene umiliati da

un destino avverso?

Vi è una risposta molto precisa: l’uomo è fatto per la morte e la

morte è il nulla. Gli dei (come il poeta scrive nella lirica Il

Gombo di Alcyone) hanno inflitto questo castigo «agli uomini

obliosi del sacro/ limite imposto all’ansia/ del loro desiderio

immortale». Immortale il desiderio, mortali gli uomini.

La persistenza del tema della morte ci fa ritenere che non sia del

tutto esatto parlare di due periodi in D’Annunzio, uno solare e

uno notturno. In realtà luce ed ombra (con il netto prevalere della

seconda sulla prima) stanno sempre insieme in tutta la sua

produzione. Anzi, proprio la morte è il centro dell’arte del poeta,

e il suo stesso estetismo le è strettamente legato.

L’esaltazione dell’arte come unica ragione di vita non è solo una

posa, un’adesione alle idee e alle mode della letteratura francese

e inglese dell’epoca, o un tentativo di ritagliarsi, da poeta, uno

status particolare in una società dominata dall’interesse

materiale. L’estetismo di D’Annunzio ha ragioni più profonde,

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esistenziali. L’Arte è infatti da lui definita come sorella eternale

della Morte, e solo Arte e Morte possono riuscire ad abbracciare

la Vita, a bloccarla, a darle una qualche eternità, come il poeta

dichiara nella già citata lirica Il Gombo, in questi versi

illuminanti:

Poi che non val la possa

della Vita a comprendere tanta

Bellezza, ecco la Morte

che braccia più vaste possiede

e silenzi più intenti

e rapidità più sicura;

ecco la Morte e l’Arte

che è la sua sorella eternale:

quella che anco rapisce

la Vita e la toglie per sempre

all’inganno del Tempo

e nuda s’innalza tra l’Ombra

e la luce, e le dona

col ritmo il novello respiro:

ecco la Morte e l’Arte

apparsemi nel cerchio fatale.

Morte e Arte sono dunque sorelle, alleate contro l’inganno del

tempo. A partire da questo centro ideologico, tutta l’arte di

D’Annunzio si illumina di una luce nuova. E’ come se in essa vi

sia una profondità segreta, terribile, seria, molto differente e

lontana dalla superficie scintillante dei versi e dalle pose eroiche

e vitalistiche del Vate. Sotto la superficie c’è un lurido orrore

della morte da cui, per reazione, tutto dipende. Lo scrivere

incessante, il continuo rinnovarsi, l’agire, il cantare il suo canto

spiegato furono dunque solo una sorta di rito magico, un

esorcismo della morte?

“Sembra che la morte sia dappertutto”

«Non v’è scopo, non v’è meta, non fine nell’universo, e non v’è Dio» (LS,

Regimen).

Ripudiata una visione religiosa del mondo, D’Annunzio matura

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una sorta di misticismo senza Dio. Secondo la sua visione, il

nulla è la sostanza e l’approdo di tutto, e la morte l’unica realtà

certa,

il teschio cavo che non vede nulla:

di dura luce indistruttibilmente

dentato, o Drosis, per tritare il nulla.

(LS, Regimen)

In questa prospettiva l’uomo finisce con l’essere inabissato nel e

dal Nulla, prigioniero di un eterno ritorno, costretto a condurre

un’esistenza intrappolata in una dimensione ciclica e senza meta.

Una situazione, questa, castrante e alienante, che limita

inesorabilmente il processo evolutivo dello spirito umano,

condannandolo a ripetersi, e che soprattutto frustra l’inspiegabile

desiderio d’eternità presente nel cuore.

Immagini atroci, inquietanti o disgustose di morte sono molto

presenti nella produzione di D’Annunzio. Un sentimento di

orrore sembra pervadere tutte le opere del poeta e la morte vi

entra e vi si mescola secondo modalità diverse.

A volte accade che particolari funebri vengano presentati in

modo assolutamente inaspettato. Nel Piacere Elena convince

Andrea Sperelli a comprare un orologio che è

«una piccola testa di morto scolpita nell’avorio sulla cui fronte è inciso il

motto: RUIT HORA. […] Quel gioiello mortuario, offerta d’un artefice

misterioso alla sua donna, aveva dovuto segnar le ore dell’ebbrezza e col suo

simbolo ammonire gli spiriti amanti» (P, libro primo, III).

Sempre all’interno di questo romanzo, si riscontra un particolare

macabra anche quando Lord Heathfield, marito di Elena, fa

vedere ad Andrea i disegni di un artista morto giovane in un

manicomio. Vi sono immagini oscene di un erotismo macabro:

un priapo, uno scheletro, una danza di «scheletri muliebri, in un

ciel notturno, guidati da una Morte flagellatrice»;

«erano spaventevoli; parevano il sogno d’un becchino torturato dalla satiriasi;

si svolgevano come una paurosa danza macabra e priapica; rappresentavano

cento variazioni d’un sol motivo, cento episodi d’un solo dramma. E le

dramatis personae erano due: un priapo e uno scheletro, un phalluse un

rictus» (P, libro quarto, I).

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Un espediente simile viene usato nel Fuoco, dove la morte si

manifesta in modo improvviso, come quando si narra del giro in

gondola dei due protagonisti assieme al loro fedele servitore

Zorzi: la Foscarina intravede sulla superficie dell’acqua la

carcassa di un cane morto. D’Annunzio insiste senza ritegno sui

particolari più crudi:

«Una carogna gonfia e giallastra galleggiava presso il rosso muro di mattone

nelle cui fenditure tremolavano le erbe e i fiori, figli della ruina e del vento»

(Fc, parte II).

A titolo d’esempio si può citare anche il passo de La Città Morta

in cui il personaggio di Alessandro racconta quello che ha visto

durante una cavalcata. Immagini vivide e serene si trasformano

immediatamente, nel loro contrario:

«Tutte le campagne sono coperte di fiori selvatici che muoiono; e il canto

delle allodole riempie tutto il cielo. Ah che meraviglia! Non avevo mai udito

un canto cosi impetuoso. Migliaia di allodole, una moltitudine senza numero

… Balzavano da ogni parte si scagliavano verso il cielo … Una è caduta

all’improvviso ai piedi del mio cavallo, pesante come una pietra, ed è rimasta

là, morta, fulminata dalla sua ebbrezza per aver cantato con troppa gioia. L’ho

raccolta eccola» (CM, atto primo, scena IV).

A volte parole e immagini appartenenti al campo semantico della

morte possono apparire improvvisamente e del tutto inattese,

all’interno di una sequenza descrittiva:

«Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era un tramonto paonazzo e cinereo,

un po’ lugubre, che a poco a poco si stendeva su Roma come un velario greve.

Intorno alla fontana della piazza Barberini i fanali già ardevano, con

fiammelle pallidissime, come ceri intorno a un feretro» (P, libro primo,IV).

Proprio nel Piacere, questa tecnica viene riproposta all’inizio del

secondo libro, quando Andrea Sperelli, nel mezzo di una crisi

spirituale, contempla il tramonto sul mare. Improvvisamente

D’Annunzio mette il lettore di fronte ad un’immagine atroce:

«Vapori sanguigni e maligni ardevano all’orizzonte, gittando sprazzi di

sangue e d’oro sul fosco delle acque. […] E per quella luce tragica un corteo

funebre di vele triangolari nereggiava su l’ultimo limite. Erano vele d’una

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tinta indescrivibile, sinistre come le insegne della morte; segnate di croci e di

figure tenebrose; parevano vele di navigli che portassero cadaveri di

appestati… Un senso umano di terrore e di dolore incombeva su quel mare, un

accasciamento d’agonia gravava su quell’aria» (P, libro secondo,I).

Qui siamo di fronte ad una vera e propria allucinazione macabra.

Colpisce, in particolare, il ricorso ad immagini funebri in

momenti in cui sembra trionfare la vita e la gioia dei sensi. Nel

Piacere, ad esempio, quando inaspettatamente, durante la scena

di una chiacchierata leggera tra amici a tavola, compare un

mazzo di crisantemi:

«Clara Green sfogliava nel suo piatto i crisantemi, in silenzio, poiché il vin

bianco e leggiere le si era convertito nelle vene in un languor triste» (P, libro

terzo, I).

Ancor più significativa è la scena, nel Fuoco, dell’amplesso tra

Stelio e Foscarina, dove l’uomo percepisce la calda umidità

letale della donna e un rombo di morte. Poi, come di consueto, le

immagini si fanno ancor più macabre:

«La donna gli pesava sopra con tutto il suo peso, lo teneva allacciato e coperto

[…] con una stretta che non si allentava mai, indissolubile come quella del

cadavere quando le sue braccia s’irrigidiscono intorno al vivente» (Fc, parte

II).

Spesso queste immagini di morte ricorrono all’interno di poesie e

parabole, costantemente evocate con maestria dai personaggi dei

romanzi.

In apertura proprio del Fuoco, dopo la dichiarazione d’amore del

protagonista Stelio Èffrena alla sua amante, ecco dei versi citati

dalla Foscarina che terminano con la ripetizione in anafora per

ben tre volte del nome Ade:

«E le dirai: -O madre, mi chiama nel regno profondo/ Ade; mi chiama lungi

dal giorno a regnare su l’Ombre/ Ade; mi chiama solo al suo insaziabile

amore/ Ade» (Fc, parte I).

Nello stesso romanzo, D’Annunzio fa raccontare a Stelio Èffrena

la parabola del vetraio muranese Dardi Seguso, l’artista

impegnato in una gara contro il tempo e contro la morte. La sua

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vita infatti è appesa ad un filo, esile come il filo rosso che egli si

allaccia al collo per ricordarsi sempre il possibile destino.

E’ una storia tragica di amore e morte, che si conclude con il

suicidio dell’amante del Seguso e la morte del vetraio.

Il commento di Stelio (che ha raccontato questa storia per

intrattenere piacevolmente Lady Myrta e Foscarina) è laconico:

«V’è forse qualche somiglianza tra la mia audacia e quella del Muranese.

Credo che anche io dovrei portare intorno al collo un filo di scarlatto, per

ammonimento» (Fc, parte II).

D’Annunzio inoltre ricorre ai versi di altri poeti per inserire

all’interno dei suoi romanzi immagini e riflessioni sulla morte.

Nel Piacere, ad esempio, quando Andrea Sperelli e la sua

amante si recano al cimitero a visitare la tomba del poeta Percy

Bysshe Shelley, D’Annunzio sorprende il lettore citandone versi

sulla morte e sullo scorrere inesorabile del tempo che tutto

scolora:

«La Morte è qui, e la Morte è là; da per tutto la Morte è all’opera; intorno a

noi, in noi, sopra di noi, sotto di noi è la Morte; e noi non siamo che Morte. La

Morte ha messo la sua impronta e il suo suggello su tutto ciò che noi siamo,e

su tutto ciò che sentiamo e su tutto ciò che conosciamo e temiamo» (P, libro

quarto, II).

La stessa cosa accade nel Trionfo della morte, dove D’Annunzio

prende in prestito stavolta i versi del poeta Alfred Tennyson:

«Cari come i baci ricordati dopo la morte; - dolci come quelli immaginati da

una fantasia senza speranza – su labbra che sono per altri; profondi come

l’amore, - come il primo amore, e selvaggi di rimpianto; - o Morte nella Vita i

giorni che non sono più!» (TM, libro secondo, X).

Qui la morte diviene l’altra faccia della medaglia della vita, una

sorta di suo contrappunto. La Morte è nella Vita. Si vive in

compagnia della morte. Rovesciando Epicuro, se ci siamo noi,

c’è anche la morte.

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“Il cor sentì che il giorno era più breve”

Nel Trionfo della morte cogliamo questa riflessione di Giorgio

Aurispa, fatta proprio all’inizio dell’avventura nell’eremo con

Ippolita:

«Sono già quindici giorni e nulla è mutato in me. Sempre un’ansietà, sempre

un’inquietudine, sempre uno scontento! Siamo appena al principio e già io

veggo la fine. Come dunque godere dell’ora che passa?» (TM, libro terzo,

VII).

Questo tema è particolarmente sentito e presente in D’Annunzio:

in modo ossessivo e ripetuto il tempo è presentato come un

nemico che distrugge tutto e rende vana la vita. Tutto sfiorisce

tra le mani dell’uomo, l’istante, anche quello meraviglioso, passa

presto e non si può fermare. D’Annunzio usa proprio la metafora

dei fiori appassiti per darcene l’immagine. Sempre nel Trionfo

della morte, nel momento in cui i due protagonisti stanno per

lasciare l’albergo di Albano, «Ippolita raccolse tutti i suoi fiori

già appassiti nei bicchieri» (TM, libro primo, VI). Quei fiori sono

il simbolo degli attimi di felicità già morti, appartenenti ad un

passato irrevocabile.

Fermiamoci in questo romanzo per sentire l’inconsistenza degli

attimi fuggenti che divorano letteralmente le vite dei personaggi,

caratterizzati da una perenne infelicità che va a sfociare in una

tristezza e malinconia assolute.

Ecco ancora le sensazioni di Giorgio e Ippolita al termine della

vacanza ad Albano:

«Ancora un frammento del loro amore e del loro essere cadeva nell’abisso del

tempo, distrutto. Giorgio disse: “Anche questo è passato”. […] Ed ascoltarono

il romore eguale e continuo che facevano i selciatori nella strada battendo le

selci. Quel romore accorante aumentò la loro pena. […] Quegli urti cadenzati

acuivano in lui il sentimento della fugacità del tempo, ch’egli aveva già altre

volte esperimentato ascoltando le vibrazioni del pendolo» (TM, libro primo,

VII).

Tutto rimanda all’ossessivo battere del pendolo e questa

consapevolezza rende la gioia impossibile:

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«E quando le immagini si diradarono e la conscienza senza più seguirle si

ripiegò su se stessa, ambedue trovarono in fondo una sola ineffabile angoscia:

il rimpianto dei giorni irrimediabilmente perduti trascinava dietro di sé, nel

tempo, una immensa rete oscura, tutta piena di cose morte. […] Il loro amore

aveva dietro di sé un lungo passato» (TM, libro primo, IV).

Per Giorgio Aurispa contemplare gli istanti belli vissuti nel

passato significa contemplare una specie di cimitero. Dopo aver

riletto le vecchie lettere scritte ad Ippolita le giudica come

epitaffi in un cimitero, perché parlano di sentimenti, turbamenti,

sensazioni che non sono più:

«Come gli epitaffi danno un’idea grossolana e falsa delle persone morte, cosi

quelle lettere mal rappresentavano i diversi stati pe’ quali l’animo dell’amante

era passato» (TM, libro primo, IV).

Il passato è passato, e non c’è alcun modo di farlo tornare in vita.

La progressiva consapevolezza del lento disfacimento del corpo

e della mente, tratto caratteristico dei personaggi dannunziani, è

esemplare nella figura di Radiana nel Fuoco, la contessa di

Glanegg, prigioniera del tempo, la quale

«quando in un mattino troppo chiaro si accorse che era venuto per lei il tempo

di sfiorire, risolse di accomiatarsi dal mondo perché gli uomini non

assistessero al deperimento e allo sfacelo della sua bellezza illustre. [...] Si

dice che nella casa non vi sia uno specchio e ch’ella abbia dimenticato il suo

volto» (Fc, parte II).

In questo caso il personaggio non è squisitamente il frutto della

fervida immaginazione dello scrittore. E’ noto che il poeta nella

sua villa del Vittoriale coprì tutti gli specchi perché aveva paura

di assistere al proprio disfacimento.

Viene facile citare, a proposito del rapporto Morte-Tempo, due

celebri liriche di Alcyone. La prima è La Sabbia del Tempo, in

cui l’appressarsi della morte viene rappresentato proprio

attraverso il giorno, che diventa sempre più corto e breve, e

dall’immagine dell’ombra che cresce e invade il giorno. Molto

efficace è l’immagine della sabbia che scivola tra le mani, come

in una clessidra della vita che non si ferma davanti a nulla.

L’altra lirica è Nella belletta, nella quale D’Annunzio ci presenta

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immagini e sensazioni di disfacimento e morte. L’importanza di

quest’ultima nel componimento è anche dettata dall’unica rima,

che è proprio data dalla parola morte posta in chiusura delle due

terzine. In una «dolcigna afa di morte» tutto si sfa, marcisce,

diventa nulla.

Se il passato è solo un cimitero, se il presente sfugge di mano e

muore di continuo, il futuro è annuncio di morte:

«Egli pensò alla fuga degli anni, la catena ribadita per sempre dell’abitudine,

l’immensurabile tristezza dell’amore divenuto un vizio stanco. Vide se stesso,

nel futuro, legato a quella carne come il servo al suo ferro, privo di volontà e

di pensiero, instupidito e vacuo; e la concubina sfiorire, invecchiare,

abbandonarsi senza resistenza all’opera lenta del tempo, lasciar cadere dalle

sue mani inerti il velo lacerato delle illusioni ma conservar tuttavia il suo

potere fatale; e la casa deserta, desolata, silenziosa, aspettante l’estrema

visitatrice morte» (TM, libro quinto, II).

La morte è davvero l’unica realtà certa per D’Annunzio.

“Laudata sii per la tua pura morte”

Ma la morte è concepita e presentata da D’Annunzio anche come

colei che ha la capacità di portare la realtà in un’altra dimensione

e come unica possibilità di dare purezza eterna a ciò che si ama

di più. Archetipo fondamentale, essa rappresenta la tappa

necessaria all’elevazione spirituale. E’ una forma di

idealizzazione estetica. Essa ha inoltre la funzione di fissare in

eterno ciò che invece si corromperebbe e si rovinerebbe.

Questa concezione è espressa nel Piacere, quando Andrea

Sperelli viene a conoscenza della morte di Donna Ippolita, per il

cui amore aveva rischiato di rimanere ucciso in duello:

«Gli piaceva che la sua avventura terminasse cosi, per sempre. Quella donna

non posseduta, pel cui acquisto egli era stato sul punto di rimanere

ucciso,quella donna quasi sconosciuta gli si levava unica intatta su le cime

dello spirito, nella divina idealità della morte» (P, libro terzo, II).

Allo stesso modo Giorgio Aurispa, nel Trionfo della morte,

guarda alla morte di Ippolita, considerata come unica possibilità

di purificazione e salvezza:

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«Io penso che morta ella raggiungerà la suprema espressione della sua

bellezza. Morta! -E se ella morisse? Ella diventerebbe materia di pensiero una

pura idealità. Io l’amerei oltre vita,senza gelosia, con un dolore pacato ed

eguale» (TM, libro terzo,VII).

Le contraddizioni della realtà, le disarmonie, le gelosie, le paure,

per Aurispa svanirebbero solo a patto di annientare la realtà, in

questo modo trasferita in un orizzonte puro, sublime e definitivo:

«Da un’esistenza precaria e imperfetta ella entrerebbe in una esistenza

completa e definitiva, abbandonando per sempre la sua carne inferma, debole

e lussuriosa. Distruggere per possedere- non ha altro mezzo colui che cerca

l’amore nell’Assoluto”» (TM, libro quarto, III).

Le riflessioni e le aspirazioni di Giorgio Aurispa, tornano nel

personaggio di Leonardo de La Città Morta, che uccide la sorella

Bianca Maria; con la morte ogni cosa risulta purificata e

circondata da un alone di bellezza:

«Io ho abbassato le palpebre su i suoi occhi… ah più dolci d’un fiore su un

fiore. E ogni macchia è scomparsa dalla mia anima; io sono divenuto puro,

tutto puro. Tutta la santità del mio amore primo è tornata alla mia anima come

un torrente di luce. Guardala, guardala! Ella è perfetta; ora ella è perfetta. Ora

ella può essere adorata come una creatura divina» (CM, atto quinto, scena

unica).

La realtà deve essere distrutta. Questa distruzione si ottiene con

l’eliminazione violenta, ma può capitare che la realtà stessa

s’incammini spontaneamente verso la “pura morte”, che si tolga

di mezzo da sola, e in questo caso è da laudare, secondo

l’espressione de La sera fiesolana.

Non è raro trovare in D’Annunzio figure femminili che per

rendere felice il proprio amante (il quale deve poter essere libero

per espandere il proprio genio e per compiere la propria

missione) sono disposte a farsi da parte, a scomparire. E’ questa

la convinzione di Foscarina, comunicata a Stelio:

«Bisogna che io muoia, amico mio dolce, bisogna che io muoia!- disse la

donna, dopo un lungo silenzio, con una voce straziante, sollevando la faccia

dal cuscino dov’ella l’aveva premuta per domare la convulsione di voluttà e di

dolore che le avevano date le carezze improvvisi e furenti» (Fc, parte II).

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Analogamente alla Foscarina, anche Donna Maria, nel Piacere,

sente su di sè un bisogno di morte:

«Io morirò amico mio. Vado a morire lontana da te, sola sola. Tu non mi

chiuderai gli occhi… Ella gli parlava della sua fine con un sorriso profondo,

pieno di certezza rassegnata» (P, libro quarto, II).

Questa breve rassegna, necessariamente lacunosa, voleva dare

un’idea di come tutti i personaggi di D’Annunzio sentano il fiato

della morte sul collo. C’è chi la teme, chi l’accarezza, chi

arditamente la sfida, chi la domina. L’impudenza e il coraggio si

lasciano attraversare e fiaccare dal sentimento del tempo e della

morte. Una fine ardentemente attesa è vista come unica salvezza

e soluzione all’immutabilità dell’esistere.

L’esorcismo della morte

La produzione di D’Annunzio è caratterizzata dalla continua,

ossessiva presenza della morte, così come la sua vita: la sua

ultima opera, Il libro segreto, annunciato come “la rivelazione

della sua vita”, è tutto impregnato di una meditazione sulla

morte. In particolare, in un frammento dedicato agli amici morti,

il poeta esprime tutta la propria angoscia in quanto essi si sono

ormai «adeguati al nulla» ed è dunque «impossibile è

raggiungerli, ricongiungersi co’ loro spiriti». Alla fine di un

sempre più angoscioso climax arriva, come un grido di morte, un

verso ripreso da Ovidio:

«Me luridus occupat horror». Poi continua: «Carpe diem? Disciplina ascetica?

Attrarre ogni cosa ogni evento ogni apparenza nella mia arte, nelle mie arti:

questa è la mia legge» (LS, Regimen hinc animi).

Il messaggio espresso da queste parole è chiaro: l’unico modo

per reagire all’horror ed esorcizzare la morte è darsi

completamente all’Arte, attrarre tutto in essa.

Ci sono due frammenti del Libro segreto che possono essere

considerati la chiave di lettura per capire fino in fondo

D’Annunzio.

Essi sono quasi identici, tanto che la loro ripetizione può

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sembrare una svista dell’autore, ma non è così; nel primo il poeta

scrive:

«Ora che so alfine qual sia la vera essenza dell’arte, ora ch’io posseggo la

compiuta maestria, ora non ho se non il mattino di domani per cantare: e per

illudermi d’esser lieto!» (LS, Regimen).

Nel secondo vi sono delle significative varianti: è passato un

giorno, e quindi il poeta non ha

«se non il vespro di domani per cantare il novo mio “Canto novo”, e per

illudermi d’esser lieto» (LS, Regimen).

I due frammenti dicono chiaramente che, di fronte al tempo che

passa, l’unico antidoto è cantare. L’Arte è un rimedio per la

dissoluzione, garantisce l’illusione Cantare, esprimersi è allora

una vera e propria necessità esistenziale:

«L’espressione è il mio modo di vivere, esprimermi esprimere è vivere» (LS,

Regimen).

Bisogna essere felici, bisogna illudersi di esserlo. E’ l’unico

modo per sopravvivere, l’unico antidoto al suicidio. Questa

felicità illusoria D’Annunzio non la cerca solo per sé, ma sente

come il bisogno di donarla agli altri, coinvolgendoli nella sua

illusione, nella sua capacità di produrre illusioni. Il poeta affida

ai personaggi delle suo opere il compito di esplicitare il suo

pensiero.

Nel Fuoco la Foscarina loda Stelio per la sua capacità di essere

Imaginifico, generatore di immagini, di favole che regalano

momenti di felicità. Ed è proprio questo l’obiettivo della visita

del giovane a Foscarina e Lady Myrta: le due donne sono il volto

dell’infelicità, l’una perché sente la propria giovinezza svanire e

con essa l’amore di Stelio; l’altra perché ha un corpo da vecchia

in cui è intrappolato un cuore giovenile e quindi non può più dare

realtà ai propri sogni.

Quando l’Imaginifico arriva, per un’ora fa dimenticare alle due

infelici il resto del mondo, allietandole con le sue storie,

coinvolgendole nella sua illusione di felicità. Per intrattenerle

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elenca le qualità di Donovan, il suo preferito tra i cani da caccia

di Lady Myrta, alla quale inoltre racconta le vicende di Gog, un

levriero che ella gli aveva precedentemente donato, che è rimasto

storpio durante una battuta di caccia ma ha continuato a seguire

fedelmente il suo padrone. Stelio inoltre racconta alle due donne

la lunga storia di Dardi Seguso e Perdilanza, mettendo in campo

tutta la sua abilità affabulatoria.

L’Imaginifico, con il solo aiuto delle parole, è riuscito a rendere

felici le due donne:

«Ecco che, con la sua presenza, aveva portato in mezzo al consueto lavoro

un’animazione insolita, il lieto ardore del gioco ch’egli proseguiva nella sua

vita perpetuamente». Stelio gioca nella propria vita e gioca per la vita degli

altri. È l’animatore, capace di accendere «di bellezza e di passione gli attimi

fuggitivi» e di comunicare «per contagio il fervore della sua vitalità ai

prossimi», sollevando gli spiriti «a una sfera superiore» (Fc, parte II).

Vita e Arte si mescolano continuamente insieme; è lo stesso

concetto che D’Annunzio esprime nella lirica Consolazione,

facente parte del Poema paradisiaco. Il poeta immagina di

andare a trovare sua madre, ormai vecchia, e di invitarla a

passeggiare con lui nel giardino. Tutta la lirica è incentrata sul

tentativo di D’Annunzio di illudere sua madre sul tempo che

passa e distoglierla dalle cattive cose, attraverso la creazione

continua di immagini che dovrebbero distrarla e renderla felice

almeno per un po’. Per esempio, egli comporrà per lei un canto

al cembalo, così «tutto sarà come al tempo lontano» (v. 65).

Quella di D’Annunzio è una vera e propria strategia, come egli

stesso confessa in un altro frammento sempre del Libro segreto:

«Se vieni con me per un sentiere che tu hai passato cento volte, il sentiere ti

sembra novo» (LS, Regimen).

Anche Andrea Sperelli eccelle nell’arte di illudere: questa

capacità gli è riconosciuta da Maria, che, conquistata dalla sua

abilità, gli confessa:

«Mi sembra che tutte queste cose non sieno fuori di me, ma che tu l’abbia

create nell’anima mia, per la mia gioia. Ho questa illusione in me, profonda,

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ogni volta che io sono innanzi a uno spettacolo di bellezza e che tu mi sei

vicino» (P, libro terzo, IV).

Maria è consapevole del fatto che il giovane è un perfetto

creatore di illusioni, e che ciò che sta vivendo non è reale, ma

confessa, nello stesso tempo, che tutto questo la rende felice.

Le parole di Maria ricordano un altro frammento del Libro

segreto in cui D’Annunzio riporta un colloquio tra lui e una sua

amante; ella gli chiede: «Ariel, come puoi tu dare tanta felicità?

Tanta tanta felicità». Lui risponde: «Perché sono tanto infelice,

tanto tanto infelice» (LS, Regimen).

Questo frammento è una preziosissima conferma: dietro

l’Imaginifico, dietro il pirotecnico animatore, si nasconde un

uomo profondamente infelice. La vita di D’Annunzio è stata una

continua finzione, un disperato tentativo di salvarsi grazie

all’Arte. Infatti confessa, sempre ne Libro segreto:

«Dinanzi ai visitatori agli indagatori ai testimoni la mia cupa tristezza ha il

volto e il gesto di una allegrezza quasi frenetica. Chi mai mi vide ‘triste’? Chi

mi vede triste? […] La mia gioia palese è l’esaltazione e l’esasperazione del

mio coraggio. E non di rado mi avviene che dal mio studio di nascondermi

nasca una singolarissima gioia intima, quasi a compensarmi dello sforzo […]

la vera alchimia spirtale […] Alludo alla facoltà di creare da una qualsiasi

cosa contraria una perfetta cosa contraria: alla virtù di conciliare

l’inconciliabile e di dominare l’indomato, di asservire l’indocile e di

servirmene con eleganza accorta» (LS, Regimen).

In queste parole si nasconde il grande segreto di D’Annunzio:

dietro le sue immagini di vita, di gioia, di allegrezza frenetica c’è

sempre una cupa tristezza, cioè l’esatto contrario. La sua vita

passa nell’esercizio di nascondersi e nel faticoso tentativo di

conciliare gli opposti.

Forti di questa rivelazione, possiamo forse reinterpretare dei

celebri brani dannunziani, come La pioggia nel pineto: questa

poesia è universalmente considerata una dimostrazione del suo

vitalismo panico, ovvero la volontà di fondersi e identificarsi

gioiosamente con la vita vegetale e provare tutte le esperienze

possibili in una vita oltreumana. Tuttavia, la metamorfosi con la

natura, evocata dal ritmo travolgente della strofa dannunziana, è

finalizzata a creare la favola bella che illude. Siamo quindi di

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fronte a un potente esorcismo della morte, a un tentativo di

nascondere la cupa tristezza con l’apparente vitalismo della

lirica.

Ne troviamo conferma in un passo del Trionfo della morte, dove

Giorgio Aurispa esprime la sua idea di vita superiore:

«Camminare tra le creature vegetali come tra una moltitudine di intelligenze:

sorprenderne il pensiero occulto e indovinare il sentimento muto che regna

sotto le scorze; rendere successivamente il mio essere conforme a ciascuno di

quegli essere e sostituire successivamente alla mia anima gracile e obliqua

ciascuna di quelle anime semplici e forti […] mutarmi infime, per una

laboriosa metamorfosi ideale, nell’albero eretto che assorbe con le radici gli

invisibili fermenti sotterranei ed imita con l’agitazione delle sue cime il verbo

del mare. Non è questa forse una vita superiore?» (TM, libro terzo, II).

La situazione di Giorgio Aurispa è la stessa de La pioggia nel

pineto: egli, che sta vivendo una delle sue ricorrenti crisi e cerca

di fronteggiare la sua debolezza, si lascia sopravvincere da una

specie di ebrietà panica e si abbandona al sogno. Poco dopo,

però, realizza di non avere davvero contatto con la natura e che

«è impossibile all’uomo comunicare con le cose. L’uomo potrà

infondere nelle apparenze create tutta la sua sostanza, ma non

riceverà mai nulla in cambio» (TM, libro terzo, II). Questa è

appunto la coscienza della favola bella con la quale si illude se

stessi e gli altri. E questa favola nasce dalla depressione.

D’Annunzio ci appare dunque come un uomo che non riesce a

vedere la vita senza la morte, che non riesce a essere felice senza

quell’illusione che egli sa creare grazie alla sua capacità

alchemica di mescolare l’inconciliabile. La sua opera, e

quell’opera particolare che fu la sua vita, è il frutto dei

«prodigiosi capricci del genio bizzarro preposto a vestire gli

scheletri» (LS, Regimen). Al fondo della sua arte, come della sua

vita, c’è sempre un inevitabile senso di morte.

È a Stelio Èffrena che D’Annunzio affida il compito di

esplicitare il suo obiettivo:

«Io penso che ogni uomo d’intelletto possa, oggi come sempre, nella vita

creare la propria favola bella» (Fc, parte II).

È in questa frase la chiave della vita del poeta, la spiegazione del

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suo pensiero, ciò che ci fa capire il senso della creazione di una

sorta di illusione universale.

Verso «finzioni gigantesche»

Nel 1898, D’Annunzio concepisce il cosiddetto teatro grande o

teatro totale, un progetto che fa scalpore nel mondo dello

spettacolo: è la costruzione di un teatro all'aperto per

rappresentazioni di opere classiche e di tragedie moderne, allo

scopo di riproporre i moduli del teatro antico al posto del

realismo imperante nel teatro borghese contemporaneo, con il

quale coinvolgere un pubblico più ampio, anche poco preparato a

livello culturale. Un antenato disegno di cinema, pubblicità e

televisione.

Forse all’origine del progetto c’era anche il desiderio di

estendere universalmente quell’illusione che era solito creare per

sé e per le persone più vicine a lui. D’Annunzio voleva essere

colui che porta il sogno nella carcere cotidiana dove tutti

servono e soffrono; voleva essere la figura del poeta che

esorcizza il dolore non solo per se stesso, ma anche per gli altri,

per il popolo.

Questo programma fa la sua comparsa nelle opere di

D’Annunzio, per la prima volta, con il personaggio di Stelio

Effrena. Il protagonista del Fuoco è alla ricerca «della più esatta

espressione, verso l’impronta del più alto stile» (Fc, parte I), per

riuscire al meglio a portare l’illusione nella mente di tutti. È

sempre pronto a prendere quello che le persone vogliono avere,

anche inconsciamente, e trasformarlo in arte: si appropria dei

desideri impossibili e li rende possibili con l’immaginazione.

Nella scena durante la quale Stelio tiene un discorso davanti

all’alta società Veneziana si genera una sorta di “comunicazione

elettrica”, stabilita tra il dicitore e l’uditorio. Il giovane poeta, in

balìa di un ignoto potere, abolisce i confini della sua persona e la

sua voce acquista la “pienezza di un coro”. Egli è il tramite «pel

quale la Bellezza porgeva agli uomini… il dono divino

dell’oblio» e «per un’ora quegli uomini dovevano contemplare il

mondo con occhi diversi, dovevano sentire pensare e sognare

con un’altra anima» (Fc, parte I).

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Il compito dell’artista diventa quello, come del resto si afferma

anche nelle Vergini delle rocce, di difendere il proprio sogno e di

regalarlo agli altri. I poeti, in particolar modo, saranno coloro che

avranno la funzione di generare delle finzioni gigantesche,

perché «sola nell’universo la poesia è verità» e consente la

«vittoria sulla vita» (Fc, parte I).

L’Arte si configura come colei che trionfa sulle inquietudini e i

tedii dei giorni comuni. Essa riesce a creare un felice intervallo

in cui non si pensa più ai dolori e ai bisogni quotidiani. Sembra

di poter modificare addirittura il destino. D’Annunzio pensa

allora di portare questo dono a infinite moltitudini, che vorrebbe

convogliare in profondi teatri. Queste moltitudini condividono

con lui un bisogno di verità e bellezza e soprattutto un bisogno di

liberazione:

«Il popolo consiste di tutti coloro i quali sentono un oscuro bisogno di

elevarsi, per mezzo della Finzione, fuor della carcere cotidiana in cui servono

e soffrono» (Fc, parte I).

Cosa fornirà l’arte futura? «Una meravigliosa trasfigurazione

della vita» che per qualche attimo interrompe l’angoscia umana,

placa la sete e dona l’oblio. D’Annunzio scriverà nel Libro

segreto che «la menzogna è la druda dell’oblio» (LS, Regimen

hinc animi). Per sopravvivere al dolore bisogna mentire e, per

raggiungere una falsa perfezione per l’anima, è opportuno che

chiunque venga trascinato nella Finzione.

Qui D’Annunzio è molto attuale. I profondi teatri nei quali

dovevano essere addensate le moltitudini si sono perfettamente

realizzati, però in un modo ancora più efficace: non è il popolo a

muoversi verso il teatro, ma è il teatro a raggiungere il popolo.

Attraverso la televisione entrano quotidianamente nelle case

quelle gigantesche finzioni che il poeta sognava e che

moltiplicano enormemente quelle ore di felice intervallo che

consente di dimenticare il carcere costituito dalla vita di tutti i

giorni. Non è un caso che D’Annunzio si coinvolse con

entusiasmo in tutte le nuove opportunità che offriva al suo genio

la nascente società di massa. Si occupò, infatti, di pubblicità, di

marketing, di cinema.

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Il progetto dannunziano è perfettamente funzionale, già fin da

allora, a quella che viene definita “ideologia del post-moderno”

che, come si legge nella raccolta di saggi del filosofo Massimo

Borghesi Secolarizzazione e nichilismo (2005, Cantagalli),

costituisce

«l’ultimo tentativo di chiudere il mondo in se stesso, di de-finirne la perfetta

compattezza, la rotondità senza smagliature. […] Il soggetto è libero dallo

stato di costrizione in cui lo tiene la realtà data, ma è libero in negativo, e

come tale fluttuante, poiché nulla v’è che lo tenga. Ma proprio questa libertà,

proprio questo fluttuare trasmette all’ironista un certo entusiasmo, nel senso

che s’ubriaca come degli infiniti possibili e, dovesse consolarsi di tutto quanto

va in rovina, può sempre far fondo alle riserve enormi della possibilità».

Quella post-moderna, spiega ancora Borghesi, è una visione

estetica della realtà, in cui essa «perde i contorni rigidi,

collocandosi su un piano in cui non si distingue più nettamente

dalla fantasia».

Non era forse questo l’obiettivo di D’Annunzio? Non voleva

portare se stesso e gli altri in un mondo onirico in cui i confini

con il mondo vero si fanno tenui e la realtà tende a farsi virtuale?

Tutto diventa una gigantesca favola bella e in questa

«affabulazione del mondo viene ad accadere ogni aspetto drammatico

dell’esistenza. L’atarassia post-moderna rende insensibile il cuore mediante

la moltiplicazione, estenuante, degli stimoli, dissolvendo l’impatto con la

realtà. Il ‘principio del piacere’, elevato a criterio supremo, richiede la

rimozione del dolore e della morte, la loro trasfigurazione ‘estetica’»

(Borghesi, cit.).

Il fare della vita un’opera d’arte acquista, a questo punto, un

significato ben più profondo di quello letterale: se l’Arte è

sorella eternale della Morte allora questa metamorfosi diventa

un combattimento, per tutti, contro la paura di scomparire

nell’abisso, spoglio da qualsiasi illusione.

«L’elevazione all’Uno […] avviene ora non mediante la ragione ma, grazie al

suo superamento, in direzione di un mondo onirico, di sogno» (Borghesi, cit.).

D’Annunzio, creatore di immagini come di idoli e donatore di

speranza, sembra dare vita nelle sue opere a un neopaganesimo

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che ha, come principio, l’autoredenzione: la liberazione

dell’uomo da ogni costrizione della realtà e dell’Essere. In

effetti, perseguendo per sé e per tutti la chiusura onirica del

mondo, «impedisce alla genuina domanda religiosa di

emergere», diffondendo un nichilismo gaio che non considera il

nulla come l’abisso in cui finisce, senza alcun senso, la vita

umana, ma come un contenitore da riempire nelle forme più

strane e varie.

La persona vincente è, dunque, l’Imaginifico, l’animatore,

l’attore che sa fingere una parte, l’homo-ludens. Il mondo come

favola è concepito come luogo della salvezza. L’Arte sembra

essere riuscita definitivamente a imbrigliare la Vita.

Ars longa, vita brevis

Ma l’Illusione non dura e l’unica a trionfare veramente è la

Morte, che può essere solo dimenticata, rimossa, esorcizzata, ma

mai sconfitta. La morte dell’artista è un’immagine ricorrente in

D’Annunzio, che ha il suo culmine nella celebre

rappresentazione del funerale di Wagner, a conclusione del

Fuoco. Il grande musicista è definito da Stelio Effrena come

«colui che aveva trasformato in infinito canto per la religione

degli uomini le forze dell’Universo» (Fc, parte II). Ma la figura

del creatore barbarico appare al giovane poeta in tutto il suo

deperimento: i capelli bianchi, il corpo immobile, accasciato…

C’è come un senso di rassegnazione di fronte al potere immenso

della Morte che, per contrasto, porta ad una forma di attività

febbrile, alla riaffermazione del proprio credo:

«Il verso è tutto e può tutto. […] Può rappresentare il sopraumano, il

soprannaturale, l’oltramirabile; […] può infine raggiungere l’Assoluto» (P,

Libro Secondo, I).

Di nuovo l’esorcismo. Ma un po’ tutta la produzione di

D’Annunzio, come abbiamo visto, è un grande esorcismo della

morte.

Il poeta sfidava il suo lettore:

«Certo io non vorrò mai raccontare – dichiara in un frammento del Libro

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segreto- quel che so e che voi ignorate ne conoscerete mai. Io ve lo dico senza

rancore e senza orgoglio, pacatamente: mai».

Ma forse il suo segreto era proprio quell’orrore della morte che

lo accompagnava in ogni istante, e tutte le immagini più vivide e

vitali nascevano come reazione a quell’orrore.

In uno dei frammenti della sezione Via Crucis, D’Annunzio

collega alle pulsioni suicide della sua fanciullezza «l’impresa

della Cornucopia»: il motto «io ho quel che ho donato»,

incorniciato da una o due Cornucopie. Cosa restava, appunto, al

poeta? Quell’Illusione che per tutta la vita aveva voluto donare

anche agli altri.

La sezione Regimen hinc animi del Libro segreto si apre con un

pensiero del 21 Settembre 1898, nel quale D’Annunzio dice di

avere alcune schegge di legno dei cipressi piantati da

Michelangelo presso le terme di Diocleziano e aggiunge:

«Se io ne facessi uno scrigno, che cosa vi chiuderei? Forse l’altro mio cuore;

forse il libro che non ho scritto: il libro dell’altra mia vita».

Cipressi michelangioleschi. Morte e Arte. Le sorelle eternali,

alle quali D’Annunzio affidava il segreto della sua vita.

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Indice

Nota del curatore 5

Il “cerchio fatale”

Desiderio e sogno in D’Annunzio 9

Arte e Morte “sorelle eternali”

La poesia di D’Annunzio come esorcismo della morte 35

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