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Gian Paolo Serino, «Una tarma di nome Firmino» la Repubblica, 4 giugno 2008 3 Filippo Maria Battaglia, «Ecco chi è la Melissa P. che scandalizza i turchi» il Giornale, 4 giugno 2008 5 Orazio La Rocca, «Il papa dei best seller vale 2 milioni di copie» la Repubblica, 6 giugno 2008 7 Enrico Ragazzoni, «L’avventura del giovane Mondadori» la Repubblica, 6 giugno 2008 9 Sebastiano Triulzi, «Il buon selvaggio con tutti i comfort» Alias – il manifesto, 7 giugno 2008 13 Mara Accetura, «Piccola, chiara, aggressiva» D – La Repubblica delle Donne, 7 giugno 2008 17 Il Duka, «John Lansdale: “Non sono prolifico, è che in Italia traducono tutto”» Queer – Liberazione, 8 giugno 2008 21 Giuseppe Romano, «Sull’arsenale dei vocaboli: il dizionario» il Domenicale, 11 giugno 2008 23 Edmondo Berselli, «Una volta a settimana ridevamo di cuore» La Domenica di Repubblica, 15 giugno 2008 27 Checchino Antonini, «La migliore colonna sonora dei nostri anni peggiori» Queer – Liberazione, 15 giugno 2008 31 Andrea Casalegno, «Ora il sergente nella neve cammina per sempre nei suoi boschi» Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2008 33 Curzio Maltese, «Mio marito Raymond Carver» la Repubblica, 21 giugno 2008 37 Massimiliano Parente, «Maledetti uffici stampa» Libero, 21 giugno 2008 41 Mario Andreose, «Quelle recensioni da classifica» Domenica del Sole 24 Ore, 29 giugno 2008 43 La rassegna stampa di dal primo al 30 giugno 2008 La cosa migliore è lasciare che il lettore si accorga di essere davanti a uno scrittore che non nega o sminuisce mai l’umanità di un’altra persona perché quest’ultima soffre o ha perduto il controllo della propria vita o ha preso una decisione sbagliata ed è finita nei guai Oblique Tess Gallagher RS_giugno08_PROVA2.qxp 30/10/2008 17.33 Pagina 1

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– Gian Paolo Serino, «Una tarma di nome Firmino»la Repubblica, 4 giugno 2008 3

– Filippo Maria Battaglia, «Ecco chi è la Melissa P. che scandalizza i turchi»il Giornale, 4 giugno 2008 5

– Orazio La Rocca, «Il papa dei best seller vale 2 milioni di copie»la Repubblica, 6 giugno 2008 7

– Enrico Ragazzoni, «L’avventura del giovane Mondadori»la Repubblica, 6 giugno 2008 9

– Sebastiano Triulzi, «Il buon selvaggio con tutti i comfort»Alias – il manifesto, 7 giugno 2008 13

– Mara Accetura, «Piccola, chiara, aggressiva»D – La Repubblica delle Donne, 7 giugno 2008 17

– Il Duka, «John Lansdale: “Non sono prolifico, è che in Italia traducono tutto”»Queer – Liberazione, 8 giugno 2008 21

– Giuseppe Romano, «Sull’arsenale dei vocaboli: il dizionario»il Domenicale, 11 giugno 2008 23

– Edmondo Berselli, «Una volta a settimana ridevamo di cuore»La Domenica di Repubblica, 15 giugno 2008 27

– Checchino Antonini, «La migliore colonna sonora dei nostri anni peggiori»Queer – Liberazione, 15 giugno 2008 31

– Andrea Casalegno, «Ora il sergente nella neve cammina per sempre nei suoi boschi»Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2008 33

– Curzio Maltese, «Mio marito Raymond Carver»la Repubblica, 21 giugno 2008 37

– Massimiliano Parente, «Maledetti uffici stampa»Libero, 21 giugno 2008 41

– Mario Andreose, «Quelle recensioni da classifica»Domenica del Sole 24 Ore, 29 giugno 2008 43

La rassegnastampa di

dal primo al 30 giugno 2008La cosa migliore è lasciare che il lettore si accorga di essere davanti a unoscrittore che non nega o sminuisce mai l’umanità di un’altra persona perchéquest’ultima soffre o ha perduto il controllo della propria vita o ha preso unadecisione sbagliata ed è finita nei guai

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Èstato il successo editoriale dell’anno: bestseller negli Stati Uniti,diritti stravenduti alla Fiera di Francoforte, protagonista allaFiera di Torino e quasi 50mila copie vendute in poche settima-

ne dall’uscita in Italia per Einaudi. E Firmino, folgorante esordiodello scrittore americano Sam Savage, si arricchisce ora di un nuovocapitolo. Abbiamo scoperto che proprio Firmino ha moltissime ana-logie con il romanzo La bibliotecaria di Claudio Ciccarone, pubbli-cato nel 2000 da Guida editore. E se da una parte l’autore, giornali-sta Rai e vincitore nel 2002 del Premio Ilaria Alpi, non ha nessunaremora nel parlare esplicitamente di plagio, dall’altra è abbastanzaevidente, raffrontando i due libri, che ci siano delle fortissime analo-gie sia a livello di trama che a livello testuale.

Entrambi i protagonisti sono animali – Firmino un topo e Marta, laprotagonista de La bibliotecaria, una tarma – che si nutrono di libri,così facendo li leggono e ad un certo punto entrambi capiscono che

non si devono distruggere e allo-ra trovano il modo di continua-re a leggerli senza rovinarli.

Anche le tematiche affrontatefuor di metafora sono incre-dibilmente simili: in tutti e due siparla di fantascienza, dellaseconda guerra mondiale, dellarivoluzione, della distruzione diun quartiere (il mondo diFirmino) o del mondo (Marta).A colpire anche i moltissimi pas-saggi che sono (a dir poco) vici-ni. A partire dagli incipit. Nelleprime pagine di Firmino si legge:

Una tarma di nome FirminoGian Paolo Serino, la Repubblica, 4 giugno 2008

Un romanzo italiano somiglia molto al bestseller

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«All’inizio mangiavo lasciandomi guidare solo esoltanto dal gusto, rosicchiando e masticando di-mentico. Ma ben presto cominciai a leggere. (...)Oh, come mi rammaricai allora di tutti quei buchispaventosi! (...) Non ne vado fiero». Nelle primepagine de La bibliotecaria: «All’inizio della miacarriera di bibliotecaria divoravo libri su libri,distruggendo indiscriminatamente fogli e co-pertine. Ma accadde che un giorno, mentre eroimpegnata a triturare finemente un volume... quelsapore mi fece capire che sia i libri, sia gli autorimeritano rispetto».

In alcuni casi i due protagonisti hanno addiritturagli stessi e inusuali appetiti sessuali, entrambi at-tratti dalle proprie sorelle: «Lei si ostinava per giun-ta a tenere la coda alzata, in modo che mi eccitava...impudente e provocante... ilsuo fondoschiena occupavatutto il mio campo visivo»(Firmino, pag. 39); «Eranoproprio le mie sorelle adattrarmi, con i loro corpi si-nuosi, le antenne impertinenti,le zampette voluttuose, i cu-letti vibranti...» (Marta, pag.35). Difficile sostenere che sia-no soltanto combinazioni, dipassaggi così vicini nei duelibri se contano una trentina:

forse che Firmino, senza che Savage se ne sia accor-to, abbia divorato La bibliotecaria? La possibilitàesiste dato che La bibliotecaria risulta tra i libri incatalogo alla biblioteca di Yale dove Savage ha inse-gnato proprio mentre scriveva il «suo» Firmino.

Da un’intervista di William Baldwin, Savage af-ferma di aver iniziato il suo libro nel 2003 e di aver-lo terminato nel 2005. Anni dopo, quindi, l’uscita ela catalogazione del libro di Ciccarone alla Yale(che è del 2000). E dalla biografia di Savage sappia-mo che lo scrittore americano legge l’italiano.

Se non bastasse un’altra strana coincidenza: suCoffee House Press, tra i più seguiti siti letterariamericani, quando chiedono a Savage perché abbiascelto come animale un topo lo scrittore risponde:«Non potevo mica scegliere una tarma». E se Sa-

vage, che abbiamo cercato viamail, per adesso non risponde,l’autore italiano promette bat-taglia: «Sono fermamenteconvinto del plagio. I miei av-vocati intravedono tutti glielementi per una causa legale,ma ciò che adesso davvero miinteressa è che il mio libro,ormai fuori catalogo, vengaripubblicato e che i lettori sco-prano la vera storia diFirmino».

Firmino, topi, tarme e farfallePaolo Repetti, responsabile con Severino Cesari

di Einaudi Stile Libero

A proposito dell’articolo di Gian Paolo Serino uscito ieri su queste pagine, i responsabili di Einaudi Stile Libero ci inviano la lettera

che qui di seguito pubblichiamo

Il mondo è pieno di gente che legge escrive. Alcuni di loro, quando vedono unbest-seller, pensano che sia uguale al dat-tiloscritto che hanno nel cassetto oppureal libro che si sono fatti stampare.Invitiamo i lettori di Firmino ad andare inbiblioteca e a leggersi La bibliotecaria diClaudio Ciccarone. Se Sam Savage, che aquanto sappiamo non conosce l’italiano,ha letto, magari col vocabolario e a fatica,quel libro e poi ha scritto Firmino, be’, allo-ra è davvero un genio. Quanto poi allatarma cui si accenna nell’articolo diRepubblica, che a sua volta rimanda al sitoCoffee House Press, c’è forse un frainten-dimento zoologico. Lì, infatti, si parla dellafamosissima parabola di Chuang Tzu aproposito dell’uomo e della farfalla, cheSam Savage cita in esergo. Si tratta perl’appunto di una farfalla e non di unatarma. Moth, mouse, butterfly. Sempreanimaletti sono, ma non ditegli mai chesono la stessa cosa. Si offenderebberomoltissimo.

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M età de Sade, metà Melissa P. Con untocco di voyeurismo e di ribellione insalsa cosmopolita. Arriva giovedì in

libreria un romanzo destinato a far discutere. Loha scritto Selin Tamtekin, figlia di un consoleturco ma inglese d’adozione. E il libro s’intitolaproprio La figlia del diplomatico turco (pagg.279, euro 18,50, traduzione di Paola Maraone).La Rizzoli lo presenta come un «memoir contro itabù delle società islamiche». Non sbaglia:Tamtekin firma il romanzo con uno pseudonimo,Deniz Goran, che è poi il nome della protagoni-sta della sua storia, una donna cresciuta traCanada, Europa e madrepatria. Compiuti idiciott’anni e dopo aver subito i maltrattamentidi un padre severissimo, Deniz decide di dedicar-si a un unico obiettivo: la ricerca del proprio pia-cere. Di lì in avanti, e per tutte le poco meno ditrecento pagine del romanzo, sarà protagonistadi un’infinita serie di rapporti con uomini diver-sissimi tra loro, «tuffandosi in un vortice senzaalcuna precauzione e con assoluta casualità»come rivela l’autrice stessa nell’intervista esclusi-va al Giornale.

Con simili presupposti, è inevitabile che alla suacomparsa in Inghilterra (la Tamtekin vive da quat-tordici anni a Londra), il romanzo abbia scatenatomoltissime polemiche, specie da parte dei quoti-diani di Ankara. Critiche a cui però la giovanescrittrice ha risposto sempre a muso duro: «Non èche in Turchia nessuno faccia sesso. Le donnehanno una vita sessuale, ma stanno bene attenteche nessuno lo venga a sapere. Non possono affer-marsi come individui o parlare di sesso o di uomi-ni come oggetti di desiderio».

Signora Tamtekin, quanto c’è di autobiografico nella vicen-da che lei racconta?«Questo è un romanzo puramente inventato.Certo: in alcune parti della storia ho preso ispira-zione da personaggi e situazioni che ho incontratonella mia vita. Ciò che m’intrigava molto, da unpunto di vista creativo, era però l’idea di racconta-re una storia che avesse dei parallelismi con la miavita, ma che allo stesso tempo fosse differente.Come la protagonista, io sono figlia di un diplo-

Ecco chi èla Melissa P.

che scandalizzai turchi

Intervista con Selin Tamtekin,figlia di un console, autrice

di un romanzo hard: «Il piacere? È un gioco di ruolo».

E racconta: «La mia famiglia mi ha insegnato che nell’arte

non devono esistere tabù»Filippo Maria Battaglia, il Giornale, 4 giugno 2008

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matico turco che vive a Londra, ma da qui in poile similitudini più o meno finiscono. Il romanzo èinventato anche nello stile in cui è scritto. Vogliodire che il miglior modo per catalogarlo non sareb-be memoir, ma “memoir d’invenzione”».

Questo romanzo le ha creato problemi con la sua famiglia?«Provengo da un ambiente molto liberale, dotatoperfino di una vena artistica. Mio padre è un pit-tore molto affermato e io sono stata educataall’idea che nell’arte non esista alcun tabù, inquanto essa stessa crea una piattaforma su cuidiscutere e interrogarsi su norme e convenzionidella vita di tutti i giorni».

Nessuna difficoltà, quindi?«Be’, a dire il vero, qualcuna sì. Sebbene i mieiparenti mi abbiano supportato, quando il librostava per essere pubblicato sono stata duramentecriticata da parte della stampa turca. E mio padreha attraversato un periodo piuttosto difficile,dovendo affrontare direttamente alcune delle accu-se che stavo ricevendo. In quei giorni, molti quoti-diani scrivevano cose molto sgradevoli su di me.Anche per questo, lui mi rimproverò di essermiresa un bersaglio troppo facile».

E dalla comunità islamica?«Appena fu pubblicato il romanzo, dalla stampainglese fui ribattezzata “la Salman Rushdie turca”,una definizione che è davvero una supposizioneesagerata. Rushdie scrisse infatti un romanzomolto controverso (I versetti satanici, ndr), chesfida alcuni aspetti dell’Islam. Il mio libro non sioccupa affatto di questo: racconta di una giovanedonna che decide di non rispettare le regole e fasemplicemente ciò che le piace».

Allora per quale motivo il suo romanzo è stato criticato?«Per il modo franco e non edulcorato con cui

affronta la sessualità femminile. Scrivendo il libro,uno dei miei principali obiettivi era creare un’onestaprotagonista con cui ogni lettore poteva identificar-si: non necessariamente nei termini della sua espe-rienza quotidiana, ma piuttosto nelle sue idee e nelsuo approccio sarcastico nei confronti della vita».

Anche per questo ha deciso di firmare il libro con unopseudonimo?«No. La ragione è un’altra: mentre scrivevo ilromanzo, ho tentato di creare una certa distanzatra me e il personaggio principale. Anche se nonviene mai citata col suo nome nel romanzo, è infat-ti lei stessa a impersonare Deniz Goran. E per me,proprio quel nome funziona come una secondaidentità. In un certo senso, è come se fosse ungioco di ruolo: quando sono di fronte al mio por-tatile io mi trasformo in lei».

Il romanzo è in parte ambientato in una Turchia molto tra-dizionalista e perbenista. Questa immagine corrispondedavvero alla realtà?«Il mio paese d’origine è una nazione moltomaschilista e patriarcale. Ed è questo il motivoper cui la sessualità femminile è repressa.Sebbene ci sia una forte comunità liberale che ha

adottato un approccio di tipo per così dire “occi-dentale”, resta ancora oggi molto diffusa unamentalità che considera la verginità della donnacome qualcosa di sacro. Stando così le cose, èinevitabile che la “reputazione” sia la cosa piùimportante che una ragazza possa avere. Per que-sto, ogni donna deve essere sicura di comportar-si secondo determinate regole: perché altrimentipotrebbe perdere l’occasione di un buon matri-monio. Il vero problema è che nel XXI secolo,piuttosto che osservare la castità, le personedovrebbero stare più attente a praticare sessosicuro».

Appena fu pubblicato il romanzo, dalla stampa inglese fui ribattezzata

“la Salman Rushdie turca”

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Un catalogo di ben 132 titoli tralibri, monografie e commenti. Èl’«opera omnia» prodotta daJoseph Ratzinger a partire dal1950, da giovane docente univer-sitario, fino all’elezione papaledel 2005. Una monumentale rac-colta pubblicistica sui temi dellafede che presto sarà ristampatadalla più grande casa editrice cat-tolica europea, la tedesca Helder,con l’attenta supervisione – non-ché compartecipazione – dellaLibreria Editrice Vaticana (Lev),titolare dei diritti di tutti gli scrit-ti di Benedetto XVI.

«Il progetto prevede la stampadi 13 volumi. Il primo, che saràpubblicato a fine anno, sarà dedi-cato alle tematiche teologiche eliturgiche trattate dal Papa primadell’ascesa al soglio di Pietro»,annuncia don Giuseppe Costa,salesiano, direttore della LibreriaEditrice Vaticana che curerà latraduzione in lingua italiana. Glialtri libri usciranno entro il 2009.Tutta l’opera partirà, quindi,dalle prime pubblicazioni diRatzinger – molte delle qualiquasi introvabili come «Popolo ecasa di Dio in S. Agostino» del1954 e «La Teologia della storiadi S. Bonaventura» del 1959 –fino alle meditazioni fatte dalfuturo pontefice alla Via Crucisdel 2005. Compresi i libri piùfamosi di Ratzinger, come l’«In-troduzione al cristianesimo», il«Sale della terra» e il notissimo«Rapporto sulla fede» scritto conVittorio Messori. «È una pubbli-cistica ricca e straordinaria a cuiguarda con crescente interesse unvariegato pubblico di lettori diieri e di oggi, che ha in Ratzingerun sicuro punto di riferimento

religioso e culturale», commentadon Costa, il quale però aggiungeche non è stato facile strappare ilconsenso del Papa per la pubbli-cazione. È verosimile immaginareche Ratzinger alla fine abbia datoil suo assenso forse spinto dalsuccesso che stanno avendo i suoivecchi e nuovi lavori editoriali.Basti pensare che il suo ultimolibro, «Gesù di Nazaret» finoraha venduto in tutto il mondooltre 2.500.000 copie. Vendite daprimato anche per le sue encicli-che, la «Deus caritas est» conoltre 1.600.000 copie vendute, ela «Spe salvi» finora arrivataintorno a 1.400.000 copie. Mac’è un altro dato meritevole diindubbia considerazione: daquando Benedetto XVI è statoeletto, i diritti maturati dai suoilibri ammontano ad oltre 2 milio-ni di euro.

«Sì, è verosimile», confermadon Costa, il quale, però, amamettere in evidenza in modoparticolare «il grande valoresocio-culturale ed umanitarioche è legato alla produzione let-teraria del Santo Padre».

Un innegabile fiume di denaroche – assicurano in Vaticano –per volontà del Papa sarà ocula-tamente gestito da una istituzio-ne ad hoc per tutelare le opereletterarie del pontefice, laFondazione Ratzinger, con sedein Vaticano e in Germania.Tratto caratterizzante di questoorganismo – al quale aderirannostudiosi, ex colleghi universitari,ex allievi ed ecclesiastici filo rat-zingeriani – è l’attenzione alleopere di carità, gli aiuti ai poverie la vicinanza ai giovani studentibisognosi con borse di studio.

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Quanti anni ha Il secondo sesso di Simone de Beauvoir? Equand’è il compleanno di Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss? Dall’alto dei loro ruoli storici, i grandi libri snob-

bano ricorrenze e candeline. Ma per le case editrici che li hanno pub-blicati, i compleanni esistono, eccome. E fa un certo effetto, per chida questi stessi libri è stato cresciuto e anche ad essi deve il sogno diuna costante giovinezza, scoprire che Il Saggiatore, la nobile etichet-ta di Alberto Mondadori, si appresta a festeggiare il mezzo secolo divita. Cinquant’anni, uno schiocco di dita, un lampo.

È il marzo del 1958, per l’appunto, quando Alberto (già regista emolte altre cose, quarantaquattro anni spesi a cercare uno spazio nonombreggiato dalla figura ingombrante dell’amato papà Arnoldo)comincia a scrivere lettere a personaggi quali Faulkner, Ungaretti eSartre chiedendo sostegno e amicizia per l’impresa editoriale nellaquale intende gettarsi. Si chiamerà Il Sagittario, spiega (logo che saràsubito sostituito dal Saggiatore di Galilei), impegnerà tutta la sua

«esperienza vitale» e diffonderà«libri di grande importanzanella storia della cultura, dellearti, della dottrina e del costu-me». Un’idea generosa e generi-ca, mutuata da un enciclopedi-smo di tipo illuministico chepensa ai libri più come strumen-ti di vita che come frammenti diverità immodificabili. Ma certoanche un’ammirevole ansia disprovincializzazione, che il sul-fureo Alberto non fatica a tra-smettere a eccellenti collabora-tori, come Giacomo Debene-detti, Giulio Carlo Argan, Guido

L’avventura del giovaneMondadoriEnrico Ragazzoni, la Repubblica, 7 giugno 2008

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Aristarco, Fedele D’Amico,Remo Cantoni, Ernesto DeMartino. E dunque si parte,nella sede milanese di viaCrivelli, con collane dai nomirobusti: “Uomo e mito”, “Bi-blioteca delle Silerchie”, “Spec-chio del mondo”, “Enciclopediadella civiltà atomica”. Appenaun anno dopo, si aggiungerà“La Cultura”, destinata a diven-tare il manifesto programmaticoe la spina dorsale della nuovaeditrice.

I cinquant’anni vengono oggicelebrati da Luca Formenton(che con la famiglia ha rilevatola casa nel 1993) con una festa aMeina, sul Lago Maggiore, econ un ponderoso catalogo cheospita una Breve storia del

Saggiatore, meticolosamenteredatta da Alberto Cadioli, gra-zie alla quale è possibile leggerecon chiarezza le varie fasi attra-versate dalla casa editrice. Laprima è quella eroica, delloslancio e del crack. Per nonrischiare pesanti compilazioni,basterà mettere in fila i nomidegli autori più prestigiosi:Sartre, Jaspers, Mumford,Heisenberg, Husserl, Merleau-Ponty, Lévi-Strauss, Jung,Wright Mills, Klee, Arnheim,Fitzgerald, de Beauvoir, No-venta, Altan, Praz, Brandi,Banfi, De Martino, Cecchi,Paci. Una progressione di intel-ligenze impressionanti, promos-sa da ricorrenti cataloghi e ospi-

tata da collane che si aprono intutte le direzioni dello scibile.

Siamo nei primi anni Sessanta,e si allarga anche la schiera deicollaboratori, con la precetta-zione di Franco Fortini, PietroCitati, Cesare Garboli, ClaudioNapoleoni, Rosario Romeo,Maria Teresa Giannelli. Al-berto ormai è fuori dalla casaeditrice paterna, e non ha occhiche per la sua creatura (cheanche come marchio si è tra-sformata ne “Il Saggiatore diAlberto Mondadori”).

Nel 1965 le dimensioni del-l’editrice impongono il traslocoin Corso Europa, ampi uffici chedevono contenere i 149 dipen-denti (fra questi, storici redatto-

ri quali Edmondo Aroldi, MarioAndreose, Settimio PaoloCavalli, Aldo Dovizzi). I proget-ti in cantiere sono sempre tanti,alcuni di una visionarietà formi-dabile (come quello di affidareuna nuova collana, “Campofreudiano”, al poco notoJacques Lacan.

Spinto dalla corsa all’impegnointellettuale, che è di quegli anni,Alberto arriva a decretare lamorte della narrativa, e in un’in-tervista del 1968 dichiara: «Miopadre pensa al presente, io aglianni ’80. Abbiamo ragione tuttie due». Ma il mercato dirà di no,ha ragione solo papà Arnoldo:l’anno seguente, prima fra le caseeditrici di cultura, Il Saggiatore

conoscerà una durissima crisi,con scioperi, occupazione, messain liquidazione. Al matrimoniofra business e cultura, l’editore siè presentato con idee troppoambiziose, e comunque conqualche decennio di anticipo.

Seguiranno tempi duri, segnatida un ridimensionamento severoe dalla scomparsa di numerosecollane (“Politica”, “Indagini”,“Gutenberg & Company” diret-ta da Enrico Filippini). Dopo lamorte di Alberto (a Venezia, nel1976, per ictus), amministratoredelegato diverrà la sua compa-gna, Laura Boselli, e responsabi-le della redazione sarà AurelioPino (tuttora al fianco di LucaFormenton). Anche il comitatodi intellettuali subirà una signifi-cativa modificazione, e in luogodei padri della patria compari-ranno consulenti e giovani filo-sofi che scrivono, curano e tra-ducono: Alberto Capatti, FrancoBrioschi, Giulio Giorello,Sebastiano Maffettone, MarcoMondadori, Giuseppe Sertoli,Salvatore Veca. Una ventatad’aria fresca, un laboratorioprogettuale che terrà la casa edi-trice su ottimi livelli di saggisticascientifico-filosofica e, soprat-tutto, entro confini produttivipiù ragionevoli.

Nel 1981 il bastone delcomando passerà a GiulioBollati, per due anni. Ma unanuova crisi, questa volta del-l’intero mercato librario, ricon-segnerà per fusione Il Sag-giatore nelle mani della Ar-noldo Mondadori Editore. È il1986.

«Così quando la rilevai io, nel’93, la casa editrice era poco più

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Nel 1958 Alberto, figlio di Arnoldo, diede vita a un marchio cheavrebbe rinnovato l’editoria. Filosofia, antropologia, scienza.Lévi-Strauss, Sartre, Jaspers, Banfi e De Martino

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di una collana di filosofia dellaMondadori», racconta LucaFormenton. «E il mio lavoro èstato quello di ricondurre IlSaggiatore a essere una piccolacasa editrice ben radicata nellarealtà, fedele all’iniziale imprin-ting illuministico, attenta allacontemporaneità più che all’at-tualità, in equilibrio fra proget-to e mercato». Impresa non dapoco, per la quale Formenton siè avvalso di una redazione con-tenuta (una dozzina di persone),di una costante ricerca di idee,di uno sfruttamento mirato dei1800 titoli del catalogo. I Tristitropici e Il secondo sesso conti-nuano a vendere sulle cinquemi-la copie all’anno, e adesso, inoccasione del doppio centenariodella nascita dei rispettivi auto-ri, avranno un ulteriore rilan-cio. «Il secondo sesso è statoriproposto con una prefazionedi Julia Kristeva, mentre Lévi-

Strauss andrà tutto nei tascabi-li, ridisegnati da FabrizioConfalonieri. E a settembreripubblicheremo La terra delrimorso di Ernesto De Martino,arricchita del disco originaleche sono riuscito a recuperarenegli archivi di Santa Cecilia eche contiene straordinari esem-pi di meloterapia».

Malgrado l’avversione all’at-tualità, qualche sorriso lo regalaanche il presente (duecentomilacopie de La scomparsa dei fattidi Marco Travaglio), dal quale èperò esclusa la narrativa italia-na. «Ma quella straniera la colti-viamo, e va bene: L’anno delpensiero magico, di JoanDidion, ha venduto tantissimo.Da un lato cerco di seguire temicontemporanei con libri come Illiberismo è di sinistra di AlbertoAlesina e Francesco Giavazzi,dall’altro mi affido all’idea diAlberto dei libri-strumenti, che

magari non vendono molto macaratterizzano la casa editrice,come Sia lode ora a uomini difama di James Agee e WalkerEvans». Altro segno forte del-l’odierno Saggiatore sono le rac-colte integrali: vedi i testi di JeanGenet (curati da Capatti e liberidalle auto-censure che l’autore siera imposto da Gallimard), e leopere narrative di Carlos Fu-entes. Un’edizione a cui For-menton tiene è anche quella diAllen Ginsberg, «ricollocatonella tradizione poetica america-na e non solo nella beat genera-tion». Altro? «Sì: siamo unacasa editrice indipendente, cosache in Italia non è insolita, maall’estero è rara. E questo vuoldire molto, specie per una rivistacome il Diario di Deaglio. Eanche per me. Perché vuol direche Il Saggiatore non appartienead altri. E che io non faccioaltro».

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A rriva sempre il momento per gli stram-palati e funambolici eroi del finlande-se Arto Paasilinna in cui devono met-

tersi a costruire una casa, volenti o nolenti.Potrebbe sembrare una attività superflua, an-corché faticosa, invece è un vero e proprio ritodi passaggio, un momento rivelatore per vede-re se fanno sul serio oppure no. Talvolta sonoaiutati da qualche improbabile, e altrettantopicaresco alleato trovato strada facendo, per-ché le amicizie che nascono nelle sue paginesquadrano incroci d’ogni tipo (un vecchioagrimensore e un tassista, un orso e un pasto-re, ecc.), ma questo ausilio non sminuisce dicerto il valore intrinseco, e assolutamente sov-versivo, della loro impresa edile. Armati diinfinita pazienza e di una manualità da veriintenditori del bricolage, i protagonisti diPaasilinna si impadroniscono degli strumentiessenziali per sopravvivere al rigido invernofinlandese – un’ascia, una sega, chiodi, qual-che martello –, maneggiandoli con una passio-ne che tradisce l’ambizione di poter essere con-

IL BUON SELVAGGIOCON TUTTII COMFORT

siderati fondatori di una nuova comunità. Perlo più la loro condizione è quella di fuggiaschinelle foreste della Lapponia, in quella infinitaprolusione di terre artiche e fiumi e laghi chelo scrittore ben conosce essendo nato a Kittila,nel ’41, in uno degli ultimi avamposti a nordprima del confine con l’allora Unione Sovie-tica, e sembrano costituire per lui sempre ilprincipio di ogni possibile avventura. Fuggonodalle foreste della modernità, da quelle labirin-tiche città divenute invivibili giungle postfordi-ste, fuggono dai laccioli e dalle ipocrisie dellasocietà civile per rifugiarsi nelle foreste natura-li dalle quali siamo nel tempo lentamente usci-ti, e tuttavia finiscono con l’edificare riparisempre assai comodi, spesso dotandoli di ognicomfort o supporto tecnologico, e dunqueduplicando artificialmente l’habitat di parten-za, pur certo con un diverso spirito e rispettoper l’ambiente circostante. Una volta ap-prodati in questo altrove illimitato e selvaggio,sospinti dal richiamo della libertà, dal fiducio-so ritorno alla natura artica, gli stravaganti

Sebastiano Triulzi, Alias – il manifesto, 7 giugno 2007

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personaggi di Paasilinna dunque si mettono acostruire un avamposto civile, novelliRobinson Crusoe, e questa ricreazione dellacasa rappresenta una specie di utopia che ilnostro rincorre mischiando abilmente una iro-nia costante a bassa intensità con qualche lievetocco surreale nel congegno narrativo.

Il tema, come detto, è presente in quasi tuttele sue novelle, anche nell’ultima, fortunataopera, Il migliore amico dell’orso (traduzionee postfazione di Nicola Rainò, Iperborea, pp.305, e 16,00), e basti qui citare la capanna sulmonte Kuopsu ne Il bosco delle volpi, che apoco a poco diventa un luogo di delizie erelax, con tanto di vasca da bagno e imman-cabile sauna; o anche gli innumerevoli,ingegnosi rifugi che il braccato efuggiasco Gunnar Huttunen ècostretto a ricostruire ne Ilmugnaio urlante e che ven-gono ogni volta distruttidai suoi persecutori: ineffetti, c’è sempre qual-cuno che cerca di frenarel’anelito alla libertà unpo’ anarcoide dei suoi espesso sono proprio gliesponenti della societàcivile o delle Istituzioni,come il sindaco, il medicocondotto, i militari, le gerarchieecclesiastiche o i funzionari ammini-strativi dipinti come i vessilli dell’impedi-mento alla felicità individuale. Intorno all’elo-gio della fuga e alla conseguente ricerca di unluogo ideale dove poter vivere in pace, si celaindubbiamente un motivo autobiografico, e lostesso Paasilinna ha raccontato a chi scriveche questa estate metterà in piedi la sua otta-va abitazione, e che non ci si doveva stupirepiù di tanto perché in una canzone popolarefinlandese, che tutti sono soliti cantare, c’è unverso che inneggia alla fantasia del maschiofinnico di forgiare almeno una volta nella vitauna casetta di legno.

Anche per questo, ciascuna delle sue novel-le può essere intesa in chiave di rinegoziazio-

ne del contratto sociale che ci lega gli uni aglialtri, quasi una necessità per gli antagonistidi Paasilinna che sentono fortemente limitatala propria individualità e che non si ricono-scono nel tessuto culturale definito dalla glo-balizzazione. In tal modo la letteratura divie-ne anche un metodo per creare anticorpi aquel che del mondo vediamo e non ci piace,anche se la polemica contro un certo tipo disocietà in lui non è mai ideologica, e insom-ma il modello Thoreau appare distante. Lospecchio su cui si riflette l’invito a sbarazzar-si delle inibizioni e della censura della ragio-ne è inscritto sempre in una medesima,costante relazione: cioè in quelle curiose ami-

cizie che i protagonisti instaurano condegli animali che si mostrano

capaci di uno speculare allon-tanamento dalle loro abitu-

dini, e che poi li conduceverso una progressivaantropomorfizzazione.Già ne L’anno dellalepre, che è del 1975 erappresenta il primo suc-cesso dello scrittore lap-pone, l’inseguimento nel-

la foresta da parte del gior-nalista Vatanen di una lepre

ferita, la successiva adozionedel roditore e il loro peregrinare

di villaggio in villaggio, si traducevaimmediatamente nel tentativo di sfuggire

alla gabbia degli obblighi sociali – il matri-monio, il lavoro – e nell’idea che si potevaraggiungere appunto una nuova vita solorinunciando a quella precedente.

Con Il migliore amico dell’orso Paasilinnaraggiunge uno stadio successivo, forse finale,perché il cucciolo d’orso che i parrocchianiregalano al pastore luterano Huuskonen afflit-to da una crisi di vocazione, e che egli porteràcon sé in un viaggio iniziatico dal Mar Balticoall’isoletta di Gozo fino al ritorno in Lapponia,diviene in un certo senso il portavoce di unadiversa istanza di umanità. Certo questo picco-lo orso che di nome fa Satanasso impara a farsi

Inquest’ultimo

romanzo dello scrittorelappone (classe 1941)

la tematica è, di nuovo, larinegoziazione morbida,surreale e no-global del

contratto sociale

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la doccia, «anche se malvolentieri», a stiraresenza pieghe le camicie del reverendo, a fare lavaligia in cinque minuti e a servire cocktaildeliziosi sul ponte di una nave, ma questa capa-cità di reinventarsi fa sì che in lui si incarnitutta la passione per il paradosso e il gioco sur-reale, e quella bramosia di infrangere le regoledel perbenismo nordico che animano profon-damente lo spirito libero del nostro lappone.L’argano che muove la struttura delle novelledi Paasilinna è dunque il puro godimento di chivuole o vede realizzare le proprie pulsioni posi-tive: nel meccanismo che sempre si ripete, comese raccontasse ogni volta una stessa storia, gliingredienti sembrano talora calare dall’alto, eda qui nasce quella consequenzialità un po’artificiosa che è possibile riscontrare talvoltanelle sue trame. D’altro canto, sono proprio lequalità scaturite dal riso, in primis le sue inten-zioni radicali e il ritrovamento di quel che sap-piamo, uniti all’accurata levità della prosa, ealla capacità di reinventarsi fa sì che in lui si

incarni tutta la passione per il paradosso e ilgioco surreale, e quella bramosia di infrangerele regole del perbenismo nordico che animanoprofondamente lo spirito libero del nostro lap-pone. L’argano che muove la struttura dellenovelle di Paasilinna è dunque il puro godi-mento di chi vuole o vede realizzare le propriepulsioni positive: nel meccanismo che sempre siripete, come se raccontasse ogni volta una stes-sa storia, gli ingredienti sembrano talora calaredall’alto, e da qui nasce quella consequenziali-tà un po’ artificiosa che è possibile riscontraretalvolta nelle sue trame. D’altro canto, sonoproprio le qualità scaturite dal riso, in primis lesue intenzioni radicali e il ritrovamento di quelche sappiamo, uniti all’accurata levità dellaprosa, e alla capacità di giocare con uno deinostri desideri più ricorrenti, cioè piantaretutto e fuggire dai doveri prettamente borghe-si, a restituire l’idea che i suoi libri siano comequalcuno che bussi alla nostra porta, di matti-na, portando con sé buone nuove.

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A l Salone del Libro diTorino centinaia diragazzi sgomitavano

per un posto in prima fila.Nella Sala dei 500 MarcoTravaglio, Peter Gomez,Gianni Barbacetto (conMichele Santoro) parlavanodi Mani sporche e Se li cono-sci li eviti, pamphlet alvetriolo sui nostri politici. Aldi là dei temi scottanti, però,il punto è che Travaglio &co., come altri autori di suc-cesso, sono passati da poco auna casa editrice piccola eaggressiva: Chiarelettere. Unvero fenomeno editoriale. Inun anno ha pubblicato 18titoli (arriverà a 35 entrodicembre) tra cui L’attentato(delle Brigate Rosse a CarloCasalegno), Doveva morire(su Aldo Moro), Viaggio nel

silenzio (sui preti pedofili),Capitalismo di rapina eToghe rotte. Libri impegnati-vi. Ma chi c’è dietro di loro?Un alter ego di Beppe Grillo?Un Savonarola postmillen-nio? No. Anzi, LorenzoFazio, nuovo editore dell’im-pegno made in Italy, mostraun aplomb accattivante emodi British, come le raffina-te cover dei suoi libri, proget-tate da David Pearson, exgrafico Penguin: niente foto,bande color grigio, petrolio,terra di siena, firme degliautori in vezzoso corsivoinglese. E titoli sparati.

Nelle foto di classe Fazio eraquello allampanato in ultimafila. Nella vita, un implacabi-le maratoneta: tirocini conBompiani, Einaudi e Rizzoli,fino al 2006, quando, reduce

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Il pubblico di Chiarelettere alla Fiera del Libro di Torino

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dal rilancio della Bur, ha deciso di mettersi inproprio.

Non aveva abbastanza libertà? «Volevo fareuna casa editrice slegata dalle logiche dei gran-di gruppi, dove si è vittima di classifiche, fat-turati, e si parla molto poco dei contenuti»racconta. «Comunque, no, non ho mai avutocensure da Rizzoli».

Chiarelettere: quattro persone in due stanze,al terzo piano di un bel palazzo vicino all’Arcodella pace, a Milano. Fazio divide la sua conMaurizio Donati, e sulla scrivania di plasticabianca ha un computer portatile coperto difoto di giocatori del Genoa. Dal soffitto pendeun mobile con mappamondi. Tutto leggero,spartano, provvisorio: il contrario dei grandiloft dell’editoria.

«Mi sono persino rimesso a correggere lebozze», dice. »Ma va bene, perché il lavoro èdiventato troppo fordista, a compartimentistagni: capita che un ufficio stampa promuovaun libro che non ha letto. Invece bisogna fareun po’ di tutto. La casa editrice del futuro deveabbattere i muri, uscire sul territorio, coglierestimoli ovunque, smetterla di raccontare ilmondo stando davanti al computer».

Così, ecco molti autori giornalisti e inchiesti-sti, un blog, i dvd, in futuro un magazine,costruiti per un pubblico di lettori di matriceinternettiana.

E la decisione di correre da solo ha pagato.Se li conosci li eviti (ben oltre le 100milacopie) è stato primo in classifica, Mani spor-che ha venduto 127mila copie, Toghe rotte diSabelli Fioretti e Lauro, 75mila. Nel primiquattro mesi del 2008, con circa 100milacopie vendute, Chiarelettere ha conquistatonel settore “politica e current affairs” unafetta di mercato comparabile a Mondadori eperfino superiore a Rizzoli, che galleggia gra-zie a La Casta di Stella.

Insomma, il segnale è forte: c’è un pubblicodi lettori stanchi dei teatrini tv, dei prodottisuggeriti dai quotidiani. «La nostra formula èl’esperienza dell’autore su un fatto, raccontatain maniera leggibile. È un punto di vista schie-rato, di volta in volta». In quanto al “contrad-

dittorio”, da molti invocato, Fazio ha un sus-sulto: «Sono contrario a sentire parte e contro-parte. Spesso salva i responsabili dal prendereuna posizione. A me interessa la testimonian-za. In Doveva morire, Imposimato raccontasul caso Moro quello che ha saputo e che lagente ha dimenticato. E che i giornali hannotralasciato di scrivere. È un libro forte, ha ven-duto già 24mila copie. Eppure in pochi nehanno parlato».

«Eppure», continua Fazio, «ci sono docu-menti mai esaminati dalla commissioneStragi, con mandati di cattura emessi ma noneseguiti prima dell’uccisione di Moro. Spessoi giornalisti mi dicono: “Qual è la novità?Sono cose che già si sapevano”. Io rispondoche c’è modo e modo di raccontare i fatti.L’abbiamo fatto con L’agenda rossa suBorsellino, ricostruendo la sua storia a parti-re da questo fantomatico diario. Quandoassembli tanto materiale in un progetto orga-nico, le informazioni possono acquisire signi-ficati nuovi, la memoria cambia».

Sulla questione Travaglio-Schifani, e le pole-miche scatenate dalla trasmissione Che tempoche fa, Fazio taglia corto: «Fino a oggi (23maggio, ndr) non mi risulta che Schifani abbiasporto querela». Ma se un suo autore vienemaltrattato, sbotta. «Il problema di Marco èche ce ne dovrebbero esser tanti. Travagliodiventa un fenomeno mediatico perché èsolo».

Stefano Mauri, editore di Mauri-Spagnol,che dà un supporto commerciale a Chiare-lettere (e ha il 49% delle quote, contro il 30%di Fazio, il restante 6 diviso tra Guido R.Vitale e Sandro Parenzo) gli dà ragione.«Basta col dire contemporaneamente una cosae l’altra. Basta coi brodini tiepidi. QuestoPaese ha le idee un po’ confuse sulla libertà distampa. Io la interpreto all’americana: tu tiprendi la responsabilità di quel che dici e nerispondi davanti alla magistratura».

Il fatto di avere alle spalle Mauri-Spagnol,una delle pochissime case editrici indipendentiin Italia, non è certo un dettaglio. «Ci ha con-sentito di essere grandi e piccoli insieme»,

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riprende Fazio. Grazie al circuito diMessaggerie, Ibs e Ubik, la visibilità in libreriaè certa.

E pensare che Lorenzo, figlio di un inviatodella Stampa, poi presidente di Italia Nostra,voleva fare il giornalista. «Mentre studiavo aParigi telefonai a Michele Tito, che dirigeva ilSecolo XIX, per proporgli una collaborazione.Il giorno dopo morì Sartre. Tito mi chiese dimandargli un pezzo. Non ci sono riuscito. Lasera mi chiamò, io non avevo scritto nulla.Diedi forfait». Non sono tanti gli studenti chetelefonano ai direttori di un giornale.

Fazio, comunque, sulla Rive Gauche si stavalaureando su Foucault. «Studiavo i processi diproduzione delle verità. Da dove vengono,come possono essere messi a nudo. Questatensione mi è rimasta. Giornali e tv racconta-no il potere per celebrarlo. Io invece vogliofarlo scendere dal piedistallo».

Non è facile.«Mi sforzo di trovar persone antagoniste che

stimolino il dibattito democratico. In Italiamancano gli intellettuali non schierati, comeFortini, Moravia, Pasolini. A me piacciono irompiscatole».

Formato tra le stanze Einaudi nei primi anniOttanta, all’epoca del commissariamento,

Lorenzo conobbe lì Calvino. «Ero appenaarrivato, e al premio Mondello mi mandaronoa dirgli che la casa editrice non l’avrebbe paga-to. Essendo un perfetto sconosciuto, secondo imiei capi, non rischiavo la faccia. Eseguii. Einvece diventammo amici».

Tra i suoi autori c’era anche Primo Levi. «Miricordo ancora quando andammo a Napoli, epassammo tutta la notte a chiacchierare nelvagone letto. Qualche tempo dopo mi chiamò.Era depresso, mi disse che stava male. Io glidissi “ma dai, stiamo per andare in Olanda alanciare I sommersi e i salvati”. In Olanda nonci andò mai, si suicidò prima di partire». DopoEinaudi, nell’88 ha fatto un passaggio inBompiani sotto Giulio Bollati, poi ancora inEinaudi ai Tascabili, e in Rizzoli dal 2003,dove ha rilanciato la Bur con la collana FuturoPassato, grazie a titoli come Regime e Inciucio.All’origine Chiarelettere sarebbe dovuta nasce-re lì. «Ma a loro non interessava. Me ne andai.Forse, dopo la morte di mio padre, che è sem-pre stato in prima linea, era arrivato il momen-to di fare qualcosa per conto mio». Ora, sareb-be interessante avere un commento da parte diRizzoli sul successo di Chiarelettere. Ma nonarriva, nessuno parla. Sono tutti troppo occu-pati. Forse a mangiarsi le mani?

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Lo scrittore texano Joe R. Lansdale èstato nel mese di maggio in Italia – prima aTorino per la Fiera del Libro poi a Roma peril Festival delle Letterature – per presentaredue suoi vecchi romanzi western, La morteci sfida e Il carro magico, entrambi uscitinel 1986 e tradotti solo ora in Italia daFanucciL

e due storie sono ambientate a Mud Creek,polverosa cittadina del Texas orientale. Lamorte ci sfida, una specie di vecchio film in

bianco e nero tra il western e l’horror, si rifà adalcuni capolavori della cinematografia a bassocosto come Dracula contro Billy the Kid e La figliadi Jesse James contro Frankenstein. I passeggeri diuna diligenza sono svaniti nel nulla, un prete alco-lizzato di nome Jebidiah Mercer va in giro armatodi una pistola calibro 36, una strana creatura siaggira ululando per le vie del paese. Quando cala-no le tenebre a Mud Creek i morti vagano affama-ti alla ricerca di carne umana. Riuscirà il reverendopistolero a sconfiggere il male? Il carro magico ciracconta invece di quando, a inizio Novecento, inTexas compaiono i primi venditori ambulanti di

elisir, mentre gli sceriffi mantengono l’ordine a fati-ca e il razzismo continua a divampare nonostantela schiavitù sia stata dichiarata finita da un pezzo.La storia di una bizzarra compagnia itinerante èraccontata dal giovanissimo Buster Fogg, un ragaz-zino che sale sul carrozzone dopo che la sua fami-glia è stata spazzata via da un tornado insieme allacasa. Il protagonista si ritroverà in compagnia diBilly Bob Daniels, inventore di rimedi miracolosi egrande tiratore, convinto di essere il figlio illegitti-mo del famoso pistolero Wild Bill Hickok, di cui siporta il cadavere mummificato appresso. Fannoparte del gruppo l’ex schiavo Albert e AlluceMarcio, uno scimpanzé lottatore che sfida il foltopubblico dei loro spettacoli. Due romanzi, scritti daLansdale prima di raggiungere l’enorme successo di

Non sono prolifico,è che in Italia traducono tutto

John Lansdale:Il Duka, Queer – Liberazione, 7 giugno 2008

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cui gode ora, che sono un’ironica e cinica elegia delWest in bilico tra humor e horror.

Cosa accomunava voi all’epoca giovani scrittori, battezzatidalla critica Splatterpunk?L’unica cosa che trovo ci accomunava è che erava-mo dei sovversivi. Io però non ho mai amato que-sto termine, quando ti appiccicano un’etichetta lafesta è finita.

Fin da giovanissimo pratica le arti marziali. C’è affinità traqueste discipline e il suo modo di scrivere? Le affinità sono: la concentrazione, l’economia deimovimenti e la consapevolezza.

Lei è uno scrittore prolifico, qual è il suo metodo per pro-durre così tanto?Probabilmente ai lettori italiani do l’impressione diessere più prolifico di quello che non sono, perchél’editore italiano attinge ai lavori di trenta anni dicarriera. In realtà il mio metodo è quello di lavora-re tre ore al giorno per cinque giorni alla settimana,dal lunedì al venerdì, in maniera metodica. Nondirei che sono prolifico, piuttosto continuativo.

Adotta metodi diversi quando si occupa di sceneggiatureper i fumetti? Il metodo è lo stesso, perché io cerco di scriveresempre al mio meglio. Quello che cambia è laterminologia.

Come mai le trombe d’aria, i tornado, sono così ricorrentinei suoi libri?Se mai dovesse capitarti di finire in mezzo ad un tor-nado, allora capirai perché io ne parlo così tanto.

Il suo romanzo Tramonto e polvere (tradotto in Italia daEinaudi Stile Libero) inizia così: «Il pomeriggio che piovve-ro rane, pesci grossi e pesci piccoli, Sunset scoprì che nonci voleva nulla a buscarne tante come Jack Tre Dita». Ladomanda è: ha mai visto piovere rane?Io no, ma mi è stato raccontato e credo sia possi-bile. Perché ho visto, al passaggio di tornado, lamassa d’acqua sollevarsi e interi stagni svuotarsi.

Tra i tanti personaggi che ha inventato, qual è più simile a lei? Hap è il personaggio che mi somiglia di più.

A chi è ispirato il personaggio femminile Sunset protagoni-sta di Tramonto e polvere?In parte a figure femminili come mia madre e miasorella. Va detto che in Texas esistono tante donnedal carattere molto forte.

Quando era bambino in Texas esistevano ancora venditoriambulanti d’elisir come quelli di cui racconta ne Il carromagico?Mi ricordo che quand’ero ragazzo c’erano ancorapersonaggi simili in giro, naturalmente già moto-rizzati. Però i racconti di mio padre e mia madreparlano di persone che andavano in giro vendendoelisir con i carri.

Scriverà ancora storie che hanno come protagonisti i dueinvestigatori/avventurieri Hap e Leonard? Il prossimo anno uscirà un nuovo romanzo conHap e Leonard protagonisti. Tra due o tre anniuscirà un altro libro con le loro avventure, ambien-tato proprio in Italia, probabilmente a Bologna.

Nei suoi romanzi troviamo spesso il Ku Klux Klan. È anco-ra forte in Texas?Stranamente, al contrario di quanto si possa pen-sare, il Ku Klux Klan oggi è più forte nel Midwest,soprattuto in Indiana. Mentre non ho più notiziedelle loro attività in Texas.

La sua grande capacità di scrivere dialoghi da dove viene?È un dono innato o è dovuto al fatto che nel Texas orien-tale si parla in quel modo?Io direi metà e metà. Per una parte è una dotenaturale, dall’altra attingo molto al modo di parla-re del mondo che mi circonda. Anche se non tuttigli scrittori del Texas sanno scrivere dialoghi.

Un’ultima domanda. Qual è il genere letterario su cui si èformato e quali sono i suoi scrittori di riferimento?Sicuramente il genere da cui ho tratto maggioreispirazione è la fantascienza. Però non mi ritengouno scrittore che appartiene a un genere specifico.Mi piacciono Philip Dick, Philip Farmer e gli altrigrandi scrittori di Sf, amo anche RaymondChandler, Mark Twain, Hemingway, FlanneryO’Connor, Edgar Allan Poe. Ma la lista potrebbecontinuare all’infinito.

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sull’arsenale dei vocaboli:IL DIZIONARIOGiuseppe Romano, il Domenicale, 11 giugno 2008

S e ci fate caso, nella testa di tutti noi accadequalcosa di misterioso: quei flussi di pensierie d’idee che dentro la mente sono sinuosi e

ininterrotti, poi, quando serve, affiorano alla boccacon immediatezza, già suddivisi e ordinati per filedi parole. Che cos’è la parola? Espressione esterio-re di qualcosa d’interiore. Rispecchia all’esterno ciòche accade nell’intimo. Comunicando, accosta ilmio universo a quello di chi interloquisce con me.

C’è la parola orale. Si avvale di segni fonetici(parole pronunciate) e di una cornice espressadiversamente: tramite intonazioni, sguardi, cennidel capo, delle mani. Questo contorno può altera-re il senso diretto delle parole pronunciate: quan-do esclamo «Bell’affare!» chi ascolta capisce seintendo rallegrarmi o dispiacermi.

La parola scritta piomba nuda sulla pagina, dovealtri la scorgeranno in assenza di chi l’ha espressa.Deve quindi imparare a proporsi e a difendersi dasola, con un più di precisione e pertinenza. E se èrivolta a un pubblico ampio, come accade per quel-le che compongono i giornali e i libri, non è pensa-bile che a ciascuno dei lettori il messaggio arrivi

Il nuovo “Gabrielli”, edito da Hoepli, ripropone le grandi imprese lessicografiche, create per farci comunicare meglio.E dà spunto per riflettere sugli usi del linguaggio e sull’imperiziacon cui li maneggiamo. Dall’oralità al T9, a Word.

identico. La storia personale farà inclinare le sfuma-ture verso una o un’altra direzione: ma chi scrivedovrà essere abbastanza abile da fare in modo chechiunque colga l’essenziale. Se poi la scrittura hascopi narrativi e poetici, l’artista dev’essere bravo afar sì che alcune emozioni tocchino l’intimo dellagran parte dei lettori. Il piccolo principe di Antoinede Saint-Exupéry ne è esempio eccellente. Testo inapparenza semplice, ma così denso di evocazioneche difficilmente il lettore – comunque la pensi suquestioni come l’amicizia, l’amore, la solitudine,Dio – resterà sordo. Eppure è arduo “sciogliere” ilcontenuto del Piccolo principe in affermazioni filo-sofiche nette, univoche, uguali per tutti.

Scema a chiPer queste ragioni, e per molte altre ancora, abbia-mo bisogno di fare i conti con le parole che pronun-ciamo. Servono a colpire nel segno, a far corrispon-dere quel che diciamo a quel che pensiamo, ad assi-curarci che gli altri intendano ciò che volevamocomunicare. Perciò la pubblicazione di un diziona-rio va festeggiata come un evento, un contributo

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all’arsenale verbale che renderàpiù facile la comunicazione fratutti. Quanti dissidi nascono daequivoci comunicativi? Ricordoche frequentando una ragazzauna volta le dissi “scema”. Fuiincauto. Tuttavia intendevoessere tenero e comprensivo, eciò traspariva dal tono dellavoce. Lei mi guardò perplessa:aveva capito che non intendevooffenderla, ma al tempo stesso sisentiva insultata. Dovetti spie-garle che a casa mia, nell’usofamiliare, quell’espressione e-quivale a qualcosa come “mache dici, cara”, con un toccocarezzevole, senza sfumatureaggressive. A lei, invece, suona-va solo “imbecille, cretina, igno-rante”, senza alcun connotatoaffettuoso.

L’equivoco fu chiarito, ma ilricordo mi ha insegnato a misu-rare meglio le parole, specie concoloro che intendo trattare bene.E quando ho aperto la confezio-ne del Grande Dizionario Hoeplidi Aldo Gabrielli (Hoepli,Milano 2008, pp. 2816, euro38,17 o euro 79.90 con cd-rom,da ora in poi GDH), tra le«500mila voci, accezioni e defini-zioni» che propone sono andatosubito a controllare il termine“scemo”. Aveva ragione lei, nonio: il dizionario non concedealcun recupero benevolo dellaparola. In pratica le ho dato della«persona mancante di senno,

scarsa d’intelligenza, di giudi-zio». Il fatto che nella mia fami-glia tutto ciò potesse comunqueavere una declinazione affettuosanon implica che altrove sia lostesso. Senza saperlo abbiamoconiato un idiotismo familiare; ilche non significa essere idioti nelsenso di «stupido, corto dimente» (ho rischiato d’esserlo iocon la mia bella), bensì in quel-l’altro senso del termine chesignifica «particolare, privato» edal quale infatti deriva «idioti-smo», ovvero «parola, locuzione,costruzione particolare di unalingua o di un dialetto, dotata diparticolare espressività e difficil-mente traducibile in modo lette-rale». I linguisti identificano idio-tismi geografici, ma ce ne sonoanche su scala più piccola; tra

questi rientra il lessico familiareche a casa mia ha nobilitato laparola «scemo».

Parole in molte lingueUn merito del GDH consiste nel-l’evidenziare l’intensità d’uso diogni singola parola. Nessun ita-liano maneggia l’intero vocabola-rio. Secondo gli studiosi un bam-bino di 6 anni dovrebbe padro-neggiare circa 3mila parole, perarrivare a 6mila a 18 anni. Scon-forta apprendere che una grandepercentuale d’italiani adulti nonva oltre le 4mila parole. Il GDHnon rivela come sia stato possibi-le appurare la frequenza, ma

impiega un indice che va da unminimo di quattro pallini vuoti(termine soltanto attestato) fino aun massimo di quattro pieni (ter-mine essenziale).

Aldo Gabrielli, narra il sitoHoepli, è stato «uno dei piùgrandi lessicografi italiani delsecondo Novecento, autore dicelebri opere». Questa nuovaedizione è curata dalla figliaGrazia Gabrielli col maritoMassimo Pivetti; il progetto edi-toriale è del fratello di questi,Paolo Pivetti, apprezzato colla-boratore di queste pagine. Il“Gabrielli” fu pubblicato per laprima volta nel 1989 daMondadori, in due volumi, poida Signorelli nel 1993. Adessotorna aggiornato nei termini earricchito nelle rubriche, com-

prese quelle che attengono aglierrori di ortografia e di pronun-cia. Novità meritoria è l’uso delcolore per numerazioni e suddi-visioni all’interno dei lemmi, inmaniera da non dover più cavar-si gli occhi inseguendo i 10 signi-ficati di «comunicazione», i 15di «nero» o i 18 di «specchio».

Non mancano, poi, spiegazionidi grammatica, sintassi e tuttociò che può rendere la lingua piùaccessibile e scorrevole. Sicché ilGDH si propone come capofiladi quella “corrente” di dizionariche vuol essere qualcosa di piùche un repertorio limato e ripro-posto con aggiornamenti annua-

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Secondo gli studiosi un bambino di 6 anni dovrebbe padroneggiare circa3mila parole, per arrivare a 6mila a 18 anni. Sconforta apprendere cheuna grande percentuale d’italiani adulti non va oltre le 4mila parole

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li. Qui c’è un piccolo e durevolepasso in più.

Senza pretese accademiche.Con questo non si vuol negareserietà scientifica al lavoro, bensìsottolineare come l’utilizzo vogliaessere soprattutto pratico: aiutarea parlare nel più efficace dei modiin un mondo spalancato al poli-glottismo. Che corre non soltan-to nella direzione di altre lingue,bensì, pure, nell’adozione di altrilinguaggi generati da usi di tiponuovo: i codici linguistici delle e-mail, degli sms, del T9(quell’“aiuto automatico” che sulcellulare suggerisce le parole, eche è diventato una lingua, in cui“vi con” sta per “ti amo”). Suquesto il GDH non può soccorre-re; a maggior ragione dobbiamo

garantire a noi stessi che la linguadi base, almeno quella, sia ricca eappropriata.

Senza dire di tutte le altre paro-le che ascoltiamo e dentro dinoi decodifichiamo quotidiana-mente: da quelle del grande epiccolo schermo (che ci giungo-no in viluppi di discorsi, imma-gini e musiche) a quelle delcomputer, gravate di formulenascoste che oltre al significatolinguistico ne determinanoforse anche peso, orientamen-to, legami e processi evolutivi.Che cos’è un programma discrittura come quello che stoimpiegando mentre scrivo que-sto articolo, se non un “testoche si aziona”, un codice che

mostra la sua correttezza atti-vandosi e lasciandomi scrivere?Microsoft ha da poco riforma-to il suo Office, attribuendonuove modalità d’interazione aWord, Excel eccetera. Al postodelle antiche tendine adessoagiscono spazi concettuali di-versi. Il cambiamento è più for-male che sostanziale, compiutodopo grande studio allo scopodi agevolare il rapporto traprogramma e utilizzatore.

Più sostanziale resta accorgersiquanto è importante ogni gior-no, per noi, come nel pc agiscaun linguaggio-macchina che cipermette di esprimere il nostrolinguaggio umano. Qualcosa dinon poi così dissimile da ciò chefanno i dizionari.

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Vent’anni fa nasceva l’inserto satiricodell’Unità poi divenuto irriverentesettimanale indipendente che mise a

nudo i vizi politici e culturali italiani.Autori e lettori formarono un’unicatribù. Adesso un libro ci raccontaquella esilarante avventura che l’ex

direttore Michele Serraricorda così…

I n estrema sintesi: «Tutto ini-zia nell’autunno dell’88, den-tro un baretto della primissi-

ma periferia milanese, zonaFulvio Testi, dove si affaccia ilpalazzo di vetro dell’Unità. (…)Michele Serra mi fa: “Sto pensan-do a un nuovo inserto di satira,come testata mi piace Cuore”.Rilancia chi scrive: “Settimanaledi resistenza umana sarebbe unsottotitolo giusto”». Queste sonole parole di uno degli eroi che die-dero vita a uno degli indimentica-bili esperimenti di satira politica ecivile, nonché per l’appunto

UNA VOLTA A SETTIMANARIDEVAMO DI CUORE

Edmondo Berselli, La Domenica di Repubblica, 15 giugno 2008

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umana di una generazione fa: il giornalista dell’UnitàAndrea Aloi, a cui si sarebbero affiancati il reggianoPiergiorgio Paterlini, «un purosangue dell’anima», eSergio Banali, «calvo talismano adorato».

Poi la cronaca di Cuore procede per conto suo,fino al 1991 come inserto satirico dell’Unità (cheaveva già fatto ballare il Pci con il supplementoTango, messo in croce con il celebre e scomunicato“Nattango”), poi da solo e sulla via di diventare,sempre nelle parole di Aloi, un «fenomenino edito-riale», una robetta da 124mila copie, e anche casodi costume, con un picco eccitante di vendite nel1993 nella fase dell’avviso di garanzia a BettinoCraxi. Le successive direzioni di Claudio SabelliFioretti, dello stesso Aloi e in ultimo di StefanoDisegni costituiscono il fisiologico galleggiare einfine l’esaurirsi di un’avventura che è rimasta nellamemoria degli italiani di sinistra (e magari non sol-tanto di sinistra, perché l’iconoclastia della pattu-glia di Cuore non si ritraeva se c’era da prendere asberleffi la propria parte), suggellata dal successodelle Feste di Cuore a Montecchio (Reggio Emilia),

che in qualche occasione misero insieme giri d’affa-ri da un miliardo di vecchie lirette.

Adesso che fra pochi giorni esce nella Bur un’antologia tematica della rivista satirica (Non avraialtro Cuore all’infuori di me, con il sottotitolo“Vita e miracoli di un settimanale di resistenzaumana”, a cura di Andrea Aloi, Chiara Belliti,Mauro Luccarini, Piermaria Romani), tutti coloroche ancora si considerano orfani di Cuore, e depre-cano il fatto che adesso si fa sempre meno satira etira aria di inciucio, conformismo o rassegnazione,potranno rifarsi gli occhi ripercorrendo le 320pagine del libro, ritrovando tutti i collaboratori daAltan a Beppe Mora, da Paolo Hendel a ElleKappa, Lia Celi, Lelia Costa, Vincino, insieme alcôté culturale e civile rappresentato da GoffredoFofi, Luigi Banconi, Nando Dalla Chiesa, StefanoRodotà, Adriano Sofri; e, alla fine, le testimonian-ze di «chi c’era», a cominciare da Sergio Stainofino a Patrizio Roversi, David Riondino, laGialappa’s Band, Gino & Michele, DaniloMaramotti e insomma più o meno tutti i protago-

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nisti della resistenza umana già citata. E quindi,dato che il documento ufficiale, un volume interoin cui perdersi, si potrebbe tirare un bilancio diquella stagione. Si potrebbe allora dividere politi-camente e culturalmente Cuore lungo tre filoni. Ilprimo è naturalmente quello del manifesto etico,estetico e culturale della sinistra residua, che siagita nei pressi del muro di Berlino e osserva lacrisi della “Repubblica dei partiti”, in quei disa-strosi primi anni Novanta, ridendoci su ma anchecon la percezione di una specie di angoscia chearriva, con l’ansia indescrivibile di essere superatidallo spirito del tempo. È l’atteggiamento che siqualifica con i titoli più celebri del giornale, da«Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti» a«Hanno la faccia come il culo», e anche con larubrica in cui Paterlini decodifica le tortuosità dellessico politico riportandole a una greve materiali-tà, a un esplicito e rivelatore valzer di interessi.

Viene da dire, a distanza di tempo che è la parte cheoggi sembra più caduca: perché a suo modo rappre-senta ed esprime la difficoltà della sinistra a capirele dinamiche del cambiamento politico nella civiltàdi massa, dominata dalla televisione e dai media: echiama il clan, la “tribù” di Cuore, autori e lettori,alla resistenza nel nome di una più alta qualitàmorale (oppure nel nome dell’inferiore qualità eticae civile degli “altri”). Insomma, tira un po’ troppoaria di Pci e post-Berlinguer in quelle pagine, anchese spesso il riscatto viene da furenti invenzioni comi-che. Il secondo filone invece è quello meno stressatoin chiave politica, in cui si prende sotto mano, conle formule dell’ironia e soprattutto della parodia, ilcostume in corso di dirompente e magari deprimen-te cambiamento. In un contesto simile, non è più lapolitica, i socialisti, il Caf, a finire sotto accusa,bensì la trasformazione, quella sì “epocale”, deigusti e degli atteggiamenti in seno al popolo. La rea-zione di Cuore al profondo cambiamento avviatonegli anni Ottanta, per capirci “dall’edonismo rea-ganiano”, viene individuata con modalità di rispo-sta ambivalenti. Perché da una parte si mostra lospaesamento, ed è uno spaesamento effettivamente“di sinistra”, davanti al franare di convenzioni e distili sociali, e al manifestarsi di una collettivitànazionale ampiamente contagiata dalla perdita diriferimenti e bussole. Ecco allora il titolo che meglio

di ogni altro fotografa questo spaesamento:«L’uomo della strada è una bella merda». Con ilsommario che recita: «Servile coi nuovi potenti,sciacallo coi vecchi padroni, l’“homo insultans” sista affermando in tutto il paese, parlamento com-preso. Come riconoscerlo? Si muove in branco peraggredire gli isolati e ha riflessi lentissimi: in generesi accorge di esser governato da cialtroni disonestidopo averli votati per mezzo secolo».

Pare di riconoscere in queste parole gli indizi della“diversità” di sinistra, l’orgogliosa sicurezza delleminoranze, e forse anche l’autopercezione di esserein ritardo rispetto ai tempi: da cui deriva di solito,ed è in effetti derivata, una fondamentale incom-prensione dei fenomeni anche politici che si sonomanifestati nel corso dei Novanta. NaturalmenteSilvio Berlusconi è il protofenomeno della tendenzain atto, e il titolo di Cuore lo espone a carattericubitali: «Grazie Silvio! Neppure Carlo Marx erariuscito a sputtanare così il capitalismo». Senzaforse riuscire a vedere il cortocircuito che alla finesaldava l’Italia di massa al suo piccolissimo epotentissimo Cavaliere. E quindi continuando aconsiderare il Nano come un’anomalia inconcepi-bile, il frutto di una degenerazione della politica,senza individuarne le ragioni storiche e politiche.

Ragion per cui alla fine forse il filone più moder-no rintracciabile in Cuore è la scoperta e la valo-rizzazione del trash. Che forse comincia con lamessa alla berlina della Duna, l’auto più sfigatadella Fiat, immortalata in un delirante calendariodel 1992 («Duna è... prestigio») e in una serie diservizi distruttivi («Il ’900 grida: Grazie Duna»). Eprosegue con il ripescaggio, attraverso «I grandiposter di Cuore», delle canzoni di AlessandraMussolini, «Eia Eia Tralalà», con tanto di testiriprodotti «dal suo primo Lp giapponese, Amore»:«Se vuoi fare all’amore / la risposta è ancora no /anche fossi un buon dottore / da te non mi cure-rò». Ovvero lascia intravedere l’Alba tra i bovari,cioè il mito Parietti fra gli allevatori a Cuneo, e viavia tutto il normale panorama di anni che è diffici-le non riconoscere come nostri. Oppure ancora lastranota e insostituibile rubrica Chissenefrega. Eche sotto questa luce consegnano a Cuore, alla suairresponsabilità creativa e felice, il primato di unainnovazione lessicale e culturale che ha davveroaperto una strada e lasciato un rimpianto.

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Tecnicamente Cuore fu soprattutto la parodia di ungiornale. Adoperava la grafica, i titoli, l’impaginazionedi un giornale “vero” per poterne fare il verso. Peruna redazione fatta soprattutto di giornalisti – a diffe-renza di precedenti giornali satirici, come il Male eTango, redatti soprattutto da disegnatori – era impa-gabile il gusto di giocare a fare un giornale. Ci diver-tivamo come bambini.

La maggior parte delle formule verbali di Cuorediscendeva direttamente dai modi di dire del giornali-smo “serio”, li imitava e li storpiava. E molto del piace-re di fare Cuore, e forse anche di leggerlo, andò sce-mando mano a mano che l’informazione paludatacominciava a perdere il suo aplomb, a usare un lin-guaggio più veloce e corrivo. Alcuni titoli del Corriereo di Repubblica, a partire da Tangentopoli, cominciava-no ad assomigliare terribilmente ai titoli di Cuore. Apartire dagli anni Novanta, l’informazione italiana subìuna sorta di secolarizzazione, per mano di giornalistipiù giovani e disinvolti, magari anche più cinici e dalleopinioni più lasche.

Titoli aggressivi, oppure con velleità spiritose,fioccavano nelle edicole. Al tempo stesso, autori sati-rici di primo piano facevano il loro ingresso nei quo-tidiani e nei settimanali. Il piccolo mondo della satira,fin lì quasi un eremo per pochi e gaudenti eccentrici,e per lettori quasi specializzati, andò progressiva-mente perdendo i vantaggi del suo monopolio:l’avanguardia satirica si scioglieva nel movimento(interpretazione ottimistica) o si imborghesiva acca-sandosi presso i grandi editori, o in televisione (inter-pretazione pessimistica). Scegliete voi l’interpretazio-ne che più vi aggrada.

Sta di fatto che Cuore ebbe l’onore di essere, inordine cronologico, l’ultimo vero giornale satirico ita-liano, rifugio di tutte o quasi le migliori penne e pen-nini della mia generazione, prima che la satira diven-tasse un bene di consumo diffuso quasi ovunque. Eanche una moda. Non vale la pena rompersi la testaper capire se sia stato un bene o un male. Sono leleggi della società di massa. La satira è stata, fino aCuore, una tintura concentrata in pochissimi luoghi,privilegio di chi andava a cercarsela. In tivù era raris-

sima e faceva molto scandalo. Dopo Cuore, la satiraè andata diluendosi in tante acque differenti, magaria insaporirle, e buon per il pubblico di massa che nonavrebbe mai speso una lira per comperare un fogliosatirico pieno di parolacce e poteva finalmente ritro-varsi Altan o Vincino o Elle Kappa o Vauro nel suoquotidiano di riferimento. È la democrazia, o quanto-meno è la società di mercato: pochino, ma per tutti.Quanto detto per rispondere alla domanda fissa chemi sento fare un giorno sì e l’altro pure: perché nonrifate Cuore? Oppure: perché non rinasce un giorna-le come Cuore? Forse rinascerà quando, ai margini,lontano dal centro, qualche spirito acuto intuirà che illinguaggio dei media si è nuovamente canonizzato, siè coagulato daccapo attorno a formule rigide e sus-siegose. E varrà dunque la pena di violarlo, di farlo apezzetti, dando vita a una Nuova Parodia. (La parodiaè madre e padre di tutti i linguaggi umoristici di que-sto mondo. Woody Allen è parodia, Monty Python èparodia, il cinema comico è la parodia di quello dram-matico, la comicità tutta intera è una parodia dellatragicità della vita.) Il problema è che il linguaggiocorrente, quello dei media, forse anche quello dellepersone, è attualmente destrutturato, liquido, spam-panato. Troppo indeterminato per avere una formaintelligibile. Non è facile, anzi forse impossibile fare laparodia (fare la satira) di qualcosa che non ha forma.A meno che un piccolo milieu di giovani geni riesca afare la parodia della non-forma, del non-potere, del-l’inafferrabile clima di sfascio e di cinismo che più omeno regola il mondo. Ecco, io non sarei più capace,forse perché i miei neuroni hanno giàdato. Ma se qualche mattovolesse rifare, oggi, ungiornale di satira, etrovasse un editorealtrettanto matto,sappia che questoè il compito, lin-guisticamente par-lando: fare la paro-dia del nulla.

Tanti auguri.

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Prefazionedi Michele Serra alvolume Non avrai

altro cuore all’infuori dime (320 pagine, 27,50

euro) in libreria dal18 giugno.© 2008 Rcs

Libri Milano

Era la parodia di un giornale,ci divertivamo come bambini

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D omani saranno ven-t’anni da quel 16 giu-gno in cui le agenzie di

stampa batterono la notizia –«Noto fumettista stroncato daun collasso» – e una generazioneprese a piangere come se non neavesse avuto abbastanza trarockstar uccise dalla sregolatez-za, compagni ammazzati dallarepressione, dalle carceri specia-li o dai fascisti, fratelli stroncatidalle pere, compagni di stradamorti dentro, lentamente, diriflusso. Pazienza Andrea, classe1956, sperimentò tutto questo,o gli passò vicino, eccetto l’ulti-ma variante per la quale glimancò la voglia e certo il tempo.«Mi manchi, mi manco», scrive-rà Daniela Amenta, voce indi-menticabile (nel senso che ora èlontana dai microfoni) dellamigliore radiofonia, avvezza a

scrivere di rock. E dunque dirock-star. Perché Pazienza, sisosterrà di seguito, è soprattuttoquesto: la colonna sonora mi-gliore dei nostri anni peggiori.Proprio come cantano i Gangcitati nel lead. Di lui e dei suoipersonaggi non si potrà mai direquello che si può sostenere diCorto Maltese: quello un perso-naggio cui si delega la voglia diun’avventura che altrimenti nonci si potrebbe permettere; Paz e isuoi – personaggi, pennarelli,scarabocchi, sturiellet – sonol’impasto di autobiografia,vision e fiction di cui è fatta lanostra vita.

Precursore della graphic no-vel, Paz l’anticipa e la smontacome smonta la gabbia dellapagina inventando linguaggicreoli mentre legge i muri delsettantasette e ne sente i rumoriLa

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riAncora clandestino einafferrabile, Paz nonsarà mai un classico.Le scuole elementariportano il suo nomee i licei sono pienidi futuri precari cheinventeranno i nuovilinguaggi del desiderio

Checchino Antonini, Queer – Liberazione, 15 giugno 2008

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dalla Radio, quella radio, Alice, terrorizzato dallapaura di restarne tagliato fuori. L’invito a sovver-tire gli stili di vita imposti resterà costituente delsuo ritmo – parola che gli piaceva assai – fin daquando iniziò a dipingere. Perché la rockstar nac-que pittore, e pittore sarebbe tornato – stando aquello che immagina chi l’ha conosciuto bene el’ha amato e continua a farlo. Prima di fare fumet-ti dipingeva quadri di denuncia ma se li comprava-no i farmacisti per metterseli in camera da letto.Da qui il desiderio di fumettare imparando nellafucina di rottura dei linguaggi che fu il Dams.Mettendo in gioco il suo corpo «teatro di opera-zioni per l’artista – soleva dire – un modello sem-pre a portata di mano e a buon mercato… Quandodisegno un corpo, io disegno «il mio antenatoArcadio Paz, o un corpo degradato, o migliorato,flamenchizzato, o insensualito, ma sempre il miocorpo». Ossessionato dall’idea del doppio di sé –altro non sono Penthotal, Zanardi, Pompeo –mescola Paperino all’underground americano ealla sapienza ereditata dal suo primo maestro, locantò come il miglior acquarellista, era suo padre.Narrazione e profezia, tavole e tele raffinate emigliaia di foglietti sparsi in tutta Italia. Di lui siparla nelle serate tra amici, c’è sempre chi ha cono-sciuto lui e chi giura di aver conosciuto Zanardi. Inquesto senso è un classico, perché non se ne puòprescindere. E non è, né sarà mai un classico per-ché resta inafferrabile, clandestino, deformabilecome la memoria. Un occhio da storico ne vedrà lacapacità di cantare la «b-side dell’Italia potenzacraxiana», come disse Enrico Brizzi, fresco di JackFrusciante che dedicò a Paz e a Pier VittorioTondelli che, a sua volta, nel Week end postmoderno, ebbe a dire che Andrea era il JamesJoyce del fumetto italiano. Certo è grazie a Paz seoggi non è tutto un manga-manga, se il suo segnoriaffiora tra i fumettisti resistenti (e promettenti) suriviste che appaiono e scompaiono. Dieci annidopo, il suo Zanna campeggiava sul palco di S.Giovanni nel logo del concertone. Ne sarebbe stato

contento l’autore? A Conegliano, provincia diTreviso, c’è una scuola elementare che porta il suonome. Lo stesso a San Severo, Foggia, dove egli havissuto. Pazienza come Garibaldi, Pertini eMazzini: nome di scuola materna a VittorioVeneto, di anfiteatro a Spilamberto, provincia diModena. Pazienza faccia da francobollo (Poste ita-liane ’97), faccia da busto a Fusignano (Ravenna),nome di centro del fumetto a Cremona (una storiaserissima, il suo direttore Michele Ginevra, scrivesu questo Queer). Nessuna meraviglia che Step, ilprotagonista di Tre metri sopra cielo, si introducanottetempo nei locali di una casa editrice per ruba-re alcune tavole originali dell’autore. Nel numero200 di Dylan Dog appare Virgil, figlio dell’ispetto-re Bloch e porta lo stesso naso di Zanardi. A pagi-na 68 della stessa storia, una comparsa ha propriole fattezze di Pazienza. E un ritratto di Pazienza èil logo della SchwarzRot8000, squadra di footballnella liga alternativa di Zurigo. Ti citeranno, ticiteremo ancora, Paz, come hai citato le nostre vitemetropolitane e/o provinciali, come le hai inventa-te. Non fosse successo il collasso di vent’anni fa, il23 maggio avrebbe compiuto 52 anni e, nelle sereetiliche, qualcuno immagina cosa ne sarebbe statodi lui. C’è stato chi ha ipotizzato, ricamandoci su(con bel libro edito da Bevivino nel 2004, MassimoZanardi. Che non mi si chiami Fido, quindi e scrit-to dal milanese Tomaso Pessina) che Zanna – oggiquarantaseienne – sarebbe diventato un tassista(che comunque arrotonda smazzando un po’ diroba) in una Bologna che non riconosce più, dopouna manciata di esami al Dams. Colasanti ha persoi suoi boccoli, si rade, lavora in banca, spendesoldi e gioca per ore ai videogiochi. Petrilli, quellosfigato del gruppo, naso a pera, bassino, negli anniNovanta è stato un po’ in comunità. Oggi è sposa-to e fa il bidello nello stesso liceo.

Ma i licei sono ancora pieni di giovani futuriprecari che inventeranno nuovi linguaggi del desi-derio riscoprendo, magari, gli stessi «torbidi lega-mi col movimento del ’77» che ammise Pazienza.

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M ario Rigoni Stern è morto lassù, sull’Altopiano di Asiago,nella casa che aveva costruito con le sue mani, a pochi passidall’orto dal quale fino a pochi mesi fa allontanava, per

proteggere l’insalata, i caprioli. Aveva 86 anni e da tempo era mala-to. Grande scrittore, grande uomo, era un amico: non mio, anche selo conoscevo bene, ma di ognuno dei suoi lettori. Perché Mario, «ilsergente nella neve» (questo è il titolo del suo primo, indimenticabi-le libro, pubblicato nel 1953, con i ricordi della campagna di Russia),sapeva creare un saldo rapporto di affetto con chiunque leggesse unadelle sue pagine. Mario è morto lunedì sera. Ma ha voluto che ilfunerale si svolgesse, ieri pomeriggio, in forma strettamente privata,nella piccola chiesa del cimitero di Asiago; e che soltanto dopo ilsaluto dei suoi la famiglia facesse sapere anche a tutti noi che si èallontanato per sempre nel bosco, con la sua andatura circospettache a ogni passo sembrava riconoscere, con il palmo del piede, ognipiù riposta piega del terreno. Anche il bosco, che tante volte descris-se con l’amore e l’antica sapienza del cacciatore, era la sua casa.

Nato ad Asiago, in provincia di Vicenza, il primo novembre 1921,Mario Rigoni Stern è tutt’altro che uno scrittore ingenuo: è uno scrit-tore autodidatta, e colto perché autodidatta.

Da ragazzo passava certo più ore a saltare su e giù dai cammina-menti della guerra del 1915-1918, anziché chino sui libri. Cercava,con i compagni, proiettili inesplosi da riciclare come munizioni per lacaccia; e di tanto in tanto scopriva lo scheletro di un soldato italianoo austriaco. Ma era anche un divoratore di romanzi d’avventura. Edurante la campagna di Russia avrebbe infilato nello zaino laCommedia di Dante. La trasparenza inconfondibile del suo stile, chedescriva le piume dell’urogallo o l’otturatore inceppato di una mitra-gliatrice, è frutto di un paziente lavoro di lima, di una ricerca este-nuante e veramente classica della parola giusta al posto giusto.

Mario Rigoni Stern è scrittore vero perché è un uomo vero. Nontutti coloro che sanno aderire all’esperienza degli uomini sono capa-ci di raccontarla. Ma la profondità del sentimento e la serietà dell’im-pegno sono i pilastri sui quali Mario costruisce la narrazione.Corrugare la fronte per capire, dopo una giovinezza offuscata dallafede, quella sì ingenua, nei miti popolari del fascismo: è questo ilgesto fondamentale da cui nasce lo scrittore Rigoni Stern. Primacapire per sé, poi rendere testimonianza, perché le sofferenze non

La trasparenzainconfondibile

del suo stileè frutto di

un pazientelavoro di

lima, di unaricerca

estenuante e veramente

classica della parola

giusta alposto giusto

ORA IL SERGENTE NELLA NEVECAMMINA PER SEMPRE NEI SUOI BOSCHI

Andrea Casalegno, Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2008

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siano mai più dimenticate. Intanto quelle migliaiadi pagine divorate avidamente da ragazzo diventa-no senza accorgersene il tirocinio di lettore delfuturo narratore.

Come per tanti giovani vissuti sotto il fascismo, ilriscatto comincia dallo sport. Le gare di sci difondo, scuola di fatica e di resistenza, poi la scuo-la del coraggio: entra volontario negli Alpini perpartecipare al corso di roccia della Scuola militarealpina di Aosta. Il suo istruttore, il caporalmaggio-re Butti, è uno dei «ragni di Lecco». Un insegna-mento fisico e morale che non andrà perduto: inRussia è a quest’uomo forte e calmo, al sergentemaggiore Rigoni, che guardano gli alpini del bat-taglione Vestone, è a lui che domandano:«Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?».

Tornato a casa il 5 maggio 1945, dopo venti mesidi prigionia con gli altri soldati italiani che hanno

rifiutato di essere arruolati nelle truppe dellaRepubblica di Salò, Mario è quasi uno scheletro.Trova lavoro all’ufficio del Catasto, si mette a scri-vere, non smette più.

Gli argomenti non gli mancano. Dopo la guerra,la pace. L’Altopiano, i boschi, le nevi, le storie deivecchi, il lavoro, i campi, ecco la vera patria diMario e – come la Russia, più della Russia – lavera materia della sua scrittura, perché è materiadella sua anima. Guerra e pace, guerra e lavorosono uniti nell’epopea dei Recuperanti (1970), ilfilm che Ermanno Olmi dedica agli abitantidell’Altopiano che, dopo la Grande Guerra, vannoa cercare nelle trincee, come Mario da ragazzo,tutto ciò che può essere ancora utilizzato dalla vita«civile». Da quel film nasce la loro amicizia. Ilregista Olmi viene a vivere sull’Altopiano e diven-ta il vicino di casa della famiglia Rigoni.

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P resentando nel 1953 ai lettori Il sergentenella neve, il racconto-testimonianza di unreduce dalla sciaguratissima campagna di

Russia, Elio Vittorini scrisse in uno dei suoi famo-si risvolti per la collana dei Gettoni einaudiani incui esordirono tanti grandi scrittori, che si tratta-va di un’opera certamente importante, ma che ilsuo autore Mario Rigoni Stern non sarebbe anda-to oltre questo libro, che insomma egli non era unvero scrittore. Fu una delle sue sviste più clamoro-se, perché Rigoni Stern era un vero scrittore, il suolibro non era affatto un semplice «caso» ed egli loavrebbe dimostrato nel corso di un cinquanten-nio. Nel 1962 si ripresentò al pubblico con i rac-conti di Il bosco degli urogalli, cui fecero seguitomolte opere di narrazione e di memoria, legate traloro dalla stessa ispirazione, riconoscibilissima eunica.

Nato sull’Altopiano di Asiago nel 1921, MarioRigoni Stern non ha mai distinto veramente nellasua opera tra racconto e analisi, tra narrazione einvestigazione. Ogni suo intervento è stato fedelealla stessa ispirazione, la denuncia del disastro di

due guerre mondiali attraverso le vicende di moltipersonaggi comuni (presi dal vero) il cui destino èstato segnato da quelle rotture, in genere gentedell’Altopiano, ed è stato fedele a un ambientenaturale e non solo sociale, dedicando alla flora ealla fauna dell’Altopiano racconti, evocazioni,descrizioni e anche denunce in modo sempre piùassiduo e più convinto, in una lingua sempre piùessenziale e pura.

Prodotto di un ambiente e di una storia, non ne èvoluto mai uscire, sempre mantenendo un suo osti-nato pudore, e con risultati tanto più alti quantopiù esigente era la loro motivazione, la loro neces-sità. Ha narrato la guerra in Quota Albania, inRitorno sul Don e in tanti racconti, e nel suo libroforse più austero e commosso dopo Il sergente, laStoria di Tönle (1978) che aveva al centro il bellis-simo personaggio di un montanaro solitario altempo della Grande Guerra. Ma ha narrato con lastessa intensità, anche se ora in modi non dramma-tici e anzi spesso sereni e rasserenanti, la natura –gli animali e le piante, e le opere e i giornidell’Altopiano.

Rigoni Stern, i libri e la memoriaGoffredo Fofi, Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2008

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I suoi libri e articoli sugli animali e sulle piante sonostati dettati da una conoscenza diretta e da un rap-porto continuativo con la natura, che passava peròattraverso la vita degli uomini, i modi in cui gliuomini hanno interagito con le piante e con gli ani-mali. Con questi ultimi, anche attraverso la media-zione e l’esperienza diretta della caccia. Molte pagi-ne del Rigoni Stern cacciatore non sfigurano affat-to se confrontate a quelle di altri grandi scrittori,anzitutto i russi con Turgenev in testa, e natural-mente si trattava per lo scrittore veneto di un modod’intendere la caccia nel quadro di una cultura (e diuna necessità) che nulla hanno a che fare con quel-li di oggi, che egli per primo detestava.

Uomini, boschi e api, Il libro degli animali,L’Arboreto selvatico sono ricchissimi di ricordi,d’incontri, di vicende, di situazioni che hanno alloro centro un rapporto antico con la natura, avvi-lito o distrutto dalla modernità. Di questo RigoniStern ha molto sofferto, ma ha anche reagitomolto, lottando contro i modi in cui l’uomo havoluto intervenire sulla natura in nome di un pro-gresso ottusamente distruttivo. La vita armonicadell’Altopiano, le guerre vissute dalla sua gente

sull’Altopiano stesso o sui fronti delle aggressiveguerre fasciste sono diventati grazie a Rigoni Sternun patrimonio dei lettori italiani ed europei, e sesono stati i piemontesi Primo Levi e Nuto Revelligli autori che egli ha sentito più vicini, la sua cul-tura era vastissima, la sua curiosità inarrestabile esenza confini.

Il sergente nella neve è uno dei grandi libri dellanostra storia e della nostra letteratura, e grazie aun suo amico, l’attore-narratore Marco Paolini, haavuto ancora di recente una diffusione enormepresso un pubblico sempre nuovo, e presso giova-ni che attraverso il racconto della guerra hannopotuto apprezzare il valore e il significato dellaparola «pace». Dopo la scomparsa di Meneghello,non troppo tempo fa, il Veneto, regione chiavenella storia italiana e della sua letteratura, regioneoggi alla ricerca tra molti sbandamenti di unanuova e difficile identità, ha perduto un altro deisuoi massimi personaggi, anche se, per fortuna delVeneto e dell’Italia, sono ben presenti con le loropoesie e le loro battaglie civili due grandi comeAndrea Zanzotto e Fernando Bandini, suoi amici.

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H a continuato a vivere e a scrivere poesie nella grande casa divetro e luce costruita con suo marito a Port, nello stato diWashington. A parlare con Carver. Sono passati vent’anni

dalla morte di uno dei più grandi scrittori di racconti del secondoNovecento e la fortuna di Raymond Carver conosce una nuova sta-gione, negli Stati Uniti come in Europa e in Italia. Per il ventennale,l’editore americano Knopf ha deciso di ripubblicare l’opera comple-ta di Carver. In Italia la novità è il passaggio da minimum fax aEinaudi, che da febbraio riedita tutti i racconti, a cominciare da unaversione in parte inedita di Di cosa parliamo quando parliamod’amore, la raccolta che ispirò a Robert Altman il capolavoroAmerica oggi, sempre nella bellissima traduzione di RiccardoDuranti. È una buona notizia per i carveriani, un piccolo club alprincipio (la prima edizione di Cattedrale in Italia fu un clamorosofiasco), cresciuto con le nuove generazioni. Da questo risveglio d’in-teresse parte il dialogo con la vedova Tess Gallagher, poetessa e scrit-

trice, con cui Carver condivisegli ultimi e i soli anni felici diuna vita tormentata da fallimen-ti e alcool, stroncata a cinquan-t’anni da un cancro ai polmoni.

Carver appartiene agli anni Ottanta,eppure a rileggerlo sembra un profe-ta dell’America di oggi. Le sue storiedi piccola, buona gente che non riescead arrivare alla fine del mese, a paga-re le bollette e il mutuo, suonavanoanticonformiste nell’America imperia-le di Ronald Reagan.Tanto che la cri-tica s’inventò la formula Carver’sCountry. Ora questa è la condizione

Mio marito Raymond Carver

A colloquio con Tess GallagherCurzio Maltese, la Repubblica, 21 giugno 2008

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normale del ceto medio negli Stati Uniti, questi sono i pro-blemi di tutti.«Sono convinta che i racconti di Carver abbiano inqualche modo prefigurato la fase che stiamo attra-versando in questo momento – ora il ceto mediosta scivolando in una posizione subalterna, alpunto che neanche due stipendi bastano a mante-nere una famiglia. Nel pieno periodo reaganiano isuoi racconti ci trasmettevano questo messaggio:mica tutti se la passano bene. Il sogno americanosta fallendo. Oggi le dimensioni di quel fallimentosono molto più evidenti. La gente fatica a sostener-si con i prezzi di cibo e benzina. In genere, la natu-ra marginale del vivere in circostanze difficili ci famisurare la nostra vita e riflettere sui motivi deldivario fra quelli che hanno più che a sufficienza equelli che, pur lavorando sodo, non riescono anco-ra a permettersi cose fondamentali come curemediche adeguate. Negli anni Ottanta, tutto que-sto era ancora in ombra, ora l’ombra è diventatarealtà. Lui si è occupato di gente che viveva sullapropria pelle lacerazioni fondamentali del tessutosociale, come disoccupazione, alcoolismo, divor-zio, debiti, tradimenti, la mancanza di un tetto evari tipi di abbandono, la sua opera travalica cul-ture, tempo e spazio».

«Prendi qualcosa dalla vita di tutti i giorni, senza trama esenza finale». Così Anton Cechov descriveva l’arte del rac-conto. Carver è stato l’ultimo grande maestro di questogenere. Negli ultimi vent’anni, in Europa come in America,le raccolte di racconti non trovano più molto pubblico espesso neanche editori. Viviamo una specie di dittatura delromanzo. La trama, l’intreccio, i colpi di scena, per quantobanali, insomma i trucchi del mestiere sembrano piùimportanti della capacità di creare emozioni con la scrittu-ra. È come se il filone si fosse esaurito.«Credo e spero che si tratti di un ciclo. QuandoRay era vivo in effetti era molto facile pubblicareuna raccolta di racconti e non si era neanchecostretti a promettere di scrivere prima o poi unromanzo. Oggi è diverso. Continuano certo a usci-re bei racconti, come quelli di Haruki Murakami odi William Trevor, che potrei leggere e rileggere incontinuazione. Di recente ho aiutato a raccoglieree a pubblicare, prima a Belfast e poi negli StatiUniti, un libretto di storie irlandesi di Josie Gray,che mi piacerebbe veder tradotte in italiano. Alla

fine penso che non sarà il mercato a determinare sei racconti verranno scritti o meno. Il racconto èuna forma così vibrante e necessaria, vicina allapoesia, che non si smetterà mai di scriverne. Fral’altro, nello scrivere racconti non si possono faretanti errori quanti se ne possono fare nei romanzi,perciò gli scrittori migliori vorranno sempre usarequesta forma».

La vita quotidiana è al centro dell’opera di Carver, ma lasua è piuttosto sconosciuta. Di altri scrittori abbiamomigliaia di pagine di diario. È naturale per un lettore chie-dersi quale fosse la sua giornata, come si svegliava al mat-tino, con quali pensieri andava a letto, come lavorava.«A Ray piaceva svegliarsi presto, verso le 7. Si pre-parava il caffè, cucinava la colazione, il suo pastopreferito, lavorava un’oretta e mi aspettava, vistoche a me invece piace prendere le cose con calma.Facevamo un’altra colazione insieme, discutevamodella giornata. E se avevo fatto qualche sognovoleva che glielo raccontassi, perché lui non sogna-va quasi mai. Dopo colazione, riprendeva a scrive-re e spariva. Quando lavorava alla prima stesuradi un racconto, ci dava davvero dentro. Però se erain fase di revisione, mi chiedeva di dare un’occhia-ta e mi chiedeva un parere. Se c’era un problemaandavamo a cercare la soluzione con una passeg-giata al fiume. Di solito, la parte più difficile era ilfinale perché si doveva trovare un opportunopunto fermo a tutto quanto era stato messo inmoto. Io potevo solo indicargli le forze in azionenella storia e che pressioni esercitavano sui perso-naggi principali. La cosa lo aiutava molto perchégli dava un punto di vista esterno, una specie divisione dall’alto. Se non dovevamo scrivere, nelpomeriggio andavamo a pesca di salmoni nellostretto di Juan de Fuca. Dovunque fosse, Raydoveva sempre mangiare alle cinque del pomerig-gio perché aveva un calo di zuccheri ed entravasubito in ansia. È strano ma anche a distanza divent’anni a quell’ora penso sempre a lui. Penso:Ray avrà fame. Una delle nostre regole era chedopo le sei smettevano di parlare di “affari”, cioèdi cose riguardanti l’insegnamento, l’organizzazio-ne di viaggi, i rapporti con editori. Ci raccontava-mo aneddoti, scambiavamo pettegolezzi su parentie amici, guardavamo un film o un programmad’informazione.

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Leggevamo, a volte l’uno all’altro. Per lo più ioleggevo poesie a Ray. Alle dieci di sera, lui stacca-va il telefono, non gli piaceva ricevere telefonate divecchi amici che a quell’ora avevano bevuto un po’troppo. Andavamo a letto presto. Non so se horeso un’idea, alla fine ci divertivamo molto insieme.Sembrava sempre che ognuno di noi sapesse esatta-mente che cosa avrebbe fatto sorridere l’altro».

Non può capitare a volte di essere gelosi? Si sa che l’ideadi uno dei racconti più perfetti di Carver, Cattedrale, èstata sua, nata da una sua amicizia. Non è raro uno scam-bio di questo genere fra scrittori. L’idea di Anime Mortedi Gogol era di Pushkin, per citare l’esempio più famoso.Ma dopotutto Gogol e Pushkin non erano sposati.«Io e Ray non abbiamo mai sofferto di gelosia, né perla scrittura né per qualsiasi altra cosa. Era naturaleche uno spunto capitasse a entrambi, visto che vive-vamo insieme. È quello che è successo per Cattedrale.Ray è riuscito a scrivere prima sulla visita del mioamico cieco perché allora insegnavo e non avevoabbastanza tempo. Poco dopo, anch’io scrissi un rac-conto sull’argomento e a Ray piacque molto. Il titoloè diventato La pioggia spegne il fuoco dell’accampa-mento ed è la versione femminile della storia».

Uscirà fra pochi giorni in Italia il libro intitolato Al Saloondella Donna Gufo, per le edizioni Empirìa, tradotto dagli stu-denti della Sapienza. Nei corsi di scrittura in America i dueracconti vengono spesso usati per spiegare l’importanza delpunto di vista; lei e Carver avete invece lavorato a un proget-to straordinario, la sceneggiatura della vita di Dostoevskij perun film di Michael Cimino, che poi non si fece mai.«Fu proprio Cimino a chiamarci. Il film dovevaprodurlo Carlo Ponti. Lavorammo molto e conpassione perché il cinema piaceva a entrambi.Anche se non era un periodo facile. Ray insegnavaa Syracuse e io assistevo mio padre, che stavamorendo di cancro ai polmoni, nello stato diWashington. Ci scambiavano le stesure avanti eindietro. Ma il film non si fece perché Carlo Pontia un certo punto sparì, così ci disse Cimino».

Il vero film di Carver l’avrebbe poi fatto Robert Altman conShortcuts, America Oggi.«Ora è diventato un classico del cinema. Quandouscì fu un colpo, rivelava molte dure realtà dellasocietà americana, cose che neanche noi volevamo

sapere. Ma Altman è riuscito anche a mantenere ilsenso dell’umorismo dei racconti e credo che latenerezza di Ray verso i personaggi l’abbia conta-giato. Mi sono sentita una privilegiata per aver col-laborato a quel progetto. C’è stato un gran dibatti-to sul grado di fedeltà del film ai racconti ma, secon-do me, si trattava di qualcosa che andava ben oltrela “traduzione” in immagini. Un grande regista erariuscito a infondere un nuovo significato alle storiedi Ray, aggiornandole agli anni Novanta e oltre».

Altman raccontò di aver comprato i racconti all’aeroporto,per caso, e di essere sceso dall’aereo con la certezza didoverne fare subito un film. Altri registi si sono poi innamo-rati di Carver.«Un bravissimo regista australiano, RayLawrence, ha girato un film a partire da uno deiracconti usati anche da Altman, Con tutta quel-l’acqua a due passi da casa, quello sul gruppo dipescatori che scoprono un cadavere di una ragaz-za nel fiume e scelgono di non denunciare subitol’episodio, ma di continuare la loro battuta dipesca. Lawrence ha allargato l’impatto del raccon-to facendo della donna un’aborigena. Ho ammira-to molto il film proprio per questa aggiunta. Cisono poi un sacco di registi principianti che usanol’opera di Ray per imparare il mestiere».

La mania della critica di affibbiare un’etichetta agli scritto-ri è a volte sciocca. Nel caso di Carver, definito un maestrodel minimalismo, forse ancora più sciocca. Se lei dovessedescrivere a un ragazzo che non l’ha letto il lavoro diCarver, quali parole userebbe?«La forza dei racconti di Ray non si può esprimerecon una formula. La cosa migliore è lasciare che illettore si accorga di essere davanti a uno scrittore chenon nega o sminuisce mai l’umanità di un’altra per-sona perché quest’ultima soffre o ha perduto il con-trollo della propria vita o ha preso una decisionesbagliata ed è finita nei guai. Ray ne racconta la sto-ria con tutto il rispetto e dopo che la si è letta si ècostretti ad abbandonare quella posizione di facilegiudizio in cui c’è chi è degno e chi non lo è. Ray scri-ve partendo dal principio che siamo tutti sulla stessabarca. E riesce a farlo con molta precisione, con unatenerezza priva di sentimentalismi e infine con umo-rismo, perché molte cose che scrive sono veramentesuccesse a lui o a gente cui voleva bene».

Rassegna stampa, giugno 2008

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D’ accordo, ma come?Come quando fuoripiove e uno, giocan-

do a carte, sospira e dice«Guarda, piove»? Insomma, semolti recensori non leggono deltutto i libri che recensiscono,come hanno “denunciato” recen-temente l’amico Mascheroni el’amico Langone su il Giornale,che fare? (Nota per i posteri: icollaboratori culturali in partico-lare, e i giornalisti in generale,sono tutti “amici” tra di loro,non si pestano i piedi ma si accol-tellano volentieri la schiena avicenda, e quindi qui, pur dascrittore, ma attenendomi alladeontologia del buon collabora-tore di giornale, citerò moltiamici, veri o finti che siano, genio mezzi e mezzi o mezze calzetteche siano).

E quindi. Non che non siavero, figuriamoci. E tuttaviadipende dai casi, dai libri, dallepersone, dall’imperscrutabile“onestà intellettuale” (due paro-le, un ossimoro?), dalle capacitàdi chi fa questo mestiere…dipende da così tanti fattori sog-gettivi che messa così non rischiadi non dipendere da niente e fini-re a tarallucci e vino? Filippo LaPorta già se ne esce lamentando-si di non essere stipendiato danessun giornale… Si possonorecensire molti libri al mese? Sì,dipende. Io ho impiegato diecigiorni di lettura dalla mattinaalla sera per recensire su LiberoLe Benevole di Jonathan Littell,e ci ho messo dieci minuti e unatrentina di pagine di spensieratalettura random per avere l’ideaesatta del libro dell’amica GuiaSoncini e scriverne, e se ci avessi

messo di più avrei perso il tempoche mi serve per leggere e scrive-re libri importanti. Piuttosto, lodico all’amico Gigi e all’amicoCamillo e all’Amico delGiaguaro, la malattia virale deigiornali che parlano di libri, lametastasi delle Terze Pagine, deicapocultura, dei collaboratori,delle case editrici, degli ufficistampa, non sarà nel meccani-smo nevrotico e drogato deldemi-monde editorial-giornali-stico, e la parolina magica enefasta e pavloviana non saràquella più stradetta dagli addet-ti, e cioè: “anticipazione”? È ilproblema dei libri ridotti a“notizie”, a chi ne parla prima enon a chi ne parla meglio. Se poiuno ne parla prima e megliotanto meglio, ma non c’entra.Sono complici tutti, sebbene tuttise ne lamentino e a tutti un simi-le sistema complichi la vita. Ecco quello che avreste volutosapere sulle recensioni e nessunoha mai osato chiedere, neppurel’amico Langone, che mi chiamaper intervistarmi sulla questionee io, maligno, gli sottopongol’orribile faccenda, e lui, sospi-rando: «Lo so, è proprio così.Spesso quando voglio scrivere diun libro appena uscito per i gior-nali è già vecchio». La cosa èsemplice: ogni casa editrice pre-dispone una o più anticipazioni,a seconda della forza contrattua-le del libro e del livello di visibi-lità dell’autore (la sua “dote”mediatica). Per esempio, l’amicoPansa sui resistenti sanguinari,poiché tirava, lo si dette a chiun-que, indiscriminatamente, men-tre l’amico Arbasino lo si dàsubito a Repubblica, di cui è col-M

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laboratore, e dopo a chi se lo prende, ma se percaso ne parlo io per primo su Libero, solo perchémi accorgo, grazie a una segnalazione dell’amicoGnocchi, che il testo era già edito, una vocina que-rula e non amica dell’ufficio stampa Adelphiminaccia al telefono oscure rappresaglie poiché «hobruciato la Repubblica». «Non mi dica, sul serio?Posso dare fuoco anche a lei già che ci sono?» ebbiil tempo di dire, e clic.

In altri termini ogni ufficio stampa cerca di “ven-dere” la prima recensione del “libro” a una testataimportante. “Vendere” non implica per forza unmercimonio pecuniario, spesso molto peggio. Laricerca disperata dell’anticipazione è il martirio diogni ufficio stampa, in misura inversamente pro-porzionale alle dimensioni dell’editore. Più sei pic-colo, più sono cazzi, ma più sei grande più sei unpassacarte. Per questo l’ufficio stampa è una pro-fessione senza nome, “un ufficio” appunto. Se peresempio devi chiamare il capocultura di Liberotelefoni all’amico Gnocchi, se devi chiamare l’uffi-cio stampa Adelphi chiami solo l’ufficio stampaAdelphi, il quale, in quanto ufficio, si prende pureconfidenze che quattro mura, una scrivania, uncomputer e un fax non dovrebbero. Si noti che ogni“anticipazione” è sempre, giocoforza, “in esclusi-va”. Se la dai al Corriere non puoi darla aRepubblica, se a Panorama non all’Espresso né aun quotidiano prima di loro o insieme. Se escel’uno, non uscirà l’altro. Sebbene i giornalisti sianoputtane, gli uffici stampa sono puttane fedeli loromalgrado: se l’anticipi una volta dopo nessuno te laprende più. Se uno esce prima dell’altro puoi ancheimpiccarti, con l’altro hai chiuso. Pornoerotismoeraclitorideo monodose: non ci si bagna mai duevolte con lo stesso libro. Per questo gli uffici stam-pa spesso sono donne frigide e poco passionali, lequali la danno a molti ma una volta sola. La leggeferrea e darwiniana degli uffici stampa, per unautore medio pubblicato, è il famoso teorema QBS-QBQ-SBS-MSA-ALNBPDQDSNSIC: QuotidianoBrucia Settimanale, Quotidiano Brucia Quo-tidiano, Settimanale Brucia Settimanale, il Mensilesi Attacca, al Lettore Non Brucia Perché Di QuestoDiscorso Se Ne Sbatte I Coglioni.

Una volta uscita l’anticipazione, che spesso è unarecensione frettolosa perché i tempi sono stretti e

le bozze non ci sono mai fino all’ultimo, i giornaliesclusi si danno due alternative: o non parlarne (neha già parlato il giornale concorrente, come se ilettori avessero le rassegne stampa), oppure parlar-ne di corsa, mettendo fretta ai recensori o giorna-listi o critici o pubblicitari che siano. Il triste datodi fondo è che un libro, ridotto a “notizia”, sotto-posto non ai dictat dell’Ansa ma all’Agenzia Ansiadel cortocircuito degli addetti ai lavori, non è piùun oggetto di cultura da approfondire, su cui pen-sare, su cui tornare, sul quale innestare dibattitiseri, specie quando ne vale la pena.

Basta mettere in fila le loffie e patetiche recensioniitaliane uscite, per tornare all’esempio su menziona-to, su Le Benevole dell’amico Jonathan Littell, uncapolavoro di mille pagine di cui in Francia conti-nuano ancora a parlare (un Paese dove però esiste,tra l’altro, un Magazine Litteraire sofisticato e coltoe che addirittura vende), per rendersi conto chequasi nessuno ha davvero letto il romanzo ma solola prima anticipazione, la quale, nel caso specifico,fu una doppietta in rapida successione Repubblica-Corriere (nell’ambiente significa che Repubblica hainculato il Corriere di un giorno), ma una volta usci-ti loro finita lì, notizia bruciata, i successivi scrivonodi Littell giusto per inerzia d’informazione e, al limi-te, per farsi una sega con quello che avanza.Pertanto i secondi e terzi e quarti arrivati hanno solopotuto aggiungere alcuni dettagli opinionistici sulleopinioni già espresse, per dare a vedere di impasta-re il pane riciclato con la farina del proprio sacco diaggettivi aggiunti.

Quindi Le benevole per il Sole 24 Ore diventa unoschifoso «libro porno pulp», per l’amico NicoOrengo, su Tuttolibri la settimana successiva, sempreuna schifezza «porno pulp» (e forse anche “splatter”,mi pare, e citando gli stessi passaggi narrativi del Sole24 Ore), per l’amico Antonio D’Orrico, non suQuattroruote ma la settimana dopo su CorriereMagazine, addirittura «il navigatore Tom Tom». Cisarebbe una sola soluzione rivoluzionaria, una mode-sta proposta swiftiana che renderebbe felici lettori digiornali, scrittori, uffici stampa e recensori: non sipotrebbero abolire le anticipazioni per legge, e istitui-re un Premio Nazionale alla Miglior Recensione, elo-gio o stroncatura che sia, e non alla cagatina o caga-tona che esce prima degli altri?

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P er vincere il Grand Prix sembrano contare in ugual misura ilpilota, la macchina e le gomme; per scalare le classifiche dellevendite in libreria la formula è più variegata e quasi sempre

spiegabile con il senno di poi. L’autore, il libro, l’editore, la critica, ipremi, la promozione, il tam tam dei lettori offrono di volta in voltaun contributo di peso diverso al capriccio della sorte.

Da sempre la critica è considerata il motore nobile delle vendite,oltre che della fama dell’autore anche se sembra prevalere un certoscetticismo sul suo impatto reale. Fosse dipeso dai critici italiani del-l’epoca, Leonardo Sciascia non sarebbe diventato un protagonista delsecondo Novecento europeo. Interpellato su come organizzare la for-tuna critica nell’ambito dell’opera omnia, affidata non a caso a unostudioso francese, ebbe a dire: «Per me sarebbe più appropriato par-lare di sfortuna critica».

Succede anche ai nostri giorni che autori, come Susanna Tamaro e Ales-sandro Baricco, pur punzecchiati dalla militanza critica, non ne colganotracce nell’affezione dei lettori; oppure che un libro raccolga il plauso del-l’intera filiera delle firme illustri della carta stampata con scarso benefi-cio commerciale. A volte invece basta un solo intervento, magari anima-to da estrosa felicità comunicativa, a decretarne il successo.

È capitato a Storie di ordinaria follia di Charles Bukowski, a metàdegli anni ’70, con un elzeviro di Beniamino Placido che valse all’au-tore un posto permanente nella élite dei long-seller. È capitato aGiorgio Faletti, ad Alessandro Piperno, a Salvatore Niffoi, beneficiaridi alcuni exploit fuori ordinanza di un Antonio D’Orrico in odore ditaumaturgia.

Un abbraccio critico indelebile è stato quello di Gianfranco Continiper Carlo Emilio Gadda e Antonio Pizzuto, ma in classifica l’ingegne-re milanese supera di gran lunga il questore palermitano. Memorabi-le l’esordio moraviano con Gli indifferenti: pubblicato a spese dell’au-tore ventunenne nel luglio del 1929, raccolse nel giro di quattro mesiuna trentina di saggi e articoli a firma dei grandi nomi della societàletteraria, da G.A. Borghese a Pancrazi, da Tilgher a MargheritaSarfatti, ma anche i coetanei o quasi Piovene, Zavattini ed Enrico Fal-qui. Un romanzo che, specie in prossimità degli esami di maturità, faancora capolino tra i titoli più venduti.

Fernanda Pivano, cresciuta all’ombra della lost generation, si è trova-ta poi a tenerne a battesimo qualche nipotino, come Jay McInerney eBrett Easton Ellis. La sua appassionata recensione di Le mille luci diNew York (1986), pubblicata con una foto dell’autore, procurò a Jayun’immediata popolarità. «Dagli hippies agli yuppies» commentò qual-cuno, memore dei trascorsi letterari californiani della Nanda.

Ci sono poi situazioni ed even-ti, si direbbero surrogati dellacritica professionale, in gradougualmente di creare consenso.Come la rubrica che GiulianoFerrara dedicò ne Il Foglio allaVersione di Barney di MordechaiRichler.

In Italia non è ancora nato unBernard Pivot capace di attiraredal piccolo schermo folle dinuovi lettori; in forme a voltebizzarre o casuali la nostra tele-visione ha comunque dimostratola sua efficacia. Quanto deveKundera, per il suo grande rilan-cio in Italia con L’insostenibileleggerezza dell’essere (1985),agli sproloqui reiterati delmigliore Roberto D’Agostino inQuelli della notte di RenzoArbore? Se Andrea De Carlo haavuto come primo editore ItaloCalvino, il suo passaggio a tira-ture di sei cifre coincide con lapartecipazione a una trasmissio-ne domenicale di Pippo Baudo, inoccasione dell’uscita di Macno(1984), dove una fresca ragazza,tutta vestita, semplicementeesclamò «il tuo libro mi è piaciu-to tantissimo».

Per gli autori, partecipare oggiai programmi televisivi di mag-gior rilievo, che quasi sempreassumono la forma di una bene-vola intervista, ma anche un dia-logo discretamente rissoso puòfunzionare, è obiettivo primario, eanche gli uffici stampa delle caseeditrici si organizzano in funzioniseparate per i diversi media.

Quelle recensioni da classificaMario Andreose, Domenica del Sole 24 Ore, 29 giugno 2008

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