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30 A ARTE/ RCHITETTURA/AMBIENTE Rubrica documentale “... alcuni Scritti. Ricordando lo spirito” del tempo: 1930; 1964; 1998” 1 Gillo Dorfles 1930: le preoccupazioni architet- toniche attuali Che lo sviluppo dell’architettura sia più lento di quello delle altre arti è un fatto evidente. Quante correnti pitto- riche, quante tendenze letterarie sono sorte e tramontate in pochi anni! Ma prima di buttar giù una casa ci si pensa due volte. La pittura copre una superficie limitata, si sviluppa in un solo piano mentre noi viviamo in una costruzione, ci muoviamo nelle tre dimensioni di quest’opera d’arte. E, non vorrei esagerare, dicendo che vivere in una casa piuttosto che in un’altra ha un’influenza su tutto l’or- ganismo. Trovarsi in una stanza dal soffitto alto o in una bassa stamber- ga, entrare in una cattedrale gotica che s’innalza all’infinito, o in una costruzione romanica che s’appe- santisce verso terra, seguire con gli occhi le linee flessuose del barocco o essere colpiti in pieno petto dagli spi- goli aguzzi di qualche grattacielo, non è la stessa cosa. Noi stessi sia- mo incatenati dalle forme che l’archi- tetto ha scelto: l’opera d’arte non è fuori di noi ma è tutt’all’intorno. Insomma, proviamo le stesse impressioni che a un concerto - quando non seguiamo la musica dal di fuori - ma siamo avvolti da questo insieme di suoni come un atmosfera. Tanto musica che architettura occu- pano la totalità del nostro senso. Valéry dice: “Nous n’échappons à l’une que par une section intérieure, à l’autre que par un mouvement”. Questa parentela fra le due arti è strettissima. Ambedue sono basate su un’avvicendarsi di proporzioni, su dei rapporti numerici, che devono essere necessariamente gli stessi. Un passaggio dalla dominante alla tonica, un succedersi di settime di- minuite, un progredire dal maggiore al minore non potrebbe corrisponde- re a un intersecarsi di volte, a una fuga di colonne, a un intrecciarsi di Le Corbusier e P. Jeannerette, Villa Stein, Garches, 1927 Note / Bibliografia 1 Per gentile concessione dell’autore cfr. Gillo Dorfles, Scritti di architettura, 1930-1998, edizioni Accademia di Architettura, Univer- sità della Svizzera italiana, Tip. Fraschina SA, Lamone, 2000. 2 “Le Arti Plastiche”, a. VII 1 Giugno 1930, n. 11, s.n.p., (pp. 1-2) e riedito in “Il meridiano”, a. XIII Gennaio 1931, n. 2, pag. 5. 3 Inedito, 1964 ca. 4 “Il Progetto”, a. II 1998, n. 2 pag. 12 Abstract. In this documental rubric, Gillo Dorfles, with some written, helped us reminding the “spirit” of time. The rubric is formed by three articles: the first of the 1930, where the author expressed his preoccupations for the culture and the deed of the new architecture. The second of the 1964, reflect on the actual or future current in the architecture. And at last, in the third article of the 1998, describe his considerations about the question: “Until which point the indoor space of an architectural deed must correspond with the outdoor space?”....

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Rubrica documentale“... alcuni Scritti. Ricordando “lo spirito” del tempo:1930; 1964; 1998”1

Gillo Dorfles

1930: le preoccupazioni architet-toniche attuali

Che lo sviluppo dell’architettura siapiù lento di quello delle altre arti è unfatto evidente. Quante correnti pitto-riche, quante tendenze letterariesono sorte e tramontate in pochianni! Ma prima di buttar giù una casaci si pensa due volte. La pittura copreuna superficie limitata, si sviluppa inun solo piano mentre noi viviamo inuna costruzione, ci muoviamo nelletre dimensioni di quest’opera d’arte.E, non vorrei esagerare, dicendo chevivere in una casa piuttosto che inun’altra ha un’influenza su tutto l’or-

ganismo. Trovarsi in una stanza dalsoffitto alto o in una bassa stamber-ga, entrare in una cattedrale goticache s’innalza all’infinito, o in unacostruzione romanica che s’appe-santisce verso terra, seguire con gliocchi le linee flessuose del barocco oessere colpiti in pieno petto dagli spi-goli aguzzi di qualche grattacielo,non è la stessa cosa. Noi stessi sia-mo incatenati dalle forme che l’archi-tetto ha scelto: l’opera d’arte non èfuori di noi ma è tutt’all’intorno.Insomma, proviamo le stesseimpressioni che a un concerto -quando non seguiamo la musica daldi fuori - ma siamo avvolti da questoinsieme di suoni come un atmosfera.Tanto musica che architettura occu-pano la totalità del nostro senso.Valéry dice: “Nous n’échappons àl’une que par une section intérieure, àl’autre que par un mouvement”.Questa parentela fra le due arti èstrettissima. Ambedue sono basatesu un’avvicendarsi di proporzioni, sudei rapporti numerici, che devonoessere necessariamente gli stessi.Un passaggio dalla dominante allatonica, un succedersi di settime di-minuite, un progredire dal maggioreal minore non potrebbe corrisponde-re a un intersecarsi di volte, a unafuga di colonne, a un intrecciarsi diLe Corbusier e P. Jeannerette, Villa Stein, Garches, 1927

Note / Bibliografia1 Per gentile concessione dell’autore cfr. GilloDorfles, Scritti di architettura, 1930-1998,edizioni Accademia di Architettura, Univer-sità della Svizzera italiana, Tip. Fraschina SA,Lamone, 2000.2 “Le Arti Plastiche”, a. VII 1 Giugno 1930, n.11, s.n.p., (pp. 1-2) e riedito in “Il meridiano”,a. XIII Gennaio 1931, n. 2, pag. 5.3 Inedito, 1964 ca.4 “Il Progetto”, a. II 1998, n. 2 pag. 12

Abstract. In this documental rubric, Gillo Dorfles, with some written, helped usreminding the “spirit” of time. The rubric is formed by three articles: the first of the1930, where the author expressed his preoccupations for the culture and thedeed of the new architecture. The second of the 1964, reflect on the actual orfuture current in the architecture. And at last, in the third article of the 1998,describe his considerations about the question: “Until which point the indoorspace of an architectural deed must correspond with the outdoor space?”....

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parabole, di ellissi, di lemniscate.Come le nostre orecchie avvertono laconsonanza di un intervallo di terza odi quinta e la dissonanza della se-conda e della settima, così si do-vrebbero sentire le dissonanze archi-tettoniche, e credo (non per esseremalvagio con i poveri architetti suda-ti e smanianti) che tutta l’architetturamoderna sia una sola dissonanza.Ma chi pensa più a queste illusionisentimentali? Ogni armonia, dovuta a un sentimen-to che non sia l’utilità, è spezzata ecosì è sorto questo sviluppo crudo egeometrico, questa nuda semplifica-zione di ogni linea che si è chiamatorazionalismo.Espressione assurda anche questa,perché un razionalismo c’è semprestato, se per razionalismo s’intendeun adattarsi razionale alle necessitàpratiche, pur cercando di ottenere laperfezione artistica: si osservi il tea-tro greco, perfetto in ogni particolarecreato per corrispondere ai bisognidello spettatore. Ma in quel tempo

Perché chiarezza semmai è data dal-l’affermazione della struttura, dalmateriale allo scoperto. In Le Corbu-sier, invece, la struttura è mascherata(meno quando qualche brecciaimprevista nell’intonaco non rivelatutto lo scheletro nascosto). E non c’è solo questo elemento “irra-zionale” nella sua architettura, maegli elimina alcuni motivi costruttiviche sono elementi pratici di unacasa: leva per esempio il cornicioneche è una difesa e non un ornamento.Possiamo dire che in lui il sentimentoplastico supera il sentimento co-struttivo, se le sue case fossero deiquadri, si potrebbe guardare conammirazione il gioco delle masse edei volumi ma, trattandosi di costru-zioni da abitare, davanti a quelle fine-stre spropositate e a quei muri tra-sparenti vien fatto di mettersi un plaidsulle gambe per non gelare. E com-piangiamo di cuore quella poveraM.me Monzie la cui villa di Garches èl’ultima costruzione di Le Corbusier.Ma tant’è, ecco l’affermarsi del razio-nalismo: mascherato e pauroso inItalia, nudo e feroce in America,eccessivo in Germania o in Russia; equelle povere correnti contrarie sonoo residui indecenti di stili tramontati,o neo-barocchismi inutili o tentativistrutturali germanici; ed anche lesperanze di Camillo Sitte sono resta-te vane. Ma possiamo almeno parla-re d’un nuovo stile? Il fondamento èsempre quello, spigoli dritti, angoliretti, la linea retta ovunque. È questoil grande dogma di Le Corbusier:“L’angle droit est l’outil nécessaire etsuffisant pour agir; puisqu’il sert àfixer l’espace avec une vigueur par-faite”. Certo, la linea dritta, l’angoloretto sono la manifestazione chiaradella forza e del volere: “Quand l’or-togonal règne, on lit les époques d’a-pogée”.Bisognerebbe crederci: quando imezzi sono così perfezionati il tempodella lotta è passato, non ci sono piùcreazioni caotiche, esitanti, lo spiritoci porta a dei puri rapporti geometri-

oltre alla ricerca dell’utilità, c’era an-che l’espressione di un sentimento,che combaciava con l’animo dellapopolazione.Ma ora la costruzione non corrispon-de più a un sentimento umano, ma alsentimento di una macchina: lo stilemachine, la grande vittoria di Le Cor-busier.Non voglio certo rifare qui le lodi o lastoria di questo architetto che haraggiunto la fama più ampia chepotesse sperare. Nato in Svizzera,allievo di Perret, cominciò la sua car-riera più che con delle costruzioni,coi suoi articoli sull’“Esprit Nou-veau”. Questi articoli di fiamma, fatticon una dialettica possente scompi-gliarono i vecchi architetti gottosi e lasua prima costruzione estremista - lacasa per Ozenfant - diede una provadelle teorie ch’egli sostiene. Chi nonriconosce il valore di questa rivolta?Non più sovrastrutture o fronzoli, malogica, igiene, chiarezza. Eppure un osservatore attento vedràche in questo stile non c’è chiarezza.

Le Corbusier e P. Jeannerette, Villa Stein, Garches, 1927

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K. Wachsmann, Punto nodale, 1946

ci. Ma sono illusioni. La mancanzastessa di nuove tendenze, di nuovelotte è un segno della decadenza,dell’impoverimento della nostra sen-sibilità. Se si indagassero più profon-damente le cause di questa ipoteticadecadenza, si potrebbero otteneredei risultati insospettati, fra altri quel-lo di accorgersi che una tale deca-denza non esiste. Infatti l’adagio chel’architettura debba rivelare i bisognidell’uomo rispondendo col minimomezzo agli scopi pratici è un’esage-razione. Che i bisogni fisici dell’uomosiano i primi a farsi avanti è chiaro,ma si possono prendere in conside-razione, alle volte, anche dei bisognispirituali. Questa necessità etica sirivela abbastanza chiaramente seosserviamo con un’occhiata fulmi-nea gli stili e le età nel loro susseguir-si. Se si considera il greco e il roma-no, il romanico e il gotico, ci si accor-ge come uno derivi dall’altro, nonsolo, ma come ognuno abbia deicaratteri nuovi, sorti appunto dallanecessità di uniformarsi a delle con-dizioni nuove di vita e di civiltà.Guardiamo il tempio greco: è tutt’unocol paesaggio ed è posto lì come unaltare per il dio; il contatto fra l’uomoe la natura è in quel tempio più diret-to - sicché il tempio serve per il dio enon per l’uomo - perché questi nonha bisogno di astrarsi fuori della con-templazione della natura stessa. Seguardiamo la chiesa cristiana, eccoche l’edificio è allontanato dal pae-saggio, la vita di tutti i giorni non è,diciamo così, quella della domenica;per innalzare le preghiere al Signorebisogna staccarsi dal tenore con-sueto della vita, chiudersi in luoghispeciali per venire a contatto con ladivinità, perciò la chiesa non è solol’altare, ma è la casa della preghiera.Se, infine, arriviamo al gotico, vedia-mo questo principio ancora più svi-luppato: staccare non solo la perso-nalità dell’uomo per un momento, matutta la sua attività a favore della cat-tedrale. La costruzione intera è comeuna grande preghiera innalzata a Dio.

Questa rassegna di stili è poco sco-lastica, ma è fatta per mettere in evi-denza l’importanza etica dell’archi-tettura; lo svolgimento non avviene acaso ma risponde a delle necessitàintime. Perciò, guardando al nostrotempo, cosa vediamo? Che natural-mente questo edificio spirituale nonha più una ragione perlomeno esteti-ca d’essere: e ne sono una provaalcuni tentativi di chiese moderne,per esempio la chiesa di Hugo Sch-losser a Friedrichshafen, o la St.Georgskirche a Stuttgart.Ma se non si può più costruire una“casa del Signore” si può bencostruire una “casa dell’uomo”, unedificio cioè che corrisponda a biso-gni spirituali ed estetici dell’individuoe non solo ai suoi bisogni materiali.Non si può soffocare quella che è lanatura stessa dell’uomo, il sentimen-to strariperà sempre.Trasciniamo dall’esterno all’internoalcuni fondamenti decorativi, edecco che ci troviamo di fronte ad unproblema ancora più serio; l’ornatocome elemento fondamentale del-l’architettura. La funzione di questoattributo architettonico è, per alcuni,una funzione vitale nello sviluppo diquest’arte, per altri è un bagagliovetusto di cui non si sanno liberare.Per questo ci troviamo, oggi, talvoltadavanti all’orrore di certe incon-gruenze che non si saprebbero spie-gare che come un retaggio antico edannoso. Ecco sui fianchi sterili delcemento armato, piccoli elementidecorativi spuntati come per sbaglio,pilastri, colonne che non sostengononiente, ma hanno bisogno di esseresostenute; vediamo la scuola roma-na che alla purezza della linea latinaappiccica elementi barocchi e anchefuori d’Italia architetti come Scheler;Helder, Mollet, che usano decora-zioni frammentarie che vorrebberofar risultare la nuda grandiosità dellacostruzione; e vediamo raffinatezzesuperficiali introdotte (per esempiodal Kreis) nel materiale. E tutti i tenta-tivi coloristici? Altri tentennamenti

per falsare, per coprire la vacuità del-la costruzione.Questi fronzoli, questi ornamenti vanisono appunto dati da un bisogno direazione alla nuda crudezza dell’ar-chitettura moderna.Ma questo bisogno d’una ornamen-tazione che, soprattutto nei popolimeno rigidi, come il nostro, è semprepalese, cosa ci può insegnare? Chel’occhio e l’animo dell’uomo nons’accontentano della linea retta, tan-to cara ai razionalisti, e che d’altrocanto l’ornato è uno stratagemma dacondannare 2.

1964: correnti attuali (o futu-re?) nell’architettura

È sempre difficile - o addirittura peri-coloso - voler tracciare un profilo disituazioni che si vengono svolgendosotto i nostri sguardi; tanto più quan-do di tali situazioni si voglia indicaregli elementi destinati a svilupparsi inun prossimo, o non tanto prossimo,futuro. Per questo le mie osservazio-ni saranno quanto mai guardinghe, emi dico sin d’ora pronto a rivederle sei prossimi anni dovessero darmi tor-to. L’evoluzione dell’architettura,oltre tutto, è solo in parte sincrona aquella delle altre arti visuali; specie ainostri tempi; e questo per una parti-colare ragione: quella della sua mag-gior “durata” e “durevolezza” in con-fronto alle opere pittoriche, grafiche

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Le Corbusier, padiglione Phillips, Bruxelles, 1958 non solo per l’oggi, ma per il domani(se non per “sempre”) e gli stessinuovi materiali (ferro, cemento,materie plastiche) danno possibilitàcostruttive maggiori di quanto nonfossero quelle del passato. (Forse - sidirà - era più “duratura” l’idea che inpassato faceva ricostruire identici gliantichi templi giapponesi in legnoquando il loro materiale s’era usura-to, mentre oggi un grattacielo, con ilsuo scheletro metallico o di cementoarmato, viene distrutto quandoancora la sua struttura non fa unacrepa; ma chi ci dice che questasmania del continuo e incessantemutare, non debba andar sceman-do?).Se vogliamo dare un’occhiata ai duetipi di costruzioni che oggi si fronteg-giano e si contrappongono potremoconsiderare, da un lato, le innumere-voli costruzioni a scheletro metallico,a volte sottili, a curtain walls (muros-cortinas) che stanno ormai esten-dendosi in tutto il mondo e ad esse siaffiancano anche quelle particolariarchitetture sperimentali, a snodimultipli e a elementi modulari inter-cambiabili come quelle ideate daWachsmann o da Buckminster Fuller.Dall’altro lato, per contro, abbiamol’affermarsi di certe costruzioni “bru-taliste” basate sul vasto impiego dicemento in vista alternato a possentimuraglie in muratura che magariricalcano su altra scala e con stilediverso le antiche strutture trilitichedel passato. E gli esempi non mancano: da certecostruzioni inglesi degli Smithson aquelle americane di Louis Kahn aquelle italiane di Viganò e Ricci, aquelle giapponesi di Tange e - pos-siamo ben includerle in questa cate-goria - a quelle lecorbusiane perChandigarh (per non citare che le piùnote). Proprio in questi giorni sta peressere ultimata a Firenze un’opera digigantesco impegno: la Chiesa del-l’Autostrada (Giovanni Michelucci),opera che costituisce indubbiamen-te l’esempio del massimo impegno

e plastiche. Proprio in un periodocome il nostro dove il rapido consu-mo d’ogni forma colpisce così’ dura-mente pittura scultura e disegnoindustriale è evidente che anchel’architettura resti affetta da codestacircostanza. Ma per la sua stessanatura, che tende involontariamenteverso una condizione di “eternità”ignota alle altre arti, l’architettura siviene a trovare in una condizionequanto mai difficile e precaria. Da un lato: si moltiplicano e si an-

dranno moltiplicando, attorno a noi,gli esempi di costruzioni prefabbrica-te - o quanto meno eseguibili conelementi prefabbricati -costruzioni lacui durata può essere concepita giàin partenza come minima e aleatoria;e che, oltretutto, possono esserefacilmente smontati, rimontati, tra-sferiti altrove, alla stessa streguad’un’automobile o d’una attrezzaturameccanica; dall’altro lato persiste - ein un certo senso s’intensifica - lavolontà dell’architettura di costruire

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come l’Expo ‘58 di Bruxelles che furo-no tutte distrutte e smontate a pocadistanza dalla loro creazione).Nella Chiesa di Michelucci, che costi-tuisce in questo momento una dellepiù singolari realizzazioni della nostraarchitettura, sono con-presenti tanto iprincipi d’una comunione col terrenoe col panesaggio, d’una organicitàdella forma costruttiva, quanto quellid’un rispetto e d’una incessante curaper il materiale in se stesso: la par-ticolare cura artigianale con cui sonorisolti i muri di pietra e le strutture dicemento in vista quanto la ricerca d’u-na nuova modulazione spaziale e pla-stica resa possibile solo dall’uso delcemento armato trattato secondo gliultimi dettami tecnici nella voltasospesa della “tenda” che copre iltempio e nei possenti piloni chesostengono la copertura. Del tuttodiverso, per contro, è un altro recenteesempio italiano, quello del Palazzodel Lavoro di Nervi a Torino dove l’ec-cessivo monumetalismo della struttu-ra (le immense colonne di cemento)appare ingiustificato in un edificio cheavrebbe dovuto essere di carattereeffimero e non legato a particolariragioni di “eternità” monumentale.In realtà è probabile che la soverchia

G. Michelucci, Chiesa di san Giovanni, Campi Bisenzio,Firenze, 1961-1964

F. Candela, Officina Baccardì, Cuautitlán, 1960 importanza accordata nell’ultimocinquantennio ai rapporti tra nuovimateriali e “nuovo stile” debba anda-re, nel prossimo futuro, scemando.È probabile cioé che ci si renda contocome le nuove tecniche costruttivesono bensì in grado di fornire infinitepossibilità future, ma che queste, inbuona parte, dipendono dalla capaci-ta inventiva e fantastica dell'architet-to, piuttosto che da una sua periziatecnica. Anzi, il più delle volte, ai nostrigiorni le costruzioni dovute ai “maghidel cemento armato” e ai “maghi delferro" o delle materie plastiche, sonoa differenza di quanto accadeva nelsecolo scorso - tra le meno interes-santi e significative dal punto di vistaestetico. Oltre alle posizioni cheabbiamo brevemente illustrated'un'architettura che mira, in certomodo, ad eternarsi, ci sarebberoancora altre posizioni che ai nostrigiorni hanno preso particolare svilup-po e che nel prossimo futuro andran-no certo moltiplicandosi: quella adesempio puramente “struttoralista"(come appunto la già citata di Buck-minster Fuller e dei maggiori costrut-tori di grattacieli americani e brasilia-ni) e quella che definiremmo “iperpla-stica" (come potrebbe essere quelladi Candela, di certo Saarinen, di cer-to Niemeyer; di Johansen, di BruceGoff ecc.). Cosa ci insegnano questidue tipi di architetture moderne? Lavolontà di mettersi, già in partenza,sul piano dell'industrial design e del-l'oggetto di serie; di costruire peroggi e non per domani, di sfidarel'obsolescenza prevedendo già lapropria fine; o prevedendo un futurodominato, anche in architettura, dal-le forme effimere delle materie plasti-che e delle leghe leggere.Credo, in effetti, che si possa conve-nire come si diano due diverse ma-niere - entrambe un poco ingenue -per cercare di vincere il consumo e diacquistare durata: quella - già citata -del brutalismo e del monumentalismoe quella del compiacimento in alcunielementi ornamentali e irrazionali che

non solo costruttivo ma ideologicodel maestro italiano (che, come ènoto, fu uno dei pionieri dell’architet-tura moderna nel nostro paese con lasua Stazione di Firenze del 1935).Ebbene, la Chiesa dell’Autostrada -che in un’epoca come la nostra diesaltata meccanizzazione costitui-sce quasi il simbolo d’una volontà diriaffermare valori ideali proprio a latod’una modernissima opera della tec-nica come la grande Autostrada delSole, - sta a dimostrare la possibilitàdi concepire anche ai nostri giorni untipo di edificio costruito “per durare”e non solo per essere smantellato apochi mesi dalla sua erezione comeaccade per tante architetture pubbli-citarie di fiere e di mercati. (Si pensi alle imponenti, e talvoltaimportanti costruzioni d’una Fiera

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F.O. Gehry, Museo Guggenheim, Bilbao, 1991-98

possono illuderci sull’esistenza d’unlegame col passato.Anche su questo ultimo principio - delcompiacimento in un ritorno alla tra-dizione più o meno camuffata attra-verso l’ornamentazione - il futuro ciriserverà, credo, molte sorprese. Èprobabile, ad esempio, che l’operadegli scultori vada sempre più inglo-bandosi in quella dell’architetto comeavvenne in altre grandi epoche stori-che; e forse sarà dato veder ripresa lalezione di un Gaudi e di un Horta nonnel senso di uno stolto ritorno amoduli e stilemi desueti, ma nel sensod’una ripresa della volontà di asso-ciare, sin dal cantiere l’opera delloscultore e del decoratore a quella del-l’architetto. Lo stesso processo evo-lutivo, in altre parole, che si verificaoggi e si verificherà ancora maggior-mente nel prossimo futuro, circa ladistinzione netta tra artigianato e

disegno industriale (ossia il tenderesempre più dell’artigianato verso il“pezzo unico” di alto pregio artistico elo scomparire dell’artigianato di seriesostituito totalmente dal prodottoindustriale) si avrà anche a propositodell’architettura. Da un lato assistere-mo al moltiplicarsi e al perfezionarsi“dell’architettura industrializzata”sempre piu creata in serie e divenutaquasi tutt’uno col prodotto industria-le (e come questo destinata al rapidoconsumo e alla durata effimera), dal-l’altro lato al prendere vigore e consi-stenza d’un’architettura iperplastifi-cata: architettura cioè integrata sindal cantiere con le altre arti, soprat-tutto con la plastica concepita “arti-gianalmente” e con una precisa con-notazione di durevolezza che restitui-sca a questa arte le sue caratteri-stiche di opera irripetibile e - almenolimitatamente - duratura 3.

1998. Fino a che punto lo spa-zio interno di un’opera architet-tonica deve corrispondere allospazio esterno?

Fino a che punto lo spazio internod’un’ opera architettonica deve corri-spondere allo spazio esterno? Omeglio tra la “pelle” d’un edificio e ilsuo invaso il rapporto ha da esseresempre assoluto e coerente? Questipotrebbero essere alcuni degli inter-rogativi più subdoli da porre a FrankGehry a proposito di alcune suecostruzioni come l’American Centerdi Parigi (1994) o la “National -Nederlanden” di Praga (1996), la suastessa casa d’abitazione a S. Moni-ca, e soprattutto a proposito del nuo-vo, eccezionale, Museo Guggen-heim di Bilbao. Giacché, in effetti,una volta superata la prima stupefat-ta impressione di grandiosità, e insie-me di giocosità paradossale, checolpisce il visitatore, il quesito cheaffaccia subito alla sua mente è pro-prio quello dianzi accennato. Di fron-te alle immense superfici lucenti,incavate, curvate, spezzate, circon-flesse, rivestite dalla splendida co-razza di titanio; una volta penetratinel corpo - o diciamo pure nel “ven-tre” - dell’edificio (in senso non me-taforico perché con un “corpo viven-te” si ha la sensazione di avere a chefare), la sorpresa è, in certo senso,duplice: da un lato, le immense strut-ture, fungiformi, proboscidate, si-nuose, che si innalzano dal terrenofino all’apice del grande invaso for-mando delle sagome che non pos-siamo che considerare “scultoree”piuttosto che architettoniche; dall’al-tro: la presenza di molte sale esposi-tive allineate nei tre piani sovrappostie servite da rampe e scale metalli-che, tutte di ottima calibratura ma (adeccezione della grande sala ovale alpiano terra resa più suggestiva dallapotente struttura “minimale” di Ri-chard Serra), quasi tutte a spazialità“normale”, per lo più rettangolare,appaiono senza nessun riferimento

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con la “pelle” esterna del Museo.Certo, come locali espositivi, questesale non potevano seguire le estro-flessioni e le curvature esterne; tutta-via un senso di inadeguatezza nonpuò non farsi strada anche nei piùconvinti ammiratori dell’opera diGehry (come è del resto chi scrive).Ma non è solo qui il caso di inade-guatezza e di incoerenza: ecco adesempio all’esterno del lato prospi-cente il fiume la presenza d’un’altis-sima colonna che giunge a pochimetri della sommità dell’edificio, eche “serve”esclusivamente a regge-re una tettoia, ondulata e ricoperta dititanio, che si “fonde” visivamentecon la superficie del corpo principa-le, ma che non ha nessun altro scopose non quello del “riempimentovisuale”.E altrettanto si può dire a propositodella struttura - questa non lucentema di muratura - che abbraccia ilgrande ponte metallico preesistentee in certo senso che tende a minimiz-zarlo, - inserendosi sotto lo stesso eprolungandosi con una sagomatroneggiante al di là del ponte; purequesta, scultura piuttosto che archi-tettura, data la totale assenza di unaspazialità interna o di altra funzione

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cagliari

che non sia quella urbanistica e pae-saggistica (cui, del resto, adempienella miglior maniera). E, finalmente,un’ulteriore critica s’impone, a pro-posito d’un’opera che - lo ripeto -assolve perfettamente alla sua fun-zione, a un tempo museale e “pubbli-citaria”~ per la città basca e ovvia-mente per la Fondazione statuniten-se: si tratta dell’edificio riservato agliuffici e legato al corpo del museo daun passaggio trasparente di vetro emetallo.Ebbene, questa costruzione in mura-tura contrasta nettamente e, a mioavviso, sgradevolmente, con le deli-ziose sinuosità del museo. Dipinta,oltretutto, in blu acceso risulta anco-ra più “stonata” e incongruente. Lostesso architetto, del resto osserva:“all’inizio l’esterno doveva esserebianco. Lo provai e non funzionava. In segui-to provammo col nero. Finalmentedecidemmo per questo azzurro oltre-mare che ancora non mi convince deltutto”. Sarebbe certo assurdo pre-tendere che il Museo Guggenheim -forse la costruzione più ardita e piùavveniristica di quest’ultimo scorciodi millennio - possa aver raggiunto laperfezione. Le esitazioni e i penti-menti ci sono testimoniati dalle stes-se parole dell’architetto. Eppure ritengo che un ultimo sforzoper adeguare la plasticità degli ufficiamministrativi a quella del rimanenteedificio avrebbe permesso a questastraordinaria opera di raggiungere laforma ideale (almeno dal punto divista “percettivo” che, in questocaso, è quello che più interessa).

Giacché è proprio “percettivamente”che il Museo assolve il suo compito:la impressione di maestosità, dilucentezza, di paradossalità, non èsoltanto arbitraria o dissacratoria.Gehry - al di là d’ogni motivazioneideologica o tecnica, e diciamolopure “reclamistica” - si e reso contodella incredibile limitatezza dellearchitetture dei nostri giorni, le quali -ad eccezione di taluni ben noti esem-pi (dall’Einsteinturm di Mendelsohnalle chiese di Makovecz, dalla Philar-monie di Scharoun al Goetheanum diSteiner, dalla banca di Domenig, alteatro di Utzon,...) - hanno quasisempre riproposto vuoi la scatolarattangolistica, vuoi la gabbia metal-lica e vitrea, con ben poche alternati-ve; non solo, ma ha compreso comefosse possibile fondere, in certo sen-so, artigianato e hightech, progettan-do “a mano”, con modellini di carta ecartone, del tutto empiricamente, lesagome dell’edificio poi valendosidelle più aggiornate metodologieelettroniche e cibernetiche per realiz-zare staticamente (e dinamicamente)la struttura dell’edificio e le sue com-plicate intersezioni attraverso unaesatta programmazione informatiz-zata; dimostrando, oltretutto, in que-sto modo come - contrariamente allaprassi e all’ideologia del MovimentoModerno - è possibile creare dellearchitetture partendo dall’esternoverso l’interno, anziché dall’internoall’esterno, secondo i rigidi concettidel plan libre” e delle strutturazionischeletriche, che hanno dominatol’arte del costruire dal protorazionali-smo in poi 4.

SPONSOR - 3° Conferenza Regionale “Il Restauro del Moderno”

Problematiche conservative dell’architettura civile e industriale del ‘900 - Cagliari 15-16 Ottobre 2004

F.O. Gehry, Museo Guggenheim, Bilbao, 1991-98