Società Fabiana 1999-2004

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1999-2004: ATTIVITÀ E DOCUMENTI ( ) Materiali dal sito internet www.fabiana.it nella versione on line tra 2000 e il 2004 A cura di Luca Guglielminetti

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Società Fabiana Italiana - Italian Fabian Society Attività e documenti 1999/2004

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1999-2004:

ATTIVITÀ E DOCUMENTI

( )

Materiali dal sito internet www.fabiana.it nella versione on line tra 2000 e il 2004

A cura di Luca Guglielminetti

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LA SOCIETÀ FABIANA DI TORINO

Contro la pericolosa tendenza alla degenerazione della politica e per superare l'insufficienza delle tradizionali forze di sinistra occorre reagire. Gli elettori si aspettano da queste forze idee nuove e nuovi progetti capaci di affrontare i grandi e crescenti problemi di una economia e di una società non solo già fortemente trasformate, ma con la prospettiva di ulteriori epocali cambiamenti. Occorre ritrovare nuovamente il coraggio di riscoprire ideali, se si vuole ambiziosi, ma la cui realizzazione si rende necessaria affinché la società del futuro garantisca civiltà, cultura, equità e benessere diffuso tra i cittadini e tra i popoli. La programmazione si presenta come lo strumento indispensabile a tale disegno. L’esperienza — tutta inglese — della FABIAN SOCIETY sembra non solo molto significativa e storicamente valida per quella realtà, ma suscettibile, pur in condizioni oggettivamente diverse, di essere considerata modello e fonte di ispirazione. Per questo a Torino è nata — con l’apporto di varie associazioni, istituti, clubs, oltre che di singole persone — un’Associazione con lo stesso nome. Essa intende operare soprattutto in campo locale (ripercorrendo in questo proprio l’esperienza iniziale inglese), senza peraltro trascurare talune problematiche d’ordine più generale e cercare di articolarsi - a rete - in ambito nazionale italiano. Compito della nuova Associazione sarà quello di esaminare alcuni problemi della nostra società, approfondirli con un’attività di studio, di ricerca documentale, di confronto per poter possibilmente pervenire a ipotesi di soluzione da offrire agli operatori politici. Il metodo sarà quello “Fabiano”: non si cercheranno soluzioni avveniristiche, ma esse dovranno sempre essere suffragate da precisi dati di risconto fondati su calcoli economici di convenienza senza peraltro dimenticare gli obiettivi più generali della crescita della nostra società. Non si partirà da impostazioni preconcette. Ci si muoverà sempre rigorosamente in modo autonomo da interessi di parte o di “bottega”. L’ottica dell’Associazione sarà dichiaratamente riformista, nel senso che si cercherà di individuare soluzioni ai problemi affrontati, attraverso modi non solo compatibili con la realtà e con le prospettive esistenti, ma capaci soprattutto di soddisfare l’interesse collettivo. Ovviamente l’Associazione si ritiene totalmente svincolata da partito o altre formazioni politico-

sociali, anche se i propri aderenti potranno legittimamente farne parte.

L’attività ufficiale della Società Fabiana inizia il 6 luglio 1998; è utile dare un cenno su ciò che è avvenuto nel periodo precedente alla fondazione della Società. Per quindici anni si è sviluppata a Torino l’attività dell’APE (Associazione per il Progresso Economico) che ha realizzato numerose iniziative (convegni, tavole rotonde, seminari) su temi socio-economici, con particolare attenzione verso il Piemonte. Per alcuni anni l’APE ha dato vita ad una pubblicazione, “Lettera aperta a…”, inviata ad oltre 1.500 persone. Il gruppo di attività dell’Associazione ha poi ritenuto opportuno avviare una nuova organizzazione, idealmente e funzionalmente legata all’APE stessa, di cui rappresenta la continuazione e l’evoluzione: la Società Fabiana. Entrambe le associazioni, pur rimanendo nettamente separate dall’esperienza di politica attiva (e quindi in posizione di chiara autonomia da qualsiasi partito) si ispirano alla tradizione del socialismo liberale. Per oltre due anni, antecedenti alla fondazione ufficiale della Società Fabiana, si è sviluppata un’intensa attività di preparazione tra i futuri aderenti alla Società stessa, attraverso gruppi di lavoro specifici che hanno affrontato i seguenti temi: - l’occupazione industriale a Torino e in Piemonte - i problemi ambientali nell’area metropolitana torinese - la scuola della repubblica ed i finanziamenti alla scuola privata - la pianificazione urbanistica e i trasporti nell’area metropolitana - le telecomunicazioni nella società tecnologica - il sistema carcerario italiano - l’assistenza agli anziani malati cronici - la difesa dei consumatori - la cultura a Torino - la prevenzione sanitaria

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BOZZA DI DOCUMENTO PRELIMINARE PER LA COSTITUZIONE DELLA SOCIETÀ FABIANA DI TORINO.

GOVERNO E "BUON GOVERNO" Il clima che si respira e le quotidiane vicende denunciano da tempo una certa svalutazione della politica, intesa ormai più come "arte del consenso" che come -nel suo significato originario- del governare o -in termini più attuali- l’insieme di attività che hanno come fine e come oggetto la "Polis". L’obiettivo della conquista, sic et simpliciter, del potere, da scopo strumentale (e cioè subordinato a quello fondamentale del "buon governo") è via via diventato lo scopo principale, talora unico, prescindendo sempre più da ideologie (il che è giusto, in quanto l’esperienza insegna che è disastrosa la pretesa di ridurre la complessità della vita entro i confini angusti di un'impostazione rigida e inappellabile), ma anche da programmi, progetti e perfino dagli ideali di partenza. Questa affermazione potrebbe essere tacciata di facile e astratto moralismo: la spregiudicatezza da sempre è una delle caratteristiche più tipiche dell’esercizio della politica. Ma è nello stesso interesse dei politici evitare che l’opinione corrente al riguardo si confermi sempre più nell’identificazione della politica come "cosa sporca". Si può contrastare questa diffusa convinzione soltanto proponendo finalità "nobili", per ottenere le quali machiavellicamente si può anche ricorrere alla categoria della spregiudicatezza. Attenzione però in quanto l’opinione pubblica non accetta comunque che si varchino limiti ben precisi. E' di attualità il caso degli Stati Uniti dove non sono ammesse le "bugie" dei politici e dove esse avvengano portano financo alla decadenza dalla più alta carica dello stato. In ogni caso gli elettori esigono che gli obiettivi della politica siano di alto profilo, in grado di far compiere alla società veri salti di qualità, per i quali si possono anche accettare sacrifici (come d’altronde vengono in genere comunque richiesti). Gli elettori invece sanno apprezzare i casi, sia pure rari, di politici cristallini, la cui figura morale emerge indiscussa (tra i più recenti casi in Italia va ricordato Sandro Pertini).Nel caso Pertini non si è avuta la figura di un caso indiscusso, ma s un vero democratico che ha dato lustro alla Repubblica italiana. Si assiste, invece, ad un altro fenomeno: che è la crescente personalizzazione della politica (inevitabile nella contrapposizione di due gruppi) che mette in primo piano le figure dei leaders rendendoli carismatici e trascurando la coerenza stessi ai principi e ai programmi enunciati. Così facendo si aggrava la tendenza in atto verso un puro e semplice pragmatismo, con il rischio di confermare ulteriormente il fine ultimo ditale azione il cui scopo è quello della presa e della conservazione del potere, fino all’estremo della creazione di un vero e proprio "regime". Va ricordato, a questo proposito, che non è necessario che venga imposto un sistema totalitario. Quando si arriva ad annoverare in uno schieramento

politico, contemporaneamente posizioni di sinistra radicale, di sinistra moderata, di centro-sinistra e di centro-destra (con un’alleanza finalizzata a realizzare semplicemente una maggioranza governativa) si è molto vicini alla concezione di un partito unico, che schiaccia, nei fatti, la possibilità di alternanze. Che non si tratti di un pericolo immaginario è provato dalla proposta avanzata nel nostro paese, in ambienti della sinistra tradizionale, relativa alla creazione di un nuovo partito, sul modello del partito democratico americano. Ma a differenza dell’esperienza statunitense, tale partito, per la sua variegata composizione, si candiderebbe, nei fatti, ad una gestione del potere che ricorderebbe quella del quarantennio democristiano: un centro che "guarda a sinistra" -nella presentazione propagandistica-, un partito moderato di conservazione -nei fatti-. Dal punto di vista della sinistra europea, la sinistra cioè che fa riferimento all’Internazionale Socialista, non si può non ammettere che si sta vivendo un clima di grande confusione, con le forze di sinistra che tendono a dare quasi per scontata l’esigenza primaria del pragmatismo a tutti i costi. Infatti preoccupazioni di conquista e di tenuta del potere (giustificate dalla necessità di evitare la vittoria delle destre) sembrano talora prevalere sulle esigenze che vorrebbero fossero attuate con le impostazioni che caratterizzano da sempre la sinistra. L’alleanza con forze moderate, condizione essenziale per garantirsi la posizione di governo, induce sempre più spesso a conversioni radicali rispetto ai tradizionali impegni (ad esempio sui temi fondamentali dalla laicità dello Stato e delle garanzie del cittadino). Talora, in breve, sembra che l’obiettivo opportunistico e di breve periodo cancelli l’azione di realizzare sia pure gradualmente, il modello di una società più giusta e civile. Un recentissimo esempio vale per tutti, va premesso che la difesa della scuola pubblica e laica rappresenta oggi più che mai uno dei temi privilegiati di intervento per qualsiasi forza politica che si definisce democratica e riformista. Infatti, in una società che si va trasformando rapidamente in una realtà multiculturale, la scuola rischia di diventare l’unico terreno di confronto fra culture diverse che, al di fuori di essa, tendono piuttosto, se non a scontrarsi, perlomeno a ignorarsi reciprocamente, generando una frammentazione in prospettiva pericolosa anche sul terreno politico e, comunque, triste e depauperante tanto sul piano strettamente culturale che su quello più generale della convivenza civile. Una visione laica non si caratterizza né per una tendenza all’appiattimento delle differenze culturali, né per una loro accettazione statica, bensì per la ricerca di un terreno comune di confronto in cui la diversità diventi ricchezza di tutti e di ciascuno. Da questo punto di vista, proprio sul terreno della politica scolastica si confrontano due prospettive radicalmente diverse in linea di principio e di fatto. Da un lato, infatti, c’è chi concepisce il pluralismo come pluralità di scuole pubbliche e private di diversa tendenza culturale, religiosa e politica; dall’altro chi ritiene che un autentico pluralismo non possa realizzarsi che all’interno della scuola pubblica

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concepita come luogo laico di confronto aperto fra differenti impostazioni culturali. Noi riteniamo che proprio quest’ultima sia la strada da percorrere, perché l’altra non farebbe che irrigidire le diversità in contrapposizioni ideologiche ed accentuare le tendenze alla disgregazione del tessuto sociale. Per questo motivo consideriamo fondamentale la difesa e la promozione della scuola pubblica e laica contro le tendenze al privilegio delle istituzioni scolastiche private, in special modo quelle di ispirazione confessionale. In particolare, ci pare inammissibile il finanziamento pubblico alla scuola privata, in parte già attuato anche contro l’esplicito dettato costituzionale. E necessario, inoltre, vigilare affinché la nuova normativa sull’autonomia scolastica -che nel bene e nel male sta entrando in vigore -venga effettivamente utilizzata per realizzare una risposta più flessibile e quindi più efficace alle esigenze dell’utenza ed alla realtà del territorio, e non invece piegata a strumento di frammentazione del sistema scolastico funzionale anch’esso -magari in maniera surrettizia - agli interessi del privato. Compito di un’associazione politico-culturale democratica e riformista deve essere quello di sollecitare l’opinione pubblica su questo terreno, anche contro le posizioni ufficiali di gran parte dello stesso schieramento politico di sinistra che ha sacrificato sull’altare delle alleanze elettorali e della logica di coalizione alcuni dei principi fondamentali su cui è stata costruita la nostra repubblica. Va peraltro detto che non è più così certa la definizione politica della "sinistra", in un mondo che si è andato trasformando profondamente. Da un lato -e riferendosi soltanto ai paesi industrializzati- non vi è dubbio che le popolazioni abbiano raggiunto livelli di qualità della vita assolutamente impensabili soltanto mezzo secolo addietro. Se l’obiettivo della sinistra era quello di ottenere condizioni di uguaglianza politica e di un certo grado di giustizia sociale, molti possono affermare che esso è stato di fatto raggiunto, grazie alle politiche socialdemocratiche che si sono imposte in Europa. Esse si sono infatti realizzate con le lotte della sinistra in generale e dei sindacati in particolare -da un lato- e con l’accordo con il capitalismo più avanzato -dall’altro- Il tutto con le garanzie di una democrazia liberale e con uno stato in grado di affrontare i problemi non solo derivanti dall’esigenza di assicurare un elevato livello di servizi sociali, ma soprattutto di gestire -con impegnative e talora illuminate politiche assistenziali -i fenomeni dell’emarginazione. Questo modello è sicuramente entrato in crisi non solo per l’eccessivo appesantimento dei costi dello "Stato sociale", ma con l’esplosione di fenomeni non più facilmente controllabili come nel passato: il primo è quello della crescente disoccupazione strutturale, frutto della forte evoluzione tecnologica delle attività produttive e della "globalizzazione" del mercato; il secondo è quello dell’immigrazione dei paesi meno fortunati; il terzo è quello della progressiva distruzione dell’ambiente. Mentre per il secondo problema il governo cerca rimedio difendendosi con leggi e provvedimenti di contenimento dei flussi e per il terzo, obiettivamente

cresce - specie tra i giovani e per merito dei "verdi" - una generale sensibilità, al primo sembra non sapersi porre alcuna soluzione. Le varie proposte avanzate dall’una e dall’altra parte non sembrano per nulla apprezzabili. Da un lato si ha la semplicistica rivendicazione di una riduzione degli orari di lavoro a parità di remunerazione, che non tiene sufficientemente conto delle realtà di mercato, che le imprese quotidianamente devono affrontare, specie in un quadro di crescente "globalizzazione" dell’economia; dall’altro vi è la difesa, talora gretta e totalmente sorda alle mutazioni in atto nell’economia e nella società, delle ragioni strettamente aziendali. Il problema in realtà costituisce una finestrella che apre ad uno scenario molto più ampio e complesso. Non è infatti pensabile la conservazione se non nel breve-medio termine di un sistema che dà per scontata la divisione del mondo tra aree privilegiate e -nel tempo- sempre più privilegiate e altre misere, sempre più misere, fino a condizioni sub-umane. Analogamente non è pensabile -per restare nelle aree più fortunate- un futuro dove la divisione tra ceti privilegiati e non, diventerà sempre più marcata (cfr. il caso degli U.S.A.), se, proprio per lo sviluppo tecnologico, continuerà a diminuire il numero degli occupati, che diventeranno dei veri e proprii privilegiati nei confronti dei sempre più numerosi senza-lavoro, mentre questi ultimi aumenteranno corrispettivamente. Ora disoccupati e disadattati sono ancora oggetto di politiche sociali (sussidi, ammortizzatori sociali, assistenza pubblica, ecc.) ma non può essere ignorata -come si rileva dall’esperienza americana e di altri paesi, anche a governo non reazionario- una chiara tendenza a ridurre l’intervento statale, per l’eccessivo onere che viene a gravare sul bilancio pubblico. Appare evidente un pesante rischio per la sopravvivenza della democrazia, specie se la preoccupazione sarà quella di tenere a bada le masse crescenti di coloro che potranno contestare, anche violentemente, la propria emarginazione. Non è certo un caso che nei paesi dove più forti si presentano le contraddizioni del sistema economico e più evidenti e drammatici i problemi del sottosviluppo, i governi siano costituiti -più o meno chiaramente - da dittature di vario tipo. Esse garantiscono la "pace sociale" che significa il predominio di pochi privilegiati su una massa assoggettata di poveri, miserabili o addirittura affamati. Se il mondo perverrà ad una generalizzazione di tali situazioni in tempi più o meno lunghi non vi sarà più spazio per la democrazia che lascerà luogo a forme autoritarie, magari espresse in forme più civili e forse anche accettate -un certo punto- dalla maggioranza dei cittadini. A quest’ultimo proposito, basti pensare a quali scherzi può produrre il razzismo. Nello stesso nostro paese che sembrava del tutto vaccinato contro tale patologia sociale, potrebbe affermarsi una maggioranza che richieda maniere forti e, quindi, potenzialmente accondiscendere a governi autoritari (che ad esempio pratichino metodi altrettanto forti -come la pena di morte- per combattere la criminalità), con politiche di chiusura inappellabili verso possibili

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integrazioni con l’esterno e -all’interno- con regimi polizieschi. Vi sono varie obiezioni a questo tipo di scenari: a proposito dell’espulsione dal lavoro grazie al progresso tecnologico e organizzativo vi è chi sostiene che un ulteriore aumento della produttività, se in un primo tempo può dar luogo a una diminuzione degli occupati, successivamente produrrà un tale sviluppo dell’economia che sarà in grado, non solo di riassorbire la manodopera espulsa, ma addirittura produrre un aumento dell’occupazione. Vi è chi precisa che quest’ultima dovrà spostarsi dal settore industriale a quello dei servizi anche di tipo nuovo, alle attività connesse all’impiego del tempo libero, all’organizzazione della cultura. Da un lato, quindi, un’espansione della domanda, dall’altro la creazione di nuove esigenze. Importanza particolare dovrà essere assegnata alla difesa dell’ambiente. Peraltro tale ipotesi sembra non potersi accordare con la rivendicazione di ridurre il ruolo dello stato, se difesa dell’ambiente, cultura, ecc. continueranno ad essere, di fatto, compiti dello stato. Analogo ragionamento viene fatto a livello internazionale: un ulteriore grande sviluppo delle economie forti a scapito di quelle più deboli, dovrebbe -secondo alcuni- finire per portare benefici anche a questi ultimi, con l’allargamento dei mercati, ecc. Più che fondate scientificamente questo complesso di ragioni suscita il sospetto di costituire copertura ad obiettivi ben più limitati, rappresentati semplicemente dalla difesa di chi ha interesse a mantenere lo "status quo". La sinistra italiana e -più in generale- dei paesi europei appare ben lungi dall’affrontare queste tematiche: infatti ciò che sembra più di tutto mancare alla sinistra oggi è la capacità di analizzare il presente, sola vera condizione per poter progettare il futuro. Analizzare vuole dire scomporre il groviglio della complessità quotidiana, la contraddittoria inevitabilità del casuale e del necessario. Significa dotarsi di paradigmi idonei a percepire l’unitarietà del reale, pur nella varietà del suo porsi e a prevederne -entro certi limiti- il divenire. È, in altre parole, la fiducia nel metodo della scienza e la capacità di usarlo, anche se sono cadute le ottocentesche certezze sulla sua infallibilità assoluta. Il relativismo culturale oggi dilagante, mentre sembra impotente a contrastare il "pensiero unico" fondato sull’oggettività "naturale" del capitalismo e del mercato, riesce invece a paralizzare ogni serio tentativo di costruire modelli conoscitivi alternativi applicabili con un sufficiente grado di verificabilità alle scienze economico-sociali. Ma accettare il reale come un dato immodificabile di natura è proprio quello che distingue il pensiero conservatore da quello progressista, la destra dalla sinistra. Accade invece che proprio la destra si presenti oggi sulla scena politico-culturale con aggressiva baldanza rivoluzionaria, accusando le balbettante sinistra di accanimento conservatore nella difesa di quegli ammortizzatori sociali e di quell’etica della solidarietà

che ne hanno segnato la migliore identità storica nel corso del Novecento. Non si tratta soltanto di un problema filosofico, ma della possibilità di dotare l’azione politica di fondamenti razionali e non solo emotivi, di ispirazioni strategiche e non solo di astute tattiche di schieramento politico e di convenienze elettorali. La capacità di coniugare l’asserita scientificità dell’analisi con la soggettività etica dell’impegno rivoluzionario o riformista (non c’è differenza da questo punto di vista) è stata la più formidabile arma politico-culturale del movimento operaio in questi ultimi cent’anni. Finché non si riuscirà a creare una miscela analoga, non varrà la pena di essere di sinistra, se non per ragioni sentimentali o di contingente interesse pratico. A tutto ciò s’aggiunga un’aggravante: i partiti tradizionali, intesi come elaboratori ed ispiratori delle politiche, in quanto rappresentativi delle realtà e delle esigenze sociali e come strumenti fondamentali di collegamento tra gli elettori e gli organismi rappresentativi, mostrano -salvo pochissime e, peraltro, discutibili eccezioni- di stare via via trasformando in semplici comitati elettorali, manifestando vivacità quasi soltanto in occasione delle votazioni o nell’organizzazione di manifestazioni di tipo genericamente propagandistico e -sempre più spesso- di semplice esaltazione delle personalità dei leaders.

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ASSOCIAZIONE CULTURALE SOCIETA’ FABIANA - TORINO - ITALIAN FABIAN SOCIETY

Atto costitutivo e Statuto dell’Associazione Art. 1- E’ costituita un’Associazione, senza scopo di lucro, denominata: Associazione culturale - Società Fabiana - Torino - Italian Fabian Society, abbreviabile con: Società Fabiana, Fabiana, Fabian Society. L’Associazione ha sede legale in Torino. La Giunta esecutiva ha facoltà di cambiare sede, purché all’interno della Provincia di Torino. L’Associazione ha durata illimitata. Art. 2- L’Associazione è un circolo politico-culturale senza finalità di lucro. Essa si richiama idealmente, politicamente, programmaticamente e metodologicamente alla storica Società Fabiana di Londra, sorta alla fine del secolo scorso e tuttora operante quale sede originale e autonoma di elaborazione, promozione e divulgazione nel campo delle scienze economico-sociali e delle loro applicazioni in ambito politico e amministrativo. La Fabiana intende pertanto offrire innanzitutto un luogo d’incontro per tutti coloro che vogliono promuovere un confronto critico e intendono muoversi secondo prospettive comuni sulle tematiche relative alla difesa ed allo sviluppo dei diritti dell’uomo e del cittadino e relative alla crescita ed al miglioramento della società civile. A tale fine l’Associazione potrà patrocinare, promuovere, coordinare, organizzare, finanziare e svolgere nel campo di pertinenza: -attività di coordinamento e sinergia tra i suoi associati; -commissioni permanenti e temporanee di studio e confronto; -studi, approfondimenti, inchieste, dibattiti; -ricerche; -pubblicazioni; -convegni, conferenze, seminari, incontri; -corsi di aggiornamento, formazione e specializzazione sia in ambito scolastico e universitario che professionale, imprenditoriale e sindacale; -attività di informazione; -borse di studio; -petizioni popolari, raccolte di firme anche a scopo referendario; -pubbliche riunioni, manifestazioni e assemblee avvalendosi e collaborando con persone fisiche, enti pubblici e privati, imprese, professionisti, ecc. Art. 3- Gli organi dell’Associazione sono: -l’Assemblea dei soci; -il Comitato dei soci sostenitori; -la Giunta esecutiva; -il Collegio dei probiviri; -i Revisori dei conti.

Art. 4- Il patrimonio dell’Associazione è costituito dalle quote associative e da libere erogazioni, da contributi di Enti pubblici e privati, da ricavi di attività inerenti all’Associazione. I SOCI Art. 5- Possono far parte dell’Associazione persone fisiche, giuridiche, associazioni riconosciute e non riconosciute, enti pubblici e privati, imprese, previa accettazione da parte della Giunta esecutiva. I soci fondatori e gli enti non commerciali sono definiti soci sostenitori. Tutti gli altri sono definiti soci ordinari. I soci sono tenuti al pagamento di una quota annua fissata dall’Assemblea. Art. 6- La Giunta esecutiva può disporre la sospensione o la decadenza del socio non in regola con il pagamento della quota associativa. Per chi ha compiuto fatto o mantenuto comportamenti direttamente o indirettamente dannosi per l’immagine dell’Associazione, la Giunta può proporre il deferimento al Collegio dei probiviri. L’ASSEMBLEA Art. 7- L’Assemblea ordinaria viene convocata dal Presidente annualmente mediante convocazione scritta o altra comunicazione con un preavviso di almeno 10 giorni. Art. 8- Hanno diritto ad intervenire all’Assemblea e votare tutti gli associati in regola con il pagamento della quota associativa. Non é ammesso il voto per delega. Art. 9- L’Assemblea delibera: -sul rendiconto finanziario; -sulla nomina del Presidente, del Vice-presidente e dell’Ufficio di Presidenza; -sull’eventuale cooptazione di componenti della Giunta esecutiva; -sugli altri argomenti iscritti all’ordine del giorno; -sulle linee generali di attività dell’Associazione; -su eventuali modifiche del presente Statuto, in sede di Assemblea straordinaria; -sull’emanazione di regolamenti interni dell’Associazione. L’Assemblea è valida in prima convocazione quando siano presenti almeno metà dei soci; in seconda convocazione, che può essere indetta in giorno separato o almeno un’ora dopo quella fissata per la prima convocazione, qualunque sia il numero dei presenti. COMITATO DEI SOCI SOSTENITORI Art. 10- Il Comitato dei soci sostenitori, formato dai soci fondatori e dai rappresentanti delle Associazioni aderenti, è convocato dal Presidente semestralmente mediante comunicazione scritta o altra comunicazione con un preavviso di almeno 10 giorni. Il Comitato delibera su:

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-la nomina della Giunta esecutiva; -i rapporti con altre associazioni; -la redazione dei bilanci preventivi e consuntivi; -l’esame delle relazioni di studio e dell’attività dei gruppi di lavoro. GIUNTA ESECUTIVA Art. 11- La Giunta esecutiva è costituita da 9 membri e dura in carica 2 anni. Ad essa partecipa il Presidente e l’intero Ufficio di Presidenza. Art. 12- La Giunta esecutiva è investita di ogni potere per decidere sulle iniziative da assumere e sui criteri da seguire per il conseguimento degli scopi dell’Associazione, nel rispetto delle linee fissate dall’Assemblea dei Soci. In particolare la Giunta: -fissa le direttive per l’attuazione dei compiti statutari; -decide sull’amministrazione dell’Associazione ed emana i provvedimenti relativi a collaboratori e personale dipendente; -stabilisce l’importo delle quote associative; -stabilisce le prestazioni di servizi a soci e a terzi; -esamina i rendiconti da sottoporre al Comitato dei soci sostenitori e all’Assemblea; -fissa gli argomenti all’ordine del giorno del Comitato dei soci sostenitori e dell’Assemblea; -delibera sull’accettazione di nuovi soci; -nomina, nel proprio seno, il Tesoriere e il Segretario; -può assumere delibere, mozioni ed esprimere pareri e proposte, dandone eventualmente comunicazione interna; -delibera sulla costituzione di gruppi di studio. Art. 13- La Giunta esecutiva è convocata dal Presidente ed é da questi presieduta o in sua assenza- dal Vice-presidente, dal membro più anziano dell’ufficio di presidenza o dal membro più anziano della stessa Giunta. La Giunta delibera a maggioranza assoluta dei presenti. IL PRESIDENTE Art. 14- Il Presidente viene nominato, con il vice presidente e l’ufficio di presidenza, dall’Assemblea; dura in carica 2 anni e può essere rieletto. Egli rappresenta ad ogni effetto l’Associazione, anche in sede giudiziaria, con facoltà di rilasciare procure speciali: In caso di impedimento lo sostituisce il Vicepresidente. GRATUITA’ DELLE NOMINE Art. 15- Salva diversa delibera dell’Assemblea tutte le cariche sociali sono gratuite. Il rimborso delle spese deve essere autorizzato dal Presidente o dal Segretario o dalla Giunta esecutiva. REVISORI DEI CONTI Art. 16- I Revisori dei conti sono eletti dall’Assemblea nel numero di 3 effettivi e 2 supplenti; durano in carica 2 anni e sono rieleggibili.

COLLEGIO DEI PROBIVIRI Art. 17- Il Collegio di probiviri è eletto dall’Assemblea e si compone di 3 soci; questi durano in carica 2 anni e sono rieleggibili. Art. 18- Il presente Statuto non potrà essere modificato se non in seguito a delibera presa dall’Assemblea, convocata in sede straordinaria, con la maggioranza di due terzi dei soci presenti. Art. 19- Per quanto non espressamente stabilito dal presente Statuto, si applicano le norme del Codice Civile. Art. 20- Il caso di scioglimento dell’Associazione, nelle forme di legge, i fondi residui verranno erogati, in base ad apposita delibera dell’Assemblea, sempre per i fini di cui all’art. 1 del presente Statuto oppure per scopi benefici.

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Attività del 1999

* 10 marzo 1999 Incontro sul tema: L’internazionalizzazione del Piemonte Relatore: Prof. Ruggero COMINOTTI L’interscambio commerciale non è più il canale prevalente nei processi di internazionalizzazione in entrata ed in uscita dell’industria piemontese: tendono a prevalere altre forme di scambio, in primis le acquisizioni di imprese esistenti, le joint venture e gli investimenti in nuovi impianti. Altri strumenti in crescita sono le forme di partneriato internazionale, sia commerciale sia tecnologico e i contratti di subfornitura oltre frontiera. La stessa Fiat è ormai fortemente multinazionalizzata, pur mantenendo ancora il “cuore” della produzione ed il comando a Torino. E’ aupicabile un incremento dell’internazionalizzazione del settore della componentistica in entrata e in uscita, aumentando la capacità di attrarre investimenti esteri e sviluppando ulteriormente la ricerca tecnologica nell’area automotive

* 31 marzo 1999 Presentazione della trilogia Il posto Italia, di Sergio Astrologo Interventi: Prof. Marco BRUNAZZI, Dott. ssa Elena DE ANGELI, Dr. Alberto SINIGAGLIA

La trilogia Il posto Italia (Occhi color del tempo, Per me la vita, Premiata gelateria fratelli Prezzavento) è il frutto della penna di Sergio Astrologo, socio della Società Fabiana e vincitore di importanti premi letterari. L’autore ripercorre con delicatezza e nitore, non senza momenti di asciutta ironia e aspro sarcasmo, un secolo di vita italiana e torinese, attraverso le vicende di una famiglia di origine ebraica. Durante la presentazione, alla quale ha assistito un pubblico foltissimo ed attento, giovani attori hanno recitato alcuni brani dell’opera. Gli interventi dei relatori hanno evidenziato l’attenzione al contesto storico-sociale, la limpidezza e la cura lessicale della prosa, la candida poeticità di alcuni momenti “alti” ed in generale l’assoluta originalità e atipicità del progetto, trattandosi di una sorta di autoproduzione dell’autore, fra l’altro di mole considerevole: quasi una “sfida impossibile” alle regole del mercato editoriale.

* 30 giugno 1999 Incontro sul tema: La Fiat e il sistema automobile Relatori: Dr. Ruggero COMINOTTI, Dr. Pietro MARCENARO, Prof. Franco REVIGLIO, Dr. Giacinto VILLATA L’impatto della Fiat e di tutto il distretto automobilistico sull’area metropolitana torinese: i relatori hanno evidenziato l’ancora forte e tecnologicamente avanzata realtà automobilistica torinese, che può a pieno titolo essere considerata uno dei 3 o 4 distretti più importanti al mondo. Il distretto torinese è già in parte svincolato dalla “madre” Fiat, che pur mantiene un ruolo centrale; tra i vari scenari possibili, ve n’è uno particolarmente stimolante e apparentemente “eretico”: la possibilità che un produttore estero venga ad

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affiancarsi alla Fiat, proprio qui in Piemonte. L’interesse potrebbe essere di entrambi, ipotizza Cominotti; lo scenario è comunque certamenteaperto, sotto la spinta inarrestabile della globalizzazione. E’ già significativa la presenza delle aziende estere in Piemonte ed in particolare nel torinese, sia sul piano tecnologico sia occupazionale (gli occupati in imprese straniere operanti nella nostra regione sono circa 75.000).

* 13 luglio 1999 Incontro sul tema: Le aree industriali e l’area metropolitana Relatori: Arch. Emilio BARONE, Prof. Sergio CONTI, Arch. Luigi RIVALTA Gli studiosi Barone e Conti hanno presentato un’accurata e rigorosa indagine sul rapporto tra insediamenti industriali e urbanizzazione. Emerge un quadro caratterizzato da forti insediamenti specializzati: negli ultimi anni si è creato, in modo pressoché spontaneo, un modello spaziale quasi reticolare. La ricerca di Conti e Barone propone una politica di sviluppo per nodi e distretti, che le istituzioni (la Provincia in particolare) dovrebbbero sostenere.

* 13 ottobre 1999 Incontro sul tema: Le fondazioni bancarie Relatori: Arch. Paolo CORRADINI, Prof. Pino MASPOLI, Arch. Gianluigi VACCARINO * Relazione La premessa fondamentale per lo sviluppo socio-economico di Torino, della sua area metropolitana e del Piemonte, è la creazione di alcune grandi infrastrutture di trasporto e

comunicazione. Tale necessaria e urgente opera non può essere affidata totalmente all’intervento pubblico, stante la difficoltà di bilancio della pubblica amministrazione e il fardello del debito pubblico. Si propone pertanto il coinvolgimento delle Fondazioni ex bancarie operanti in Piemonte nel finanziamento di tali opere. Ovviamente gli interventi devono corrispondere a precise logiche economiche, sia in termini complessivi sia nell’interesse delle stesse Fondazioni le quali devono favorire l’elaborazione di precisi project financing in base ai quali operare le proprie scelte d’intervento. All’intervento delle Fondazioni (che dovrebbe comunque coprire solo una parte dell’investimento) potrebbero sicuramente seguire quelli di altri operatori finanziari. Incontro sul tema: Le fondazioni bancarie NOTA PROVVISORIA SULLE FONDAZIONI BANCARIE La riforma bancaria, voluta da Giuliano Amato, ha prodotto la duplicazione (tra banche S.p.A. e fondazioni proprietarie delle azioni di queste) di un’intera categoria di banche, in sostanza quelle riconducibili agli enti pubblici locali, cioè le Casse di Risparmio e altri Istituti bancari pubblici originati da iniziative locali; ma ha altresì fatto emergere una serie di problemi, alcuni dei quali sono stati oggetto della legge sulle fondazioni ex-bancarie, approvata recentemente dal Senato. Occorre premettere che la legge bancaria italiana, tuttora vigente, con le limitazioni che pone all’operare delle banche (limitazioni giustificate nel passato dalle note vicende prodotte in Italia dalla crisi del 1929), non si concilia affatto col processo di europeizzazione e di "globalizzazione" oggi in atto. Proprio l’avvio di questa nuova era dei mercati, caratterizzata da un’elevata competitività, obbliga la trasformazione degli Istituti di credito italiani secondo il modello della banca "universale". Divenute a pieno titolo "imprese commerciali", con azioni quotate (anche se finora non sono numerose le banche nate dalle scissioni con le rispettive fondazioni, che sono entrate in borsa), dovranno tendere alla massima efficienza, allargando la propria attività e tipologia di interventi, mostrando elevata capacità concorrenziale e reddituale. La massimizzazione dei propri profitti (oggi la redditività delle banche non supera mediamente il 2%) risulterà essenziale per la

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valorizzazione e per l’appetibilità della società e, quindi, per il loro successo borsistico. La trasformazione delle banche esigerà anche il cambiamento radicale della mentalità che ancora oggi vi domina, (tipica della condizione monopolistica ancora del recente passato) e della conseguente impostazione burocratica dei rapporti con la clientela. Da qui l’incapacità di fondo a entrare nei problemi reali delle imprese clienti, a capire e valutare correttamente situazioni o prospettive, con conseguenti comportamenti dettati o da una prudenza miope ed eccessiva (limitata alle possibilità per i richiedenti del credito di offrire garanzie "reali") o, talora, da un’estrema superficialità e apertura nel vendere fumo o, più semplicemente, dotati di protezioni altolocate (cfr. alcuni "scandali" finanziari degli ultimi decenni): soltanto dall’appoggio "politico" di amministratori o di autorevoli personaggi esterni. Tale trasformazione sarà facilitata dal processo di privatizzazione ormai iniziato, ma anche, come si è detto, dal superamento del divieto della vigente legge bancaria alla partecipazione al capitale di rischio di altre imprese. Conquistare e gestire una clientela vincendo al concorrenza di altre banche e, contemporaneamente, massimizzare il proprio profitto potrebbe, infatti, richiedere una maggior stabilità del rapporto entrando nella gestione, promuovendo o partecipando direttamente a operazioni di potenziamento del capitale, a fusioni, acquisizioni, all’avvio di iniziative in settori innovativi o in qualsiasi altra operazione finanziaria profittevole. Le banche italiane, seguendo l’esempio di altri paesi, dovrebbero entrare quindi completamente nel mercato finanziario, con un processo comunque graduale, in rapporto alla progressiva "privatizzazione" che le fondazioni ex-bancarie attueranno con la vendita di gran parte delle azioni attualmente possedute. Per quanto concerne le banche S.p.A. il loro destino appare quindi chiaramente segnato: da istituzioni prevalentemente tese alla raccolta del risparmio locale, orientate a mercati ristretti o "specializzate" nell’acquisto di titoli del debito pubblico, si troveranno ad essere, pena la loro stessa sopravvivenza, aziende aperte ai mercati finanziari, in una prospettiva di continui sviluppi anche internazionali, forzatamente vivaci e competitive. Va peraltro dato atto che un certo numero di tali banche da tempo si sono mosse nella direzione del loro ammodernamento e del superamento dei tradizionali limiti operativi e territoriali, in qualche caso assurgendo, come è noto, ad un livello non solo interregionale o nazionale, ma anche internazionale, e conquistando, nel contempo, una maggior indipendenza dalle istituzioni e dalle forze politiche locali. Non a caso tali banche hanno suscitato e stanno suscitando notevole interesse nel quadro dei processi di concentrazione di rilevante dimensione in atto, anche se va detto che l’Italia è ancora lontana dal presentare colossi bancari, quali esistono in altri paesi economicamente sviluppati. Per le fondazioni d’origine bancaria il quadro appare molto meno chiaro.

Se con la trasformazione in S.p.A. e la loro privatizzazione le banche-aziende si libereranno presto (se non l’hanno ancora fatto) dei vincoli locali, certamente invece le fondazioni dovranno continuare a fare i conti con gli interessi, i punti di vista e con la politica espressi nell’area della loro localizzazione. Poiché il potere di nomina degli amministratori è demandato non ad un’assemblea di azionisti che pretendono efficienza e dividendi, ma ai potentati locali (sempre più carenti di consenso e quindi tentati di utilizzare un potere indiretto), tutto ciò può determinare addirittura il risorgere di antiche pratiche clientelari. Per questi motivi occorre certamente un forte e diffuso impegno civico e morale da parte della classe dirigente locale, ma anche la legge deve cercare di prevenire taluni pericoli come quello della perpetuazione o della nascita di nuovi centri di potere, non controllabili democraticamente, sostanzialmente irresponsabili (anche perché non rispondono col proprio patrimonio personale) oltre che avulsi da ogni verifica di mercato. Si tratta di una materia delicatissima che non può certo trovare soluzione con il demandare sic et simpliciter la gestione del patrimonio a gestori professionali, riducendo i consigli di amministrazione delle fondazioni a semplici "elargitori" di donazioni e contributi. E’ invece auspicabile che gli amministratori delle fondazioni sappiano oculatamente scegliere di volta in volta i tipi di investimento più opportuni e in totale autonomia da interessi diversi, anche se del tutto legittimi. Non mancano nella storia della fondazioni, sia in Italia che all’estero, esempi di progressivo impoverimento patrimoniale (e quindi d’incapacità, ad un certo punto, di rispondere alle stesse finalità della fondazione) dovuti sia ad avvenimenti come l’inflazione, non correttamente prevista, sia al coinvolgimento in operazioni di tipi semplicemente speculativo. Inoltre sussiste l’esigenza, richiamata dalla legge, di effettuare scelte anche al fine dello sviluppo economico locale, cui non si può sufficientemente corrispondere destinandovi unicamente parte dei proventi delle azioni possedute, ma per la quale – al fine di ottenere significativi risultati – occorre invece destinare una parte degli stessi investimenti. Questo non sarebbe praticamente possibile se le scelte fossero demandate ad un gestore professionale, al quale non si potrebbe certo addebitare al sua visione generale e addirittura mondiale dei mercati finanziari e la non considerazione delle opportunità presenti localmente. Qualcuno potrebbe sostenere che sarebbero sufficienti, per incentivare lo sviluppo economico locale, i contributi, derivanti dagli utili conseguiti dalle varie partecipazioni finanziarie, in quanto sarebbe opportuno e sufficiente un intervento "leggero" da parte delle fondazioni sul mondo produttivo locale. Potrebbero infatti bastare, ad esempio, finanziamenti di corsi di riqualificazione professionale, premi all’imprenditorialità, piccole partecipazioni a società pubbliche o miste nate localmente (come le finanziarie "regionali") già sufficientemente dotate di capitali, partecipazione ad incentivazioni commerciali (fiere, manifestazioni promozionali) e così via, interventi richiedenti modesti apporti finanziari, con ricadute

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positive sull’economia locale. Non va inoltre sottaciuto che gli investimenti effettuati a favore della cultura, della ricerca, dell’istruzione hanno sicuramente risvolti importanti anche per lo sviluppo economico locale. Non va inoltre sottaciuto che gli investimenti effettuati a favore della cultura, della ricerca, dell’istruzione hanno sicuramente risvolti importanti anche per lo sviluppo economico locale. Questa impostazione può senz’altro apparire giustificata per aree economicamente forti e senza rilevanti problemi. Non sembra adatta a situazioni difficili e delicate, come ad esempio quella in cui si trovano Torino e una parte del Piemonte. Se si ritiene dunque che le fondazioni debbano partecipare con peso adeguato ad iniziative incisive per lo sviluppo economico, occorre che mettano anche mano ai propri fondi patrimoniali, ma questa evenienza pone il problema dei criteri di scelta, da parte dei consigli di amministrazione. E’ opportuno rammentare che le fondazioni devono operare con efficienza e razionalità, quali i metodi più recenti di project financing possono permettere. In ogni caso, sia che si tratti di ipotesi partecipative in imprese finanziarie, infrastrutturali o industriali, è assolutamente necessario premettere ad ogni decisione seri studi progettuali in grado di fornire adeguate assicurazioni circa la redditività e quindi l’opportunità dell’investimento. Questo criterio va ovviamente applicato anche per le ipotesi illustrate più avanti. Sarà inoltre opportuno ricordare che lo scopo delle fondazioni è l’interesse collettivo, specificato dagli statuti. Per questo, a differenza delle imprese (comprese le banche S.p.A.), sono esenti dalle imposte. Esse non possono avere natura commerciale, trasformandosi, per esempio, in holding, non possono coprire responsabilità gestionali nelle società partecipate, non possono assumere posizioni dominanti, non possono ingerirsi nei problemi gestionali se non dalla posizione di soci di minoranza. La legge si premura a questo proposito di vietare posizioni dominanti ottenute indirettamente con accordi trasversali con altre fondazioni, che potrebbero permettere di continuare ad esercitare un’influenza di rilievo sulle banche oggi possedute, ma di cui devono, entro termini relativamente brevi, cedere almeno l’80% delle partecipazioni. La legge recentemente approvata dal Senato ha specificato il concetto di utilità pubblica che le fondazioni ex-bancarie devono concretizzare, effettuando interventi a favore della cultura, dell’istruzione, della ricerca, della salvaguardia del patrimonio artistico, della sanità e dei servizi sociali, ecc. e, infine, in favore dello "sviluppo economico" locale (finalità introdotta ex-novo, rispetto al progetto elaborato in precedenza). Si tratta di una definizione generica che può indurre interpretazioni pericolose, in quanto possono pregiudicare, alla lunga, la sopravvivenza stessa della fondazione, se queste ultime optassero per operazioni che – per il rischio eccessivo o per la non sufficiente ponderatezza – potrebbero comportare addirittura la non restituzione del capitale investito. Purtroppo l’esperienza italiana insegna che si

potrebbero aprire nuove occasioni di sperpero di denaro pubblico quando si dovesse interpretare – sotto le pressioni delle autorità politiche locali, ad esempio, a difesa dell’occupazione – l’intervento a favore dello svilupo economico in operazioni di salvataggio di industrie decotte. Si tratta di un pericolo reale, fortemente negativo per un duplice ordine di motivi: l’assottigliamento, se non il totale esaurimento, del patrimonio delle fondazioni, e il tenere in vita artificiosamente imprese comunque destinate alla chiusura, rinviando ad occasioni magari meno favorevoli (per il tempo di decozione troppo prolungato) iniziative di riconversione e di rilancio su nuove basi di efficienza economica. Il pericolo è tutt’altro che remoto, in quanto le fondazioni potranno abbastanza presto disporre di fondi, anche cospicui, provenienti dalle vendite delle azioni delle banche S.p.A. Dovranno scegliere settori e imprese, ma è opportuno che si attengano strettamente a rigorosi criteri: due sono i requisiti indispensabili. In primo luogo quello della sicurezza. Non si dovranno assumere partecipazioni se non in società serie e consolidate, possibilmente a bassa rischiosità. In taluni casi sarà preferibile l’investimento in azioni privilegiate o obbligazioni. Principio fondamentale dovrà comunque essere quello della ripartizione del rischio. In secondo luogo quello della massimizzazione del rendimento, stando ben attenti che questo requisito non vada a scapito del precedente. Può in taluni casi infatti farsi strada la tentazione di ottenere profitti elevati con la partecipazione ad operazioni a forte rischio, ma l’ipotesi va comunque decisamente scartata per le fondazioni. Diverso può essere il comportamento di una banca S.p.A., specie nella nuova tipologia prima illustrata, in quanto essa dovrebbe possedere gli strumenti per valutare meglio il rischio e la possibilità di controlli approfonditi, se non quella di compartecipare direttamente alla gestione dell’operazione. Va tenuto conto che la redditività di un’impresa può essere immediata, o quasi, oppure differita nel tempo: appartengono a questo secondo tipo le imprese che costruiscono e gestiscono infra-strutture, che possono dare ottimi rendimenti in tempi differiti, ma non per questo meno convenienti. Gli investimenti in imprese di quest’ultimo tipo possono garantire anche una maggior sicurezza: è infatti difficile che una rete ferroviaria, autostradale, telefonica o informatica rischi di non essere richiesta (sempre che essa corrisponda ad esigenze reali) dai suoi utilizzatori: vettori ferroviari, utenti, ecc. Tali reti operano praticamente in regime di monopolio o di semi-monopolio (è difficile, infatti, che vengano costruite reti concorrenti sugli stessi percorsi). Da quanto si è detto emerge una prima indicazione sulle scelte possibili per le fondazioni ex-bancarie: tra i vari tipi possibili di partecipazione, sicuri e profittevoli, possono a buon titolo annoverarsi anche quelle in imprese che costruiscono e gestiscono infra-strutture che rappresentano senza alcun dubbio una delle condizioni essenziali, se non la più decisiva, per lo sviluppo di una città o di una regione. Le reti di

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trasporto e di comunicazione possono infatti cambiare radicalmente le prospettive di sviluppo, specie in aree ad economia asfittica o dove so è passati, per ragioni e con circostanze diverse, da un’economia industriale all’avanguardia a situazioni di crisi. E’ questo il caso di Torino che risente di una situazione di stallo economico: la disoccupazione è cresciuta a livelli preoccupanti e le varie meritorie iniziative avviate dagli enti pubblici, non appaiono sufficienti a migliorare sensibilmente la realtà. L’imprenditoria locale, pur annoverando significativi esempi di capacità innovativa, sembra aver perso il tradizionale stile oltre che la posizione di leader industriale in Italia. Torino soffre anche del suo isolamento che rischia di compromettere molte opportunità offerte dall’integrazione europea. Si tratta di ritrovare il coraggio di chi nel secolo scorso, con mezzi finanziari e tecnici molto più limitati di quelli attuali, riuscì a creare fondamentali collegamenti con il resto dell’Europa. Occorrono ora sia il potenziamento di quelli esistenti, che la creazione di nuovi sbocchi in tutte le direzioni (compresa la Francia meridionale e la penisola Iberica, anche nell’interesse dell’intero Paese, in quanto si deve operare perché il collegamento tra ovest ed est europeo possa passare, almeno in parte, attraverso la valle padana). Lo Stato e gli Enti Locali non sono certo in grado di assicurare le risorse necessarie, anche perché - come è noto - le priorità dell’intervento governativo interessano altre aree dell’Italia: imprenditori e finanzieri locali hanno finora mostrato scarso interesse a programmi di questo genere (salvo mettersi graziosamente a disposizione per gestire i quattrini pubblici) in quanto a redditività differita. Si presenta ora l’opportunità delle fondazioni ex-bancarie torinesi particolarmente "ricche" e che sono tenute per legge ad effettuare investimenti a favore dello "sviluppo economico" di Torino e del Piemonte. Dato il rilievo e la sensibilità dei loro amministratori non è lecito dubitare che la risposta al dettato di legge possa essere limitata a scegliere interventi "leggeri" a favore dello sviluppo economico per una parte delle rendite finanziarie, rifiutando la partecipazione (di minoranza e senza responsabilità dirette) nel capitale di imprese oculatamente impostate e gestite, per la creazione e la gestione di reti di trasporto e di comunicazione. Appare ormai acquisito, nell’Unione Europea, il principio della distinzione dei compiti tra imprese proprietarie delle reti ferroviarie e imprese che gestiscono il trasporto: mentre le seconde sono sicuramente assoggettate a numerosi rischi, anche derivanti dalla loro posizione concorrenziale, le prime, per le ragioni illustrate in antecedenza, rispondono pienamente ai criteri di scelta cui dovrebbero attenersi le fondazioni. Una partecipazione responsabile e ponderata delle fondazioni per l’avvio di tali progetti potrebbe esplicitarsi assumendo in concreto ipotesi di nuove infrastrutture o di potenziamento di infrastrutture esistenti e, conseguentemente, facendosi carico degli oneri della progettazione, sulla base della quale elaborare successivamente il relativo project financing a garanzia della convenienza e profittabilità

dell’investimento. Un’azione di tale tipo da parte delle fondazioni potrebbe indurre altri possibili investitori a seguirne l’esempio, allargando gli orizzonti finanziari, ma soprattutto creando una nuova linfa alla dormiente imprenditorialità torinese. Se Torino riuscirà così a migliorare decisamente i propri collegamenti si creeranno sicuramente molte nuove opportunità di sviluppo e le fondazioni potranno legittimamente attribuirsene una parte del merito. Il corretto funzionamento delle fondazioni resta comunque affidato ai loro amministratori, con i rischi che si sono ricordati. Probabilmente tali rischi potrebbero ridursi se la gestione potesse svilupparsi, per quanto possibile "alla luce del sole", creando – per esempio – una sorta di assemblea rappresentativa degli interessi originari che a suo tempo hanno dato vita alle vecchie istituzioni, cui l’amministrazione delle fondazioni dovesse periodicamente riferire sulle proprie scelte.

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* 26 ottobre 1999 Seminario sul tema: Il consumo culturale nell’area metropolitana Relatori: Prof. Sergio ASTROLOGO, Prof. Marco BRUNAZZI, Dott. ssa Elena DE ANGELI, Prof. Ezio MARRA L’offerta culturale di una città è un fattore importante sia come elemento di attrazione per l’insediamento permanente di abitanti sia per la frequentazione saltuaria di residenti “esterni”, siano essi dei paesi vicini, o provengano da altre regione del paese o dall’estero. Torino attrae popolazione in entrata e in uscita quotidiana, per motivi di lavoro, in maniera paragonabile a città come Roma e Napoli, e inferiore soltanto a Milano. In Piemonte la spesa media per abitante per teatro e musica si colloca al di sotto della media delle altre regioni del nord, mentre è nella media rispetto alle stesse regioni per quanto riguarda il cinema. Vi è un forte ed ovvio squilibrio fra l’offerta culturale della città rispetto ai centri della “cintura”, ma la capacità di attrarre visite “non lavorative” non sembra ancora particolarmente spiccata, sebbene la città negli ultimi anni abbia complessivamente aumentato la quantità e la qualità delle sue offerte culturali.

* 27 novembre 1999 Seminario sul tema: Sviluppo industriale e pianificazione urbanistica Relatori: Dr. Antonio BUZZIGOLI, Dr. Ruggero COMINOTTI, Prof. Sergio CONTI, Arch. Luigi RIVALTA, Dr. Giacinto VILLATA * Relazione Il seminario ha visto la partecipazione di qualificati studiosi, professionisti ed amministratori pubblici. Il dottor Cominotti

ha posto la questione della riattivazione delle politiche industriali nell’area metropolitana torinese, analizzando la situazione creatasi negli ultimi decenni fino ad oggi, e proponendo alcune ipotesi concrete d’intervento, tra le quali spicca quella “trasgressiva” dell’insediamento di un altro produttore finale di autoveicoli in Piemonte. Il prof. Conti ha illustrato, partendo da un’accuratissima indagine “sul campo”, le linee di assetto strategico del comparto manifatturiero torinese: emerge un disegno complessivo di reti di sistema e reti locali che fanno perno su nodi di interconnessione. Altri numerosi interventi di notevole spessore hanno contribuito a completare il quadro delle prospettive urbanistico-industriali dell’area metropolitana: in definitiva il seminario ha pienamente raggiunto l’obbiettivo di fare il punto sulla situazione e di fornire significative riflessioni sulle quali fondare interventi pubblici e privati più mirati ed opportuni. Atti del seminario organizzato dalla Società Fabiana sul tema: SVILUPPO INDUSTRIALE E PIANIFICAZIONE URBANISTICA Dr. Ruggero COMINOTTI Se e come riattivare le politiche industriali nell’area torinese 1. Torino e l’Europa non possono attendere neutralmente un nuovo ciclo di espansione. L’Europa non può attendere neutralmente un ciclo di espansione della domanda interna e negli altri continenti. Le esigenze di contrastare la crescita del deficit degli operatori pubblici e gli obiettivi del rientro dall’inflazione e della contrazione dei tassi di interesse hanno imposto l’adozione di severe politiche di contenimento particolarmente severe anche nei riguardi del sistema industriale italiano. Il processo virtuoso investimenti-occupazione [innovazione-competitività internazionale-sviluppo] ha perso la sua funzione propulsiva soprattutto nelle regioni più industrializzate e in particolare nell’area torinese. In questo scenario di contenimento della spesa pubblica e di calo degli investimenti, negli anni ’90 hanno prevalso gli interventi rivolti a ridurne gli effetti negativi generati in Italia e negli altri paesi dell’Unione. Di fronte alla contrazione della domanda europea, all’eccesso di capacità produttiva in numerosi settori industriali e dei servizi, alle difficoltà crescenti delle imprese,

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particolarmente per quelle di minori dimensioni, e all’anchilosi dei processi di creazione di posti di lavoro addizionali non é sufficiente una fiduciosa attesa di un nuovo ciclo di espansione della domanda europea e negli altri continenti. I tassi di interesse non sono mai stati così bassi dal 1965 a oggi, ma non si sta avviando un ciclo impetuoso di investimenti rivolti all’espansione delle capacità produttive e occupazionali, da un lato, e alla crescita di competitività internazionale attraverso l’innovazione tecnologica, dall’altro. Le stesse politiche industriali degli anni ’70 e ’80, per quanto insufficienti, hanno perso efficacia, a causa della scarsa efficienza degli strumenti di attuazione a livello centrale e regionale. I tempi incerti delle istruttorie e delle erogazioni hanno fatto il resto, privando di supporti la crescita tecnologica delle aree industrializzate del nord e anemizzando i processi di industrializzazione nel Sud. Restano gli strumenti automatici dell’incentivazione: i crediti di imposta a fronte degli investimenti negli impianti e nell’innovazione, i quali sono in grado di produrre effetti abbastanza certi nel breve periodo. In ogni caso sono essenziali misure rivolte alla crescita di efficacia degli strumenti attuali di intervento. Paradossalmente l’introduzione di ulteriori misure di sostegno sembra non soltanto priva di efficacia, ma destinata a generare ulteriori perdite di vitalità del sistema. Di qui l’esigenza di sviluppare la progettazione di almeno due strategie di grande impatto e di assicurarne l’implementazione: la ricerca di uno stadio avanzato nei processi di internazionalizzazione delle imprese piemontesi; la crescita del ruolo propulsore dell’automotive, produzione finale di autoveicoli, di componenti e parti: Torino fra le grandi capitali mondiali dell’auto. 2. La ricerca di uno stadio avanzato nei processi di internazionalizzazione delle imprese piemontesi. Nei processi di internazionalizzazione dell’impresa, l’interscambio commerciale non è più il canale di gran lunga prevalente. Negli ultimi decenni è stata rapida e intensa la crescita delle cessioni di brevetti e licenze, delle forme di partenariato internazionale, commerciale e tecnologico [collaborative venture], dei contratti di subfornitura oltre frontiera e soprattutto gli investimenti all’estero in imprese industriali, commerciali e dei servizi [acquisizione di imprese esistenti, joint venture e investimenti in nuovi impianti]. Nel corso degli anni ’90 il volume della produzione nelle filiali estere delle multinazionali, grandi e piccole, ha superato del 30% l’ammontare degli scambi commerciali internazionali: rispettivamente 6 e 4,6 mila miliardi di dollari, nel 1994. La crescita dei processi di globalizzazione non ha trovato impreparate le imprese italiane: imprese estere hanno investito in 1769 imprese italiane, con un fatturato di oltre 263 mila miliardi di lire e con 560 mila occupati, 20% dell’occupazione industriale complessiva [con esclusione delle microimprese al di sotto di 20 addetti]; 804 imprese italiane hanno investito in 2.034 imprese operanti all’estero, con un fatturato di oltre 186 mila miliardi lire e con un’occupazione di 606 mila addetti. Nei processi di multinazionalizzazione le imprese italiane non sono in posizione di debolezza e hanno di fronte obiettivi di ulteriore e consistente

sviluppo; simmetricamente è destinato a crescere l’ingresso delle imprese estere in Italia, in particolare nei settori science and knowledge intensity e nei settori delle industrie di processo con elevate economie di scala. Nel corso degli anni ’90 è stata e continua a essere assai dinamica la capacità di multinazionalizzazione delle imprese italiane di minori dimensione: la ricerca di mercati a basso costo del lavoro si è quasi sempre coniugata con l’ampliamento di penetrazione nei mercati esteri. tanto che sono ancora marginali gli effetti negativi di sostituzione di occupazione e di esportazione dall’Italia. L’area di grave debolezza è negli investimenti all’estero nei servizi reali e finanziari. Mentre le imprese minori italiane hanno bisogno di servizi reali e finanziari a supporto delle loro strategie di multinazionalizzazione: fornitura di informazioni attendibili, esaustive e tempestive sulle migliori opportunità dei mercati esteri; supporti finanziari ai progetti di investimento diretto e nelle collaborative venture all’estero. Lungo questi due percorsi le PMI sentono la necessità di progetti non costosi, ma efficienti. Comunque il supporto di base riguarda il transfer tecnologico e la crescita di capacità innovativa, tali da assicurare competitività nel mercato domestico e nei mercati esteri. 3. La crescita del ruolo propulsore dell’automotive, produzione finale di autoveicoli, di componenti e parti: Torino fra le grandi capitali mondiali dell’auto. Nel corso degli anni ’70 e ’80, le strategie di sviluppo diversificato nei settori di alta tecnologia e comunque nei settori specialistici diversi dall’automotive avevano impegnato a fondo gli operatori pubblici, le associazioni imprenditoriali, le Camere di Commercio e soprattutto le imprese torinesi; numerose strutture dedicate alla ricerca di base e alla ricerca applicata hanno svolto un ruolo consistente e le stesse organizzazioni sindacali sono state coinvolte in queste strategie. Settori industriali fino allora marginali hanno raggiunto soddisfacenti traguardi di sviluppo. Assai consistente è stata la diffusione dei sistemi informatici applicati all’automazione industriale e alla logistica e più in generale lo sviluppo di molti comparti dell’elettronica. Di ulteriori e consistenti sviluppi in quantità e qualità sono state protagoniste le imprese della subfornitura meccanica, stampaggio delle materie plastiche, elettromeccanica ed elettronica, in prevalenza imprese di dimensioni minori. In questo stesso periodo lo sviluppo dei settori dell’automotive è scandito da tre cicli: 1970-1982; 1983-1992; 1993-1998 [vedi tavole e grafici allegati, che si riferiscono all’import-export di autoveicoli e di componenti per autoveicoli a livello nazionale, tenuto conto che la massima concentrazione nei due comparti dell’automotive è a Torino]. Nel fatidico 1980 la bilancia commerciale degli autoveicoli cessa di essere positiva e l’auto diventa la quarta grande componente passiva della bilancia commerciale italiana, dopo i prodotti petroliferi, i prodotti alimentari e della chimica di base. Successivamente il settore dei componenti, nel quale operano imprese di maggiori dimensioni e numerose imprese di minori dimensioni, ha nettamente migliorato le sue posizioni, attraverso un crescendo di competitività internazionale. Simmetricamente la bilancia commerciale degli

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autoveicoli [vetture e autocarri] è andata sistematicamente in passivo, con una perdita di competitività internazionale a livello Italia, ma non a livello di Fiat, che ha avuto la forza di sviluppare politiche di radicamento produttivo nei mercati di sbocco all’estero. In questo giro di boa del secolo si individua l’opportunità di sviluppare strategie di supporto dei settori dell’automotive, quale settore trainante non solo a Torino, ma anche a livello nazionale ed europeo: un fatturato di quasi 360 miliardi di ECU e un’occupazione di oltre un milione di addetti nel settore autoveicoli nei paesi dell’Unione Europea nel 1997; 490 mila occupati nella componentistica, con un fatturato di oltre 63 miliardi di ECU. E’ nell’automotive che si concentra la maggiore capacità di occupazione. Torino, e in generale il Piemonte, è una delle capitali mondiali dell’auto: grande concentrazione di componentistica automotive generata da una storica impresa finale costruttrice di autovetture e autoveicoli industriali. Infatti: Fiat si colloca al 17° posto fra le prime cento imprese multinazionali e al 6° fra le 16 imprese automotive. Il tasso di multinazionalizzazione di Fiat è del 38% [il 38% della produzione complessiva di Fiat è negli stabilimenti situati in altri paesi]. Fiat si colloca vicino alla media mondiale dei 17 produttori nel settore automotive (che è al 43%); le imprese automotive in assoluto raggiungono i valori massimi di investimento all’estero: oltre 1.800 mld $, di cui quasi 400 all’estero. Finora l’alta quota del mercato domestico ha contribuito a generare le condizioni di competitività internazionale e di multinazionalizzazione del gruppo Fiat, in complesso 1.814 mld $ di fatturato, di cui all’estero 381 (nel 1997). In termini di addetti (1997: 238 mila), la Fiat sembra aver già raggiunto un livello consistente di multinazionalizzazione e di distribuzione territoriale in Italia: 38% in paesi esteri; 30% in Piemonte; 32% concentrati nel Sud e in Lombardia. Anche per l’Italia, e soprattutto per il Piemonte, si ipotizza che il settore più trainante della multinazionalizzazione in entrate e in uscita sia quello dell’auto. Ai 70 mila occupati in Fiat fa riscontro un’occupazione di circa 75 mila persone nelle imprese estere operanti in Piemonte. L’ipotesi di un altro produttore finale di autoveicoli in Piemonte potrebbe generare svantaggi oppure generare opportunità per Fiat e per il Piemonte, in analogia a quanto avviene in altre aree ad alta specializzazione nell’automotive. Si obietta che potrebbe costituire una minaccia poco controllabile alla quota del mercato domestico di Fiat, che finora ha contribuito a generare le condizioni di competitività internazionale e una base consistente nel processo di multinazionalizzazione del gruppo. All’opposto, la presenza di un altro produttore potrebbe generare un ulteriore fattore di transfer tecnologico fra componentisti automotive e fra questi e le imprese finali del settore: attraverso maggiori opportunità di mobilità delle risorse umane; attraverso lo sviluppo delle opportunità di interfaccia fra ricerca di base, ricerca e sviluppo, imprese componentistiche e imprese finali; attraverso più elevate economie di scala a livello territoriale. Inoltre, potrebbe costituire un fattore di flessibilità: per Fiat nella ricerca di ulteriori traguardi di multinazionalizzazione, quale condizione necessaria di

consolidamento e di incremento della penetrazione nei mercati esteri; per Torino e per il Piemonte nella ricerca di un più elevato livello di internazionalizzazione in entrata e in uscita e di fattori di compensazioni degli effetti di contrazione occupazionale generati dai processi di evoluzione tecnologica e dalla diversificazione nazionale di numerose imprese piemontesi. Torino, può e deve continuare a essere una delle capitali mondiali dell’auto; sviluppando ulteriormente le strategie di internazionalizzazione già avviate fin dagli inizi degli anni ’70, si individuano le opportunità di sostenere strategie di ulteriore sviluppo dell’automotive, alla ricerca di maggiore competitività internazionale. Quindi: non sussidi, ma supporti efficaci ai progetti di investimento delle imprese che, attraverso l’innovazione tecnologica, divengano protagoniste di una nuova serie di cicli positivi: nella produzione di autovetture e di autoveicoli industriali e nella produzione di componenti e parti di autoveicoli; strumenti efficaci di sviluppo ulteriore delle risorse umane e delle capacità tecnologiche nella ricerca di base e nella ricerca applicata nell’area dell’automotive; supporti alla internazionalizzazione delle imprese, in ciascuna delle sue forme e in particolare stimolando i processi di multinazionalizzazione delle imprese in entrata e in uscita dall’Italia nei settori della componentistica; supporti all’internazionalizzazione in entrata nel settore della produzione di autovetture e di autoveicoli industriali, con effetti di traino e di transfer tecnologico nei riguardi delle PMI torinesi coinvolte nella componentistica; atteggiamento positivo verso gli investimenti all’estero da parte di Fiat e afflusso di riscorse finanziarie e umane a sostegno del radicamento produttivo dell’automotive Fiat nei mercati esteri. Dr. Giacinto VILLATA L’area metropolitana torinese nel prossimo futuro sarà condizionata dalle scelte strategiche del gruppo Fiat. Nel caso specifico di Fiat Auto, detenuta al 100% da Fiat Holding spa, sono in corso trattative per allocare questa grande azienda automobilistica in un Gruppo Industriale che permetta alla stessa di svilupparsi ulteriormente sia sotto un profilo tecnico-organizzativo che commerciale/internazionale. Per meglio capire cosa sta avvenendo bisogna ricordare che Fiat Auto sta applicando alla propria struttura produttiva un forte impulso alla deverticalizzazione, con enucleazione dei singoli passaggi produttivi che vengono ceduti ad aziende esterne sia del gruppo che non. Per esempio la logistica è passata a TNT Canada, le presse e molti reparti della meccanica alla Comau spa (detenuta al 100% da Holding Fiat spa), reparti di verniciatura a PPG Usa, gli immobili di proprietà di società controllate al 100% da Fiat Holding e così via. In questo contesto Fiat Holding sta trattando con Ford e con Daimler: 1) Ford (Usa); la trattativa prevede una quota del Gruppo Ford a Fiat Holding a fronte del passaggio di Fiat Auto nel Gruppo automobilistico di Ford. Questo comporterebbe una rivisitazione di tutte le fabbriche di Ford e di Fiat Auto in Europa per meglio competere e gli stabilimenti Fiat Auto di Mirafiori e Rivalta, intesi come non più efficienti sotto un profilo produttivo, correrebbero seri rischi di chiusura.

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2) Daimler (Germania); la trattativa anche in questo caso prevede una quota a Fiat Holding spa di Daimler a fronte del passaggio di Fiat Auto nel Gruppo automobilistico Daimler/Mercedes. Questo comporterebbe invece un probabile incremento degli stabilimenti Fiat Auto di Mirafiori e di Rivalta in quanto Mercedes intende aumentare la posizione di mercato nei segmenti delle auto piccole e medie. Dr. Lorenzo GIANOTTI Vorrei mettere in evidenza l’importanza dell’aspetto della valutazione finanziaria del valore delle imprese, Fiat compresa: queste valutazioni possono modificare gli scenari e le prospettive in maniera radicale, possono modificare fortemente tutte le considerazioni di carattere produttivo, organizzativo e così via. Prof. Sergio CONTI Il comparto manifatturiero torinese. Linee di assetto strategico I processi coinvolgenti l’universo delle imprese imprimono dei segni piuttosto limpidi al sistema torinese nella sua transizione verso il nuovo millennio. - Il primo è la tendenziale selettività dei contenitori manifatturieri. A un livello di generalizzazione ancora piuttosto elevato, le risultanze dell’analisi della natimortalità d’impresa prefigurano la relativa concentrazione delle strutture produttive in aree circoscritte, espressione di comportamenti volti a trarre il maggior vantaggio possibile dalle esternalità funzionali (infrastrutturali in primo luogo). Questi processi non hanno sempre un segno univoco: il rafforzamento di taluni assi di espansione (che è poi il fenomeno maggiormente rilevante) si accompagna alla sostanziale tenuta di sistemi a industrializzazione diffusa (come nell’Eporediese orientale e occidentale). La concentrazione produttiva sconta inoltre il fenomeno piuttosto ovvio del fondamentale ruolo esercitato dalla predisposizione di aree di sviluppo industriale attrezzate. Ciò nonostante, sono andati rivelandosi, nel contempo, ampi fenomeni di crescente marginalizzazione manifatturiera (come nella pianura agricola ricca del Pinerolese meridionale, l’area ad occidente del Po, l’Eporediese settentrionale). - In stretta connessione al precedente, si evidenzia una sorta di morfogenesi nel disegno insediativo, segnato dall’interruzione di taluni processi storici di allineamento, che nei decenni precedenti parevano suggerire l’ipotesi di un ulteriore ampliamento del ventaglio delle direttrici in uscita dal capoluogo. Se la distribuzione assiale dei sistemi manifatturieri rappresenta tuttora una tendenza marcata, essa non appare più, tuttavia, un processo immutabile nel tempo e nello spazio. Nuovi processi di allineamento, alcuni parzialmente originali rispetto al passato, altri di sostenuto rafforzamento di tendenze già precedentemente in nuce, offrono una configurazione geografica della rete di supporto che prefigura segni diversi e nuove ipotesi di interconnessione, parzialmente alternative rispetto al modello gerarchizzato formatosi nei decenni della spinta polarizzazione funzionale e spaziale in corrispondenza del capoluogo. - Si evidenzia, infine, la tendenziale scomposizione del sistema manifatturiero. Quest’ultimo appare il fenomeno

maggiormente rilevante dal punto di vista problematico, non scindibile dalla riqualificazione di settori e porzioni di territorio che trovano nella formazione di nuovi assi di sviluppo e di nuove centralità i fondamenti della loro ricomposizione funzionale e spaziale. Si tratta di processi che appaiono tangibilissimi se soffermiamo l’osservazione sui comportamenti dei singoli comparti della manifattura. In via di prime considerazioni, e relativamente ai comparti portanti dell’economia provinciale, la dinamica del sistema di produzione veicolistica denuncia evidenti tendenze al radicamento nella fascia immediatamente a Sud del capoluogo, consolidando le proprie relazioni storiche con la sezione meridionale del comune di Torino, coinvolta anch’essa in processi di riaggiustamento. A Nord del capoluogo, l’espansione appare invece fortemente selettiva, coinvolgendo specifici poli e assi di sviluppo. Nel contempo, la porzione occidentale del sistema è segnata dalla riduzione relativa del numero dei produttori e dal conseguente “scivolamento” delle strutture d’impresa verso le aree più meridionali. Si rilevano, nel contempo, sistematici processi di disindustrializzazione coinvolgenti vaste porzioni del territorio provinciale. Dal suo canto, il sistema dell’automazione industriale e della produzione di macchine utensili esprime una dinamica parzialmente antinomica rispetto alla precedente: se, in parte, i comportamenti localizzativi dei produttori si sovrappongono inevitabilmente a quelli del settore della veicolistica (conferendo a specifici ambiti del sistema un carattere di complessità e di innovatività), il fenomeno maggiormente vistoso è dato dalla loro relativa diffusione (oltre che dal consolidamento) nei vasti ambiti posti a settentrione e ad occidente del capoluogo, ponendosi peraltro quali elementi di riqualificazione funzionale dello stesso comune di Torino. Assumendo infine la dinamica più recente della meccanica torinese (un comparto variegato, ma in alcune sue importanti parti in riqualificazione tecnologica e funzionale) l’immagine di tendenziale scomposizione spaziale del sistema acquista superiore intelligibilità: da un lato, il suo sviluppo si sovrappone a quello dell’automazione industriale e delle macchine utensili; dall’altro lato, si registrano nuovi processi di diffusione e nuovi marcati allineamenti. In vaste sezioni del territorio provinciale, infine, la diffusione della meccanica (oltre che dell’automazione industriale e delle macchine utensili) realizza fenomeni di “sostituzione” delle produzioni autoveicolistiche. Sintetizzando al massimo, queste tre diverse, ma intimamente connesse fenomenologie, interpretano sul piano fattuale principi e logiche che l’analisi territoriale ha da anni posto al centro del proprio universo di senso: l’affermazione di principi a rete di organizzazione dello spazio produttivo modificano vecchie configurazioni e valorizzano, per contro, il ruolo degli ambiti locali (sub-regionali e sub-provinciali), contestualizzando l’azione degli attori e differenziando di conseguenza organizzazioni e identità impresse sul territorio. Se riferito al sistema torinese, ciò prefigura un’immagine più complessa ma nel contempo ricca di implicazioni problematiche e strategiche, inaugurando un modo diverso di concepire l’assetto produttivo del sistema. Ne

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consegue che reti di sistema (sovracomunali, sovraprovinciali) e reti locali (contestualizzate, fortemente legate alla prossimità geografica e alla connessione fra attori) sono parte di un unico disegno complesso che si autoalimenta. Il miglioramento della performance del sistema esprime a un tempo il miglioramento della funzionalità della rete nel suo insieme e quello dei suoi nodi (o reti locali), i quali diventano così sinergici alla tenuta ed al rafforzamento della prima. In questo senso, un ruolo essenziale viene esercitato dai nodi di interconnessione, capaci di offrire esternalità dinamiche tanto alle reti di sistema che alle reti locali, assumendo per questo la funzione di sostenere il vantaggio competitivo sia dei sistemi territoriali che degli attori in essa contenuti. Ciò significa, in conclusione, che i principi che ispirano le ipotesi progettuali derivano dall’osservazione dei processi in atto e sono coerenti, nel contempo, con i fondamentali assunti teorici dello sviluppo territoriale nell’economia post-fordista. Da questo punto di vista, lo schema di piano prefigura un laboratorio di sperimentazione, discussione e messa in atto di ipotesi derivate dall’osservazione di fenomeni concreti e vistosi, del tutto coerenti con le risultanze dell’elaborazione teorica più matura. Pur tenendo conto delle sue innumerevoli varianti, il “vecchio” modello polarizzato di organizzazione dello spazio economico non era, in realtà, di difficile rappresentazione e fors’anche di progettazione. La scansione fra centri direzionali e periferie di esecuzione esprimeva una rigida divisione del lavoro e un alto grado di corrispondenza fra questi elementi separati. Com’è noto, l’espansione del sistema era leggibile sullo spazio metropolitano tramite la formazione di direttrici di espansione sub-metropolitana e di conseguente penetrazione dei territori ad essa esterni. Un sistema radiale di connessioni tecniche e funzionali metteva dunque in scena una modalità di organizzazione della manifattura e della società la cui conseguenza prima, nel medio e lungo termine, era il sovraccarico logistico e funzionale dell’area centrale, il quale si esprimeva in un sovraccarico di diseconomie e disutilità nella gestione stessa dalla produzione. La specificità torinese era da assumersi in termini soprattutto sociali (di cui non è questa la sede per andare alla radice) e organizzativo-funzionali, riconducibili alle modalità in cui l’impresa dominante ha intessuto nell’area funzioni e ruoli. Nel “nuovo” modello economico di organizzazione della produzione, il centro può ignorare le periferie e, viceversa, la periferie possono ignorare il centro. Si creano, al contrario, focolai autonomi di sviluppo in larga misura autonomi, alimentati sia dalle relazioni orizzontali di rete (con altri poli), sia dalle relazioni verticali tradizionali con il retroterra locale. Il Torinese non sfugge a questa logica generale. I comportamenti d’impresa rilevati indicano senza mediazioni la tendenziale scomposizione del sistema produttivo del nucleo originario: la formazione di sottosistemi relativamente coerenti al loro interno prefigurano, in sostanza, la formazione di una pluralità di relazioni che contestualizzano la giustapposizione di sistemi diversi, le cui coerenze sfuggono in larga misura alla logica della polarizzazione urbana e metropolitana.

Selettività spaziale dei processi di valorizzazione produttiva, affermazione di “nuove” forme di allineamento e concentrazione, scomposizione tendenziale del sistema territoriale, sono dunque fenomeni che si compenetrano a vicenda in un unico grande disegno logico. Essi riaffermano, nel contempo, condizioni storicamente prodottesi, ma che parevano eclissate dalla logica violenta della polarizzazione fordista. In questo senso è possibile cogliere i tratti della “nuova” articolazione dello spazio economico così come questa si afferma dall’azione conscia e inconscia degli attori della produzione – esso non prefigura, cioè, né ipotesi di intervento radicali “dall’alto”, né la riproposizione di immagini più o meno “nostalgiche” di vecchie logiche e organizzazioni – mobilitando azioni e interventi là dove si evincono le potenzialità per consolidare relazioni virtuose e generare per questo forme di valorizzazione territoriale. In altri termini, le ipotesi progettuali si fondano e sostengono le tendenze spontanee in atto nel sistema. Le ipotesi di assetto strategico del sistema manifatturiero provinciale recepiscono queste logiche sottese: al modello centralizzato viene qui contrapposta una prospettiva che colga le “tendenze spontanee” in atto nel sistema e le rafforzi identificando alcuni contesti di interconnessione, i quali avrebbero lo scopo di migliorare le prestazioni delle reti e strutturare in senso innovativo il sistema territoriale degli insediamenti produttivi, valorizzando le specificità delle identità e delle logiche in atto nel sistema complessivo. Da questo punto di vista i “nodi” e i “fuochi” di riequilibrio individuati costituiscono delle potenziali “macchine complesse” generatrici di innovazione territoriale. Essi rappresentano una sorta di interfaccia fra reti di scala più ampia (sovracomunale, transprovinciale) e reti di soggetti locali sui quali si gioca l’identità locale. Questi contesti, in cui sono in atto fenomeni di ripolarizzazione (o di riordino) che necessiteranno di valutazioni maggiormente puntuali, sono scindibili, a loro volta, in tre classi (è ovvio che entro una prospettiva a rete, questi tre ordini di sistemi non sono graduabili né gerarchizzabili, ma si compenetrano in un’unica più ampia coerenza): 1. Fuochi di riequilibrio sistemico, ovvero nodi attorno ai quali è possibile innestare una riqualificazione strategica del sistema provinciale: essi sono stati individuati in corrispondenza delle agglomerazioni di Strambino, Caselle, Avigliana, Airasca e Poirino. La loro individuazione discende dalla presa in carico di processi e fenomeni che già a prima vista suggeriscono come siano in atto da tempo, in questi ambiti, processi di polarizzazione di natura diversa, e per questo ritenuti dei fondamentali punti d’appoggio per una complessiva riqualificazione del sistema provinciale nel suo complesso e dei suoi sottosistemi. 2 Nodi di riequilibrio indotto, connessi ai precedenti e per questo essenziali per realizzare concertazioni di piano e promuovere le nuove configurazioni del sistema: Ivrea, Caluso, Castellamonte, Chivasso, Ciriè, Leinì, Pinerolo, Carmagnola e Chieri. E’ attorno a questi nodi che si gioca la tenuta e la valorizzazione di specifiche identità – storicamente radicate o più recentemente prodotte – oppure la sorte di

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vasti ambiti territoriali in crisi (come, per esempio, i processi di disindustrializzazione valliva). 3 Nodi di riequilibrio metropolitano, intesi a realizzare nuove forme di relazione fra il sistema urbano e produttivo originario e gli emergenti livelli territoriali intermedi: Settimo Torinese, Alpignano, Rivoli e Beinasco. Localizzati nelle immediate adiacenze del capoluogo, e in particolare in ambiti cruciali dal punto di vista della vivacità manifatturiera o della compromissione logistica, appaiono strategici nell’accompagnare la decongestione urbanistica del polo torinese. Arch. Carlo Alberto BARBIERI Ritengo utile sottolineare come le straordinarie dinamiche di sviluppo industriale ed il boom demografico cui in passato abbiamo assistito nell’area torinese (per circa quindici anni è come se si fosse aggiunto, ogni anno, un numero di abitanti pari all’intera città di Rivoli), siano avvenuti nonostante un impianto infrastrutturale (soprattutto quello della viabilità) non adatto a sostenerli. Si è realizzato un modello spaziale di assetto territoriale e di localizzazione delle destinazioni d’uso del suolo che chiamiamo abitualmente “a macchia d’olio”; un modello quasi costretto a tale configurazione dalla preesistenza di un impianto viabile di direttrici radiali (di fatto quello sette-ottocentesco inevitabilmente insufficiente ad ospitare lungo di esso lo sviluppo, sebbene per i suoi tempi sia stato straordinariamente lungimirante) e del sistema anch’esso radiale delle linee ferroviarie convergenti su Torino. Il modello spaziale quasi reticolare che negli ultimi anni si sta invece sviluppando, quasi spontaneamente, nell’area torinese è dunque avvenuto nonostante l’inesistenza di un progettato modello spaziale infrastrutturale di tipo reticolare (peraltro solo successivamente in parte pianificato e progettato dal Comprensorio, dai Comuni ed oggi dalla Provincia). Ciò, da solo, evidenzia quanto margine vi sia per politiche infrastrutturali (relative al trasporto pubblico ed alla viabilità) più consapevolmente reticolari (ed in questa direzione si muove il recente PTC della Provincia di Torino). Vi sono molte concrete opportunità per una riforma dell’organizzazione del territorio che è ancora in gran parte da realizzare. E’ in questa prospettiva che si può sostenere più efficacemente una politica di sviluppo per nodi e per distretti come quella indicata poc’anzi da Sergio Conti. E’ questo un terreno dove la significatività delle azioni non è soltanto quella degli interventi che “esternalizzano” l’area piemontese ma, significativamente, anche quella delle politiche infrastrutturali del “milieu” territoriale dell’area torinese a presentare un margine di riforma assai elevato e ricadute rilevanti per i fattori dello sviluppo e dello sviluppo e della sua qualità. Arch. Emilio BARONE Adesso tutta la provincia è coperta dai patti territoriali, che prevedono l’autorganizzazione dei comuni con una legge nazionale che consente di attribuire i finanziamenti ai comuni che si associano nel patto; gran parte delle richieste infrastrutturali che stanno emergendo all’interno

di questi patti sono riferite alla viabilità provinciale che è l’unica rete reticolare, innervata sulla rete radiale, che consente soluzioni di tipo reticolare per migliorare singole parti, migliorarne nodi, svincoli etc. E’ importante che questo avvenga sulla base del quadro che è offerto dal piano territoriale di coordinamento; dal momento che gli interventi infrastrutturali sono strettamente legati agli interventi richiesti dai privati per ottenere il finanziamento nell’ambito del patto: la domanda di finanziamento dev’essere legata ad un intervento infrastrutturale. Dr. Claudio BELLAVITA In questi ultimi decenni, l’innovazione delle tecnologie produttive è stata enormemente più veloce rispetto agli adeguamenti degli strumenti urbanistici. Molto spesso le nuove tecnologie rendono molto più economico costruire un nuovo stabilimento piuttosto che riadattare quello esistente; l’ideale sarebbe poter sapere con qualche certezza in quale misura il vecchio stabilimento può contribuire al finanziamento di quello nuovo, ma a questo punto si apre in genere una discussione infinita sulle possibili speculazioni. Anche soltanto la richiesta di una nuova area industriale dove poter spostare le produzione senza troppi disagi per la manodopera locale, in genere molto specializzata, si scontra con i tempi eterni della politica urbanistica, che ignora che queste richieste si fanno quando l’imprenditore si rende conto che con la vecchia tecnologia produttiva sta uscendo dal mercato. Solo a memoria giornalistica, direi che sono decine in Piemonte le aziende fallite per colpa dei ritardi urbanistici, tecnici e politici. Queste cose, nel mondo imprenditoriale, si sanno, come si sa che in Francia e in Spagna si possono invece avere delle certezze sulla natura e sui tempi delle decisioni, certezze che da noi non esistono anche per una “forma mentis” degli amministratori e dei tecnici che li porta a pensare che “il profitto è peccato” (con alcune variabili che desiderano partecipare al “banchetto”): ed è questa la ragione prima dei tempi infiniti delle risposte e delle sorprese decisionali. Arch. Luigi RIVALTA Il fallimento dell’urbanistica sta nel fatto che i piani regolatori in questa generazione hanno essenzialmente tradotto la forza degli interessi. Tuttavia le spinte che arrivano dal settore manifatturiero, pur nella loro spontaneità, hanno spesso indicato percorsi da seguire. Dunque, governare le spinte che già ci sono può essere il compito della politica urbanistica, non più dirigista. Bisogna comunque indirizzare queste spinte spontanee soprattutto per evitare di privilegiare localizzazioni territoriali che sembrano costare inizialmente un po’ meno, ma che a lungo termine costeranno invece molto di più. Sotto questo profilo la Provincia di Torino presenta 1500 punti o centroidi in una Provincia che ha 315 comuni: questo dà l’idea della dispersione degli insediamenti esistenti. Ancora oggi quasi sempre i comuni indicano un’area industriale all’interno dei loro territori inseguendo ipotesi di sviluppo industriale che spesso non esistono; c’è quindi in molti casi una carenza qualitativa delle politiche comunali. Stiamo dunque cercando di dissuadere i comuni dal creare aree industriali dove non ve n’è bisogno, nell’intento di prevenire ed evitare

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sprechi. E’ comunque difficile trovare il “metodo” per governare istituzionalmente questi processi. Emerge la domanda di infrastrutturazione, in particolare per la mobilità materiale; su questo c’è una carenza, perché si tende a privilegiare il sostegno alle imprese piuttosto che l’intervento sulle infrastrutture. Le imprese dimostrerebbero, dalla partecipazione all’azione dei patti territoriali, una disponibilità di risorse. Emerge una difficoltà ad intervenire da parte degli enti pubblici, in sostanza della Provincia, dal momento che la gran parte delle strade in questione sono provinciali, ma la Provincia non è in grado di farvi fronte. Bisogna poi approfondire quali sono i reali bisogni, al di là dell’intervento sulla rete viaria; c’è, ad esempio, da lavorare sul sistema di comunicazioni informatico e telematico. Ma servizi significa anche altro: alcuni industriali chiedono strutture per facilitare il rapporto con l’estero (esiste per esempio un problema linguistico, si pensi ai rapporti con la Cina); vi è poi una richiesta di formazione professionale. La viabilità torinese, su cui si fonda l’85-90% della mobilità, è rimasta conformata geograficamente sul territorio, pur con le ovvie migliorie nel corso dei secoli, in modo addirittura “prebarocco”, a parte la tangenziale. In varie zone siamo ancora alle stradine appena asfaltate. L’area torinese avrebbe bisogno di interventi sulla viabilità dell’ordine di 3.000 miliardi. Sta avvenendo poi il processo di decentramento all’esterno di quelle funzioni che in passato si localizzavano preferibilmente nel centro storico; l’attività commerciale più “redditizia” tendeva a localizzarsi in pieno centro cittadino. Oggi avviene il contrario, si pensi ad esempio alle attività sportive, unite ad altre attività commerciali (cinema multiplex, centri commerciali etc.). Noi abbiamo una miriade di richieste del genere, solitamente trainate dallo sport. Si tratta di pezzi forti e complessi della vita terziaria che è commerciale, ricreativa e anche culturale, sono “pezzi” di città che si spostano dal centro alla periferia; la tendenza è l’acquisto di “prati verdi” in vista di futuri utilizzi. Dr. Antonio BUZZIGOLI Il nostro sistema è in crisi perché siamo in deficit per quel che concerne l’innovazione di prodotto, mentre sul versante dell’innovazione di processo siamo in linea con quanto avviene nei paesi coi quali siamo in competizione. In effetti il nostro apparato produttivo è dotato di processi molto innovativi sul piano tecnologico, ma sul piano della qualità complessiva dei prodotti siamo chiamati ad alcune valutazioni. Nei primi sei mesi abbiamo avuto, come Piemonte, un calo nelle esportazioni dell’8,3%. Di fatto, per esemplificare, con i patti, abbiamo per tutto il territorio della Provincia una 488 d’area. Dobbiamo porci il problema di legare i Patti territoriali ad un’idea di sviluppo e quindi di favorire le forze più dinamiche, tentando anche di integrare gli attori locali più deboli, mantenendo l’eguaglianza delle opportunità dei vari soggetti rappresentati. Quando si assegnano fondi dal 15% al 20% in ogni patto all’agricoltura dobbiamo chiederci se sia una distribuzione che tiene conto della “dinamicità” e redditività del settore, oppure se si tenga conto di altri fattori, a partire dalla coesione sociale.

La questione sul tappeto è la competitività esternalizzata sui territori. Come si può istituzionalizzare un modello di sviluppo dal basso? Oggi nella Provincia non è possibile pensare di costituire delle agenzie di sviluppo, perché i singoli soggetti rappresentati non, concedono la delega. Occorre proseguire con l’esperienza dei tavoli di concertazione. Questi ultimi si riuniscono con cadenza regolare, vedono la partecipazione di 40 persone circa che discutono, firmano protocolli a partire da quello del credito che impegnano i firmatari ad iniziative concordate e con varie finalità. Il monitoraggio dei patti sarà probabilmente svolto da Sviluppo Italia e poi la certificazione dovrà essere assegnata ad una società di alto profilo (pensiamo alla Andersen). Detto questo, il problema sul tappeto è il come definire le priorità nei territori. Come equilibrare grande e piccola industria, artigianato, commercio… Abbiamo richieste per investimenti per oltre 4.000 mld. nella nostra Provincia, a cui vanno aggiunti oltre 250 miliardi per infrastrutture. Per ultimo è l’istruttoria della banca che assegna il punteggio ai Patti valutandoli sulla base delle direttive del Cipe. Il Cipe, ormai, si muove per favorire lo sviluppo locale. Come si raccordi questa politica con quella dei settori, a partire dal distretto dell’auto, va ancora definito. Circa 5.000 tra Ob. 2, 3, Phasing out e Sviluppo rurale sono i miliardi che arriveranno in Piemonte nei prossimi anni. Sono gli ultimi fondi strutturali, dovranno essere ben spesi; quelli Ob. 2 dovranno esser spesi anno per anno, altrimenti saranno riassorbiti da Bruxelles. La nostra Provincia deve compiere uno sforzo immenso di capacità progettuale. Certo il nostro territorio ha dimostrato ampiamente di non essere e non rimanere fermo. Dr. Luigi FIGLIOLIA C’è questo apparente dinamismo in alcuni settori, come nel distretto automobilistico (vedi Giugiaro); però il livello degli investimenti nei settori avanzati è scarso ed il bilancio occupazionale è nettamente in passivo. Faccio l’esempio dell’ingegnere torinese che ha impiantato a Houston una piccola azienda di software che fa concorrenza a quelle americane: nel giro di 15 anni, Houston, città di petrolieri, ha visto nascere 3.000 piccole imprese che operano in questo settore. A Torino non c’è niente di neanche lontanamente confrontabile; c’è un problema di una classe dirigente nel suo complesso che non intende procedere su vie nuove.

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Attività del 2000

* 15 febbraio 2000 Incontro-dibattito sul tema: Il consumo musicale nell’area metropolitana Relatori: Luciano CASADEI, Paolo FERRARI, Gabriele FERRARIS, Fabrizio GARGARONE, Luigi RATCLIF Moderatore: Sergio ASTROLOGO

* 6 maggio 2000 SEMINARIO LE GRANDI INFRASTRUTTURE PER TORINO E LA SUA AREA METROPOLITANA: LE FERROVIE ED IL TRASPORTO INTEGRATO Club EUROSTAR, Torino Porta Nuova. ATTI del CONVEGNO (* Bozze) SEMINARIO LE GRANDI INFRASTRUTTURE PER TORINO E LA SUA AREA METROPOLITANA: LE FERROVIE ED IL TRASPORTO INTEGRATO - Introduzione: Giuseppe MASPOLI (Società Fabiana) Noi riteniamo che l'approccio ai problemi economici nei termini di "area metropolitana" sia importante come lo è stata, a suo tempo, la battaglia per la creazione delle regioni. Torino fronteggia oggi una crisi dell'industria di tipo tradizionale, ma nello stesso tempo sono presenti fermenti dinamici e innovativi: la città ha comunque una forte vocazione tecnico-scientifica che dev'essere salvaguardata e incentivata. Le prospettive di sviluppo

di Torino sono ostacolate dalla sua situazione fisico-geografica. Amministratori e banchieri del secolo scorso, di fronte a difficoltà maggiori delle attuali, presero il coraggio a due mani per realizzare opere come il Frejus, il Sempione, il Gottardo, di cui poi si sono goduti i benefici per un secolo. Secondo noi Torino ha bisogno di tutti i tunnel, in tutte le direzioni, almeno come prospettiva. Noi diamo la preferenza al trasporto su ferro rispetto alla gomma, per ragioni non solo ecologiche, ma anche di risparmio sui costi. Al proposito bisognerebbe distinguere tra chi costruisce materialmente la struttura ferroviaria e chi deve invece organizzare il servizio di trasporto. Il ruolo pubblico è ovviamente diverso tra le due opzioni. Vi è poi un altro aspetto, piuttosto trascurato, quello finanziario. Si dà per scontato che gli investimenti nel campo dei trasporti e della viabilità li debba fare essenzialmente lo stato o la pubblica amministrazione. Noi crediamo invece che vada ricercato il coinvolgimenti dei privati, soprattutto perché lo stato italiano non ha i quattrini sufficienti per realizzare tutte le opere infrastrutturali necessarie. E' dunque opportuno e auspicabile il ricorso ai capitali finanziari internazionali, dimostrando che si tratta di investimenti utili e produttivi. Sono quindi necessari progetti finanziari chiari ed evidenti. In questa direzione si è mossa la Società Fabiana, tentando di coinvolgere le fondazioni ex-bancarie di Torino. I componenti di queste fondazioni sono, ancora oggi, di nomina di enti pubblici, elettivi o no, che comunque rappresentano la collettività piemontese. A parità di condizioni di rendimento, di sicurezza dell'investimento, crediamo che le fondazioni dovrebbero intervenire, per esempio nel settore della progettazione finanziaria delle grandi infrastrutture. Noi mettiamo in evidenza la necessità di ritornare, da parte della pubblica amministrazione, alla programmazione rigorosa, fondata su tre aspetti: socio-economico, territoriale e soprattutto finanziario. Occorre anche una razionalizzazione a livello esecutivo, ricorrendo a una o più agenzie. La realizzazione dell'area metropolitana è uno strumento fondamentale per lo sviluppo; per quel che riguarda i trasporti, auspichiamo la creazione di un'agenzia metropolitana per i trasporti che riguardano quest'area. La Società Fabiana, nelle persone dell'ingegner Manfredi e dell'architetto Nicola, ha proposto un progetto affascinante che prevede l'utilizzo dei "rami secchi" e della stessa rete ferroviaria interna al contesto cittadino. A noi piacerebbe un confronto su questa proposta, a parità di condizioni. Poi vi è l'aspetto dei rapporti internazionali di Torino: Manfredi e Nicola propongono una direttrice nord-sud che potrebbe portare benefici a Torino. C'è fra l'altro il rischio che la parte sud del Piemonte (province di Asti, Alessandria, Cuneo) venga trascurata e rischi un declino economico. - Luigi RIVALTA (Assessore Pianificazione territoriale e difesa del suolo Provincia di Torino)* Vi è una difficoltà di mobilità sull'area torinese: l'impianto strutturale del sistema viario stradale è in gran parte molto vecchio, di tipo radiale, utile allo

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sviluppo della grande industria di tipo fordista. Attualmente abbiamo segmenti, ferroviario e viario, che viaggiano per conto proprio. Si rileva come oggi esistano invece relazioni multidirezionali. Nella Provincia di Torino, su 315 Comuni di cui 147 montani, 100 hanno una stazione ferroviaria: dunque, attivare un sistema di mobilità su ferro nella nostra Provincia non è impossibile né difficile. A fianco delle linee "principali" nazionali e interregionali, abbiamo diverse linee "secondarie" che fanno capo a poli come Trofarello, Chieri, Pinerolo, Caselle, Rivarolo, Ivrea, su cui costruire, nel giro di pochi anni, un sistema di forte supporto allo sviluppo. In pratica, la Provincia non ha poteri in questo campo, se non come iniziativa politica che la Presidente Bresso e l'Assessore Campìa portano avanti con impegno. In particolare la Provincia appoggia fortemente la Torino-Lione, quale presupposto per tutte le altre infrastrutture. Le relazioni di Torino attualmente sono di secondo livello, andando più verso la direttrice sud-ovest che verso la direttrice ovest o nord-ovest. In questo contesto, ha preso corpo, con le istituzioni francesi, il problema della connessione attraverso la Valle di Susa fino a Marsiglia a sud: questo tema è giunto al livello della Presidenza della Repubblica Francese. Tornando alla viabilità dell'area metropolitana, abbiamo individuato una "corona esterna" a quella della tangenziale (ormai sovraccarica) che dovrebbe in qualche modo circondare la conurbazione torinese e passare attorno alla collina sboccando da Chieri a Gassino, con un nuovo ponte sul Po, sulla direttrice Volpiano-Leinì-Caselle; inoltre abbiamo ripreso l'indicazione per un collegamento "pedemontano" da Ivrea a Pinerolo, già in parte realizzato nel tratto eporediese. Per ciò che riguarda più strettamente Torino, riteniamo sia necessario più coraggio: parlare di tunnel sembra un'eresia, ma noi lo riteniamo possibile ed utile. Intendiamo collegare in tunnel l'accesso alla tangenziale di Corso Regina con il nodo del Drosso, e così alleggerire la tangenziale. Per quanto riguarda l'asse di attraversamento cittadino nord-sud lungo il Po, proponiamo la costruzione di una "strada ribassata ad incasso con soletta" da corso Dante fino a corso Vittorio e da lì fino a corso Regina Margherita. In questo modo si libererebbero dalla morsa del traffico corso Massimo D'Azeglio, via Vanchiglia, via Napione. Vi è poi il rischio che l'ex passante diventi una vera e propria "autostrada cittadina". Infine vorrei ribadire il ruolo, già oggi, di eccellenza tecnico-scientifica del polo industriale che gravita intorno all'aeroporto di Caselle. - Silvano ROGGERO (Divisione Trasporto regionale FS)* Dal I giugno vi saranno due società separate delle Ferrovie: la società per la gestione dell'infrastruttura (potenziamento, manutenzione, circolazione dei treni) e la società di trasporto che contiene al proprio interno le attività commerciali quindi il trasporto regionale, la divisione passeggeri, la divisione cargo. In Piemonte, il

trasporto regionale ha 3.000 dipendenti e 1.200 treni al giorno. Il Trasporto Regionale è una vera e propria azienda e dispone di tutte le leve gestionali per operare sul mercato del trasporto pubblico locale, gestisce direttamente i suoi dipendenti, ha la proprietà dei mezzi di trazione e delle vetture, è responsabile della manutenzione e della pulizia. Dal 2004 saremo in competizione con altre imprese ferroviarie per vincere le gare attraverso la qualità del servizio, il prezzo etc. I prossimi anni saranno dunque decisivi; è in corso una ristrutturazione del settore della manutenzione che deve essere flessibile ed efficiente. Abbiamo la possibilità di aumentare la produttività di lavoro, ad esempio nel personale di macchina (abbiamo a volte ancora il doppio macchinista), stiamo presentando nuovi materiali, nuovi locomotori dedicati specificamente al Trasporto Regionale. Negli ultimi cinquant'anni le tecnologie hanno aiutato lo sviluppo delle reti ferroviarie e della circolazione; tuttavia, a parte la Firenze-Roma ed alcuni interventi sui nodi, la rete ferroviaria non ha tenuto il passo dello sviluppo economico. Mentre ad esempio si raddoppia la Torino-Savona autostradale, non si prevede nessun raddoppio di binario sullo stesso percorso ferroviario. Entro il 2006 la realizzazione completa del passante dovrebbe essere finita, come anche la nuova linea Torino-Milano; al riguardo vi sono grandissimi margini di miglioramento sui costi. Il Trasporto Regionale è assolutamente interessato alla realizzazione delle grandi opere, proprio perché in competizione con l'esigenza del traffico internazionale è spesso proprio il traffico regionale ad essere sacrificato. La realizzazione del passante e della Torino-Milano consentiranno di liberare ingenti risorse per il servizio ferroviario regionale: sul passante prevediamo una frequenza di treni regionali ogni cinque minuti. Riguardo ai cosiddetti "rami secchi", affermo con forza che non esistono linee di scarsa importanza per il trasporto regionale: tutte le linee citate da Rivalta sono linee interessanti. E' necessario intervenire su queste tratte, non necessariamente con raddoppi integrali; si può pensare ad esempio, sul modello francese, a raddoppi parziali, per fare degli incroci dinamici in linea. Chi deciderà gli interventi infrastrutturali nei prossimi anni? Saranno decisi di concerto dallo Stato e dalle Regioni attraverso l'accordo di programma che deve definire che cosa fare e quali risorse impiegare: è dunque necessaria un'attenta pianificazione e programmazione. Noi siamo assolutamente interessati ai cosiddetti "movicentro"; le stazioni fondamentali della rete piemontese devono diventare luoghi di facile accesso e accoglienza e soprattutto offrire facilità di interscambio. - Armando COCUCCIONI (Direttore generale ATM) La legge regionale sui trasporti locali prescrive che dal 2003 tutti i servizi dovranno essere affidati mediante procedura concorsuale. L'ATM che attualmente svolge servizi sia di progettazione e pianificazione per conto dell'Ente proprietario dovrà scegliere se puntare a diventare ente

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di pianificazione o a diventare impresa di gestione a tutti gli effetti (essendo fra l'altro l'unica impresa di trasporto in Italia certificata ISO 9001 per la qualità e ISO 14001 per i processi ambientali) Esiste comunque la possibilità che, scindendo opportunamente le due attività, per superare l'incompatibilità tra chi progetta e chi concorre alla gara per l'esecuzione del progetto, si possano sviluppare sia le competenze di progetto che quelle di gestione. I servizi offerti nell'area metropolitana torinese sono gli stessi offerti nel 1982, perché l'applicazione della Legge 151 del 1981 è stata fatta secondo criteri legati alla disponibilità finanziaria pubblica (in quegli anni scarsa) e non secondo criteri di organizzazione della mobilità sul territorio, infatti in Piemonte, come nel resto d'Italia, per ragioni prevalentemente di carattere finanziario, si è badato a consolidare i servizi esistenti, senza tener conto dell'evoluzione della domanda.. Dal 1982 a oggi 300.000 abitanti sono usciti dall'area urbana torinese per collocarsi in Comuni della prima e seconda cintura. La delocalizzazione di questi abitanti comporta un servizio più diluito, che, essendo vincolato al mantenimento della produzione chilometrica (50 milioni di chilometri vettura all'anno circa), comporta percorrenze più lunghe e frequenze più rade. La ripartizione modale è scesa dal 35% di trasporto collettivo sul totale degli spostamenti degli anni '80 al 26% attuale; pur mantenendosi costante il numero totale dei passeggeri del trasporto collettivo ( e addirittura aumentando se espresso in termini di passeggeri chilometro) ma è diminuita la percentuale di trasporto collettivo sul totale degli spostamenti, con ciò dimostrando l'incapacità dell'attuale offerta di trasporto di mantenere la sua quota del mercato della mobilità. Oggi abbiamo un forte aumento di movimenti diffusi e svincolati dalla classica percorrenza casa-lavoro e casa-scuola, che si svolgono durante tutta la giornata, con diverse destinazioni; ciò ha comportato un netto aumento dell'orientamento verso il trasporto individuale, con annessi problemi ambientali ed economici. La risposta alla nuova domanda di mobilità non può che essere in sistemi di tipo modulare in grado di soddisfare domanda rarefatta, ma comunque in grado di sostenere un'offerta di trasporto collettivo, e domanda concentrata, dove questa si verifica. Nel comune sentire è accreditata l'immagine di una competizione tra sistemi su ferro e sistemi su gomma, in realtà i parametri di scelta sono molto più articolati, dal momento che si deve parlare di sistemi in sede propria ed in sede promiscua, di sistemi a guida libera e a guida vincolata, di sistemi a trazione termica e a trazione elettrica o comunque alternativa. Se si tratta di risolvere un problema di capacità serve una guida vincolata su ferro; perché risolve i problemi di lunghezza e di controllo dei veicoli se invece il problema è di regolarità e di velocità e quindi di affidabilità del servizio, basterà avere una sede propria su cui far correre eventualmente anche veicoli gommati; se i problemi sono di carattere ambientale

(cioè di emissioni nell'atmosfera e di rumore) si dovrà intervenire sui sistemi di trazione, quindi propulsione elettrica, celle a idrogeno oppure alimentazione a metano in grado di abbattere le polveri. (attualmente l'inquinante più critico) oltre agli altri prodotti della combustione. Si può e si deve ricorrere alla combinazione di questi tre elementi, secondo le esigenze che si intendono soddisfare. Per esempio, e con riferimento ad un problema sollevato oggi, rispetto all'utilizzo di eventuali "rami secchi" ferroviari (a mio parere qualcuno è tale, per esempio il raccordo con lo scalo Vanchiglia) il problema non è tanto di reintrodurre un sistema ferroviario quanto quello di utilizzare le sedi ferroviarie per consentire buoni scorrimenti in sede propria (o su binario con sistemi sia ferroviari che tranviari , ma anche su gomma, comunque dotati di sistemi di trazione "puliti", scelti secondo la capacità di offerta che si stima necessaria). Attualmente è in fase di realizzazione il collegamento nord-sud che sarà realizzato con la linea 4; essa è oggi gestita con un sistema tranviario di sufficiente capacità (6-7.000 persone l'ora),integrato peraltro da una linea di autobus sostanzialmente parallela, e differenziata alle estremità, comunque insoddisfacente riguardo alla regolarità, a causa dei problemi di attraversamento del centro storico. Al riguardo, ritengo del tutto esplorabile e finanziabile l'ipotesi dell'attraversamento in sotterraneo del centro storico, che garantirebbe un recupero, oltre che di regolarità, anche di tempo di percorrenza (circa 8 minuti sui 50 di percorrenza totale della linea, pari al 16 %). Un altro punto importante è quello del "proporzionamento" dell'uso del sistema di trasporto collettivo. Il trasporto collettivo lascia emergere i costi di infrastruttura, i costi di organizzazione ed il costo della manodopera che nel trasporto individuale sono sommersi e non percepibili. Perché un sistema di trasporto collettivo sia economicamente ed anche ambientalmente sostenibile esso deve essere istituito quando esistono i "numeri" per poterlo fare. Per questo motivo è opportuno anche lasciare spazio al trasporto individuale dove questo diventa l'alternativa più conveniente. Un esempio può tornare utile: un autobus occupa circa 30 metri quadrati contro gli 8 di una vettura (con riferimento allo spazio statico, se si considera lo spazio dinamico i termini si avvicinano rispettivamente, alla velocità di trenta chilometri all'ora, si possono calcolare 80 e 40 metri quadrati), se quest'autobus viaggia con una sola persona a bordo oltre al conducente è evidente che si è consumato circa quattro volte più dello spazio necessario, ma se quest'autobus viaggia con 15 persone a bordo (cioè molto meno della sua capacità) consuma lo stesso spazio statico a persona di un'autovettura che viaggia con quattro persone a bordo, oltre questi limiti il vantaggio è tutto a favore del trasporto collettivo. E' evidente che lo spazio urbano è una risorsa non riproducibile e particolarmente preziosa, privilegiare il trasporto collettivo significa restituire la città alla

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funzione che le è propria: luogo di incontro e di relazione tra i cittadini. Analogamente il consumo energetico (e quindi approssimativamente anche le emissioni) di un autobus è circa cinque volte quello di un'autovettura. Il punto di equilibrio si ha con cinque passeggeri a bordo dell'autobus contro uno dell'autovettura, o con venti passeggeri a bordo dell'autobus contro quattro dell'autovettura. Un sistema di trasporto collettivo si basa sul principio di continuità dell'offerta, e pertanto i punti di equilibrio devono essere riferiti all'intera offerta di trasporto e non alla singola linea, cioè il confronto è valido se l'intera offerta di trasporto si pone mediamente al di sopra del punto di equilibrio stabilito. Per questo motivo è forte l'esigenza dei fornire parcheggi di interscambio, che devono essere collocati (teoricamente) nei punti di inversione dell'equilibrio in modo da garantire al trasporto collettivo un'adeguata concentrazione di utenti che ne consenta l'efficacia. Il Comune di Torino sta elaborando una sorta di "cintura di parcheggi d'interscambio" al fine di consentire l'utilizzazione efficace del trasporto pubblico. La politica dell'interscambio dev'essere accompagnata da una politica d'incentivazione del trasporto collettivo e di scoraggiamento del trasporto individuale, puntando su un'elevata progressività delle tariffe dalla gratuità o semigratuità dei parcheggi di interscambio, fino a una tariffa molto elevata nelle zone potenzialmente ad alta concentrazione di traffico. Le nostre abitudini pianificatorie sono a tre dimensioni, ma un efficace sistema di pianificazione deve essere fondata su 5 dimensioni: oltre alle 3 "spaziali", quella del tempo e quella finanziaria. La dimensione temporale deve prevedere la gestione delle relazioni urbane durante la realizzazione degli interventi urbanistici, e l'adeguamento dell'offerta dei servizi durante il loro sviluppo e raggiungimento della massima potenzialità. L'esempio calzante è quello degli ipermercati sorti nelle cinture di quasi tutte le città italiane; è una situazione tipica per avere un buon servizio di trasporto collettivo, perché offre un grosso flusso di utenza abbastanza costante durante la giornata. Di fatto la situazione vede un uso fortissimo del mezzo privato e assai scarso del collettivo, anche perché non sono state previste adeguate infrastrutture di collegamento di trasporto collettivo, né è stato previsto un adeguato e comodo sistema per il trasporto delle merci al seguito, che può rappresentare una grave insufficienza di offerta. Bisogna dunque incentivare un sistema che consenta il trasporto di persone con merci al seguito oppure il recapito a domicilio in tempi molto rapidi e a costi bassi delle merci acquistate. Si possono però fare altri esempi: il decreto Ronchi obbliga le aziende con più di 300 dipendenti a ricorrere al mobility manager; ma gli "attrattori" non sono solo gli insediamenti produttivi, sono anche gli insediamenti commerciali e di divertimento, per i quali andrebbe prevista un'attività di mobility management fin dalla loro concezione.

La quinta dimensione è quella finanziaria: oggi la possibilità di coinvolgimento del capitale privato è, a mio parere, difficile. L'investimento nei trasporti, in tutta Europa, non è remunerativo: tutti ricevono, in varia misura, sovvenzioni pubbliche, che sono, beninteso il corrispettivo dell'utilità che il servizio di trasporto collettivo porta anche al non utente. La sovvenzione, nella generalità dei casi è finalizzata alla produzione del servizio (tanto al km prodotto);mentre il ricavo tariffario è il risultato della vendita del prodotto. Mentre la parte tariffaria è influenzata dalla capacità di vendere il servizio offerto, la parte finanziata dall'autorità pubblica è influenzata dalla quantità di produzione del servizio. A mio giudizio questa situazione non genera un circuito virtuoso, bisognerebbe verificare se la sovvenzione pubblica non possa essere legata a un concetto di "tariffa ombra". Ciò significa che, una volta stabilita la tariffa di equilibrio economico, l'autorità pubblica può intervenire per integrare questa tariffa, pagandone la parte non a carico dell'utente, in funzione degli utenti effettivamente serviti. Così si creerebbe un mercato, in qualche misura artificiale, di redditività che può consentire a un investitore la remunerazione dell'investimento e l'immissione di capitali di rischio nel sistema di trasporto. Occorre comunque trovare qualche sistema che impedisca all'operatore di autoacquistarsi titoli di viaggio al fine di lucrare sull'integrazione pubblica. L'altra criticità sono i tempi di rientro dell'investimento. oggi il decreto legislativo 422 fissa delle durate abbastanza brevi per l'affidamento dei servizi di trasporto. Qualora si intendesse affidare a un operatore privato, non solo la gestione del servizio, ma anche la realizzazione ed il finanziamento almeno parziale dell'infrastruttura, non esisterebbe la possibilità materiale di rientrare del capitale investito, dal momento che i tempi di "ritorno" per un'opera importante sono dell'ordine di 30, 40, o 50 anni. - Giancarlo GUIATI (Presidente SATTI)* Presento qui dati della fine 1998, riguardanti gli spostamenti su mezzi (sia privati sia pubblici): dai 2 milioni e mezzo circa di spostamenti giornalieri nell'area torinese del '96 si arriva ai 2 milioni e 600.000 della fine del '98: c'è stato un incremento dovuto all'aumento del privato (da 70,6 a 73,1%), mentre il pubblico passava dal 29,4 al 26,9%. Questo è avvenuto in assenza di incremento produttivo dell'area: dunque si tratta di un problema di offerta di infrastrutture. Oggi abbiamo un sistema ferroviario di primo livello in ingresso nella città di Torino molto forte. E' dunque auspicabile spingere sull'"intermodalità" dei vari sistemi, attraverso la razionalizzazione dell'interscambio, a partire dai punti in cui la ferrovia si interconnette con il sistema tangenziale-autostradale. Su questo siamo in forte arretrato, il dialogo tra gli enti locali è molto difficile, come anche con le società di gestione: manca il soggetto in grado di fare una pianificazione generale.

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Riguardo al progetto di sistema ferroviario metropolitano, vi è stata una collaborazione tra la Regione, la Provincia, il Comune, la Satti e le FS che ha dato vita appunto al SFM . Credo che il sistema ferroviario vada considerato come il sistema di primo livello a cui si devono legare le altre modalità di trasporto. Nelle grandi città europee dove si è potenziato il sistema ferroviario metropolitano, insieme allo sviluppo delle metropolitane, si è ottenuto un passaggio di traffico dal privato verso il pubblico dell'ordine del 20-30% (ad esempio a Lione). Il progetto SFM è molto importante, ma è stato presentato da parte degli enti locali forse con troppa enfasi e senza la necessaria attenzione ai problemi concreti da affrontare. Con la conclusione dei lavori sul passante saranno rese disponibili, nella città di Torino, ben sette stazioni ferroviarie importanti; nell'hinterland avremo 25 punti d'interscambio importanti. L'investimento previsto non supera i 500 miliardi. Tra l'altro sarà presto operativa la linea che collegherà Caselle con il centro cittadino (18 minuti da Porta Susa). Una recente legge regionale ha istituito un'Agenzia (o Consorzio) dei trasporti dell'area metropolitana: questa agenzia assorbirà le competenze che oggi hanno gli enti locali sui trasporti. La rete tranviaria della città di Torino (250 km) è probabilmente la più importante d'Europa: è già in corso un'importante opera di ammodernamento. Per la metropolitana ci sono i finanziamenti per le prime due tratte della linea 1. Il sistema scelto è la tecnologia Val 208, leggero e automatico, adatto a città medie. Il costo totale è intorno ai 1.300 miliardi (di cui il 60% già finanziato); riteniamo di iniziare con i bandi di gara a luglio 2000, mentre stiamo concludendo le trattative con i fornitori della tecnologia del materiale rotabile (pari a circa la metà dei costi totali). La lunghezza è di circa 10 km per il primo tratto, il prolungamento è di 4 km e mezzo; le stazioni sono 20, la profondità va dai 16 ai 22 metri. Il sistema garantisce una frequenza in automatico di 1 minuto e 10 secondi tra convogli; permette una capacità massima di trasporto, per ogni senso di marcia, di circa 23.000 passeggeri. I tempi di percorrenza sono 16 min. da Collegno a Porta Nuova e 8 min. da Porta Nuova a Lingotto. I tempi di realizzazione sono 33 mesi per la costruzione, 33 mesi per l'installazione degli impianti di tecnologia. La conclusione dei lavori è prevista per la fine del 2005. L'inizio dei lavori è previsto per il 2001. - Elio PEROTTO (Direzione Trasporti Regione Piemonte)* La Legge Regionale 53 del '99 stabilisce la creazione di un sistema di trasporto pubblico locale presenta un neo: non prevede coerenza con lo sviluppo del trasporto ferroviario locale. Il programma d'esercizio del trasporto ferroviario prevede un cadenzamento nelle tratte centrali sui 4 minuti: tiene conto dell'inserimento di due grandi infrastrutture (la Torino-Milano e la Torino-Lione). Il potenziamento del trasporto ferroviario "locale" deve avvenire in sintonia con lo

sviluppo delle grandi infrastrutture; può aver luogo anche per "fasi" o per tratte significative, piuttosto che raddoppio. Questo però è possibile laddove il cadenzamento è di un quarto d'ora, ma non dove siamo al di sotto dei 7-8 minuti: qui l'intervento va fatto tutto e per tutta la tratta. La tratta della Torino-Milano in territorio piemontese è stata "definita" a settembre dell'anno scorso, con l'impegno delle Province che hanno costituito con gli enti titolari della tratta degli accordi procedimentali sottoscritti, soprattutto riguardo agli attraversamenti (stradali, irrigui). Dalla parte lombarda sono sorte alcune contestazioni, ma la Conferenza dei servizi dovrebbe comunque chiudere entro breve la valutazione di ordine progettuale. C'è poi la fase della revisione del progetto esecutivo secondo le prescrizioni espresse dai vari enti e la realizzazione di un progetto esecutivo "cantierabile" per la corretta quantificazione degli oneri. La struttura andrà a collegarsi all'altezza di Stura, prevedendo però a Settimo una possibilità di "sciuntaggio"; il collegamento diretto con la linea veloce prevede l'innesto diretto con la linea ad alta capacità a Torino Porta Susa. L'intervento infrastrutturale totale prevede una spesa di 6.000 miliardi e porterà una ricaduta, in termini occupazionali, dell'ordine dei 10-15.000 posti di lavoro. La Torino-Lione è una linea che ha dei tempi diversi da quelli della Torino-Milano, ma la sua realizzazione è assolutamente indispensabile. Esiste una Commissione Intergovernativa italo-francese, la CIG, di cui sia la Regione sia la Provincia hanno chiesto di far parte. Esiste anche un altro ente, la Società AlpeTunnel, costituito al 50% dalle due reti ferroviarie italiana e francese, che è stato incaricato della tratta internazionale (ovvero dell'attraversamento alpino). E' stato richiesta una soluzione alternativa al tunnel di base di 52 km, per due motivi: primo, per cautelarsi qualora le valutazioni di ordine tecnico-geologico impedissero l'opera di base; secondo, perché la Regione e la Provincia ritengono che si possa creare un sistema di gallerie più flessibili. Per quel che riguarda Torino e la sua area metropolitana, la soluzione in sinistra Dora o in destra Dora presenterebbe alcune differenze. Siamo in una fase di attesa di risposte sull'ipotesi di tracciato alternativo da parte di AlpeTunnel. In caso di arrivo ad Orbassano, dovrebbe essere ripreso il corridoio di Venaria. - Mario VILLA (Docente Politecnico di Torino) Molte cose sono state dette da chi mi ha preceduto sui programmi in atto. Tuttavia mi sento di introdurre alcuni concetti importanti. Il primo a riguarda l'importanza che riveste la manifestazione di interesse delle categorie economiche piemontesi e nella realizzazione delle opere delle grandi opere infrastruttura. Voglio con ciò dire che quando una classe politica e una classe imprenditoriale chiedono al paese uno sforzo evidente e prolungato nel tempo, è necessario che mettano in evidenza quanto si è disposti ad investire, perché siano soddisfatte le esigenze locali

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a fronte dei più generali interessi sui quali per vanno impegnate le risorse nazionali. Ciò comporta in sostanza, che la Regione metta in campo un impegno anche economico e finanziario che corrisponda a questi interessi. Altrimenti il conflitto fra i costi e i benefici che un'opera di grandi proporzioni realizza e inevitabilmente comporta, va a riassumersi solo nel contrasto fra gli impatti locali e gli interessi generali, che trovano soddisfazione unicamente con i risarcimenti. E' invece necessario che la Regione, che le categorie economiche mettano per così dire "del loro" e diano chiara dimostrazione della coincidenza fra interessi nazionali e interessi regionali. È evidente a questo punto, il ruolo del sistema bancario e finanziario regionale che devono trovare le modalità non solo per finanziare o partecipare al finanziamento dell'opera, ma anche essere capaci di promuovere con risorse iniziali e poi controllare l'evoluzione del progetto e poi delle opere, affinché tutto l'iter corrisponda al principio di razionalità ed economicità dell'intervento. Sarà proprio questa procedura, avviata fin dalle prime fasi a garantire la qualità e le economicità dell'opera e del suo esercizio. Una seconda questione è quella che riguarda la dimensione locale della pianificazione del Sistema dei trasporti. In questo senso mi sembra di avvertire una insufficienza della città di Torino e della suo Sistema politico e amministrativo, di assumere in pieno ruolo di protagonista nel progetto operativo del insieme di promozioni e di azioni necessarie per la città e la sua area metropolitana. Mi sembra di dover rilevare una sua insufficienza nella assunzione di un ruolo di direzione e di responsabilità alla scala metropolitana da parte della città di Torino. Non è emersa anche per questioni di carattere legislativo, la dimensione amministrativa e progettuale capaci di promuovere sotto il profilo istituzionale la dimensione metropolitana, portandola verso e dentro un processo reale di integrazione delle sue dotazioni urbane e infrastrutturali, delle sue risorse economiche e produttive fino a poterla considerare come un insieme coerente di soggetti economici e politici. È prevalso un localismo competitivo fra i comuni del contesto metropolitana incapace di agire coerentemente verso obiettivi condivisi e comuni. La terza questione riguarda le evidente insufficienza del Sistema locale a promuovere sinergie con la ricerca e con gli istituti che ad essa devono provvedere. È noto come il Sistema produttivo, ma anche il sistema amministrativo pubblico e privato si considerino troppo lontani dalle istituzioni formative come il Politecnico o l'Università, quasi che il problema della qualità formativa delle generazioni nuove, ma anche di quelle che necessitano di ritrovare competitività sul mercato del lavoro, non investa, in fasi successive, la qualità dei servizi forniti alle attività economiche e alla Amministrazione. In particolare è anche noto come la media e la piccola industria, nella competizione europea e nella competizione globale, ma anche la nostra amministrazione pubblica, si dimostrino non adeguate allo sviluppo e alla utilizzazione delle nuove tecnologie, ma soprattutto siano inadeguate nella

introduzione dell'innovazione nei processi e dei prodotti avanzati. Questo a causa di una generale insufficienza degli investimenti nella ricerca, ma anche a causa di un generale disinteresse nei confronti dell'innovazione. Su questo fronte la città di Torino, la Provincia, la Regione devono assumere come obiettivo primario di medio periodo, la valorizzazione delle risorse formative esistenti e la assunzione di programmi formativi innovativi finalizzati a migliorare la qualità dei progetti e dei processi attuativi. In particolare sulle opere pubbliche. E' indispensabile che la Regione e in generale le pubbliche amministrazioni, seguano i processi di formazione dei progetti e di valutazione degli stessi in ogni fase del loro avanzamento, in modo da poterne controllare fino in fondo la loro realizzazione. In questo campo mi sembra utile che si proceda, anche per strade tipiche per i paesi anglosassone, quando in occasione della realizzazione di grandi opere vengono costituiti gruppi di valutazione indipendente, o di controllo (advisors), che sulla base di semplici considerazioni di carattere tecnico ed economico separano la valutazione tecnica dalla valutazione politica fino a fornire un supporto di qualità alla decisione istituzionale. - Piero GASTALDO (Coordinatore attività istituzionale Compagnia di San Paolo)* Un primo ragionamento lo farei sollecitato da una delle affermazioni più significative di Gigi Rivalta, nel senso che quando ha descritto un incontro molto recente con riferimento alle politiche presenti di carattere territoriale e produttivo nell'area dell'aeroporto di Caselle, ha chiuso in modo mi sembra drammatico, sostenendo che la difficoltà degli enti pubblici di seguire con le proprie azioni di pianificazione e programmazione delle opere, poteva essere davvero molto rischiosa per una comunità come quella piemontese. Io su questo devo dire che mi sembra sempre un po' carente sulle analisi che noi facciamo la valutazione del ruolo dell'offerta, ovvero: quando traiamo delle conclusioni su come si è andato ristrutturando il territorio, su come funziona l'economia nazionale o locale, ci accorgiamo che gli eventi che si sono susseguiti, come si sono comportati i soggetti protagonisti, anche solo per scegliere una residenza o per motivare e sostenere un'attività produttiva, tutte queste scelte hanno sempre avuto un carattere che le istituzioni hanno dovuto in qualche modo inseguire. Ora quando noi facciamo, e qui c'è stato un consenso generale da parte di molti al richiamo della necessità di riprendere le attività di pianificazione e programmazione degli interventi, credo che qui ci sia da precisare qualcosa, il come si producono le analisi e i documenti e gli elenchi delle cose da fare, qui c'è un divario che si gioca sulla variabile tempo che è preoccupante. Il caso che ha citato Perotto circa la questione delle concessionarie: c'è chi diceva che l'anello debole di tutta l'attività relativa alla produzione della rete dell'alta velocità era già stato individuato nel '92, quando iniziarono queste azioni; il 31 dicembre

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furono chiuse con forza quelle concessioni, e di lì cominciò ad essere tutto difficile, e allora queste azioni che sono nelle competenze della Pubblica Amministrazione, devono essere attentamente meditate e ricondotte sempre a procedimenti che siano validi e soprattutto verificabili. C'è un problema che è emerso e riguarda il ruolo dell'offerta: ho sentito stamattina da parte del Direttore dell'ATM un'analisi molto seria della difficoltà di far seguire un'offerta di servizi di trasporto ad una domanda che si è rilocalizzata. Qui c'è un problema che viene sottovalutato, le analisi della domanda che sono riferite alla mobilità casa-lavoro devono assolutamente essere riprese e riviste, non è sufficiente indagare su una domanda che è ristretta a una fascia temporale, o a categorie sociali in contrazione, arrivando a risultati spesso fuorviati. Ci sono tecniche più avanzate, che consentono di indagare la mobilità nell'intera giornata, come avvengono i nostri spostamenti: io personalmente faccio due spostamenti casa-lavoro, ma poi all'interno della giornata ne faccio altri sei, sette o otto che sono motivati da altre questioni. Allora l'adeguamento dell'offerta di servizi è sicuramente legato alla capacità di indagare su questa motivazione, perché altrimenti gli scompensi di costo sono inevitabili. Un'altra questione che ho sentito citare è quella relativa all'attività delle politiche finanziarie, nel senso di come si opera per quanto riguarda interventi importanti per la realizzazione di infrastrutture e per la gestione dei servizi. Intanto bisogna ricordare che il sistema delle concessioni autostradali è stato un sistema di project financing, che ha consentito in pochi anni di realizzare l'80% della rete. Il meccanismo che è stato messo in funzione con la Merloni e le disposizioni successive è quello della valutazione delle condizioni di subentro avendo definito un sistema di concessione delimitato nel tempo, perché c'è tutta una storia di riconduzione delle concessioni al mercato; le concessioni di subentro danno la possibilità ad una società alla scadenza della concessione, di partecipare ad una gara e di intraprendere l'esercizio di un'infrastruttura esistente. Questa mi sembra un'indicazione utile proprio per slegare il tempo dei 50 anni necessari per l'ammortamento di un capitale investito sull'infrastruttura dall'esercizio, dando quindi la possibilità di intervenire in momenti successivi, rimettendo in gara l'esercizio quando questo sia condizionato anche dall'investimento iniziale. Ci sono degli strumenti possibili, che credo andrebbero incontro a quella flessibilità necessaria negli investimenti di capitali consistenti come sono richiesti. Una questione di cui sento parlare molto poco è quella relativa alla gestione delle reti, dei servizi, alla gestione di politiche mirate ad alcuni risultati. Mi riferisco, per esempio, alla gestione di grandi infrastrutture, in termini di servizi offerti, alla gestione della sicurezza, che è un tema solitamente tralasciato, ma che ha un rilievo economico, oltre che sanitario, importantissimo per quanto riguarda le reti stradali ed autostradali. Queste politiche, possono essere ben gestite e ben

realizzate, se si investe in software di gestione. Per fare un esempio, prendiamo il sistema tangenziale. E' un sistema che spicca per brutalità della sua offerta di servizi, perché esiste solo infrastruttura, oltre a due o tre punti di pedaggio. Ma dal punto di vista della gestione della sicurezza, sia hardware che software, della gestione della mobilità tra domanda ed offerta in tempo reale, è assolutamente non dotato di nessuna attrezzatura. Credo che debba essere fatto uno sforzo, nel senso che da parte delle istituzioni deve emergere una richiesta affinché queste soluzioni vadano in porto. Se poi valutiamo tutto ciò in termini di salute pubblica, è evidente come la sostenibilità di un intervento possa essere misurato in termini di costi/benefici, in modo sufficientemente valido per poter arrivare a delle valutazioni di priorità sulle quali concentrare iniziative. Proprio la valutazione delle priorità è un altro tema sul quale vale la pena di soffermarsi. Vedo che spesso, nei grandi progetti, si perde il senso della ragione dell'opera, cioè non si riescono più ad individuare i soggetti territoriali o imprenditoriali, che trarranno i benefici. Gli stessi potrebbero agire come lobby di pressione ed intervenire, vedi il ruolo delle banche, delle fondazioni e quant'altro, con il peso economico e finanziario che il territorio richiede per trarre quei benefici che l'opera propone. Vorrei infine spendere due parole sul rapporto tra territorio ed istituzioni, con riferimento alla ricerca. A me sembra sia un errore lasciare l'attività di ricerca e progettazione agli enti che si incaricano di effettuare le progettazioni. Mi sembra sia opportuno sviluppare un'intesa tra il territorio ed i soggetti, quali il Politecnico, che sono in grado di sviluppare anche una ricerca minore, nel senso che non sempre è necessario che la ricerca sia di alto livello. C'è infatti un'attività di ricerca progettuale locale, la quale, se ci fosse un'azione di coordinamento da parte degli enti del territorio, darebbe risultati migliori. E' noto che la nostra piccola e media industria è assolutamente carente nell'innovazione dei processi, nell'organizzazione interna e nella logistica. Dovrebbe esserci un orientamento a sviluppare, in coordinamento con le politiche europee sulla ricerca, progetti comuni di ricerca sui quali impegnare la piccola e media industria, che può trarne dei benefici. Regione, Province e grandi Comuni potrebbero muoversi quindi in un settore sul quale gli investimenti sono realmente carenti. L'ultimo tema che voglio trattare è quello dei gruppi dirigenti. Credo di aver riscontrato un miglioramento dei ceti dirigenti. Ma riferendomi ai trasporti, credo si possa costituire una sorta di "forum dei trasporti", nel quale convogliare tutte queste risorse e formulare i bisogni di chi opera nella ricerca e nella progettazione. - MASPOLI a GASTALDO: abbiamo ricordato, nel discorso introduttivo, il ruolo che possono avere le Fondazioni bancarie a proposito delle infrastrutture. Noi sappiamo che lei è da tempo che se ne occupa, può confermare il ruolo positivo delle Fondazioni bancarie piemontesi e torinesi. Per

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esempio, affiancare i progetti di tipo tecnico e socio-economico a progetti finanziari, potrebbe essere un compito che si assumono le Fondazioni bancarie? - GASTALDO le Fondazioni sono due cose: da una parte un patrimonio che è investito in azioni, titoli, ecc. Dall'altra parte sono una capacità annuale di spesa che si basa sui proventi del patrimonio. La capacità annuale di spesa, è destinata per legge in modo privilegiato ad alcuni settori, tra i quali la ricerca e intervento sui beni ambientali. Questi possono essere ricondotti ad una logica vicina al sistema trasportistico, quindi non è insensato pensare che le Fondazioni possano dare un contributo, attraverso la loro capacità di spesa annuale, ad iniziative di ricerca e pre-progettazione che abbiano a che fare con il sistema. Le risorse che si mettono in moto, sono tuttavia molto al di sotto della scala che sarebbe necessaria per cambiare effettivamente le cose nel campo trasportistico. Quindi sembra inevitabile chiamare in causa l'altra variabile, cioè il patrimonio con le sue modalità di investimento. Qui i vincoli sono ancora più forti, nel senso che le Fondazioni devono tenere un comportamento prudente, molto rigoroso, sancito dalla legge, e vincoli di redditività minima, a loro volta sanciti dalla legge e quindi non possono pensare di destinare il patrimonio ad investimenti caratterizzati da livelli elevati di rischio o livelli bassi di ritorno. Le Fondazioni, sia dal punto di vista delle emissioni che del personale, andranno depotenziando il loro raccordo con le matrici di carattere bancario e finanziario. La legge le chiama ad essere soggetti del no-profit, quindi sembra inevitabile che anche dal punto di vista delle professionalità e delle capacità operative, tendano a seguire una parabola diversa da quella che caratterizzava il loro esordio. Detto questo, c'è un ruolo che possa essere affidato a questi soggetti, affinché possano efficacemente intervenire? Io credo di sì, e che sia la risultante dei singoli ruoli deboli che mi sembrano emergere da quanto detto. Ossia, credo che vi sia uno spazio per un loro sostegno ad attività di ricerca. Per fare un esempio concreto, la Compagnia di San Paolo, in collaborazione con soggetti del mondo universitario e dei trasporti, in particolare Federtrasporti, sta per avviare un centro di ricerche sul diritto e l'economia del trasporto pubblico locale. E' quindi un modo di collaborare che segue la logica del "forum dei trasporti", anche se trasporti intesi come sistema di governo e regole del mondo dei trasporti, per far crescere la dotazione tecnica e la capacità di affrontare il problema da parte della nostra collettività. C'è infine, ed è secondo me il canale principale, l'azione che può essere condotta attraverso il ruolo delle Fondazioni, come azioniste di rilievo del sistema bancario e finanziario: possono rappresentare un elemento di stimolo rispetto ad un'acquisizione di interesse ed un'assunzione di responsabilità da parte degli operatori bancari e finanziari, nei confronti del sistema e quindi nei confronti delle logiche trasportistiche ed infrastrutturali. In questo siamo ricondotti al discorso delle nuove forme di finanza

strutturata che vanno chiamate in causa quando andiamo a ragionare sulle logiche trasportistiche e infrastrutturali; credo che questi ruoli possano essere giocati utilmente se gli attori bancari e finanziari entrano da subito nella logica di definizione dei progetti e delle scelte infrastratturali. E' debole la soluzione che dice "io faccio le mie scelte e poi mi pongo il problema di come finanziarle": quello che diceva Perotto a proposito delle scelte in materia di attraversamento delle Alpi ha molto a che fare con questa logica. Una logica "tunnel di base priva di alternative", pone a mio avviso gravi problemi di rischio agli attori finanziari, mi sembra difficile da affrontare se non per percentuali limitate dell'ammontare complessivo. Al contrario una logica di integrazione è più robusta e consente di usare davvero le capacità degli attori finanziari nella loro essenza profonda. Non vogliamo chiamarci fuori ma vogliamo continuare ad essere presenti con i vari ruoli di investitore ma difficilmente gli ordini di grandezza dei problemi possono essere commisurati alle risorse delle fondazioni. - MASPOLI Esprimo una preoccupazione: sono d'accordo, come tutta la Fabiana, che le fondazioni bancarie non devono diventare Gepi locali, ma a parità di condizioni, nella legge Amato che ha dato origine alle fondazioni bancarie c'è, oltre all'obiettivo di sostenere la ricerca ed il patrimonio artistico, anche quello dello sviluppo detto genericamente, con però tendenze interpretative molto ristrette… - GASTALDO Nello statuto ogni fondazione ha il dovere di definire i propri ambiti di attività; la Compagnia di San Paolo usa il discorso dello sviluppo non come aerea isolata, ma come ispirazione complessiva dell'insieme delle attività; investire in ricerca, istruzione, cultura, sanità, è fare sviluppo: credo che consentire il raddoppio del Politecnico e lo sviluppo del sistema sanitario sia fare sviluppo economico, alla luce delle risorse disponibili. Il patrimonio netto della Compagnia è di circa 8.000 miliardi, ma i flussi annui che questo consente di spendere sono nell'ordine dei 150-160 miliardi, risorse ingenti che però non reggerebbero sulle grandi logiche infrastrutturali. Mentre possono fare la differenza su altri obiettivi concentrati come il Politecnico: 40 miliardi (altrettanti nel tunnel di base non fanno la differenza). - MASPOLI Ma di fronte alla possibilità di investire nel capitale di rischio di un'azienda che si occupa di infrastrutture e può dare un rendimento di mercato, non vedo perché debba essere trascurato…

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- GASTALDO La Compagnia di San Paolo è infatti azionista di riferimento di una società che si occupa del tunnel nella logica di mercato. - Aldo OLIVIERI Sono un ecologo fondamentalmente… la storia delle micropolveri, anche se ho fatto migliaia di autopsie, conoscendo poche pneumopatie da polveri (la silicosi, la bagassosi, la talcosi), ho interpellato uno della cattedra: di polveri non è mai morto nessuno. Qui emerge una nuova truffa del secolo, per diminuire al massimo l'uso dei motori diesel che sono i meno inquinanti in assoluto. L'altra cosa che mi lascia perplesso da sempre è il quadruplicamento in asse che è una bomba ecologica nel cuore di Torino, fino a che non si realizzerà quel passante attorno a Torino che potrebbe nascere dall'alta capacità Torino-Milano. Considerando lo sviluppo del trasporto delle merci, previsto in una duplicazione nello spazio di dieci anni, che non era stato preventivato, gli aumenti dell'imballaggi, c'è un futuro rischioso per quanto riguarda la polluzione in generale. Un trasporto merci in Torino è pericolosissimo anche perché non è a cielo aperto; chi ha una monocultura pensa solo a fare quello, ma è possibile che non pensiamo di trasformare Torino in un triglio o un quadriglio per essere di nuovo appetibile per il terziario: non basta che sia una stazione qualsiasi, deve diventare un centro nodale, altrimenti diventeremo una città di provincia. Manca lo spirito nazionalistico a livello regionale, c'è una psicologia legata a un piccolo divenire, senza guardare al futuro, con complicazioni eccessive. Dobbiamo semplificare, De Gaulle decise di costruire le centrali nucleari in Francia: dopo un anno c'erano già i lavori, a dispetto dei Verdi; di troppa democrazia si può anche morire. Il giorno che dai codici italiani andrà via la parola "di concerto", comincerà un nuovo futuro. - Ruggerto COMINOTTI (Economista d'impresa Ricerche&Progetti) Questa conclusione vuole essere un'estrapolazione di quanto è stato detto; in paricolare mi riallaccio a quanto hanno detto Villa e Perotto. Perotto ha segnalato che finora gli ordini di grandezza dei costi sono ancora fermi. Villa ci ha detto che fino a trent'anni fa si pianificavano il territorio e i trasporti per un traguardo che non veniva neppure fissato. Nel corso dei deceeni '80 e '90 la velocità di cambiamento degli scenari è aumentata di molto; i traguardi degli interventi su territorio e nei trasporti sono rapportati a periodi di medio termine. L'internazionalizzazione dell'economia e della società torinese ha un traguardo di dieci anni: il processo è pienamente in corso; l'ingresso di General Motors in Fiat Auto (e l'ingresso di Fiat in GM) sono parte integrante del processo cui stiamo assistendo. Torino è una grande capitale dell'auto, come Birmingham,

Stoccarda e Detroit: questa è la più vasta e articolata specializzazione di Torino. L'attivo della bilancia commerciale dei componenti auto e il passivo negli autoveicoli, corrisponde al processo di multinazionalizzazione della Fiat che produce altrove, nelle aree dei mercati esteri di penetrazione. Fino al 1981 la bilancia commerciale è attiva anche nelle auto; successivamente si sviluppa il processo di multinazionalizzazione della Fiat, mentre le componentistica diversifica il suo mercato cercando clienti in tutto il mondo, con forte crescita di competitività Se vogliamo che Torino si sviluppi in questo scenario di forte internazionalizzazione in tempi brevi, è necessaria questa struttura di mobilità merci-persone, con tempi di 15 anni al massimo, occorre un arco di tempo inferiore al mezzo secolo. Il tempo è la variabile decisiva, l'innovazione ha tempi ( e obsolescenza) rapidi. L'impresa che ha investito in innovazione deve venderne i risultati nel più breve tempo possibile e nel mercato più ampio possibile. Bisogna gestire il cambiamento in tempi brevi e l'armatura urbana è la condizione necessaria perché questo processo avvenga, ma bisogna progettare e realizzare in tempi rapidi. C'è l'esigenza di portare la pianificazione dei trasporti e quella urbana dell'area metropolitana di Torino all'attenzione della politica, assegnando ai traguardi temporali il ruolo di vincolo strategico.

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Attività del 2001

* 22 gennaio 2001

TAVOLA ROTINDA: «Gli effetti della globalizzazione in ordine alla dissoluzione delle classi tradizionali e alla eventuale formazione di nuove dicotomie di classe».Istituto Salvemini, Torino. GLI INTERVENTI Luciano GALLINO Comincerei con un'osservazione sulla prima parte del titolo della tavola rotonda. Bisogna intendersi circa la dissoluzione delle classi tradizionali perchè, come ebbe a scrivere un tale che oggi non si può più citare, un signore con la barba grigia lunga, di Treviri, le classi si possono oggettivamente misurare in quanto si misura il reddito, si misurano i livelli di vita, le possibilità di vita, la partecipazione alla politica; vari parametri che in qualche modo sono assoggettabili a misurazione oggettiva: E poi le classi sociali possono essere più o meno organizzate politicamente, sindacalmente, possono avere maggiore o minore coscienza di sé, avere un'identità più o meno marcata e una storia. Se parliamo di dissoluzione delle classi sociali tradizionali, mi pare che questa riguardi soprattutto la dissoluzione delle classi in sé. Quello che è andato fortemente diminuendo, se non dissolvendo, negli ultimi 10, o forse 20, anni è ciò che si chiamava "coscienza di classe", "identità", "consapevolezza"; oltre alle forme organizzative, politiche e non. Nel mio lavoro di ricerca ho cercato di capire come si potessero ricostruire oggi le classi in sé, cioè le classi in qualche modo oggettivamente misurate in termini di reddito, di presenza politica. E ho cercato di farlo, scusate la modestia, a livello mondiale. Ho cercato di tracciare un profilo della stratificazione sociale, in Italia e in Europa e poi ho cercato di vedere, a livello del mondo, come sono oggi gli strati sociali, cioè accorpamenti di persone la cui posizione sociale è misurabile.

Quindi ho costruito una scala, che è una scala di disuguaglianze, che ha al vertice gli alti dirigenti delle grandi imprese transnazionali, i quali hanno un potere spesso superiore a quello di molti capi di stato. Al fondo di questa scala troviamo, nel mondo, i detenuti, i forzati nei campi di lavoro, gli schiavi per debito, i bambini che vivono per strada, persone senza casa, ricoverati coatti, rifugiati, profughi. Tra questi due lontanissimi estremi troviamo vari tipi di classi intermedie che vanno dai politici ai vertici dei maggiori partiti, ai professionisti, ai tecnici. Bisogna includere tra questi strati sociali gli anziani benestanti che in qualche modo influenzano, se non governano, fondi pensione che spostano masse di denaro, non molto lontane dal PIL italiano, da un capo all'altro del mondo. E poi operai, impiegati nell'industria in posizione più o meno sicura. E' un arco larghissimo e in questo sistema di disuguaglianze la globalizzazione ha introdotto una serie di realtà, darci una nuova fenomenologia che possa brevemente riassumere. Il potere economico e politico dello stato primo (alti dirigenti di imprese transanzionali, di banche, di organizzazioni internazionali), è diventato un potere mondiale assai superiore a quello di molti governi. Le direttive della banca mondiale e del FMI in tema di aggiustamenti strutturali dell'economia, o di organizzazione mondiale del commercio, condizionano il bilancio pubblico di decine e decine di paesi indebitati con l'Occidente. In secondo luogo, sono fortemente cresciute, con una marcatissima accelerazione negli ultimi 20 anni, le disuguaglianze di reddito ai due estremi della piramide, della stratificazione. Nel 1960 l'1/5 più ricco della popolazione mondiale, che si può stimare include quei quattro o cinque strati ricordati (dirigenti d'impresa, professionisti, docenti universitari), si divideva il 70% del PIL del mondo, mentre al quinto più povero toccava il 2,3%, il rapporto era di 30 a 1. Nel 1997 il primo quintile disponeva dell'86% del PIL mondiale, mentre il quintile più povero è sceso all'1%. Il rapporto è di 86 a 1. Da molte indicazioni, compresi i dati della banca mondiale, abbiamo superato all'inizio del 2001 il rapporto di 90 a 1. Questo a livello mondiale. E le disuguaglianze sono anche cresciute all'interno di molte società, in primo luogo di quelle che guidano la globalizzazione, gli Stati Uniti, il mondo anglosassone. Secondo i dati che provengono dall'osservatorio sui redditi dei dirigenti d'azienda, che non è gestito dall'estrema sinistra, ma è gestita da "hids and week" (?) che è una grande rivista liberista americana, il rapporto tra dirigenti esecutivi dei livelli più alti e quello della media degli operai e degli impiegati, quindi la media dei dipendenti, intorno al 1975 era di 41 a 1, a fine 2000 è passata da 480 a 1. E' aumentata di 10 volte. Parliamo di reddito complessivo che comprende anche quella da azioni, la proprietà immobiliare.

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Altra novità nella stratificazione del mondo globalizzato è che sono comparse nuove forme di disuguaglianze. L'instabilità, la precarietà ha caratterizzato per decenni la I rivoluzione industriale. La rivoluzione tecnologica, industriale, organizzativa in corso, la mancanza di orizzonti stabili caratterizza nuovamente una quota molto elevata di forza lavoro in tutto il mondo. Ci sono strati sociali di cui si preconizzava la scomparsa che invece hanno conservato le stesse dimensioni o le hanno accresciute. E questi sono i cosiddetti, ormai tutti ne parlano, lavoratori poveri. Sono persone che hanno un lavoro, un lavoro regolare, a tempo indeterminato, ma che stanno ugualmente sotto la soglia della povertà. E poi ci sono gli strati sociali la cui presenza sembrava legata all'esistenza di regimi politici totalitari e che invece si ritrovano inseriti pienamente nell'economia produttiva anche dei regimi che si sono succeduti. E' il caso degli ospiti forzati nei campi di lavoro. In Cina si stima ospitino oggi da 3 a 5 milioni di persone. Tutti gli strati sono diventati internamente più diseguali. In qualunque strato le disuguaglianze interne tra i due estremi dello stesso sono cresciute. Vi sono strati sociali che si consideravano limitati alle società del sud del mondo che si stanno sviluppando anche nelle società del Nord. E' il caso dei lavoratori di età inferiore ai 15 anni, è il caso dei lavoratori dell'economia sommersa, che è in espansione in Italia come in altri paesi sotto la spinta della globalizzazione. E in più vari frammenti, vari spezzoni come membri di famiglie senza capifamiglia, disoccupati di lunga durata a reddito zero. Infine per arrivare al fondo della scala, e poi parlando sempre di novità, è fortemente cresciuta la popolazione di minori e tra questi di bambini al di sotto dei 10 anni. In America Latina, nell'Asia Sud Orientale, in Africa, in India decine di migliaia di bambini conducono un'esistenza contrassegnata da droga, violenza, prostituzione. In Brasile si calcola che i "ninos de rua", bambini inferiori ai 15 anni che mangiano, vivono, dormono per strada, siano 8 milioni. Però in un paese sviluppato, moderno, civilissimo come la Francia, si stima che gli adulti senza casa che vivono in strada sia di giorno che di notte, siano 600.000. Per concludere, tra i componenti in peggiori condizioni, entro quest'ultimo strato, al fondo della scala sociale, vanno menzionati i rifugiati per cause belliche ed economiche. Nel 1995 il solo numero di coloro che avrebbe avuto bisogno di interventi d'urgenza era stimato dall'alto commissariato delle Nazioni Unite in oltre 22 milioni. Se non si guarda soltanto alle condizioni di emergenza, come fa l'alto commissariato, ma si guarda più in generale al problema dei rifugiati, il totale dei rifugiati in condizioni che la stessa Banca Mondiale definisce abiette supera i 50 milioni. Queste sono le principali novità del sistema di disuguaglianze nel mondo globalizzato, con le loro dinamiche. Esistono, come sono sempre esistiti, dei fenomeni di mobilità. Ci sono figli di contadini o di operai che

diventano imprenditori. Vi è una certa mobilità sociale ascendente, dal basso in alto. C'è anche qualcuno che scende da strati medi verso il basso. Ma queste propensioni non sono significativamente superiori, dicono gli studi, di quanto non fosse 50-80 anni addietro. Chi commette l'errore di nascere in uno degli strati, diciamo al di sotto del settimo (tra lavoratori poveri, braccianti, etc.) ha intorno al 70-80% di probabilità di vivere tutta la vita in quello strato. La mobilità sociale è fatta anche di fenomeni importanti di immobilità. Valerio ZANONE Immagino che il giro di tavola servirà a mettere in luce la pluralità di significati e di problemi che si richiamano al termine di globalizzazione, molto al di là del significato primario che riguardava essenzialmente i mercati finanziari. Qualche esempio su questa pluralità di significati: trovo nella posta di oggi l'invito di una conferenza di un professore dell'Università di Torino ad Alessandria sul tema "La globalizzazione della mafia". Nella stessa posta ho trovato un fascicolo di una rivista, "Telema", dedicata ai vari aspetti della globalizzazione e, tanto per fornire provocazione al dibattito, vi cito qualche titolo per mostrare come ciascuno veda la globalizzazione dal proprio specifico punto di vista. Il filosofo Emanuele Severino, che si tormenta sul potere della tecnica da ? in poi, ha scritto un articolo che si intitola "La tecnica domina", il prof. Aldo Carotenuto, eminente psichiatra e psicologo, ha scritto un altro articolo dal titolo "Il rischio è la solitudine", l'ideologo di destra Marcello Veneziani intitola il suo contributo: "Servono ancora gli stati nazionali?". Invece l'ideologo di sinistra Valentino Parlato intitola il suo "Per la sinistra è un'occasione". E l'occasione si riferisce agli spazi che la globalizzazione apre ai nuovi grandi paesi emergenti come la Cina e gli altri paesi asiatici. Quindi, la globalizzazione è anch'essa globale. E se ne possono vedere una pluralità di aspetti molto al di là, appunto, del significato iniziale che aveva come referente specifico il mercato finanziario. Io vorrei segnalare tre significati possibili, tre interpretazioni possibili del termine globalizzazione. Il primo è quello che riguarda l'inversione di carattere rivoluzionario, il rapporto tra spazio e tempo. In sostanza, la storia della specie umana è quella di un animale che ha impiegato alcuni milioni di anni per saturare lo spazio globale e poi in dieci anni è riuscito ad unificarlo in tempo reale. Occorre naturalmente chiedersi se questa rivoluzione è positiva, la risposta che personalmente sono portata a dare e che senz'altro nel fenomeno complessivo della globalizzazione gli aspetti positivi prevalgano nettamente sugli aspetti critici e problematici. Anche se un'assimmetria salta alla vista e in parte è già stata richiamata dal Prof. Gallino, l'assimmetria che deriva dalla globalizzazione riguarda la contrazione della sfera politica, soprattutto a livello rappresentativo degli stati nazionali.

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Noi siamo uomini del '900, apparteniamo ad un secolo che ha avuto come feticci collettivi la classe e lo stato. Gallino ha appena spiegato che la classe tradizionale si decompone, cambia, lo stato nazionale è sottoposto ad una severa restrizione dei propri poteri. Si attiva quindi questa rivoluzione della globalizzazione che è una moltiplicazione di opportunità. Però non è assistita da istituzioni altrettanto globali. Il problema è questo, il mercato è globale, le istituzioni che lo regolano non sono tanto globali quanto servirebbe. Allora da questo punto di vista la globalizzazione richiama una nuova dimensione del sistema delle regole, quindi del sistema delle istituzioni che potrà adeguarsi alla realtà della globalizzazione soltanto attraverso i tempi di un processo che non può essere breve, che sarà graduale, che come tutti i processi graduali che cercano di fermare una rivoluzione sarà sottoposto a molte contestazioni. Un esempio, seppure parziale, ossia regionale, di questo si può vedere nelle critiche che hanno accompagnato ed accompagnano il processo costituente della carta dei diritti fondamentali dell'UE. Un esempio regionale in quella direzione: tutti si sono esercitati a metterne in luce i limiti e gli aspetti insoddisfacenti piuttosto che il fatto, abbastanza rivoluzionario, di un'intesa che passa dagli accordi intergovernativi ad una dimensione costituente. Una seconda interpretazione molto diffusa della globalizzazione è quella che la considera criticamente un sinonimo dell'egemonia americana nel mondo. Anche questa interpretazione ha le sue buone ragioni per essere sostenuta. Per pedanteria filologica, il termine globalizzazione in realtà è un anglicismo, noi dovremmo dire mondializzazione: perché globalizzazione? Perché l'abbiamo importata dal mondo anglosassone, dalla pubblicistica anglosassone e la globalizzazione all'anglosassone ha rotto gli argini dopo la caduta del muro, la fine del comunismo internazionale, l'affermazione in campo mondiale del capitalismo americano. Qui ci sono una serie di fenomeni di resistenza. Alcuni sono interni alle stesse civiltà occidentali e sono già state richiamate da Gallino. Ossia, la globalizzazione suscita aspetti critici e resistenze, sia dal punto di vista territoriale, cioè incentiva il comunitarismo locale, sia, dal punto di vista sociale di quei ceti o gruppi che vengono sostanzialmente danneggiati nelle loro condizioni di reddito, di lavoro, di vita. E' evidente che una serie di attività professionali che non sono più convenienti nei paesi sviluppati diventano rapidamente obsolete, è evidente, mi par di capire, a parte i fondi pensioni di cui parlava Gallino, che la gente della nostra età tutto sommato ci rimetta, cioè il leader della globalizzazione è gente piuttosto dell'età del professor Monateri che di quella di Zanone. Quindi c'è tutta una serie di resistenze che si attivano. Però la resistenze maggiore è fuori dal mondo occidentale, è nelle altre aree culturali del mondo che vedono la globalizzazione come nient'altro che un altro nome dell'egemonia americana.

Bisogna tenere presente questa operazione di lifting per cui tutti noi passiamo le giornate appiccicate ad un telefono cellulare, però oltre alla metà degli umani viventi non hanno mai ricevuto una telefonata in vita loro. Quindi la globalizzazione non è inclusiva, ci sono grandi aree che sono escluse. Terzo punto: la globalizzazione è anche vista da molti come una competizione pressoché ineluttabile tra gli USA e l'UE, le due grandi aree sviluppate del mondo. Quindi nell'area europea si pongono problemi di svantaggio oggettivo che derivano dal fatto che la popolazione europea è più vecchia e meno propensa alla natalità di quella nord americana, che in Europa prevalgono politiche sociali piuttosto burocratizzate e che c'è un welfare di stampo tradizionalista che inceppa la competizione. E soprattutto che l'Europa ha un'attitudine inferiore a quella degli USA agli investimenti innovativi, a cominciare anche da quelli di cui non si dovrebbe parlare mai perché non è elegante, cioè gli investimenti militari. Per la ricaduta che questi hanno nel campo civile. Questo svantaggio competitivo tra USA e UE e un po' simboleggiato dal rapporto di cambio tra euro e dollaro. La moneta è in fondo soltanto un simbolo di queste differenze di competizione. Concludendo, le interpretazioni possibili sono molteplici, a me sembra che nella sua genericità e varietà di significati, la globalizzazione sia un fenomeno positivo, non senza grandi sfide: rivedere se anche la sfera individuali incomincia ad estendersi così come hanno fatto i mercati. Marco DEAGLIO I minuti sono pochi… sarà molto sintetico, eventualmente se ci sarà un secondo giro vedrò di precisare qualcosa. Anch'io mi rifarò a quel signore con la barba grigia nato a Treviri che non si può più nominare al giorno d'oggi, perché al di là dell'ideologia, la sua rimane una delle chiavi interpretative sicuramente più importanti e convincenti con la quale guardare ai grandi cambiamenti storici. Allora, che cosa si può vedere in questa chiave? Cambia il modo di produrre, questo è chiarissimo. Forse la caduta del muro di Berlino arriva nel momento in cui il modo di produrre è effettivamente cambiato e si può estendere su tutto il mondo. Cosa è cambiato nel modo di produrre. Intanto che ci sono nuovi fattori produttivi non facilmente equiparabili a quelli precedenti. Noi continuiamo a parlare di capitale e lavoro, ma sono un capitale e un lavoro molto diversi da prima. Il nuovo capitale è essenzialmente quello umano, c'è un saper fare, con tutto quello che la teoria economica ha detto sul saper fare. O è capitale finanziario allo stato puro che gira rapidissimamente il mondo, non si identifica più facilmente con grandi concentrazioni fisiche di capitale, quali erano le acciaierie, le ferriere… Il nuovo lavoro è un lavoro meno garantito, che ha un elemento di rischio come uno dei suoi fattori importanti e si chiede al lavoratore in vario modo di accettare e gestire questo rischio.

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Nuovo modo di produzione, non fattori produttivi, nuova distribuzione del prodotto e forse nuove classi sociali (ma nelle classi sociali non mi addentro più di tanto perché non faccio il sociologo e quindi non so bene dove inizia e finisce una classe sociale). Sicuramente i detentori del capitale umano e finanziario hanno una remunerazione che, tra l'altro, sfugge largamente alle statistiche e che oggi è data dalle stock options: tutta una parte variabile, sempre riferita ai ricchi, molto consistente, che non sta nelle statistiche salariali. Dall'altra parte abbiamo un nuovo proletariato (Gallino e Zanone lo hanno già messo in luce e abbiamo una contrapposizione nascente tra queste due persone). Come avviene tutto, come si sviluppa questa commedia o tragedia che dir si voglia. Intanto si sviluppa sulla base di un forte progresso tecnologico, non ci sarebbe globalizzazione se non fosse venuto meno il costo delle distanze. Noi abbiamo il fatto estremamente interessante che i progressi tecnologici su trasporti e comunicazione sono molto più rapidi del resto. Essendo più rapidi del resto la competitività dei prodotti diventa molto più generale, quindi abbiamo la credibile proporzione di un mercato globale, là dove prima i mercati erano comunque fisicamente molto limitati. Vediamo il formarsi di un mercato internazionale dei capitali, ma anche il mercato internazionale del capitale umano, di questa classe che io chiamavo nuova borghesia, ma non vorrei con questo termine andare a toccare degli schemi…; insomma, quelli che si appropriano delle stock options sono persone che oggi vanno in tutto il mondo, non hanno più paese, usano il tempo reale in qualunque parte del mondo. Ma abbiamo anche una internazionalizzazione del lavoro, che si vede con le emigrazioni, secondo una stima che ho visto in questi giorni si calcola che negli USA mentre il Bureau of…. Stima ufficialmente 275.000 immigrati illegali all'anno, sarebbero stato 800.000 da dieci anni a questa parte, quindi molto di più. Questa è tutta gente che gira. In tutto questo abbiamo un declino della classe media tradizionale che sicuramente si vede. Ora, è suggestivo applicare a questi detentori di capitale umano e finanziario di tipo nuovo gli schemi di comportamento che Marx, nel Manifesto del comunismo, applica alla borghesia tradizionale, cioè una appropriazione del surplus. Quando noi parliamo di creazione di valore per gli azionisti, in molte realtà abbiamo spostamento di valore da qualcun altro, … in genere, verso gli azionisti. È di questi giorni la crisi energetica della California e vi vediamo delle imprese che dovrebbero lavorare su un arco di tempo di 20-30 anni e che, invece, vengono valutate di trimestre in trimestre. E quindi cercano di portare beni al sole, di portare fuori tutto ciò che c'è e non fanno investimenti, nemmeno le manutenzioni. Ma quello che è successo in California è accaduto con le ferrovie inglesi, con l'acqua, sempre in Inghilterra, etc. Almeno nei servizi pubblici questa cosa non funziona bene, mentre invece funziona in altri ambiti.

Detto tutto questo io credo che la prima fase della globalizzazione, dal '90 alla crisi asiatica sia stata un gioco a somma positiva anche se a somma positiva debole. Cioè credo che, bene o male, grazie alle serie di innovazioni tecnologiche, all'apertura di mercato, ci abbiano guadagnato tutti, anche se in misura diseguale. La speranza di vita è aumentata dappertutto anche nei paesi più poveri, anche in quelli dell'AIDS, o in quelli delle guerre civili, abbiamo un anno, un anno e mezzo in più di speranza di vita. In realtà, la povertà a livello mondiale, in termini relativi, poi ci sono vari modi di misurare la povertà, sembra che sia modestissimamente regredita, anche se in termini numerici è un poco aumentata. In particolare, India, Cina e Sud-Est asiatico che da soli fanno due miliardi e mezzo di persone su sei, hanno visto, sì i divari, soprattutto in Cina, aumentare fortemente, ma mediamente un miglioramento non solo delle condizioni materiali, ma anche delle prospettive di vita. Quindi la crisi asiatica è probabilmente uno spartiacque perché non abbiamo nella globalizzazione come in altre cose, dei rendimenti decrescenti. Le prime fasi, le prime dosi di globalizzazione vanno benissimo. Noi diamo a della gente che sta nei villaggi la possibilità di mangiare una volta al giorno, prima mangiava mezza volta al giorno. Quando poi gli chiediamo di lasciare il villaggio perché il mercato vuole questo, allora si generano dei costi. Quindi abbiamo rendimenti decrescenti e costi crescenti. Secondo me anche il modo in cui è venuta fuori la crisi asiatica fa vedere tutto questo. E da allora in poi abbiamo delle tendenze di divaricazione rapidissime, io le vedo, una parte delle mie ricerche sullo studio delle capitalizzazioni di mercato: cento maggiori società hanno preso uno sviluppo estremo, hanno guadagnato dieci punti percentuali sulla capitalizzazione del mercato globale, Microsoft capitalizzava, prima della sua caduta di qualche mese fa, più o meno come tutta la borsa italiana. Microsoft è nata 19 anni fa. In più, in tutto questo, c'è il ruolo centrale degli Stati Uniti. Il sistema ha dei propri organi, gli Stati Uniti sono la grande fucina che attira le risorse finanziarie e umane, sviluppa le tecnologie, usa i soldi di tutto il mondo e naturalmente li usa soprattutto a proprio vantaggio. Se proseguiamo ancora nello schema marxiano, e mi avvio alle conclusioni, noi a questo punto vediamo l'inizio di una resistenza a queste tendenze di globalizzazione. Io vedo una specie di piccolo e oscuro fatto simbolico come fine di questa fase. Nel settembre di quest'anno, mi pare, nel porto di Aden un … americano di nome … fu fatto saltare in aria da due terroristi. Ci furono 17 morti e 39 feriti. 17 morti sono più di tutti i morti che gli Stati Uniti hanno avuto in tutti gli interventi militari dalla guerra del Golfo ad allora. Cioè, fino ad allora, un certo modello di gestione dei conflitti senza costi umani funzionava, da allora, qualcosa si è inceppato. Credo che il compito storico di chi vuole guardare le cose senza ideologie sia di vedere come si possa evitare

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che questo conflitto abbia delle somme pesantemente negative. Bruno CONTINI Mi è facile agganciarmi agli interventi di Gallino e Deaglio, che in primo luogo, hanno osservato come la globalizzazione provochi disuguaglianze. Si è parlato di crescenti disuguaglianze, crescenti divaricazioni. Ancora non è stata evocata la parola flessibilità, ma la evocherò io. Per far fronte alla sfida della globalizzazione si dice ci vuole grande flessibilità. Flessibilità, nel mercato del lavoro, ma non solo, flessibilità nel modo di produrre. Quella flessibilità che fa sì che da un giorno all'altro una grande corporation decida di rilocalizzare i propri impianti produttivi dalla Gran Bretagna alla Croazia, o qualcosa del genere. Gallino e Deaglio hanno parlato delle grandi disuguaglianze che si osservano a livello mondiale. Io vorrei fare qualche osservazione al livello che ci è più vicino, ma che non è meno importante. Al livello europeo, ma anche solo italiano, le disuguaglianze aumentano, le disuguaglianze di reddito aumentano in tutti i paesi industriali. La domanda che bisogna porsi è: le disuguaglianze sono una conseguenza della flessibilità? Sono l'una causa delle altre? Credo di poter dire questo: oggi in Europa ci si chiede come trovare soluzioni al problema della disoccupazione. Se si osservano le entità delle disuguaglianze nei paesi industrializzati e il potenziale lavorativo, cioè il rapporto tra le persone che lavorano e la popolazione, ci si accorge di una cosa molto preoccupante: esiste una sorta di trade off. Laddove le disuguaglianze sono maggiori c'è una capacità di creare lavoro più elevato. Il caso degli Stati Uniti è il più emblematico, ma non l'unico. In Europa, paesi come l'Irlanda e il Regno Unito, sono paesi con livelli di disuguaglianze di reddito non molto diversi da quelli degli Stati Uniti - diversi, ma non così diversi - e, sicuramente, molto più forti di quelli di paesi (come il nostro, la Germania, la Francia) dell'Europa continentale. Il potenziale di lavoro di Irlanda e Regno Unito è assai più alto che non nei paesi come il nostro. Sembrerebbe quindi esserci una sorta di trade off di cui bisognerebbe farsi carico e bisognerebbe se siamo costretti, questo è il problema, per far lavorare la gente, ad accettare delle disuguaglianze crescenti. Questa mi pare essere la sfida. Io non ho la risposta, sebbene non mi sento di sottoscrivere l'opportunità di un modello americano per le economie europee. Un modello americano e cioè un modello in cui il tasso di disoccupazione è sotto il 5% e quindi tutti, o quasi tutti, sono al lavoro, non mi sento di sottoscriverlo perché è un modello in cui la probabilità di rimanere incastrati nelle fasce di reddito più sfavorite, nel primo strato della distribuzione dei redditi, sono stratosfericamente più elevate che da noi. In questa graduatoria Regno Unito e Irlanda sono più vicini agli USA che a paesi come il nostro.

Io oserei dire una cosa: forse quando si discutono problemi di questo genere, c'è il rischio che le statistiche siano un po' ingannevoli. Intendo che si dice "I tassi di disoccupazione europei sono un po' sotto il 10%, in Italia siamo nella media". Forse se contassimo bene le persone che lavorano i tassi sarebbero diversi perché, al di là dei problemi di economia sommersa che sicuramente ci sono e coincidono, forse esiste un atteggiamento culturale delle persone che rispondono alle indagini. Se negli USA ad un signore viene chiesto "Hai lavorato la settimana scorsa?" e se questo signore la settimana precedente ha lavorato tre ore, risponde "Sì". Se la stessa domanda viene posta in Italia, la risposta risulta "No", cioè c'è proprio una differenza culturale. Io credo che ci potrebbero essere degli sviluppi statistici e che le differenze che si riscontrano nelle statistiche ufficiali, diciamo, tra l'economia americana e quella italiana, forse non sono così stratosferiche, per quanto riguarda il funzionamento del mercato del lavoro, rispetto a quanto ci continuiamo a dire. Quindi, forse, questo significa anche che le disuguaglianze di reddito osservate in Italia sono maggiori di quanto appaiano, perché quelle parte di lavoro, … jobs, che le statistiche non colgono sono tra i lavori retribuiti male, con una scarsa mobilità verso l'alto. Marco BRUNAZZI Pochissime considerazioni, a partire intanto da un'osservazione, che del resto era in questa sede prevedibile: si sono sentite molte voci finora e, naturalmente, ben lontane da quella che è quasi un rumore di fondo della divulgazione giornalistica, a vario livello, sulla globalizzazione e sulla sua presentazione. Le voci sentite, come era prevedibile, data la caratteristica di chi è interessato, sono invece più obiettive e molto più problematiche. E del resto la problematicità discende, mi sembra, anche dalla necessità di disporre di categorie conoscitive più puntuali. Le osservazioni fatte in apertura da Gallino, e poi riprese anche da Deaglio e dagli altri, mi fanno riflettere sulla necessità di andare ad un approfondimento sul concetto stesso di classe, come lo stiamo oggi utilizzando, nel senso che il parlare di dissoluzione delle classi ci appare un fenomeno tradizionale, evidente, mentre per parlare di formazione di nuove classi forse bisognerebbe capire un po' meglio: classi, come e in che senso, nuove. Non ho competenze specifiche in questo settore. Sembra che l'intero fenomeno per certi versi si presenti con caratteristiche nuove, ma per altri versi riproponga delle realtà molto vecchie. Una realtà nella quale, per esempio, è stato già ricordato, ciò che emerge è la crescita delle disuguaglianze, la crescita forte delle disuguaglianze di reddito, la flessibilità del lavoro, che poi significa in sostanza uno sfruttamento, per usare un linguaggio datato, della forza lavoro medesima. Per non parlare del fatto che. Anche per le presunte nuove classi, pur

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sembrando ridursi l'area del lavoro dipendente in senso generico-formale, mi domando se si stia riducendo anche in senso sostanziale, in senso strutturale. Mi domando cioè se le vecchie categorie di proprietà dei mezzi di produzione, o di produzione di plusvalore e da che parte finisca l'appropriazione del medesimo, non siano riferibili anche a queste presunte nuove classi di lavoratori autonomi, o addirittura ritenuti sulla soglia della piccola imprenditorialità, che per altri versi potrebbero essere invece ritenuti nient'altro che varianti di un lavoro di tipo dipendente. Questo implica la necessità di un approfondimento di questi concetti, anche perché, lo ricordava molto bene Zanone, queste trasformazioni in atto nella realtà delle classi sociali ha già avuto dei risultati evidentissimi nella messa in crisi, non soltanto delle classi sociali così come le abbiamo conosciute nel corso della seconda metà dell'Ottocento e di tutto il Novecento, non solo dello Stato Nazionale, ma è il concetto stesso di rappresentanza, di democrazia rappresentativa che pare in forte difficoltà rispetto a questa trasformazione. La democrazia non è soltanto l'esercizio di un diritto elettorale e molti tendono a considerarla così, ma implica almeno due fattori decisivi, uno è quello della partecipazione, l'altro quello della trasparenza. Per ciò che riguarda la partecipazione, è sotto gli occhi di tutti la messa in crisi delle forme tradizionali di aggregazione sociale e di partecipazione dei soggetti sociali alle decisioni propriamente politiche e collettive. Dalla crisi dei partiti, alla crisi di movimenti direi collaterali ai partiti o sostitutivi degli stessi. Per ciò che riguarda la trasparenza basterebbe ricordare che i fenomeni di cui sono piene le pagine dei giornali, dai proiettili all'uranio, alla mucca pazza, sono lì a dirci che decisioni cruciali per la vita delle persone sono prese al di fuori della conoscenza delle stesse istituzioni politiche, che dovrebbero avere voci in capitolo, e sono prese sulla base di criteri che sono quelli di una massimizzazione del profitto senza regole di confine. Ora, mi domando se non è quest'altro versante che va sottolineato con forza. Cioè che questa trasformazione in atto, questa dissoluzione di classi tradizionali, non solo mette in crisi vecchie forme di rappresentanza politica, vecchi assetti, come sono quelli degli stati nazionali, ma stia mettendo in crisi quello che sembra essere un patrimonio irrinunciabile, almeno formalmente, dichiaratamente, anche del mondo globalizzato, cioè la democrazia rappresentativa come forma politica. Si ha l'impressione che quest'ultima tenda a diventare una mera forma e perda rapidamente la sostanza di cui quel patrimonio, valore, che è la democrazia rappresentativa dovrebbe essere costituito. Mi fermo qui, richiamando la necessità di riconnettere le trasformazioni economiche in atto, non soltanto alla loro dimensione sociale, ma anche alla loro evidente ricaduta sul piano politico. Pier Giuseppe MONATERI Mi sembra ci sia ormai una vena marxiana piuttosto consistente attorno a questo tavolo, inaspettabile

all'inizio. Mi sembra valga la pena di essere inseguita soprattutto con riferimento al mio campo specifico che è il diritto, per vedere poi cosa capita rispetto ai principi della rivoluzione francese cui si accennava prima. In questo senso: nel diritto globalizzato, nel diritto internazionale è abbastanza evidente come si stiano creando le vecchie classi sociali. Si sta creando la classica forbice tra capitali e lavoro in modo molto ottocentesco. Quella che era un'attività fatta, soprattutto a livello artigianale, da tanti studi legali di professionisti diventa un'attività di impresa con pochissimi proprietari, pochissimi padroni, i quali stanno tutti o a Londra o a New York, con una miriade di non più professionisti, ma di stipendiati che stanno in tutte le parti del mondo. …. ha studi che vanno da Bangog a non so quale isola del Pacifico, fino alle basi americane e inglesi. Tutti i vari studi italiani, quelli torinesi, chi prima, chi dopo, stanno per essere comprati dagli studi inglesi e americani, quando gli inglesi non sbarcano direttamente nel mercato italiano. Allora qui si crea una situazione in cui il diritto che conta a livello transnazionale, a livello d'impresa della globalizzazione, dell'impresa dislocata a livello planetario, è diviso in due. C'è un diritto che è quello che deve essere amministrato dai grandi studi di Londra e New York e loro subordinati, c'è poi un diritto locale che è fatto di piccoli rimedi, non so, il decreto ingiuntivo contro il creditore, piuttosto che il rimedio contro il trasportatore che non mi consegna il pacco. Tutto il resto non conta più niente, nel senso che avere un parlamento e una legislazione conta fino a pagina 5. L'unica cosa che conta è avere dei tribunali efficienti, ma nel senso che i piccoli debitori paghino velocemente il loro debito. Tutto il resto sono chiacchiere. I contratti li fanno gli studi, sulla base delle procedure americane, per cui anche l'avvocato italiano, se deve fare un contratto, lo fa sulla base di una traduzione, lo studio americano la vuole così, non vuole l'omologazione ai concetti giuridici italiani, perché non li domina, quindi vuole una traduzione letterale. Tanto poi la causa va in arbitrato e se la gestisce lo stesso studio americano. Quindi la legge perde di centralità in questo gioco, nel momento in cui si usa la legge, semmai la si usa come esecuzione di un controllo che si è fatto altrove. Gli stati nazionali contrattano con il FMI piuttosto che con la banca certi aiuti. Il FMI o la banca impongono determinate legislazioni; ad esempio impongono all'Eritrea la legislazione sull'environment, in un paese in cui non ci sono industrie, e così via. Per cui la legge è l'esecuzione di un contratto sovrannaturale. Le costituzioni a questo punto sono degli statuti regionali. Se ragioniamo in questi termini guardando il diritto, è evidente che tutto ciò che aveva a che fare con la Rivoluzione Francese è saltato, non è più un problema di legge e del giudice bocca della legge, è un problema

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di professione giuridica. Il diritto è fatto dalla professione giuridica, a livello, peraltro, mondiale. Quindi nessuna rappresentanza, nessuna rappresentatività. Ma, in secondo luogo, è anche vero che delle varie definizioni di globalizzazione, la più calzante nel mio settore è quella di americanizzazione. Non c'è nient'altro se non americanizzazione spinta. E non a caso, qui si può cercare cosa fare, gli intellettuali americani hanno i nervi molto scoperti su cose che non ci saremmo aspettati, ad esempio la costituzione europea. Un professore di … non a caso reagisce alla costituzione europea dicendo "Qui c'è un problema di dignità umana, allora faccio un paper in cui dimostro che l'antecedente del concetto europeo dignità umana fosse il concetto nazista di onore". Poi si parla di Europa come grossraum, ne parlava Adenauer. Ma chi prima di Adenauer parlava di Europa come grossraum? Ne parlava Carl Smidth Allora non c'è forse una continuità ideologica tra C.S. e Adenauer? Ora, questo è palesemente un modo di fare insopportabile, ideologico e assolutamente scorretto. Tutti hanno parlato di Europa come grossraum ed è un'idea che può essere in mente a milioni di europei, ma mettere insieme in questo modo Adenauer e Carl Smidth è ideologico e scorretto e significa che gli americani hanno i nervi scoperti. E non sono più gli amici e i compagni di strada di ieri e l'altro ieri, ma sono della gente un po' diversa. È veramente gente in competizione e in rivalità. E stanno iniziando loro questa competizione e questa rivalità. Ciò significa anche che, se c'è questo modo di fare nell'America nei confronti dell'Europa, noi in qualche modo dobbiamo prendere atto di un sorgente antiamericanismo che deve essere portato alle sue logiche conclusioni. Nel senso che un europeo essere antiamericano è un po' difficile per una persona normale, perché l'antiamericanismo vero è di estrema destra o è di estrema sinistra. Però in realtà c'è e ci può essere in questo modo spazio per un antiamericanismo normale. Nel senso che… non vuole vivere in una società americana, per lui vivere in una società come quella italiana o francese ha più senso, anche da un punto di vista semplicemente estetico. Allora si devono dare in qualche modo voce e spazio a queste istanze. Secondo me delle varie definizioni, quella di americanizzazione è la più pregnante, quello che coglie meglio il fenomeno e da questo punto di vista c'è molto spazio per l'Europa da giocare, simbolicamente e non simbolicamente. Non so dal punto di vista economico perché non sono un economista. Da quel punto di vista mi sembra che la battaglia sia perduta in anticipo. Franco REVIGLIO Io prendo dalle diverse letture che si sono date in questa tavola rotonda, forse era inevitabile parlando di globalizzazione.

Ricorso che quando abbiamo pensato a questa tavola rotonda io avevo in mente un certo modello di globalizzazione e se mi consentite lo metto sul tavolo. Con qualcuno dei miei colleghi, ad esempio, Zanone e Deaglio, mi sento in sintonia. Io avevo chiesto di fare questa tavola rotonda perché mi ero accorto che il mercato e l'apertura degli scambi, che sono stati il fattore dinamico della crescita nell'ultimo secolo, presentano al loro interno nuovi squilibri, nuove disuguaglianze che richiedono interventi pubblici nuovi. Lo Stato deve dare le cose che non ha saputo fare in passato meglio. Vi parla uno che è nato come un interventista, si è pentito e quindi è molto critico nell'intervento pubblico nell'economia. Proprio in questo momento ci rendiamo conto di come diventi importante riportare le regole collettive in nuovo quadro e bene lo ha detto Zanone, in cui le istituzioni vengono rifondate. Cerco di spiegare meglio Ci sono due modi di vedere il problema. C'è un modo internazionale e uno nazionale. Cominciamo a guardare i numeri fondamentali dal punto di vista internazionale. L'ultimo secolo, i dati sono della Banca Mondiale: la produzione mondiale è aumentata di 20 volte in termini fisici, più del 3% annuo composto; la popolazione mondiale è aumentata solo di quattro volte ("solo", rispetto al 20). Significa che la disponibilità per abitante di beni e servizi è aumentata di cinque volte. C'è stato in questo secolo, un aumento di benessere che non ha riscontro nella storia del genere umano. Ma purtroppo la distribuzione di benefici è diseguale. I paesi industriali ne hanno beneficiato molto di più, se la media è più cinque volte, per i paesi industriali la media è più sei volte. I paesi in via di sviluppo invece hanno visto un aumento di questi beni e servizi solo di tre volte. La globalizzazione è un fattore di benessere generale, ma anche, insieme, un fattore di crescenti disuguaglianze. Io non vorrei buttare via la globalizzazione perché l'apertura dei mercati, insieme con l'innovazione tecnologica, che attraverso l'apertura dei mercati si propaga, ha fatto in questo secolo delle cose straordinarie. Io dico sempre ai miei studenti che Marx non lo poteva pensare, ma i paesi dell'Est sono caduti perché vi era una censura. L'informazione come strumento di diffusione delle idee e della politica era vietata e quindi si è impedito di vendere alle imprese il software, che è stata la vera rivoluzione degli anni '60-'70, direi più ottanta. In Italia lo si comprava dal droghiere per cui abbiamo inventato il sistema delle piccole e grandi imprese che sono efficienti come le grandi. Ma chi lo avrebbe detto negli anni '50? Questa diffusione, innovazione di processo attraverso le tecnologie informatiche portate dalla libertà degli scambi hanno fatto la rivoluzione. E badate bene che un'altra rivoluzione è in corso, ancora più grande, perché non si sono soltanto aperti i mercati, ma si è realizzata anche una diffusione degli investimenti su una dimensione mondiale.

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Quella che certi economisti marxisti chiamano il potere delle multinazionali è stato uno strumento, qualche volta sì di sfruttamento, ma in gran parte uno strumento di crescita economica e di benessere. Voglio ricordare che il reddito africano nel 1950 era l'8,7% di quello americano, nel 2000 soltanto il 4,8%. Qui abbiamo il problema dello squilibrio crescente tra aree (e potrei citarvene altre), ma, badate, questo non si combatte dicendo no alla globalizzazione, non facendo le riforme che portano all'apertura dei mercati e ai sistemi economici più competitivi. Questo si combatte facendo proprio quelle riforme e mettendo in atto, io non so come farlo, dei sistemi di governo mondiale che non siano dominati soltanto dall'etica del profitto. Profitto che è pure importante perché esso si giustifica come categoria in quanto premio di chi rischia. E attraverso il rischio fa crescere il benessere collettivo. Ma quando non è più un premio per un rischio diventa una rendita e bisogna combatterlo. Io dico, quindi, il profitto ha diritto di cittadinanza, però deve essere profitto vero e, in ogni caso, a livello internazionale occorre modificare gli squilibri che si determinano attraverso opportune iniziative. I paesi industriali devono aumentare i doni alle aree più arretrate, ad un certo tempo tirare anche la cinghia e devono, in secondo luogo, continuare ad aprire i loro mercati ai loro prodotti anche se questo comporta dei grandissimi problemi, per esempio una disoccupazione strutturale crescente nei settori tradizionali. Quindi problemi al nostro interno che creano nuove dicotomie, nuovi squilibri di classe sociale, perché mettono i poteri contro i poveri, o i quasi poveri contro i più poveri. Quindi io dico, gli scettici della globalizzazione sbagliano nel considerare la globalizzazione come causa di minor benessere e maggiore povertà, ma hanno ragione quando dicono che la globalizzazione deve essere governata. Faccio l'esempio di un problema che è diventato rilevantissimo in questi ultimi quattro anni. Il problema del global… È un problema in cui gli economisti pubblici dimostrano che il mercato non funziona e bisogna correggerlo, ma occorre correggerlo, non già con misure nazionali che non bastano perché le esternalità corrono sul mondo, ma con un governo dell'economia mondiale. L'utopia di governo dell'economia mondiale deve diventare una realtà, altrimenti se non denunciamo questi fenomeni, creano grandi disastri per le generazioni future. Io credo che i paesi industriali debbano aiutare questo processo dando anche una maggiore disponibilità a ridurre la crescita economica. Perché gli americani si sono disincagliati dall'accordo sul global…? Perché questo implica la riduzione del tasso di crescita, del tasso di consumo. Io non posso dimenticare che la tecnologia deve essere incentivata perché è la tecnologia a liberarci dal vincolo. Deve essere incentivata aumentando il costo di certi sistemi di produzione e di certi prodotti che sono inquinanti e che toccano le risorse non riproducibili.

Sono stato presidente dell'ENI per sette anni e non posso dimenticare che il 90% dei problemi dell'inquinamento deriva dalla combustione dei combustibili fossili. Ora, diventa necessario investire per trovare forme di energia alternative. Un'ultima battuta: la globalizzazione produce dei fortissimi e crescenti squilibri a livello nazionale. Io non sono un sociologo, ma dico che i poveri, gli emarginati, sono diversi oggi rispetto a 20-30 anni fa. Io sono un riformista, mi piace che Blair dica che il vero problema è investire nelle aree emarginate delle città per aiutare la gente ad uscire da situazioni di arretratezza. Perché gli emarginati, sempre più, sono persone che non riescono a inserirsi in questo processo produttivo che distrugge certi valori tradizionali della società contadina, ma c'è poco da fare, è così. Bisogna ritrovare il ruolo della politica che non è più quella di 30-40 anni fa, ma deve essere una politica che prende atto dei cambiamenti e cerca di governarli. I sistemi politici devono essere riformati. Ho appena scritto un paper sull'incapacità degli europei di riformare i loro sistemi politici. Il problema del sistema politico, cioè di chi fa le regole è un problema veramente centrale se si vuole dominare la globalizzazione. Mi trovo davvero in sintonia con alcuni rilievi di Zanone e Deaglio, mentre Contini è più laburista. Gli economisti mi pare abbiano una convergenza. Franco BROSSELLO Il punto che vorrei sottolineare riguarda il fatto che siamo in presenza di fattori d'ordine strutturale, nel senso che si potrebbe ritenere, da parte di qualche persona poco informata che alla globalizzazione possa capitare lo stesso destino che, in una certa misura, è capitato allo slogan della new economy, slogan oggi in crisi. Si pensava che il ciclo non esistesse più, che il corso delle azioni dovesse salire all'infinito, invece le vecchie regole dell'economia sono riemerse. In realtà, nel campo della globalizzazione, come è già stato messo in evidenza da Deglio, siamo in presenza di fattori di ordine strutturale che sono destinati a rimanere sul campo nel lungo e nel lunghissimo periodo, indipendentemente dal ciclo della borsa o dal medio periodo. Questo produce il fatto che la figura centrale del processo di produzione, per quanto riguarda il rapporto di classe, non è più il lavoro indistinto, ma è lavoro specializzato. Questo significa che siamo di fronte alla scomparsa definitiva della figura dell'operaio massa; in particolare, al centro del processo di produzione, nel passaggio della vecchia economia industriale, tradizionale, del fordismo, alla nuova economia del sapere e dell'informazione, si vede l'emergere di nuovi protagonisti. Nuovi protagonisti che sono i portatori del capitale umano. Vorrei mettere in evidenza che siamo di fronte a figure diverse da quelle del lavoratore tradizionale. È pur vero che nel quadro della globalizzazione assistiamo ad una

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concentrazione di ricchezze, ad un accentuarsi di divari, tuttavia al centro del processo abbiamo delle persone che sono titolari del fattore di produzione, che è appunto il capitale umano. I riflessi che si hanno in termini di comparsa di nuovi soggetti sociali devono anche mettere in conto lo stato della globalizzazione dei diversi settori. E' stato giustamente ricordato che la globalizzazione ha preso origine nel settore finanziario che vi sono processi di liberalizzazione anche sul fronte commerciale e che vi sono fattori di carattere nuovo per quanto concerne il mercato internazionale del lavoro. Se vogliamo, il mercato del lavoro è quello meno globalizzato rispetto al mercato finanziario (globalizzato al 100%) e al mercato delle merci (ampiamente globalizzato), nel senso che esistono delle forti resistenze da parte dei paesi centrali dell'economia ad accettare il libero trasferimento della popolazione, non ultimo per ragioni di difesa del livello dei salari. Tuttavia, nonostante queste battaglie di retroguardia che tendono a limitare, per quanto possibile, i flussi migratori, i flussi migratori esistono e assistiamo ad un forte trasferimento di popolazione a livello mondiale. Con l'avvertenza che a questo punto troviamo due tipi di classi perdenti all'interno dei singoli paesi. Da una parte abbiamo le persone titolari di capitale umano, di bassa qualificazione, che non sono in grado di competere a livello internazionale, in particolare che non sono in grado di utilizzare in modo pieno le nuove tecniche. Dall'altra parte abbiamo la presenza di un sottoproletariato che deriva dai flussi migratori. Per ora sembra di capire che queste due sottosezioni di strati perdenti, quella nazionale e quella derivante dall'immigrazione, rimangano differenziate, non siano in grado di dar vita ad una coalizione. Ma nell'ipotesi in cui, in futuro, questi due gruppi dovessero rafforzare i loro legami, assisteremmo all'emergere, nella misura in cui questi vecchi discorsi hanno un senso, di un nuovo protagonista con cui occorrerebbe fare i conti all'interno dei singoli paesi. IL DIBATTITO Stefano MONTI BRAGADIN 3 provocazioni … Una a Monateri: se i mondi piccoli si deconfinano, siamo di fronte ad un fenomeno che ha grandi precedenti storici, non è una cosa nuova e quindi non dovrebbe neppure preoccuparci più di tanto. Io stavo pensando, mentre parlavate, ai mercanti per i quali il mondo era deconfinato. Che andassero lungo le vie del sale, piuttosto che quelle della seta, del mare o lungo le vie carovaniere, per loro il mondo era deconfinato. Non credo che la formamentis di un operatore contemporaneo ai fini della commercializzazione a livello mondiale sia molto diversa dalla formamentis del mercante fiorentino, veneziano, genovese, olandese e così via. Quindi sono fenomeni antichi in forme nuove, cosa è veramente cambiato è il rapporto spazio/tempo. Per cui gli

spazi non richiedono più i tempi e lo strumento tecnologico ha reso possibile questa rivoluzione. La comunicazione è immediata. Seconda considerazione, il diritto fatto dai professionisti. Anche il diritto dei mercanti era un diritto fatto dai professionisti. La ius comune dei mercanti è un qualcosa che si ferma spontaneamente attraverso la pratica e vincola tutti. Monateri ha detto che siamo americanizzati e perciò il rapporto è asimmetrico, non simmetrico come potrebbe esserlo quello dei mercanti la cui interazione porta alla formazione spontanea di un diritto. Allora il grosso problema si direbbe quello di rendere meno asimmetrico un rapporto che si presenta tale per una serie di ragioni. Ultimo spunto: è vero che il grande trascina tutti in una logica di grandezza, però, quando il mondo è così deconfinato, tutto quel che è piccolo riappare. Nell'infinitamente grande si ripropongono tutta una serie di spazi per i piccoli. Questa è forse la ragione per cui in un quadro di globalizzazione persino lo spirito di comunità ritrova uno spazio. In un grande mondo globalizzato possono riapparire tanti etnocentrismi e non solo spirito di comunità positivamente inteso. Qui c'è un problema di organizzazione del governo e di organizzazione della convivenza pacifica, perché il mondo globalizzato non è affatto un mondo pacificato come potrebbe sembrare. Infine anche nei lavori noi pensiamo ad un mondo globalizzato in cui tutto è superlativo, ma un mondo globalizzato dal punto di vista dell'organizzazione economica non esclude la piccola, micro economia quasi di quartiere. E in un mondo in cui l'organizzazione su vasta scala è tutto, mi pare di veder rinascere moltissima economia artigianale o parartistica, incardinata in una possibilità di realizzazione individuale. Franco REVIGLIO Se posso fare un commento ad un punto sollevato da Monti Bragardin, la globalizzazione porta alle forme di secessione o di divisione. La spiegazione sulla nascita della Lega in Italia e di movimenti simili in Europa l'hanno data alcuni economisti dell' , secondo i quali gli industriali del Nord negli anni 50 avevano bisogno dei mercati di sbocco del Sud, ora con la globalizzazione non ne hanno più bisogno. Quindi il Nord non è più disponibile ad aiutare il Sud come prima. Questo può portare in alcuni casi, dove la cultura non è relativamente omogenea come in Italia, a problemi etnici o addirittura a secessioni. Questo è un altro effetto negativo della globalizzazione, che occorre governare. La necessità di una nuova forma di governo a livello sopranazionale è il problema centrale. Luciano GALLINO Vi è una certa convergenza sul fatto che la globalizzazione possa avere degli effetti positivi, ma non possa essere lasciata a se stessa, alla tecnologia, al mercato, né può essere lasciata al dipanarsi a quel progetto politico, giuridico, sociale, oltre che economico, che Martelli ha chiamato la meccanizzazione (?). Non c'è dubbio che si tratti di un progetto politico che si forma nelle sue linee

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essenziali nei primi anni '70, con la caduta della parità con il dollaro, ed è propulso dagli Stati Uniti e dalle organizzazioni internazionali che fanno capo al ministero del tesoro americano: la Banca Mondiale, il FMI. La globalizzazione porta dei vantaggi, vantaggi in termini di crescita, non solo in termini di crescita economica, ma anche umana, di sviluppo sociale. Se l'India ha oggi più di 1.000.000 di programmatori, che è una cifra superiore a quella degli USA, questo è uno di quegli effetti d'interdipendenza tra sistemi economici che chiamiamo globalizzazione. Gli indiani producono per gli USA, per la Svizzera, per l'Italia. Senza crescita, senza globalizzazione questi pur non essendo stati contadini poveri, sarebbero stati piccoli funzionari governativi. Essi hanno imboccato una strada che li collega al mondo moderno e dalla quale traggono, oltre ad un reddito decuplo, anche una soddisfazione personale. E questo può applicarsi a molti altri gruppi di operatori economici in tutto il mondo. La globalizzazione ha aperto nuove strade per costruirsi un destino migliore. Però ha in sé il seme della propria distruzione perché le disuguaglianze ricordate non possono essere sopportate a livello mondiale per decenni: i più diseguali arriveranno in paesi ricchi, dove i livelli di vita sono 100 o 200 volte maggiori. I dati recenti della Banca Mondiale sulla povertà nel mondo sono i seguenti: chi sopravvive con consumi pari a meno di 2 dollari al giorno sono 3 miliardi di persone, la metà della popolazione mondiale. Vorrei invece esprimere un po' di dissenso rispetto alle voci che ho sentito su i nuovi lavori, la scomparsa degli operai, il declino di figure tradizionali. Intendiamoci, è vero che un autista di furgoncino, che fa parte della net economy, usa un computer per sapere dove la consegna deve essere fatta, però rimane un autista. Vi sono migliaia di figure nel cosiddetto sistema del lavoro costrittivo, del lavoro razionalizzato che in qualche modo sono vicini alle nuove tecnologie, ma che fanno dei lavori estremamente tradizionali. E questi non sono quattro gatti. Soltanto coloro che sono addetti a lavori ad alta intensità di forza lavoro e qualificazione medio-bassa (addetti alle costruzioni stradali, alla sorveglianza, alle pulizie, etc.) sono in Italia almeno 7 milioni. Quelli dei lavori razionalizzati e costrittivi sono certamente più di 3 milioni. Considerando che i lavoratori dipendenti sono più di 15 milioni e mezzo, siamo in presenza di un 60-65% di lavori sostanzialmente operai, tradizionali. La net economy moltiplica questi lavori, si stima che ogni nuovo lavoro ad essa collegato ne crei attorno a sé altri 3 o 4 a bassa qualificazione. Perché e-commerce vuol dire una grande quantità di lavoro tradizionale. Nulla è più illusoria del "click" dell'e-commerce, poi dietro al "click" ci vogliono magazzini, strade, etc. Uno dei grandi gestori del commercio elettronico negli USA ha circa 50.000 dipendenti e di questi quelli che fanno un lavoro altamente qualificato sono 5.000. Gli altri sono autisti, magazzinieri, contabili, il cui lavoro è stato creato da chi ha inventato l'e-commerce. La cosa su cui vorrei insistere è che la net-economy crea lavori di bassa qualificazione. Valerio ZANONE

Adesso abbiamo tutti qualche dubbio in più. Un paio. Il primo riguarda la questione della disuguaglianza. Il concetto è in se stesso comparativo. Può ben darsi che un paese povero sia diventato un po' meno povero, uno ricco sia diventato molto più ricco, perciò abbiamo una maggiore disuguaglianza, ma con condizioni più favorevoli in entrambi i paesi. Voglio sapere, parliamo dell'indice assoluto di povertà e ricchezza, oppure la mutata percezione di questo rapporto? Perché con la globalizzazione anche culturale, mediatica, quelle condizioni di povertà considerate un tempo dato naturale, ora hanno maturato una capacità di indignazione. Se il problema fosse la percezione, tutto sommato sarebbe un progresso. Franco REVIGLIO Dai miei studi ricordo che il concetto di povertà è relative deprivation, come diceva un famoso sociologo inglese. Luciano GALLINO Se uno apre il sito della Banca Mondiale, la II° pagina è sulla world poverty. La Banca Mondiale ha creato nuovi spazi di discussione, anche in conseguenza delle pressioni del popolo di Seattle. La prima cosa che si trova nella pagina citata dal sito della Banca Mondiale è la seguente: nella parte più povera del mondo la misurazione è quella assoluta. Questa si misura in calorie pro capite e in alcuni altri indici, ovvero in consumi valutati in dollari, a loro volta misurati in termini di parità del potere di acquisto (dollaro 1993). Ebbene, le persone che vivono con consumi pari a meno di 2 dollari al giorno sono 3 miliardi. Quelli che vivono con consumi pari ad un dollaro al giorno sono 1 miliardo e 200 milioni. Nel rapporto 2001 della Banca Mondiale si dice: "il mondo non può permettersi che metà della sua popolazione viva in condizioni tanto abbiette". Poi per i paesi sviluppati c'è la misura relativa della povertà, per cui la povertà è o un valore inferiore alla metà del PIL pro capite, oppure la mediana, oppure il 30% al di sotto. Varie misure che naturalmente permettono di dire che il povero svizzero, il povero italiano è incomparabilmente benestante rispetto al povero del Burundi. INTERVENTO Ma il povero del Burundi prima della globalizzazione come stava? I dati americani: il primo decide dei percettori di reddito dei lavoratori americani guadagna oggi il 15% in meno di salario reale rispetto alla metà degli anni '80. Marco DEAGLIO Poche annotazioni. La prima osservazione è sul ruolo dell'Europa. L'unico punto in cui l'Europa funziona a livello internazionale è quello dei negoziati commerciali, dove ci opponiamo veramente a qualche volta con successo agli USA. Proprio perché non accettiamo la globalizzazione giuridica di cui ci ha parlato Monateri. Io penso che i discorsi sull'unificazione europea debbano essere visti in questa chiave, io penso che l'Europa possa essere portatrice di una globalizzazione diversa, non legata ai risultati del trimestre.

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Può anche darsi che la nostra mancanza di flessibilità, che ha un costo nel breve periodo, finisca per dare qualche risultato positivo nel lungo periodo. Il trade-off indicherà un punto ottimale di flessibilità al quale bisogna arrivare, ma che non bisogna superare. Seconda annotazione. Un altro pericolo della globalizzazione è quella della diversità. Abbiamo questo enorme aumento dell'istruzione ma i centri culturali nel mondo sono diminuiti. L'India crea i programmatori, ma non c'è un pensiero originale indiano. Stessa cosa vale nella finanza: è aumentata in modo spaventoso la quantità di soldi che girano il mondo, ma i punti nei quali girano sono diminuiti, passano tutti attraverso quattro o cinque posti. Ancora, i diritti di proprietà sono stati alla base della crescita dell'Occidente, sono stati alla base di un capitalismo vincente ed efficiente. Mi domando se nella nuova economia non tendano ad essere regressivi. Bisognerebbe fare una revisione dei diritti di proprietà a livello informatico che limiti il tempo in cui questi sono sfruttabili. Bruno CONTINI Ritorniamo sulla necessità di governements e al fatto che in Italia ci sono 7 milioni di nuovi proletari. Credo che stia emergendo il problema della accumulazione di capitale umano. A questi 7 milioni di persone, che sono la fetta più sfortunata del mercato del lavoro, o l'istruzione gliela dà qualcuno, nella fattispecie non può essere che l'operatore pubblico, oppure resteranno sempre come sono, non ci sarà mobilità sociale per queste persone. Oggi, come diceva ….. , il capitale umano è diventato il fattore primario della produzione. Chi è padrone del capitale umano? Ciascuno di noi. Il capitale umano non è più detenuto dall'impresa presso la quale le persone lavorano. Il fatto che la globalizzazione abbia messo in moto dei processi di grande flessibilità, di grande turner-over, di fine dei lavori per la vita, fa sì che l'incentivo ad investire in capitale umano da parte dell'impresa si sia molto ridotto. C'è un problema di fallimento del mercato per ciò che riguarda l'accumulazione di capitale umano. E qui è necessario un intervento pubblico che possa supplire a quello che il mercato non può produrre da solo. Sono solo i lavoratori benestanti che possono investire nel proprio capitale umano, gli altri non ci riescono. Marco BRUNAZZI Riflessioni. E' stato molte volte richiamato il problema del governo. Qui si apre un ulteriore problema perché è evidente che immaginare mondializzazione di regole presupponga una omogeneità dei soggetti che dovrebbero porvi mano. Tutti hanno rilevato che la globalizzazione è americanizzazione e se le cose stanno così è un po' difficile e velleitario immaginare regole mondiali, a meno che le regole le facciano, e già le stanno facendo, gli americani soltanto. E' questo un problema di enorme portata sul piano politico. Qualcuno ha immaginato che soltanto la crescita di soggetti politici statuali e sovrastatali, come potrebbe essere l'UE, potrebbe far intravedere la possibilità di poter aprire dei veri tavoli con gli Stati Uniti.

C'è anche un altro dato che richiama quello che avete detto: la crisi della rappresentatività è avvenuta sul piano nazionale e la misuriamo bene, ma mi domando come, in presenza di una crisi della forma tradizionale della politica che è avvenuta in concomitanza con la crisi dello stato nazionale, possa invece riproporsi, miracolosamente, la stessa politica su scala mondiale. La politica stessa, come categoria dell'identità collettiva, è in crisi. La regressione verso forme più arcaiche di identità sono sotto gli occhi di tutti, dai neointegralisti religiosi, a neoetnicismi, come surrogati e sostitutivi di identità politiche ormai degradate. Ci si può domandare allora come è possibile immaginare di far sorgere forme di rappresentanza politica e di decisione. Questo governo mondiale, che tipo di governo potrebbe essere? Un governo delle tecnocrazie, di élite molto ristrette, incontrollabili e sostanzialmente irresponsabili, basti pensare al discorso ambientale. E se questo vuol essere, non sarebbe un rimedio. Ma se questo non avrà ad essere, allora di nuovo si apre un problema di fondo: in quali sedi, in quali forme si può immaginare di recuperare l'abc di ogni forma di governo che non sia un governo dispotico e arbitrario? Credo che sia velleitario parlare di nuove regole, quando gli stessi soggetti che sul piano politico generale invocano le regole mondiali, si industriano per demolire quel che resta di principi di rappresentanza politica, di trasparenza, di partecipazione, insomma di democrazia sostanziale. Democrazia sostanziale che è stato uno degli elementi che hanno concorso a fare del modello economico del capitalismo occidentale la sua forza. Molti hanno ricordato che c'è una connessione stretta tra la democrazia politica e i successi di un capitalismo canonico capace di dispensare a tutti quote crescenti di ricchezza. Se viene meno questo nesso ci si può domandare come possa proseguire il circolo virtuoso di cui sopra. Pier Giuseppe MONATERI In effetti nel mio discorso c'era un salto perché erano due le questioni che affrontavo. A proposito della law merchant ciò che volevo dire era che la globalizzazione giuridica costringe ad uscire dai miti della modernità giuridica. Sicuramente prima della rivoluzione francese il diritto era fatto dalla professione giuridica, probabilmente lo è sempre stato fatto, ma i miti che ci siamo costruiti intorno alla rivoluzione francese cadono definitivamente. Non possiamo più ricostruire la realtà in base a quella mitologia -liberale della rivoluzione francese: legittimazione, demos, elezioni, carta costituzionale e così via. Anche se,e ce ne rendiamo conto adesso, ma le costituzioni non sono mai state scritte così. Solo quella italiana e tedesca sono state fatte da un demos che ha eletto un'assemblea costituente ad hoc, che a scritto la costituzione. Altrimenti, 15 gentiluomini si trovavano a Philadelphia, facevano un documento che andava in giro, piaceva. Poi però ci scrivevano sopra "with the people". Ma è sempre andata così. Quello che crolla sono i miti. Dall'altro lato c'era il discorso dello scontro culturale. Ed è quello che mi sembra essenziale nel mondo della globalizzazione.

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I quattro soggetti storici che sono emersi nel 45 sussistono. La Russia sussiste, la Cina sussiste e sarà un grosso terreno di scontro e sussistono l'Europa e l'America. Allora, il tipo di lavoro intellettuale che uno fa, o lo fa su modelli americani o cerca una alternativa. Questa alternativa non è però, appunto, facilmente fruibile. Io non mi occupo di economia però sicuramente l'aumento del reddito o della ricchezza hanno poco a che fare con il discorso di classi sociali che io ho in mente. Anzi, normalmente nei discorsi di potere fra classi sociali il reddito serve ad oscurare le relazioni di classi. Quindi proprio l'aumento del reddito oscura il fatto che una classe è espropriata, tipico l'esempio degli avvocati. L'avvocato che viene comprato è più ricco, ma non è più proprietario del suo studio, diventa un dipendente, un salariato, ma è tutto contento perché guadagna tantissimo. Allora eviterei di misurare uguaglianze e disuguaglianze in termini economici, perché non sono quelli che ci danno la dimensione vera dei rapporti di potere. Franco REVIGLIO Io dico sempre ai miei studenti, studiate, investite in voi stessi: perché noi dobbiamo meritarci dei salari, pari a 35.000 lire l'ora, che sono 10 volte più grandi di quelli di un cinese? Se c'è una giustizia distributiva, noi dobbiamo fare dei prodotti che siano più utili al mondo di quelli che fa un cinese, dobbiamo fare le cose più difficili. Però io parlavo a studenti universitari pensando ci fosse chi investe in se stesso e "gli altri". Gli uni li chiamavo "nuovi colletti bianchi" e gli altri sono i colletti blu e i vecchi i colletti bianchi. Invece Gallino mi ha fatto rilevare che questa impostazione pecca. C'è una classe sociale che per le condizioni di lavoro, reddito e subordinazione è assimilabile … A questo punto come possiamo giustificare i 2.500.000 di un autista della new-economy, se l'autista del Pakistan guadagna 1/20? Tutte le lotte operaie? Ho qualche difficoltà a capire come il concetto di classe si incroci in questa trasformazione del mondo. Sempre di più ci sono settori nuovi nei quali la gente guadagna molto, può mandare i figli alle scuole di alta qualità, perpetuando quindi anche una situazione di privilegio e poi ci sono "gli altri". Tra "gli altri" metti anche i vecchi colletti bianchi, ad esempio gli insegnanti. Penso che dobbiamo riflettere di più su come le classi sociali si mantengono pur caratteristiche diverse. La classe sociale dei lavori tessili non c'è più. C'è chi sta nel settore ad alto valore aggiunto e poi ci sono quelli che stanno in aree di lavoro tradizionale (l'Italia è qui dentro) che sono a rischio: quanto il made in Italy ci manterrà? C'è un problema di rivisitazione delle classi sociali. Accetto la tesi che non è vero che non ci sono più le classi sociali, ci sono classi sociali da rescrivere. Secondo rilievo. Quale sistema politico? Il sistema politico è come il motore di un'automobile. Il motore è stato disegnato e costruito per dare il moto. Quale sistema politico ci serve oggi? Un sistema politico che rompa la miopia delle scelte collettive. Perché se dobbiamo fare un discorso globale, ma dobbiamo affrontare un problema distributivo colossale. Ridurre l'effetto serra, significa ridurre i nostri tassi di consumo e quindi ridistribuire i sacrifici. Dopo essere passato di moda, negli ultimi 30 anni

si è sostenuto che sul problema distributivo non si vincono le elezioni, il problema distributivo diventa vitale. Dobbiamo affilare i nostri strumenti. Molti di noi vivono all'Università, quello che dobbiamo trasmettere come insegnanti è un messaggio di grande innovazione. La crisi della politica è la carenza di un messaggio di trasformazione recepito dai giovani. Riportare l'interesse dei giovani alla politica è assolutamente necessario. Un paio di osservazioni sul rapporto tra istituzioni e globalizzazione. E' emersa la necessità di governare la globalizzazione, nell'ipotesi che attraverso questi strumenti sia possibile ridurre i costi della stessa e avere accesso ai benefici. A che livello si pone questo rapporto tra le istituzioni? A mio modo di vedere, se vogliamo essere efficaci, a livello delle forme di integrazione economica regionale. Ritengo che una delle spiegazioni oggi forse più corrette della motivazione che sta alla base del processo di integrazione europea sia questa: forme di integrazione economica regionale, dotate di una certa struttura politica sono in grado di sottoporre a controllo i costi della globalizzazione. Non per nulla, nel panorama dei rapporti di potere mondiali, l'unica alternativa all'ipotesi che la globalizzazione sia semplicemente una americanizzazione è rappresentata dalla crescita del polo europeo. Alle indicazioni estremamente interessanti fornite da Monateri circa il nervo scoperto che gli americani hanno quando si parla di costituzione europea, io vorrei aggiungere che per quanto riguarda il settore economico si è verificato un fenomeno analogo. Insigni economisti americani sono giunti a dire che non solo l'esperienza della moneta unica europea è destinata al fallimento, ma , addirittura, che quello che noi diamo per scontato, vale a dire la scomparsa della guerra come elemento della storia europea, potrebbe essere rimesso in discussione. Questa è, a mio modo di vedere, una cartina del tornasole che mette in luce come questa esperienza dell'integrazione economica possa costituire una risposta, anche all'egemonia del dollaro.

ASCOLTA SUL SITO DI RADIO RADICALE: http://www.radioradicale.it/scheda/173854/convegno-gli-effetti-della-globalizzazione-e-nuove-dicotomie-di-classe

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* Ottobre/novembre 2001

Per una scuola Fabiana di Politica:

Progetto relativa ad un ciclo di lezioni del "Laboratorio di storia del pensiero politico" Enti partecipanti: Istituto Salvemini, Società Fabiana, Università Popolare di Torino, CeSeDi:

• Documento preparatorio • Bozza del programma

PER UNA SCUOLA FABIANA DI POLITICA

L'obiettivo della scuola è quello di fornire degli strumenti tecnici e conoscitivi per formare del personale politico con un indirizzo culturale 'fabiano', vale a dire capace di rispondere alla "carenza liberale" di cui i due schieramenti bipolari oggi sullo scenario politico pare soffrano quando emerge chiara la tendenza di entrambi a seguire un modello di gestione del potere che sa di "autoritario", di governo permanente che non si preoccupa più di tanto del tradizionale governo rappresentativo, dello scontro dei partiti e del dibattito parlamentare, ma preferisce rivolgersi direttamente "al popolo", creando una individualizzazione della politica che indebolisce i controlli democratici e a poco a poco erode lo stesso principio democratico. Un indirizzo culturale 'fabiano', dunque, che in Italia significare strutturare una scuola che formi un rinnovato e maggiore senso dello Stato, della laicità e del pluralismo tanto delle forme di rappresentazione che di quelle di legittimazione, oltre a veicolare le classiche e nuove forme di quel pensiero riformista che intende declinare le libertà individuali con i diritti sociali. Un scuola che, seguendo un percorso di studi interdisciplinari e avvallandosi dei diversi strumenti metodologici e didattici, sia in grado di fornire ai propri allievi: a. gli strumenti teorici per formare una cultura politica dotata tanto di una chiara consapevolezza storica quanto in grado di decifrare la complessità e la pluralità dei linguaggi che descrivono la realtà nella quale la politica si trova immersa; b. gli strumenti tecnici che permettono di passare dalla teoria alla pratica, cioè la capacità di elaborazione di atti legislativi, di utilizzo nei vecchi e nuovi media, di gestione di organizzazione che si fanno reticolari e di quant'altre conoscenze tecniche risultino oggi indispensabili per lavorare attivamente nella politica.

In questo contesto di idee l'intento è quello di partire già dalla primavera 2001 con una fase sperimentale di detta scuola di politica in collaborazione con l'Istituto di Studi storici G. Salvemini e con l'Università Popolare di Torino, con l'intento di valutare sia il target rappresentato dal pubblico degli allievi, sia la struttura e gli approcci metodologici dell'iniziativa. Detta fase sperimentale si intende costituta da un modulo tematico su "I fondamenti laici dello Stato e l'identità culturale degli Italiani" che si articolerà in una serie di incontri nelle forme di conferenza/dibattito, di seminario/laboratorio e di tavola rotonda. Lo studio dei temi che ruoterà intorno al Risorgimento e allo Stato liberale sarà attuato in forma interdisciplinare e con l'ausilio di strumenti didattici quali audiovisivi, rappresentazioni teatrali e musicali, testimonianze dirette, dispense bibliografiche per l'approfondimento personale dei temi. La scelta di evitare il classico ciclo di lezioni e seminari annessi, nasce dalla necessità di strutturare la formazione politica in modalità 'polifonica' ossia ponendo l'allievo in relazione alle diverse culture espresse dai docenti e dai testimoni, alle diverse discipline coinvolte nell'analisi dei temi scelti, ai diversi linguaggi e ai diversi media utilizzati per rappresentare e veicolare le idee. Una modalità, quella polifonica, per una scuola di politica che, del resto, non può che riflettere i contesti dell'agire politico, i quali - per definizione, nascita ed evoluzione - si esprimo proprio attraverso 'voci': da quelle dell'agorà della polis greca a quelle dei rappresentanti dei cittadini nei moderni parlamenti, da quelle dell'opinione pubblica a quella degli intellettuali, da quelle veicolate dai manifesti o dai pamphlet a quelle veicolate dai film o dalle canzoni. Il personale docente della scuola sarà individuato di comune accordo con l'Istituto Salvemini e l'Università Popolare, così come le modalità d'iscrizione e di svolgimento del corso.

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BOZZA DEL PROGRAMMA PER IL LABORATORIO DI STORIA DEL

PENSIERO POLITICO "LESSICO DELLA STORIA, PAROLE

DELLA POLITICA, GRAMMATICA DEL QUOTIDIANO"

L'Università popolare, con il concorso dell'Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, della Società Fabiana e della Biblioteca delle Libertà e con la collaborazione del Centro Servizi Didattici della Provincia di Torino, propone a tutti i cittadini interessati, ed in particolare ai giovani, un ciclo di lezioni sulla politica come occasione d'impegno culturale e come strumento di partecipazione civile. 1. Storia e politica 1.1) venerdì 16 novembre 2001 Tra storia e politica: cosa sono e perché si intrecciano (M. Brunazzi) 1.2) venerdì 23 novembre 2001 Rivoluzione e guerra civile: tra similitudine e antiteticità (G. Deambrogio) venerdì 30 novembre 2001 Proiezione del film La notte di San Lorenzo e discussione (Conduttori: S. Astrologo, G. Dellosta) 2. I grandi filoni del pensiero politico contemporaneo 2.1) venerdì 7 dicembre 2001 L'umanesimo socialista e la parabola del comunismo (M. Chiuazza) 2.2) venerdì 14 dicembre 2001 Il "fascino" del fascismo: gli elementi ideologici, culturali e antropologici di una persistenza (C. Vercelli) 2.3) venerdì 11 gennaio 2002 Il cattolicesimo tra società ed istituzioni. Una proposta di percorso (G. Bodrato) 2.4) venerdì 18 gennaio 2002 Il liberalismo nel nuovo millennio. La laicità come problema e come risorsa (V. Zanone) venerdì 25 gennaio 2002 Proiezione del film Lacombe Lucien e discussione (Conduttori: S. Astrologo, C. Vercelli, G. Dellosta) 3. Tra economia e società 3.1) venerdì 1 gennaio 2002 Tra libertà ed eguaglianza: sono antinomiche? (L. Figliolia) 3.2) venerdì 8 gennaio 2002 Il lavoro e l'identità. Quel che muta, quel che rimane (L. Gallino) 3.3) venerdì 15 febbraio 2002 L'ambiente e la merce (C. Vercelli e L. Guglielminetti) 3.4) venerdì 22 febbraio 2002 Democrazia e demografia (C. Vercelli e L. Guglielminetti)

venerdì 1 marzo 2002 Proiezione del film Mon oncle d'Amerique e discussione (Conduttori: S. Astrologo, G. Dellosta) 4. Etica, politica e religione 4.1) venerdì 8 marzo 2002 Etica e politica (M. Brunazzi) 4.2) venerdì 15 marzo 2002 Religione e politica: i fondamentalismi di matrice religiosa (C. Vercelli e M. Brunazzi) 4.3) venerdì 22 marzo 2002 Il sistema delle relazioni internazionali e le aree di crisi della contemporaneità (M. Mariano) 4.4) venerdì 5 aprile 2002 Utopia e riforma (S. Astrologo) venerdì 12 aprile 2002 Proiezione del film Nozze in Galilea e discussione (Conduttori: S. Astrologo, G. Dellosta) 5. La rappresentanza politica e le sue forme 5.1) venerdì 19 aprile 2002 Partiti e mediazione politica: una storia della forma-partito (M. Chiauzza) 5.2) venerdì 26 aprile 2002 Movimenti ed istituzioni (E. Bosco) 5.3) venerdì 3 maggio 2002 Maggioranze e minoranze: i sistemi politici occidentali e le dinamiche dei poteri (Siccardi) venerdì 10 maggio 2002 Proiezione del film Todo Modo e discussione (Conduttori: S. Astrologo, M. Brunazzi, G. Dellosta)

Le lezioni, tenute da docenti universitari, insegnanti di scuola media superiore, ricercatori ed esperti nelle

diverse discipline, si svolgeranno dalle ore 19.30 alle 22.30 presso la Facoltà di Matematica e Scienze

dell'Università di Torino a Palazzo Campana in via Carlo Alberto 8 a Torino. Per potervi partecipare

necessita l'iscrizione presso la Segreteria dell'Università Popolare in via Principe Amedeo 12 a

Torino (n° tel. e fax 011.8127879). Il sito web è http\\web.tiscalinet.it\unipoptorino, l'indirizzo email

[email protected] A cadenza mensile il corso verrà integrato dalla proiezione di un film (con inizio alle ore 18.00 e

conclusione alle 21.00) presso le sale del Cesedi in via Gaudenzio Ferrari 1 a Torino.

(Il programma non venno poi attuato se non successivamente e diversamente da parte dell’Istituto Salvemini, NdC)

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Attività del 2002

* 3 dicembre 2002 RSU E WELFARE: presentazione della collaborazione con la UIL Piemonte sul progetto nazionale del programma europeo EQUAL: a cura di Franco Tozzi Le novità legislative introdotte dalla legge 328/2000 di riforma dell'assistenza per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali pongono al sindacato la necessità di riorganizzarsi e valorizzare il proprio ruolo di interlocutore nell'ambito delle politiche sociali considerando l'azienda come luogo dello sviluppo sociale. Il luogo di lavoro è infatti il contesto in cui emergono domande e bisogni connessi alla vita concreta dei lavoratori nonché l'ambito in cui si riflettono disagi e problematiche che hanno origine extra-aziendale (rottura di legami affettivi, lutti, malattie gravi, difficoltà di integrazione culturale, uso di droghe o alcool e altre forme di disagio esistenziale). Le RSU nelle aziende sono, a questo riguardo, in una posizione strategica e possono quindi proporsi come soggetti di innovazione e di irradiazione di nuove politiche di sviluppo e integrazione sociale. In tal senso il sindacato intende dotarsi di una competenza sociale che possa contribuire, proprio a partire dai luoghi di lavoro, a definire proposte sia rispetto ai processi di concertazione previsti dalla legge quadro che nelle politiche di contrattazione aziendale e territoriale. In funzione di questo obiettivo le organizzazioni sindacali CGIL CISL e UIL stanno realizzando un progetto Equal su

ambito nazionale, regionale (Piemonte, Lombardia, Marche, Toscana, Sicilia e Puglia) e locale (per il Piemonte la provincia di Biella). La UIL è capofila in Piemonte e si avvale per le attività di ricerca della società Fabiana. Nello specifico i risultati che ci si attende da questa azione sono: - ricostruzione e analisi della legislazione, degli accordi di concertazione, della contrattazione collettiva e delle politiche, a vari livelli, sulle tematiche dell'agio e del disagio; - mappatura dei servizi del welfare locale e dei sistemi di monitoraggio e valutazione; - formazione delle RSU volta a colmare gli eventuali gap di competenza in relazione alle diverse tipologie di compiti/funzioni richieste nel sistema di governance del Welfare locale, nonché di tipo relazionale (ascolto, gestione dell'emotività); - implementazione di osservatori locali sul tema dell'agio e del disagio. L'intervento intende quindi rileggere la dimensione sociale nel luogo di lavoro al fine di proporre attraverso la contrattazione nuovi strumenti di garanzia, tutela e prevenzione e di sviluppare relazioni che, partendo da situazioni di bisogno e disagio espresse dai lavoratori, consentano l'attivazione e la messa in rete di tutte le risorse disponibili nel luogo di lavoro e nel territorio.

* 30 novembre 2002 Nell'ambito della collaborazione con la UIL Piemonte e l'ente di formazione ENFAP, presentazione di n. 2 progetti di "azioni positive" per le Pari Opportunità nel quadro della Legge 125/91, finanziato dal Fondo Sociale Europeo. Progetto 1 : OLTRE IL LAVORO INTERINALE Progetto 2 : LABORATORIO SOCIALE PER LA PROMOZIONE DELL'AUTONOMIA DELLE LAVORATRICI ATIPICHE SPECIALIZZATE

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* 19 novembre 2002 Costituzione formale dell'Associazione tra associazioni denominata "Osservatorio sulla globalizzazione"

IL PROGETTO Le seguenti istituzioni private, tutte con sede a Torino, - Fondazione culturale "Vera Nocentini" - Istituto di Studi storici "Gaetano Salvemini" - Fondazione Istituto piemontese "Antonio Gramsci" - Centro studi "Bruno Longo" - Società Fabiana - Centro Iniziativa per l'Europa - Associazione "Ares" hanno costituito in data 19 novembre 2002 un'Associazione tra associazioni denominata "Osservatorio sulla globalizzazione", senza finalità di lucro, di cui si allega lo Statuto, il cui scopo è quello di approntare progetti di ricerche, la loro esecuzione, discussione e pubblicazione sul tema delle conseguenze della globalizzazione economica, sociale e culturale con particolare riguardo al Piemonte e a Torino. Onde sostenere alcune borse di studio per giovani ricercatori e operatori sociali dei settori interessati dai fenomeni della globalizzazione, questa Associazione ha predisposto dei progetti di ricerca e formazione , illustrati qui di seguito, per i quali chiede adeguato finanziamento agli Enti in indirizzo, sulla base dei preventivi di spesa descritti successivamente. Progetti per l'aggiornamento/adeguamento culturale delle organizzazioni sociali ed economiche nei confronti dei processi di globalizzazione Tenuto conto che l'Osservatorio vuole sviluppare le analisi complessive dei processi di globalizzazione e la particolare analisi della dinamica dei processi che coinvolgono direttamente Torino e la regione piemontese, l'Associazione ha pensato di iniziare questi percorsi di analisi con i seguenti progetti: 1) L'ASPIRAZIONE DI TORINO AD ESSERE CITTÀ INTERNAZIONALE: LA CAPACITÀ DI RICONOSCERE LA DINAMICA DEI CAMBIAMENTI PRODUTTIVI INTERNAZIONALI ANCHE COME FATTORE DI SVILUPPO LOCALE (DESCRIZIONE E METODOLOGIA DI INDAGINE) Torino sta attraversando una fase molto importante di cambiamento. Un cambiamento che, oltre

all'organizzazione della città e delle sue infrastrutture, riguarda particolarmente imprese e lavoro. Nella sua area esistono un buon e crescente numero di imprese estere. Tuttavia, anche molte imprese, che sono nate e cresciute nell'area metropolitana torinese, fin dal loro sorgere, hanno continuamente guardato ai cambiamenti che stavano avvenendo sul mercato internazionale. Anche nel mondo del lavoro dell'area torinese, organizzato sindacalmente, si è guardato, a volte con preoccupazione altre volte con speranza, ai cambiamenti che provenivano dal contesto internazionale. In buona sostanza, lo sviluppo industriale torinese è avvenuto non solo perché aperto agli scambi sul mercato mondiale, ma anche perché si è prestata molta attenzione alle dinamiche tecnologiche, economiche e sociali internazionali. In sintesi, c'è stata una grande capacità di "guardare e vedere il mondo". Ciò ha costituito una risorsa "immateriale" strategica, ma non sempre ben focalizzata. Oggi si discute di un modello di sviluppo di "plurispecializzazione avanzata" per l'area torinese non contrapposto al progetto "Torino area forte dell'auto". Fin dalla fase iniziale si possono alimentare le sinergie tra le aree di specializzazione: da un lato telecomunicazioni, hardware e software informatico per l'automazione manifatturiera e dei servizi, come impianti e servizi di logistica, servizi reali e finanziari avanzati per le imprese; da un altro lato come conseguenza l'elevazione del livello di vita urbana, del benessere, della formazione e della cultura. Inoltre può essere utile introdurre due ulteriori approcci finora scarsamente esplorati e particolarmente significativi per l'Osservatorio. - La drastica contrazione del ciclo di vita (e di diffusione) del prodotto innovativo è caratteristica dominante delle rivoluzioni industriali negli ultimi tre decenni, mentre nelle (almeno) altrettanto pervasive rivoluzioni nell'industria manifatturiera, nei trasporti e nelle comunicazioni nel XIX secolo e nella prima metà del XX i cicli di vita e di diffusione dell'innovazione sono stati molto lunghi. Le nicchie nei mercati nazionali non possono generare ritorni degli investimenti innovativi in quantità sufficiente e in tempi drammaticamente brevi. Consapevoli o meno, le imprese innovatrici - indipendentemente dalla loro dimensione - dopo la metà del XX, sono "costrette" a vendere il prodotto innovativo (manifatturiero o servizio) nel più breve tempo possibile e nel mercato più ampio possibile. Ciò ha delle conseguenze importanti anche sui cicli formativi, nel senso di accrescere, diversificare e accelerare l'investimento formativo (individuale e collettivo). - I processi di concentrazione oligopolistica sono necessariamente imponenti e rivolti al controllo del mercato mondiale, alla ricerca di economie di scala e di scopo. Corrispondentemente si pongono (i) gravi problemi politici ed etici, nei rapporti internazionali e (ii) obbiettivi di controllo almeno delle posizioni più nocive

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rispetto allo sviluppo del mercato mondiale e della civiltà umana. Per verificare l'importanza delle scelte effettuate in passato e di quelle oggi necessarie si propone il seguente percorso: a) descrizione degli elementi dello scenario internazionale che hanno sollecitato o alimentato risorse produttive e sociali sul piano locale; b) come lo scenario internazionale ha influenzato, e influenza, le scelte di operatori economici e sociali, pubblici e privati, di Torino e Piemonte; c) quali principali decisioni nel mondo locale sono derivate dall'aspirazione di Torino a essere internazionale. Il metodo per svolgere questa ricognizione potrebbe essere: I) esplorazione, con particolare riguardo ai periodi di più intenso cambiamento produttivo e sociale, delle principali scelte su cui ha significativamente inciso la conoscenza dello scenario internazionale; II) interviste a studiosi ed esperti, a imprenditori e sindacalisti. Nota Per le valutazioni quantitative sui processi di internazionalizzazione produttiva delle imprese può essere fatto riferimento: a livello mondiale UNCTAD, World Investment Report, rapporti annuali dal 1991; prossimo rapporto annuale disponibile a metà settembre su sito per una quindicina di giorni e successivamente (a pagamento ) su carta; a livello Italia * CNEL, R&P, Politecnico di Milano, Italia Multinazionale 2000, sito CNEL/documenti; banche dati sull'universo delle imprese multinazionali in entrata e in uscita dall'Italia (oltre 6.000 imprese investitrici e partecipate); in particolare distribuzione dei FDIs ( Foreign Direct Investments ) in/out tra le regioni italiane e tra i settori manifatturieri: - elevati FDIs in entrata nei settori science based, ma scarsi FDIs in uscita; massima diffusione dei FDIs in/out nei settori ad alte economie di scala; - concentrazione dei FDIs in entrata nel nord ovest (Lombardia, Piemonte e Valle d'Aosta: 63% sul totale degli addetti nelle imprese a partecipazione estera in Italia); a livello Piemonte * IRES, rapporto sulle imprese multinazionali in Piemonte; * ITP, banca dati sulle imprese multinazionali in Piemonte, aggiornamento al dicembre 2001: FDIs nelle imprese manifatturiere e nelle filiali commerciali.

Come riferimenti di base si possono assumere i lavori di Luciano Gallino (Globalizzazione e disuguaglianze, ed. Laterza, Bari, 2000) e di Amantya Senn (Globalizzazione e libertà, ed. Mondadori, Saggi, Milano 2002), che affrontano i temi dell'insicurezza e delle capacità.

2) ETICA, LAVORO, IMPRESA NELL'AREA METROPOLITANA TORINESE NELL'IMPATTO CON I PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE Il sistema produttivo e industriale ha segnato l'area metropolitana torinese da più punti di vista: economico, finanziario, tecnologico, ecc… . E' un sistema, conseguentemente, cresciuto attraverso risorse - in particolare capitale, tecnologia e lavoro - facilmente identificabili. Tuttavia, lo sviluppo industriale è o può essere anche il risultato di "risorse immateriali". Sotto quest'aspetto, lo sviluppo industriale dell'area metropolitana torinese è o può essere il risultato di "etiche locali e internazionali" che, nel tempo, guidano i rapporti tra imprese e lavoro. Esiste una normativa denominata Social Accountability 8000 (SA 8000) redatta dall'Oil con riferimento alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e alla Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti del Bambino. Tale normativa prevede il rispetto di determinati requisiti e procedure. Per verificare l'incidenza di questi elementi "immateriali" sui processi di sviluppo e nell'impatto con i processi di globalizzazione, si seguirà il seguente percorso: a) definizione di risorse "immateriali"; b) la definizione di ciò che si intende per "etiche locali e internazionali", con particolare riguardo agli aspetti partecipativi dei lavoratori nella crescita produttiva ed economica; c) la determinazione dei valori etici che hanno guidato e guidano l'impresa e il lavoro nella realtà industriale locale; d) il modo con cui questi valori hanno influenzato impresa e lavoro, cioè le relazioni industriali, e gli effetti modificativi o distorsivi determinati dai processi di globalizzazione. Il metodo per svolgere questa ricognizione potrebbe essere: I) esplorazione del dibattito che, su questo tema, fin qui si è svolto, privilegiando i periodi di più intenso cambiamento; II) interviste a studiosi ed esperti, a imprenditori e sindacalisti.

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3) I GIOVANI, LA GLOBALIZZAZIONE E IL LAVORO. COME SI RAPPORTANO I GIOVANI, NELLO STUDIO E SUL LAVORO, CON LE ESPERIENZE ED I NUOVI MODELLI CULTURALI E PRODUTTIVI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE La ricerca, che riguarda i giovani dai 15 ai 29 anni di Torino e del Piemonte, si può modulare su due livelli di indagine: 1. Le conseguenze che derivano dalla globalizzazione sul piano sociale, culturale ed etico. 2. Identità flessibili. Le variazioni del lavoro e le sue conseguenze sociali e relazionali: nuovi modelli culturali e produttivi. 1. LA GLOBALIZZAZIONE a) Finalità (oggetto d'indagine) - Precisazione dei termini in uso, ruotanti attorno al concetto di globalizzazione. - Come, a quali livelli e attraverso quali canali i giovani percepiscono il fenomeno della globalizzazione, come lo vivono, in che modo reagiscono. - In particolare: quali risorse intellettuali ed emozionali si attivano; quali forme di esclusione e di autoesclusione si manifestano; quali nuove forme di comunicazione e di solidarietà internazionali stanno nascendo e con quali energie. - Quali forme di partecipazione locale o internazionale sono stimolate o inibite dai processi in questione? - E' provato che la globalizzazione cambia il rapporto delle persone con il territorio; si tratta di individuare come questo mutamento avviene nella popolazione giovanile e con quali conseguenze. - Come e con quale livello di consapevolezza la globalizzazione condiziona l'acquisizione da parte dei giovani di modelli culturali provenienti da altri paesi, anche extra-europei. - Fino a che punto i giovani percepiscono e si identificano ancora in una identità di stato nazionale/unione continentale di stati? Nel senso di appartenenza, si va verso una forma di cosmopolitismo? I confini nazionali/continentali sono percepiti come ostacolo/limitazione allo svilupparsi di identità individuali e collettive? - Qual è la rappresentazione che i giovani hanno della propria città/regione in rapporto al mondo globalizzato? Quali sono le mete, reali e/o virtuali, dei loro viaggi e delle loro peregrinazioni? Chi è e perché si esclude da questi scenari? - Come i soggetti che disegnano le politiche giovanili percepiscono e gestiscono problemi e tendenze. b) Metodo di lavoro - Individuazione delle aree di ricerca. - Focus group che ne individua nodi, risorse e prospettive.

- Formulazione e somministrazione di un questionario. - Elaborazione dei risultati con rapporto di ricerca. c) Ipotesi di intervento Nel rapporto di ricerca verranno anche ipotizzate azioni e interventi da suggerire ad istituzioni e associazioni per governare in modo incisivo le questioni più scottanti. 2. IDENTITÀ FLESSIBILI Sono ormai evidenti per tutti le profonde trasformazioni in atto nel mondo del lavoro. Ci sono processi di riduzione del personale non solo delle imprese in crisi ma anche di quelle con i bilanci in attivo; esternalizzazioni, ridislocazioni territoriali, semplificazioni delle gerarchie interne, rivisitazione continua degli assetti organizzativi; aumento delle richieste di coinvolgimento e responsabilità per sostenere i processi lavorativi (aggiustamenti continui dei prodotti per poter essere dedicati e competitivi). Il modello fordista, grande successo di ingegneria sociale, cantiere epistemologico su cui poggiava una intera visione del mondo, ormai vacilla o semplicemente ha smesso (da tempo?) di rappresentare il mondo del lavoro. La catena di montaggio del processo produttivo, lungi dall'essere scomparsa, si è distribuita nel magma parcellizzato dell'outsourcing delle piccole imprese spesso individuali, che devono sottostare ai ritmi spesso frenetici degli ordini e delle scadenze da rispettare. I cambiamenti nel mondo del lavoro generano insicurezze, impoverimenti, esclusioni: si assiste ad un processo di polarizzazione sempre più accentuato e lo squilibrio tra "ricchi" e "poveri", tra inclusi ed esclusi è sensibilmente aumentato negli ultimi anni, non solo a livello planetario ma anche nelle nostre città e nei nostri quartieri, poiché è avvenuta una rottura dei dispositivi solidaristici interni all'impresa, al sistema produttivo e sociale. Si verifica una dissociazione fra la sfera economica e quella sociale, fra produzione e distribuzione, fra competitività e solidarietà. Viene messa in discussione l'idea del pieno impiego e del benessere sociale e si perde la connessione tra politiche sociali e politiche economiche, sia a livello "globale" che in un contesto più "locale". Il lavoro tuttavia continua ad essere il luogo di costruzione della propria identità; luogo in cui si sperimenta la possibilità di essere un attore sociale capace di giocare un ruolo sociale; di poter essere parte di una società. Il lavoro è un dispositivo di inclusione sociale, per i giovani diventa il luogo per acquisire una certa autonomia, indipendenza relativa. Va messa fortemente in discussione la tesi della fine del lavoro, oppure quella della posizione periferica del lavoro per i giovani. Quello che sembra emergere, piuttosto, è una modalità diversa di relazione con i contesti lavorativi, e la costruzione dell'identità si gioca anche e soprattutto ad altri livelli. Occorre quindi uscire dalle polarizzazioni fordismo/postfordismo, globale/locale, rigidità/flessibilità perché non rendono abbastanza ragione del quadro contraddittorio in cui ci si trova a vivere: è possibile

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sostenere che queste diverse compresenze sfidano i nostri quadri concettuali e interpretativi. Anche le organizzazioni del mondo del lavoro o che nascono dal mondo del lavoro (sindacato, associazioni, gli stessi partiti politici…) si trovano a fare i conti con i diversi modelli culturali e produttivi e devono ripensare la loro proposta e la loro "visione del mondo". Emerge quindi un quadro molto contraddittorio, ricco di ambivalenze (responsabilità - menefreghismo, persistenza - nomadismo, breve - duraturo, individuale - collettivo, tutela - sfruttamento, protagonismo - prescrizione…), in cui è difficile fissare immagini stabili ed è necessario iniziare a rileggere il rapporto con i nuovi modelli culturali e produttivi a partire da alcune variabili quali età, area geografica, tipologia di lavoro e tutela, genere, formazione e capitale culturale, essere single o con famiglia, o anche solo provare a individuare quali siano le variabili in gioco. In questo contesto la parola chiave è la flessibilità che pervade il mondo del lavoro, ma che descrive anche le identità delle persone che risultano più elastiche, duttili alle numerose irruenze cui sono sottoposte. Si propone quindi un percorso di ricerca che vuole indagare e attivare un dibattito sui seguenti aspetti: 1) Quale immaginario, quale rappresentazione e quale significato si attribuisce oggi al lavoro e in particolare come viene vissuto dalle giovani generazioni; quali variabili incidono nelle diverse rappresentazioni del lavoro. 2) Quali sono i luoghi in cui avviene oggi questa attribuzione di significato; come è possibile definire e costruire un'idea di qualità del lavoro condivisa; come la comunità affronta questa questione dai risvolti prettamente educativi. 3) Quali strategie personali si attivano nei percorsi professionali e quali politiche sociali è possibile mettere in atto, in un'epoca in cui la tutela del lavoro sembra passare soprattutto attraverso la capacità degli individui e del contesto di saper rafforzare l'offerta di lavoro e la competitività. Le fasi di lavoro ipotizzate sono le seguenti: a) Raccolta di 50 storie di vita, costruendo un campione rappresentativo per genere, età, area geografica, tipologia di lavoro, capitale culturale. b) Attivazione di diversi gruppi di discussione con: lavoratori di diversi mondi produttivi (impresa, cooperazione, autonomi…), giovani intervistati, parti sociali, associazioni giovanili, operatori delle politiche sociali. c) Formazione di un comitato scientifico rappresentativo di esperti delle diverse discipline economico-sociali. d) Stesura di un report di ricerca da sottoporre

all'attenzione delle forze sociali, delle organizzazioni del mondo del lavoro, ai responsabili delle politiche giovanili e del lavoro.

4) L'IMPATTO FRA REALTÀ LOCALE E NUOVI FLUSSI MIGRATORI Accelerare il processo di demolizione delle barriere protezionistiche Nel 1994 i paesi industrializzati, vicini alla vittoria, avviarono a Bretton Wood gli accordi fra le organizzazioni mondiali per il regolamento dei rapporti internazionali politici ed economici. Il sistema dei cambi fissi fu uno dei pilastri di quel progetto e contribuì in misura decisiva al processo di ricostruzione dell'economia internazionale fino al 1973 (caduta dei cambi fissi e prima crisi petrolifera). Alla fine del '90 il sistema dei cambi fissi è stato restaurato in Europa in modo irreversibile: la moneta unica elimina il cambio. Il passo successivo sarà un sistema di cambi fissi Euro/Dollaro e successivamente Yen (non ne parlano neppure i futurologi; comunque è formidabile obiettivo di breve/medio termine). La liberazione della circolazione delle merci, delle persone e dei capitali non ha subito inversioni di percorso. Nel corso degli anni '80/90 c'è stata un'accelerazione di questi processi per quanto riguarda la circolazione dei capitali (ma con gravi effetti di volatilizzazione dei cambi). La liberalizzazione degli scambi internazionali di merci è preceduta abbastanza speditamente, ma con molta cautela da parte dei paesi UE e da parte USA tuttora arroccati nella difesa protezionistica (i) delle loro produzioni agroalimentari; (ii) delle filiere tessile/abbigliamento e calzature (iii); di alcuni prodotti base, come l'acciaio, rame ed altri. La liberalizzazione della circolazione delle persone Nell'area della liberalizzazione della circolazione delle persone i processi sono molto lenti ed incontrano gravi ostacoli, soste e inversioni di tendenza: identità culturali contro sviluppo multiculturale pluritecnico; in parole povere, razzismo in Europa e negli USA. Nei processi di liberalizzazione quella della circolazione delle persone non è soltanto una questione basilare del progresso civile, ma è anche una essenziale condizione necessaria dello sviluppo economico. Di qui la necessità di inserire questi processi al primo posto negli studi e nelle banche dati dell'Osservatorio sulla globalizzazione. Per quanto riguarda l'Italia e in particolare il nord-ovest e la regione piemontese, è utile introdurre una proposta di periodizzazione basata su fasi diverse:

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1. flussi migratori verso l'estero fine ottocento fino agli anni '30; 2. flussi migratori verso altri paesi europei ed Australia nel dopoguerra fino agli anni '70; 3. flussi migratori interni est-ovest e sud-nord fino alla metà degli anni '80; 4. rapida inversione di tendenza (unico paese al mondo? ) e inizio dei flussi migratori in entrata. L'altra area "attuale" di analisi riguarda l'interdipendenza fra i flussi migratori in entrata (dall'esterno della regione ed anche flussi intraregionali e inversione di tendenza di attrazione della città di Torino rispetto al resto del Piemonte e all'area metropolitana) e (i) il processo di incremento qualitativo di domanda di risorse umane generato dallo sviluppo delle singole attività economiche e (ii) l'evoluzione qualitativa della domanda di risorse umane a ogni livello di formazione e di esperienza professionale; (iii) flussi in entrata, flussi in uscita e saldi, per area di origine/destinazione.

5) LA GRAVE E IGNORATA QUESTIONE DEI SERVIZI. I SERVIZI NELLA NUOVA DIMENSIONE INTERNAZIONALE: PROBLEMI E PROSPETTIVE A livello mondiale, i FDIs (Foreign Direct Investments) in/out nei servizi hanno assunto dimensioni superiori a quelli effettuati nei settori manifatturieri. Per l'Italia, l'unico rapporto disponibile risale al 1993 (cioè prima dell'esplosione dei FDIs nei servizi) . Nel 2003 sarà disponibile la banca dati sui FDIs in/out nei settori dei servizi (R&P, Politecnico di Milano per l'ICE) Successivamente la banca dati sui FDIs comprenderà i settori manifatturieri e i settori dei servizi e sarà gestita da ICE-R&P-Politecnico di Milano). Comunque i FDIs nei servizi in uscita dall'Italia sono tuttora molto limitati, in presenza della debolezza strutturale delle imprese italiane fornitrici di servizi reali e finanziari. I FDIs in entrata invece hanno raggiunto una quota consistente (nella quasi totalità dei settori dei servizi le possibilità di flussi commerciali sono praticamente nulle), ma inferiore a quella raggiunta nei paesi avanzati, in presenza della debolezza strutturale del mercato italiano in questi settori. Può essere utile approfondire queste ulteriori problematiche: [1] le organizzazioni internazionali, l'UE e molti paesi sviluppano politiche di liberalizzazione dei mercati, in misura maggiore che nel passato e con maggiore impegno. Ma è con molte difficoltà e con tempi lunghi che si affrontano gli ostacoli inerenti: - alle controtendenze protezionistiche (per quanto riguarda

(i) i prodotti agroindustriali; (ii) altri rapporti dei settori manufatturieri (fibre tessili, tessuti, abbigliamento, pelli, calzature, prodotti siderurgici, prodotti della chimica di base e altri); - allo sviluppo dei rapporti politici, economici, sociali, culturali e migratori fra (a) paesi in via di sviluppo e i paesi con economie di transizione con (b) i paesi ad avanzati stadi di industrializzazione (Italia compresa); - ai processi di postindustrializzazione (Italia ancora sotto la soglia minima nei settori dei servizi reali e finanziari alle imprese e alle persone); [2] il ruolo prevalentemente negativo, e scarsamente esplorato, dell'oligopolio ristretto a livello mondiale delle imprese di management consultancy (15 imprese), di auditing (5 imprese, prima della probabile eliminazione di Andersen), e di merchant banking (12) generalmente portatrici della cultura acritica ("trionfalistica") della globalizzazione basata sulla concentrazione oligopolistica a livello mondiale nei settori delle industrie manufatturiere e dei servizi innovativi; [3] relative al superamento dell'arretratezza italiana e piemontese nei settori chiave all'interno dei servizi reali e finanziari nei servizi alle persone e alle imprese in termini di formazione delle risorse umane, di innovazione, di internazionalizzazione produttiva (l'internazionalizzazione commerciale è molto limitata, poiché nella quasi totalità dei settori dei servizi non vi sono possibilità di esportazione). [4] relative ai rapporti di lavoro: sindacati, contrattazione per settori; economia e sociologia del lavoro nei settori dei servizi. [5] formazione di base specifica orientata ai singoli settori dei servizi. Il percorso di ricerca potrebbe essere il seguente: a) raccolta della normativa in atto a livello comunitario e nei principali paesi europei sulle politiche di liberalizzazione; b) rassegna delle posizioni e del dibattito sulle politiche di liberalizzazione, in particolare sull'evoluzione nelle varie realtà delle esperienze sui servizi alle persone e alle imprese; c) attivazione di un gruppo misto di esperti per la individuazione dei nodi che richiedono approfondimento ed esplorazione a mezzo di colloqui o questionari; d) formulazione delle prospettive che risultano dalla ricerca con rapporto finale. 4. L'IMPATTO FRA REALTÀ LOCALE E NUOVI FLUSSI MIGRATORI Accelerare il processo di demolizione delle barriere protezionistiche

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Nel 1994 i paesi industrializzati, vicini alla vittoria, avviarono a Bretton Wood gli accordi fra le organizzazioni mondiali per il regolamento dei rapporti internazionali politici ed economici. Il sistema dei cambi fissi fu uno dei pilastri di quel progetto e contribuì in misura decisiva al processo di ricostruzione dell'economia internazionale fino al 1973 (caduta dei cambi fissi e prima crisi petrolifera). Alla fine del '90 il sistema dei cambi fissi è stato restaurato in Europa in modo irreversibile: la moneta unica elimina il cambio. Il passo successivo sarà un sistema di cambi fissi Euro/Dollaro e successivamente Yen (non ne parlano neppure i futurologi; comunque è formidabile obiettivo di breve/medio termine). La liberazione della circolazione delle merci, delle persone e dei capitali non ha subito inversioni di percorso. Nel corso degli anni '80/90 c'è stata un'accelerazione di questi processi per quanto riguarda la circolazione dei capitali (ma con gravi effetti di volatilizzazione dei cambi). La liberalizzazione degli scambi internazionali di merci è preceduta abbastanza speditamente, ma con molta cautela da parte dei paesi UE e da parte USA tuttora arroccati nella difesa protezionistica (i) delle loro produzioni agroalimentari; (ii) delle filiere tessile/abbigliamento e calzature (iii); di alcuni prodotti base, come l'acciaio, rame ed altri. La liberalizzazione della circolazione delle persone Nell'area della liberalizzazione della circolazione delle persone i processi sono molto lenti ed incontrano gravi ostacoli, soste e inversioni di tendenza: identità culturali contro sviluppo multiculturale pluritecnico; in parole povere, razzismo in Europa e negli USA. Nei processi di liberalizzazione quella della circolazione delle persone non è soltanto una questione basilare del progresso civile, ma è anche una essenziale condizione necessaria dello sviluppo economico. Simmetricamente sono poco approfonditi, nei paesi industrializzati, i versanti più o meno positivi: (i) gli effetti di sradicamento e di impoverimento delle aree di origine; (ii) i drammi delle migrazioni clandestine; (iii) le fasi di inserimento sociale e culturale nelle aree di destinazione (gli iter di inserimento nelle attività lavorative, di apprendimento della lingua, di inserimento scolastico dei figli, i drammi dell'abitazione, la crescita delle comunità degli immigrati per area di origine e interscambio culturale ed economico fra le comunità delle stesse etnie nelle aree di origine/destinazione; i flussi di ritorno e altre tematiche); (iv) le normative e le regolamentazioni de facto; (v) gli atteggiamenti e i comportamenti dei gruppi politici di fronte alle problematiche dei flussi migratori nel periodo della globalizzazione, e altre; (vi) la domanda di occupazione nelle aree di destinazione [a] in relazione alla crescita dei sistemi produttivi nei settori primari, manifatturieri e nei servizi; [b] in relazione alla "ricerca di

calmierazione" dei livelli retributivi (scarsamente evidenziata, ma di pesante consistenza). Di qui la necessità di inserire questi processi al primo posto negli studi e nelle banche dati dell'Osservatorio sulla globalizzazione. Per quanto riguarda l'Italia e in particolare il nord-ovest e la regione piemontese, è utile introdurre una proposta di periodizzazione basata su fasi diverse: 5. flussi migratori verso l'estero fine ottocento fino agli anni '30; 6. flussi migratori verso altri paesi europei ed Australia nel dopoguerra fino agli anni '70; 7. flussi migratori interni est-ovest e sud-nord fino alla metà degli anni '80; 8. rapida inversione di tendenza (unico paese al mondo? ) e inizio dei flussi migratori in entrata. L'altra area "attuale" di analisi riguarda l'interdipendenza fra i flussi migratori in entrata (dall'esterno della regione ed anche flussi intraregionali e inversione di tendenza di attrazione della città di Torino rispetto al resto del Piemonte e all'area metropolitana) e (iv) il processo di incremento qualitativo di domanda di risorse umane generato dallo sviluppo delle singole attività economiche e (v) l'evoluzione qualitativa della domanda di risorse umane a ogni livello di formazione e di esperienza professionale; (vi) flussi in entrata, flussi in uscita e saldi, per area di origine/destinazione. Un primo schema di osservatorio sui flussi migratori Utilizzando le ricognizioni analitiche e le indagini empiriche disponibili finalizzate alle analisi e agli studi sui flussi migratori in entrata e in uscita dal Piemonte, l'Osservatorio potrà darsi carico delle metodologie adottabili e dell'avviamento del monitoraggio dei flussi migratori in Piemonte e nelle aree piemontesi significative agli effetti dei flussi migratori in entrata e anche in uscita (comunità montane, aree di deindustrializzazione). Eventualmente l'Osservatorio potrà mantenere la banca dati sui flussi migratori e redigere un rapporto periodico su: - i flussi in entrata da paesi esteri: area di origine (e non solo nazionalità), età, genere, iter formativo e occupazionale nell'area di origine; gruppi familiari; comunità religiose di appartenenza; inserimento sociale, tipologia di abitazione nell'iter di inserimento; processo di acquisizione dei permessi e della residenza; iter di inserimento nell'attività lavorativa, abitazione; - i flussi in entrata da altre regioni italiane;

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- i flussi di migrazioni intraregionali per tipologia di area di orgine/destinazione. - i flussi in uscita verso altri paesi e verso altre regioni italiane: gli emigrati dal Piemonte: (i) prima emigrazione di residenti tradizionali verso l'esterno in presenza di processi di globalizzazione; (ii) il ritorno degli emigrati, motivazioni e rilevazioni come per i flussi in entrata;

L'OSSERVATORIO SULLA GLOBALIZZAZIONE COME NETWORK ON-LINE Piattaforma informatica in rete per la gestione, la discussione e la diffusione dei risultati relativi alle ricerche e attività dell'Osservatorio sulla globalizzazione. L'Osservatorio sulla globalizzazione per la sua natura di associazione tra associazioni, si costituisce come network dotato di una propria piattaforma informatica di immediata e generalizzata consultazione on-line, al fine di: o andare incontro alle esigenze metodologiche delle ricerche che richiedono la creazione di gruppi di discussione e 'focus group' tra molteplici figure sociali anche disseminate nel territorio regionale, nonché il confronto con esperienze e casi studio internazionali. o Restituire un quadro esaustivo dello stato dell'arte delle varie ricerche e dei relativi risultati, nonché la capitalizzazione e la razionalizzazione delle informazioni in possesso dei vari ricercatori ed enti coinvolti nella stessa ricerca. o Fornire uno spazio di confronto permanente e aperto tra i partners dell'Osservatorio e tutti i possibili interlocutori istituzionali, sociali o culturali sia per garantire un dialogo continuo tra le parti, che per monitorare gli ambiti sui quali implementare le ricerche o allargare il campo di analisi e svilupparne di nuove. o Aumentare la sensibilizzazione sulle tematiche, problematiche e possibili linee d'intervento delle conseguenze su Torino e il Piemonte della globalizzazione, in un'ottica critica e scientifica. E' quindi preliminare all'avvio delle singole ricerche che l'Osservatorio sviluppi un proprio sito internet con adeguata piattaforma rispondente alle suddette necessità. Una tale struttura informatica in rete permette inoltre di risolvere il duplice problema dell'assenza, al momento, sia di una struttura fisica comune ai partners dell'Osservatorio, sia di un comune strumento per la comunicazione e diffusione delle sue iniziative e dei suoi risultati. La piattaforma informatica dell'Osservatorio rappresenta inoltre un aspetto innovativo in quanto supporto tecnologico analogo a quelli in dotazione a similari strutture d'indagine a livello europeo.

DISSEMINAZIONE DEI RISULTATI DELL'OSSERVATORIO Follow-up e beneficiari delle ricerche dell'Osservatorio sulla globalizzazione. L'osservatorio si prenderà cura della disseminazione dei risultati delle ricerche condotte su tre ordini di beneficiari: uno generale, uno relativo ai propri partner ed uno relativo alle istituzione e agli sponsor, pubblici e privati, del progetto. o Attraverso il sito internet il più ampio pubblico avrà beneficio attraverso l'accesso in tempo reale ai dati raccolti ed elaborati dalla varie ricerche compiute o in corso d'opera. o Le singole associazioni partner trarranno beneficio implementando qualitativamente sia la loro attività con studi fortemente ancorati alle più attuali dinamiche sociali, economiche e culturali del territorio; sia il loro know-how, valorizzando il loro capitale umano, con un'attività di ricerca che, prendendo la forma di network, favorisce il confronto d'esperienza tra i vari ricercatori coinvolti. o Infine, ma non ultimi, le istituzione e gli sponsor del progetto saranno i beneficiari sostanziali dei risultati dell'Osservatorio sulla globalizzazione in quanto interessati alla valutazione di strategie, già attuate o da attuarsi, nell'ambito dei loro raggi d'azione e campi di attuazione di politiche e investimenti sul territorio piemontese. A questo scopo, le varie ricerche condotte dall'Osservatorio dovranno essere fatte seguire da iniziative di pubblico confronto con le istituzione e gli sponsor dell'iniziativa, attraverso workshop in forma di convegni o seminari, debitamente pubblicizzati sui mezzi stampa regionali. Versione novembre 2002

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* 15 novembre 2002 ASSEMBLEA GENERALE In questi mesi è stato compiuto un sforzo per rilanciare l'attività della nostra Associazione, la cui esistenza ha più che un motivo di rinnovarsi considerando l'incerto sviluppo tanto delle forze politiche di sinistra, quanto delle realtà economiche e sociali del Paese e di Torino in particolare. Alcuni impegni e collaborazioni richiedono che la Società Fabiana si riorganizzi in modo formale ed adeguato, rinnovando le cariche sociali, i suoi organi interni e discutendo gli indirizzi generali. E' quindi indetta in prima convocazione l'Assemblea generale per le ore 15 di giovedì 14 novembre ed in seconda convocazione venerdì 15 novembre alle ore 17,30 presso l'Istituto Salvemini in via Vanchiglia 3 a Torino.

• Promemoria del programma di attività

• Documento politico • Verbale d'Assemblea

PROMEMORIA SUL PROGRAMMA DELLE ATTIVITA' (ottobre 2002)

1. Sviluppo multinodale dell'Associazione. A seguito di alcuni contatti e di incontri al circolo De Amicis di Milano con Mario Artali e Massimo Guerrieri, si è venuta esplicitando la volontà di articolare la nostra Associazione in più nodi. In particolare negli ultimi mesi si è concretizzato l'interessamento del professore Giorgio Ruffolo per sviluppare anche a Roma l'attività della Società Fabiana. Altri contatti sono in corso con studenti siciliani dell'area di Emanuele Macaluso. Inoltre sembra ora possibile allacciare a breve rapporti con la Fabian Society di Londra.

2. Osservatorio sulla globalizzazione in Piemonte. Sono proseguiti nell'ultimo anno le riunioni preliminari alla creazione di una 'Associazione di Associazioni' fra: Istituto Salvemini, Società Fabiana, Fondazione Nocentini, Fondazione Gramsci, Centro Studi Longo, Centro Iniziativa per l'Europa, Ares-Uil. Denominata "Osservatorio sulla globalizzazione", il suo scopo sociale è quello di approntare progetti di ricerca sulle conseguenze della globalizzazione economica, sociale e culturale con particolare riguardo a Torino e il Piemonte, la loro discussione e diffusione. Allo stato dell'arte sono in preparazione 5 progetti di ricerca.. Nel mese di novembre è prevista la costituzione formale di questo consorzio di associazioni.

3. Collaborazione con la UIL Piemonte. In occasione di due incontri tra la Società Fabiana e l'Istituto Salvemini con Giorgio Rossetto, segretario generale della Uil Piemonte, si è giunti alla comune volontà di sviluppare una stretta collaborazione tra le tre associazioni. Oggetto della collaborazione sono la pubblicazione di un periodico della Uil con inserto culturale a cura di Fabiana e Salvemini, la progettazione ed esecuzione di ricerca e formazione, soprattutto in relazione ai progetti europei su tematiche quali: sviluppo locale, disagio sociale, pari opportunità tra donne e uomini, storia e identità sindacale.

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DOCUMENTO PER IL RILANCIO DELLA SOCIETÀ FABIANA Re-immaginare la sinistra, tra utopia e riforma, tra diritti e doveri, tra uomo e natura, tra scienze umane e scienze esatte 1.CRISI DELLA SINISTRA E NUOVI MOVIMENTI E’ sicuramente molto cambiato lo scenario da quando nel 1999 iniziò a operare la Società Fabiana. Allora, nel documento preliminare alla costituzione della società - intitolato “Governo e buon governo” - si denunciava la svalutazione della politica, intesa ormai ---come “arte del consenso” il cui obiettivo è «la conquista, sic et simpliciter, del potere». Denunciavamo la mancanza anche a sinistra di obiettivi di alto profilo e i pericoli di una concezione dell’Ulivo come versione italica del partito democratico americano. Oggi la sinistra italiana si trova in una situazione ancor più grave di crisi. Non è più al governo e alle ultime elezioni politiche ha raccolto, nel suo complesso, il minimo storico dei voti dal dopoguerra. E’ profondamente divisa sia nelle sue rappresentanza politiche, i partiti, sia più recentemente in quelle sindacali. Si sono viceversa affacciati sulla scena politica vari movimenti, primo tra tutti il cosiddetto “Movimento di Seattle”, o “No-global. Un variegato movimento che, lottando contro la globalizzazione attuata dal capitalismo oligopolista, ha dato corpo ad una composita opposizione all’omologazione del primato dell’economia in versione neoliberista che ha coinvolto in tutto il mondo anche i partiti di sinistra. Un movimento che, sebbene forse in crisi dopo l’11 settembre 2001, chiede il ritorno del primato della politica e, alla sinistra, di riconquistare il suo senso di responsabilità verso le povertà e i conflitti sociali, politici e culturali in qualunque parte del mondo si annidino. E’ quindi proprio una sinistra irriconoscibile, quella attuale, che ha perso la capacità di interpretare quanto viene sollevato dai nuovi movimenti sociali e di trasformare la protesta in proposta politica incisiva per la ricerca di maggior giustizia sociale, per ridurre le profonde disuguaglianze fra una minoranza di paesi ricchi e sviluppati e la stragrande maggioranza dell’umanità in condizioni di miseria e sottosviluppo. Situazione che, tra l’altro, agevola e alimenta il reclutamento di disperati o fanatici per quel folle esercito del terrorismo che domina l’attuale scenario di guerra in atto: fluida, diffusa, a carattere mondiale. Sarà allora anche nostro compito, come in agenda alla Fabian Society d’oltremanica, cercare di sviluppare la risposta socialdemocratica alla globalizzazione, anche

ponendoci come un nodo del contesto più vasto, italiano ed europeo, della rete di produzione di idee e cultura per una sinistra che voglia ripristinare innanzitutto il primato della politica. 2. SINISTRA E DISCORSO PUBBLICO Non possiamo che ribadire, dopo tre anni, la denuncia del fatto che i due schieramenti bipolari oggi sullo scenario continuino a seguire un modello di gestione del potere che sa di "autoritario", di governo permanente che non si preoccupa più di tanto del tradizionale governo rappresentativo, dello scontro dei partiti e del dibattito parlamentare, ma preferisce rivolgersi direttamente "al popolo", creando un’individualizzazione della politica che indebolisce i controlli democratici e a poco a poco erode lo stesso principio democratico. La sinistra non può restare priva di idee senza alimentare questo contrazione di democrazia, che poi sarà di libertà, di trasparenza, di giustizia e di pari opportunità. Una sinistra “seria” non può limitarsi a rincorre la destra sul piano demoscopico dei sondaggi. Nel 1999 dicevamo che «accettare il reale come un dato immodificabile di natura è proprio quello che distingue il pensiero conservatore da quello progressista»; oggi dobbiamo ribadire quel concetto con maggior durezza: la sinistra ha bisogno di affilare le sua armi di analisi per re-immaginare un progetto di modifica del reale che la porti fuori dalle sacche del conformismo dove sta affondando. Le occorre il coraggio di avviare un progetto di ampio respiro e di alto profilo che abbia la forza di farle acquisire una vocazione maggioritaria nel paese. Quella che già allora individuavamo come la principale carenza della sinistra, cioè l’incapacità di analizzare il presente, «che è la sola vera condizione per poter progettare il futuro», non si è modificata, mentre continua l’inganno ‘ideologico’ di pensare che la condizione base per rilanciare se stessa e la sua coalizione risieda in una questione tecnica di ‘management’ interno e di ‘marketing’ d’immagine. Le ultime elezioni hanno dimostrato abbondantemente, invece, come i partiti della sinistra, o quel che resta di loro, siano ancora incapaci di organizzare il discorso pubblico degli italiani. Sono privi di “una retorica dell’appartenenza comune”, per usare la dizione del politolo americano Rorty, quella capace di fornire un contenuto di speranza dalla critica stringente nei confronti della cultura dominante e di svolgere la sua funzione di mobilitare e di spingere all’attività riformistica concreta. La responsabilità maggiore di questa situazione, va detto chiaramente, grava sugli intellettuali e gli accademici con i loro atteggiamenti da spettatori sfiduciati di quanto accade nell’agorà politica. Soprattutto di quella sinistra culturale che, impegnata con distaccata ironia a smascherare i presupposti ideologici delle varie proposte in campo, non ottiene altro risultato che privare di ogni credibilità qualsiasi discorso pubblico, conducendolo nelle secche nichiliste di un relativismo assoluto. Un atteggiamento sterile nei

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confronti della politica che alimenta, di fatto, nella società o conformismo o disimpegno. 3. PER UN’UTOPIA SOCIALE CONCRETA E RESPONSABILE Scriveva Camus che “il grande evento” del ‘900 è stato l'abbandono dei valori di libertà da parte del socialismo: “Da quel momento ogni speranza è sparita dal mondo, ed è iniziata la solitudine per ogni uomo libero". Nella sua storia, la sinistra in Occidente ha avuto successo nel migliorare le condizioni generali di vita, ma non ha avuto successo nel proporre il suo progetto di società. Oggi si tratta di ridisegnare quel progetto mantenendo chiaro il profilo antiautoritario, proprio del pragmatismo della tradizione fabiana ed anglossassone, evitando di ripetere quell'atteggiamento di rifiuto verso quanto c'era e c'è di positivo nelle altre culture, soprattutto in relazione alle domande di libertà ed emancipazione sociale, psicologica e culturale. E’ mancata e va presto costruita, un’idea di utopia “sociale e concreta” che fornisca una spinta etica alla partecipazione verso un progetto alternativo di sviluppo capace di coniugare le libertà individuali con i diritti sociali, lo sviluppo scientifico e tecnologico con l’ambiente, il disagio psicologico con quello sociale. Un’utopia pragmatica, ossimoro come il socialismo liberale, nella quale, come scriveva Carlo Rosselli: “La libertà comincia con l'educazione dell'uomo e si conchiude col trionfo di uno Stato di liberi, in parità di diritti e di doveri”. Capace di proporre un diversa dimensione e qualità della vita, dove l’emancipazione non sia solo quella contro il ‘tiranno’ di turno, ma anche una conquista dell'indipendenza e della maturità morale per mezzo delle buone istituzioni, delle buone leggi e dell'educazione. Una utopia con la forma del progetto sociale che, in relazione allo sviluppo della cosiddetta civiltà di massa e tecnologica, fornisca delle risposte laiche ai bisogni di cittadini, lavoratori ed esclusi, ma anche a quello che Dahrendorf chiama il “bisogno di significato” della vita. Un progetto per una società “aperta” che garantisca la socializzazione dei saperi, la più vasta assunzione di responsabilità da parte dei singoli, così da ritrovare una rinnovata cultura laica come diffusa capacità di giudizio di fronte a sfide assolutamente nuove in settori come la salute, la ricerca scientifica e la salvaguardia dell’ambiente, quali sono, ad esempio, l'eutanasia, le biotecnologie e i prodotti transgenici. Un’utopia permeata da quel “principio di responsabilità” che permetta di puntare soprattutto sulla qualità dello sviluppo, invece che solamente sulla crescita quantitativa delle scienze, delle tecnologie e dell'economia. Un’utopia responsabile, quindi, che, nel solco del 'modello’ di Adriano Olivetti, sappia abbinare cultura e industria, coniugare le regole del mercato con i principi dell'etica pubblica e della responsabilizzazione sociale. Si tratta di ridisegnare diritti e doveri: è lì la risposta alla richiesta di governance dei processi e dei conflitti in quella dimensione ‘glocal’, dove si interconnettono locale e mondiale.

4. RIFORMARE L’AGORA’ NELLA MODERNITA’ Scrive Zygmunt Bauman che i partiti della sinistra, e più in generale l’agorà, «Non è più quello spazio in cui i problemi privati si connettono in modo significativo: vale a dire, non per trarre piaceri narcisistici o per sfruttare a fini terapeutici la scena pubblica, ma per cercare strumenti gestiti collettivamente abbastanza efficaci da sollevare gli individui dalla miseria subita privatamente; lo spazio in cui possono nascere e prendere forma idee quali "bene pubblico", "società giusta", o "valori condivisi"». Allora è necessario che nuovi spazi di organizzazione della cultura e dell'opinione, come quello costituito dalla Società Fabiana, sappiano mantenere con continuità la loro capacità di iniziativa e di espressione propositiva e progettuale. Probabilmente non è più rilevante, come dicevamo nel 1999, il nome e il modello sotto il quale aggregare la disfatta sinistra italiana: il problema del riformismo oggi è lo stesso che si chiami liberal, nel partito democratico negli Stati Uniti, o che si chiami socialista, nei partiti socialisti europei. Il punto per tutte le sinistre è re-introdurre sulla ‘piazza della politica’ una dinamica circolare tra utopia e riforma, tra narrazione ideale e proposta politica. Il punto di partenza dal quale far ripartire questa dinamica può ben essere lo stato dell’arte a cui è giunta la critica della modernità. Un sociologo come Alain Touraine, quando parla di “piena modernità”, conclude che: «E’ al contempo libertà e lavoro, comunità e individualità, ordine e movimento. Riunisce ciò che era separato e lotta contro le minacce di rottura che, più pericolosamente che mai, tendono a separare il mondo delle tecniche da quello delle identità». “Ragione e soggetto” non devono più marciare separati, ma, esclusa ogni forma di filosofia dell’ordine sociale o di determinismo storico, unirsi e «l’ agente di tale unione è il movimento sociale». Conclusione non diversa dallo psicologo e pensatore James Hillman, per cui è fasulla la cesura tra sfera individuale (psiche) e quella pubblica (polis), tra uomo e natura, e va ripristinato il ponte tra l'io (interno) e il mondo (esterno), tra res cogita e res extensa. Sostengono entrambi insomma che un imperativo etico sostituisca il cartesiano "cogito ergo sum" con: "Partecipo, faccio parte di un partito, dunque sono", o "Immagino me, il mondo e la mia città in forme diverse, dunque sono". Su questo nuovo presupposto, va ripensato il rapporto tra scienze umane e scienze esatte, perché insieme, mettendo da parte i loro linguaggi specialistici, tornino alleate a presentare un discorso pubblico che risponda alla solitudine del cittadino globalizzato. Se il compito della Società Fabiana era quello di cercare di colmare le carenza dei partiti della sinistra, «esaminando alcuni problemi della nostra società, approfondirli con un’attività di studio, di ricerca documentale, di confronto per poter possibilmente pervenire a ipotesi di soluzione da offrire agli operatori politici», oggi dobbiamo allargare il nostro orizzonte

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ed entrare molto di più nel merito e nel dettaglio della sua rinnovata attività. Occorre definire precisamente i metodi di studio e ricerca, allargare l’ambito territoriale e disciplinare al quale si è riferita fino ad oggi, aumentare la sua capacità di dialogo con le organizzazioni pubbliche e private della società civile, potenziare la sua comunicazione esterna in un’opera di formazione e socializzazione delle conoscenze scientifiche, tecniche e culturali, oggi troppo chiuse, come i capitali finanziari, in ambiti oligarchici, poco trasparenti e democratici. Dobbiamo riproporci come interlocutori verso almeno una parte dell’opinione pubblica e come spazio autonomo dai partiti, ma rigenerativo di quella piazza dove vogliamo vedere tornare ad aggirarsi discutendo animatamente coloro, filosofi o scienziati che siano, i quali provano a re-immaginare se stessi e il mondo. 5. CONOSCERE PER RIFORMARE: METODO E STRUMENTI Lo scopo sociale dell’attività della Società Fabiana non può che partire dal concetto di conoscere per riformare. Studiare, prendere coscienza delle problematiche che sono alla base delle istanze culturali e delle dinamiche sociali presenti sul territorio e, quindi, dall’indagine e l’analisi dei bisogni svolta, sviluppare proposte di formazione, informazione e progettazione sociale. Se si conviene che le discipline scientifiche devono entrare, oltre che come campo specifico di saperi, anche come metodo d’indagine nell’asse privilegiato dell’attività della Società Fabiana, deve conseguirne una forma congrua di ricerca, elaborazione e pubblicizzazione dei risultati delle medesime. La pluralità di impianti epistemologici e la laicità come matrice identitaria, che si sostanzia nella sobrietà degli stili, nel politeismo valoriale ed in una valutatività informata al giudizio di fatto e orientata, solo in un successivo momento, alla costituzione del giudizio di valore, devono essere poste alla base dall’agire fabiano. La lezione imprescindibile è, ancora una volta, quella propostaci da Max Weber e da Edgar Morin. L’incontro tra scienze sociali e storiche - in tutte le loro molteplici accezioni - e scienze naturali avviene sul terreno, oggi più che mai conteso, poiché in sé tutto fuorché neutro, della qualificazione degli strumenti operativi e della formazione delle procedure per la definizione della natura dei problemi e l’articolazione delle risposte. Il perno dei conflitti - intesi come occasione di sviluppo e non come vincolo strutturale - risiede nella costituzione di un campo di consenso sulle modalità da adottare per definire, linguisticamente e cognitivamente, una dimensione tematica, alla quale far seguire delle politiche di relazione, strutturate a rete, in cui i soggetti in rapporto possano trovare sintesi senza venire meno alla loro denominazione identitaria. Di particolare importanza è allora l’individuazione e l’attivazione di due criteri di lavoro, al contempo metodo e finalità del suo operato. Il primo di essi è l’Osservatorio, strumento operativo attraverso il quale ci si adopera per identificare e qualificare quel che avviene nel e sul territorio.

Avvalendosi delle opportunità offerte dalla ricerca empirica e dall’inchiesta, nel solco di una tradizione di riflessione riformista che già nella Fabian Society prima e nelle esperienze nostrane di Comunità e dei Quaderni Rossi poi avevano trovato espressione, l’osservatorio è inteso come mezzo durevole per la raccolta e la selezione delle informazioni, oltre che delle indicazioni che da esse scaturiscono. La finalità di tale strumento, orientato all’adesione empirica all’oggetto e ai contesti d’azione, permetterà di definire gli obiettivi in modo organico e non occasionale, sostanziandoli di una continuità conoscitiva e spendibilità propositiva che consentirà di offrirli anche professionalmente a enti pubblici e privati così come agli operatori sociali e culturali più direttamente interessati. Esso risponde inoltre alle esigenze progettuali tipiche delle istituzioni comunitarie europee, sia per quanto concerne l’accesso ai finanziamenti, sia per le connessioni con realtà associative affini in ambito internazionale. Sommariamente si identificano i seguenti ambiti operativi nel contesto dei quali articolare l’attività per la costruzione di politiche dell’indagine: la definizione delle aree tematiche: cosa fare oggetto del proprio lavoro analitico ed interpretativo. La mappatura delle risorse: qual è l’articolazione spaziale - fisica e simbolica -, la dislocazione materiale, la disposizione geografica degli elementi costitutivi il territorio sul quale si opera. L’identificazione degli agenti: quali e quante sono le figure operanti nell’ambito all’interno del quale si intende intervenire. La delimitazione dei contesti: cosa si può fare rispetto a chi nell’ambiente nel quale si opera. L’attivazione degli attori: chi può fare cosa. Il secondo è il Laboratorio, forma organizzativa dell’attività d’indagine osservatoriale, volta a sostanziare nell’offerta per il territorio la propria vocazione operativa. Esso permette di coinvolgere stabilmente ricercatori, studiosi, cultori ed agenti nelle diverse aree tematiche e discipline coinvolte con le metodologie proprie innanzitutto dell’inchiesta. Gli obiettivi prefissi sono molteplici ma si estrinsecano in una politica dell’offerta che, rifacendosi alla concretezza del contesto nel quale ci si trova ad operare, permetterà alla Società Fabiana d’improntare il proprio operato ad un azione politico-culturale non meno che culturale e di renderla intelligibile e tangibile rispetto alle figure operanti nello stesso teatro. I filoni di intervento sono essenzialmente quattro: la ricerca: elaborazione e sintesi dei riscontri ottenuti attraverso l’attività dell’osservatorio; la formazione: veicolazione didattica dei saperi e selezione degli interlocutori permanenti; l’informazione: comunicazione diffusa; i progetti sociali: definizione e determinazione di servizi. Torino, novembre 2002

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Verbale dell'Assemblea generale del 15.11.2002 Inizio lavori, ore 17,45 Marco BRUNAZZI Introduco questa l'Assemblea ringraziando i partecipanti e precisando che l'obiettivo all'ordine del giorno è quello di rilanciare l'attività dell'Associazione. Propongo che intervenga Giuseppe Maspoli per un breve excursus sull'attività passata e quindi di proceder con la relazione di Luca Guglielminetti sulle sullo stato dell'arte delle iniziative. Giuseppe MASPOLI Quasi tutti i presenti sanno qual è stata l'impegno della Società Fabiana dal suo esordio nel 1998, con i seminari, i convegni e le ricerche svolte. Un anno e mezzo fa purtroppo ci siamo ci siamo arenati su un'iniziativa molto interessante: quella di una scuola di formazione per la politica. Si sono inoltre presentati problemi di salute che mi hanno impossibilitato a procedere con pari impegno nel sostegno e sviluppo dell'Associazione. Ringrazio Luca Guglielminetti per aver tenuta accesa la fiammella in questi ultimi mesi e sentiamo quali iniziative ci propone per il rilancio della Fabiana. Luca GUGLIELMINETTI A seguito di alcuni contatti e di incontri al circolo De Amicis di Milano all'inizio di quest'anno con Mario Artali e Massimo Guerrieri, si è venuta esplicitando la volontà di articolare la nostra Associazione in più nodi. In particolare negli ultimi mesi si è concretizzato l'interessamento del professore Giorgio Ruffolo per sviluppare anche a Roma l'attività della Società Fabiana. Altri contatti sono in corso da tempo con giovani compagni siciliani dell'area di Emanuele Macaluso. Sembrerebbero esserci in somma le condizioni, a medio/breve termine, per sviluppare la Società Fabiana a livello nazionale e quindi procedere ad allacciare rapporti con la Fabian Society di Londra in forma continuativa. Prima di dare la parola ai nostri ospiti, perché tutti abbiano un quadro dell'attività della nostra Associazione, vorrei presentare le iniziative che a breve ci impegneranno: La prima è relativa all'Osservatorio sulla globalizzazione in Piemonte. Sono proseguiti nell'ultimo anno le riunioni preliminari alla creazione di una 'Associazione di Associazioni' fra: Istituto Salvemini, Società Fabiana, Fondazione Nocentini, Fondazione Gramsci, Centro Studi Longo, Centro Iniziativa per l'Europa, Ares-Uil. Il cui scopo sociale è quello di approntare progetti di ricerca sulle conseguenze della globalizzazione economica, sociale e culturale con particolare riguardo a Torino e il Piemonte, la loro discussione e diffusione. E' prevista per la prossima settimana la costituzione formale di questo consorzio di associazioni e allo stato dell'arte ci sono 5 progetti di ricerca.. Due dei quali curati da Ruggero Cominotti che pregherei di intervenire per una loro breve presentazione.

Ruggero COMINOTTI Qunado parliamo di globalizzazione, di internazionalizzazione delle imprese, il primo dato che colpisce è la carenza di ricerche sul fenomeno. I pochi dati a disposizione sono detenuti da una ristretta cerchia di addetti ai lavori, mentre accorre una loro maggiore circuitazione e un maggiore approfondimento per capire i rilessi e le ricadute di questo processo hanno sul Piemonte e la nostra città, in un momento come questo, nel quale si evince la miopie di gestione delle FIAT. Questo Osservatorio nasce dunque dalla necessità di analizzare per capire fenomeni che vanno dalla politica industriale all'immigrazione. Luca GUGLIELMINETTI La seconda area di attività riguarda la Collaborazione con la UIL Piemonte. In occasione di due incontri tra la Società Fabiana e l'Istituto Salvemini con Giorgio Rossetto, segretario generale della Uil Piemonte, si è giunti alla comune volontà di sviluppare una stretta collaborazione tra le tre associazioni. Oggetto della collaborazione sono la pubblicazione di un periodico della Uil con inserto culturale a cura di Fabiana e Salvemini, nonché la progettazione ed esecuzione di ricerca e formazione, soprattutto in relazione ai progetti europei su tematiche quali: sviluppo locale, disagio sociale, pari opportunità tra donne e uomini, storia e identità sindacale. Una di queste ricerche diventerà operativa la prossima settimana: riguarda un programma europeo EQUAL, sul tema dell'agio e disagio dei lavoratori, dei quali sono promotori le RSU nazionali e nel quale la Uil Piemonte è coinvolta come capofila per il suo sviluppo in Piemonte. Pregherei il Dott. Tozzi, che svolgerà il ruolo di capo ricercatore, di presentarci brevemente il quadro e le finalità del progetto in questione. Franco TOZZI Il progetto di ricerca riguarda la necessità di adeguare le rappresentanze sindacali ai nuovi compiti previsti dalla normativa di devoluzione del wellfare a livello regionale. I delegati dovranno formarsi in un nuovo ambito come quello dell'analisi dell'agio e del disagio del lavoratori e quindi essere in grado di sviluppare, sulla scorta dei servizi sociale e sanitari presenti sul territorio, una contrattazione con gli enti regionali preposti. Luca GUGLIELMINETTI Il terzo impegno sul quale decidere oggi se e come coinvolgere la Fabiana, riguarda un tema di scottante attualità: i cosiddetti 'esuberi' FIAT. Dico solo che l'idea nasce dall'incontro tra un gruppo di fotografi e un "Social Club", i Bread & Roses, che ha recentemente iniziato la sua attività, presentandosi in occasione e del corteo del Primo Maggio e dell'incontro che si è svolto a Torino la scorsa primavera con Emanuele Macaluso. Costituiscono una specie di eredità dei giovani della Fabiana e del Circolo Pertini. Ma vorrei che ad illustrare nel merito questa iniziativa, che ha già l'avvallo da parte della Fondazione Italiana della Fotografia e dei vertici cittadini di CGIL e UIL, sia uno dei fotografi ideatori: Fulvio Bortolozzo, qui presente insieme ad Alfonso Quaglia.

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Fulvio BORTOLOZZO Obbiettivo del progetto "uno scatto d'orgoglio" è la sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul problema sociale degli esuberi FIAT, attraverso la creazione di un evento basato sull'impiego del mezzo fotografico. Proponiamo di compiere un miracolo: trasformare migliaia di esuberi in ritratti fotografici. Non sarà ancora come trasformarli in persone vere, con la loro realtà di carne e ossa, con la loro dignità di cittadini, madri, mariti e figli, ma avranno almeno un nome e un cognome. Potremo così costruire un grande "muro del pianto" in una piazza di Torino dove esporre una selezione dei ritratti fotografici di una selezione di 90 di questi 'esuberi', ai quali affiancare una serie di iniziative collaterali. Luca GUGLIELMINETTI In fine, ma non ultimo, si propone che organizzare una presentazione della 'fatica letteraria' di Lorenzo Gianotti, che ha recentemente pubblicato 'L'enigma Codecà' affascinante ricostruzione di un clamoroso giallo di cronaca nelle Torino del dopoguerra. Lorenzo se puoi dirci qualcosa di più, grazie. Lorenzo GIANOTTI Breve riassunto della trama del suo libro. Luca GUGLIELMINETTI Diamo adesso la parola agli ospiti che sono venuti a trovarci da Roma e Milano. Massimo GUERRIERI Sono qui a testimoniare sia la difficoltà dei compagni di radice culturale Fabiana ad operare in seno ai partiti della sinistra, sia la disponibilità di una serie di compagni a partire da Giorgio Ruffolo, ma anche Federico Coen, Luciano Cafagna ed altri a Roma, Venezia, Genova, Salerno, per allargare l'Associazione ad altre realtà nazionali. L'obiettivo che propongo è quello di lavorare perché nei prossimi mesi si possa arrivare ad indire una Assemblea generale della Fabiana a livello nazionale. Mario ARTALI La politica ha bisogno di analisi e i partiti non sono più in grado di farle. La sinistra rincorre i temi posti all'ordine del giorno dalla maggioranza di centro-destra e non elabora un proprio piano di riforme. In quest'ottica risulta sicuramente utile l'opera che Società Fabiana può svolgere in questo desolante panorama privo di serie riflessioni critiche. Giuseppe MASPOLI Ricordo solo che la Fabiana si erge al di sopra dei partiti e che in questi anni hanno aderito da esponenti di Rifondazione Comunista a socialisti impegnati nell'area di centro dell'attuale maggioranza. Luca GUGLIELMINETTI Abbiamo da svolgere una serie di adempienze formali a partire dal fornire il patrocinio e la disponibilità organizzativa, come ente promotore, del progetto "Un scatto d'orgoglio", questa assemblea deve deliberare i

nuovi organi statutari ed in particolare l'ufficio di presidenza, al cui interno individuare il legale rappresentante, il collegio dei Revisori dei conti e quello dei Probi viri e il Tesoriere. La giunta esecutiva, data la fase di rilancio della nostra organizzazione, resta aperta al contributo partecipativo di tutti i soci. Nel Comitato Scientifico, anche a garanzia di continuità, continuano la loro collaborazione Pino Maspoli, Franco Reviglio e speriamo Luciano Gallino. Altre personalità del scientifico, accademico, imprenditoriale e giornalistico saranno nel tempo invitate a farsi cooptare. Qualunque modifica statutaria si propone di rimandarla in occasione della futura strutturazione a livello nazionale dell'Associazione. L'assemblea dove inoltre designare un membro effettivo ed uno supplente per il Consiglio direttivo del costituendo 'Osservatorio sulla Globalizzazione'. Ci sembra assolutamente naturale, per l'impegno svolto in questi mesi, che tali membri siano rispettivamente Ruggero Cominotti e Lorenzo Gianotti. L'assemblea dovrà infine deliberare la quota annuale associativa di adesione, che si propone di 30 Euro. La situazione contabile presenta un saldo attivo assolutamente minimale, che preghiamo Giacinto Villata di illustrarci brevemente. Giacinto VILLATA In cassa ci sono circa 250 Euro Luca GUGLIELMINETTI Dobbiamo quindi procedere a partire da oggi a raccogliere le quote associative, con la prospettiva però che nel giro dei prossimi due/tre mesi circa 2 milione di vecchie lire arriverà dalla ricerca per conto Uil in partenza. Al fine di garantire un equilibrio tra continuità, attuale disponibilità dei Soci Fondatori, e necessario ricambio generazionale si propone il seguente organigramma: Comitato di Presidenza: Ruggero Cominotti, Lorenzo Gianotti, Marco Brunazzi e Luca Guglielminetti (legale rappresentante) Tesoriere: Giacinto Villata Revisori dei conti: Roberta Adesso, Carlo Matis e Gianfranco Drogo Probi viri: Roberto Tutino, Sergio Astrologo e Renzo Friolotto Comitato Scientifico: Giuseppe Maspoli, Franco Reviglio,... L'assemblea, dopo breve discussione, approva tutti i deliberati proposti. Alle ore 19.40 si dichiara chiusa l'Assemblea.

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* novembre/dicembre 2002 Uno scatto d' orgoglio I fotografi ideatori del progetto Fulvio Bortolozzo Uma Franchini Alfonso Quaglia Entri promotori Fondazione Italiana della Fotografia Bread & Roses - Social Club Società Fabiana Circolo Pertini PREMESSA I media ci raccontano che esistono migliaia di entità biologiche non meglio identificate che si aggirano per Torino e per l'Italia tutta. Il loro nome mediatico è "esuberi". Ora, noi fotografi abbiamo molti poteri magici, uno dei quali è quello di trasformare la realtà in pezzetti di carta taumaturgici. Per questi motivi proponiamo di compiere un miracolo: trasfomare migliaia di esuberi in persone in carta politenata. Non sarà ancora come trasformarli in persone vere, con la loro realtà di carne e ossa, con la loro dignità di cittadini, madri, mariti e figli, ma avranno almeno un nome e un cognome. Potremo così costruire un grande "muro del pianto" in una piazza di Torino e riflettere meglio tutti assieme sul fatto che 25 tele dipinte, anche di eccellente mano d'artista, non valgono migliaia di vite in difficoltà. Non valgono soprattutto a sanare un debito civile e morale contratto con questa città troppo violata. DESCRIZIONE DEL PROGETTO Obbiettivo del progetto è la sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul problema sociale sopra descritto, attraverso la creazione di un evento basato sull'impiego del mezzo fotografico. La scelta dei metodi operativi è funzionale ad un rapporto equilibrato tra le esigenze simbologiche e l'investimento economico necessario. In questo senso, si è scelto di realizzare un numero dato di ritratti fotografici, per la precisione 90 (ispirandosi al noto modo di dire: "la paura fa 90"), che abbiano unità di concezione estetica e tecnica adeguate ad una "monumentalizzazione" dei soggetti. L'idea guida è quella di presentare ritratti di persone nella loro identità umana, prima che nella funzione lavorativa. La presentazione del lavoro dovrebbe conseguentemente esprimersi attraverso un montaggio di 90 stampe fotografiche a colori di 70x100 cm, realizzate a partire da pellicole piane 10x12 cm, disposte a "muro" su tre file sovrapposte sulle due facciate da 45 stampe ciascuna. Il luogo idoneo dovrebbe essere centrale rispetto all'urbanistica torinese (es.: piazza Castello) e consentire la realizzazione di eventi collaterali. Tra gli eventi possibili si individuano sin d'ora: fascia di 2 x 21 m nella parte bassa del "muro" a disposizione del

pubblico per inserirvi ritratti ed autoritratti di propria realizzazione; collocazione di cabina per fototessere (Photomaton) a disposizione degli intervenuti per autoritratti istantanei. Altri eventi collaterali quali: spettacoli di gruppi di animazione teatrale, musicale, convegni e seminari con la partecipazione dei sindacati, istituzioni e studiosi.

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ATTIVITA’ TRA IL DICEMBRE 2002 E LUGLIO 2004

OSSERVATORIO SULLA GLOBALIZZAZIONE Nel corso del 2003 il comitato direttivo presieduto da Giovanni Adonto, ha presentato il progetto e chiesti finanziamenti attraverso una serie d’incontri con enti locali e fondazioni bancarie. L’ultimo è stato presso l’assessorato alla cultura regionale. La scarsa attenzione ricevuta dagli enti pubblici locali ha di fatto posto il progetto in stallo. UIL PIEMONTE - La Fabiana attraverso un nostro ricercatore, ha partecipato nel 2003 al progetto europeo Equal sulla legge 328/2000 e le nuove politiche sociali. - Collaborazione con la segreteria per la preparazione di un periodico sindacale piemontese, che ha visto il numero zero uscire nel luglio 2003. Tale iniziativa editoriale si è rivelata però fragile sul piano strutturale interno alla Uil ed ora prosegue con sporadicità. - I 2 progetti di "azioni positive" per le Pari Opportunità nel quadro della Legge 125/91, presentati nel 2003 attraverso la Uil non sono stati finanziati. GIOVANI Il gruppo dei giovani fabiani tra il 2002 e il 2003 ha tentato un esperimento di dialogo (Bread & Roses) con i movimenti e le organizzazioni della sinistra torinese, sulla base dell’identità generazionale e lasciando a parte quelle ideologiche/partitiche, culminato col progetto per un “Uno scatto d’orgoglio” con le gigantografie dei ritratti degli 'esuberi' Fiat da esporre in piazza Castello, patrocinato dalla Fabiana e dalla Fondazione Italiana della Fotografia e proposto all’attenzione delle triplice sindacale torinese. Disponibilità dalla Uil, silenzio dalla altre

organizzazioni. Fine dell’esperimento: restano i rapporti ed incontri periodici tra i giovani fabiani, spesso approdati a ruoli di rilievo in altre associazioni politico/culturali di area. ALTRI RAPPORTI - Sono proseguiti i rapporti con il nucleo fabiano siciliano, che ha organizzato nel febbraio 2003 un seminario a Brolo (Me) “L’OCCASIONE SOCIALISTA Come uscire dalla crisi. Verso un’associazione politica laica, riformista e liberalsocialista”. Altre richieste da realtà geografiche diverse per attivare locali SF continuano ad arrivare, seppur episodicamente. - Nella primavera di quest’anno, alla presentazione del “triciclo” alla GAM di Torino, su suggerimento dei nostri soci proff. Ferrero e Andrea Araldi, è pervenuta una proposta di sostegno all’attività della Fabiana da parte dall’on. Enrico Buemi subordinata però al suo solo partito. Proposta declinata per il carattere “transpartitico” dell’associazione, semmai interessata allo sviluppo di un soggetto riformista più ampio possibile. - I rapporti con l’area di Giorgio Ruffolo presentati (Artali e Giolitti) in occasione dell’assemblea dei soci del novembre 2002, che sembravano aprire verso un rilancio in una prospettiva multipolare di nuclei fabiani in Italia, si è risolta con la sola richiesta di mutare lo statuto per spostare a Roma la sede legale. - A luglio2004, attraverso il socio Gianfranco Drogo, perviene la proposta di rilancio della Fabiana da parte dell’on. Beppe Garesio: propositi e finalità non ancora evidenziati.

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Appendice Torino, 13 ottobre 2010 Dopo il luglio 2004 alcuni dei soci fondatori più rappresentativi accentuano il loro disimpegno e, con l’assemblea del 29 ottobre 2004, la Società Fabiana cambia radicalmente la sua struttura e la sua conduzione. Giuseppe Garesio, ex deputato del PSI, è eletto nuovo presidente e opta per una dirigenza più snella ed accentrata. Dopo la prima iniziativa - il convegno “Profondo Italia: declino e disagio, luoghi comuni e metamorfosi” in occasione della presentazione del libro di Dario Di Vico il 27 novembre 2004 al Teatro Gobetti – si hanno solo manifestazioni episodiche anche di livello, senza un calendario programmato annualmente. Oggi la Società Fabiana Italiana di Torino ma non ha più un’attività continuativa. Il destino dell’associazione, d’altra parte, non è dissimile da altre situazioni cittadine. Come la Fiat non può essere salvata dallo Stato, ma da manager capaci, così la cultura, in specie quella fabiana, può esistere, come del resto nella sua madre patria, solo se ragiona senza aiuti pubblici e per obiettivi chiaramente culturali. Una sfida difficile per l’intellighenzia torinese che non ha trovato ancora eroi, abituata com’è a vivere di pubbliche prebende e talvolta solo interessata a un utilizzo politico di strutture culturali. Luca Guglielminetti

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