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1755: LO SCAVO PRATICATO DAL PADRE TEBALDI PER ARRIVARE ALLA TOMBA DI FRANCESCO

Nell'anno 1755, il padre Ubaldo Tebaldi, minorita del Sacro Convento di Assisi, ottenne da Papa Benedetto XIV il permesso di effettuare uno scavo, per arrivare alla tomba di S. Francesco.

Era il primo scavo autorizzato da un Pontefice, dopo il decreto di Paolo V datato 1607, con il quale si proibiva a chiunque, sotto pena di scomunica, di fare qualsiasi tentativo di arrivare, con scavi, al corpo del Santo assisiate.

Del lavoro effettuato dal padre Tebaldi esiste una Relazione dello stesso, indirizzata da Assisi al Ministro Generale dell'Ordine, Federico Lauro Barbarigo, in data 15 agosto 1786.

Erano trascorsi trenta anni dallo scavo ultimato, ma tale ritardo va spiegato con il fatto

che il Papa aveva raccomandato al Padre Tebaldi di conservare il segreto sotto pena di scomunica.

I lavori di scavo furono iniziati subito dopo il Natale 1755, partendo dall'Altare delle reliquie (non più esistente) sotto la Crocifissione del Lorenzetti, nel braccio sinistro del transetto. Il lavoro, che si svolgeva solo di notte, si protrasse per due mesi interi, fino alla fine del febbraio 1756.

Lo scavo praticato da frate Elia nella viva roccia, al centro della crociera. Qui fu sistemato il corpo di Francesco fin dall’inizio.

In seguito, sopra al cunicolo, fu eretto l’altare.

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Relazione del padre Tebaldi sullo scavo durato due mesi Ecco il testo della Relazione del padre Tebaldi al Ministro Generale: «Oggi è un giorno solennissimo, cioè dell'Assunta, dopo essere entrato ieri nell'anno

settantaquattro di mia età (...). Sappia pertanto che l'anno 1755 per le feste di Natale io ottenni dalla S.M. di Benedetto

XIV che molto mi amava, la facoltà di poter cercare in questa Basilica il Corpo di S. Francesco, e scelsi tre Laici, che sono ancor vivi, e furono il Campanaro, il sotto Sagrestano, e il Muratore a questa impresa: il primo si chiama Fr. Lorenzo Sdringola, il secondo Fr. Giambattista Montanini ed il terzo Fr. Carlo Orfei.

Si cominciò a lavorare sino all'ora di Matutino, perché le notti erano lunghe: si trovò subito lo scoglio: bisognò romperlo a poco a poco per poter giungere al muro sotterraneo, che sta sotto la Tribuna dell'Altare maggiore.

Tra i quattro Torrioni che sono ai quattro lati della detta Tribuna, eravi a tempi di Fr. Elia una gran voragine: convenne perciò a lui per porla in piano, e fabbricarvi poi l’Altar maggiore, riempirla dal fondo sino alla cima con un gran muro.

Or giunto a questo muro ci fu d'uopo traforarlo da tutte le parti con una fatica indicibile; perché è composto di pietre concie, e di una calce quasi impenetrabile, ma nulla si trovò. Di lì si penetrò al fondo, e si arrivò sotto al detto muro, ed ivi non si trovò che il puro scoglio del Colle ed acqua; onde toccassimo colle mani che la terza Chiesa sotterranea decantata è una mera frottola.

Ciò veduto si cominciò a lavorare all'insù contro l'Altar maggiore, e si andò tanto avanti che giunti a una certa altezza, sentii fischiare del vento da una fessura: io allora vi accostai la lanterna, e vidi l'Urna del S. Padre che mi parve di marmo; e que' Laici che stavano lavorando, e forando quel Masso, non se ne accorsero.

Or io allora dissi ai medesimi, che facciamo? Siamo ormai giunti al fine di Febbraio, e le notti si sono molto accurtate, che facciamo; Nulla si è trovato, che facciamo? Lasciamo andare, risposero tutti, e così fu fatto, essendosi badato nelle notti susseguenti a riempire la strada con sassi, e altro, e specialmente l'Altare delle Reliquie in maniera che niuno potesse mai accorgersene.

Prima però d'ogni altra cosa si era fatto un'altro tentativo. La gran pietra sacra dell'Altar maggiore vien sostenuta da ventidue colonnette, e nel mezzo da un Cassone grande, e si vide esservi dentro una culla di travertino bianco, fatta per porvi un corpo morto, ma nulla vi è dentro; e però ci accorgessimo essere stato fatto ciò da Fr. Elia con artifizio, cioè mi accorsi io solo, perché gli altri non erano capaci di tanto.

Scrissi di poi il successo alla Santità di Benedetto XIV; il quale per mezzo di Monsignore Piersanti ci comandò un rigoroso silenzio sotto pena di scomunica a lui riservata. Volea egli quà venire per vedere, e onorare il Corpo del Serafico Padre; ma non poco dopo cominciò a patire di male di orina, e non potè effettuare le brame sue.

Or veniamo al punto massimo. Il sacro Corpo del S. Padre sta un palmo e mezzo sotto la culla nominata di sopra. Ed ecco la P.V.R. va fatta partecipe del gran segreto. Tocca ora a lei di custodirlo, come si deve».

All'inizio della Relazione, padre Tebaldi, fa questa dichiarazione solenne: «Giuro pertanto, e chiamo Dio in testimonio che questa Basilica costa di due sole

Chiese. Giuro e chiamo Dio in testimonio che la terza Chiesa non vi è, né vi è stata giammai. Giuro e chiamo Dio in testimonio che il detto prezioso Corpo non è stato giammai veduto da veruno, dacché fu collocato da Fr. Elia nel luogo dove sta. Giuro e chiamo Dio in testimonio che la Visita di Nicolo V, espressa nei Rami del Codivilla, è una

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vera impostura. Con questi miei giuramenti intendo di dar gloria a Dio ch'è il fonte d'ogni verità; perché quanto ho giurato tutto costa a me di certa scienza ed è vero».

Abbagli del Padre Tebaldi e osservazioni sulla sua relazione

Nonostante i suoi giuramenti, padre Tebaldi prese dei vistosi abbagli. Si rendono perciò necessarie le seguenti osservazioni:

1) Padre Tebaldi dice che dentro il cassone che sorregge la grande pietra che fa da mensa all'altare maggiore vi era una culla destinata ad accogliere un corpo morto. Ma la culla non esiste.

2) Egli afferma: «il sacro corpo dei S. Padre sta un palmo e mezzo sotto la culla nominata di sopra» (praticamente, cm. 35 circa, sotto l'altare). Ma il corpo di S. Francesco, come risultò nel 1818, era invece alla profondità di m. 3,50 circa sotto l'altare maggiore.

3) Secondo padre Tebaldi, ai tempi di frate Elia, al centro dell'attuale crociera, «vi era una gran voragine» e fu necesario «riempirla dal fondo sino alla cima con un gran muro» per «fabbricarvi poi l'altare maggiore».

Come risultò nel 1818, nella roccia vi era invece uno scavo perfettamente quadrato (m. 3,50 per lato) e dunque creato di proposito. Il muro non era uno solo. Ce ne erano quattro e rivestivano le pareti dello scavo, che prendeva la forma di un sacello-sepolcreto, in fondo al quale vi era il sarcofago contenente il corpo di S. Francesco.

4) E’ ancora padre Tebaldi che parla: «Toccassimo colle mani che la terza chiesa sotterranea decantata è una mera frottola».

Eppure c'è chi pensa, e non senza ragione, che nei primi due secoli il sacello-sepolcreto aveva proporzioni più ampie di quelle che risultarono nel 1818, formando una vera e propria cappella.

5) Altra affermazione del padre Tebaldi: «Giuro e chiamo Dio in testimonio che il detto prezioso corpo (di S. Francesco) non è stato giammai veduto da veruno, dacché fu collocato da fr. Elia nel luogo dove sta».

Questo è vero per il periodo che seguì alla chiusura ermetica della tomba ad opera di Eugenio IV (1442) e di Sisto IV (1470). Non è altrettanto certo per il periodo precedente a detta chiusura.

1806: PADRE PAPINI OTTIENE DA PIO VII L'AUTORIZZAZIONE DI EFFETTUARE UN NUOVO SCAVO

Erano trascorsi sessanta anni dallo scavo effettuato dal padre Tebaldi (1755-56),

allorché padre Nicolò Papini nel 1806, nella sua qualità di Ministro Generale dell'Ordine, ottenne da Papa Pio VII il permesso di effettuare un nuovo scavo.

Il padre Tebaldi si era illuso di aver raggiunto il sarcofago contenente il corpo di S.

Francesco, che invece si trovava più in basso, sotto tre grandi lastroni di travertino, della cui esistenza padre Tebaldi non si avvide neppure.

Pio VII concesse ben volentieri l'autorizzazione richiesta, raccomandando la massima

segretezza durante l'esecuzione dei lavori.

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A tale scopo padre Papini scelse un coadiutore nella persona del padre Angelo Gamberini, Custode del Sacro Convento, il quale scelse otto fratelli «di buon cuore e senza lingua» per effettuare lo scavo.

Si scelse il pavimento sotto il trono papale come il punto più adatto per iniziare i lavori.

Si sarebbe lavorato di notte, e al mattino si sarebbe ricoperta l'apertura con la predella del trono in modo che nessuno si avvedesse dello scavo. Tutto avvenne con la massima segretezza.

Fu creato un tunnel lungo circa sette metri e dopo due mesi di lavoro estenuante,

sempre condotto nottetempo, si arrivò sotto l'altare fino al calcestruzzo che riempiva il loculo-sepolcreto.

A questo punto si dovettero interrompere i lavori, per l'avvicinarsi di eventi poco rassicuranti e quindi non si arrivò al sarcofago contenente il corpo del Santo assisiate, che si trovava più in basso, sotto i tre grandi lastroni di travertino, ricordati più sopra.

Ma diamo la parola allo stesso padre Papini, che ha lasciato una descrizione dettagliata.

Da notare che egli parla di se stesso in terza persona.

Descrizione dello scavo rilasciata dallo stesso padre Nicolò Papini «Correva l'anno 1806: era Generale dell'Ordine il P. Maestro Nicolò Papini Toscano.

Questi all'occasione d'essere stato Custode, cioè Superiore del Convento d'Assisi (1802-1803), aveva travagliato e sudato sulle carte e su libri dell'Archivio per venire in chiaro del vero stato delle cose intorno al Corpo di S. Francesco.

Si lusingò d'aver trovato tutto dacché giunse a saper con sicurezza esser egli sotto al suo Altare, e non in altra parte della Chiesa già da sé esplorata, non senza qualche tentativo e superficiale assaggio.

In quanto all'accesso del sepolcro trovonne un indizio ben remoto in certe chiavi, appellate in alcuni libri, “Chiavi di S. Francesco”.

Intese poi confermarsi da vecchi Religiosi ciò, che letto aveva ne' PP. Bollandisti, essere cioè stato chiuso l'adito interamente con pietre e calcina, sicché neppur fosse più reperibile.

Queste notizie raffreddarono in lui l'ardore già conceputo di far egli pure le sue prove, ma non lo smorzarono. Quindi nel giugno di detto anno presentossi al Santo Padre Pio VII e comunicatogli il formato disegno in un coi migliori punti d'appoggio, chiese che gli accordasse di poter fare i suoi sforzi per condurlo ad effetto.

Benignamente ascoltò tutto, e a tutto prestossi il Santo Padre sebben capisse (e se n'espresse) non essere allora la Chiesa nel cimento maggiore; rivestì il supplicante Generale delle facoltà necessarie all'uopo, e raccomandando la segretezza rimesse il tutto al di lui avvedimento, e saviezza.

Questa di primo lancio gli suggerì di costituire in quest'operazione un coadiutore fedele nella persona del P.M. Angelo Gamberini già suo Segretario assistente, ed eletto Custode del Convento di Assisi: quindi fissare per lavoro otto Conversi di buon cuore, e senza lingua; trovare infine un luogo adattato per travagliare senza che comparisse, e neppur venisse in idea ad alcuno.

Sotto il Trono Pontificio, che sta sempre alzato nella Patriarcale Basilica, fu creduto il sito più acconcio per operare segretamente, potendo il suppedaneo coprire e celare il lavoro dopo fatto. Adocchiossi ancora una stanza dietro una cappella per riporvi le materie scavate, e riuscì opportunissima.

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Sotto del trono adunque posto a mezzogiorno fu negli ultimi di Novembre cominciato nel nome di Dio lo scavo, dopo aver riconosciuto il già fatto dal P. Tebaldi all'Altare delle Reliquie.

Fu cosa disanimante il trovar tutto scoglio, levate appena le lastre del pavimento; ma niuno per questo si sbigottì; crebbe anzi in tutti la premura, il coraggio, la pazienza.

Con queste armi, più che col ferro, foraron lo scoglio, e nel corso di circa sessanta notti interpolate vi apersero, torcendo opportunamente, un sentiero capace in certi punti sol di un uomo, e lungo circa trenta palmi Romani, e giunsero sotto la gradinata del grande altare a Levante.

Qui ebbero di fronte non più scoglio, ma un masso di calcistruzzo assai più duro. Anche a questo, nella fiducia che in seno contenesse il ricercato tesoro, fu dai bravi dato un fiero assalto per forarlo. E riuscì bene, e più ancora che non si figuravano; conciossiachè fattasi a forza di colpi nel masso una buca o finestra, mentre si sforzavan d'ingrandirla in ogni punto, si abbatterono in un'apertura, che dalla sinistra partendosi veniva ad imboccare nello sfondo, intorno al quale travagliavano.

Grandi speranze si concepirono, ma svanirono in un attimo. Fu penetrato nel sito, ove l'apertura conduceva, e non fu trovato che un andito,

riconosciuto poi per il lavoro del P. Tebaldi. Di tutto fu informato il P. General Papini già da qualche tempo restituitosi alla sua

residenza in Roma. Capì ben egli che i lavoranti s'eran tenuti alto, e che bisognava affondare e lavorar per l'ingiù.

Ma per allora, giudicando bene in vista delle notti accorciate, dell'avvicinarsi del caldo, e di certi lampi forieri di pubblice inquietudini, giudicando bene di non continuare il lavoro, ordinò di richiudere l'antica apertura del masso, e la bocca fattasi nel pavimento sotto il Trono, per riaprirla in tempo favorevole, che pur sarebbe venuto.

E venne dodici anni dopo» (N. PAPINI, Notizie sicure, 1824, pp. 95-97). I «lampi forieri di pubbliche inquietudini», a cui accenna il Papini, si riferiscono ai

misfatti che veniva perpetrando Napoleone. Basti pensare che di lì a poco, il Papa Pio VII, il Ministro Generale dell'Ordine, P.

Giuseppe De Bonis, il Vescovo di Assisi, Francesco Giampè, vedranno l'esilio per ordine di Napoleone.

La Basilica di S. Francesco subirà l'ennesima e più grave spoliazione da parte delle

truppe napoleoniche (cfr. B. CALZOLARI, Depredazioni nella Basilica di San Francesco, in San Francesco Patrono d'Italia, 1971, pp. 93-98).

* * * Ed ora, facendo un passo indietro nel tempo, non va dimenticato un episodio legato alla

Ven. infanta Maria di Savoia, sepolta nel braccio sinistro del transetto della Basilica inferiore, come ricorda l'iscrizione latina apposta sulla lapide nel pavimento sotto la grande Crocifissione del Lorenzetti.

Nell'anno 1648 padre Michelangelo Catalani, essendo Ministro Generale dell'Ordine, si

recò presso il Papa Innocenzo X, per desiderio della piissima Maria di Savoia, dimorante in quel tempo in Assisi. Il desiderio espresso dalla nobile infanta, terziaria francescana, era quello di poter vedere il corpo di S. Francesco.

Il Papa gli fece sapere che il corpo di S. Francesco si sarebbe visto solo quando lo avrebbe permesso la Divina Provvidenza.

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Intanto, la nobile e pia Signora doveva accontentarsi di venerare il suo Santo padre e

protettore con gli occhi della mente e con l'intuito della fede per maggiormente arricchirsi di meriti davanti a Dio (cfr. ANGELI, Collis Paradisi Amoenitas, 1704, p. 72).

L'infanta Maria di Savoia, figlia di Carlo Emanuele I e di Caterina d'Austria, morì a

Roma il 13 luglio 1656 in fama di santità. Fu sepolta nella Basilica dei Santi XII Apostoli, ma in seguito il suo corpo fu trasferito in Assisi, nella Basilica di S. Francesco dove, come già ricordato, si conserva tuttora, accanto alla tomba del Serafico Padre.

1818: IL CORPO DI S. FRANCESCO E’ RIPORTATO ALLA LUCE

Spaccato della tomba di S. Francesco, quale risultò nel 1818. Notare il sarcofago (1); il lastrone di travertino sul sarcofago (2);

due lastroni di travertino incastrati nel muro (3 e 4); il loculo che nel 1818 era riempito di calcestruzzo (5).

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Passata la bufera napoleonica, si pensò di riprendere i lavori di scavo, che erano stati interrotti nell'anno 1807, ma che avevano aperto l'animo a grandi speranze.

Il padre Papini mise al corrente il suo successore, subentrato nel governo dell'Ordine: questi era il padre Giuseppe De Bonis, appena tornato dalla Corsica, dove aveva trascorso cinque anni di prigionia per ordine di Napoleone (cfr. N. PAPINI, Notizie sicure, 1824, p. 98).

Anche il papa Pio VII era tornato a Roma. Il mite Pontefice era stato prelevato nottetempo dal Quirinale il 5 luglio 1809, trascinato

a Grenoble, a Valenza, ad Avignone, a Savona e, infine, dal 1811 al 1814 a Fontainebleau. Il rientro del Papa a Roma avvenne il 14 maggio 1814, dopo cinque anni di prigionia,

vittima della prepotenza di Napoleone. Il nuovo Ministro Generale De Bonis si rivolse al Pontefice perché, con la sua

autorizzazione, venissero ripresi i lavori di scavo. Ma lasciamo la parola al Guadagni: «Sotto il settembre 1818 per Rescritto firmato di

proprio pugno dal papa Pio VII, che rimane presso il medesimo Padre Generale (...) gli venne accordata la facoltà di poter trovare l'entrata onde rinvenire il Sacro Deposito (il corpo di S. Francesco) e valersi a tale oggetto di persone di sua fiducia, imponendo alle stesse, a nome della Santità Sua, un inalterabile rigoroso precetto di segretezza» (F. GUADAGNI, De invento corpore Divi Francisci, 1819, p. 23).

Il 6 ottobre 1818, Padre Bonaventura Zabberoni, in quel tempo Custode del Sacro

Convento, riprese i lavori di scavo incominciando dallo stesso punto (sotto il trono papale) dove aveva iniziato il Padre Papini nel 1806.

A indicarlo furono tre fratelli del Sacro Convento che avevano fatto parte degli scavatori 12 anni prima (cfr. N. PAPINI, op. cit., p. 99).

Da una relazione stesa dal padre Zabberoni, riportata dall'avv. Carlo Fea, risulta quanto

segue. Tolte le pietre dal pavimento sotto il trono papale, si constatò che in quel luogo era stato

precedentemente praticato uno scavo, riempito però con terriccio e pietre. Tutto fu rimosso, man mano che si procedeva verso l'altare maggiore.

Furono trovati 4-5 puntelli di legno a sostegno del soprastante pavimento della chiesa. Il corridoio realizzato precedentemente era molto stretto e basso: vi si camminava curvi

e quasi «carponi». Esso si estendeva fin sotto l'altare maggiore. Arrivati a questo punto, gli operai si imbatterono in un grande masso di calcestruzzo,

che venne frantumato per mezzo di «puntuti ferri, pesanti mazze, martelli e picconi». Il lavoro fu lungo e durissimo. Molti ferri andarono in pezzi, per la cui riparazione si fece ricorso ai fabbri di Perugia e

di Foligno. Tolto il calcestruzzo, apparve un vano rettangolare, circondato da quattro parti con belle

pietre lavorate, mentre, sotto i piedi degli operai veniva apparendo una pietra che poi, liberata da tutti i frantumi che la ricoprivano, si rivelò essere un grande lastrone di travertino conficcato nelle pareti in tutti e quattro i lati del vano.

A forza di colpi di mazze e di ferri, il lastrone, che aveva uno spessore di circa 20 cm., fu ridotto in pezzi.

Dopo aver rimosso uno strato di calcestruzzo di circa 5 cm., apparve un secondo lastrone, identico al primo, ugualmente incastrato nelle quattro pareti del loculo. Anch'esso fu ridotto a pezzi.

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Mentre si procedeva in tale operazione, si udiva un rimbombo che stava a indicare un vuoto sottostante.

Asportati tutti i frammenti di pietra, apparve un terzo lastrone. Fu praticato un foro da un lato e si vide una grata di ferro che ricopriva un sarcofago.

Attraverso i fori della grata fu introdotta una candela accesa, legata ad un filo di ferro, al lume della quale apparve un cadavere.

Ai terzo lastrone fu applicato un grosso anello di ferro mediante il piombo e, per mezzo di una leva, la grande pietra fu sollevata di oltre mezzo metro.

Fu allora che, introducendo di nuovo una candela, apparve il cadavere in tutta la sua lunghezza, dalla testa ai piedi.

Qui terminò l'estenuante lavoro, che si era protratto per 52 notti. Era il 12 dicembre 1818. Il padre Custode Zabberoni inviò una dettagliata relazione al padre Generale Giuseppe

De Bonis, il quale, a sua volta, informò il Pontefice Pio VII (cfr. C. FEA, Descrizione ragionata della Sacrosanta Patriarcale Basilica di S. Francesco, 1820, pp. 16-17).

Il Ministro Generale Giuseppe De Bonis comunica a tutto l'Ordine il ritrovamento del Corpo di S. Francesco

Per ordine dello stesso Pontefice, il padre Generale De Bonis, in data 22 dicembre 1818

pubblicava la seguente Notificazione. «Essendo giunto a notizia della Santità di nostro Signore Papa Pio VII, felicemente

regnante, che dopo una lunga laboriosissima indagine siasi rinvenuto il corpo del Serafico Padre San Francesco d'Assisi, si fa a tutti noto, qualmente è sua volontà, che prima di tutto si venga ad una quanto segreta, altrettanto giuridica autentica ricognizione, per cui ha già destinato nella sua saviezza distinte e sagre persone, perché avutone poi rapporto (qualora sussista un tale ritrovamento) possa, non senza maturo consiglio, venire a quelle determinazioni che crederà più opportune per esporre alla pubblica venerazione quella Sagra Spoglia.

Fatta poi l'accennata autentica ricognizione, vuole e comanda a me infrascritto Ministro Generale dei Minori Conventuali di far chiudere sull'istante l'accesso in guisa che si renda impenetrabile a chiunque, sotto pena della scomunica immediatamente a lui riservata, lasciando a se il prendere le ulteriori determinazioni su quell'oggetto; essendo parimenti ordine preciso del S. Padre di renderlo a tutti noto. Dato in Roma, li 22 Decembre 1818. Fra Giuseppe Maria De Bonis Ministro Generale dei Minori Conventuali» (N. PAPINI, Brevi e distinte notizie sull'invenzione del corpo del serafico Patriarca San Francesco, Roma 1820, pag. 32).

1819: TUTTI I VESCOVI DELL'UMBRIA PRESENTI ALLA RICOGNIZIONE DEL CORPO DI S. FRANCESCO

In data 22 dicembre 1818, il padre Generale Giuseppe De Bonis aveva inviato, come già detto, una Notificazione a tutti i fratelli dell'Ordine, comunicando il ritrovamento del corpo di S. Francesco.

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Il papa Pio VII, messo a corrente dell'avvenimento dallo stesso padre Generale, dava incarico al vescovo di Assisi, Mons. Francesco Giampè di redigere una prima relazione di quanto accaduto.

Il vescovo Giampè fece una visita accurata alla basilica di S. Francesco e tenne cinque

sessioni: la prima il 26 dicembre 1818, la seconda il 27, la terza il 28, la quarta il 30, la quinta e ultima il 1° gennaio 1819.

Durante tale visita, il vescovo Giampè sottopose separatamente ad interrogatorio il p.

Zabberoni Custode del Sacro Convento, frà Giacomo Amelio sacrestano della Basilica e il muratore Cesare Mariani.

Ciascuno, in qualità di teste oculare, descrisse come si erano svolti i lavori di scavo e come e quando si arrivò alla scoperta del sepolcro di S. Francesco. Le domande e le risposte sono state pubblicate per esteso dal Fea (cfr. C. FEA, Descrizione … cit., pp. 34-36).

Il Vescovo, inoltre, fece una visita accurata alla tomba di S. Francesco e ai primi giorni di gennaio inviò al papa Pio VII una relazione dettagliata.

Il 9 gennaio 1819, Pio VII, col Breve «Ex parte dilecti filii», nominava delegati

apostolici, per una giuridica ricognizione del corpo di S. Francesco, Francesco Giampè vescovo di Assisi, Francesco Luigi Piervisani vescovo di Nocera, Francesco Canali vescovo di Spoleto, Carlo Filesio Cittadini vescovo di Perugia e Stanislao Lucchesi vescovo di Foligno (cfr. F. GUADAGNI, De invento corpore divi Francisti… cit., pag. 1, seconda numerazione).

Il «Processo dei cinque vescovi delegati apostolici» per la ricognizione del corpo di S. Francesco

In questa incisione del 1820, sono rappresentati i Vescovi delegati apostolici e relativi periti; qui li vediamo all’interno del loculo-sepolcreto, intorno al sarcofago contenente il corpo del Santo.

(disegno di G. Batt. Mariani)

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Tale Commissione pontificia, dal 26 gennaio 1819 al 1° febbraio, in sei sessioni e sopralluoghi, servendosi anche dell'aiuto di vari periti, si rese conto de visu dello stato delle cose ed elaborò una minuziosa e accuratissima descrizione sullo stato di conservazione del corpo di San Francesco. La relazione prese il nome di «Processo dei cinque vescovi delegati apostolici».

L'originale è presso l'Archivio vaticano, mentre una copia fedele si conserva presso l'Archivio generale dei Frati Minori Conventuali in Roma. Per le citazioni noi ci serviamo di quest'ultima, della quale possediamo una fotocopia, limitatamente alle pagine necessarie al nostro scopo.

Il 26 gennaio 1819, i Delegati Apostolici si radunarono nell'appartamento del Sacro Convento e, chiamato il «procuratore fiscale», dott. Luigi Gualaccini, e i periti architetti Bernardino Lorenzini e Bernardino Barili, decisero di recarsi immediatamente nel sotterraneo.

In compagnia del padre De Bonis, Ministro Generale, dei periti architetti e del notaio,

discesero nella basilica inferiore e, per mezzo di una scala, si rintrodussero nel sotterraneo, lo attraversarono e giunsero fin sotto l'altare maggiore, arrivando al loculo-sepolcreto dove videro un grande lastrone di pietra che sovrastava il sarcofago (altri due lastroni, incastrati nei quattro muri, erano stati ridotti a pezzi).

Decisero di rimuovere la grande pietra, ma non essendo possibile estrarla attraverso il corridoio già praticato, pensarono di tagliare il muro e lo scoglio verso tramontana fino al pavimento della chiesa, e, attraverso questa seconda apertura furono estratti sia il lastrone di pietra, sia la griglia di ferro (quella superiore) dopo aver tagliato i grossi bracci che la tenevano fortemente legata alla griglia inferiore, sottostante al sarcofago.

Fu sfondato il muro del lato ovest, per creare maggiore spazio necessario per il numero

delle persone che dovevano assistere all'operazione. Furono chiamati i medici Antonio Romagnoli e Giosafat Rossi, nonché i chirurgi

Stanislao Battaglia e Giambattista Paoli, i quali presero visione dello scheletro giacente nel fondo del sarcofago di travertino, e sentenziarono che si trattava dello scheletro di una persona adulta.

Tali periti stesero una descrizione dettagliata dello stato di conservazione del cadavere e

delle singole parti che lo componevano. Il testo fu redatto alla presenza dei Vescovi delegati apostolici, presenti anche diversi religiosi «Minori Osservanti, Cappuccini, Riformati e del Terz'ordine», invitati dal Ministro Generale De Bonis (cfr. Processo dei cinque vescovi delegati apostolici, pp. 35 e 36).

Dagli atti della quarta sessione del «Processo» si apprende che certe alterazioni riscontrate nello scheletro dovevano attribuirsi (secondo il parere dei medici e chirurgi) all'umidità del luogo. Giova infatti ricordare che il sarcofago era circondato dallo scoglio in tutti i lati e che al disopra vi era un enorme masso di calcestruzzo.

Scoglio e calcestruzzo furono, per tanti secoli, fonte di umidità a non finire. Tutti furono del parere «che lo scheletro venisse immediatamente levato dall'urna e

posto diligentemente in una cassa di legno, da riporsi dentro la stessa urna di travertino» (Processo ecc., pag. 39).

Tuttavia, in seguito, si pensò di sistemare lo scheletro in tre cassette: una doveva contenere il cranio, la seconda il resto dello scheletro, la terza le polveri e i frantumi (cfr. Processo ecc., pag. 42). Così fu fatto: le tre cassette vennero sigillate e riposte dentro il sarcofago.

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Come se non fosse sufficiente il referto dei 5 vescovi umbri, coadiuvati da periti, il Pontefice Pio VII nominò, in data 24 agosto 1819, una Commissione composta da quattro Cardinali perché riesaminasse la relazione o «Processo» dei suddetti vescovi e notificasse le proprie conclusioni.

Dopo tale severo e coscienzioso procedimento, Pio VII, in data 5 settembre 1820,

emanava il Breve «Assisiensem Basilicam», dichiarando «essere certa l'identità del corpo di San Francesco trovato sotto l'altare maggiore della Basilica inferiore di Assisi».

Disponeva, inoltre, che «il venerabile corpo non si trasportasse altrove dal luogo

sotterraneo in cui era stato per quasi sei secoli». Il Breve è riportato dal Fea, con una traduzione in lingua italiana (cfr. Descrizione ragionata ecc., Roma 1820, pp. 45-47).

Una copia di detto Breve, munito dei relativi sigilli, fu posta dentro l'urna contenente il corpo di S. Francesco ed è stata rinvenuta in ottimo stato di conservazione durante la ricognizione effettuata nel 1978.

1820-1824: IL CORPO DI S. FRANCESCO PER QUATTRO ANNI NELLA «SAGRESTIA SEGRETA»

Il ritrovamento del corpo di S. Francesco era stato annunziato in maniera così esplosiva ed aveva avuto una tale risonanza, da polarizzare l'attenzione del mondo intero.

Il primo pellegrino illustre della tomba riportata alla luce fu l'imperatore d'Austria

Francesco 1°. Egli era venuto a Roma per visitare i monumenti della città, dove si trattenne per oltre due mesi. Caso volle che ad accompagnarlo per la visita ai monumenti fosse l'avv. Carlo Fea nella sua qualità di antiquario del governo pontificio.

Carlo Fea è l'autore del libro che veniamo spesso citando: «Descrizione ragionata della

sacrosanta patriarcale Basilica di San Francesco, Roma 1820». Egli era stato in Assisi l'anno precedente, in occasione del ritrovamento del corpo di S. Francesco e di ciò fece una descrizione dettagliata all'imperatore d'Austria.

Francesco 1°, che tra l'altro portava il nome del Santo di Assisi, decise immediatamente di sostare nella patria del Poverello, insieme alla sua consorte, nel suo viaggio di ritorno in Austria.

Il Santo Padre Pio VII, venuto a conoscenza del desiderio espresso dall'Imperatore, diede disposizione che un tanto ospite trovasse nella Basilica di Assisi e nell'appartamento papale del Sacro Convento la «più decente accoglienza» (cfr. C. FEA, Descrizione ragionata della Sagrosanta Basilica di S. Francesco, p. XIV).

Sia il Vescovo di Assisi, mons. Giampè, sia il Custode del Sacro Convento, p.

Bonaventura Zabberoni, ricevettero, da parte del card. Consalvi, dettagliate disposizioni: «Qualora le Maestà imperiali, l'Imperatore e l'Imperatrice d'Austria... gradissero di vedere il sotterraneo e l'urna, ove si è rinvenuto il corpo di San Francesco, necessitava di ottenere dal Santo Padre la facoltà di aprire i sigilli dell'urna suddetta... La Santità sua, in vista della straordinaria circostanza, non trova difficoltà di aderire alla petizione» (Archivio vescovile di Assisi, Giampè, VIII fl. 12; Archivio del Sacro Convento, Epistolae Principum et Magistratum, fl. 256).

(…)

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Gli illustri pellegrini arrivarono in Assisi il 12 giugno 1819. Il pranzo fu servito nei locali dell'Appartamento papale. I commensali, esclusi i religiosi,

furono 92, quasi tutti al seguito delle loro Altezze imperiali. Dopo il pasto, gli Augusti visitatori discesero nella Basilica inferiore, dove li attendeva il

Vescovo di Assisi, autorizzato ad aprire l'ingresso al sotterraneo. A mezzo di una scala di legno, accesi due lumi, discese per primo il Vescovo, seguito

dalle loro Maestà l'Imperatore e l'Imperatrice e infine dal Delegato apostolico di Perugia. Arrivarono così, attraverso il tunnel scavato precedentemente, fino al sarcofago contenente le tre cassette di legno nelle quali erano stati provvisoriamente sistemati i resti del corpo di San Francesco.

Non risulta che le tre cassette sigillate vennero aperte (cfr. ANONIMO, Brevi e distinte

notizie sull'invenzione del corpo di San Francesco, Roma 1820, pag. 54). La Visita dei Sovrani d'Austria si estese alle opere di arte della Basilica e, dopo quattro

ore e mezza di permanenza in Assisi, gli Augusti ospiti partirono alla volta di Perugia, consegnando al padre Custode «cento zecchini per le spese fatte.

Per volere del papa Pio VII, il corpo di S. Francesco è sistemato in un'urna di metallo

L’urna di metallo dentro la quale, nel 1820, fu sistemato il corpo di S. Francesco

Nel breve del 5 settembre 1820, Pio VII ordinava: «Questo sacratissimo tesoro (il corpo

di S. Francesco) sia mantenuto intatto ed al sicuro da ogni violenza ed ingiuria e si provvegga sopra ogni altra cosa alla difesa e sicurezza della diligentissima custodia di esso. Le quali cose, perché si facciano come si deve... eleggiamo e deputiamo a tal uopo il medesimo Vescovo di Assisi e il Ministro Generale dei Conventuali... come delegati della Sede Apostolica... Ciò premesso, d'uopo essendo di estrarre il corpo del patriarca San Francesco dalla cassa di pietra, ove finora ha riposato... sia riposto in un'arca di metallo, da collocarsi provvisoriamente in un luogo decente e di sicura custodia» (C. FEA, Descrizione ragionata, pag. 47).

Intanto, mons. Luigi Cardellini, assessore della Sacra congregazione dei riti, fece

pervenire da Roma al Vescovo di Assisi le istruzioni relative alla nuova collocazione del corpo del Santo nella nuova urna di metallo (cfr. Archivio vescovile di Assisi, Giampè, VIII, fl. 10).

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Il Vescovo di Assisi, la sera del 14 novembre 1820 lasciò l'episcopio per la Basilica di S. Francesco, perché era stato avvertito che era giunta la cassa di metallo (cfr. Atti dell'Accademia Properziana del Subasio, I, pag. 87).

L'urna era dorata all'interno, con due maniglie alle testate e un anello nel coperchio, sostenuta da sei piedi a forma di ghiande con fogliame.

Essa aveva due serrature e chiavi diverse: una recava la lettera S (Santo) e l'altra la

lettera F (Francesco). La sera stessa del 14 novembre 1820, ebbe inizio il «Processo per la traslocazione delle

Sacre Ossa del Patriarca San Francesco». Gli «Atti» di tale Processo sono conservati presso l'Archivio vescovile di Assisi, nel

reparto riservato al vescovo Giampè. I medesimi sono riportati nel volume anonimo «Brevi e distinte notizie sull'invenzione

del corpo di San Francesco» stampato a Roma nel 1820. La mattina del giorno successivo, 15 novembre, il Vescovo di Assisi, il padre Generale De

Bonis, il promotore fiscale Luigi Gualaccini della Curia vescovile di Assisi, si diedero convegno nella Basilica inferiore (cfr. ANONIMO, Brevi e distinte notizie... Roma 1820, pag. 85).

Benedetta la nuova urna di metallo secondo il rito prescritto, fu preso un drappo di seta bianca, guarnita all'intorno con merletto d'oro, e fu posto per lungo entro l'urna, in modo che, steso su tutto il fondo, lo si potesse far risalire alle quattro parti laterali, con cui ricoprire poi le sacre Spoglie (cfr. ivi, pag. 107).

Ciò fatto,venne ingiunto ai periti anatomici che con la maggiore e possibile cautela estraessero dalle tre casse di legno le Sacre Ossa e ricomponessero lo scheletro entro l'urna.

Cosa che fu eseguita con somma diligenza. Fu anche collocato all'estremità dell'urna un esemplare del Breve Pontificio, reso

autentico con le firme e con i sigilli di Mons. Vescovo di Assisi e del Rev.mo p. Ministro Generale dell'Ordine, più la firma del notaio.

Chiusa l'urna, le chiavi furono consegnate rispettivamente al padre Bonaventura

Zabberoni, Custode del Sacro Convento (quella con la lettera S) e al Vescovo di Assisi (quella con la lettera F).

Compiuto tutto ciò il padre Generale invitò i religiosi della comunità e gli altri giunti per l'occasione - quasi cento - che con torce e lumi nelle mani cantando processionalmente l'inno «Iste confessor» e facendo il giro della Basilica inferiore con l'urna portata sulle spalle da alcuni religiosi, raggiunsero la sacrestia (cfr. Atti dell'Accademia Properziana del Subasio, I, pag. 87).

L'urna fu posta nel locale retrostante, riservato alle reliquie, detto anche sacrestia

segreta, e rinchiusa in una cassa di legno con due chiavi diverse delle quali una fu consegnata al Vescovo di Assisi e l'altra al P. Custode Zabberoni (cfr. ANONIMO, Brevi e distinte notizie... pag. 111).

Per quattro anni interi - il tempo necessario per lo scavo e la costruzione di una terza

chiesa sotterranea (l'attuale cripta) - l'urna di metallo contenente il corpo di S. Francesco rimase nel suddetto locale della sacrestia segreta. La recente ricognizione (1978) del corpo di San Francesco, ha confermato in tutti i particolari quanto ci avevano tramandato i documenti e le fonti storiche del secolo scorso, riguardanti il ritrovamento del corpo di San Francesco e la sua nuova sistemazione in una urna metallica.

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OGGETTI RINVENUTI DENTRO L'URNA ACCANTO AL CORPO DI S. FRANCESCO

La Commissione nominata dal pontefice Pio VII per la ricognizione del corpo di S.

Francesco (1818) era composta, come già detto, da varie personalità con a capo i cinque vescovi dell'Umbria.

Tale Commissione, che si servì anche dell'apporto di diversi periti, elaborò una relazione accuratissima sullo stato di conservazione del corpo dell’Assisiate, descrivendo anche gli oggetti rinvenuti nel sarcofago.

Tali oggetti erano: una grossa pietra, undici monete lucchesi, un anello d'argento, alcuni

acini di corona. Li descriviamo nell'ordine.

La pietra che faceva da guanciale al capo del Santo giacente definitivamente nel sepolcro nella Basilica a lui intitolata dal 1230

1 - La GROSSA PIETRA si trovava accanto al cranio di S. Francesco. I componenti la

Commissione ne fecero una descrizione, con disegno della pietra e relative dimensioni. Tale pietra è tutt'ora visibile nel museo delle reliquie nella Basilica di S. Francesco in Assisi.

Tutti i componenti la Commissione si domandarono il perché di quella pietra accanto al capo del Santo. La pietra risultò della stessa qualità dello scoglio della montagna, se ne descrisse la grandezza in once, secondo le misure dell'epoca, ma nessuno capì il motivo e l'uso della medesima (cfr. Processo dei Delegati apostolici, pag. 32).

Tuttavia, è stata formulata l'ipotesi che la deposizione della pietra non fu casuale. Servì inizialmente a modo di guanciale sotto il capo di Francesco, a ricordo della sua vita penitente? In tal caso la pietra sarebbe rotolata di qualche palmo durante il trasporto del sarcofago avvenuto nel 1230 dalla chiesina di S. Giorgio alla nuova Basilica costruita per essere nei secoli la tomba del Santo. Si spiegherebbe così perché la pietra fu trovata non sotto, ma accanto al capo dell’Assisiate.

Altri hanno formulato l'ipotesi di una forma di omaggio al defunto secondo certe tradizioni. Si sarebbe trattato di un filiale omaggio dei suoi seguaci che, riprendendo un costume diffuso da secoli, essi avrebbero scelto quella povera rozza pietra come segno del

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loro ricordo e del loro immutato affetto (cfr. CARLO CECCHELLI, A proposito di due pietre simboliche nella Tomba di San Francesco e in quella del cosidetto Gisulfo, in «Memorie storiche forogiuliesi» - R. Deputazione Friulana di Storia Patria – 23, 1927, pp. 57-66).

Alcune delle undici monete d’argento coniate a Lucca alla fine del sec. XII, ritrovate nel sepolcro di Francesco

2 - Delle UNDICI MONETE rinvenute dentro l'urna, si dettero diverse interpretazioni. I

periti facenti parte della Commissione le riconobbero essere d'argento, ma non riuscirono ad identificarne la zecca, né a leggerne le iscrizioni a causa della densa patina verde (cfr. Processo dei Delegati apostolici, pag. 32).

Le monete furono portate a Roma e nuovamente esaminate da esperti. In Roma i due rinomati antiquari Carlo Fea e Alessandro Visconti, «avendo nella loro

perizia riconosciuto le monete, le trovarono tutte della medesima qualità di argento con molta lega e, dalla sottigliezza, dal diametro, dai contorni di alcune lettere semigotiche e poste a croce, opinarono essere state battute nel secolo duodecimo o nel principio del tredicesimo. Osservarono inoltre, dopo aver rimosso l'ossido che le ricopriva... gli elementi della parola Luca (Lucca), intorno vi lessero “Henricus” e nel campo del rovescio osservarono due “T-T”, legate da una linea trasversa, e intorno l'iscrizione “Imperator”. E quindi, affidati al giudizio di altri valenti antiquari romani, dissero essere monete di Lucca, coniate dopo che Ottone IV imperatore (1175-1218) restituì a quella città il privilegio della zecca. Si accertarono ancora essere state coniate dopo l'anno 1181 e non più tardi del 1208, e però ai tempi di San Francesco» (ANONIMO, Brevi e distinte notizie, Roma 1820, pag. 60).

«Il sig. Frondini di Assisi, indefesso ricercatore di antichità della sua patria, ha poi chiaramente dimostrato che le medesime monete lucchesi erano in quei tempi in corso nelle città dell'Umbria, avendo rinvenuti degli strumenti notarili nei quali si fa menzione di pagamenti fatti con tali monete» (ivi, pag. 61).

3 - L’ANELLO D'ARGENTO fu trovato accanto ai piedi del corpo di S. Francesco. Nella

parte superiore dell'anello vi era un ovale, o corniola, con incisa una Pallade armata, detta Nicefora, ossia apportatrice di vittoria. Un disegno dell'anello con Nicefora è riprodotto dal Fea (Descrizione ragionata ecc., pag. V).

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I Delegati apostolici con relativi periti opinarono che l'anello fosse stato deposto dentro l'urna da qualche persona devota (cfr. Processo, pag. 33).

Più precisamente, i due famosi antiquari romani, Fea e Visconti, affermarono che la corniola con Pallade risaliva al secondo secolo dell'Impero Romano, data la maestosità della figura e la perfezione del pomeriggio con belle pieghe.

I medesimi ritennero che l'anello d'argento risaliva invece alla seconda metà del secolo dodicesimo «per il castone non ben garbato, che lega a notte la corniola» saldata nella parte superiore dell'anello.

I due antiquari romani attestarono inoltre di aver veduto altri esemplari, molto simili alla Pallade di Assisi legata ad un anello (cfr. GUADAGNI, De invento corpore divi Francisci, Additamentum, pag. 7).

I Delegati apostolici chiesero ai periti di effettuare un'impronta in ceralacca della

corniola legata all'anello. Dall'esecuzione dell'impronta risultò che la ceralacca non si attaccava alla Pallade e che questa conservava la sua lucentezza al fuoco violento. Se ne dedusse che l'anello serviva come sigillo e che la Pallade incisa nella corniola figurava da titolare della prima sede delle autorità comunali di Assisi nel secolo XIII, accanto al tempio della Minerva (cfr. T. COSTANZI, La Pallade di Assisi del tempo dei gentili, pag. 12).

4 - Gli ACINI DI CORONA erano in numero di dodici quelli di ambra, mentre altri

diciassette risultarono di legno scuro, forse di ebano. Quelli di legno avevano all'esterno alcuni forellini, come se vi fossero stati piccoli

ornamenti di intarsio. I componenti la Commissione pontificia non seppero dare alcuna ragione della presenza

di tali acini dentro l'urna di S. Francesco (cfr. Processo dei Delegati apostolici, pag. 34).

Quando e perché gli oggetti descritti furono posti dentro l'urna di S. Francesco?

E’ fuori dubbio che la grossa pietra rinvenuta presso il capo di S. Francesco vi fu posta dallo stesso frate Elia al momento della sistemazione del corpo del Santo dentro il sarcofago di pietra.

L'urna, infatti, fu rinchiusa fin dal principio dentro una gabbia di ferro, fortemente saldata e quindi non apribile, se non tagliando i dieci bracci di ferro che tenevano legata la grata superiore a quella inferiore.

Le monete, l'anello con Pallade e gli acini di collana furono verosimilmente introdotti

nell'urna attraverso i fori della griglia superiore, in un secondo momento, durante i quattro anni (1226-1230) che il sarcofago contenente il corpo del Poverello serafico rimase nella chiesina di S. Giorgio, in attesa che venisse costruita la Basilica destinata ad essere, per volere del papa Gregorio IX, la tomba del Santo attraverso i secoli.

Si tenga anche presente che l'introduzione degli oggetti suddetti attraverso i fori della griglia era resa possibile dal fatto che il sarcofago fu sempre privo, fin dall'inizio, del coperchio battente.

Del sarcofago contenente il corpo di Francesco, molto probabilmente di epoca romana,

il lettore può farsi un'idea da un sarcofago gemello, anch'esso privo di coperchio, che si conserva nel chiostrino-cimitero della Basilica.

Il sarcofago del Santo è molto difficile fotografarlo per intero, data l'angustia del loculo-sepolcreto. Non fu possibile farlo neppure in occasione della ricognizione del 1978, allorché

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il sarcofago fu liberato momentaneamente della gabbia di ferro e dello stesso corpo del Santo.

Gli acini di collana o di corona molto probabilmente furono introdotti nell'urna dai

devoti del Santo, mentre le monete e lo stesso anello con Pallade vi furono posti perché indicassero l'epoca degli avvenimenti.

Se ne ha conferma dal fatto che anche dentro l'urna di S. Marco a Venezia furono trovate delle monete molto simili a quelle rinvenute nel sarcofago di S. Francesco.

Identica è la parola Luca (Lucca) che sta ad indicare la zecca lucchese. Uguale è la parola Henricus e, nel rovescio della moneta, la parola Imperator.

Uguali anche le due lettere T-T unite da una lineetta trasversa (cfr. FEA, Descrizione ragionata della sacrosanta Basilica di San Francesco, pag. V, pag. XI n. 33).

Dove sono conservati gli oggetti rinvenuti dentro l'urna di S. Francesco? L'anello d'argento con Pallade è andato purtroppo perduto. La tradizione vuole che fu donato a Francesco I, Imperatore d'Austria, in occasione della

sua visita alla tomba dell’Assisiate, ovvero in un secondo momento alla famiglia imperiale. Non si conosce tuttavia alcun documento scritto al riguardo.

Le monete d'argento e i chicchi di corona o collana inviate a Roma per essere esaminate

da esperti antiquari non fecero ritorno ad Assisi. Sia le monete che i chicchi furono sistemati in un reliquario conservato nella nostra Basilica dei Santi XII Apostoli in Roma.

Il reliquario contiene anche un vasetto con le ceneri prelevate dentro l'urna di Francesco.

Le undici monete rimasero a Roma fino all'anno 1978, quando furono riportate in Assisi

in occasione della nuova ricognizione del corpo del Santo, per essere ricollocate nel sarcofago del Poverello (cfr. I. GATTI, La Tomba di San Francesco, pag. 267, nota 140).

La grossa pietra trovata accanto al cranio di Francesco si conserva, come già detto, nel

museo delle reliquie nella Basilica di S. Francesco in Assisi. Nel medesimo museo vi è un reliquario molto simile a quello dei Santi XII Apostoli in Roma, contenente due monete e alcuni acini, forse rinvenuti in un secondo tempo dentro l'urna. Anche in questo reliquario vi è un vasetto di cristallo con delle ceneri prelevate dall'urna di S. Francesco.

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25 MARZO 2015: RICOGNIZIONE DEL CORPO DI FRATELLO FRANCESCO

A sinistra: antica raffigurazione di Francesco dolorante per la malattia agli occhi (l’originale è a Roma, nel santuario di S. Francesco a Ripa, e si dice che fosse donato da

Jacopa dei Settesoli, nobile romana, amica del Santo assisiate). A destra: i resti del corpo del Santo nella ricognizione del 2015.

Ad Assisi, il 25 marzo 2015, in gran segreto, è stata eseguita la ricognizione dei resti del

corpo di Francesco d'Assisi; la stessa è stata resa pubblica solo recentemente. Si ricorda che la prima ricognizione del corpo dell'Assisiate avvenne nel 1818, dopo 6

secoli dalla sua morte; successivamente furono ripetute nel 1978 e nel 1994. «I medici che hanno esaminato il corpo, hanno detto che da queste ossa si vede proprio

che S. Francesco aveva grandi dolori ai piedi. I suoi piedi erano diventati a forma di barca, inarcati per non sentire il dolore sulla punta dei piedi. Santa Chiara infatti gli aveva realizzato delle pantofole molto spesse, ora esposte tra le sue reliquie, per non toccare per terra e avere dolore».

Le pantofole di Francesco, usate verso la fine della vita, quando aveva forte difficoltà nel camminare, dovuta alle Stimmate

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Il professor Nicolò Valentino Miani è stato il medico che ha effettuato la prima ricognizione sul corpo di S. Francesco, nel 1978, la seguente del 1994 e quest'ultima: 2015.

• Lei è stato il medico che ha eseguito le tre ricognizioni del corpo di S. Francesco. La

prima volta avete preso una decisione per una migliore conservazione. Ce la racconta? «Quando, nel 1978, fu fatta la prima ricognizione, abbiamo deciso di sistemare le ossa

in una cassa in plexiglass. Per impedire un eccessivo deterioramento del corpo, l'aria (quindi l'ossigeno principalmente) è stata sostituita con l'azoto, un gas neutro che non permette il formarsi di forme di vita che potrebbero danneggiare le ossa. Quindi, l'ambiente di conservazione è stato reso neutro».

I resti del corpo del Santo nella ricognizione del 1978

• Durante questa terza ricognizione come avete proceduto? «Il primo controllo è stato effettuato sulla cassa, abbiamo verificato che non ci fossero

crepe o aperture di nessun tipo che avrebbero potuto far fuoriuscire l'azoto. La cassa era intatta. Poi siamo passati all'esame della ricostruzione dello scheletro e anche in questo caso nulla era cambiato rispetto alle precedenti ricognizioni. Le ossa non hanno subito sostanziali cambiamenti, ma nel corso di 21 anni, mi riferisco alla ricognizione del 1994, alcune delle parti spugnose si sono sfarinate. Abbiamo notato dei residui sui velluto rosso dove sono adagiate, ma niente di troppo preoccupante.

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Già nel 1978 si decise di sistemare molti frammenti ossei irriconoscibili in una teca ai piedi della cassa, anche questi si sono mantenuti integri. Nella sostanza non ci sono stati cambiamenti di rilievo dai 1978 ad oggi».

• Possiamo quindi dire che sistemare le ossa nella cassa di plexiglass e l'uso dell'azoto

sono state procedimenti adeguati. Quando la prossima ispezione? «Direi proprio di sì, visto l'eccellente stato di conservazione. Per questo mi sento di

consigliare una prossima ispezione tra quaranta o addirittura sessanta anni».

(a cura di Paolo Rossi: [email protected])