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14 14 quaderni di geostrategia 2010 settembre-ottobre registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma numero 58 anno X euro 10,00 • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • L o n d a n e r a s u l l E u r o p a Osvaldo Baldacci E u r a b i a ? È s t a t a i n v e n t a t a d a H i t l e r Daniel Pipes S U D A M E R I C A G U E R R A O P A C E ? S U D A M E R I C A G U E R R A O P A C E ? Socialismo, armi e America Latina Perché bisogna temere i movimenti di Chávez & Co. ma non averne paura MARIO ARPINO Il grande esercito è in marcia Nel Continente oltre un milione di soldati regolari (senza contare i paramilitari) ANDREA NATIVI I cinque moschettieri Modello chavista, lulista e filo-Usa: ecco il vademecum politico MAURIZIO STEFANINI Quelle partite di poker senza Obama Washington perde terreno e la Casa Bianca ha sempre meno alleati ROGER F. NORIEGA risk risk

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La Fondazione liberal è nata a Roma nel 1995 intorno al mensile liberal per iniziativa di Ferdinando Adornato che propose ad alcuni protagonisti del mondo culturale, economico ed istituzionale, di fondare un think-thank, un laboratorio culturale, con il proposito di favorire lo sviluppo dei valori etici e politici del pensiero liberale laico e cattolico e di far sì che essi, dall’uomo e dalla società, si trasmettano nella famiglia, nelle comunità locali, nel sistema produttivo, nelle istituzioni pubbliche e nelle organizzazioni internazionali.

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1414quaderni di geostrategia

2010settembre-ottobre

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 58anno Xeuro 10,00

Luisa Arezzo

Mario Arpino

Osvaldo Baldacci

Daniel Pipes

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Andrea Margelletti

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Roger F. Noriega

John R. Bolton

Maurizio Stefanini

Andrea Tani• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

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L’onda nerasull’EuropaOsvaldo Baldacci

Eurabia? È stata inventata da HitlerDaniel Pipes

SUDAMERICAGUERRA O PACE?

SUDAMERICAGUERRA O PACE?

Socialismo, armie America LatinaPerché bisogna temere i movimenti di Chávez & Co. ma non averne paura

MARIO ARPINO

Il grande esercitoè in marciaNel Continente oltre un milione di soldatiregolari (senza contare i paramilitari)

ANDREA NATIVI

I cinquemoschettieriModello chavista, lulista e filo-Usa:ecco il vademecum politico

MAURIZIO STEFANINI

Quelle partite di pokersenza ObamaWashington perde terreno e la Casa Bianca ha sempre meno alleati

ROGER F. NORIEGA

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riskriskQUADERNI DI GEOSTRATEGIA

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• DOSSIER •

Socialismo, armi e SudamericaMario Arpino

Il grande esercito è in marciaAndrea Nativi

I cinque moschettieriMaurizio Stefanini

Quelle partite di poker senza ObamaRoger F. Noriega

Non solo guerra di valuteRiccardo Gefter Wondrich

La promessa del made in ItalyAndrea Margelletti

pagine 5/45

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 46/47

• SCENARI •

Quell’onda nera sull’EuropaOsvaldo Baldacci

L’America si riscopre protezionistaLuisa Arezzo

pagine 48/59

• SCACCHIERE •

Unione EuropeaAlessandro Marrone

AmericheJohn R. Bolton

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 60/63

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 64/69

• LIBRERIA •

Mario ArpinoAndrea TaniDaniel Pipespagine 70/79

quaderni di geostrategiaS O M M A R I O

riskrisk 58

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma.

Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

Amministrazione Cinzia RotondiAbbonamenti 40 euro l’anno Stampa Centro Rotoweb s.r.l.

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REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000

DIRETTOREAndrea Nativi

CAPOREDATTORELuisa Arezzo

COMITATO SCIENTIFICOMichele Nones

(Presidente)Ferdinando Adornato

Mario ArpinoEnzo Benigni

Vincenzo CamporiniAmedeo Caporaletti

Carlo FinizioPier Francesco Guarguaglini

Virgilio IlariCarlo Jean

Alessandro Minuto RizzoRemo PerticaLuigi Ramponi

Stefano SilvestriGuido VenturoniGiorgio Zappa

RUBRICHEArpino, Incisa di Camerana,Ilari, J. Smith, Gattamorta,Gefter Wondrich, Marrone,

Ottolenghi, Tani

Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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SUDAMERICA, GUERRA O PACE?In principio fu Chavez e le sue intemperanze,accompagnate però da una forsennata campagna di acquisizione di armamenti, dauna ristrutturazione delle Forze Armate, dauna nuova dislocazione di uomini e mezzi,dalla costruzione di nuove basi e da rapportispesso tesi con alcuni dei vicini. In teoria ilpotenziamento delle Forze Armate venezuelane doveva costituire una polizzaassicurativa atta a giustificare lo spauracchiodi una invasione militare statunitense. Logicoquindi che a cercare a loro volta di ammodernare le proprie forze militari fosseroin prima battuta i paesi che hanno qualche“ruggine” con Chavez, a partire dalla Colombia. Però, a forza di acquistare armi apiù non posso, il Venezuela ha cominciato adimpensierire anche gli amici. Se a tutto questo aggiungiamo una sotterranea instabilità interna, dimostrata dal tentativo dicolpo di stato in, una serie di atavici attriti econtrasti per motivi di confine, di prestigio o disfruttamento delle risorse naturali, senzadimenticare che in alcuni paesi si registranofenomeni di guerriglia o insurrezione armata,in qualche caso virulenti e potenzialmentedestabilizzanti, si comprende perché ilSudamerica sia vittima di una nuova febbre.Con la speranza che questo fenomeno nonsfoci in una rinnovata conflittualità. Secondo ilSipri (Stokholm Intrnational Peace ResearchInstitute) - l’istituto oggi più attendibile perquesto tipo di analisi - nel 2008 la cifra totalespesa dai governi sudamericani per gli armamenti ha raggiunto i 38,6 miliardi di dollari, a fronte dei 26,2 miliardi del 1998.L’inizio di questa corsa è scattato dopo il varodel Plan Colombia, un’alleanza antidrogasiglata tra Washington e Bogotà nel 2000, mentre fino ad allora, con la scomparsa delleultime dittature militari, tale tipo di investimento era stato modesto. Il motivo, sempre secondo gli analisti, era il riempimentodel divario militare venutosi a creare con laColombia. Questa, grazie agli aiuti americani,possiede ora un esercito secondo per numerie tecnologia solo al Brasile, e meglio addestrato. Mentre la media dei paesi sudamericani dedica mediamente agli armamenti circa il 2 per cento del Pil - che ègià una quota ragguardevole, se paragonataallo 0,85 italiano - la Colombia spende il 4 percento. Il fenomeno è dunque in crescita, manon è affatto detto che questa ondata di riarmo debba necessariamente indurre aduna visione nera del futuro della regione.

Ne scrivono: Arpino, Gefter Wondrich,Margelletti, Nativi, Noriega e Stefanini.Le illustrazioni del Dossier sono del pittorecolombiano Fernando Botero.

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questo mutamento - che sono più d’una - si riconosco-no nella drastica caduta di consenso verso la politicaregionale degli Stati Uniti (di “giardino di casa” e dot-trina Monroe oggi non è più il caso di parlare) e nellarevisione ideologica compiuta anche là dai partiti dellasinistra, che ha consentito loro di abbracciare una fettapiù ampia degli elettorati. Quest’ultimo fenomeno,prevedibile, è avvenuto - come ogni cosa inSudamerica - con un certo ritardo rispetto ad altri paesidel mondo, dove quest’onda è già passata da tempo.Naturalmente, c’è socialismo e socialismo e anche quibisogna distinguere, in casa degli attori regionali dispicco, tra quello riformista (Brasile e Argentina) equello populista di Venezuela e Bolivia, di stile boliva-riano quello di Chavez, mentre quello di Morales -come ideologia rivoluzionaria - è di marcato sapore“indigenista”. Al momento, resta esclusa da questatendenza la Colombia, che anche dopo Uribe sembrarimanere sempre legata agli Stati Uniti. Il collante è lalotta ai narcos, con il corollario di basi, addestramentoed armamenti che ne deriva. L’insediamento americano nelle sette basi colombianerischia tuttavia di diventare anche pericoloso elemen-to di frizione, in quanto - molto recentemente - la

Corte Costituzionale ha sospeso la validità dell’accor-do decennale in materia di difesa e sicurezza sottoscrit-to con Obama l’anno scorso dal governo Uribe, inquanto non sottoposto al vaglio del parlamento. Nellospecifico, Bogotà aveva concesso a Washington lapossibilità di ospitare nelle proprie basi militari aerei enavi americane e, in cambio, la Casa Bianca garantivaassistenza all’esercito colombiano nelle operazionicontro il terrorismo e il traffico di droga nella regione.In realtà la cooperazione continua da anni, ma ciò cheora risulta indigesto ai giudici è sopra tutto il fatto chel’accordo preveda l’immunità dei militari americanisul suolo colombiano. Per il momento la deriva con“distacco” non è iniziata, ma la partita sembra tutt’al-tro che conclusa. Secondo i commentatori, l’ago dellabilancia è il successore di Uribe, il presidente JuanManuel Santos, che aveva negoziato l’accordo in qua-lità di ministro della difesa, il quale dovrà scegliere sedare priorità alla casa Bianca, oppure accantonare l’ac-cordo per non pregiudicare ulteriormente i rapporticon i vicini, e, segnatamente, con il Venezuela. Leforze armate colombiane sono ora le più efficienti,moderne ed addestrate della regione e questo, ovvia-mente, agli altri non piace e rischia di scatenare una

PERCHÉ BISOGNA TEMERE I MOVIMENTI DI CHÁVEZ & CO. MA NON AVERNE PAURA

SOCIALISMO, ARMI E SUDAMERICADI MARIO ARPINO

a così detta “svolta a sinistra del Sudamerica” nel giro di un decennio haportato sette Stati dell’Area (Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Venezuela,Uruguay e da ultimo il Perù) ad essere oggi amministrati da governi forma-ti da partiti o coalizioni di sinistra o centro-sinistra. Uno di essi, il Cile, si èappena riallineato al centro-destra. Secondo gli analisti, le cause fondanti di

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vera e propria corsa agli armamenti. Tra i maggiorioppositori dell’intesa tra Colombia e Stati Uniti spiccail presidente Venezuelano Hugo Chavez, che ha giàreagito con ritorsioni economiche. La tensione tra idue Paesi, tuttavia, era in atto già da oltre un quinquen-nio, facendo anche temere un confronto militare. Ora idue Capi di Stato si sono incontrati, sancendo una tre-gua. Ciò è importante, ma non sufficiente, perché l’ac-cordo era stato duramente criticato anche dai presiden-ti dell’Ecuador, Rafael Correa, della Bolivia, EvoMorales, e del Brasile, Lula Inacio da Silva. La con-vinzione è, tra i governi più spinti a sinistra, che gliamericani, al di là dell’obiettivo immediato di darecontinuità alle operazioni contro il narcotraffico, miri-no a insediarsi stabilmente nella regione. Va tuttavia inogni caso ricordato che l’accordo pone agli Stati Unitiun tetto di presenze pari a ottocento uomini, numeroche non avrebbe dovuto originare serie preoccupazio-ni. Nelle previsioni, il presidente Santos sceglierà disalvaguardare le relazioni con Washington, tanto piùche la posizione della corte Costituzionale non inficial’altro trattato, il Plan Colombia para la Paz, in vigo-re dal 1998. Nessuna preoccupazione per Obamaanche se Juan Manuel Santos dovesse presentare l’ac-cordo per le basi in parlamento, dove il suo partitodetiene la maggioranza. Tra i “fuori dal coro” antiame-

ricano e, in un certo senso, antioccidentale, assiemealla Colombia si può annoverare il Cile, che conl’Argentina - al di là di ogni vicenda - è forse il paesepiù “europeo” per cultura, tradizioni e mentalità. Incontrotendenza rispetto a diversi paesi della regione,nelle elezioni presidenziali dell’inizio di quest’anno ilsuccesso, dopo un ballottaggio, era andato al candida-to delle destre, Sebastian Pinera. Era dal 1958 che, inun contesto democratico, ciò non avveniva. Dopo ladittatura di Pinochet, infatti, la coalizione di centrosi-nistra, formata da cristiano-democratici, socialisti eradical-democratici si era imposta in tutte e quattro leelezioni presidenziali succedutesi in un arco di circaventi anni, garantendo una lunga fase di stabilità poli-tica e crescita economica. L’orientamento anche nelsettore militare e degli armamenti era comunque rima-sto filo occidentale: ricordo personalmente di aversvolto attività di volo in un reparto da caccia del nord- stanziato nel deserto vicino a Teguacigalpa a sorve-glianza del confine con il Perù - e di aver riportato lanetta impressione di volare, in termini di lingua, dimacchine e di procedure, in un gruppo europeo dellaNato. La transizione è stata tuttavia senza scosse, inquanto Pinera si è sforzato di spostare verso il centrol’asse della sua coalizione, isolando le componenti piùcompromesse con la dittatura ed evitando di alterarequella politica economica di mercato che, riducendo lapovertà dal 38 al 14 per cento, aveva dato così buonirisultati negli ultimi vent’anni. Il paese si è dimostrato,a tutti gli effetti, una democrazia matura. Nel contestosudamericano, la politica estera e di sicurezza diSantiago ha subìto un moderato riallineamento.Mentre Bachelet, prima, si era mantenuto in una posi-zione di equilibrio, lontano sia dall’asse antiamericano(Venezuela, Bolivia e, in Centroamerica, ilNicaragua), sia dai fiancheggiatori degli Stati Uniti(Colombia, Perù, Messico), l’orientamento attuale èverso questo secondo polo. Ciò può anche contribuiread attenuare il contenzioso storico con il Perù, checomunque, assieme alla Bolivia, continua a temere -sopra tutto dopo l’acquisizione di una capacità di tele-rilevamento attraverso il controllo di un satellite di fab-

Oggi in Sudamerica le speranze, più che daColombia, Cile e un possibile cambio del passodegli altri attori regionali,vengono dal Brasile.Assieme all’Argentina, che resta un caso a parte, il Brasile, culturalmente e politicamente fa parte dell’Occidente

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bricazione francese - una “definitiva superiorità mili-tare regionale” del Cile.Passando ora dal campo dei “riformisti” a quello dei“rivoluzionari bolivariani”, è significativo per capireciò che succede in Sudamerica vedere cosa sta acca-dendo in questi ultimi tempi a La Paz e a Caracas. Ilpresidente boliviano Morales - “indigenista” per etniae cultura - nel settembre scorso ha siglato un accordocon il governo iraniano per una cooperazione in mate-ria di idrocarburi, miniere e agricoltura, in cambio del-l’apertura di un’importante linea di credito per finan-ziare una serie di progetti, prevalentemente di caratte-re sociale. Vi è da dire che legami politici traAhmadinejad e Morales - che aveva pienamente epubblicamente riconosciuto la natura “democratica” e“pacifista” del regime della controparte - sono attivifin dalla sua ascesa al potere, nel gennaio del 2006. Perla repubblica islamica, la natura di questo stranoamore per la Bolivia può essere letta in una duplicechiave: da un lato, la ricerca di rompere in qualsiasimodo l’isolamento internazionale indotto dal suo con-troverso programma nucleare, e, dall’altro, lo spiccatointeresse per i giacimenti boliviani di litio e uranio. Ilcarbonato di litio, di cui sembra la Bolivia dispongadel 50 per cento delle riserve mondiali - il Sudamericane potrebbe controllare circa l’80 per cento delle riser-ve globali - in futuro sarà fondamentale per l’industrianella costruzione di batterie ed accumulatori, in vistadello sviluppo mondiale, già in atto, delle auto elettri-che. L’importanza dell’uranio, specie per l’Iran, nonha bisogno di commenti. A questi “dispetti”all’Occidente si aggiunge la rottura delle relazioni conIsraele nel 2009 - dopo l’offensiva nella striscia diGaza - in linea con la strategia adottata anche daglialtri paesi dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe(Alba), l’organizzazione regionale lanciata da HugoChavez in contrapposizione con quella già in vigorecon gli stati Uniti. Per le sue risorse e la sua geografiasi vede bene che la Bolivia per molti è paese strategi-co e, a proposito di proliferazione degli armamenti,qualcuno potrebbe anche pensare che “val bene unaguerra”. O una rivoluzione, come altri ritengono, visto

che anche in questo caso servono armi e consideratoche la popolazione boliviana, a differenza del suo pre-sidente, sembra non veda di buon occhio l’intrusionedi stranieri. Preoccupazione che ovviamente è total-mente condivisa dagli Stati Uniti, essendo venuto loroa mancare lo spauracchio di Bush, odiato ma temuto,mentre l’amministrazione Obama - pur avendo fattocadere molti obiettivi della retorica antiamericana diLula, Chavez e Morales - non ha ancora chiaro ilmodo di come contrastare l’ingombrante presenza diTeheran, ma ora anche di Pechino, nel “cortile dicasa”.

Se la Bolivia preoccupa, il Venezuela diChavez sta diventando un incubo. Per Obama, il “chefare” con Chavez suona come un interrogativo senzarisposte: poiché sarà difficile che cambi, occorrerebbeche cambiasse - ma difficilmente accadrà a seguitodelle pressioni statunitensi - almeno una parte del con-testo continentale regionale. Se Colombia e Cile nonsono sufficienti allo scopo, potrebbe accadere un gior-no qualche sorpresa in Bolivia, e sicuramente ilBrasile, anche dopo Lula, si avvia a divenire un attoreprimario - di fatto già lo è - nel continente sudameri-cano. L’esempio brasiliano, che con moderazione esenza grandi proclami rivoluzionari sta conseguendocon gradualità tutti i propri obiettivi sociali, potrebbein un futuro non lontano influenzare positivamenteanche il comportamento sull’arena internazionale delVenezuela di Chavez. In fondo, ha pur sempre biso-gno di vendere il suo greggio solforoso agli Stati Uniti,che, unici nell’area, dispongono degli impianti adatti araffinarlo, e debba badare a non erodere il proprio con-senso interno che, stabilizzato attorno al 50 per cento,non è proprio plebiscitario, come cerca di far credere.Sebbene il suo attivismo antiamericano ed antiocci-dentale nell’ultimo decennio si sia manifestato su piùfronti, secondo gli analisti è destinato prima ad affie-volirsi, e poi, lentamente, ad esaurirsi. Nel mondo nonsi può vivere da soli, e le “cattive compagnie”, con lequali si è associato, in parte finiranno per trasformarsie in parte per perderlo. C’è il rischio concreto, secon-

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do alcuni analisti, che parte delle azioni compiute ascopo provocatorio o di propaganda interna - o regio-nale - prima o poi gli si ritorcano contro. Azioni comeacquistare armi in quantità e coltivare relazioni specia-li con Teheran non sono a costo zero, come non lo èl’aver usato le ricche risorse incassate con il petrolioper reclutare alleati, mantenere attorno a sè personaledi sicurezza straniero e osteggiare la mai realizzataArea di Libero Scambio delle Americhe. Anche l’averutilizzato, e continuato a utilizzare, il tradizionalepopulismo bolivariano potrebbe alla distanza ritorcer-si come un effetto boomerang. Una cosa è farlo con ilprezzo del petrolio a 140 dollari, mentre cosa diversaè continuare a farlo quando questo prezzo è sceso a 50.Anche il fatto che lo stesso uomo che ha eletto il rifiu-to di “imperialismo”, “colonialismo” e “interventi-smo” a nucleo centrale della propria politica estera edella propaganda interna, si senta ora libero di immi-schiarsi negli affari altrui, specialmente in quelli deisuoi vicini, finirà prima o poi per essergli di nocumen-to. La cattiva gestione di enormi risorse ha già fatto siche, di fronte a modesti ed effimeri miglioramenti peri ceti più poveri, nel 2008 l’inflazione sia aumentatadel 24 per cento e la svalutazione della moneta, rispet-to al dollaro in declino mondiale, abbia portato ad uncambio nero del 100 per cento. In definitiva, Chavezpuò anche continuare ad arringare la folla ed armarsifino ai denti, come sta facendo, ma utilizza formuleobsolete che, alla distanza, hanno fallito ovunquesiano state applicate. La prova dell’inizio del suo decli-no sta nel fatto che nelle elezioni di fine settembre2010 ha vinto, e questo era scontato, ma non ha rag-giunto i due terzi dei seggi, numero necessario a farpassare le leggi nell’Assemblea nazionale. Ciò dà spe-ranza all’opposizione, mentre si avvicinano le elezionipresidenziali del 2012.Oggi, in Sudamerica le speranze, più che daColombia, Cile e un possibile cambio del passo deglialtri attori regionali, vengono dal Brasile, anche seDilma Roussef, la delfina di Lula da Silva, non hasuperato le elezioni al primo turno, come molti siattendevano. Assieme all’Argentina, che ai fini di que-

sta analisi resta un caso a parte, il Brasile, culturalmen-te, politicamente e storicamente fa parte dell’Occiden-te. Il fatto che, attraverso un nazionalismo “buono”,stia riaffermando la propria dignità, dando ai propricittadini la consapevolezza di essere un grande paese,ricco di risorse e di ingegno, in grado di sedere a buondiritto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, al G20 e diessere rispettato in tutte le sedi internazionali, non puònon riportarlo ad una strategia comune ed a consentir-gli una decisiva - e positiva - posizione di leadershipregionale. Ciò servirà a calmare, in prospettiva, moltidei bollenti spiriti che oggi ancora animano le dinami-ca sudamericana. È nel quadro strategico e geopoliticoappena descritto che viene esaminata, in questo nume-ro di Risk, la preoccupante corsa agli armamenti chesembra oggi caratterizzare pericolosamente tutta laregione. Ne anticipiamo alcuni lineamenti, limitata-mente agli Stati più sopra citati, tenendo conto che tragli analisti vi sono due diversi orientamenti al riguar-do. Secondo il primo, la nuova corsa agli armamenti asud di Panama è originata da propositi bellicosi, rela-tivi alla volontà di affermazione di alcuni attori regio-nali su altri. L’altro orientamento, invece, è maggior-mente ottimista e cerca di dimostrare che gli aumentidi spesa militare sono legati alla sostituzione dei siste-mi obsoleti, ai maggiori costi dei materiali, all’infla-zione e alle esigenze di nuovi modelli per lo sviluppoindustriale e l’occupazione. In ciascuno dei casi l’au-mento della spesa militare, che a volte supera il 50 percento nell’ultimo decennio, è una constatazione reale,che non viene contestata. Anche il Brasile, tuttavia,non sfugge alla logica del riarmo, ma, a differenzadegli altri, si propone sia come fornitore che comeacquirente.

Secondo il Sipri (Stokholm Intrnational PeaceResearch Institute) - l’istituto oggi più attendibile perquesto tipo di analisi - nel 2008 la cifra totale spesa daigoverni della regione per gli armamenti ha raggiunto i38,6 miliardi di dollari, a fronte dei 26,2 miliardi del1998. L’inizio di questa corsa, come già accennato,sembrerebbe scattato con il varo del Plan Colombia,

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un’alleanza antidroga siglata tra Washington e Bogotànel 2000, mentre fino ad allora, con la scomparsa delleultime dittature militari, questo tipo di investimentoera stato modesto. Il motivo, sempre secondo gli ana-listi, era il riempimento del divario militare venutosi acreare con la Colombia. Questa, grazie agli aiuti ame-ricani, possiede ora un esercito secondo per numeri etecnologia solo al Brasile, e meglio addestrato. Mentrela media dei paesi sudamericani dedica mediamenteagli armamenti circa il 2 per cento del Pil - che è giàuna quota ragguardevole, se paragonata allo 0,85 ita-liano - la Colombia spende il 4 per cento.Immediatamente Caracas, appellandosi ad una pre-sunta invasione statunitense e colombiana, ha forte-mente aumentato il numero dei riservisti, costituendouna sorta di “milizia bolivariana” per difendere la rivo-luzione. Chavez starebbe poi acquistando ingentiquantitativi di armi dalla Russia, paese con il qualesvolge anche manovre aeronavali. Tra il 2005 e il 2008Caracas avrebbe comperato a Mosca, per la modicacifra di 4,4 miliardi di dollari, 100 mila kalashnikov,24 caccia a reazione supersonici Sukhoy 30 e 500 eli-cotteri da combattimento, con tutto il corredo di missi-li, radar, ecc.. Secondo una ricercatrice dell’Ispri, tut-tavia, questi acquisti non avrebbero solamente motiva-zioni belliche, ma dipenderebbero anche dal fatto chegli Usa non vendono più armi al Venezuela dal 2006.A riprova di ciò, Chavez negli ultimi tre anni avrebbefatto shopping anche in Bielorussia, Cina, Francia eSpagna, per un ammontare di altri 7 miliardi di dolla-ri. Ma la tendenza al riarmo, come si è detto, coinvol-ge tutta l’area sudamericana. La Bolivia di EvoMorales ha appena annunciato l’intendimento diacquistare dalla Russia armamenti per 100 milioni didollari, mentre il Cile ha recentemente acquistato dagliUsa 18 aerei da combattimento, preannunciando l’or-dine di nuovi sistemi radar e cannoni a lunga gittata.Ciò naturalmente ha allertato il Perù, che deve nuova-mente preoccuparsi di Sendero Luminoso, il quale pre-vede di spendere 700 milioni di dollari per ammoder-nare l’esercito. Persino l’Ecuador, dopo lo screzio conla Colombia, ha comperato dal Brasile aerei Super

Tucano, adatti all’antiguerriglia, radar, aerei senzapilota ed elicotteri da altri paesi. Risulta che stia anchenegoziando con il Sud Africa l’acquisto di 12 aerei dacaccia Ceetah, versione del Mirage localmente modi-ficata. A prima vista, nella maggioranza dei casi tuttaquesta attività sembrerebbe senz’altro mirare a unsostanzioso potenziamento, piuttosto che al meroammodernamento di arsenali obsoleti. Una risposta,tuttavia, potrebbe derivare solo da un’analisi speciali-stica. Il fenomeno c’è, ma non è affatto detto che que-sta ondata di riarmo debba necessariamente indurre aduna visione nera del futuro della regione, anche se èvero che non favorisce soluzioni pacifiche. Ma ancheil Brasile è in crescita e tutto fa ritenere che, inun’emergente visione di leadership, si porrà prima opoi come interlocutore credibile e rispettato mediatoreper tutti i guai della regione. In altre parole, è il Paesedestinato a ricoprire con saggezza il ruolo cui gli statiUniti, nella nuova concezione del mondo, sono staticostretti ad abdicare. Secondo alcuni, la preoccupazio-ne più grave è invece originata dal fatto che, in presen-za di una maggiore liquidità rispetto al passato, l’ac-quisto di armamenti possa significare che non esisto-no, al momento, piani sociali, economici e volontà perinvestimenti di tipo diverso. La Chiesa cattolica, che inSudamerica ha ancora notevole seguito, è attiva custo-de di questi timori.

Non è detto che questaondata di riarmo debbaindurre ad una visione neradel futuro della regione,anche se non favoriscesoluzioni pacifiche. Ma anche il Brasile è in crescita e tutto fa ritenere che presto emergerà la sua leadership

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giustificare lo spauracchio di una invasione militarestatunitense. Logico quindi che a cercare a loro voltadi ammodernare le proprie forze militari fossero inprima battuta i paesi che hanno qualche “ruggine” conChavez, a partire dalla Colombia. Però, a forza diacquistare armi a più non posso, il Venezuela ha comin-ciato ad impensierire anche gli amici. Persino il Brasiledi Lula (e adesso del nuovo presidente). Ancora pochianni fa il Brasile aveva deciso di ridimensionare laspesa militare, molti dei programmi principali di acqui-sizione, a partire da quello relativo ad un nuovo velivo-lo da combattimento, l’F-X, erano stati congelati o can-cellati. I soldi risparmiati, fu detto all’epoca, sarebberostati meglio utilizzati per finanziare programmi sociali.Ma mentre Chavez continuava ad acquistare armi persostenere la sua “rivoluzione”, il Brasile si preoccupa-va. Fino ad invertire completamente la rotta. Al puntoda avviare a sua volta un colossale progetto di poten-ziamento militare che non si basa però solo sulle acqui-sizioni all’estero, ma anche sullo sviluppo dell’indu-stria aerospaziale e della difesa locale, con l’obiettivo diottenere un’ampia indipendenza dalle forniture stranie-re e diventare un protagonista del mercato internazio-nale della difesa. Del resto il Brasile qualche motivo

per agitarsi lo ha, perché il Venezuela nel suo shoppingforsennato, del quale ha beneficiato essenzialmente laRussia, ha superato quanto poteva essere legittimato dauna sia pur remotissima preoccupazione per la propriasicurezza. Il Brasile poi non può permettersi di restareun gigante economico e politico disarmato, consideran-do il ruolo che sta assumendo non solo a livello regio-nale, ma anche mondiale. Il che comporta ancheresponsabilità nel campo della sicurezza. Infine, l’an-damento assolutamente positivo dell’economia brasi-liana consente di sostenere i costi di un potenziamentomilitare, finanche se accompagnato da velleità autar-chiche.Tuttavia, anche se il Brasile professa una politica dibuon vicinato, se non di rapporti più che cordiali contutti i paesi del Sudamerica, nessuno può rimanere iner-te se due “pesi massimi” come Venezuela e Brasile ini-ziano non solo a modernizzare, ma a potenziare sensi-bilmente i propri arsenali. Ecco così che chiunque selo possa permettere nel continente sta cercando, se nondi accrescere il proprio potenziale militare, almeno dirimettere in efficienza Forze Armate il cui equipaggia-mento e prontezza operativa sono state per molti anni,o lustri, trascurati. Se a tutto questo aggiungiamo una

NEL CONTINENTE OLTRE UN MILIONE DI SOLDATI REGOLARI (SENZA CONTARE I PARAMILITARI)

IL GRANDE ESERCITO È IN MARCIADI ANDREA NATIVI

n principio fu Chavez e le sue intemperanze, accompagnate però da una forsen-nata campagna di acquisizione di armamenti, da una ristrutturazione delle ForzeArmate, da una nuova dislocazione di uomini e mezzi, dalla costruzione di nuovebasi e da rapporti spesso tesi con alcuni dei vicini. In teoria il potenziamentodelle Forze Armate venezuelane doveva costituire una polizza assicurativa atta a

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sotterranea instabilità interna, dimostrata dal tentativodi colpo di stato in Ecuador (sia pure causato da riven-dicazioni economiche e non politiche delle forze dipolizia, a dimostrazione dello stato deprecabile in moltipaesi del continente delle forze di sicurezza), una seriedi atavici attriti e contrasti per motivi di confine, di pre-stigio o di sfruttamento delle risorse naturali, senzadimenticare che in alcuni paesi si registrano fenomenidi guerriglia o insurrezione armata, in qualche casovirulenti e potenzialmente destabilizzanti, si compren-de perché il Sudamerica sia vittima di una nuova feb-bre. Con la speranza che questo fenomeno non sfoci inuna rinnovata conflittualità. Ovviamente la capacità di ciascun paese di investirenella difesa è direttamente correlata alla percezionedella minaccia, interna ed esterna, allo stato delle pro-prie Forze Armate, alla situazione economica. È evi-dente che l’Argentina non si possa permettere grandisforzi per la difesa, mentre il Cile, che vanta uno deimigliori strumenti militari della regione, dopo gli effet-ti delle catastrofi naturali che lo hanno colpito, ha dovu-to rallentare e ridimensionare diversi progetti. Com’ènaturale che il Brasile non badi a spese, che ilVenezuela continui a comprare ovunque sia possibile eche la Colombia non resti a guardare. A livello militarel’influenza degli Stati Uniti nella regione è, se non aiminimi storici, certo non particolarmente rilevante,come poco significative sono le vendite di armamentidi nuova produzione oppure la cessione di materialiusati, che un tempo era il marchio di fabbrica dell’aiu-to militare targato Washington. Partiamo dunque dal Venezuela, che ha Forze Armatemolto consistenti per gli standard del continente:118.000 uomini, senza contare la milizia. Caracas con-serva un sistema di coscrizione obbligatoria, con unaferma di ben 24 mesi e spende (ufficialmente) per ladifesa circa 3,3 miliardi di dollari. L’Esercito, 60.000uomini, ha naturalmente il ruolo principale, come intutto il continente, e Chavez (ex generale) lo sta poten-ziando, costituendo una moderna forza corazzata, chericeverà carri armati, mezzi trasporto truppe ed artiglie-ria pesante, nonché elicotteri da combattimento, di pro-

duzione russa. Ci sono 80 carri francesi e 150 carri leg-geri, che saranno sostituiti da 90 carri T-72, mentre gli80 trasporto truppe francesi e i 100 blindati statuniten-si saranno rimpiazzati da 300 BMP-3 e BTR-90.L’aviazione dell’Esercito ha 10 elicotteri Mi-35 dacombattimento 18 Mi-17 da assalto e altri elicotteri daattacco sono in discussione. Sempre con la Russia. Lamarina ha invece una consistenza limitata, 18.500uomini al punto che la maggior parte degli effettivi,10.000, è assegnata ad una divisione di marines, anchequesta in corso di riequipaggiamento con armamentirussi. Le unità di prima linea sono 6 fregate tipo Lupodi produzione italiana ormai invecchiate, 2 sottomariniType 209 le nuove costruzioni riguardano 4/5 pattu-gliatori di grande tonnellaggio realizzati in Spagna edei quali sono in corso le consegne (anche il quarto èstato varato questa estate), ed altri 3 pattugliatori leg-germente più piccoli. Le ambizioni però non mancanoe riguardano sottomarini d’attacco tipo Kilo di produ-zione russa e 2-3 grandi navi da assalto anfibio.

L’aeronautica è piccola, meno di 10.000uomini, ma è oggetto di un rapido potenziamento, cheprevede la creazione di un sistema integrato di difesaaerea, grazie alla Bielorussia, con sistemi missilisticipotenti e moderni (S-300, Buk e Pecora), mentre sonostati acquistati 12 cacciabombardieri Su-30 in Russia.Sta diventando invece difficile mantenere in efficienzail materiale di produzione statunitense (caccia F-16 edF-5), il che porterà ad una sua progressiva sostituzione.Sono relativamente pochi i paesi disposti a venderearmi a Chavez, la Russia è il principale fornitore (e con-cede anche interessanti condizioni finanziarie, moltogradite dal momento che, a dispetto degli introiti gene-rati dalla vendita di petrolio e idrocarburi, l’economiaVenezuelana va di male in peggio, malgrado o forseanche grazie a nazionalizzazioni e autarchia), ma sidanno da fare anche la Cina, la Bielorussia e, sorpren-dentemente la Spagna, anche se i rapporti con Madridpotrebbero mutare visto che pare che Chavez abbiarapporti intensi con i terroristi dell’Eta. Di certo ilVenezuela non ha le capacità industriali e tecnologiche

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per fare da solo e questo lo rende dipendente dai forni-tori stranieri. La situazione del Brasile è decisamentediversa. Intanto va considerato il potenziale demografi-co: quasi 200 milioni di abitanti ne fanno un gigantesenza rivali. Per non parlare della geografia e dellasituazione economica. La difesa negli ultimi anni nonha avuto una grande priorità, ma le cose sono cambia-te con l’approvazione di due documenti, la End, LaStrategia Nazionale della Difesa e la Pnd PoliticaNazionale di Difesa, che non a caso sono stati divulga-ti, quasi contemporaneamente, a fine 2008, quando letendenze venezuelane erano ormai chiare. Con i nuovi

documenti di indirizzo strategico il Brasile ha davverocambiato marcia, cominciando con il mettere in discus-sione i fondamenti del suo sistema militare, con unarevisione del sistema di reclutamento basato sullacoscrizione obbligatoria selettiva (durata 12 mesi) euna più spinta professionalizzazione, con la riorganiz-zazione delle Forze Armate e dell’industria nazionale.L’aspetto industriale è una delle peculiarità del piano

brasiliano. L’industria locale è già molto sviluppata,basti pensare che Embraer è diventata uno dei protago-nisti del settore aeronautico commerciale e compete -testa a testa - con Bombardier nel settore dei velivoliregionali, ma buone capacità esistono anche nel settoredell’elettronica per la difesa, della cantieristica militare,degli armamenti terrestri, senza dimenticare il compar-to spaziale e missilistico. Da Brasilia la direttiva è chia-ra: attraverso una serie di grandi programmi di investi-mento ottenere tecnologie e far crescere in fretta ilknow-how e il tessuto industriale nazionale, generandoposti di lavoro qualificati, per arrivare successivamen-te a sviluppare prodotti interamente o quasi nazionali,magari con assistenza tecnica esterna. Così chi vuolevendere in Brasile deve mettere in conto pacchetti dioffset molto impegnativi, creazione di joint ventures,realizzazione di impianti industriali ed infrastrutture. Ilpost-Lula non porterà a significativi cambiamenti perquanto concerne la difesa. Il Brasile ha anche fretta, perché si rende conto di doverrecuperare un po’di terreno nei confronti dei vicini. LeForze Armate possono contare su circa 260.000 uomi-ni, ai quali si aggiungono quasi altrettanti elementidelle forze paramilitari. Il bilancio della difesa è giàoggi superiore al 3,3% del Pil ed ammonta ad oltre 23miliardi di dollari, dei quali circa 6 miliardi sono desti-nati all’ammodernamento e all’acquisizione di nuovisistemi d’arma. L’Esercito è decisamente preponderan-te, il che è naturale considerando anche l’immensaestensione geografica e la difficile orografia.L’obiettivo è quello di trasformare le unità attuali, inlarga misura di guarnigione e con capacità di combatti-mento convenzionale limitate, in unità ad elevata pron-tezza operativa, bene equipaggiate ed addestrate. Perraggiungere questi obiettivi il Brasile non disdegna diacquistare materiale usato ma di buona qualità: è il casodei 250 carri armati Leopard 1A5 che entro il 2012andranno a sostituire tutti i carri tedeschi e statunitensioggi in servizio. Per rimpiazzare invece la linea di vei-coli blindati ruotati, largamente diffusi nei reparti difanteria motorizzati, si prevede l’acquisizione nell’arcodi 20 anni di oltre 2.000 Guarani, realizzati dalla Iveco.

La capacità di ciascun paesedi investire nella difesa è direttamente correlata alla percezione della minaccia, interna ed esterna, allo stato delle proprie Forze Armate,alla situazione economica. È evidente che l’Argentinanon si possa permetteregrandi sforzi per la difesa,mentre il Brasile non badi a spese e il Venezuela continui a comprare ovunque sia possibile

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E poi saranno acquisiti almeno 1.200 veicoli protettileggeri, questi sviluppati localmente. Infine, è statorecentemente annunciato l’aggiornamento di 150 tra-sporto truppe cingolati M-113 e la revisione di altri208. Potenziamento in vista anche per l’artiglieria, chegià conta su lanciarazzi pesanti sviluppati e realizzatilocalmente. Molto importante è la componente elicot-teristica, che sarà ammodernata con l’acquisizione di50 elicotteri Eurocopter EC-725, un modello che saràadottato anche dalla Marina (16) e dall’Aeronautica(18). La Marina è decisamente consistente, altamenteprofessionale e conta 57.000 uomini, compresa unarobusta componente anfibia con 15.600 marines. Ilbrasile vuole costruire una marina d’alto mare, concapacità di proiezione strategica e per questo ha acqui-stato una portaerei di seconda mano dalla Francia evuole ammodernare la linea fregate, che oggi com-prende 9 unità, in parte di seconda mano. L’obiettivo èquello di acquistare, ma costruendole per quanto possi-bile in cantieri locali, almeno 4 grandi fregate lancia-missili, nonché un rifornitore di squadra e poi 4/5 pat-tugliatori oceanici. Forse la mossa più ambiziosariguarda la costruzione di 4 sottomarini d’attacco tipofrancese Scorpene, con relativa nuova base, che saran-no poi solo una soluzione ad interim in attesa dei sot-tomarini nucleari d’attacco di progettazione brasiliana(con assistenza francese) per sostituire i 5 battelli con-venzionali in servizio. La Marina ha anche 5 corvette,una quantità di unità da pattugliamento e una combina-zione di unità anfibie tutte di seconda mano, che saran-no sostituite da nuove navi. E avendo in linea una por-taerei, anche l’aviazione navale è consistente, anche senon molto moderna. E prima poi il Brasile vorrà unaportaerei più grande e moderna.L’aeronautica infine ha ben 68.000 uomini, dei qualisolo 3.000 di leva. Una delle prime decisioni che pren-derà il nuovo presidente riguarda la scelta del nuovoaereo da combattimento, da acquistare in 36+40 esem-plari, per sostituire i caccia leggeri F-5. In gara ci sonocaccia europei e statunitensi. Ci sono poi una dozzinadi caccia Mirage 2000 e una cinquantina di cacciabom-bardieri AMX (realizzati a suo tempo attraverso una

collaborazione con l’Italia), ai quali si aggiungono uncentinaio di aerei controguerriglia Super Tucano (que-sto è un aereo molto riuscito che sta conoscendo moltosuccesso in Sudamerica e non solo). La componentetrasporto sarà modernizzata grazie ai nuovi velivoliKC-390 sviluppati da Embraer (ordinati anche da Cilee Colonia, dando il via ad un programma congiuntocon coinvolgimenti delle industrie dei paesi acquiren-ti), che sostituiranno i C-130H ex italiani, ci sono poivelivoli radar Emb-145, aerei da pattugliamento marit-timo P-3 Orion ex statunitensi, e diverse decine di eli-cotteri, mentre sono in consegna 12 elicotteri da com-battimento russi Mi-35. Tra programmi già in corso ein via di partenza il Brasile è proiettato a ottenere unachiara superiorità militare a livello continentale e nonc’è nessun paese in grado di contrastarla.

Non certo l’Argentina, la quale soffre unasituazione economica molto meno felice rispetto aquella del Brasile ed ha poi un “potenziale” decisamen-te minore, a partire dalla forza demografica: 41 milio-ni di abitanti. Il bilancio della difesa è quindi ridotto,non arriva a 2,8 miliardi di dollari. Le Forze Armateperò sono interamente professionali, non c’è più servi-zio di leva e i professionisti e volontari (ferma minimaè biennale) sono quasi 69.000. A questi si aggiungonoconsistenti forze paramilitari, come avviene in quasi

A livello militare l’influenzadegli Stati Uniti nella regione è, se non ai minimistorici, certo non particolarmente rilevante,come poco significativesono le vendite di armamenti e la cessione di materiali usati, un tempomarchio di fabbrica Usa

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tutti i paesi sudamericani: le forze di polizia dipendonodal ministero degli interni e includono gendarmeria,guardia costiera e polizia federale. La difesa nazionalenon riveste particolare importanza per il governo, cheha oggettivamente altre priorità. Un libro bianco che haindicato le linee guida per la modernizzazione dellostrumento militare è stato emanato nel 2007 e, vista lasituazione del paese, si è chiarito che il rinnovamentonon potrà che essere molto graduale, con completa-mento previsto non prima del 2025. Al contempo ci sideve arrangiare, nella consapevolezza che non esistonovere minacce esterne e che il contesto interno nonlascia presagire rischi di insurrezioni o colpi di stato.Un secondo documento, la Direttiva sulla politicanazionale di difesa, ha fatto seguito alla fine del 2009 eprevede una struttura delle Forze Armate finalizzatealla remota eventualità di dover combattere un conflit-to difensivo. L’auspicio è quello di poter realizzare coni paesi della regione un sistema di sicurezza e difesaregionale in cooperazione. L’Esercito ha circa 40.000uomini ed è discretamente equipaggiato, con 250 carrileggeri Tam, un piccolo numero di carri leggeri

Patagon, e circa 170 più vecchi carri leggeri francesied austriaci, un centinaio di blindati da ricognizione,120 mezzi da combattimento della fanteria, 450 tra-sporto truppe M-113, dei quali 240 in corso di moder-nizzazione. Soldi permettendo si acquisteranno fino a1.200 veicoli leggeri Gaucho, oggetto di una collabo-razione con il Brasile. Sempre se ci saranno soldi, c’èun piano per acquistare carri da battaglia Leopard 2A4di seconda mano tedeschi e veicoli trasporto truppacinesi. L’artiglieria è basata su materiali ormai supera-ti, se si eccettuano alcuni mortai semoventi e pochilanciarazzi. L’aviazione dell’Esercito è consistente,ma i velivoli per lo più invecchiati, sia gli aerei sia glielicotteri, con il grosso della linea costituito da UH-1statunitensi in corso di aggiornamento.

La Marina ha circa 20.000 uomini, compre-si 2.000 marines. Le navi in linea cominciano a senti-re gli anni, ma sono di ottime qualità: 4 cacciatorpedi-niere tipo Meko 360H tedesco, 6 fregate Meko 140, 3

corvette A-69, 3 sottomarini Type 209 tedeschi e 8unità leggere lanciamissili. A queste si aggiungono unanave trasporto veloce (ex cacciatorpediniere) e 6 gran-di mezzi da sbarco. La aviazione navale è consistente,anche se i velivoli sono ormai vecchi, retaggio deltempo in cui l’Argentina aveva unità portaerei. Ci sonoquindi aerei d’attacco Super Etendard francesi, da pat-tugliamento Orion e Tracker e poi una dozzina di eli-cotteri SH-3 e 4 Fennec. L’aeronautica infine ha 13.200 uomini e deve accon-tentarsi di aerei da combattimento vetusti, i caccia fran-cesi Mirage III, anche nella versione israeliana e i cac-ciabombardieri statunitensi A-4, ai quali si aggiungonoaerei contro guerriglia Pucara ed addestratori Tucano ePampa nonché una diecina di aerei da trasporto C-130in varie versioni. Semplicemente non ci sono le risorseper acquistare nuovi aerei, e anche mantenere efficien-ti quelli in linea e svolgere attività di volo è problema-tico. In teoria le priorità di acquisizione riguardanoaerei da trasporto, aerei da collegamento e addestra-mento, elicotteri e infine aerei da caccia. Ma questipiani procedono molto lentamente o sono congelati in

Anche se il Brasile professauna politica di buon vicinato con tutti i paesi del Sudamerica, nessunopuò rimanere inerte se due“pesi massimi” (l’altro è il Venezuela) iniziano a potenziare i propri arsenali. Ecco così chechiunque se lo possa permettere nel continentesta cercando almeno di rimettere in efficienza le Forze Armate

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attesa di tempi migliori. Anche le capacità industrialimilitari argentine, un tempo considerevoli, sono anda-te via via atrofizzandosi in mancanza di nuovi pro-grammi. La situazione è diversa per il Cile, caratteriz-zato dalla grande estensione con bassa densità di popo-lazione (solo 16 milioni di abitanti), dalla difficile oro-grafia e che ha saputo costruire probabilmente lo stru-mento militare meglio bilanciato e più efficace del con-tinente, a dispetto della sua ridotta consistenza, attra-verso una sapiente politica di acquisizioni che privile-gia l’usato di qualità occidentale, aggiornato e mante-nuto in perfetta efficienza, piuttosto che gli acquisti vel-leitari. Anche se il presidente Sebastian Pinera ha giàannunciato che le esigenze di difesa nazionale possonoessere riviste al ribasso, rinunciando ad alcuni progetti,non di meno il quadro complessivo è valido. Il Cile haun bilancio della difesa ufficiale di circa 3,5 miliardi didollari, che non includono però i fondi per l’ammoder-namento. Recentemente è stato approvato un nuovosistema, che prevede un ciclo di ammodernamento di12 anni, suddiviso in 3 periodi di 4 anni, ciascuno conrelativo stanziamento di fondi, ma con la possibilità diaccedere ad un fondo statale di riserva proprio perapprofittare di eventuali occasioni sul mercato del-l’usato! Le Forze Armate contano circa 70.000 uomi-ni, inclusi 15.000 militari di leva che servono tra i 12 ei 21 mesi. Si tratta quindi di un sistema misto, profes-sionale, ma con una componente di militari di leva.Significativa la presenza di una forza paramilitare disicurezza, i Carabineros, 41.500 uomini, con mezziaerei e blindati.L’Esercito ha quasi 38.000 uomini e quasi tutti i solda-ti di leva, circa 13.000. Il Cile ha sicuramente la piùpotente forza corazzata del continente, basata su 170carri armati Leopard 2A4, 200 Leopard 1A5, 20 blin-dati Piranha da ricognizione, 280 mezzi da combatti-mento della fanteria Marder A3, 320 trasporto truppaYPR-765 e 340 M-113, oltre a 180 blindati ruotati.Anche l’artiglieria è di ottimo livello, con 36 semoven-ti M-109 che si aggiungono ai pezzi a traino meccani-co ed ai lanciarazzi Lars. Tutto questo materiale è statoacquistato di seconda mano, e alcune consegne sono

ancora in corso. Ottima anche l’aviazionedell’Esercito, con qualche aereo e molti elicotteri, perlo più di produzione francese, ma con una diecina dimacchine leggere statunitensi. In acquisizione sistemicontraerei missilistici Nasams. Soddisfacente anche lasituazione della Marina, con 22.000 uomini, compresii 2.700 marines: le unità principali sono 2 fregateantiaeree ex olandesi, 4 fregate ex britanniche, altre 2fregate ex olandesi, 2 sottomarini di produzione fran-cese e 2 di produzione tedesca, 7 unità leggere lancia-missili, 4 grandi pattugliatori oceanici. Se si escludonosottomarini e pattugliatori, tutto il naviglio principale èusato, ma funziona bene. L’aviazione navale allinea 8aerei da pattugliamento, ne acquisterà altri 4 e ha unaventina di elicotteri. Agguerrita anche l’aeronautica,10.000 uomini, che ha la sua punta di lancia in una die-cina di caccia F-16 Block 50 di nuova produzione, 36F-16 acquistati di seconda mano in Olanda, 14 caccialeggeri F-5, che possono contare sul 3 aerei aviocister-na KC-135, mentre sono in ordine 12 Super Tucanocontro guerriglia che si aggiungono ai T-36. Meno bril-lante la situazione della componente da trasporto, men-tre la linea elicotteri ha il suo punto di forza in 12 B-412 ai quali se ne aggiungeranno altrettanti. Situazione molto diversa in Colombia, dato che ilgoverno sta combattendo, con aiuto statunitense, con-tro i narco trafficanti e i movimenti di guerriglia.Questo spiega perché, con una popolazione di 45milioni di abitanti e un contesto economico certo nonbrillante, la sicurezza, interna ed esterna (con ilVenezuela si è arrivati a rischio di guerra) abbia eleva-ta priorità, con una spesa tra Forze Armate e di sicurez-za (di fatto sono integrate) di 7 miliardi di dollari nel2009, saliti a 11 miliardi quest’anno, ai quali si aggiun-gono aiuti statunitensi per oltre 500 milioni di dollari.Le forze integrate contano circa 315.000 uomini nelleForze Armate, con 115.000 uomini nella polizia nazio-nale, che dipende dal ministero della Difesa. La coscri-zione è obbligatoria, 24 mesi, tranne che per l’aeronau-tica, 12 mesi. L’obiettivo sarebbe quello di passare aduna forma di reclutamento mista, con progressiva pro-fessionalizzazione, ma la transizione è difficile.

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L’Esercito conta circa 240.000 uomini ed è strutturatoessenzialmente per operazioni controguerriglia su vastascala, come conferma l’assenza di carri armati e la pre-senza di 200 blindati ruotati, 60 cingolati ed una arti-glieria poco consistente e datata. Sono in consegnablindati ruotati statunitensi. Molto consistente l’avia-zione dell’Esercito, specie la componente elicotteri,con 40 Blackhawk, 25 UH-1N e 22 Mi-17, con altri 15Blackhawk in consegna. Del resto l’elicottero è ilmezzo indispensabile per le operazioni contro la guer-riglia. La marina ha ben 34.000 uomini, ma il grossodel personale (22.000 unità) è inquadrato in 4 brigate dimarines. Le unità navali sono 4 fregate leggere dicostruzione tedesca, 2 sottomarini Type 209 e poi unaventina di unità da pattugliamento, alle quali si aggiun-gerà un pattugliatore oceanico. L’aviazione navale ha una diecina di elicotteri e 3 veli-voli da pattugliamento. L’aeronautica ha circa 9.000uomini e 3.000 dipendenti civili. I velivoli da combat-timento sono Mirage 5, in via di ritiro, e Kfir israeliani,in via di incremento ed aggiornamento. Saranno intutto 23. Ci sono poi aerei leggeri controguerriglia, A-37 , Super Tucano, Tucano, largamente utilizzati, non-ché decine di elicotteri di diverso tipo, dagli AB-212agli UH-60. Relativamente consistente anche la forzada trasporto con C-130 e C-235 e 295, molto utilizzatiper spostare truppe, materiali e rifornimenti. LaColombia è un paese in guerra e quindi ha una situazio-ne peculiare in Sudamerica. Il Perù per fortuna non ha più gravi problemi di guerri-glia, però le Forze Armate sono utilizzate anche percompiti di sicurezza interna e addirittura per contrasta-re la delinquenza giovanile organizzata. Il paese, conuna popolazione di quasi 30 milioni di abitanti, spendepochissimo per la difesa, escludendo i soldi per le pen-sioni, appena 1 miliardo di dollari nel 2009, che peròdovevano quasi raddoppiare a 1,8 miliardi nell’anno incorso, mentre è stato approvato un progetto per ammo-dernare la difesa investendo circa 2 miliardi di dollari,nel quadro di un piano pluriennale articolato in tre fasi.Il sistema di reclutamento è misto, con un totale diquasi 120.000 elementi (sulla carta) dei quali 70.000

volontari in ferma biennale. Tuttavia la scarsa attrattivadella carriera militare, nonostante gli incentivi approva-ti lo scorso anno, sta portando a valutare la possibilitàdi reintrodurre la coscrizione obbligatoria. Le forzeparamilitari poi allineano quasi 40.000 uomini nellapolizia nazionale, la quale ha anche mezzi blindati euna notevole componente aerea con una quarantina dielicotteri e una ventina di aerei leggeri. L’Esercito ha75.000 uomini con una piccola componente corazzatacon 50 carri T-55 M1, che resteranno in linea fino allaconsegna di 80-140 carri cinesi Type 90, i quali rim-piazzeranno anche i vecchi carri leggeri francesi inlinea. Ci sono poi 60 vecchie blindo, 300 trasporto trup-pe M-113, 500 trasporto truppe ruotati. L’artiglieria èper lo più vecchiotta, ma ci sono anche una trentina disemoventi un po’ più moderni e una ventina di lancia-razzi. Notevole la contraerea, che include sistemisemoventi russi Tor. La marina ha oltre 20.000 uomi-ni, inclusi 3.500 marines e la flotta include un decrepi-to incrociatore ex olandese, 8 fregate Lupo di produzio-ne italiana (4 ex marina italiana) 6 corvette, 6 sottoma-rini Type 209 e dozzine di unità leggere da pattuglia-mento. Modesta la componente anfibia, così comel’aviazione navale, con pochi aerei da pattugliamento,trasporto e collegamento ed una quindicina di elicotte-ri. L’aeronautica ha 15.000 uomini, i mezzi principalisono una diecina di caccia Mirage 2000 francesi, 18Mig-29 Russi, 8 cacciabombarderi Su-25 russi, unatrentina di aerei controguerriglia A-37 e una potenteflotta di elicotteri che include 24 Mi-25 russi, 35 Mi-17da trasporto d’assalto e una cinquantina di altri elicotte-ri da trasporto. Gli aerei da trasporto sono 10 C-130 piùaltri velivoli di vario tipo.La Bolivia di Evo Morales, così legato al Venezuela diChavez, è un paese poco popolato, 10 milioni di abitan-ti e con una economia davvero modesta che spende benpoco per la difesa, circa 250 milioni di dollari ed ha pic-cole Forze Armate, basate sul servizio di leva obbliga-torio (ma con alternativa di servizio civile) di 12 mesi.In tutto 31.500 uomini, ai quali si aggiungono 25.000uomini della polizia e 5.000 guardi di frontiera.L’Esercito ha 30.000 uomini, una trentina di carri leg-

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geri, 24 blindati da ricognizione, 60 trasporto truppecingolati M 113 e una cinquantina ruotati di variotipo, pochi e vecchi pezzi d’artiglieria. La marina nonsta meglio con 4.500 uomini inclusi 1.000 marines. Esolo unità leggere da pattugliamento. L’aeronautica ha4.000 uomini (compreso un reggimento di fanteria) enon ha praticamente aerei da combattimento, ma solovelivoli contro guerriglia e addestratori armati, unadiscreta forza di aerei da trasporto e un discreto nume-ro di elicotteri. Un complesso davvero modesto.

L’Ecuador con 15 milioni di abitanti ha pic-cole Forze Armate, 50.000 uomini compresi i militariche prestano servizio di leva di 12 mesi ed ha un bud-get annuale di meno di 1 miliardo di dollari all’anno.Però ha forze discrete, con un Esercito di 40.000uomini con 30 carri Leopard 1 ceduti dal Cile e 100Amx-13 leggeri francesi, un centinaio di trasportotruppe e una piccola, ma discreta artiglieria, con can-noni statunitensi M-198 una quindicina di elicotteri.La marina ha 4.500 uomini inclusi 1.500 marines edha 2 fregate ex cilene ex britanniche, 6 corvette dicostruzione italiana 2 sottomarini Type 209 e 5 unitàleggere lanciamissili ed una piccola aviazione navale.L’aeronautica allinea 5.000 uomini, una decina di cac-ciabombardieri Kfir, sta ricevendo 6 Mirage 5 cedutidal Venezuela e sta acquistando 12 Cheetah ex suda-fricani, a questi si aggiungono velivoli controguerri-glia A-37, una ventina, e una ventina di Super Tucano.Eterogenea la piccola linea aerei da trasporto cosìcome quella elicotteri.Paraguay e Uruguay hanno Forze Armate ancora piùmodeste, il primo 17.000 uomini in tutto e un bilanciodifesa di un centinaio di milioni di dollari, il secondo24.000 uomini e un bilancio annuale di circa 260milioni di dollari. Di fatto il Paraguay ha minimecapacità militari, un po’meglio l’Uruguay. Entrambi ipaesi sono comunque sostanzialmente immuni dallacorsa agli armamenti che sta caratterizzando i vicini e,anche volendo, sarebbe difficile, viste le condizionieconomiche, impegnarsi in un reale potenziamentodelle rispettive Forze Armate.

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in Argentina, il 4 e 5 novembre del 2005. Non soloinfatti il progetto di area di libero scambio delleAmeriche voluto dagli Stati Uniti, l’Alca, fu definiti-vamente affossato da un blocco di “CinqueMoschettieri”, come li chiamò Chávez, compostodallo stesso Venezuela più i quattro Paesi delMercosur: anche se tra questi ultimi accanto ai gover-ni di sinistra di Lula in Brasile, Kirchner in Argentinae Vásquez in Uruguay c’era anche quello di ÓscarNicanor Duarte Frutos in Paraguay, ancora esponentedella destra del Partito Colorado. Il no dei cinquegoverni si accompagnò infatti a vaste proteste popola-ri anti-Bush, che a loro volta saldarono l’opposizioneall’area di libero scambio con la più generale contesta-zione “dell’imperialismo Usa” delle “guerre preventi-ve”. Fu a quest’epoca che lo stesso Chávez iniziò aparlare di un “Asse Bolivariano” versus un “AsseMonroiano”: i seguaci del Libertador e della sua ideadi integrazione latino-americana, contro gli acquie-scenti alla Dottrina di Monroe e alla sua ideedell’America Latina come “cortile di casa” Usa.Andrés Oppenheimer, il noto latino americanologodella Cnn, premio Pulitzer ed editorialista in una ses-

santina di giornali di tutto il mondo ispanico, fece subi-to propria l’etichetta, pur essendo agli antipodi ideolo-gici del presidente venezuelano. Ma la tradusse in unlinguaggio più geopolitico: Asse “Atlantico” piuttostoche Bolivariano; “Asse Pacifico” piuttosto cheMonroiano. Oltre a rendere l’analisi meno emotiva, laridefinizione ha il merito di delineare un principioimplicito di analisi sul perché di questa divaricazione.I Paesi “atlantici”, effettivamente, sono quelli cheun’antica proiezione verso l’Europa rende più restii alfarsi includere in un’area di influenza esclusiva statu-nitense. Al contrario, proprio perché affacciati aun’area emergente dove si possono già fare affarisostanziosi con Cina, Giappone, e Tigri di Sviluppoasiatiche in genere, i Paesi “pacifici” hanno un atteg-giamento più rilassato verso gli Usa, e li consideranopiù come un’opportunità aggiuntiva che non come unostacolo alla loro libertà di manovra. Non a caso, nonsolo l’asse Messico-Colombia-Perù-Cile resta unpotente bastione di governi filo-Usa per tutto il perio-do dell’Ondata a Sinistra. Anche quando l’Ondata siaffaccia infine al Pacifico in Ecuador, questo Paesemantiene comunque la dollarizzazione.

MODELLO CHAVISTA, LULISTA E FILO-USA: ECCO IL VADEMECUM SUDAMERICANO

I CINQUE MOSCHETTIERIDI MAURIZIO STEFANINI

stata definita “Ondata a sinistra latino-americana” la serie di risultati elet-torali iniziata il 6 dicembre del 1998 con la vittoria di Hugo Rafael ChávezFrías, che si insedia alla presidenza del Venezuela il 2 febbraio del 1999.Il fenomeno venne particolarmente all’attenzione della stampa internazio-nale in occasione del Quarto Vertice delle Americhe tenutosi a Mar del Plata

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Il 2005 è però anche l’anno in cui Teodoro Petkoffpubblica il libro Dos Izquierdas. Ex-capo guerriglierovenezuelano poi imbarcatosi in un processo di revisio-ne ideologica a partire dall’invasione sovietica inCecoslovacchia, poi candidato presidenziale e mini-stro, da ultimo direttore di un giornale e tra i leaderdell’opposizione a Chávez, Petkoff spiega come inrealtà questa Ondata a Sinistra non sia affatto omoge-nea, e come al suo interno si possano distinguere,appunto, “Due Sinistre” ben distinte. L’una che defi-nisce “borbonica”, che nulla ha imparato e nulladimenticato, con Fidel Castro e Chávez. L’altra “prag-matica”, di cui indica i modelli in Lula, Lagos eVásquez. Nel 2007 esce poi El regreso del idiota diÁlvaro Vargas Llosa, Plinio Apuleyo Mendoza eCarlos Alberto Montaner. Seguito ideale di un prece-dente best-seller dei tre, il famoso Manuale del perfet-to idiota latino-americano, fotografa a sua volta que-sta dicotomia con le etichette di “sinistra vegetariana”e “sinistra carnivora”. Alla prima, appunto quella“pragmatica” di Petkoff, ascrivono Lagos, la Bachelet,Vásquez, Lula, Alan García e in questo momentoanche Daniel Ortega. Alla seconda, corrispondente ai“borbonici”, apparterrebbero invece Fidel Castro,Chávez, Morales e presumibilmente Correa. E inmezzo “l’onnivoro” presidente argentino Kirchner,che passerebbe tra carne e verdura «da un giornoall’altro e addirittura da un’ora all’altra, imbrogliandotutti gli schemi razionali possibili». D’altronde, «comeha sempre fatto il peronismo nel corso della sua sto-ria». Cercando di passare dalle etichette polemiche aquelle più neutre, i vegetariani-pragmatici potrebberoessere ribattezzati “lulisti”; i carnivori-borbonici “cha-visti”. L’autore di queste note propose però già da allo-ra di diversificare i “pragmatici” in due sottocategorie:quelli alla Lula, distinti da Chávez, ma non polemicicon lui; e quelli alla Alan García, invece ostili al cha-vismo, ma distinti dai governi di centro-destra. Questomodello delle “quattro Americhe Latine” tende però asemplificarsi, nel momento in cui alla Casa Biancaarriva Barack Obama: lui stesso appartenente a un’op-zione definibile come di sinistra. Dunque, in questo

momento i governi delle Americhe possono inquadrar-si in tre blocchi: di sinistra chavista; di sinistra lulista;“monroiani” di sinistra, centro o destra, ma comunqueaccomunati dal rapporto di alleanza con gli Stati Uniti.L’area chavista ha un ambito di individuazione abba-stanza preciso rappresentato dall’Alba: la Alianza Bo-livariana para los Pueblos de Nuestra América -Tratado de Comercio de los Pueblos, costituita formal-mente il 14 dicembre del 2004 tra Venezuela e Cubacome alternativa all’Alca; e a cui si sono poi aggiunteil 29 aprile 2006 la Bolivia, il 23 febbraio del 2007 ilNicaragua, il 20 gennaio 2008 Dominica, il 24 giugno2009 Ecuador, Antigua e Barbuda e Saint Vincent eGrenadine. Il 10 ottobre del 2008 aveva aderito anchel’Honduras, ma dopo la deposizione di Zelaya il 2luglio 2009 fu sospeso dalla stessa Alba, e il 12 genna-io del 2010 il Congresso di Tegucigalpa decise formal-mente il ritiro. Cuba è uno Stato comunista di imposta-zione sovietica in incerta e lentissima evoluzione versoun modello cinese. Per i partner è un importante puntodi riferimento morale e ideologico, e inoltre la sinergiatra petrolio venezuelano e disponibilità di medici, inse-gnanti, militari e altro personale altamente specializza-to cubano, rappresenta il principale asset in grado diattrarre nuovi soci. Ma non è più un modello istituzio-nale. D’altra parte, i tre paesini anglofoni dei Caraibirappresentano una mera adesione clientelare. Il nodovero è il tipo di regime che Chávez ha costruito inVenezuela, e il modo in cui stanno cercando di ade-

Il nodo vero è il tipo di regime che Chávez ha costruito in Venezuela, e il modo in cui stanno cercando di adeguarvisiBolivia, Ecuador e perfino il Nicaragua sandinista: sebbene Ortega sia sullascena politica da più tempo

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guarvisi Bolivia, Ecuador e perfino il Nicaragua sandi-nista: sebbene Ortega sia sulla scena politica da moltopiù tempo del presidente venezuelano. Dal punto divista ideologico, innanzitutto. All’origine l’autodefini-zione di Chávez è stata quella di bolivariano, terminecon cui ha cambiato anche il nome dello Stato inRepubblica Bolivariana del Venezuela. Il riferimentoal Libertador però ne limitava la portata all’ambitovenezuelano, o al massimo latino-americano. In segui-to, con un discorso del 30 gennaio 2005 al V ForumSociale Mondiale, Chávez adottò lo slogan del “socia-lismo del secolo XXI”, già lanciato nel 1996 dal socio-logo tedesco-messicano Heinz Dieterich Steffan.

Non si tratta di una terza via tra capitalismo esocialismo, ma di un tentativo di riproporre gli idealidel socialismo reale, correggendone i supposti errori.Fonti dichiarate: il marxismo-leninismo classico, maanche il pensiero no global, la Teologia dellaLiberazione, l’ecologismo, il terzomondismo, laprassi di leader latino-americani come Juan DomingoPerón, e il pensiero di Simón Bolívar, che rimanda asua volta al giacobinismo di inizio ‘800. Fonti nondichiarate: il caudillismo storico latino-americano, eanche quel tipo di anti-politica che in Europa è nor-malmente associata alla destra, da Bossi ad Haider. Aciò Morales unisce l’indigenismo, mentre Correa siproclama cattolico di sinistra. Ortega ritiene che ilsocialismo del secolo XXI sia stato in qualche modo

anticipato dalla sintesi tra il pensiero del nazionalistamassone Sandino, il marxismo-leninismo e la teolo-gia della liberazione già fatta dal movimento sandini-sta, mentre Zelaya vi aveva collocato addirittura il“liberalismo sociale”. Dal punto di vista istituzionale, appena presidenteChávez ha indetto un referendum con cui ha convoca-to un’Assemblea Costituente che poi ha varato unanuova Costituzione approvata con un nuovo referen-dum: da cui la messa in mora del Congresso e l’elezio-ne di una nuova Assemblea Nazionale monocamerale,con le regole del gioco ormai stabilite da lui. In parti-colare, la creazione di un Consiglio NazionaleElettorale che ha sottratto la competenza a deputati emagistrati ordinari. In seguito, Chávez ha modificatola stessa Costituzione da lui stesso voluta, per rendersipossibile una rieleggibilità indefinita. Il processo dellariforma costituzionale a colpi di referendum è statoseguito da Morales e Correa. La semplice riforma dellanon rieleggibilità è stata introdotta da Ortega e tentatada Zelaya: in quest’ultimo caso, però, con la conse-guente reazione che lo ha estromesso dal potere.Quanto al modello di Costituzione, il tentativo di attua-lizzare il pensiero del Libertador si è tradotto inVenezuela nell’introduzione al fianco dei tre classicipoteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, di due nuovipoteri: cittadino ed elettorale. L’uno è esercitato da unConsiglio Morale Repubblicano che in pratica si tra-sforma in una magistratura speciale verso gli eletti.L’altro, con il Cne e i referendum, comprende il parti-colare istituto della revoca: trascorsa metà mandato undecimo degli elettori può chiedere un referendumsulle dimissioni di qualunque eletto. A parte questeparticolarità, il modello del Venezuela bolivarianoassomiglia a quello della Francia gollista. Assieme alnome dell’Assemblea Nazionale, che in Venezuela èaddirittura monocamerale, c’è infatti un’evoluzionesemi-presidenzialista, con l’istituzione di un vicepre-sidente capo dell’esecutivo: nominato dal Presidente,e che l’Assemblea Nazionale può censurare a mag-gioranza dei tre quinti. Di fatto, però, Chávez haapprofittato di un boicottaggio dell’opposizione che

Chávez, Morales e Correahanno costituito coalizionifortemente a sinistra, oltreche legate alla personalitàdel leader. Più caratterizzatala formula di Kirchner, checomunque proviene da unmovimento sui generiscome quello peronista

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aveva lasciato all’Assemblea Nazionale solo suoisostenitori, per farsi dare i pieni poteri. E più di recen-te si è adoperato per affiancare alle istanze elettiveorgani di democrazia diretta: secondo molti, per svuo-tare i primi di potere in caso di vittorie dell’opposizio-ne. Insomma, è stato parlamentare, plebiscitario, ditta-toriale e assembleare, a seconda delle convenienze.Evo Morales ha a sua volta cambiato il nome delPaese in “Stato Plurinazionale di Bolivia”, ha fattoricorso al revocatorio, ha adottato il Quarto PotereElettorale. Ma non il Quinto Potere Morale, e anche ilrapporto tra Presidente e un Congresso rimasto bica-merale è restato quello presidenziale classico.Piuttosto, è nel creare istituti e nel redigere articoli pertutelare le culture indigene che la nuova Costituzioneboliviana ha manifestato la propria creatività.L’Ecuador ha anch’esso mantenuto un sistema presi-denziale classico e il nome tradizionale di Repubblicadell’Ecuador, ed era monocamerale già da prima. Haperò riprodotto integralmente il sistema dei cinquepoteri. Il Nicaragua, a parte la modifica sulla rieleggi-bilità presidenziale, mantiene invece la Costituzionesandinista, come pure Cuba quella comunista.

Dal punto di vista economico, la Costituzionebolivariana si pronuncia per un sistema misto nontroppo distante da quello della Costituzione italiana.Di fatto, però, Chávez ha utilizzato in modo semprepiù invadente la possibilità di intervenire nell’econo-mia: nazionalizzando a tutto spiano, politicizzando ivertici delle imprese di Stato, imponendo calmieri evincoli, razionando in modo severo la valuta. Nelcontempo ha investito denaro e il know how deglispecialisti cubani in vari programmi di assistenzasociale: dalle cure sanitarie ai programmi educativi,alla fornitura di beni gratis o a basso prezzo.Malgrado la retorica sul “socialismo”, però, unrecente studio ha dimostrato che in realtà il peso deiprivati sulla formazione del Pil è tuttora identico aquello di prima che il colonnello arrivasse al potere:il 70%. In parte ciò è dovuto alla crescita di un cetoalto legato al regime che si è impadronito di molte

proprietà abbandonate da coloro che erano stati presidi mira dal regime: la cosiddetta boliborghesia. Inparte, al collasso dei settori passati in mano al gover-no. Dopo un periodo di relativo benessere dovutoagli alti prezzi del petrolio, dal 2009 l’economiavenezuelana ha cominciato a precipitare, e nel 2010è restata l’unica dell’America Latina in recessione, aparte Cuba. Questa è una differenza con Bolivia eEcuador, dove invece l’economia segue il boom lati-no-americano. Ma va detto che lì, pur con una fortespesa pubblica, con un impiego di risorse e speciali-sti di provenienza cubana e venezuelana, con durepolemiche contro gli oppositori, non c’è stata però lapolitica punitiva contro gli imprenditori che si èavuta nel Venezuela bolivariano. Una possibile inter-pretazione è che, essendo quelli regimi più recenti,non è ancora arrivato il momento. Un’altra è che lamaggior complessità dei blocchi sociali di Morales eCorrea li sconsiglia dall’arrivare a metodi estremi.Un’altra ancora è che avendo Bolivia e Ecuador unastruttura produttiva più plurale di quella venezuelana,pesantemente sbilanciata sul petrolio, nessun governopotrebbe permettersi di operare una analoga distruzio-ne di risorse produttive. Dal punto di vista della collocazione internazionale, ilVenezuela bolivariano è stato accusato di ipocrisiaproprio perché attacca i trattati di libero commercio traStati Uniti e Paesi latino-americani, quando in realtàdipende esso stesso dal massiccio export di petrolionegli Usa. Al di là degli appunti che si possano muo-vere a Chávez, non c’è dubbio che proprio una fortedipendenza del genere può consigliare un riequilibrioattraverso una politica estera a tutto campo. E in effet-ti anche il Venezuela pre-chavista, fondatoredell’Opec, ebbe una politica estera molto attiva.D’altra parte, il richiamo ideale a Simón Bolívar nonpoteva non comportare una iniziativa latino-america-nista pronunciata. Chávez ha però tradotto questa esi-genza di protagonismo e riequilibrio innanzitutto in unsistematico contrapporsi alle politiche Usa a livellopanamericano: in particolare, come si è visto, con l’op-posizione all’Alca e con il deciso appoggio a Cuba;

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ma anche con gli aiuti dati a ogni tipo di progetto poli-tico larvatamente anti-Usa. Compresa, secondo parec-chie testimonianze ed evidenze, la stessa guerrigliadelle Farc in Colombia. L’ultimo episodio è stata lacampagna che il Venezuela ha condotto contro la con-cessione della Colombia di basi agli Usa, proprio alposto di quella ecuadoriana di Manta cui Correa avevadato lo sfratto. Ma poi il Venezuela bolivariano si èdistinto a livello mondiale per una politica di alleanzediplomatiche, economiche e militari con quei Paesiche la diplomazia Usa indicava come “Asse delMale”: dall’Iran all’Iraq di Saddam, alla Corea delNord, alla Siria, alla Bielorussia di Lukashenko. Senzacontare la Russia e la Cina, che Asse del Male nonsono, ma che per Washington sono comunque da tene-re d’occhio: nel momento in cui, ad esempio, Chávezdichiara di voler sostituire la Cina agli Usa come mer-cato del greggio venezuelano, o acquista dalla Russiaarmi in quantità. In più, ci sono state le rotture di rela-zioni diplomatiche con gli Usa e con Israele: la primarientrata, ma la seconda no. Fortemente altalenantisono state le relazioni con la Colombia, tra continuerotture e riappacificazioni. Anche la Bolivia dipendedall’esportazione di materie prime che non hannobisogno di Trattati di Libero Commercio per passare:gas, zinco, argento, piombo, litio, coca. E ancheMorales ha dunque seguito Chávez in quasi tutte le suemosse anti-Washington: alleanza con l’Iran, acquisti diarmi dalla Russia, rottura diplomatica con Usa eIsraele. Per realpolitik ha però stabilito eccellenti rela-zioni con il Cile del “destro” Piñera. L’handicap diCorrea è invece che l’Ecuador ha un’economia nonsolo dollarizzata, ma in cui accanto al petrolio hannoun ruolo fondamentale le banane, per cui gli accordi dilibero commercio sono essenziali. Pur stabilendo a suavolta relazioni con l’Iran e dando alla base di Manta losfratto Correa è stato dunque attento a non rompere lerelazioni con gli Usa, ed ha anche superato la crisi conla Colombia dovuta al blitz con cui le forze speciali diBogotá avevano eliminato un leader delle Farc in ter-ritorio ecuadoriano. Altrettanto fragile il Nicaragua,che oltretutto dipende molto anche dalle rimesse in

provenienza dagli Stati Uniti. Per questo ha aderitoall’Alba ma restando in un Trattato di LiberoCommercio con gli Usa, pur sviluppando a sua voltaintense relazioni con Iran e Russia. Va peraltro ricorda-to che la coalizione di Ortega comprendeva anche ele-menti di destra, a partire dal vicepresidente JaimeMorales Carazo. Ed è questa la prima differenza tra modello lulista emodello chavista. A parte l’eccezione del Nicaragua,che però abbiamo visto procedere da modelli anteriorial “socialismo del secolo XXI”, Chávez, Morales eCorrea hanno tutti e tre costituito coalizioni fortemen-te ancorate a sinistra, oltre che legate alla personalitàdel leader. Lula è invece divenuto presidente sceglien-dosi come vice un imprenditore tessile liberale, haavuto come elemento essenziale delle proprie coalizio-ni il centrista Partito del Movimento DemocraticoBrasiliano (Pmdb), e le ha estese addirittura al PartitoProgressista, erede dei sostenitori del regime militare.Anche il Fronte Ampio uruguayano e la coalizione cheha portato all’elezione di Lugo in Paraguay andavanodalla sinistra radicale fino al centro e al centro-destra,e sia il salvadoregno Funes che il guatemalteco Colomsono entrati in politica come indipendenti contattatidagli ex-guerriglieri per sfondare al centro. Più caratte-rizzata a sinistra la formula di Kirchner, ma provenien-te comunque da un movimento abbastanza sui generiscome quello peronista.

Questa dato va considerato assieme all’analisisulle aree di integrazione coincidenti con i governi del-l’uno e dell’altro tipo. Come infatti il modello chavistacorrisponde all’Alba, così anche l’area lulista, a partela recente appendice guatemalteca e salvadoregna,corrisponde esattamente a quelli che furono nel 1991 iPaesi fondatori del Mercosur. Il fatto che l’Alba siavenuto dopo l’Ondata a Sinistra chavista e il Mercosurabbia invece preceduto l’Ondata a Sinistra lulista, uni-tamente alla natura differente delle rispettive coalizio-ni, indica già la differenza essenziale. Il “socialismodel secolo XXI” è un processo radicale che si proponedi forgiare la realtà secondo nuovi modelli. Il lulismo

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è un processo riformista che sviluppa determinatetendenze già in atto nelle società. Per questo, non esi-ste in realtà un modello istituzionale lulista. Nessungoverno di questa tendenza ha cambiato laCostituzione a colpi di referendum; nessun presiden-te ha cercato di cambiare le regole del gioco esistentia proposito di rielezione; nessuno Stato ha cambiatonome. A livello locale il Pt di prima della presidenzadi Lula aveva fatto esperimenti di bilancio partecipa-to, e nell’Argentina della crisi erano emerse impreseautogestite e reti di baratto, ma né gli uni e né gli altrihanno poi prosperato. E neanche si è fatto niente delleriforme agrarie che erano sia nel dna del Pt che inquello di Lugo. A parte intensi programmi di investi-menti di tipo keynesiano, accompagnati però daattenzioni molto ortodosse per i conti economici,Brasile e Argentina hanno sviluppato più che altropiani assistenziali per gli indigenti (Fame Zero, sussi-di ai disoccupati) abbastanza in linea con quanto si fanegli Usa o in molti Stati europei. In più l’Argentinaha dichiarato il default per i bond acquistati da piccolirisparmiatori, onorando però i debiti con i grandi cre-ditori. Una punta in più di radicalismo il governoargentino l’ha mostrata con uno schema di imposteall’export agricolo, che però ha dovuto essere ritiratodi fronte allo sciopero degli agricoltori. Sia Lula che iKirchner si sono scontrati verbalmente con la stampa,e in Argentina è stata anche varata una legge sui mediache le opposizioni accusano di accrescere artificial-mente lo spazio per le opzioni filo-governative: si trat-ta comunque di cose minori, rispetto a quanto è acca-duto nei Paesi chavisti, dove gli oppositori sono statiarrestati o costretti in esilio e le elezioni sono state tac-ciate di frode e media di opposizione sono stati silen-ziati. Soprattutto in Brasile e in Uruguay, il modellolulista si è presentato come un “patto tra produttori”per aiutare anche il capitalismo nazionale a crescere. Esi è trattato, infatti, di storie di successo, con tassi dicrescita economica molto alti. Meno condiviso appareil modello argentino, ma anche lì c’è stata una fortecrescita: se non altro, come recupero di quanto erastato perso nel 2001, e come mera conseguenza del-

l’aggiustamento del cambio. Altrettanto differenteappare la collocazione internazionale. Allo stessomodo del Venezuela, anche il Brasile cerca una pro-mozione di status internazionale. Nel caso delVenezuela la rendita petrolifera e il passato bolivaria-no inducono in Chávez un complesso da grandeursostanzialmente al di sopra del potenziale geopoliticoe geoeconomico nazionale. Nel caso del Brasile, vice-versa, le dimensioni e l’economia sono effettivamenteal di sopra della considerazione di cui il Paese gode,ma il distacco non è incolmabile. Gli stessi Stati Unitihanno proposto l’ammissione del Brasile come mem-bro permanente al Consiglio di Sicurezza, che è statainvece bloccata da una lobby di Potenze a rischio dideclassamento guidata dall’Italia. Appunto una lobbycon altre due Potenze in cerca di analogo riconosci-mento è stata alla base dell’alleanza Ibsa, stipulata dalBrasile con India e Sudafrica. Ma il Brasile si è mossoanalogamente sul piano latino-americano, su quellodella lusofonia, si è fatto ammettere al G-20, ha inizia-to a interessarsi dell’Africa.

Come si è ricordato, il Brasile ha contribuito conil Venezuela a far naufragare il progetto dell’Alca.Mentre però Chávez era contrario alle aree di integra-zione con gli Usa per principio, Lula chiedeva invece

Il Brasile ha contribuito conil Venezuela a far naufragare il progettodell’Alca. Mentre peròChávez era contrario allearee di integrazione con gliUsa per principio, Lula chiedeva invece che questefossero autentiche, e noncon l’esclusione dei settoriche agli Usa non garbavano

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che queste fossero autentiche, e non con l’esclusionedei settori che agli Usa non garbavano. Più in genera-le, però, il Brasile ha cercato di mantenere buone rela-zioni con tutti. Ha così sviluppato vari progetti con ilVenezuela, in parte peraltro falliti per l’inefficienza delregime chavista; ha fatto cospicui affari con Cuba; maha anche siglato con gli Usa un importante accordo sulbioetanolo ed uno di cooperazione militare, ed ha con-tribuito a una operazione di peace-keeping ad Haiti cuiChávez era contrario. Quanto all’Iran, gli scambi diviste con Ahmadinejad sono stati volutamente affian-cati a scambi di viste con i governanti israeliani. Névanno dimenticati gli aerei Super-Tucano che ha forni-to alla Colombia, e che si sono rivelati un’arma decisi-va nel conflitto contro le Farc. L’Argentina si è piùesposta in senso filo-Chávez, ma rifiutato i contatti conl’Iran, accusato come mandante di gravi attentati anti-ebraici nel suo territorio. Ed ha anche cooperato nelpeace keeping ad Haiti, mantenendo inoltre le eserci-tazioni militari congiunte con gli Usa. Va poi rilevatoche Funes in El Salvador si è dato da fare per “sdoga-

nare” Pepe Lobo, malgrado Brasile e Argentina si fos-sero invece allineate al “fronte del rifiuto” pro-Zelayadel blocco chavista. A differenza del Venezuela per ilmodello chavista e del Brasile per quello lulista, nonesiste un Paese guida dell’asse monroiano. Nel casodel Messico la vicinanza agli Stati Uniti e la lontanan-za dagli altri Paesi latino-americani lo espongono a uncomplesso da Paese minore in realtà molto al di sottodi quello che sarebbe il suo potenziale geopolitico. InCile il miracolo economico ha indotto a slogan di “fuo-riuscita dall’America Latina” piuttosto che ad ambi-zioni egemoniche. In Colombia il problema della guer-riglia ha creato un’immagine di efficienza militare da“Israele dell’America Latina”, ma anche una marcatadipendenza da appoggi stranieri. Comune a questiPaesi è un passato prossimo di difficoltà con le ideolo-gie di sinistra. In Cile, in particolare, c’è un cattivissi-mo ricordo dell’inflazione e dei disordini dell’epoca diAllende: che non ha impedito ai socialisti di tornare algoverno, ma solo dopo aver fatto ammenda sugli erro-ri del passato. Lo stesso si può dire del Perù, dove sullasinistra pesano a un tempo il disastro del regime milita-re di sinistra di Velasco Alvarado, l’incubo di SenderoLuminoso, il ricordo del populismo del primo mandatodi Alan García e il modo suicida in cui la sinistra appog-giò Fujimori. Di nuovo, Alan García, è tornato al pote-re, ma a sua volta dopo aver fatto ammenda. InColombia, dove il problema sono le Farc, gli Usa sonoanche una fondamentale fonte di aiuti militari. Più aNord c’è il Messico dell’interminabile governo del Pri,che ostentava slogan di sinistra. Comunque, lì l’integra-zione del Nafta, le maquiladoras, le rimesse, il turismoe il petrolio descrivono un’integrazione con il colossodel Nord che provoca frizioni continue, ma senza laquale non sarebbe possibile sopravvivere. Tutti questiPaesi hanno in questo momento alti tassi di crescita:perfino il Messico della Guerra ai Narcos. Non c’è peròun asse vero e proprio e dopo il fallimento dell’Alca ilrapporto con gli Usa si articola in accordi siglati casoper caso. Soprattutto dopo l’elezione di Piñera, si stadelineando un certo attivismo di contatti tra presidenti.Ma è un processo ancora fluido.

In Cile il miracolo economico ha indotto a slogan di “fuoriuscitadall’America Latina” piuttosto che ad ambizioniegemoniche. In Colombia il problemadella guerriglia ha creato un’immagine di efficienza militare da “Israele dell’AmericaLatina”, ma anche una marcata dipendenza da appoggi stranieri

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stati compiuti nell’anno sin qui trascorso circa gliobiettivi espressi al vertice? L’amministrazioneObama ha suffragato la propria promessa di cam-biamento con azioni concrete? Com’è cambiata lavisione dell’America Latina nei riguardi di Obamae della politica statunitense dallo scorso aprile?I miei amici nella regione si dichiarano delusi dal livel-lo di impegno sinora profuso da parte dell’amministra-zione Obama. Sebbene il Segretario di Stato HillaryClinton abbia visitato diversi paesi, esso tende ad esse-re sporadico, la qual cosa non riflette un peculiare prin-cipio organizzatore o una particolare intensità d’azione.Sin dalle animate vicende concernenti l’estromissionedi Manuel Zelaya dalla presidenza in Honduras e la suadefinitiva dipartita, l’Amministrazione statunitense haosato poco e fatto ancora meno. Su questioni riguar-danti i nostri vitali interessi di sicurezza, Washingtonsembra reagire con scarso interesse alla scoperta delleattività in cui Iran, Russia e Cina si stanno impegnandoin Venezuela. Mentre gli Stati Uniti continuano delibe-ratamente ad ignorare Hugo Chávez, i nostri rivali enemici sfilano a Caracas con nutrite delegazioni e moltipunti in agenda. Il portavoce del Dipartimento di StatoP. J. Crowley ha liquidato con una risata la prospettiva

di piani russi miranti a sviluppare strutture per il lanciodi satelliti in Venezuela. Il comandante del Southcomha minimizzato i più che saldi legami di Chávez con ilterrorismo (prima di correggersi il giorno successivo);ha quindi affermato di non vedere nessuna «capacitàinterna in grado di minare la sua [di Chávez] posizio-ne», proprio mentre l’opposizione sta lanciando unadisperata campagna per l’Assemblea Nazionale. Intema di multilateralismo ed impegno economico,abbiamo perso considerevole terreno. La maggior partedei paesi si sono uniti a Chávez nella creazione di unnuovo forum regionale che lascia alla porta gli StatiUniti ed il Canada; e la rielezione di José MiguelInsulza a segretario generale relega l’Osa ai margini.Gli accordi commerciali con Panama e Colombia - duedei nostri migliori amici nella regione - stanno moren-do sul nascere. Forse i nostri amici latinoamericani ecaraibici saranno in grado di concepire un’agenda pro-gressista ed invitare successivamente gli Stati Uniti adunirsi a loro nel porla in essere, a beneficio di entram-be le parti. Tale approccio potrebbe convincere il teamdi Obama a perseguire una politica comune con laregione piuttosto che imporle una visione daWashington.

L’EX CONSIGLIERE DI G. W. BUSH PER IL DIALOGO INTER-AMERICANO INTERVISTA SE STESSO SUL RUOLO USA

QUELLE PARTITE DI POKER SENZA OBAMADI ROGER F. NORIEGA

olo un anno fa i leader di 34 nazioni dell’emisfero si sono riuniti a Trinidad eTobago per il summit delle Americhe. Nel corso del vertice, il presidente statu-nitense Barack Obama ha promesso di rapportarsi con i paesi dell’emisferosulla base di associazioni di eguali, ed ha espresso la speranza di una disten-sione nelle relazioni statunitensi con Cuba ed il Venezuela. Quali progressi sono•S•

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Nel corso del summit messicano del Gruppo diRio, tenutosi due mesi fa, i leader latinoamerica-ni si sono accordati sulla costituzione di unnuovo blocco regionale che escluderebbe gliStati Uniti ed il Canada, ponendosi come alter-nativa all’Organizzazione degli Stati Americanicon sede a Washington. Quali dovrebbero esse-re le funzioni di tale nuovo gruppo? Ve ne èbisogno? Quali sono le implicazioni per la poli-tica statunitense e canadese nelle Americhe, eper il futuro dell’Osa?

Consideriamo la rilevanza del nuovo forumlatino/caraibico proprio dopo che gli Stati Uniti ed altri13 paesi del medesimo orientamento si sono incontratiin Costa Rica nell’ambito delle Pathways toProsperity, un gruppo formatosi nel tardo 2008 al finedi promuovere soluzioni pratiche al libero mercato edaffrontare le sfide economiche ed il problema dellapovertà della regione. L’appartenenza a tale gruppo èinclusiva e volontaria, e molti paesi, in special modo ilBrasile, vi partecipano in qualità di “osservatori”. Sullascia del fallimento dei negoziati regionali per il com-mercio, pochi dubitavano della necessità di un’organiz-zazione che promuovesse l’integrazione economica eduna crescita sostenibile ed equa. I forum regionali chehanno agende positive e costruttive possono rivelarsid’aiuto per i cittadini che ne sostengono l’onere econo-mico. L’Osa, con un budget di 100 milioni di dollari, èsolo uno tra quella dozzina di altri gruppi di nazioninelle Americhe con mandati e membri coincidenti.Rimane da vedere quale contributo tangibile potràapportare un’altra organizzazione regionale - in parti-colare se essa non disporrà del budget o della capacitàistituzionale per portare avanti obiettivi comuni. È utileosservare che il gruppo costituito a Cancún escludeconsapevolmente paesi che rappresentano all’incirca il90% dell’economia dell’emisfero. In aggiunta, gli StatiUniti costituiscono il maggior partner commerciale dibuona parte dei paesi della regione, molti dei qualidipendono dai miliardi di dollari derivanti dalle entratecommerciali, dagli investimenti e dalle rimesse del-l’economia a stelle e strisce. So che la magnanimità

porta gli osservatori statunitensi a dire “più si è, meglioè” quando si parla di questo nuovo forum regionale. Inogni caso, mi interessa sottolineare come quella stessadiplomazia divisoria che ha indebolito la capacitàdell’Osa di aggregare un consenso regionale su que-stioni critiche abbia ispirato un nuovo forum che esclu-de due peculiari paesi includendone un’altra dozzina. Edovremmo tutti manifestare disappunto per il fatto chel’energia necessaria per resuscitare un’inefficace Osavenga profusa in un nuovo gruppo che ha già generatodivisioni artificiali tra vicini e partner.

Secondo un sondaggio Gallup condotto l’estatescorsa, le percezioni latinoamericane circa laleadership statunitense sono migliorate conside-revolmente con l’arrivo - due anni fa - di BarackObama. In ogni caso, malgrado la generalebuona volontà mostrata in pubblico, l’ammini-strazione Obama ha dovuto affrontare dure cri-tiche per la gestione del colpo di stato inHonduras e per un accordo militare tra StatiUniti e Colombia che ha allontanato alcunipaesi del Sud America. Quali questioni informe-ranno le relazioni Usa–America Latina neglianni a venire? Su quali aspetti l’amministrazio-ne Obama dovrebbe concentrare i propri sforziin America Latina e nei Carabi?

Le recenti elezioni nella regione (in Brasile, Uruguay,Honduras e Cile, ad esempio) dimostrano che, malgra-do l’ampollosità di sinistra manifestatasi in un paio dipaesi inquieti, la maggior parte degli abitanti dellaregione vede la democrazia istituzionalizzata come lamigliore garanzia di un governo responsabile. Il nuovoassistente segretario di stato per l’America Latina diObama, Arturo Valenzuela, è un professionista colto esensibile che cerca di rinvigorire l’impegno dellanuova Amministrazione nella ricerca di un dialogo rin-novato e rispettoso. Ciononostante, le denunce da partedell’Havana, la dimostrazione di forza di Caracas, el’odiosa retorica di Buenos Aires e La Paz dimostranoche alcuni nella regione non sono interessati a svilup-pare un dialogo ragionevole, e godono di una spropor-zionata influenza sull’immagine della regione.

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Valenzuela potrebbe anche trovare più difficile mante-nere gli impegni per quanto riguarda l’assistenza eco-nomica, che alcuni vedono come una misura dell’im-pegno statunitense. Ed egli è svantaggiato dalla rilut-tanza del Presidente ad opporsi ai sindacati statuniten-si per portare avanti l’accordo di libero scambio con laColombia proprio quando l’alleato nella lotta al traffi-co di stupefacenti avverte la pressione economica emilitare del Venezuela. Ritengo che il governo debbaessere preparato per una crisi con epicentro inVenezuela, dove Hugo Chávez sta incontrando diffi-coltà nell’affrontare le crisi in quei sistemi di assisten-za sociale, infrastrutturale e bancario che egli stesso hacontribuito a creare. I suoi pericolosi legami con l’Iraned i suoi bellicosi proclami nei confronti dellaColombia, richiedono maggiore attenzione e prepara-zione da parte statunitense. Il mito che Raul Castropossa presiedere una transizione di velluto si è anch’es-so dissolto, pertanto una crisi nel breve termine richie-derà una forte leadership statunitense ispirata da princi-pi solidi.

Non è un mistero che Hugo Chávez stia com-piendo costanti progressi nel consolidamentodelle relazioni strategiche con la Cina, desidero-sa di eclissare la presenza statunitense in un’im-portante economia sudamericana ricca di mate-rie prime.

La tendenza è chiara. Nel 1998 gli acquisti statunitensidi greggio venezuelano ammontavano a circa 1,74milioni di barili al giorno; quella quota è scesa a 1,42milioni nel 2002 e oggi si attesta a circa 950mila. Inogni caso, al fine di rimpiazzare completamente il mer-cato statunitense - in cui si trovano raffinerie che pos-sono distillare il greggio pesante del Venezuela fino adottenerne un prodotto commerciabile - Chávez deveaccrescere la propria capacità interna di raffinare lematerie prime così come di trasportarle verso mercatialternativi in cui siano presenti apposite raffinerie. Equi entra in gioco la Cina. Iniziando con un minuscoloruolo nel mercato petrolifero venezuelano al tempodell’elezione di Chávez, la Rpc partecipa oggi - attra-verso operazioni “a monte”, massicci investimenti di

capitali, accordi commerciali di lungo periodo, e piani-ficazione strategica - all’esplorazione, sfruttamento,trasporto, raffinazione e distribuzione del greggiopesante venezuelano. Nel febbraio scorso, il ministro venezuelano per l’ener-gia ed il petrolio Rafael Ramírez ed il vice presidentedi Pdvsa (Petróleos de Venezuela SA, ndt.) Chávezhanno compiuto una visita di due giorni a Pechino perdefinire i termini di una massiccia cooperazione dilungo termine nel settore energetico. Ramírez sovrin-tende altresì la parte venezuelana di una task force con-giunta di esperti energetici e minerari di entrambi ipaesi che supervisiona quasi trenta progetti ambiziosi –incluso lo sfruttamento di nuovi giacimenti petroliferi,la produzione di prodotti petrolchimici e la costruzionedi raffinerie e navi cisterna. La National PetroleumCorporation cinese ha fatto un ottimo affare parteci-pando all’esplorazione del “Junin Block 4” nella cin-tura dell’Orinoco, ed è chiaramente desiderosa di sfrut-tare queste nuove risorse. Questo novembre è previstol’inizio dei lavori di costruzione di una nuova raffineriada 8 miliardi di dollari nella provincia del Guandongche, quando diventerà operativa nel 2013, sarà in gradodi ricevere petrolio prodotto presso il Junin 4. Questaraffineria è una delle molte che incrementerà la capaci-tà della Cina di ricevere e raffinare più di un milione dibarili al giorno di greggio venezuelano.

Chávez ha incontrato la sua dolce metà mentreWashington dormiva?

I venezuelani consci della propria sovranità dovrebbe-ro irritarsi per essere stati posti sotto la supervisionecinese - in particolar modo per ciò che concerne ele-menti essenziali quali l’energia, gli approvvigionamen-ti alimentari e le finanze. In ogni caso, i Chávistashanno poca scelta se non quella di accettare tale inter-ferenza da un partner con grosse disponibilità di dena-ro e desideroso di mettere al sicuro i propri investimen-ti. Chavez iniziò questo rapporto con la Rpc un decen-nio fa con l’intenzione di allentare la morsa delleimprese e degli investitori statunitensi e liberare ilPdvsa della ridda di tecnocrati che si frapponevano aldesiderio del presidente di porre sotto il proprio totale

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controllo il settore petrolifero del paese. Non avrebbepotuto immaginare allora che si sarebbe trovato in con-dizioni economiche talmente deplorevoli da esserecostretto ad ipotecare la ricchezza petrolifera del pro-prio paese e svendere la propria sovranità ed il propriofuturo al miglior offerente. Peggio ancora, invece chemettere gli Stati Uniti, come si suol dire, con le spalleal muro, ha consentito ai cinesi di trarre vantaggio dalladebolezza relativa di Chávez nel dettare accordi petro-liferi per lui vantaggiosi. Chávez ha sostituito i premu-rosi investitori occidentali e i partner del libero merca-to con i più spietati pianificatori centralizzati delmondo. Negli imperiosi cinesi, Chávez potrebbe avertrovato la propria dolce metà. Per troppi anni i policy-makers statunitensi hanno etichettato Chávez come unpeso piuma, sostenendo che tutto ciò che gli Stati Unitidovessero fare fosse tenersi alla larga dai suoi colpibassi facendo in modo che egli si logorasse da solo. Macon l’aiuto di potenze ostili di rilevanza mondiale,Chávez sta salendo di categoria.

L’ultima giustificazione logica per l’inazio-ne è che l’opposizione interna stia aumentando il pro-prio consenso a spese del presidente. Chávez, tuttavia,proprio come il resto della masnada autoritaria con cuiè solito accompagnarsi, gode di un sufficiente control-lo interno da non essere condizionato dal flusso e riflus-so del sostegno politico. Non farà altro che marginaliz-zare l’assemblea nel caso in cui non dovesse registrareun sostegno considerevole in tale assise, così come fecequando nel 2008 perse amministrazioni locali e regio-nali a vantaggio dell’opposizione nel 2008. In aggiun-ta, i partner globali di Chávez non hanno bisogno cheegli sia popolare; chiedono semplicemente che eglimantenga il potere con ogni mezzo necessario. I diplo-matici statunitensi che attendono che Chávez si autoe-scluda devono essere ciechi per non cogliere l’ampia eprofonda relazione che il suo regime ha forgiato congoverni opulenti ed astuti - non solo la Cina, ma ancheCuba, Iran e Russia - i quali pongono una minaccia col-lettiva ai nostri interessi e consentiranno di mantenereChávez sotto controllo. Anche se queste potenze rivali

hanno inviato delegazioni di alto livello a Caracas persiglare accordi nuovi di zecca con Cáhvez, Washingtoncontinua ad ignorare, fraintendere, o minimizzare laminaccia che sta prendendo forma sotto il suo naso. Sei diplomatici statunitensi dovessero mai decidersi aconfrontarsi con Chávez e la sua cerchia di amici,avranno bisogno di essere saggiamente consigliati daLas Vegas: quando ti siedi ad un tavolo di poker in cuila posta è alta e non puoi concedere nulla, sta tutto allatua abilità. La scorsa settimana, il presidente venezue-lano Hugo Chávez ha ammesso che il suo governo sta«portando avanti studi preliminari» per un programmanucleare. Egli ha tentato di dipingerlo come un innocuoprogramma pensato esclusivamente per scopi pacifici.Il 21 settembre, ho tenuto un briefing per giornalisti edesperti regionali in cui ho rivelato per la prima voltainformazioni riguardo il programma nucleare diChávez e la sua preoccupante e sostanziale collabora-zione con l’Iran. Tale ricerca - condotta durante gliscorsi 12 mesi da un gruppo di esperti che hanno ana-lizzato materiali sensibili ottenuti da fonti all’internodel regime venezuelano - dipingono un quadro ben piùnegativo delle stesse intenzioni di Chávez. Che svilup-pa il programma da due anni con la collaborazionedell’Iran, uno stato canaglia dotato del nucleare. Oltre amostrare la cooperazione dei due stati sul fronte dellaricerca nucleare, tali documenti suggeriscono che ilVenezuela stia fornendo aiuto l’Iran per ottenere uranioed eludere così le sanzioni internazionali, tutte mosseche costituiscono violazioni apparenti delle risoluzionidel Consiglio di Sicurezza Onu intese a prevenire l’ille-gale programma iraniano di costruzione di armamentinucleari. Ogni paese ha il diritto di un programma paci-fico per l’energia nucleare sotto gli auspici del Trattatodi Non-Proliferazione, di cui il Venezuela è firmatario.Ciononostante, la decisione di Chávez di affidarsi aduno dei maggiori proliferatori del mondo per avereaiuto nello sviluppo delle capacità del proprio paese intale sensibile tecnologia deve far suonare la sveglia. Ele sue recenti dichiarazioni pubbliche in cui si com-prende la natura del suo programma nucleare solleva-no più interrogativi che risposte.

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ed economico mondiale. E sono stati in primo luogo ipaesi asiatici, con la loro crescita, a restaurare la fiduciadi consumatori, imprese e mercati finanziari, riattivandoconsumi e investimenti. Gli effetti della crisi si sono fattisentire anche in America latina, ma il terremoto finan-ziario è arrivato dopo un periodo di sviluppo, con pro-gressiva riduzione del debito estero, accumulazione diriserve, buon andamento delle entrate fiscali e, soprat-tutto, un miglioramento della situazione patrimonialedel sistema bancario. La regione si trovava quindi nellacondizione migliore per far fronte all’emergenza, che èdurata poco più di un semestre. Nel complesso, il Pil dell’America meridionale nel2009 ha registrato una caduta dello 0,2%. Il mercato sta-tunitense si è andato chiudendo e si sono ridotti gli inve-stimenti esteri e il credito internazionale. Già nel secon-do semestre 2009, tuttavia, quasi tutti i paesi sudameri-cani avevano ripreso la strada di una crescita vigorosa,che la Commissione Economica per l’America Latina ei Caraibi delle Nazioni Unite (Cepal) stima raggiungereun più 5,9% a fine 2010, in linea con le previsioni delFmi (più 6,3%) e della Banca Mondiale (tra 5,5% e 6%per l’intera regione latinoamericana). L’espansione del

prodotto regionale è trainata da Brasile, Argentina, Perùe Uruguay, con tassi tra il 7 e l’8%. La ripresa va attribuita sostanzialmente a due ordini difattori. Sul piano esterno, il carburante della crescitasudamericana si chiama Asia. La Cina non ha maismesso di correre, anche durante i mesi peggiori dellacrisi, trainando le esportazioni dei prodotti sudamerica-ni e mantenendone elevato il prezzo. Recentemente laCorporación de Fomento de la Producción del Cile hareso note le previsioni di investimenti esteri nel settoredell’estrazione di materie prime nella regione: 150miliardi di dollari in cinque anni, due terzi dei qualidiretti in Brasile e Cile, in buona misura provenienti daipaesi asiatici. Sul piano interno, un quinquennio di soli-da crescita economica aveva permesso di mettere daparte le risorse da utilizzare proprio nei momenti di dif-ficoltà. Quando c’è stato bisogno, i governi hanno adot-tato politiche di natura fiscale e monetaria che si sonorivelate efficaci. La riduzione di alcune accise sulla ven-dita di automobili, ad esempio, ha permesso al Brasiledi rilanciare le vendite già nei primi mesi del 2009, dopoil calo di registrato nel quarto trimestre 2008. A fiancodella riduzione d’imposta sui beni di consumo durevo-

MERCOSUR, CAN E ALBA: ECONOMIA E SFIDA APERTA CON UE ED USA

NON SOLO GUERRA DI VALUTEDI RICCARDO GEFTER WONDRICH

elle parole del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, la crisi eco-nomica del 2008-2009 è stata provocata da uomini «dalla pelle bianca egli occhi azzurri». È solo una battuta, ma coglie un fatto importante: perla prima volta dal 1929 una crisi di grande portata non è stata generata inaree emergenti del pianeta, bensì nel cuore stesso del sistema finanziario

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le, si sono abbassati i tassi di interesse, mantenuti i pianidi investimento del settore pubblico e favorito l’espan-sione del credito privato (il Tesoro brasiliano ha capita-lizzato la Banca Nazionale dello Sviluppo Economico eSociale –Bndes - con più di 110 miliardi di dollari dainizio 2009, proprio per sostenere gli incentivi per il set-tore privato). Queste azioni si sono innestate nel secon-do semestre 2009 in un contesto di normalizzazione deimercati finanziari, maggiore accesso al credito e recupe-ro delle esportazioni. Oggi l’America meridionale stavivendo quindi una congiuntura economica favorevole,ma all’orizzonte permangono elementi di incertezza,che suggeriscono di rivedere al ribasso le prospettive dicrescita per il 2011.

I principali blocchi commerciali sudamericanisono il Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay eUruguay, con il Venezuela in attesa della ratifica daparte del Congresso paraguayano per entrare comemembro pieno) e la Comunità Andina (Can, compostada Colombia, Bolivia, Ecuador, Perù). Altre iniziativeambiziose d’integrazione commerciale di portata emi-sferica -l’Area di Libero Commercio delle Americhepromossa durante la presidenza Clinton - o regionale -il progetto di un’area di libero scambio sudamericanalanciato nel 2005- sono state abbandonate a causa delledivergenze tra i vari paesi. La crisi economica delVenezuela dal canto suo sta facendo perdere rilevanza alprogetto dell’Alleanza Bolivariana per i Popoli dellaNostra America –Alba - e al suo braccio economico, ilTrattato del Commercio dei Popoli. Nel caso del Mercosur, gli ultimi mesi hanno fatto regi-strare alcuni fatti importanti. Durante il vertice del 2agosto scorso a San Juan, in Argentina, i quattro paesidel blocco hanno raggiunto un accordo su diversi dos-sier concernenti il perfezionamento dell’unione dogana-le: l’eliminazione della doppia riscossione del dazioesterno comune, l’instaurazione di un meccanismo perla distribuzione delle entrate doganali e l’adozione di uncodice doganale comune. Si tratta di passi avanti nel dif-ficoltoso cammino dell’integrazione, che si aggiungonoai progressi nella liberalizzazione dei servizi, al fondo di

convergenza strutturale del Mercosur (Focem) e alfondo di garanzia per le Pmi. Un ultimo settore dove sisono registrati progressi è quello del sistema di paga-mento in moneta locale per le operazioni di commerciobilaterale, per ridurre i costi delle transazioni associatiall’intermediazione del dollaro. Dal punto di vista esterno, l’elemento più rilevante è laripresa dei negoziati per un Accordo di Associazionecon l’Unione Europea, sospesi dal 2004. La trattativa èmolto più complessa di quelle che hanno portato la Uea firmare accordi similari con Messico, Cile, il MercatoComune Centroamericano e, più recentemente, conPerù e Colombia. Le divergenze in materia di liberaliz-zazioni commerciali nel settore agricolo - dal Mercosuralla Ue - e industriale - dalla Ue al Mercosur - sono pro-fonde, come è emerso durante i negoziati del DohaRound dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.Metà delle importazioni europee dall’America latina eCaraibi provengono dai paesi Mercosur, così come il20% del totale delle importazioni agricole comunitarie.Un accordo Ue-Mercosur permetterebbe all’Europa dicompensare parte dei vantaggi di costo delle merci cine-si nel mercato brasiliano.Oltre all’Unione Europea, il Mercosur ha sottoscritto unaccordo di libero scambio con l’Egitto e con Israele (inquesto caso senza l’Argentina), ha annunciato la prossi-ma firma di un accordo con l’India, mentre è in proces-so di ratifica dell’Accordo di Preferenze Commercialicon l’Unione Doganale dell’Africa Meridionale (SudAfrica, Botswana, Lesotho, Namibia, Swaziland).Dietro l’apertura di relazioni commerciali con i paesiafricani e asiatici vi è la spinta del Brasile, sempre piùproiettato a promuovere i rapporti commerciali e gliinvestimenti cosiddetti Sud-Sud. Di grande importanza nell’ambito dei processi di inte-grazione economica latinoamericana è l’avvicinamentotra Brasile e Messico a partire dall’agosto 2009, quandoi presidenti Lula e Calderón hanno deciso di lavorare aun accordo strategico di integrazione economica cheincluda temi doganali e barriere non tariffarie, servizi,investimenti, commesse pubbliche, proprietà intellet-tuale, interscambio di tecnologia. Un accordo in tal

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senso avrebbe un effetto di portata regionale. Insieme,Brasile e Messico rappresentano il 53% della popola-zione, il 57% del Pil e il 54% delle esportazionidell’America latina. Tuttavia, oggi il commercio bilate-rale tra i due giganti è appena nell’ordine del 2%. Dietroil progetto di accordo d’integrazione commerciale sicoglie la necessità da parte messicana di ridurre ladipendenza dal mercato Usa (81% delle esportazionihanno come destinazione il vicino settentrionale), e l’in-teresse del Brasile di avvicinarsi al mercato statuniten-se. Resta da vedere quali potranno essere le conseguen-ze di un accordo Brasile-Messico sugli equilibri internidel Mercosur. Per quanto riguarda il secondo blocco commerciale, laComunità Andina, gli aspetti di natura commercialesono andati intrecciandosi con altri di carattere più emi-nentemente politico. L’uscita del Venezuela dal blocconel 2006 ha impoverito quest’area di libero scambio. Ladecisione unilaterale di Colombia e Perù di negoziareaccordi commerciali con gli Stati Uniti (e più recente-mente con l’Unione Europea) ha provocato le reazioni

negative di Bolivia ed Ecuador, politicamente allineaticon il Venezuela. Questioni relative alla sicurezza e alcontrasto ai gruppi armati irregolari colombiani inse-diati in Ecuador e Venezuela hanno generato frizionidiplomatiche gravi con la Colombia, con conseguenzesui rapporti commerciali ed economici che si sonoandate normalizzando solo con il cambio di governo traÁlvaro Uribe e Juan Manuel Santos in Colombia loscorso agosto. L’accordo Colombia - Stati Uniti è statosottoscritto nel novembre 2006, ma non è ancora statoratificato dal Congresso americano, che giustifica taleritardo con la mancanza di miglioramenti sul frontedella protezione dei diritti del lavoro in Colombia. Finoad ora l’Amministrazione Obama non ha dato prova didare grande priorità all’integrazione commerciale con ipaesi sudamericani. È in questo contesto di luci ed ombre nei rapporti conUsa ed Europa che si fa largo la Cina, che già nel 2013-2014 potrebbe scalzare l’Unione Europea quale secon-do partner commerciale dell’America latina. Il pesopercentuale delle esportazioni latinoamericane verso laCina è destinato a triplicare dagli attuali 7,6% al 19,3%nel 2020, mentre le importazioni dovrebbero passaredal 9,5% al 16,2% (stime Cepal). L’importanza crescen-te dell’Asia come socio commerciale ha spinto varipaesi latinoamericani a sviluppare vincoli commercialipreferenziali, non solo con la Cina ma anche con Corea,Tailandia, Malesia, Singapore, Vietnam e Giappone.

Il buon andamento delle economie dei paesi suda-mericani è attribuibile quindi alla crescita dei consumiinterni - con l’aumento del potere d’acquisto della popo-lazione anche grazie ad efficaci politiche di inclusionesociale - e alla forte domanda esterna proveniente daimercati asiatici. Proprio da questi due fronti provengonoperò anche le principali sfide future. Sul fronte interno,la crescita della produzione degli ultimi anni è stata pos-sibile grazie all’utilizzo ottimale della capacità installata.Oggi però per continuare a crescere sono necessariingenti investimenti per ampliare la capacità produttivae le reti di infrastrutture fisiche. La logistica rappresentail principale freno allo sviluppo del settore agricolo in

I principali blocchi commerciali sudamericanisono il Mercosur (Brasile,Argentina, Paraguay e Uruguay, con il Venezuelain attesa della ratifica) e la Comunità Andina (Can,composta da Colombia,Bolivia, Ecuador, Perù).L’integrazione commercialedi portata emisferica, l’Areadi Libero Commercio delle Americhe, o regionale (Alba), sono state abbandonate

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Brasile e altrove. Senza un adeguamento delle infrastrut-ture portuali, aeroportuali e delle vie di comunicazioneterrestri la produzione rischia di non riuscire a soddisfa-re la domanda interna e internazionale, con possibiliconseguenze anche sul fronte dell’inflazione.

Vari paesi hanno iniziato a eliminare gradual-mente i pacchetti di stimoli, alzando i tassi d’interesse.Lo spread rispetto alle economie industrializzate accre-sce l’afflusso di capitali speculativi, che si ripercuote poisull’apprezzamento del tasso di cambio. Il rafforzamen-to del real brasiliano nei confronti del dollaro ha portatoil ministro dell’economia brasiliano Guido Mantega aparlare di una “guerra delle valute” che penalizza lacompetitività delle esportazioni nazionali. Per ridurrequeste pressioni, il governo brasiliano ha raddoppiato latassa sui capitali finanziari esteri in entrata, portandoladal 2 al 4% (da questo aumento sono esenti gliInvestimenti Diretti Esteri e le operazioni di borsa,necessarie tra l’altro per la recente ricapitalizzazione da70 miliardi di dollari della società petrolifera Petrobras).Altri governi hanno adottato politiche di restrizione deimovimenti di capitali per ampliare il margine di mano-vra della politica monetaria. Nel gennaio 2010 ilVenezuela ha introdotto due tassi di cambio diversi perle importazioni prioritarie -alcuni alimenti, medicine ealtri materiali medici- a 2,6 bolivares forti per dollaro eper quelle comuni, a 4,3 bolivares per dollaro. Dal giu-gno 2010, poi, la Banca Centrale venezuelana ha centra-lizzato l’acquisto di divise estere attraverso un nuovosistema di Transazioni di Titoli di Moneta Straniera.Questa misura, destinata in linea di principio a favorirela sostituzione delle importazioni con le produzionilocali, è destinata a penalizzare le esportazioni di paesiquali Argentina e Cile. Oggi il Venezuela è l’unico paesesudamericano in crescita negativa, meno 3,3% a fine2010 nelle previsioni della CEPAL.Sul fronte esterno, la grande sfida è aggregare valorealle esportazioni e integrarsi sempre più con il mercatoasiatico. È questo l’obiettivo principale dei paesi che siaffacciano sull’Oceano Pacifico. Il ritmo di crescitadella Cina e il valore del yuan sono le variabili che più

interessano il commercio estero dell’America meridio-nale. In dieci anni i paesi sudamericani hanno aumenta-to le esportazioni di materie prime, che oggi rappresen-tano il 40% del totale, a discapito di prodotti manifattu-rieri a maggior contenuto tecnologico. Dal 2000 al 2009la quota di esportazioni latinoamericane dirette verso gliStati Uniti è scesa dal 60% al 40% del totale, quelleverso l’Unione Europea si sono mantenute su livelli del13%, mentre l’asse Sud-Sud acquista sempre maggioreimportanza. La Cina è il principale mercato esterno perBrasile e Cile, e il secondo più importante per Argentinae Perù. Durante la crisi recente, le esportazioni latinoa-mericane sono cadute complessivamente del 27%, maquelle verso la Cina sono aumentate dell’8%, principal-mente grazie alle commodities brasiliane. I margini dicrescita nei mercati emergenti dell’Asia e delle altrearee in via di sviluppo sono grandi, ma per dare vita adassociazioni commerciali e investimenti di lungo perio-do è necessario andare oltre agli accordi di libero scam-bio e cercare di costruire catene di valore comuni conmaggior contenuto tecnologico, investimenti reciproci elivelli simili di produttività, coinvolgendo le piccole emedie imprese nei flussi delle esportazioni. Altrimenti,si corre il rischio di riprodurre una dinamica centro-peri-feria nell’ambito del commercio Sud-Sud, che relega ipaesi latinoamericani a meri fornitori di materie prime eprodotti sub-lavorati. In generale, ancora molta strada deve essere fatta perconsolidare il trend positivo delle economie sudameri-cane. Tutti questi fattori portano la Cepal a prevedereuna diminuzione del ritmo di crescita complessivo afine 2011 a un più 4,3%, con le migliori performance daparte del Cile grazie agli effetti delle politiche di rico-struzione post-terremoto (più 6%), seguito da Perù,Brasile e Argentina con un più 4,5%. Per trasformare lacrescita attuale in sviluppo sostenibile nel futuro c’èbisogno di aumentare gli investimenti pubblici e priva-ti, accrescere la competitività e diversificare la matriceproduttiva. Per questo, sarà necessario mantenere inessere politiche fiscali capaci di garantire ai governi lerisorse per adottare programmi di inclusione sociale eprogressiva incorporazione di capitale fisico e umano.

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milioni con passaporto italiano). sono sicuramentealla base di questa attenzione. Esse rappresentano,oltre che una presenza viva e una testimonianzadella nostra cultura nella sua accezione più ampia,una grande risorsa strategica per il paese. Ma adesse si aggiungono anche valutazioni di ordinepolitico ed economico, in considerazione di even-ti rilevanti come il consolidamento delle istituzio-ni democratiche, l’apertura economica, l’avvio deiprocessi d’integrazione regionale e il livello dipartecipazione ai programmi degli organismiinternazionali. In tale ottica va citato anche il ruolodell’Unione Europea con l’istituzionalizzazionedei vertici dei Capi di Stato e di Governo e la pro-spettiva forte di una maggiore cooperazione tra ledue aree regionali, in grado di abbracciare il “dia-logo politico” e la collaborazione negli organismiinternazionali come le Nazioni Unite, accordi diliberalizzazione commerciale e libero scambio eaccordi di cooperazione allo sviluppo, culturale etecnologico.Tornando all’Italia, il nostro paese ha da tempo sta-bilito una fitta rete di rapporti di solidarietà e proget-ti di cooperazione decentrata, attraverso l’azione di

Organizzazioni non governative, istituzioni regiona-li e locali, università, imprese, forze sociali. Sulpiano bilaterale, l’Italia si è attenuta versol’America Latina ad una strategia di “diplomaziapreventiva”, aiutando i paesi in difficoltà con lostrumento dei trust fund ad organismi multilaterali(come Banca Mondiale e Banca InterAmericana diSviluppo), orientati a rilanciare la crescita attraver-so il sostegno al sistema delle piccole e medieimprese e, per i paesi più poveri, con la conversionedel debito in progetti di sviluppo e con gli aiuti dellanostra cooperazione.In generale, sono circa duemila le aziende italianepresenti in America latina, di cui quasi 400 lombar-de (con il 33,2% di partecipazioni), per un fatturatototale di oltre sei miliardi di euro. Anche in tempi dicrisi, il rapporto di interscambio tra Italia e AmericaLatina è cresciuto di quasi il 2% all’anno, vale a direpiù di tre miliardi euro. Per quanto riguarda leimportazioni dell’Italia (i dati comprendono anche ilCentro America), queste sono state nel 2006 pari a9.396 milioni di euro, 10.612 milioni nel 2007 e10.788 milioni nel 2008, con un ruolo preponderan-te giocato dal Brasile e dal Cile. In questi tre anni,

FIAT, IMPREGILO ED ENEL (MA ANCHE BENETTON, ACEA E LOTTOMATICA) SI “CONTENDONO” L’IMPORT-EXPORT

LA PROMESSA DEL MADE IN ITALYDI ANDREA MARGELLETTI

l Sudamerica è un’area tradizionalmente importante per l’Italia ed il nostro paeseè da sempre sensibile agli sviluppi nell’area latino-americana. Quello con l’AmericaLatina è, infatti, un vincolo formatosi nella storia e lungo il succedersi di più gene-razioni. Le affinità storiche e culturali, sedimentate dalla presenza di importanticomunità di origine italiana, oggi valutate in quasi 20 milioni di persone (di cui 2

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l’incidenza percentuale del Brasile è stata pari al35,6% mentre quella cilena al 20,1%. A seguire poil’Argentina, con la terza quota più rilevante(12,7%), il Perù, il Messico e il Venezuela.Riguardo ai settori, le materie prime hanno avutoun ruolo di particolare rilievo. I “metalli e prodottiin metallo” hanno rappresentato una quota del28,2%, seguiti dal comparto “agricoltura, caccia epesca” e “alimentari, bevande e tabacchi” (circa il17% delle importazioni italiane) mentre il settoredei prodotti estrattivi ha raggiunto il 13%.Le esportazioni dell’Italia verso l’area sono statenel 2006 pari a 9.883 milioni di euro, 11.993 milio-ni nel 2007 e 12.194 milioni nel 2008. I paesi desti-natari delle quote più rilevanti di export italianosono state il Brasile (27,5% della quota italiana) eil Messico (23,2% della quota italiana). Alla forma-zione del totale dell’export italiano verso questipaesi, la Lombardia ha contribuito per il 26,2%, dicui ben il 53,6% per la sola provincia di Milano, laquale incide sul totale nazionale per il 14%. A fareda traino nelle esportazioni sono state le “macchi-ne ed apparecchi meccanici” (33,3% dell’exportitaliano), cui seguono i “mezzi di trasporto” (20,9%dell’export) quindi i “metalli e prodotti in metallo”(9,6%). Con un paese del Sudamerica, ovvero ilBrasile, l’Italia ha inoltre un vero e proprio partena-riato strategico dopo la firma, avvenuta il 12 aprilescorso a Washington, del Piano d’Azione di parte-nariato strategico tra Italia e Brasile. Il Pianod’Azione, che si struttura in 16 capitoli, costituisceun quadro strategico per un rilancio complessivodei rapporti bilaterali, ma offre allo stesso tempospunto per specifici seguiti operativi di rilievo indiverse aree, tra le quali l’interscambio commercia-le e gli investimenti. l’Accordo potrà infatti rappre-sentare la premessa per l’inserimento privilegiatodelle nostre aziende nelle grandi iniziative offertedal Brasile nei prossimi anni (campionati delMondo di calcio del 2014, giochi olimpici del 2016,ampliamento delle reti infrastrutturali, sfruttamentodegli idrocarburi del cosiddetto “pre-sal”), per le

quali si prevedono opere e forniture per diversedecine di miliardi di euro. In generale, il partnera-riato tra i due paesi mira a regolarizzare e istituzio-nalizzare il dialogo politico con una cadenza coinci-dente con le riunioni del Consiglio di Cooperazioneeconomica, commerciale, finanziaria e per lo svi-luppo ed a creare un rapporto privilegiato nei setto-ri infrastrutturale, delle telecomunicazioni, del-l’energia e della difesa. In tale ambito va menziona-to anche il rilancio il rilancio della collaborazionenel settore culturale ed universitario, sia in vistadella preparazione dell’anno italiano in Brasile, cheavrà inizio nel 2011, sia tramite la creazione di unarete di collaborazione tra istituzioni accademiche. La crisi economica ha avuto un impatto diverso inAmerica Latina. Le maggiori economie dell’area,Brasile, Cile e Colombia, hanno subito degli effettitutto sommato limitati tra il 2008 ed il 2009, e giàquest’anno si sono registrati evidenti segni di ripre-

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La parte più importante dei rapporti economici tra Italia e America Latina è giocata dal Brasile. Con una popolazione di oltre 180 milioni di cui circa 30 milioni di persone con redditoequiparabile a quello europeo, il mercato brasiliano presenta fortipropensioni al consumo e alla ricerca di prodottinella fascia alta del mercato,dove il design è un elemento fondamentale

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sa e sviluppo. Consumi (e classe media) in crescita,ingenti investimenti nei settori strategici (energia einfrastrutture) e continuo afflusso di investimentiesteri sono stati i principali fattori di spinta per lacrescita del Brasile. Il Cile, grazie alle politiche distimolo prontamente adottate, ha superato sia lacrisi globale sia gli effetti del terremoto di febbraioe quest’’anno è tornato a crescere grazie a investi-menti pubblici, ma anche ad un settore privato dina-mico. La Colombia, pur presentando criticità dalpunto di vista operativo ed a causa di una strutturaproduttiva ancora poco diversificata, ha visto unadomanda interna in ripresa, sostenuta principalmen-te dall’intervento pubblico dedicato alle grandiopere. Molto diversa invece è la situazione e dell’al-tra metà dell’America Latina. Venezuela, Bolivia,Ecuador e Nicaragua condividono sistemi politici lecui scelte di orientamento populista hanno determi-nato una progressiva debolezza economica e uncontesto operativo difficile. Trattandosi di mercatichiusi, scarsamente diversificati e considerati pocoappetibili dagli investitori esteri, la ripresa (e lasostenibilità delle politiche adottate) non c’è stata,anche perché questa è legata strettamente all’anda-mento del prezzo degli idrocarburi, con tutta l’insta-bilità che ne deriva.

La parte più importante dei rapporti econo-mici tra Italia e America Latina è giocata dalBrasile. Il Brasile è da sempre il principale partnercommerciale dell’Italia nell’area latino americana.Con una popolazione di oltre 180 milioni di cuicirca 30 milioni di persone con reddito equiparabilea quello europeo, il mercato brasiliano presenta fortipropensioni al consumo e alla ricerca di prodottinella fascia alta del mercato, dove il design è un ele-mento importante. Italia e Brasile presentano siste-mi economici in buona parte compatibili e le rela-zioni economiche sono consolidate nel tempo ed incostante crescita. I due paesi, nel 2008, hanno regi-strato un interscambio commerciale di 9,37 miliardidi dollari. Sebbene l’interscambio complessivo si

sia contratto nel 2009, in conseguenza della crisieconomica mondiale, l’Italia è divenuta nell’annol’ottavo principale fornitore del Brasile, con unapartecipazione di circa il 3% al totale delle importa-zioni, ed il decimo principale cliente, con una quotadel 2,2% del totale dell’export brasiliano. Nel 2009,le esportazioni italiane verso il paese sono diminui-te del 20% rispetto all’anno precedente, attestando-si a 2,6 miliardi di euro. Nel 2009 le importazionihanno perso quasi il 40% rispetto al 2008 e sonorisultate pari a 2,4 miliardi di euro. Quest’annohanno però ha già fatto registrare un significativomiglioramento. Per quanto riguarda gli investimen-ti diretti esteri, l’Italia è presente tra i principaliinvestitori nel paese, e al momento vi sono oltre 500imprese in Brasile controllate da aziende italiane, lametà delle quali attive nel settore manifatturiero. Perquanto riguarda gli investimenti diretti esteri, l’Italiasi è collocata nel 2008 al dodicesimo posto nellagraduatoria dei paesi investitori in Brasile, con326,27 milioni di dollari. Il Brasile invece nel 2007ha investito in Italia 79 milioni di dollari.L’export riguarda principalmente prodotti dellameccanica strumentale, autoveicoli ed elettronica edelettrotecnica (mezzi di automazione, macchineutensili, componentistica auto, oli per la produzionepetrolifera e prodotti farmaceutici), mentre inizianoa registrarsi importazioni del “Made in Italy” piùclassico, come la moda ed altri prodotti ad alto valo-re aggiunto. L’import di prodotti brasiliani in Italiaè principalmente basato sui minerali di ferro, oliogrezzo ricavato dal petrolio, acciaio, caffè, soia, pel-lami, zucchero di canna, e prodotti della carne nellesue varie elaborazioni industriali. Molte aziende ita-liane di grande e medio livello sono ormai radicatenel paese, tanto da essere identificate come brasilia-ne e non più straniere, come Fiat, Pirelli, Ferrero eTelecom Italia Mobile.I due paesi cooperano inoltre nei forum economicimultilaterali nei quali il Brasile costituisce una vocedi sempre maggior peso, come ad esempio all’inter-no del Wto, di cui è membro dal 1995. Il Brasile è

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oggi infatti la decima economia mondiale e la primadell’America Latina, con oltre il 40% dell’interaricchezza del continente prodotta sul suo territorio.Il Brasile, in qualità di importante economia emer-gente, è membro del G5 (insieme a Cina, India,Sudafrica e Messico) e ha mantenuto nel 2009 unaconsultazione particolarmente intensa con laPresidenza italiana del G8, simbolo di intesa politi-ca fra i due Stati e soprattutto della volontà italianadi giocare un ruolo sempre maggiore nel cuoredell’America Latina.Per quanto riguarda le aziende italiane attive inBrasile, particolare menzione merita la presenza diFiat che rappresenta uno dei maggiori gruppi indu-striali del Paese sia come fatturato, sia come presen-za industriale e di ricerca. Il fatturato netto si è man-tenuto negli ultimi anni sui 6 miliardi di euro el’azienda ha in tutto il Brasile 18 stabilimenti e ottocentri di ricerca, con circa 30mila dipendenti. LaFiat è presente nei settori strategicamente piùimportanti del Brasile: automobili, trattori, macchi-ne movimento terra, veicoli industriali e componen-ti. Su 4 vetture vendute, una è Fiat, così come suquattro trattori venduti uno è della azienda italiana,mentre per ciò che concerne le macchine movimen-to terra, su 2,5, una è Fiat. Per quanto riguarda i rap-porti dell’Italia con l’Argentina, questi sono tradi-zionalmente eccellenti, nonostante la crisi del debi-to sia risultata penalizzante per circa 400milarisparmiatori italiani che avevano a suo tempo sot-toscritto obbligazioni dello Stato argentino. Il dura-turo e proficuo scambio tra i due paesi è stato sicu-ramente favorito ed incrementato anche da motiva-zioni sociali (l’affinità nello stile di vita, nei valoriculturali e nelle abitudini commerciali) che, nelcorso del tempo, hanno accresciuto e rafforzato lapresenza italiana in Argentina. La composizionemerceologica dell’interscambio bilaterale eviden-zia come il nostro Paese tradizionalmente esportiprincipalmente macchinari industriali, prodotti chi-mici e manufatti metallici ed importi prodotti ali-mentari e altri prodotti di derivazione animale, pelli

grezze o manufatti in pelle. Un’analisi per grandicomparti merceologici indica negli ultimi anniaumenti significativi degli acquisti argentini di benicapitali e di parti e componenti per macchine indu-striali. L’export italiano nel 2009 è stato pari a 890milioni di euro circa, leggermente in aumentorispetto all’anno precedente. I settori principali sonostati la meccanica strumentale (32% del totale), pro-dotti chimici e fibre (15%) e autoveicoli (15%). Frale altre voci del nostro export si annoverano prodot-ti tessili 7%, elettronica ed elettrotecnica 10%,metallurgia e prodotti in metallo 14%. Le importa-zioni dall’Argentina ammontano invece a 1,3miliardi di euro, in crescita rispetto al dato del 2008,e sono costituite principalmente da beni agroali-mentari. A luglio 2010 l’export italiano ha registra-to un calo dello 0,6% su giugno e un aumento del12,2% su base annua secondo l’Istat. Le importa-zioni sono scese dell’ 1,6% rispetto a giugno, masono in aumento del 21% su luglio 2009. A livellodunque si conferma una sostenuta crescita perexport e import, mentre le esportazioni crescono alivelli inferiori rispetto a giugno (+22,8%) per viadel rallentamento della crisi globale. Un altro paeseimportante per l’Italia è la Colombia.L’interscambio commerciale tra Italia e Colombia si

Molto diversa invece è la situazione dell’altrametà dell’America Latina.Venezuela, Bolivia, Ecuadore Nicaragua condividonosistemi politici le cui sceltedi orientamento populistahanno determinato una progressiva debolezzaeconomica e un contestooperativo difficile

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Thales Alenia Space un grande architetto nella realizzazione della costellazione europea

Sistema Galileo: ovvero un sistema alternativo e moderno di navigazione satellitare

Né russo né statunitense, ma un sistemacompletamente tutto europeo. A rompere ildominio geopolitico consueto tra le duegrandi potenze è in arrivo il sistema di navi-gazione satellitare europeo Galileo. Il pro-gramma di posizionamento via satellitevoluto dalla Commissione europea e svilup-pato dalla Agenzia Spaziale Europea si frap-porrà al Gps americano (protagonista asso-luto nel settore) da una parte e a quello erusso GLONASS dall’altra. Quando i satel-liti della futura costellazione di Galileosaranno in orbita, ci guiderannoà e localiz-zerannoà mezzi di ogni tipo, automobili,aerei e navi etc, con precisione e puntualitàcome mai accaduto finora.

*****Galileo non è solo un sistema di navigazio-ne, ma molto di più. Il programma rappre-senta uno dei più grandi e ambiziosi proget-ti di navigazione satellitare che permetteràall’Europa di mettere incampo innumerevoliapplicazioni derivantidalle nuove tecnologiespaziali capaci di fareacquisire al nostro con-tinente una posizioneleader nei mercati mon-diali. L’Europa, così,acquisirà un propriosistema di navigazioneindipendente e soprat-tutto “‘civile”’ in gradodi soddisfare un’ampiagamma di settori diattività che va dai tra-sporti (aerei, ferroviari,stradali, marittimi), alletelecomunicazioni (servizi di geo-locazione) fino alla sicurezza.

*****Galileo per il nostro vecchio con-tinente rappresenta, pertanto,una grande sfida industriale edeconomica. Una competizioneche vede il ruolo centrale diThales Alenia Space, nell’ambitodello sviluppo dei 30 satelliti dellacostellazione.

*****Oggi negli stabilimentiitaliani, in particolare nel-lo stabilimento di Roma,Thales Alenia Space, lajoint venture di Thales eFinmeccanica, sta ese-guendo l’assemblaggio,l’integrazione e i test deiprimi 4 satelliti IOV (In

Orbit Validation) dellacostellazione. Semprenell’ambito di questafase IOV Thales AleniaSpace è anche responsa-bile, per la parte di terra,della progettazione e svi-luppo del Segmento diControllo di Missione edei maggiori sottosiste-mi del SegmentoSpaziale.

*****In attesa dell’arrivo deiprimi quattro satellitioperativi, il sistema hamosso i primi passi conil lancio di due satellitiprototipi, anche questicon una forte improntaitaliana: GIOVE A e

GIOVE B. I due satelliti sperimentaliGiove (Galileo In Orbit ValidationElement) avevano il compito di dar inizioalla prima fase, quella di testare in orbita letecnologie del sistema. Più in particolare Ilsatellite Giove-B, lanciato con successonell’Aprile 2008 dopo essere stato integra-to e testato negli stabilimenti di ThalesAlenia Space di Roma. Il satellite ha ilcompito di effettuare test importantissimiper la validazione delle tecnologie chesaranno utilizzate sui trenta satelliti insie-me nonché del collaudo del più precisoorologio atomico mai utilizzato nello spa-zio, realizzato anch’esso in Italia, che daràun contributo determinante alle prestazio-ni dell’intero sistema. Thales Alenia Spaceha anche fornito il generatore di segnale dinavigazione e l’antenna di navigazione peril primo satellite di prova, GIOVE-A, lan-ciato il 28 dicembre 2005.Un altro determinante passo è stato messo apunto ad inizio anno e, anche in questocaso la presenza di Thales Alenia Space è diprimo piano. La società si è aggiudicata ilcontratto quadro per le attività diIngegneria di Sistema in supportoall’Agenzia Spaziale Europea ESA nella faseFOC, che copre il periodo 2010- 2016. Leattività pianificate riguardano il periodo dal2010 al 2014. Si tratta di uno dei sei con-tratti attraverso i quali Galileo sarà sviluppa-to in modo che sia operativo agli inizi del2014. In questo ambito Thales Alenia SpaceItalia sarà responsabile della progettazionedel Sistema, degli aspetti di sicurezza e dellefasi di Integrazione, di Verifica e dellaValidazione in Orbita del sistema.

Prove di termo vuoto su Giove B (CentroIntegrazione Satelliti di Thales Alenia Space Italia).In basso; vista artistica della Costellazione Galileo.Composta da 30 satelliti saràcapace di fornire una copertura globale permanente. In alto; satellitidella costellazione Galileo

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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caratterizza per il saldo strutturalmente negativo peril nostro Paese. L’aumento del nostro deficit com-merciale registrato tra il 2006 ed il 2007 è stato leg-germente riassorbito nel 2008, anno in cui si è assi-stito ad una lieve espansione delle nostre esportazio-ni verso la Colombia, a fronte di importazioni pres-soché stabili.Il volume dell’interscambio tra l’Italia e laColombia, pari a 758 milioni di euro nel 2009, hafatto registrare una contrazione del 19,9% rispetto al2008. Secondo dati Istat, sempre nel 2009 le impor-tazioni italiane dalla Colombia sono diminuite dicirca il 19% rispetto al 2008 (da 544,2 milioni a441,2 milioni di euro). Esse sono rappresentateprincipalmente da prodotti delle miniere e dellecave (carbon fossile e antracite per un valore di ca.186 milioni di euro), in diminuzione rispetto allostesso periodo del 2008 del 23,9%, seguiti dai pro-dotti dell’agricoltura, silvicoltura e della pesca, chesi attestano sui 93,5 milioni di euro e dai prodottidella metallurgia, che superano i 78 milioni di euro.Per quanto riguarda le esportazioni italiane, dopo ilprogressivo incremento registrato nel corso degliultimi anni, nel 2009 queste hanno subito un calodel 21% rispetto al 2008, arrivando a 316 milioni dieuro. I principali settori dell’export sono la mecca-nica strumentale (41%, in forte diminuzione rispet-to al 2008), la metallurgia (16%) e la chimica(8,3%). Le esportazioni italiane, sono composte damacchinari ed apparecchiature, e da prodotti chimi-ci e farmaceutici. Con le importazioni a circa 441milioni di euro nel 2009, la bilancia commerciale ènegativa per l’Italia. Nel primo semestre 2010 leesportazioni nel paese sono ammontate a 183milioni di euro, in aumento del 12,6% rispetto aiprimi sei mesi del 2009.Sotto il profilo degli Investimenti Diretti Esteri(Ide), nel 2009 questi hanno subito una flessione dicirca il 20% rispetto all’anno precedente, raggiun-gendo la cifra di 6,5 miliari di dollari, un valoremolto basso dovuto alle precarie condizioni checondizionano ancora oggi la vita di ampie aree del

paese. Per quanto riguarda gli Ide, dunque, l’Italia siposiziona al 24° posto, mentre in testa ci sono gliStati Uniti (con il 21,7% del totale), Isola AnguillaBritannica (un paradiso fiscale, con l’8,7%) e laSpagna. Le maggiori destinazioni per i flussi degliIde sono i settori minerario e petrolifero. Il gruppoAssicurazioni Generali è il principale investitore ita-liano in Colombia ed è concentrato da tempo sulleassicurazioni private individuali, con una buonaquota di mercato. Una nota di particolare rilievomerita il ritorno della Fiat nel mercato automobili-stico colombiano con 5 punti vendita (3 a Bogotá, 1a Cali e 1 a Medellín). Il 25 marzo scorso ha fatto ilsuo ingresso ufficiale in Colombia anche l’AlfaRomeo. Nel settore dell’energia, la società italianaEnel ha acquisito l’anno scorso la spagnola Endesa,ed ha a sua volta ereditato un’importante partecipa-zione nella maggiore società di energia elettricacolombiana: Codensa.

Nel settore delle grandi opere si ricorda l’ag-giudicazione, lo scorso dicembre, al gruppo ICT IISas, di cui fa parte la nostra Impregilo, del contrattoper la realizzazione delle opere civili del progettoidroelettrico Hidrosogamoso (800 MW) nel diparti-mento di Santander (al centro della Colombia) edelle paratie, comprendente anche la parte elettro-meccanica. Il contratto ammonta a circa 350 milio-ni di euro. I lavori sono iniziati lo scorso gennaio ela loro conclusione é prevista fra circa quattro anni.La commessa si aggiunge ai lavori giá in corso, daparte dell’Impregilo, per l’esecuzione delle operepreliminari (tunnel di deviazione), il cui valoreammonta a circa 55 milioni di euro. Il valore dell’in-tera centrale idroelettrica é stimato in 1,4 miliardi didollari che, oltre al contratto con ICT II, comprendeanche acquisto ed installazione di turbine, trasfor-matori ed altre apparecchiature.Altre imprese italiane stabilmente presenti inColombia sono: Italtel, Impregilo, Acea/Aguazul,Petreven (prospezioni petrolifere), Parmalat,Metecno (prodotti plastici per edilizia),

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Technip/Tipiel (ingegneria petrolifera), Ducati,Aprilia, Piaggio, Zambon (prodotti farmaceutici),Gtech Lottomatica (gestisce il sistema statale di lot-terie), Benetton. Numerose ditte colombiane hannoinoltre assunto la rappresentanza di note marche ita-liane in molti altri settori (arredamento, articoli sani-tari e sportivi, abbigliamento, apparecchiature elet-troniche, sistemi di sicurezza, alimentare, etc.).Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano anche irapporti con il Venezuela. L’interscambio ha regi-strato nel 2009 un ridimensionamento, pur mante-nendo il saldo a nostro favore. Con un valore delleesportazioni italiane pari a 654,7 milioni di euro,l’interscambio Italia-Venezuela si è attestato nel2009 sui 935,1 milioni di Euro, in discesa del 16,3%rispetto al valore registrato nel 2008. L’export italia-no ha raggiunto i 654,7 milioni di euro, in discesadel 13,7%. Nel dettaglio, il settore macchinari, conun valore pari a 400 milioni di euro, si conferma inprima posizione, segnando però una contrazione del

9,7%. Seguono poi il settore prodotti finiti con 74,6milioni di euro (-31,5%) ed i prodotti chimici con60,1 milioni di euro (-21,5%). In diminuzione anchele nostre importazioni dal Venezuela, che con unvalore pari a 280,4 milioni di euro registrano un -21,9%. Le importazioni, al pari di quanto registratonei precedenti anni, sono guidate dal comparto com-bustibili minerali, lubrificanti e prodotti connessicon un valore pari a 279 milioni di euro ed in disce-sa del 21,3% rispetto al valore del 2008. Seguono iprodotti finiti (63,2 milioni di euro, -52%) ed i pro-dotti chimici (17,1 milioni di euro, +18,5%). Simantiene il saldo a nostro favore, con un totale di374,2 milioni di Euro e in discesa, su base annua,del 6,4%. Chiude il quadro dei paesi più importantiil Cile, anche se nel 2009 esportazioni di prodotticileni verso l’Italia sono passate da 3,4 miliardi didollari a 1,3 miliardi, in diminuzione di circa il 60%.Questo dato conferma, accentuato però dalla crisi,un trend discendente delle esportazioni cilene inItalia. Al primo posto del ranking dei prodotti espor-tati si trovano i catodi di rame, con un valore del-l’export pari a 850 milioni di dollari ed una percen-tuale sul totale delle esportazioni del 64%. Rispettoal valore in dollari di 2,64 miliardi nel 2008, c’èstata nel 2009 una contrazione del 68%. Il ramelavorato guadagna la seconda posizione, anche se invalore assoluto non si registra alcun aumento, con82 milioni di dollari di vendite all’Italia, in linea conquanto avvenuto nel 2008. Le importazioni cilenedi prodotti italiani realizzatesi nel corso del 2009hanno raggiunto un valore pari a 747 milioni di dol-lari, registrando una diminuzione (-9%) rispettoall’anno precedente. Al primo posto del ranking deiprodotti importati si posizionano le centrifughe, conun valore dell’import pari a 19,5 milioni di dollaried una percentuale sul totale delle importazioni del2,6%. Questo prodotto nel 2008 non era nemmenonelle prime 20 posizioni. La vendita di macchine eapparecchiature per l’industria del packaging si col-loca alla seconda posizione, con un valore totaledell’import di 16,9 milioni, in crescita del 71%.

Per quanto riguarda le aziende italiane attive in Brasile, particolare menzione merita la presenza di Fiat cherappresenta uno dei maggiori gruppi industriali del Paese sia come fatturato sia come presenza industriale. L’utile netto si è mantenuto negli ultimianni sui 6 miliardi di euroe l’azienda ha in tutto il Brasile 18 stabilimenti e otto centri di ricerca

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Sulle esportazioni militari l’Italia avrà imparato la lezione?

Il 17 settembre il Consiglio dei Ministri ha approvato il dise-gno di legge delega per la riforma del nostro sistema di con-trollo delle esportazioni militari. È così cominciato il lungo iterche dovrebbe portare, si spera, a rispettare la scadenza delgiugno 2011, fissata dalla Direttiva europea sui trasferimentiintra-comunitari. È, infatti, questo il “vincolo esterno” chedovrebbe, ancora una volta, costringere il nostro Paese adaffrontare il nodo del nostro ammodernamento giuridico,organizzativo e decisionale. La Direttiva è limitata alla semplificazione dei controlli sui tra-sferimenti intra-comunitari, ma ci impone comunque un cam-biamento rivoluzionario perché si deve passare da un control-lo quasi esclusivamente ex-ante ad uno molto più ex-post. Leimprese, in altri termini, dovranno responsabilizzarsi sulrispetto delle procedure e delle limitazioni fissate dalle autori-tà: in cambio saranno sottoposte ad un controllo ispettivo e apesanti sanzioni in caso di inadempienze. Si passerà, inoltre,dalla sola autorizzazione individuale, a più tipologie, aggiun-gendo anche quella globale e più versioni di quella generale.Sarà come passare da un’automobile dotata solo di freno eacceleratore ad una dotata di sterzo, cambio e numerosi altristrumenti di guida: per questo non è possibile semplicementeaggiornare il vecchio sistema, ma bisogna ridisegnarne unonuovo. L’aver difeso come un inviolabile tabù la Legge 185/90sul controllo delle esportazioni militari, impedendo ogni formadi serio aggiornamento, ha portato ad un tale ritardo rispettoai cambiamenti del mercato militare e all’evoluzione dei siste-mi di controllo dei paesi con cui ci confrontiamo che, oggi,siamo impossibilitati ad inserire la Direttiva nel sistema attua-le. È questa la responsabilità di un sistema politico che nonsembra capire l’urgenza e la necessità di mantenere aggiorna-to il Sistema-Italia perché in un mondo sempre più globalizza-to bisogna marciare alla velocità degli altri e i ritardatari nonhanno scampo. Già dopo pochi anni dalla sua approvazione,la Legge 185 mostrava i suoi limiti non avendo previsto alcu-na corsia specifica per gestire i programmi intergovernativiche si stavano diffondendo (oggi l’Italia partecipa a 21 pro-grammi maggiori). Il risultato è stata la definizione nel 1997

di una procedura “speciale” che, nata come soluzione provvi-soria, sopravvive tutt’ora. Due anni dopo, nel 1999, è statoriformato il Regolamento di applicazione, cercando di rende-re meno rigide le procedure. Nel 2000, ad appena dieci anni didistanza dall’entrata in vigore della 185, il Governo D’Alemariconosceva la necessità di una profonda riforma e approvavaun disegno di legge che, a causa della sua instabile maggio-ranza e delle elezioni anticipate, veniva poi lasciato morire dalParlamento. È interessante osservare che quella proposta rac-coglieva coraggiosamente la sfida dei cambiamenti intervenu-ti sul mercato militare e, in particolare, l’avvio del processo dicostruzione dell’Europa della difesa, ma evidentemente, man-cava il “vincolo esterno”. Una piccola modifica viene appro-vata nel 2003, dovendo ratificare l’Accordo Quadro e rispetta-re l’impegno a favorire una maggiore integrazione fra i seimaggiori paesi europei che l’avevano sottoscritto nel 2000:ma servono quasi tre anni, dovendo superare le resistenze del-l’opposizione (che, per altro, era al governo e aveva firmatol’Accordo Quadro) e di qualche esponente della maggioranza.Per altro, non si è poi verificata nessuna delle catastroficheprevisioni con cui è stata giustificata questa “crociata”. Nel2005 viene emanato un nuovo regolamento di applicazione edè lo stesso Consiglio di Stato a rilevare che il sistema di con-trollo è ormai diventato farraginoso e confuso anche sul pianogiuridico. Per altro, nello stesso anno, nell’unico dibattito parlamentaredi questi venti anni dedicato alla Relazione del Presidente delConsiglio sulle esportazioni militari, sarà lo stesso relatore asottolineare la necessità di un radicale cambiamento. In real-tà la Relazione annuale lo sta ripetendo da ormai tredici anni,ma il Parlamento non sembra averci prestato attenzione. Lalezione di questi lunghi anni non dovrebbe, però, essere dimen-ticata, soprattutto per quanto riguarda le due occasioni spre-cate dal nostro Parlamento: nel 2000 non affrontando nemme-no la discussione e nel 2001-2003 impiegando un tempo bibli-co per approvare alcune limitate modifiche. Dovrebbero ricor-darsene quanti oggi volessero criticare la scelta del disegno dilegge delega.

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editoriali

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Si fa un gran parlare di exit strategy. Prima dall’Iraq, poidall’Afghanistan, qualcuno propone anche dal Libano. È com-prensibile: politicamente è sempre molto vantaggioso presen-tarsi ai propri elettori promettendo un disimpegno militare,specie se da missioni di lunga durata, molto costose, sangui-nose, poco popolari. La tendenza della politica, poi, è quella difissare date chiare e traguardi specifici. Il che è possibile soloquando non si combattono guerre in cui è gioco la propriasopravvivenza, ma operazioni militari “esterne”, per quantoimpegnative possano essere. Ovviamente i vertici militarivedono questo approccio come il fumo negli occhi. Mai biso-gna dire al “nemico” quello che si ha intenzione di fare vuolecalma., men che meno si deve specificare quando lo si vuolefare e magari anche il come. È notorio che il generale DavidPetraeus, comandante delle operazioni Usa ed alleate inAfghanistan, considera un grave errore insistere sull’avvio deldisimpegno statunitense dal paese a partire dalla prossimaestate ed a prescindere, mentre il termine per completare la“transizione” della responsabilità per la sicurezza alle autori-tà locali nel 2014 è sufficientemente lontano e vago da noncreare pressione. Pianificare un ritiro quando ancora la“surge” il potenziamento delle forze alleate (30mila soldatiUsa e quasi 7mila Nato) non è ancora completato e senza averconcesso un termine congruo per verificarne l’effetto (tenendoconto che in inverno, in Afghanistan, i talebani sono ovviamen-te meno attivi) è autolesionista. Non di meno la Nato ha effet-tuato un “check” della situazione e la pressione politica peraccelerare il “passaggio” aumenta. Con il rischio di compro-mettere tutto. Basti pensare ai traguardi fissati per il potenzia-mento delle forze afgane: l’Ana, l’esercito, era quota 120milaa maggio, e sarebbe dovuto arrivare a 172mila uomini a fineottobre ( un aumento del 43% in 5 mesi!), la scalcinatissimapolizia era a 104mila uomini e doveva andare a 110mila aottobre, ma a 134mila a ottobre 2011. Quello che conta è ilpotenziamento di Isaf, da 120mila uomini ad agosto 2010 a150mila a fine ottobre. Non si puo avere fretta in queste cose: proprio il disastro deiprimi programmi di addestramento in Iraq, per non dire di

quelli condotti in Afghanistan ancora fino a poco tempo fa,dovrebbe suggerire prudenza, non fretta. Perché se si brucia-no i tempi, i reparti mandati allo sbaraglio si sfasciano allaprova del campo o anche prima. E non si dimentiche che ireparti dell Ana sono unità di fanteria che mancano di elemen-ti chiave: come pedine di supporto generale e supporto al com-battimento. Ci vuole dunque calma ...., nonché soldi, equipaggiamenti,armamenti, addestratori e team di consiglieri. Speriamo dunque che il presidente Obama ci regali un altrodei suoi annunci “vuoti” e che a luglio 2011 il ritiro sia solosimbolico e molto graduale, ché altrimenti gli alleati rompe-ranno le righe. Alcuni partner, come Olanda e Canada, i cuisoldati sono da anni impegnati in operazioni di combattimen-to ad alta intensità, senza se e senza ma, già fanno le valigie.Quanto all’Italia, bene sarebbe che una volta raggiunta quota4mila soldati, se e quando sarà davvero possibile trasferire laresponsabilità per la provincia di Herat all’Ana, non si dia ilvia al ritiro tout court ma, se non si vuole impiegare il battlegroup per rinforzare la presenza nelle altre aree calde (sareb-be la scelta più opportuna), si provveda almeno a sostituire letruppe combattenti con istruttori e consiglieri, indispensabiliper rendere reale la prospettiva di una transizione. Una notainfine per il Libano: sì, Unifil fa e conta poco, sì il tempo cheUnifil doveva offrire ad Israele, Libano Hezbollah, Siria pertrovare una soluzione diplomatica non è stato fruttato (perchéinvece i contenziosi tra palestinesi e Israele o Israele e Siria sirisolvono in fretta, come no), sì Hezbollah al contempo si è raf-forzata e l’esercito libanese rimane poco efficace e pocovoglioso di uno shodown con i guerriglieri. Ma qual è l’alternativa? Israele dice che Unifil serve a poco,ma certo avere Unifil è meglio che spendere miliardi di dolla-ri per portare al massimo livello la sicurezza al confine con ilLibano, tornare al contatto diretto con Hezbollah e allo stilli-cidio di colpi e risposte. Se Unifil rimane, si fa un grosso favo-re ad Israele. Ah, sì, si rende meno probabile una nuova guer-ra sul territorio libanese che, senza Unifil, diventerebbe unacertezza. Se vi par poco…

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Chiamatele se volete… fughe! Ma non exit strategy

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Identità minacciate che diventa-no minacciose. Un corto circuitopericoloso. In quale punto si può

fermare? L’ultima a “cadere” è stataVienna. Il “botto” più grosso c’èstato in Olanda. Anche se a faremolto rumore ci s’è messa con impe-gno la Svezia. Ma “l’onda nera”della destra populista ormai dilaga intutta Europa, col consenso e il votodi larghi strati di cittadini. Qualcosasu cui interrogarsi. Lo spostamento adestra del Vecchio Continente èormai un dato di fatto, ma bisogne-rebbe cercare di capire meglio cosasi intende oggi per destra e qualisono i reali motivi di questa tenden-za, e quali sviluppi potrà avere.Immigrazione, xenofobia, anti isla-mismo, identitarismo, nazionalismo,paura della crisi, ordine pubblico,avversione alla politica e alla buro-crazia, poca simpatia per l’Unioneeuropea, sono le parole d’ordine chefanno volare i movimenti populisti, iquali iniziano anche a coordinarsisempre più tra loro. Partiti che parlano alla panciadella gente e ne aizzano la rabbia, promettendo solu-zioni semplici e drastiche per tutti i problemi cheassillano le società di oggi. L’estrema destra è rappre-sentata nei Parlamenti nazionali almeno di Olanda,

Svezia, Danimarca, Austria,Slovacchia, Lettonia e Bulgaria.Alle elezioni europee del giugno2009, i movimenti populisti enazionalisti hanno ottenuto unpunteggio a doppia cifra in seiStati membri (Paesi Bassi, Belgio,Danimarca, Ungheria, Austria eBulgaria, senza calcolare la Legain Italia), e un consenso tra il 5 e il10% in altri sei Stati: Finlandia,Romania, Grecia, Francia, RegnoUnito e Slovacchia. Le elezioni comunali di Vienna loscorso 10 ottobre hanno in qualchemodo chiuso un cerchio che pro-prio dall’Austria era partito, alme-no se per uno sguardo più distacca-to vogliamo tener fuori da questodiscorso il fenomeno Lega Nord.A scuotere per primo l’Europa erastato Jorg Haider con il suo “parti-to degli uomini liberi” (Fpoe), chenell’ottobre 1999 divenne il secon-do partito austriaco conquistando52 deputati e costringendo i popo-

lari a un governo di centro-destra che spinse alcunigoverni della Ue a promuovere sanzioni durate qual-che mese. Sanzioni preventive e servite a molto poco,dato che la destra populista austriaca ha continuato acrescere, tanto che nel settembre 2008 i due partiti

Scenari

Immigrazione, xenofobia,anti islamismo,

identitarismo, nazionalismo,paura della crisi, ordine

pubblico, avversione alla politica e alla

burocrazia, poca simpatiaper l’Ue. Ecco le parole

d’ordine che fanno volarei movimenti populisti

EUROPA

QUELL’ONDA NERA SUL VECCHIO CONTINENTEDI OSVALDO BALDACCI

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scenari

nazional-populisti nati dalle ceneri della creatura diHaider conquistarono quasi un terzo dell’elettorato(18% Fpoe, 11% Bzoe). Poi il 10 ottobre la sorpresaanche a Vienna, città storicamente socialdemocraticafin dai tempi dell’imperatore Francesco Giuseppe:viene confermato il borgomastro -governatoreMichael Haeupl, sindaco dal 1994, socialdemocraticocome il cancelliere Werner Faymann - ma perde 5punti percentuali e soprattutto la maggioranza assolu-ta fermandosi al 44%. A crescere è la destra di Heinz-Christian Strache, che ottiene un clamoroso 27%(prendendo anche molti voti di delusi di sinistra), conun Fpoe che 5 anni fa era al 3%. Tracollo dei popola-ri (13,2) e dei verdi (12), e questo è il segnale politi-co-culturale che l’elettorato di mezza Europa stamandando: la sinistra crolla, ma i moderati non sonosoddisfatti dei popolari e sono attratti dai populisti.

È quanto accade anche in altri Paesi. In Olandala destra è diventata determinante per il governo,nonostante per lungo tempo tutti i partiti politici aves-sero predicato l’ostracismo. La vittoria della destra inOlanda è la più clamorosa perché porta i populisti algoverno, e in un Paese mitizzato per la sua apertura.Ma vedremo che forse questo è non un paradosso maal contrario una delle concause, la faccia della stessamedaglia. Comunque l’affermazione di questo tipo didestra in Olanda ha una storia lunga, per altro segna-ta dal sangue: comincia con Pim Fortuyn e le affer-mazioni del suo primo partito populista finché appun-to il leader politico non venne ucciso nel 2002, sorteche toccò anche al regista Theo Van Gogh, e che èstata minacciata alla scrittrice e deputata di originesomala Ayaan Hirsi Ali, costretta alla scorta e all’esi-lio. Ritornando con tinte forti sul tema dell’anti isla-mismo e del contrasto all’immigrazione, GeertWilders ha conquistato sempre più consensi nono-stante l’isolamento cui si cercava di condannarlo.Finché alle recenti elezioni gli ultimi sondaggi lodavano in calo affermando che il tema della crisi eco-nomica aveva ormai prevalso su quello dell’immigra-zione. Errore dei sondaggi: nel segreto dell’urna il

successo di Wilders è stato clamoroso, tanto da impe-dire di fatto la formazione di un governo senza la suaforza politica. Ma il suo non è stato l’unico successoin questi giorni: il deputato infatti ha ottenuto una vit-toria almeno parziale ma forse ancora maggiore con-tro il politicamente corretto, e proprio in Olanda.Wilders, infatti, è andato sotto processo per le sueposizioni anti-islam, ma ha ottenuto l’assoluzioneproprio negli stessi giorni della formazione del gover-no, non senza polemiche e incassando nel frattemponuove denunce. Al processo in corso ad Amsterdam,il pubblico ministero ha annunciato di voler ritirarel’accusa di insulto, discriminazione e incitazioneall’odio contro i musulmani, ritenendo che questoreato non possa essere configurato nelle sue dichiara-zioni contro l’islam e il Corano. «Paragonare ilCorano e l’Islam al Mein Kampf, al nazismo, alcomunismo e al fascismo, può senza dubbio esseredoloroso, ma non è un insulto punibile» dalla leggeolandese, ha detto il pubblico ministero. Wilders, ineffetti, ha ottenuto la sua prima fama proprio perdichiarazioni molto dure sull’islam soprattutto per ilsuo film Fitna del 2008 che conteneva denunce eaffermazioni molto dure che praticamente non fannodistinzione tra l’islam religioso e le forme di estremi-smo e di violenza. Come tipico di molti di questimovimenti populisti Wilders spara a zero contro imusulmani e propone soluzioni tanto radicali quantoforse anche inattuabili quali quelle di vietare moscheee minareti (per la verità in Svizzera, che vede a suavolta l’affermazione di movimenti che guardano aquesto tipo di pulsioni, come il sempre più protagoni-sta Udc di Christoph Blocher, è già stato approvatodagli elettori un referendum che vieta i minareti),limitare radicalmente il velo islamico, fermare l’im-migrazione musulmana, addirittura bandire ilCorano. Per questi motivi Wilders era messo al bandodagli altri partiti politici olandesi, che però dopo 111giorni di inutili tentativi alternativi sono stati costrettiad accordarsi proprio con lui. Il Pvv di Gert Wilderssi è affermato alle elezioni come terza forza politica ei suoi 24 seggi sono determinanti per tenere in vita il

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governo del liberal-conservatore Mark Rutte (il suoVvd ha 31 seggi) in alleanza con i cristiani democra-tici (21 seggi). Questa fragile coalizione ha comun-que un solo voto di maggioranza. L’appoggio a que-sto governo è stato molto contrastato e il Ppe si èaffrettato a prendere le distanze. Fatto sta che alterna-tive non se ne sono trovate, e forse occorre che i poli-tici europei facciano davvero i conti con queste realtàinterrogandosi sui motivi della loro crescita, piuttostoche limitarsi a emarginarle a parole fingendo che nonesistono. Wilders comunque oltre alle sue istanzecontro l’immigrazione (divieto di indossare il burqa erestrizioni per l’utilizzo del velo da parte di alcunecategorie di impiegati pubblici, un impegno genera-lizzato a fare in modo di conseguire una significativariduzione del tasso d’immigrazione, l’introduzionedella concessione “condizionata” del passaporto ainuovi cittadini olandesi, ritirabile in caso di criminicommessi entro i primi cinque anni dal rilascio) haottenuto dal governo l’impegno ad affrontare altritemi che toccano da vicino il popolo: dalla riduzionedella compagine di governo (solo 11 ministri e 8 vice-ministri), la nascita di un corpo di polizia interamen-te dedicato al benessere degli animali, l’elevazionedella velocità massima in autostrada a 130 chilometriorari, l’abolizione del divieto di fumare nei piccolicaffè, e soprattutto ha limitato a un anno l’innalza-mento dell’età pensionabile.

Il successo di Wilders non si ferma all’Olanda:un paese diventato allergico alla destra e molto impe-gnata a respingere ogni riaffacciarsi di sussulti neona-zisti (che pure a volte raccolgono un certo consensoelettorale, sebbene Unione tedesca del popolo-Dvu,Partito nazionale tedesco-Ndp e Republikaner nonabbiano mai superato lo sbarramento del 5%), comela Germania guarda con interesse a questa nuovadestra populista che meglio potrebbe rispondere acerte pulsioni senza necessariamente intrecciarsi conun passato orribile. Proprio Wilders è stato invitatodalla nuova formazione politica tedesca Partito dellalibertà e al convegno di Berlino ha affermato che «in

Germania serve un partito in grado di difenderel’identità nazionale: l’identità politica tedesca, il suosuccesso economico sono minacciati dall’Islam».Non è da escludere che le pulsioni populiste anche inGermania riescano a prendere più piede di quantofortunatamente abbiano possibilità di fare quelle neo-naziste.D’altro canto che questo tipo di populismo con pul-sioni xenofobe sia capace di catturare consenso cre-scente in Nord Europa, oltre a Olanda, Austria eGermania, lo dimostrano anche i Paesi scandinaviconsiderati in passato culla di una socialdemocraziaquasi idilliaca. Nelle ultime settimane l’evento che hafatto più scalpore è proprio l’entrata per la prima voltain Parlamento dell’estrema destra svedese che hasuperato lo sbarramento nelle elezioni del 19 settem-bre ottenendo il 5,7%. Una conquista di seggi nonsolo simbolica ma che ancora una volta è determinan-te nell’impedire la formazione di un governo stabile.Governo di minoranza, quindi, e comunque di centro-destra, dato che persino in Svezia la sinistra appare inseria crisi ai minimi storici dal 1914. I Democraticisvedesi, un partito di estrema destra di matrice chia-ramente xenofoba, è riuscito a ottenere 20 seggi su untotale di 349. Rifiutando qualunque accordo con loro,il primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt, ha for-mato un governo minoritario con un quadripartito cuimancano due voti, dopo che anche a Stoccolma comea l’Aia sono falliti i tentativi di una grande coalizionecon i socialisti o l’alleanza con i verdi. Nel suo discor-so il premier ha rimarcato le distanze dalla destra,però poi ha ammesso che ci sono problemi sul frontedell’immigrazione e dell’integrazione, aggiungendoche il governo vuole affrontare il problema dell’altotasso di disoccupazione e basso rendimento scolasti-co nelle periferie. E comunque i voti dei Democraticidi Svezia erano stati determinanti nei giorni prece-denti per l’elezione a presidente del Parlamento delmoderato Per Westerberg. Ma il trionfo del giovaneleader Jimmie Akesson, faccia presentabile delladestra populista, non è un caso isolato. I Democraticisvedesi hanno infatti goduto dell’appoggio e del

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modello della destra populista danese, quel DanskFolkeparti (Partito del Popolo danese Ppd) guidato daPia Kjersgaard e noto per aver diffuso le vignette suMaometto e che a sua volta è ormai da qualche annodeterminante in Parlamento con il suo appoggioesterno al governo di centro-destra di Rasmussen, conrisultati a due cifre fin dal 2002 (oggi circa 14%). Idue partiti hanno una storia simile, avendo costruito ilsuccesso di una destra populista e dall’immagine ele-gante a partire dalla scissione da partiti di una destranostalgica e a volte neonazista. Ma anche inNorvegia il partito anti-immigrati Progress Party diCarl Ivar Hagen ha ottenuto alle politiche del 2009 ilsuo miglior risultato con il 23% dei voti, consolidan-do così il suo ruolo di maggior partito di opposizio-ne nel Paese, ruolo che non gli ha impedito già nel1998 di essere il salvatore del governo centrista delpremier Bondevik. E anche in Finlandia i sondaggimostrano la crescita impetuosa dei True Finns (Verifinlandesi, ndr.) che propugnano il «rispetto delletradizioni silvane» e in tre anni hanno già raddoppia-to i voti. Anche in Gran Bretagna si è accesa la crisi con lecomunità di immigrati e di islamici, per quanto anti-che, e questo elemento ha dato una spinta politica amovimenti nazionalisti molto forti che hanno rag-giunto imprevisti successi elettorali. Lo UnitedKingdom Independence Party (Ukip) è soprattuttoun partito anti-europeista, capace comunque di eleg-gere nel 2009 ben 13 deputati europei col 15% deivoti. Più scalpore in quelle elezioni lo ha provocatoil 6,5% ottenuto dal Partito Nazionale Britannico(Bnp) con l’elezione di due eurodeputati: il Bnp èinfatti un partito ben più estremista e xenofobo. InGran Bretagna poi sta sorgendo e diffondendosil’England Defence League, un movimento ancora piùa destra che combatte “l’islamizzazione” delle cittàdella Gran Bretagna e organizza rumorose manifesta-zioni nelle strade. In Francia non va dimenticato il ritorno al successoelettorale del movimento di Le Pen, che alle elezioniregionali dello scorso marzo ha ottenuto il 17,8% dei

voti, ma forse è più interessante sottolineare la piegapresa da alcune politiche di Sarkozy in campo identi-tario, come nei confronti dei rom, senza dimenticareche la Francia bocciò il referendum sulla costituzioneeuropea in nome del timore “dell’idraulico polacco”.Ma è il Belgio il Paese dove i nazionalisti stanno cre-ando maggiori sconquassi: li unisce spesso l’opposi-zione all’immigrazione e all’islam, ma il fatto è che lidivide il nazionalismo localistico, per cui i diversipartiti di questo tipo finiscono per contrapporsi spin-

gendo verso la disgregazione stessa dello Stato. Negliultimi anni il Belgio ha avuto forse più anni di crisipolitica che di governo, non riuscendosi a formarealleanze stabili. il Vlaams Belang (Interesse fiammin-go, nome cambiato nel 2004 dopo che il precedentepartito era stato condannato per razzismo e xenofo-bia) prospera nelle Fiandre con risultati costantemen-te a doppia cifra, espressione più dura e secessionistadei fiamminghi che sostengono la causa dell’indipen-

L’ultima a “cadere” è stataVienna. Il “botto” più grossoc’è stato in Olanda. Anchese a fare molto rumore ci s’è messa con impegno la Svezia. Ma “l’onda nera”della destra populista ormaidilaga in tutta Europa, colconsenso e il voto di larghistrati di cittadini. Lo spostamento a destra del Vecchio Continente èormai un dato di fatto. Ma bisognerebbe cercare di capire meglio i motivi di questa tendenza

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denza della Fiandre con Bruxelles come capi-tale. Il nazionalismo di questo movimento èrivolto all’interno ma anche all’esterno: anchequi è cresciuta la retorica anti-immigrati e anti-islamici, fino ad arrivare alla pubblicazione deinomi degli abitanti di certi quartieri per dimo-strare che pochissimi erano fiamminghi mentrela maggior parte erano extra-comunitari. Siaggiunga che le elezioni del 2010 in Belgiosono state vinte dalla Nuova AlleanzaFiamminga, partito solo un po’ più moderato ecomunque indipendentista. La contropartenazionalista francofona miete anch’essa qual-che successo con il Fronte nazionale e altrimovimenti derivati.

C’è poi tutto il panorama dell’Europadell’est, con le sue differenze ma con un diffu-so consenso a vari tipi di destre, anche comereazione agli anni del comunismo e poi a quel-li del liberismo sregolato. Qui la rabbia siorienta in molte direzioni, una delle quali sonochiaramente le minoranze etniche sparse per ivari Paesi e i rom. Le recenti elezioni hannoportato alla vittoria il centro-destra inUngheria, Repubblica Ceca, Slovacchia. Macon una consistente affermazione dei movi-menti nazionalisti: in Ungheria i nazionalisti diJobbik in fortissima crescita sotto la guida diGabor Vona ad aprile sono entrati per la primavolta in Parlamento e come terzo partito con-quistando a sorpresa il 16,7% dei voti dopoaver già conquistato 3 eurodeputati; inBulgaria alle elezioni parlamentari del 2009, ilpartito anti-rom Ataka è diventato il quarto par-tito con il 9,4% dei voti; in Romania quelli diGrande Romania superano comunque il 7%; inSlovacchia i nazionalisti estremi governavanocol centro-sinistra prima delle ultime elezioniin cui hanno perso qualcosa ma con la speran-za di entrare nel nuovo governo di centro-destra. Poi la Croazia, la Serbia, la Repubblica

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scenari

Ceca, ma anche la Lituania e la Russia, nonché laGrecia. Come in altre parti d’Europa, anche nell’estle spinte populiste sono politicamente più decisivepersino dei risultati reali, innescando una rincorsa suitemi da esse stabiliti. In Ungheria ad esempio il pre-mier Viktor Orban ha deciso di riconoscere la nazio-nalità ungherese alle minoranze magiare che vivononei Paesi alla frontiera dell’Ungheria, suscitando l’ir-ritazione dei vicini: la rivendicazione in realtà erapresente nel programma del partito Jobbik. InSlovacchia i populisti dell’Sns e dell’Hzds hannofatto approvare alla loro coalizione di centro-sinistrauna legge sul patriottismo e soprattutto il divieto diusare in pubblico una lingua diversa dallo slovacco. Il quadro è quindi piuttosto ampio, e se in certi casiquesti populismi nazionalismi si contrappongono,per lo più hanno somiglianze e connessioni e stannoanche iniziando a coordinarsi tra loro. Ciò che liaccomuna oltre ogni dubbio è l’accarezzare e l’ecci-tare le paure dei concittadini, il proporre soluzionisemplici e drastiche per problemi molto sentiti indi-cando un qualche tipo di nemico. Se da un lato è pos-sibile che l’inserirsi di questi movimenti nei processipolitici democratici li porti a istituzionalizzarsi e aconfrontarsi con l’assunzione di responsabilità, èalmeno altrettanto probabile che l’eccitare gli animi,il parlare alla pancia degli elettori e il semplificare ilquadro politico contrapponendo un egoistico “noi” aun pericoloso “gli altri” porti invece a una degenera-zione del quadro. La crisi economica favorisce que-sti sviluppi populisti, e allo stesso tempo ne incre-menta la probabilità di degenerazione. Resta il fattoche questo tipo di movimenti sono sempre esistiti masono stati per decenni circoscritti ai margini, mentreoggi ottengono un consenso consistente di cui indemocrazia è necessario tenere conto. Allora forse leforze politiche tradizionali, oltre che condannare etentare di isolare spesso senza successo queste realtà,devono interrogarsi su questo fenomeno e sulle suecause. Il consenso elettorale va a riempire un vuoto:certo la retorica populista è più facile. Ma resta ilfatto che un vuoto c’è. E lo dimostrano le difficoltà

delle famiglie politiche tradizionali, difficoltà tali daaver portato moltissimi Paesi a Parlamenti ingover-nabili se non con grandi coalizioni, governi di mino-ranza o appoggi esterni. In linea di massima la crisipiù evidente è quella della sinistra, ovunque in ritira-ta e spesso ai minimi storici, compresa la sinistrasocialdemocratica e moderata. Evidentemente lasinistra non risponde più alle domande soprattuttodel mondo del lavoro. E anzi spesso preferisce dedi-carsi a tematiche elitarie di impronta liberal-radicale,che non le giovano. Ma anche la famiglia dei popo-lari non sembra riuscire a giovarsi della crescita del-l’elettorato di centro-destra. Inseguendo l’agendadelle neo-sinistre, i popolari si sono fatti trascinaresul terreno del politicamente corretto e della secola-rizzazione. In questo modo agli occhi di molti sem-brano aver perso i propri valori, i propri ideali, la pro-pria identità culturale e nazionale, o quantomeno nonsembrano abbastanza determinati nel difendere que-sto complesso di temi che invece sta molto a cuoreai cittadini. Che tanto più vedono minacciata laloro identità in un momento di confronto con l’im-migrazione e la globalizzazione. In questo modo ilcentro-destra europeo, allontanandosi dalle sueradici prima di tutto cristiane, e poi più generica-mente identitarie, liberali e conservatrici, lasciacampo libero ai movimenti populisti. È come unaritirata dalle quote di mercato: il mercato elettoralec’è, ma in troppi casi i leader popolari si fannoattrarre dalle sirene elitarie del secolarismo e per-dono il contatto con le vere, concrete e profonderichieste della popolazione. Occorre invece rispon-dere a quelle esigenze, a quelle richieste profonde,ma rispondere alla luce di valori solidi che siano ingrado di guidare e governare il fenomeno, senzanegarlo ma anche senza lasciare spazio alla piùfacile retorica populista. Occorre quindi una fatico-sa, ma indispensabile assunzione di responsabilitàper dare una guida moderata alle politiche cherispondano a problemi reali, puntando alla crescitadei diritti e dell’integrazione, ma senza cedere né aun cieco buonismo né a un impaurito populismo.

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«Buy American»: com-pra americano. È unleit motiv che colpi-

sce ogni angolo degli States, ed èstato lo slogan - trasversale - diqueste elezioni di Mid term. Calodrammatico dell’occupazione edeconomia in fase di stallo, nono-stante tutte le misure di stimoloadottate dalla presidenza Obama,stanno coagulando un popoloattorno a un mantra, fino a diecianni fa quasi un insulto: protezio-nismo. La “paura del prodottostraniero” striscia (e in questocaso anche in modo manifesto)nella società, crisi o non crisi. Maè durante i periodi di difficoltàeconomica, quando sono a rischioi posti di lavoro e la sopravvivenza stessa di azien-de e interi comparti industriali, che la paura si esa-spera ed alimenta la caccia agli untori. Trascinandoin questo gioco al rialzo la politica, che subitoabbocca. Ben sapendo - perché ormai è un datocerto - che il protezionismo non protegge assoluta-mente nulla. Ne è testimonianza la legge sulledelocalizzazioni (non passata un mese fa alCongresso per un soffio, ma pronta ad essere reite-rata prima di Natale), parola dal suono funesto edanatema di ogni disoccupato. Praticamente uncastigo fiscale alle multinazionali che trasferisconoposti di lavoro all´estero e un premio a quelle chefanno la scelta contraria, riportando in America

attività che erano finite altrove.Una legge clamorosa, che puòsegnare una battuta d´arresto dellaglobalizzazione: eh sì che perdecenni proprio il capitalismoamericano ha tirato la volata alledelocalizzazioni, e le multinazio-nali hanno rimpinguato i propriprofitti spostando le produzioninelle aree a minor costo di mano-dopera, soprattutto in Asia. Il dise-gno di legge anti-delocalizzazionicontiene tre parti. La prima can-cella la deducibilità fiscale dellespese di produzione, se i salarivengono pagati all´estero: è dun-que di fatto l´equivalente di unaumento d´imposta sulle filialiestere. La seconda parte è una

vera e propria tassa addizionale su ogni mercereimportata dall´estero, se in precedenza lo stessobene veniva prodotto negli Stati Uniti. Il terzocomponente, ovvero, è un´esenzione biennaledall´imposta sui salari, per ogni attività che le mul-tinazionali ri-trasferiscono sul territorio americano.La legge anti-delocalizzazioni, dunque, è l´ultimosegnale di una crescente voglia di protezionismo.Lo stesso Congresso di Washington presto discute-rà le misure di ritorsione contro la Cina, per punirePechino della mancata rivalutazione della suamoneta (renminbi o yuan).Purtuttavia, il fatto che non solo l’America maciascun Paese stia cercando di risollevare le sorti

STATI UNITI

L’AMERICA SI SCOPRE PROTEZIONISTADI LUISA AREZZO

Calo drammatico dell’occupazione

ed economia in fase di stallo, nonostante le misure adottate da Obama, stanno

coagulando un popoloattorno a un mantra:

il protezionismo

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della propria economia interna ricorrendo amisure di chiaro stampo protezionistico non èormai più riconducibile a mere illazioni prove-nienti da posizioni antiliberiste. Esistono oggi-giorno misure economiche e monetarie volte alimare la formale libertà di scambio nei mercatimondiali: una di queste riguarda la valuta estera.La debolezza del dollaro, in particolare, è finitasul banco degli imputati. Ad utilizzare per primol’espressione “Guerra delle valute” è stato ilministro brasiliano Guido Mantega, in occasionedi una delle riunioni del Fondo MonetarioInternazionale. Ma se inizialmente questa guerradelle valute si configurava come un conflittomonetario motivo di attrito unicamente tra Cinae Stati Uniti, le tensioni tra altri stati per lerispettive furbizie attinenti la politica monetariasono sempre di più, e sempre più evidenti.La guerra delle valute altro non è che un modo perincentivare le proprie esportazioni, poichè mante-nendo il tasso di cambio tra la propria monetanazionale e quelle estere il più basso possibile, ilrisultato macroeconomico che si ottiene è undeprezzamento delle merci prodotte in un datostato, nei mercati internazionali. Fare esempi con-creti può aiutare a comprendere meglio le circo-stanze che stanno attirando sugli Stati Uniti accusedi aperto protezionismo, a causa della debolezzadel dollaro. Esattamente nella patria del libero mer-cato. L’esempio è questo: immaginiamo una Fordcostruita e venduta in America al prezzo di 15.000dollari americani. Se il tasso di cambio tra la valu-ta americana (dollaro) e quella Europea (euro)fosse di 1 a 1, la Ford costerebbe in Europa 15.000euro. Se invece il tasso di cambio mutasse e diven-tasse molto più favorevole all’euro rispetto al dol-laro, ipotizziamo a 1.5 (ogni euro varrebbe un dol-laro e mezzo), la stessa Ford costerebbe 15.000dollari in America ma 10.000 euro a Madrid,Londra o Parigi. La guerra della valute parte pro-prio da questo assioma: mantenere debole la pro-pria moneta nazionale aiuta i produttori che espor-

tano verso mercati esteri. Si tratta di una misura diprotezionismo economico che fa a botte con il libe-ro mercato, ma che è difficile da dimostrare - alme-no formalmente - poichè i Governi, di concorsocon le Banche Centrali, hanno a disposizione unaserie di strumenti di regolazione economica emonetaria che possono direttamente influire suitassi di cambio, mantenendoli bassi.La difesa dell’economia nazionale o regionale,l’ultimo baluardo prima del crollo totale e il vero eunico motore della ripartenza dopo l’uragano dellacrisi sono state le Banche Centrali. Bce (BancaCentrale Europea) e Federal Reserve (la banca cen-trale americana) soprattutto, hanno fatto a gara nel-l’iniezione di liquidità nel mercato, nel “rastrella-mento” di titoli tossici e nell’acquisto di titoli distato venduti per finaziare un surplus di debito pub-blico dovuto alle misure anticrisi intraprese daiGoverni per arginare la crisi. La guerra delle valu-te parte però propria dalle banche centrali, che

scenari

La guerra delle valute altronon è che un modo per incentivare le proprie esportazioni, poichè mantenendo il tasso di cambio tra la propria moneta nazionale e quelle estere il più basso possibile, il risultato macroeconomico che si ottiene è un deprezzamento delle merci prodotte in un dato Stato, nei mercati internazionali

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dopo aver mantenuto in vita il sistema creditizio eproduttivo nazionale, influenzano enormemente itassi di cambio nei mercati valutari con due stru-menti: l’iniezione di liquidità sui mercati (ancheattraverso l’acquisto di titoli di stato), e il taglio deitassi di interesse. Quando i governi chiudono i mercati interni impo-nendo dazi sull’importazione o inventandosi bar-riere di altra natura, il danno è enorme: per i consu-matori finali, si rendono più costosi i beni importa-ti (i più poveri dovranno rinunciare ad acquistarli);per le imprese che importano semilavorati, questorappresenta un aumento dei costi di produzione.Più in generale, inibendo la pressione competitivainternazionale, il protezionismo contribuisce a farcalare l’efficienza, la creatività e l’innovazione diun sistema economico, lasciando in vita aziende ecomparti ormai decotti e “bloccando” risorse cheandrebbero invece orientate verso impieghi piùproduttivi. Insomma, si toglie la libertà agli indivi-dui di scegliere tra le scarpe italiane e quelle brasi-liane, ma soprattutto si distorce l’evoluzione delsistema produttivo. La Banca Mondiale ha recente-mente evidenziato che 17 dei 20 membri del G-20hanno adottato misure restrittive sul commercio,nonostante i proclami di difesa del libero scambiolanciati duranti gli incontri ufficiali del gruppo. Piùche di dazi, in particolare, il nuovo protezionismopare vivere di regulation: standard sanitari e disicurezza, barriere tecniche, licenze, requisiti diogni genere. E poi, aiuti di Stato condizionati alrispetto della “nazionalità”. Interventismo chiamaprotezionismo e viceversa.Nel giugno scorso il G-20 di Toronto ha conferma-to le divergenze di politica fiscale ed economicaesistenti tra i due lati dell’Atlantico: alla richiestadegli Stati Uniti di maggiore stimoli economici,l’Europa, sulla scia della crisi greca, ha rispostoaffermando le priorità di risanamento pubblico.L’economia europea nella prima metà dell’annoaveva già dimostrato qualche deciso segnale diripresa, e questo aiuta a comprendere la decisione

di Obama di lanciare un nuovo grande New Deal asostegno dell’economia a stelle e strisce. Eppure almomento l’economia Usa rallenta più di quellaeuropea, e le manovre faziose della FederalReserve sono un viatico per l’export americano. Edè così, che ai malumori europei, e alle apertelamentele da parte di Pechino nei confronti delpiano di svalutazione mondiale del dollaro si sonoaggiunti anche i sospetti di India e Brasile.L’afflusso di dollari concertato tra Fed eAmministrazione americana li costringe infatti adalzare i tassi per contenere l’inflazione. Un gravehandicap per le loro esportazioni. Posizione condi-visa anche dal The China Securities Journal, orga-no di stampa ufficiale cinese. Anche se è innegabi-le che la situazione, così come adesso è concepita,è ormai totalmente sbilanciata a favore delle eco-nomie emergenti e che degli aggiustamenti debba-no essere fatti. E anche in fretta. Una soluzione assolutamente parziale, ma indicati-va di quanto appena descritto e dello stato dell’ar-te negli Usa riguarda l’idillio scoppiato da alcunimesi fra imprenditori indiani e mercato del lavorostatunitense. La ripresa che stenta a decollare,infatti, e i tassi di disoccupazione saliti alle stellehanno dato un brutto taglio ai salari nei settori ame-ricani più a basso costo. Tra questi c’è anche quel-lo dei Call center dove, negli ultimi due anni, le giàmisere paghe si sono abbassate ancora di più. Unatendenza che non è sfuggita agli imprenditoriindiani del settore che ora vogliono trasferire partedella propria forza lavoro in America. Fino a pocotempo fa le rotte del lavoro seguivano il percorsoinverso, ma la crisi ha cambiato anche questi tragit-ti. Oggi sono gli indiani ad approfittare dei bassilivelli di reddito in Usa e possono già specularesugli altri probabili tagli all’orizzonte americano.In più trasferendosi Oltreoceano riusciranno anchea sfuggire ai progressivi rincari dei salari nel pro-prio Paese. Qui, a differenza di quanto succedenella gran parte dei Paesi industrializzati, le paghesono in costante crescita. Del resto l’economia

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indiana la crisi non l’ha quasi vista. Anzi.Nell’ultimo trimestre il Paese ha messo a segnouna crescita boom che è stata più del doppio diquella americana con un incremento dell’8,6% eche, stando alle stime, proseguirà allo stesso ritmoanche negli anni a venire. Tra gli effetti della robu-sta dinamica c’è anche quello di un rincaro deglistipendi in molti settori. In quello dei Call-center latendenza è già in corso: solo da gennaio c’è statoun aumento dei salari del 10% che va a sommarsiai tanti rialzi che c’erano già stati negli anni prece-denti. I “callcenteristi” indiani rischiano quindi didiventare troppo cari. I loro capi settore già costa-no più che negli Usa. Dunque meglio trasferirsi edassumere personale americano. C’è poi, come già in parte descritto, il problemaCina (ovvero la richiesta occidentale di rivalutaredello yuan). Pechino ha già dato fuoco alle polveridicendo di essere disposta solo a minimi oscillazio-ni e ha provocato la reazione, tesa, di quei Paesi,

Stati Uniti e Unione Europea in testa, da tempo inpressing per convincere Pechino a rivalutare la suamoneta. Il premier cinese Wen Jiabao, la pensaperò diversamente: i tassi di cambio delle maggio-ri riserve di valute possono essere mantenuti «rela-tivamente stabili», ha detto qualche giorno fa.Insomma, la decisione presa nel giugno scorsodall’ex Impero Celeste di rendere maggiormenteflessibile il reminbi appare, una volta di più, comeun provvedimento di facciata, teso a tacitare levoci di quanti accusano la Cina di esercitare unvero e proprio dumping valutario per agevolare leesportazioni. Sembra di essere tornati agli AnniOttanta, ma su scala globale. In quel periodo sitirava a campare a colpi di svalutazioni competiti-ve. Era lo stratagemma che la piccola Italiettausava in Europa, deprimendo il cambio della Liraper sostenere le sue esportazioni. Oggi lo schemasembra riproporsi su dimensioni infinitamente piùvaste e politicamente più pericolose. L’Italia nonc’entra più, se non per una quota infinitesima di«interesse nazionale». C’entrano i «tre blocchi»:

Stati Uniti, Cina e di riflesso Europa. Impegnati inquella che potremmo definire la nuova GuerraFredda delle valute.La Cina d’altronde è il primo produttore mondiale(22%), mentre la globalizzazione ha prodotto unarivoluzione geopolitica, con la crescita impetuosadelle aree dell’ormai ex Terzo mondo. E da mesi lacomunità internazionale, guidata dall’Amministra-zione Obama, preme su Pechino per convincerla arivalutare il renminbi. Un livello troppo basso dellavaluta cinese altera le ragioni di scambio del piane-ta. La Cina non ci vuole sentire. Ha troppi interes-si a invadere il mondo con le sue merci vendute abasso prezzo. La ritorsione americana è già in atto,e passa per due canali congiunti. Da un lato, la Fedcontinua ad allargare la base monetaria, per cerca-re di sostenere una ripresa ancora inesistente.Dall’altro lato, la Casa Bianca e il Congresso ina-spriscono la tassazione delle merci importate dallaCina. Nel primo caso, la sottovalutazione del ren-

Sembra di essere tornatiagli anni Ottanta, ma suscala globale. In quel periodo si tirava a camparea colpi di svalutazioni competitive. Era lo stratagemma che la piccola Italietta usava in Europa, deprimendo il cambio della Lira persostenere le sue esportazioni. Oggi lo schema sembra riproporsi su dimensioni più vaste e politicamentepiù pericolose

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minbi è compensata con la contestuale svaluta-zione del dollaro. Nel secondo caso, le merci cinesi subiscono unasorta di «dazio» mascherato, che le penalizza suimercati occidentali. Per carità, pochi credono adun ritorno ai dazi punitivi della GrandeDepressione, ma in tanti temono che possa avve-nire su scala globale ciò che una decina di annifa è accaduto durante la crisi del sud-est asiatico,quando alcuni paesi dell’area risposero allarecessione con misure protettive e i paesi piùavanzati reagirono inasprendo le norme anti-dumping.

Questa volta potrebbe essere anche peggio:India e Russia hanno già alzato alcune barriereregolatorie, il numero di contenziosi anti-dum-ping cresce costantemente, in giro per gli StatiUniti amministrazioni statali e locali chiedono afornitori canadesi di sottoscrivere l’impegno adutilizzare solo materiale made in Usa. È innega-bile, però, che per salvare o creare qualchemigliaio di posti di lavoro, gli Stati Uniti inne-scano la miccia di una guerra commerciale estre-mamente pericolosa proprio dal punto di vistaoccupazionale: come hanno calcolato gli analistidel Peterson Institute for InternationalEconomics, per ogni punto percentuale in menodi esportazioni, gli Stati Uniti rischiano 6500posti di lavoro.Il conflitto è dunque già iniziato, in una spirale dicausa-effetto nella quale è ormai difficile capirechi si muove per primo e chi colpirà per secon-do. Ma la vera domanda è un’altra. Cosa c’è, alfondo di questo nuovo gioco al massacro di sva-lutazioni competitive, che rischiano di sconvol-gere i già fragilissimi equilibri finanziari e mone-tari del pianeta? Nell’immediato, la domandanon ha risposta. In prospettiva, l’unica soluzioneè una nuova Bretton Woods. Purtroppo, almomento, non si vede un’élite politica in gradodi farsene carico.

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lo scacchiereUnione europea /Gli europei, gli americani

e la guerra: diversi ma non troppoStanchezza, pessimismo e nessuna voglia di mollare

Disraeli diceva che esi-stono tre tipi di bugie:le bugie semplici, ledannate bugie e le sta-tistiche. Se è vero chei sondaggi vanno

presi cum grano salis, tuttavia un’inda-gine demoscopica seria come quellacondotta ogni anno dal GermanMarshall Fund in 12 paesi europei enegli Usa merita qualche considerazio-ne. Specialmente se quest’anno i

“ T r a n s a t l a n t i cTrends” rivelanoalcuni interessantiorientamenti deglieuropei sull’opzionemilitare. La doman-da più ovvia èsul l ’Afghanis tan:occorre mantenere,ridurre o ritirare letruppe? Il 44% deicittadini dell’Uevorrebbe il ritiro deicontingenti schieratinel paese, e il 20%una sua riduzione.Due terzi deglieuropei insomma

non sostengono il prolungamento dellosforzo bellico, mentre negli Stati Unitila maggioranza assoluta, 58%, è a favo-re del mantenimento o dell’aumentodelle truppe. In entrambi i casi, la per-centuale di coloro che vogliono ildisimpegno dall’Afghanistan è inaumento rispetto al 2009, rispettiva-mente dell’11% negli Stati Uniti e del7% in Europa. Una “stanchezza” dellaguerra che si accompagna a un crescen-te pessimismo sulla possibilità di stabi-lizzare l’Afghanistan: solo il 23% deicittadini europei credono che le cosemiglioreranno, mentre erano il 32% nel2009. In tale contesto, spicca il dato ita-liano: rispetto alla media europea, sonodi meno gli italiani che chiedono un riti-ro immediato delle truppe, il 34%, esono di più gli ottimisti sulla stabilizza-zione del paese, il 28%. Un quadro del genere, e in particolare ildivario tra Europa e Stati Uniti nel soste-gno alla guerra in Afghanistan, sembrarispecchiare la contrapposizione traMarte&Venere proposta da Kagan aitempi della guerra in Iraq. Ci sono peròdue dati che contrastano con questa chia-ve di lettura. In primo luogo, due terzi deicittadini europei sostengono che la Nato

DI ALESSANDRO MARRONE

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debba essere pronta ad agire militarmen-te anche al di fuori dell’Europa. La per-centuale negli Stati Uniti è ovviamentepiù alta, il 77%, tuttavia è importante chein tutti i paesi europei la maggioranzaassoluta (o in tre casi la maggioranzarelativa) dell’opinione pubblica sia inlinea di principio a favore di operazionimilitari out-of-area. Il secondo dato èquello relativo all’Iran. Il 79% deglieuropei, in linea con lo 86% degli ameri-cani, è preoccupato del fatto che Teheranpossa acquisire armi nucleari. Entrambiovviamente preferiscono soluzioni eco-nomiche e diplomatiche per evitare checiò avvenga. Tuttavia, posti di fronte alfallimento di tutte le altre opzioni la mag-gioranza relativa degli europei, il 43%,approverebbe una azione militare control’Iran (il 64% negli Usa). La divisione di fondo tra europei e ame-ricani dunque non sembra essere quindisulla accettazione o rifiuto di principiodell’azione militare per garantire la pro-pria sicurezza, e della capacità della Natodi agire a livello globale (sebbene gliamericani siano comunque più prontidegli europei ad agire militarmente). Ilpunto piuttosto è la diversa considerazio-ne della guerra in Afghanistan: per gliamericani è una risposta all’11 Settembree una questione di sicurezza nazionale,mentre per gli europei non è direttamentein gioco la difesa della propria sicurezzae quindi, per usare un’altra nota espres-sione, è una “guerra scelta” e non una“guerra necessaria”. In questa ottica, peri membri europei della Nato sette anni diguerra e di vittime sono un fardello piùpesante da sopportare che per gli StatiUniti. Non a caso in Gran Bretagna, che è

in Afghanistan da nove anni e che vi haperso più di 340 soldati, la prospettiva diun’altra azione militare in Iran è rigettatadalla maggioranza assoluta della popola-zione, il 57%, anche nel caso che fosse lasola alternativa ad un Iran nucleare. Un discorso a parte va fatto per un candi-dato all’ingresso nell’Ue e importantemembro della Nato, la Turchia. Qui lapercezione della minaccia provenientedall’Afghanistan e dall’Iran differiscesostanzialmente da quella europea. LaTurchia è l’unico paese tra quelli analiz-zati in cui la percentuale di coloro chevogliono ridurre le truppe in Isaf è scesadal 2009 al 2010: la necessità di stabiliz-zare l’Afghanistan guadagna sostegnoinvece che perderlo. L’Iran invece non costituisce una minac-cia per i turchi, tanto che solo il 40%degli intervistati è preoccupato dell’even-tualità che Teheran sviluppi armi atomi-che, e ben il 54% preferisce un Irannucleare rispetto aduna azione militarecontro Tehran. Poiché il discorsoMarte&Venere èimplausibile per unpaese come la Turchia,i risultati dell’indaginesembrano invece con-fermare che i turchistanno progressiva-mente sviluppandouna percezione dellequestioni di sicurezzae di politica esterasempre più lontana daquella di Europa eStati Uniti.

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Medioriente/Ecco come nascerà lo Stato palestineseI Colloqui falliranno, ma Usa e Onu hanno già pronto un piano B

DI JOHN R. BOLTON

Le trattative dirette tra Israele e Palestina, per 21mesi il fulcro della politica mediorientale del-l’amministrazione Obama, si stanno inevitabil-

mente avvicinando al collasso. Con grande difficoltà icolloqui si protrarranno fino alle elezioni di Midterm,ma poi sono condannati al fallimento. L’autorità pale-stinese ha ben chiaro che i colloqui - e la soluzione deidue Stati - non hanno margini di trattative. Dunqueserve un piano b. Ecco allora un fiorire di idee perbypassare le ingombranti trattative con Israele e arriva-re direttamente alla “stato” palestinese. Due gli approc-ci tattici: il primo vede l’Anp convincere gli Stati Unitia riconoscere uno stato palestinese nel West Bank enella striscia di Gaza entro le linee di tregua pre 1967(spesso erroneamente indicate come “confini”). L’altraopzione ha il medesimo scopo ma un interlocutorediverso: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Cruciale, inquesto caso, l’impegno statunitense sia per sostenereun’eventuale risoluzione di riconoscimento da parte delConsiglio di Sicurezza, sia (almeno), per non respin-gerla. Per certi versi, tutte queste manovre si riferisco-no all’autoproclamazione dello Stato palestinese chenel 1988 l’Olp (l’organizzazione per la liberazionedella Palestina di Arafat) annunciò al mondo e chevenne sostenuta e riconosciuta da decine di membridell’Onu, tra cui molti paesi europei. L’Olp cercòall’epoca di trarre vantaggio da questo riconoscimentotentando di entrare in alcune agenzie dell’Onu - comel’Oms - il cui requisito d’ingresso è che i membri siano,formalmente, degli “Stati”. Un modo, è evidente, percercare di ottenere quella legittimazione internaziona-le che l’organizzazione non era stata in grado di rag-giungere con la forza. Questi tentativi in passato sonofalliti, (praticamente svaniti, è più corretto) per la fermaopposizione di Washington all’interno dell’Onu. El’unico “asset” conseguito dall’Olp è stato riuscire amodificare “il cavaliere” sul banco dell’Assemblea

generale, dove ormai è scritto Palestina e non più lasigla, per esteso, dell’Olp. Questa volta è diverso. Unavolta superato il 2 novembre e fatto fronte all’imminen-te e imbarazzante crollo dei colloqui diretti, il presiden-te Obama potrebbe sentire il bisogno di punire Israeleo almeno di trarre una lezione da questo fallimentodiplomatico. L’amministrazione Obama ha un’opinio-ne astiosa di Israele, tuttavia il reale riconoscimentodella “Palestina” pare una prospettiva remota nel brevetermine. Un corso indolore e indiretto, che è sempreefficace, sta nel lasciare che lo Stato emerga attraversouna risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Le prece-denti Amministrazioni statunitensi, votando all’occa-sione un netto “no”, respinsero una simile proposta, mal’inclinazione di Obama - che è quella di mettere sottopressione pubblicamente Israele - fa presagire cheWashington possa decidere di non svolgere il suo ruolotradizionale. Così, benché sembri che Obama non vote-rà a favore della risoluzione del Consiglio di Sicurezza(che garantirebbe l’ingresso nel consesso Onu dellaPalestina) si può prontamente prevedere un’astensionedell’Amministrazione. Il che potrebbe dar luogo ad unamaggioranza quasi certa, circa 14 a 0, per adottare larisoluzione. Ma c’è di più: una risoluzione delConsiglio di Sicurezza, riconoscendo i confini pre1967, metterebbe in discussione anche la legittimità diIsraele, tagliando drammaticamente le sue prospettivedi sicurezza e difendibilità. Obama ha lasciato apertatale possibilità: nel discorso che tenne a settembre 2009all’Onu, ad esempio, si era dichiarato a favore di unoStato Palestinese «con un territorio contiguo in grado diporre fine all’occupazione iniziata nel 1967». Nessunodovrebbe sottovalutare la gravità di una simile minac-cia alla posizione di Israele, sebbene Obama potrebbeeliminarla in un colpo solo se scegliesse di parlare chia-ro. Presto assisteremo a quanto è pronto ad essere osti-le ad Israele.

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Sembrano ormai lontani i tempi in cui si parlavadelle relazioni Cina-Africa come un modello ori-ginale ed avvenieristico per lo sviluppo delle rela-

zioni internazionali. In particolare, all’inizio del 2000 siconsiderava tale rapporto anomalo, un “escamotage”per ridisegnare la vecchia cooperazione Sud-Sud, capa-ce di portare bilanciamenti diversi nel quadro dell’ordi-ne mondiale. A distanza di 10 anni, si sta profilandoun’intesa molto più problematica per gli assetti interna-zionali. I protagonisti si chiamano Iran-Africa e lo svi-luppo di loro interessi congiunti potrebbe essere vera-mente sconvolgente per gli equilibri con la vecchiaEuropa e gli Stati Uniti d’America. Come potrebbebilanciare, ad esempio, il Senegal, il suo bisogno di sicu-rezza con l’esigenza di un maggiore sviluppo? SeppureWade sia considerato un fedele alleato degli americaninell’area, certamente negli ultimi tempi non si è tiratoindietro di fronte ad intese mirate con Ahmadinejad. Inquesto caso specifico, oltre all’elemento politico ed eco-nomico non è indifferente l’elemento religioso che legadi fatto i due popoli. Sempre più frequenti sono gliscambi di visite tra i capi di Stato, delegazioni ministe-riali ed imprenditoriali: Algeria, Costa d’Avorio, Ghana,Kenya, Mali, Mauritania, Nigeria, Sudan, Somalia eZimbabwe sono solo alcuni degli attori coinvolti in que-sta originale “avventura”. I motivi dell’interesse varia-no, ma la sostanza è la stessa per i player africani: soldiche arrivano per finanziare lo sviluppo di aree depresse,per promuovere programmi educativi, per sostenerel’industria locale.L’obiettivo di Teheran è chiaro: costruire nuove allean-ze e rafforzare quelle già instaurate negli anni passati perbypassare le sanzioni dell’Onu e superare le chiusureimposte dalla Ue. Ogni mezzo è lecito a tal fine, anchese al momento sembra sia preferito il soft power, carat-terizzato da una miscela fatta di cultura, diplomazia,economia e difesa. Anche in questo caso, come in quel-

lo cinese, l’elemento economico non è indifferente, soloche qui non si tratta semplicemente di petrolio perforaggiare lo sviluppo industriale ma di uranio. Il famo-so uranio utile per alimentare le centrali nucleari, tantodiscusse ed osteggiate dall’Occidente.Al riguardo particolarmente significative sono state lerecenti visite di Ahmadinejad in Uganda e Zimbabwe ametà aprile, in cui si è parlato chiaramente di uraniumdeal. I leader politici locali, non hanno temuto di pub-blicizzare la visita, anzi nel caso del presidente Mugabeè stata motivo di orgoglio in chiave anti-occidentale. Leforze di opposizione hanno notato i rischi di tali missio-ni, senza ottenere grandi risultati. Morgan Tsvangirai(leader del Movement for Democratic Change e respon-sabile dell’esecutivo di Harare) si è rifiutato di andare adaccogliere all’aeroporto Ahmadinejad ed ha sottolinea-to i rischi di questa «relazione preferenziale», da consi-derarsi uno «scandalo colossale», che potrebbe accre-scere i contrasti interni e di certo pregiudicare ulterior-mente l’immagine del paese all’esterno. Parole didenuncia, niente più…Incontri bilaterali, dunque ma non solo. Con grande lun-gimiranza la diplomazia iraniana ha pensato di creare unForum Iran-Africa per dare un’immagine istituzionaleai contatti in corso. La prima edizione dell’evento (aTeheran il 14 e 15 settembre) ha visto la partecipazioneconvinta di una quarantina di capi di stato e di governoafricani. Chiare sono state le parole di Ahmadinejad cheha affermato «non ci sono limiti all’espansione di unamutua cooperazione al massimo livello». Sarà propriocosì? Certo è che seppure molti esperti notano il carat-tere rivoluzionario del nuovo “asse”, altri osservatoridubitano che i paesi africani metterebbero a repentaglioi legami con l’Occidente qualora fossero posti di frontead un bivio (come dimostrato dal voto della Nigeria infavore delle sanzioni Onu nel giugno scorso). Non restache dire: “Ai posteri l’ardua sentenza…”!

Africa/il nuovo corso di AhmadinejadL’Iran punta a un’intesa diplomatica e commerciale con il Continente Nero

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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La storiaLa storia

di Virgilio Ilari

LOMONACO, TIBELLE FOSCOLO

STORIA MILITARE DI UN SUICIDIO

LOMONACO, TIBELLE FOSCOLO

STORIA MILITARE DI UN SUICIDIO

«Negli ultimi tempi era divenu-to triste e quasi insocievole.Morì filosoficamente. Silevò all’ora solita, stamane,1 settembre 1810: scrisseuna lettera al fratello; si vestì

degli abiti da festa; uscì di casa e si recò al caffè delBarilotto, dove bevve un bicchiere di vino, e quandofu su la riva del Navigliaccio presso San Lanfranco,luogo molto solitario, si tuffò nella corrente, in quelgiorno rapidissima. Un soldato cercò di salvare il sui-cida, ma lottò invano contro le onde, e per poco nonfu inghiottito anche lui.». Nella lettera spiegava diaver voluto così sventare il piano dei suoi nemici disvergognarlo durante gli imminenti esami pubblicidella scuola militare di Pavia, dov’era professore. Econcludeva: «Col fato non lice dar di cozzo. Se vissisempre indipendente e glorioso, voglio morire piùindipendente e gloriosissimo». Montalbano Jonico,paese natale di Francesco Lomonaco, ha da pococelebrato il bicentenario del suicidio del suo più illu-stre concittadino (dopo il fondatore dell’Alfa

Romeo). E John Anthony Davis, nel suo recente stu-dio sull’Italia meridionale nelle rivoluzioni europee(Naples and Napoleon, Oxford U. P., 2006), ha dedi-cato un’acuta analisi (p. 97) all’opera più nota diLomonaco, il Rapporto al Cittadino Carnot sullacatastrofe napoletana, famoso per l’allegato coinomi dei 122 “martiri repubblicani” (scritto in esilioa Parigi nel 1799 e pubblicato a Milano nell’agosto1800; poi Osanna 1990; Lacaita 1999), mettendo inrisalto le differenze col Saggio di Vincenzo Cuoco,pubblicato un anno più tardi. Benché Giuseppe Laterza l’abbia ora incluso tra i“martiri meridionali”, in realtà i guai di Lomonaconon venivano dalla politica. Figlio di un illuminista,direttore di un giornale e traduttore di Mably, condan-nato a morte dai borbonici, rifugiato a Parigi, poi aGinevra e infine a Milano, era divenuto bibliotecarioa Brera e poi medico militare. Come tale ebbe occa-sione di curare Ugo Foscolo e più tardi conobbe pureAlessandro Manzoni. Nel 1800 la sua requisitoriacontro il Direttorio traditore dei patrioti napoletani eracacio sui maccheroni del Primo Console; nel 1801

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non era stato toccato dalla purgacontro gli esuli napoletani nellaCisalpina; e nel 1805, con tuttoil suo repubblicanesimo, l’ave-vano ammesso ad omaggiareNapoleone Imperatore deiFrancesi e Re d’Italia. Puresocialmente non era messomale: il suo saggio sullaSensibilità, ispirato a Condillac,era trendy nel 1801; Manzonidiciassettenne, impressionatodalle autocommiserazioni diquel cespuglio butterato, glidedicò un sonetto sulla vita diDante, che Lomonaco, atteg-giandosi a novello Ghibellinfuggiasco, mise poi ad esergo

alla sua biografia dell’Alighieri, prima di altre 22 Vitedi eccellenti italiani pubblicate nel 1802. Il posto diprofessore di storia e geografia (1.920 lire annue, nonmale) al Ghislieri, appena trasformato in “scuola mili-tare”, l’aveva ottenuto nel 1805, tramite Manzoni eVincenzo Monti, grazie a una collezione di 23 Vite de’famosi capitani d’Italia (1804-05), inclusi 7 brevi“paragoni” tra coppie di biografati che valsero all’au-tore il titolo di “Plutarco d’Italia”, e la fama di “stori-co militare”, tanto che nell’edizione postuma delle sueOpere, Lugano 1831-37, fu pure attribuito a lui il sag-gio Della virtù militare e delle sue vicende presso leantiche e moderne nazioni, in realtà di un altro esule,il calabrese Bruno Galiano, lui pure professore (di let-tere) a Pavia (ma era stato licenziato nel settembre1805 a seguito di un alterco notturno col capitanopolacco addetto alla disciplina interna). I guai di Lomonaco cominciarono nel marzo 1806,col ritorno a Milano di Ugo Foscolo, finalmente con-gedato. Incaricato da Napoleone di far tradurre in ita-liano il travagliato commentario del marescialloBerthier sulla battaglia di Marengo per adottarlo comelibro di testo alla scuola militare di Modena, il mini-

stro della guerra Caffarelli colsedue piccioni con una fava affi-dando il compito a Foscolo. Il 13luglio il “poeta-soldato” neaccennava enfaticamente aPindemonte: «il povero Ugo scri-ve non iniussa; carte topografi-che, evoluzioni di battaglie anti-che e moderne, passaggi delleAlpi moderni comparati agliantichi. Però mi sto con Claviero,Gibbon, Polibio e Livio allamano, e con un libro che vi èancora ignoto: Commentari diNapoleone; scritti o dettati da lui.Il principe Eugenio li fa tradurree mi hanno eletto a ciò, per nonuscire di letterato e militare.

Martire meridionale per Giuseppe Laterza, si tolse

la vita nel 1810 gettandosi in un canale. Figlio di un illuminista,

condannato a morte dai borbonici, rifugiatosi

a Parigi, Ginevra e infine a Milano, Francesco

Lomonaco divenne bibliotecario di Brera e poi medico militare.

Conobbe Foscolo e Manzoni. Ma finì dimenticato

In senso orario: Francesco Lomonaco (1772-1810):«Capelli e ciglia castagni scuri, occhi cervoni, viso bislungo, naso rosso». Alessandro Manzoni nel 1805,Ugo Foscolo (1778-1872), Gustaf W. af Tibell (1772-1832)

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Eccomi dunque traduttore con tutte le potenze del-l’anima, per onore della divisa Italiana e della linguanostra militare; ma s’io tradurrò e commenterò totisviribus, avrò pari studio e pari forza per preservarmiimmacolato di adulazioni». Armamentario fuor diluogo per un incarico tanto modesto come la traduzio-ne di qualche pagina di propaganda: per non parlaredell’idea balzana di poter commentare in proprio labattaglia su cui, mistificando, lo stesso imperatoreaveva costruito la propria glorificazione. Forse pro-prio per questo nessuno gli fece fretta e Napoleone,come spesso accadeva, dimenticò di aver ordinato latraduzione.

Forse Lomonaco lo prese come un torto?Forse fu il risentimento a fargli sbagliare, nel settem-bre 1806, l’enfasi del suo Discorso inaugurale deicorsi di Pavia? Lo giocò infatti tutto su una rievoca-zione di Machiavelli, Bruno, Campanella e Vico anzi-ché sulla palingenesi napoleonica, il che spiacque inalto loco, tanto che il governatore della scuola, Psalidi,fu invitato a richiamare il professore. Durante il suosoggiorno a Brescia, nel giugno-settembre 1807,Foscolo gliene combinò poi una peggiore mettendosiin capo di commentare le opere di Montecuccoli,senza rispettare la prelazione di Lomonaco, il qualeaveva incluso la biografia del condottiero nelle Vite diEccellenti e un suo Elogio (opera di AgostinoParadisi) nelle Vite dei capitani. L’idea del commentogli fu forse suggerita dal presidente del consiglio legi-slativo, il conte Estorre Martinengo Colleoni, già uffi-ciale del genio prussiano e cultore di studi militari(fortificò Brescia, inventò una macchina incendiariaper difesa portuale e nel 1806 pubblicò un opuscolosulla Milizia equestre). Nella dedica spudorata del 12novembre 1807 a Caffarelli, «amico alle lettere edestimatore degl’ingegni», Foscolo scriveva: «Piacciaall’Eccellenza Vostra di risguardare questa edizionecome una emanazione delle vostre liberali intenzioni,e come offerta leale di un militare, che non ha scrittomai, né dedicato verun libro per procacciarsi favore».Appunto. Il 27 maggio 1808, contestualmente

all’uscita del I volume, Foscolo ottenne infatti ilrichiamo in servizio sedentario a mezzo stipendio.Che s’ha da fa pe’ campa’. Il 23 luglio scriveva aMario Pietri: «io m’affretto dietro al secondo volumede Montecuccoli e mi pare mill’anni d’uscirne». Nel gennaio 1809 Lomonaco se lo vide arrivare aPavia, professore di eloquenza. «Da gran tempo –scriveva Foscolo all’amico Naranzi – io tentava discansarmi dalla schiavitù della milizia; non mi pentodi aver militato; mi pento bensì grandemente deltempo rapito agli studi. Ho varcati i trent’anni, e biso-gna ormai ch’io pensi più alla quiete ed alle lettere chealle armi e ai ricami delle divise soldatesche».Commentare Montecuccoli gli aveva ormai dischiusogli arcani della strategia: un ingegno come il suodoveva dar ora al mondo la Storia dell’arte dellaguerra. «Per giungere ai principi e fissare la loro vali-dità» intendeva «risalire per la scala di tutti i fatti, ditutti i tempi e di tutti gli agenti; paragonare il sistemadi tutti i popoli dominatori ed il genio dei celebri capi-tani, onde scoprire le cause generali che influironoalle conquiste; finalmente esaminare sotto quali appa-renze e con quali effetti queste cause generali agisco-no ai nostri giorni». Da tali altezze sublimi vide acu-tamente che la sconfitta di Sacile del 16 aprile 1809 ela ritirata strategica del viceré non reclamavano il suobrando. Certo, dichiarò più tardi, «se le faccende aves-sero peggiorato, io non avrei patito di starmi tranquil-lo nella pubblica calamità; e rivestita la divisa, avreimilitato anche io, pagato o no, a piedi o a cavallo,capitano o soldato». Ma, dal momento che sulla Raabnon c’era bisogno di lui e che le cattedre d’eloquenzafurono soppresse, attese finalmente a scrivere il IIvolume del Montecuccoli, uscito alla finedell’anno.Sarà stato questo trombone che gli passeg-giava declamando sui piedi, a indurre Lomonaco aprendere la funesta decisione di pubblicare, nel 1809,i Discorsi letterari e filosofici (ora Morano, Napoli,1992)? Certo la rovina se l’attirò da solo, col vittimi-smo moraleggiante e rancoroso del loser, che, senten-dosi incapace di competere per le donne e il potere,pretende di ottenerli denunciandoli come vizio. Le

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donne, il levantino le sfruttava senza scrupoli; il luca-no le malediceva in segreto (Delle Femmine, Calice,Rionero, 2002). Quanto al potere, quello campò direndita sul suicidio di Jacopo Ortis, l’altro si tolse daipiedi da solo. Milano non sarà mai beatamente spudo-rata come la Roma di Onofrio Sordi nel Marchese delGrillo, ma livida e vendicativa come Peyton Place:quel pochissimo che già c’era da bere si legò al dito lecriptiche allusioni a miserabili storie di corna. Dopoun violento attacco del Giornale italiano, il volume fusequestrato dalla polizia.Lomonaco fu però difeso dalministro della guerra e un’in-chiesta interna tra i suoi allievi siespresse in termini vivamenteelogiativi. In seguito il direttoredegli studi propose più volte diconcedere gratifiche e riconosci-menti al professore, giudicato ilmigliore della scuola e l’unico adaverle dato lustro con le sue pub-blicazioni di “storia militare”.Il suicidio spianò la strada alleambizioni storico-militari delVate. Sfumate le nozze con unafacoltosa contessina comascasorella di un caduto, nel 1810 lesue critiche alle moderne tradu-zioni di Omero provocarono lacelebre rottura con Monti e un periodo di disgrazia.Pose mano, allora, alla dimenticata traduzione delcommentario di Marengo: trenta paginette, pubblicatenel 1811 dalla Stamperia Reale, che gli valsero l’inca-rico, datogli dal ministro Fontanelli, di compilare lastoria dell’esercito cisalpino–italiano. «Ma ciò – scris-se poi Zanoli – non sortì effetto, e per essere andatoFoscolo in Toscana nel 1813 (rectius nell’agosto1812), e poi per aver palesato la strana ambizione diaver titolo d’istoriografo dell’esercito, siccome loebbe inutilmente del regno Monti Vincenzo».Nell’ottobre 1813, appresa a Firenze la notizia diLipsia, Foscolo tornò a Milano, riprendendo servizio

quale capitano: non però al fronte, ma a disposizionedel ministero della guerra, impiegato per la propagan-da a favore dell’arruolamento dei volontari. Redigereproclami era in fondo l’incarico più confacente al let-terato che confondeva la storia con l’«esortazione allestorie».

Il 26 aprile 1814, il nuovo comandante nominaledell’esercito, Pino, lo promosse capobattaglione peraver sottratto il generale Peyri al linciaggio durante i

tumulti del 20. Foscolo andò poia Genova da Lord Bentinck aportargli una copia delMontecuccoli e un assurdo pro-getto per far ribellare le truppeitaliane accantonate traBergamo e Brescia e chiamaregli inglesi a scacciare gli austria-ci. Gli fu in seguito rimprovera-to di non aver disdegnato lelusinghe del marescialloBellegarde che gli offriva ladirezione di una rivista né la spe-ranza, delusa, di ottenere la pen-sione per sé e per il fratelloGiulio, tenente del 3° cacciatoria cavallo. Gli va tuttavia ricono-sciuto di essere infine partito inesilio il 31 marzo 1815, per non

prestare il giuramento all’imperatore Francesco Irichiesto agli ufficiali ex-italiani. Nel 1816 comparve la prima tragedia di Manzoni, IlConte di Carmagnola, ispirata dalla biografia scrittada Lomonaco: mezzo secolo dopo Manzoni dedicòall’amico un commosso ricordo, pubblicato però solonel 1876 sul Corriere della Sera. Di Foscolo e Lomonaco, come “storici militari”, par-liamo oggi solo perché a Milano, per prezioso con-trappunto, ne capitò allora uno vero. Era uno svedese,Gustaf Wilhelm af Tibell (1778-1832), che aveva fon-dato “l’Accademia” (nel senso di salotto culturale)militare di Stoccolma e che fu poi ministro della guer-

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Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 RomaAbbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme

le idee per renderlo migliore…

il quotidiano

Tutti i giorni in edicolalo fa solo liberal

…questo

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ra del suo paese (il ritratto ricorda il generale del filmIl pranzo di Babette). A Milano, nel 1801-02, Tibellfondò sia il Deposito della guerra e il corpo degli inge-gneri topografi, sia un cenacolo analogo a quello sve-dese e la prima rivista militare italiana (il Giornaledell’Accademia militare italiana). Era davvero dialtissimo livello tecnico-scientifico e perciò fu unmiracolo se tra quegli zulù durò addirittura più di unanno (dall’aprile 1802 al giugno 1803) con 883 copievendute. Sulla rivista Tibell tracciò in modo chiaro lostatuto epistemologico e il metodo della storia mili-tare professionale e scientifica, nata dalle “memoriemilitari” allegate alle carte topografiche e caratteriz-zata dall’intento di «rendere conto in una manieramolto particolareggiata delle operazioni militari» perservire all’elaborazione e alla critica della scienza edella dottrina militare. Finalmente nel luglio 1803Tibell comprese che razza di gente aveva davanti ese ne tornò in Svezia. Ovviamente la scuola militaredi Milano finì intitolata non a lui, l’unico che se losarebbe meritato, ma a Pietro Teulié, un avvocatic-chio giacobino con tanto di orecchino, disastroso siacome sindacalista degli antemarcia sia come mini-stro della guerra cisalpino-italico, che nel 1807 sifece stupidamente ammazzare da una cannonatamentre, ubriaco come una cucuzza, inveiva a caval-cioni di una batteria contro le mura di Kolberg (dife-sa da Gneisenau, interpretato da Horst Kaspar nelfamoso film di Veit Harlan del 1944).Creando un contesto culturale, Tibell poté spremerequalche stilla di pensiero militare perfino dagli ufficia-li italiani, almeno da qualche giovane più dotato, manon riuscì a impiantare una scuola italiana, tanto menoa promuovere una storiografia militare nazionale.Poteva riuscirci se fosse rimasto a Milano più a lungo?C’è da dubitarne. Non ne esistevano infatti né i pre-supposti politici né le condizioni culturali. Una storiamilitare scientifica presuppone l’indipendenza, lapiena sovranità del Principe. Uno stato semplicemen-te autonomo, privo del ius belli ac pacis; uno statomaggiore puramente esecutivo, senza la responsabili-tà del piano generale di campagna, non producono

storia scientifica, ma soltanto ideologia e propaganda.La storia come istorìa e intelligence è incompatibilecon la dipendenza, perché la smaschera, delegittiman-do l’ordine costituito. Una classe dirigente seleziona-ta dallo straniero per svolgere un ruolo subalterno enon nazionale, avverte istintivamente il rischio diessere radicalmente delegittimata da una visionescientifica e oggettiva dei rapporti politico-militari efinisce sempre, senza averne magari piena coscienza,per respingere ed espellere il corpo estraneo, comeavvenne puntualmente con Tibell. Nessuno tentò di trattenerlo o di proseguire al suoposto l’azione culturale intrapresa e che, solleti-cando effimere vanità di vedersi pubblicati sulGiornale o ricevuti dall’accademia, dovette susci-tare nella massa dei dirigenti militari italiani (traî-neurs de sabre, ex-avvocati politicanti o al massi-mo geometri e ragionieri in uniforme) rabbioseansie da confronto. Non stupisce perciò che il suonome sia stato cancellato non solo dalla memoriaufficiale, ma perfino dai ricordi di chi occasional-mente e distrattamente collaborò con lui.

Quanto alla cultura nazionale, essa era ancorpiù intrinsecamente refrattaria del governo e dellostato maggiore italiani alla storia militare scientifica.Continuava infatti, come nell’antico regime, a coniu-gare universalismo e particolarismo, il mondo commi-surato al municipio: dove l’unico tocco davveromoderno era la sostituzione del cosmopolitismo bor-ghese all’umanesimo. Centrale era perciò, nella cultu-ra politica italiana, la questione costituzionale, nonquella della sovranità: non l’impossibile conquista diun potere indipendente, ma la concreta ripartizione diquello delegato. L’esercito nazionale era percepito inmodo puramente sociale, da un lato come onere, dal-l’altro come parte della classe dirigente: non come lostrumento di un disegno politico; che non c’era e nonsi voleva. E la storia militare passava quindi da unafunzione critica ad una funzione ideologica, dal repar-to operazioni al reparto propaganda. Da Tibell, appun-to, a Foscolo.

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POVERO MONDO,GOVERNATO(SEMPRE PIÙ)DALL’IMPREVEDIBILE

Libro interessante, vivace e molto ben scritto, nel solco della brillante saggisti-ca giornalistica alla Bob Woodward (opera omnia), Tom Friedman (soprattut-

to quello de Il mondo è piatto, esplicitamente citato come una delle fonti di ispira-zione dell’autore) e Malcom Gladwell (Outliers). Pieno di una sorta di energiacreativa che prorompe in ogni frase, acuto e avvincente nell’analisi che mescolasicurezza, geopolitica, terrorismo, tecnologia, finanza, servizi segreti, ambiente,commercio internazionale, epidemie, sociologia e aspirazioni di tutti e di ciascuno,il saggio risulta tuttavia discutibile nelle conclusioni. Si rivela un prodotto intellet-tuale da “maneggiare con cura,” divertendosi per lo stile e le intuizioni che zampil-lano continuamente, allargando le propria percezione della contemporaneità eimparando dalla notevole dottrina storica e geopolitica del quale è permeato, cor-roborata da robuste fonti di prima mano derivate dal milieu dell’autore - ma tuttociò senza prendere troppo alla lettera le raccomandazioni che il medesimo prodot-to diffonde a piene mani. Esse scivolano fra le dita come i granelli di sabbia checostituiscono una delle metafore più sorprendenti del saggio (ne accenneremo piùavanti). Lo stesso autore è un personaggio certamente notevole, interessante e viva-ce come il libro - addirittura più promettente di quest’ultimo nelle prospettive ipo-tizzabili per entrambi i soggetti, saggio e saggista. Si chiama Joshua Cooper Ramo,un nome di per sé già intrigante nel suo esotismo poco Wasp. Ha 45 anni, è laurea-to in fisica ed economia, è stato un brillante giornalista, fra l’altro come giovanis-simo capo della redazione esteri di Time Magazine, nonchè un globe trotter geopo-litico e un esperto di Cina e Medioriente. Domiciliato fra New York e Pechino (edove, sennò?), è attualmente direttore responsabile della Kissinger Associates,

di Andrea Tani

JOSHUA COOPER RAMO

Il secolo imprevedibile Perché il nuovo disordinemondiale richiede una rivoluzione del pensiero

Elliot Edizioni pagine 316 • euro 18,50

Il mondo cambia, ogni giornopiù rapidamente e verso direzioni sempre meno prevedibili. «Percepire questo cambiamento, accettare l’idea che la realtàsia un sistema complesso incontinua evoluzione, dovesempre più spesso ciò chesembrava impensabile diventa inevitabile, è oggi lasfida più importante. Ognidecisione contraria, ogniresistenza, ogni rifiuto diadattarsi all’ambiente circostante continuerà a produrre i risultati disastrosiche stiamo vivendo».

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ovvero vice del grande Henry e presumibile suo erededesignato - almeno della corporation; il resto si vedrà.Anzi, si sta già vedendo. Una delle parole d’ordine dellibro, ovvero la miracolosa “resilienza” della qualedovrebbero essere dotati i sistemi internazionali peraffrontare i continui traumi odierni senza andare inpezzi, è già stata abbondantemente citata nella recenteNational Security Strategy dell’AmministrazioneObama (in tale accezione si tratta un termine inedito).Nulla vieta quindi che il delfino della K&A percorra alcontrario la traiettoria del mentore al quale il libro èdedicato - dalla Fondazione ai fasti del potere, NationalSecurity Council o e/o Foggy Bottom, se e quando latrama dei presidenti democratici dovesse perpetuarsi.Nel campo repubblicano non c’è molta simpatia perRamo, che ha fatto della rigidità conservatrice diGeorge W. Bush e compagni il paradigma classicodella leadership sclerotizzata da superare (anche qui,wait and see).L’idea di fondo del libro, a onor del vero non partico-larmente innovativa (le innovazioni sono nella presen-tazione dei fatti a sostegno), è che il mondo stia viven-do un’epoca rivoluzionaria, caratterizzata da proble-matiche la cui complessità, imprevedibilità e intercon-nessione sfidano gli sforzi in atto per gestirle. La velo-cità di diffusione delle crisi e la loro capacità di diffon-dersi da un contesto ad un altro - a mille altri, ad esse-re precisi - fanno sì che ogni discontinuità possa proli-ferare con una ampiezza e una rapidità che vanificanoogni contromisura. Non occorre fare esempi, la crona-ca giornaliera è sufficientemente eloquente «Unabanca fallisce, e cinquanta seguono in pochi giorni; unpaese sviluppa l’arma atomica, e una dozzina la voglio-no imitare; un computer o un bambino viene colpito daun virus, e la velocità del contagio sfida ogni cura»afferma l’autore. In tale contesto, gli stati - depositari massimi delle con-tromisure - non ce la fanno a star dietro a tutte le emer-genze e finiscono per abdicare al ruolo di massimi atto-ri della scena internazionale. Per inadempienza opera-tiva, innanzitutto. Un numero crescente di nuovi prota-gonisti non istituzionali li sta sostituendo, senza che

nessuno abbia ben compreso quali saranno le conse-guenze di tale avvicendamento. Il plauso del pubblicoe della critica va soprattutto a loro, o almeno ai piùagili, flessibili ed esperti in pubbliche relazioni. Questacrescente “complessità dell’imprevedibile” è destinataa permanere. L’Era della Stabilità, ammesso che siamai esistita, è tramontata definitivamente, sotto il pesodi fallimenti a catena. La prima parte del libro analizzai rovesci che li documentano. Fra gli altri: • tutte le contro-insurrezioni occidentali del secon-do dopoguerra (21 campagne perse su 22, con l’uni-ca possibile vittoria del Leone britannico in Malesianel 1948);• l’attacco, dopo l’11 settembre 2001, allo stato sbaglia-to (se fosse stato l’Afghanistan al posto dell’ArabiaSaudita - l’autore non precisa - sarebbe stato difficilefare altrimenti); • il Mission accomplished di George W. Bush dopol’iniziale blitz di Iraqi Freedom; • la mancata neutralizzazione di 500 guerriglieriHezbollah da parte di 30mila effettivi di Tsahal nellacampagna libanese del 2006;• l’inanità nell’imporre la democrazia a soggetti che larifiutano per principio;• l’intera opera di Alan Greenspan e il suo finale e pate-tico mea culpa;• la grande crisi finanziaria ed economica in corso.

L’età delle sicurezze granitiche è stata sostituita,secondo Ramo, da una specie di versione geopoliticadel Principio dell’Incertezza di Heisenberg (postulatoche mette in discussione il determinismo dei fenomenifisici) e annessa focalizzazione sulla “probabilità”come prevalente criterio predittivo degli avvenimenti.Un altro suggestivo riferimento scientifico sulla impre-vedibilità dei fenomeni e anche sulla complessità dellarealtà riguarda i coni di sabbia, il cui comportamento èstato studiato minuziosamente dal fisico/biologo dane-se Per Bak. Lasciati cadere da un’altezza predetermina-ta i granelli che li compongono raggiungono uno statodi equilibrio precario, formalizzato nel solido uniformeche bambini e genitori continuamente innalzano sulle

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spiagge. Ad un certo punto, senza alcun preavviso, unulteriore singolo granellino destabilizza la struttura e ilcono collassa, ma non si riesce a capire come e perchéproprio in quel momento. Il fenomeno equivale al clas-sico filo di paglia sulla schiena del cammello che tutta-via, con tutta probabilità, nessun scienziato ha mai veri-ficato (il battito delle ali della farfalla che innesca l’ura-gano tropicale è probabilmente solo una suggestivaleggenda). Difetta quindi di quel rigore cartesiano cheRamo ritiene superato pur applicandolo nelle sue meta-fore (non si tratta dell’unica incoerenza di un lavorogiornalistico che utilizza con una certa disinvolturaargomenti scientifici). Tutte queste analogie sull’aleatorietà dei fenomenireali, fisici o geopolitici che siano, derivano probabil-mente dalle frequentazioni universitarie dell’autore econ tutti i loro limiti costituiscono alcune delle intuizio-ni più interessanti e profonde del libro. Vengono citatimolti casi storici e di attualità a sostegno di tali ipotesi,dall’avvento di Hitler alla caduta dell’UnioneSovietica, al crollo della monarchia in Iran ai fallimen-ti americani in Iraq e Afghanistan, alla recente crisi delcredito - tutti eventi totalmente inaspettati anche per gliaddetti ai lavori. Ci sarebbe da disquisire sulla “perva-sività” di tale imprevedibilità o piuttosto sulle piùbanali carenze di intelligence che a volte le hanno pro-vocate, dovute a elementi del tutto determinabili, ma èchiaro che più i fatti si aggrovigliano più gli smacchipredittivi sono plausibili, senza che ciò chiami neces-sariamente in causa l’obbligatorietà di una legge gene-rale che risulterebbe altrettanto vincolante del determi-nismo che Ramo vuole superare. Le nuove e minacciose dinamiche che rendono cosìaleatorio il divenire del mondo impongono, secondol’Autore, una “completa reinvenzione della nostra ideadi sicurezza”, rovesciando le certezze geopoliticheconsolidate da un paio di millenni. Dogmi concettualicome “stabilità”, “equilibrio di potenza (e dei poteri)”,“deterrenza”, ovvero i tradizionali cardini delle relazio-ni internazionali, risultano completamente superati afavore delle multiformi manifestazioni di un “caos tol-lerato e controllato”, un equivalente della fissione rego-

lata che produce energia nei reattori nucleari. “Semprepiù Khaos e sempre meno Nomos”, quindi, comeperaltro recitava il leit motiv di un recente convegnoNomisma sul tema, apparentemente svincolato delledissertazioni del Nostro. A questo “caos controllato” dovrebbero corrispondereun complesso di comportamenti tendenti ad un approc-cio “net-centrico” nell’articolazione e funzionamentodelle istituzioni. Ramo li riassume all’americanamaniera con una serie di sofisticati aforismi e sdram-matizzanti nickname validi, come afferma, «sia per laconduzione di uno stato che di una famiglia» (speria-mo che sia scapolo.). Si tratta della “distribuzione delpotere e delle intelligenze”, dell’adattamento costantedei comportamenti ai fluidi del divenire, delle strategieeffect-based, del “pensiero concettuale”, nonché dellagià citata e un po’ pedante “resilienza” da opporre allenegatività. Ovvero “mi piego ma non mi spezzo” (unacerta cultura italica è resiliente “da mò”, direbbero aNapoli, ma i risultati di questa modernità ante litteramnon sono poi così incoraggianti. Ne è al correnteRamo?). Un’altra innovazione auspicata dall’autore èl’imitazione, da parte delle difese istituzionali deglistati, del sistema immunitario degli esseri viventi, cheaccetta le aggressioni, evitando di prevenirle (perché inrealtà non può. Quando ci riesce, ne abusa, come fal’uomo nelle disinfestazioni chimiche di culture e habi-tat), e utilizzandole per rafforzarsi. Ci sarebbe da osser-vare che questo approccio non costituisce una novità:si tratta di metodiche già ampiamente adottate da setto-ri chiave degli stati, come le Forze Armate, i servizi disicurezza, l’anticalamità, l’emergenziale in genere.Cosa sono la formazione duramente selettiva degliaddetti, le esercitazioni più realistiche, le simulazioni,gli impegni operativi accessori ma ricercati con unimpegno a volte incomprensibile, se non una continuaopera di vaccinazione operativa in vista degli impegnipiù gravosi? I nuovi atteggiamenti auspicati da Ramo sembranoaffascinanti nella loro enunciazione, ma risultano piut-tosto ardui nella loro applicazione concreta (“mancan-za di realismo e di proposte praticabili” è la critica

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ricorrente al saggio). Essi si dovrebbero accompagnaread un processo continuo di innovazione e apprendi-mento iterativo aperto alle altre culture, particolarmen-te necessario ad un Occidente molto introspettivo, maignaro del resto del mondo. Su questo tema Ramo sisofferma a lungo dimostrando un’accentuata simpatia -anzi “empatia”, come più volte ripete, per auspicarla -verso le culture asiatiche che “percepiscono olistica-mente”, a differenza di quelle occidentali che tendonoa focalizzare un tema per volta disinteressandosi al con-

testo, fondamentale per un cinese o un giapponese. Parecchio altro si potrebbe dire del lavoro, che a dispet-to dei suoi numerosi difetti – leggendolo e rileggendo-lo saltano sempre più agli occhi – è comunque uno deipiù recenti e godibili esempi di come si può fare auto-revole informazione appassionando, ammaestrando,divertendo e suscitando, oltre le critiche, anche pensie-ro libero.

RILEGGENDO L’ITALIA DI CANALE MUSSOLINI

Tra le mie letture di quest’annno c’è stato CanaleMussolini, di Antonio Pennacchi, premio Strega2010. Sono 460 pagine dense di storia, di cultura,di eventi così vicini a noi ma già così lontani, chearricchiscono senza stancare mai. Perchél’Autore riesce a proporle con passione, scanzo-nata nonchalance e grande semplicità, smitizzan-do fatti, cose e persone ma, al tempo stesso, scon-figgendo l’oblio, ne rafforza il mito. È una storiaoriginale e documentata della bonifica delle palu-di pontine, di cui il Canale Mussolini, scavatodalle pendici dei monti fino al mare per incanala-re le acque, è l’asse portante di tutta l’opera. Dellibro e della bonifica. Su questa terra nuova, recu-perata all’agricoltura e in parte strappata al lati-fondo dall’ambiziosa creatività del fascismo tra ledue guerre, all’inizio degli anni Trenta vengonofatti insediare migliaia di contadini trasportati dalnord - interessante è la puntuale descrizione diquesto esodo - che lasciano le proprie terre ediventano i primi attori di un’Italia nuova.Trovano tutto già predisposto. A ciascuna fami-glia viene assegnato un podere, con tanto dibestiame, casa colonica, sacchi di semente e pian-

tine da porre a dimora. Sono ferraresi, veneti efriulani con nonne imperiose che sanno guidare ilcarretto e governare le bestie, uomini forti e voli-tivi, mezzadri che sanno fare tutti i mestieri,donne spavalde che alle feste di mietitura ballanoe ridono con tutti i maschi, ragazze che pedalanodisinvoltamente in bicicletta sulle strade alzaie einnumerevoli bambini di ogni età. Per i “maroc-chini” locali sono i “polentoni” o “cispadani” delnord, da guardare con sospetto per le loro libereabitudini, in stridente contrasto con le antiche tra-dizioni di una società di fatto ancora feudale.L’artificio che trova Pennacchi per raccontarevera Storia senza annoiare è inventarsi una fami-glia di coloni - i Peruzzi - attorno alla qualeincentrare tutti i maggiori accadimenti dell’epo-ca, dalla “battaglia del grano” fino a quelle diEtiopia, Spagna e seconda guerra mondiale, in cuii vari membri della famiglia vengono man manocoinvolti. La vita nei campi e nei poderi, assiemeai rapporti spiccioli con il regime, restano sempree comunque il filo conduttore, fino ad una neme-si finale che per il lettore sarà una vera sorpresa.La galleria di personaggi che compongono questasaga familiare è assai numerosa - come numerosedovevano essere tutte le famiglie dei coloni tra-

di Mario Arpino

Per ricordare chi siamo stati, da dove arriviamo e cosa non dobbiamo perdere: la nostra memoria nazionale

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piantati dal regime - e si articolasulle due generazioni, quella deinonni e quella dei figli che hannovissuto in modo consapevole l’av-ventura del trasloco dal nord, piùuna innumerevole schiera di nipo-ti della terza generazione, che perònel libro ha solo il ruolo di com-parsa. Con l’eccezione della pre-annunciata “sorpresa” nell’epilo-go. Troviamo così zio Pericle,fascista convinto verso cui ilPartito ha un debito segreto, mache dal fascio non si fa dettareordini, e poi zio Adelchi, che pre-ferisce comandare che lavorare,Iseo e Temistocle, Treves e Turati- i cui nomi ricordano l’originesocialista della famiglia Peruzzi.C’è poi la schiera di sorelle e dinuore, a volte buone e compassio-nevoli, a volte amiche ed altremeno, e altre volte perfide e vele-nose, come zia Bissola, che in dia-letto significa “biscia”, ma che inrealtà è un abbreviativo diBissolata. La più bella è la ziaArmida, sposa di zio Pericle, il piùvaloroso, ma anche fonte di guaiper tutta la famiglia. La tecnicanarrativa di Pennacchi è un lungomonologo, dove l’autore, vocenarrante, si rivolge direttamentead un muto interlocutore, chepotrebbe anche essere un intervi-statore, ma che in realtà è ciascunlettore. La stesura è in prima per-sona, uno dei nipoti di terza gene-razione che ripete fedelmente, masempre con una propria chiave dilettura, tutte le storie udite in fami-glia e tramandate dagli zii e dai

nonni. Il metodo è così efficace,fluido e continuo che il libro, perquanto corposo, non lascia nem-meno avvertire l’esigenza di unindice o di una suddivisione incapitoli. Vi sono solo tre stacchi,che tuttavia svolgono l’unica fun-zione di separare fisicamente, purmantenendoli legati concettual-mente, tre periodi distinti di questasaga di famiglia.«Non esiste naturalmente nessunafamiglia Peruzzi in Agro Pontino acui siano capitate tutte le cose nar-rate qui» - scrive l’Autore nellasua brevissima autoprefazione -«Sia la famiglia Peruzzi che lasuccessione delle cose che le capi-tano, anche in riferimento ai per-sonaggi storici realmente esistiti,non sono che frutto di invenzione(….). Non esiste però nessunafamiglia di coloni veneti, friulanio ferraresi in Agro Pontino - eanche questo è un fatto - a cui nonsiano capitate almeno alcune dellecose che qui succedono aiPeruzzi». Questo ulteriore artificioè molto importante, perché con-sente a Pennacchi di mescolarecontinuamente realtà e fantasia -rimanendo però sempre nel verosi-mile. Tuttavia la componente“reale” - ancorché trattata spessocon disinvolta irriverenza, maanche con una vena di ammirazio-ne verso personaggi famosi e isti-tuzioni care al regime - si lasciadistinguere nettamente da quellafantastica per la precisione deicontorni, la profondità di indaginee una non comune obiettività stori-

ANTONIO PENNACCHI

Canale Mussolini

Mondadori pagine 460 • euro 20,00

Operaio turnista in fabbrica fino a cinquant’anni, nato a Latina, dovevive, nel 1950. Pennacchi esordiscecon l’editore Donzelli (Roma, 1995)con “Palude. Storia d’amore, di spettri e di trapianti”. Per Mondadoriha pubblicato nel 2003 “Il fasciocomunista”, da cui è stato tratto il film “Mio fratello è figliounico” e “Shaw 150”. Storie di fabbrica e dintorni (2006). ConLaterza (2008) è autore di “Fascio emartello”. Canale Mussolini è l'asseportante su cui si regge la bonificadelle Paludi Pontine. I suoi arginisono scanditi da eucalypti immensiche assorbono l'acqua e prosciugano i campi, alle sue casca-telle i ragazzini fanno il bagno e aironibianchissimi trovano rifugio. Su questa terra nuova di zecca, bonificata dai progetti ambiziosi delDuce e punteggiata di città appenafondate, vengono fatte insediaremigliaia di persone arrivate dal Nord.Tra queste migliaia di coloni ci sono iPeruzzi. A farli scendere dalle pianurepadane sono il carisma e il coraggiodi zio Pericle. Con lui scendono ivecchi genitori, tutti i fratelli, le nuore.E poi la nonna, dolce ma inflessibilenello stabilire le regole di casa cui ifigli obbediscono senza fiatare.

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ca. Nel fare ciò, senza apparire, Pennacchi assu-me la veste del professore, di colui che sa, si èdocumentato ed è in grado di trasferire con cor-rettezza la nozione di cose, fatti e persone che -se si fa eccetto per certe zone dell’Agro - la sto-riografia ufficiale di questo dopoguerra halasciato volutamente ricoprire dalla patina deltempo. Così, esce dalle pagine del libro unMussolini inedito, particolare, famigliare, proba-bilmente molto più vicino a ciò che era stato alleorigini di quanto lo fosse alla fine. Si parla di unEdmondo Rossoni - nume tutelare della famigliaPeruzzi - che nessuno oggi sa più chi sia stato.Mentre all’epoca era uno dei personaggi più atti-vi del regime, l’ispiratore di tutte le bonificheportate a termine sulla terraferma e nelle isole, ilfondatore dell’ Unione Italiana Lavoratori (Uil),il segretario generale della confederazione deisindacati fascisti, uno dei membri del GranConsiglio che il 25 luglio 1943 ha votato l’ordi-ne del giorno Grandi contro il Capo delGoverno. Anche la discussa figura di Italo Balbone esce in modo sereno, senza insistenze - comesi è fatto per anni e ancora oggi qualcuno ciprova - sull’accusa di essere stato il “mandante”dell’uccisione del povero don Minzoni, cheinvece Pennacchi descrive come esito involonta-rio dell’azione di una squadretta punitiva di pic-chiatori. Anche qui dimostra la sua serietà didocumentazione, in quanto è evidente che deveaver letto la sentenza del 4 dicembre 1924, dellaVII sezione del Tribunale di Roma e quella sca-turita dal processo celebrato in epoca nonsospetta, nel 1947, dalla corte di assise diFerrara, che escludevano entrambe ogni direttaresponsabilità del futuro trasvolatore. Inconsuetaper spontaneità - in seguito vedremo chi è il per-sonaggio Antonio Pennacchi - anche l’esplicitaammirazione per la determinazione del regime:«Ci avevano provato i Romani a bonificare que-ste paludi, e prima di loro gli antichi Latini, e poianche i papi, Leonardo da Vinci e Garibaldi. Ma

la palude aveva sempre vinto lei. (….). Poi arri-vano il Duce e Rossoni, decidono di scavare ilcanale Mussolini e dove non erano riuscitiGiulio Cesare, Pio VI e Napoleone, in quattro equattr’otto bonificano tutto…». Non solo.L’Autore, nel racconto, fa anche in modo dismentire chi, pur di denigrare in qualche modol’opera di bonifica, ha cercato nel dopoguerra diavallare la tesi che borghi, case coloniche epoderi fossero stati articolati sul terreno in mododa impedire ogni contatto sociale tra i nuovi abi-tanti, favorendone così il controllo da parte delregime. La dimostrazione sta in una delle sueopere precedenti.A questo punto, c’era da aspettarselo, suPennacchi è cominciata a calare l’accusa di“revisionismo”. Esattamente come era già acca-duto al bistrattato Giampaolo Pansa e a tutticoloro che hanno cercato di infrangere, raccon-tando in modo schietto la verità, alcuni deimostri sacri originati dalla fine della guerra inpoi. Tra gli altri, in difesa accorre anche PaoloButtafuoco, di Panorama, che giudica «un erroreda segnare con matita blu» ogni tentativo di farpassare Canale Mussolini come opera revisioni-sta. «Nel nuovo romanzo dello scrittore di Latina- afferma - c’è solo il magnificat della vera lette-ratura. C’è un’epica storicamente a noi vicinaeppure percepita lontana, ma per cecità obbliga-ta, speculare al revisionismo: l’esorcismo ideo-logico ad ogni costo. Fosse pure per pagare ilprezzo dell’oblio di ogni nostra radice sociale,culturale e spirituale». Il fascismo non c’entra inqueste pagine, dove il fatto che sia stata lavolontà di Mussolini, spinta da Rossoni, a redi-mere le paludi pontine è solo un dettaglio. LucioCaracciolo, direttore di Limes, è di parere analo-go. È il ritorno del romanzo italiano, dice anco-ra Buttafuoco, mentre l’unico paragone cherende giustizia a Pennacchi è RiccardoBacchelli, con Il Mulino del Po. E con la que-stione del revisionismo ritengo che, ormai, si

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libreria

possa chiudere qui. Per comprendere ed apprez-zare appieno questo libro è però indispensabilesapere chi è Antonio Pennacchi. Camilla Bigini,scrittrice e copywriter in rete, su Libri Blog ce loracconta così. Il nostro nasce a Latina nel 1950in una famiglia numerosa. I suoi sei fratelli ade-riscono presto a organizzazioni di sinistra, maAntonio si iscrive invece all’Msi, da quale peròviene espulso. Aderisce allora ai marxisti-lenini-sti, il cui organo di stampa è Servire il Popolo. Alla fine degli anni Settanta entra nel Psi e nellaCgil, dalla quale viene espulso, e si associa allaUil. Si iscrive poi al Pci e ritenta ancora l’avven-tura nella Cgil, dalla quale nel 1983 viene nuo-vamente espulso. Deluso, decide di lasciare deltutto la vita politica. Operaio all’Alcatel Cavi, in

un periodo di cassa integrazione si laurea in let-tere ed inizia la sua carriera di scrittore. Da allora ha lavorato molto e con varie case edi-trici - le sue opere sono riportate in terza dicopertina - per fermarsi poi da Mondatori con IlFasciocomunista, vincitore del premio Napoli, eora con Canale Mussolini, vincitore dello Strega.«Bello o brutto che sia - dice l’Autore - questo èil libro per cui sono venuto al mondo (….).Anche gli altri libri sono nati in funzione di que-sto e solo per lui mi sono messo a studiare le sto-rie più strambe di questo mondo, dall’uomo diNeandertahl all’architettura e le bonifiche fasci-ste: solo per poter fare questo libro…». Avretegià capito che Antonio Pennacchi è uno di quel-li che, se trova la sua strada, riesce alla grande!

EURABIA? È STATA INVENTATA DA HITLER

Gli attentati del 7 luglio 2005 a Londra, in cui i fonda-mentalisti islamici uccisero 52 persone, ferendone altre700, hanno spinto le autorità britanniche a lavorare coni musulmani per evitare violenze ed attentati in futuro.Purtroppo però, le autorità inglesi invece di rivolgersi aimusulmani contrari all’islamismo, alias quelli che rifiu-tano l’obiettivo trionfalista di applicare la legge islamicain Europa, hanno preferito rivolgersi agli islamisti non-violenti, sperando che quest’ultimi riuscissero a persua-dere i loro correligionari ad esprimere il loro odio versol’Occidente, rispettando la legge. Questo sforzo ha con-ferito un ruolo importante a Tariq Ramadan (classe1962), un eminente intellettuale islamico. Ad esempio,la polizia metropolitana di Londra ha in parte finanziatouna conferenza che vedeva Ramadan come relatore e ilpremier Tony Blair lo ha ufficialmente invitato a prende-re parte a «un gruppo di lavoro contro l’estremi-smo».Mettere in campo un islamista poteva sembrare

un’idea intelligente e originale, ma non è stata né l’unae né l’altra. Da decenni i governi occidentali si alleanosenza successo con gli islamisti. Anzi, per meglio dire, sisono alleati con la stessa famiglia di Ramadan. Nel1953, Dwight D. Eisenhower ricevette un gruppo dimusulmani provenienti dall’estero di cui faceva parteSaid Ramadan (1926-95), leader dell’organizzazioneislamica più influente del Ventesimo secolo - i Fratelli;usulmani, ferocemente anti-occidentale – nonché padredi Tariq. L’incontro fra Eisenhower e Ramadan ebbeluogo nell’ambito dei prolungati tentativi da parte delgoverno americano di radunare i musulmani contro ilcomunismo sovietico, in parte mettendo Said Ramadansul libro paga della Cia. Talcott Seelve, un diplomaticoamericano che lo ha incontrato all’epoca spiega:«Consideravamo l’islam un contrappeso al comuni-smo». Poi c’è stato Hasan al-Banna (1906-49), nonno diTariq, fondatore dei Fratelli musulmani e beneficiario difinanziamenti da parte dei nazisti. Alla fine degli anniQuaranta i diplomatici americani al Cairo avevano

di Daniel Pipes

Grazie alla Germania nazista (e in parte anche agli Usa) i Fratelli musulmani sono riusciti a dominare l’islam europeo

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“regolari incontri” con lui, lo trovavano“del tutto empatico” e percepivano la suaorganizzazione come una forza “modera-ta” e perfino “positiva”. A quanto pare, gliinglesi hanno offerto del denaro ad al-Banna. In altre parole, i governi occidenta-li hanno un passato che ignora la ributtan-te ideologia degli islamisti, e lavorandocon questi ultimi, li hanno perfino rafforza-ti. In una magnifica opera di indagine sto-rica e investigativa, Ian Johnson, un gior-nalista vincitore di un premio Pulitzerquando lavorava per il Wall Street Journal,rivela nuovi colpi di scena e svolte di que-sto dramma nel suo volume fresco di stam-pa dal titolo A Mosque in Munich: Nazis,the Cia, and the Rise of the MuslimBrotherhood in the West.Johnson inizia col passare in rassegna isistematici tentativi da parte dei nazisti direclutare i musulmani sovietici in mezzo ailoro prigionieri di guerra. Parecchi musul-mani detestavano Stalin, 150 - 300.000 diessi combatterono per le potenze dell’Assenella Seconda guerra mondiale. In altreparole, senza tener conto del loro infruttuo-so tentativo di propaganda rivolto agliarabi, i nazisti in realtà hanno messo incampo una vera e propria forza compostaprincipalmente da musulmani turchi sottola leadership di un fanatico nazista qual eraGerhard von Mende. Johnson segue l’ope-rato di Mende, dopo la sconfitta tedescadel 1945, mentre lo studioso continuava lasua attività anti-comunista con gli ex-musulmani sovietici, in seno al contestodella Guerra fredda. Ma questa rete di ex-soldati non si è dimostrata capace di con-seguire l’obiettivo di destare ostilità control’Unione Sovietica. Il loro intellettuale dispicco, ad esempio, era l’imam di una divi-sione delle SS che contribuì a sopprimere

la rivolta di Varsavia del 1944. Gli islami-sti si sono prontamente dimostrati assai piùcapaci in questa sfida politica e religiosa.Johnson spiega che essi «indossano giaccae cravatta, sono in possesso di diplomi dilaurea e possono formulare le loro richie-ste nei modi che un politico riesce a com-prendere». Il fulcro di questo affascinantestudio sta nel tracciare l’evoluzione, per lopiù a Monaco, da vecchi soldati a nuoviislamisti. È una classica storia di intrighiavvenuti negli Cinquanta, completa dinazisti riabilitati, di organizzazioni dicopertura della Cia e di duellanti ambizio-ni sovietico-americane. Johnson mostracome gli americani, senza qualcuno che lopianificasse, abbiano usurpato la rete diMende per consegnarla a Said Ramadan.E l’autore arguisce che questo sollecitoaiuto americano dato ai Fratelli musulma-ni abbia offerto all’organizzazione i mezziper stabilire una base islamista giusto intempo per accogliere negli anni Settanta ilflusso migratorio musulmano in Europa. Pertanto, la dominazione islamista deimusulmani europei ha due facilitatoriocculti: i nazisti e gli americani. Il fatto cheaffondi le sue origini nell’OperazioneBarbarossa rivela l’abietto pedigree dellaforza islamista odierna. Hitler e i suoi cri-minali non potevano prevederlo, mahanno contribuito a preparare la strada perl’Eurabia. Il sostegno americano agli isla-misti induce Johnson a mettere in guardiacontro la futilità di allearsi con i Fratellimusulmani e la sua famiglia d’origine -come Tony Blair ancora una volta ha ten-tato recentemente di fare. Ma per quantosia allettante, ciò danneggia immutabil-mente l’Occidente. La lezione è semplice:essere a conoscenza della storia e non aiu-tare gli islamisti.

IAN JOHNSON

A Mosque in Munich:Nazis, the Cia, and theRise of the MuslimBrotherhood in the West

Houghton MifflinHarcourt pagine 318 • dollari 27,00

Johnson, giornalista vincitoredi un Premio Pulitzer quandolavorava per il “Wall StreetJournal”, rivela - grazie allostudio di archivi americani eeuropei, classificati comesegreti e contenenti migliaia emigliaia di documenti - gli inediti colpi di scena chehanno portato la FratellanzaMusulmana della famigliaRamadan in Europa. Nel suolibro-inchiesta A Mosque inMunich: Nazis, the Cia, andthe Rise of the MuslimBrotherhood in the West,Johnson fa un’analisi deglieventi e dei personaggi chiaveche portarono negli anni ’50alla costruzione della moscheae del centro islamico diMonaco di Baviera dove eranoconfluiti l’Islam delleRepubbliche SocialisteSovietiche dell’Asia Centrale eCaucaso, l’Islam radicale deiFratelli Musulmani e i nazistiantisemiti.

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E F I R M EL del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa

OSVALDO BALDACCI: giornalista, analista di politica internazionale

DANIEL PIPES: direttore del Middle East Forum, editorialista del New YorkPost e del Jerusalem Post

EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e ilMediterraneo

RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’AmericaLatina

VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’UniversitàCattolica di Milano

ANDREA MARGELLETTI: presidente del Ce.S.I. - Centro StudiInternazionali

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai- Istituto Affari Internazionali - nell’Area Sicurezza e Difesa

ROGER F. NORIEGA: ambasciatore, già consigliere diplomatico presso laSegreteria di Stato per l’America Latina e ambasciatore Usa pressol’Organizzazione degli Stati Americani durante la presidenza di Gorge W. Bush

JOHN R. BOLTON: già ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite

MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore

ANDREA TANI: analista militare, scrittore

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Towards a safer world

Maritime surveillance is critical to ensuring the safety and security of coastal borders and offshore zones. Which is why we have developed scaleable airborne surveillance solutions that integrate multiple sensors within a modular mission suite to give a complete overview of the littoral. Already selected by eight nations, they are

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1414quaderni di geostrategia

2010settembre-ottobre

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 58anno Xeuro 10,00

Luisa Arezzo

Mario Arpino

Osvaldo Baldacci

Daniel Pipes

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Andrea Margelletti

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Michele Nones

Roger F. Noriega

John R. Bolton

Maurizio Stefanini

Andrea Tani• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

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SU

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RR

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L’onda nerasull’EuropaOsvaldo Baldacci

Eurabia? È stata inventata da HitlerDaniel Pipes

SUDAMERICAGUERRA O PACE?

SUDAMERICAGUERRA O PACE?

Socialismo, armie America LatinaPerché bisogna temere i movimenti di Chávez & Co. ma non averne paura

MARIO ARPINO

Il grande esercitoè in marciaNel Continente oltre un milione di soldatiregolari (senza contare i paramilitari)

ANDREA NATIVI

I cinquemoschettieriModello chavista, lulista e filo-Usa:ecco il vademecum politico

MAURIZIO STEFANINI

Quelle partite di pokersenza ObamaWashington perde terreno e la Casa Bianca ha sempre meno alleati

ROGER F. NORIEGA

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