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Rinascimento: il Quattrocento
Il termine "Rinascita" è stato usato, per primo, dal Vasari
verso la metà del XVI secolo perché, secondo lui, il periodo
in cui viveva "avrebbe fatto rinascere l'arte", dopo tanti
secoli durante i quali i "barbari" l'avevano distrutta .
Il termine vero e proprio "Rinascimento" invece, fu usato
per la prima volta dallo storico svizzero Jacob Burckardt
nella sua pubblicazione La civiltà del rinascimento in
Italia del 1860. Secondo la sua tesi il Rinascimento non è solo il risveglio dell’antichità ma consiste
in uno spirito nuovo identificabile con il popolo italiano. Proprio dall’Italia, infatti, si diffuse un
nuovo elemento morale che invase tutto il resto dell’Europa e che si affiancò alla Chiesa.
Per comprendere appieno la datazione del Rinascimento, occorre tenere presente che tra la fine del
XIV sec. e la prima metà del XV sec. assistiamo a un profondo mutamento in campo letterario e
sociale, meglio conosciuto come Umanesimo. Gli umanisti, fino a allora semplicemente letterati, e
gli artisti iniziarono a studiare le opere del passato, con particolare attenzione a quelle classiche.
L’Umanesimo, trasse il nome da humanae litterae, come erano chiamate le scritture classiche.
L’uomo misura di tutte le cose
L’uomo è considerato copula mundi, punto d’incontro, centro
del mondo, perché non può conoscere ciò che lo circonda se
non attraverso sé stesso, attraverso la propria ragione. L'intelligenza razionale, la capacità di invenzione e la
conoscenza fanno dell’uomo - agli occhi degli intellettuali del
rinascimento - una creatura potenzialmente capace di progettare
e trasformare il mondo. La figura umana, che negli anni
addietro aveva già conquistato una notevole attenzione nelle
opere, prese la parte più importante nello spazio stesso delle
composizioni.
L'uomo come centro di interesse è oggetto di studio. E' studiato
e analizzato sul piano fisico attraverso il disegno: nascono
l'anatomia e la fisiologia moderne. Il disegno anatomico è uno
strumento conoscitivo in cui si fonde sapere artistico e sapere scientifico. Nello stesso tempo si
rivaluta il nudo, si ritorna allo studio delle proporzioni secondo nuovi ideali estetici in cui si
recupera l'antichità classica. L'uomo è osservato anche sul piano interiore, spirituale, sorgono i primi interessi psicologici: lo
studio dell'animo, del carattere, della malinconia, la fisiognomica1, ecc. Gli artisti partecipano
attivamente a questi studi e nasce il genere del ritratto e della caricatura. Il ritratto rinascimentale
è l'espressione del culto della personalità, dell'individualismo moderno.
Il ritorno all’antico Il Rinascimento, già nel suo stesso nome, contiene l’implicito tema del recupero del passato. Nel
campo più vasto della cultura umanistica del tempo, recupero dell’antico significò studiare tutti
1 La fisiognomica è una disciplina pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di
una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto.
quegli autori classici che erano stati un po’ trascurati nel medioevo; significò un recupero anche di
quei temi filosofici che vanno sotto il nome di neoplatonismo.
Il neoplatonismo era nato nel III secolo grazie ad un filosofo di nome Plotino. Questo
neoplatonismo ritornò di gran moda nell’ambiente fiorentino del Quattrocento, grazie a pensatori
quali Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Senza entrare nel merito di questioni filosofiche, il
neoplatonismo fornì importanti spunti teorici di pensiero ad un tema che, con l’arte rinascimentale,
divenne improvvisamente impellente: il recupero della bellezza.
Arte e bellezza sembrano, per molti, quasi sinonimi. In realtà non è affatto vero. Che l’arte
avesse per fine la bellezza è stato vero solo in alcuni periodi della storia. È stato vero per l’arte
greca, ma non lo è stato, invece, per l’arte medievale.
Nel medioevo, una visione dell’arte, basata fondamentalmente sulla religione, escludeva del tutto la
bellezza. L’arte aveva un fine essenzialmente didattico: insegnare le storie della religione
cristiana. La bellezza non era importante, anzi, veniva spesso considerata apertamente pericolosa.
Questo perché la bellezza è qualcosa che parla ai sensi, e come tale può indurre più al peccato che
non ai buoni insegnamenti. Nel Rinascimento assistiamo invece ad un recupero intenso del concetto
di bellezza. Il perché è ben comprensibile: la bellezza era l’espressione stessa della perfezione e,
come nel mondo greco, si basa su leggi matematiche. La bellezza è l’armonia dei rapporti perfetti,
che solo i numeri sanno svelare.
Il neoplatonismo fu importante per le riflessioni sulla bellezza. Secondo questa filosofia, ciò che è
bello è anche buono, e ciò che è buono è anche bello. In pratica non c’era conflitto tra sfera etica
ed estetica e quindi anche il neoplatonismo contribuì a riportare, nel corso del Quattrocento, il tema
della bellezza ad una nuova attualità.
In questo, quindi, il Rinascimento recupera l’antico. Recupera il
senso del bello, l’armonia delle proporzioni, il gusto per la
perfezione formale. In ultima analisi, come l’arte classica,
anche l’arte rinascimentale vuole ottenere il naturalismo più
perfetto: vuole una rappresentazione della realtà che, nella sua
perfezione, sia conoscenza esatta di ciò che viene rappresentato.
In un primo momento, il recupero dell’antico si materializzò in
architettura, prima che nelle arti figurative. Il Rinascimento fu
anche rifiuto dell’architettura gotica, e delle sue irregolari
geometrie. Questo rifiuto portò gli architetti del tempo a recuperare, in alternativa, tutte quelle
forme e regole che avevano caratterizzato la grande architettura romana: gli ordini architettonici, gli
archi a tutto sesto, la regolarità delle forme geometriche, il modulo, e così via. In seguito, il ritorno
all’antico si manifestò sempre più nelle arti figurative, anche grazie ad una nuova attenzione posta
ai temi mitologici che, con il Rinascimento, tornarono nuovamente ad essere rappresentati.
Partendo dal presupposto che l'arte classica è un'arte naturalistica, lo scopo dell'arte era
imitare la natura, perciò, in questo periodo, si intensificano gli studi sulla natura.
Il nuovo ruolo dell’artista Per tutto il Medioevo, l’artista era stato sempre considerato quale un artigiano, persona, cioè, la cui
abilità era soprattutto manuale. Secondo una distinzione, che risale sicuramente a tempi molto
antichi, le arti erano divise in «liberali» e «meccaniche»: le prime erano quelle che si affidavano
soprattutto al pensiero e alla parola, le secondo implicavano invece una manipolazione della
materia. Mentre quindi le prime erano arti puramente intellettuali, le seconde comportavano il
possesso di una tecnica e una precisa abilità manuale. In sostanza, con termini più attuali, potremmo
definire i primi degli intellettuali, i secondi degli operai. Ovviamente, da un punto di vista sociale, i
primi erano tenuti in maggior considerazione rispetto ai secondi.
Le arti figurative erano annoverate tra quelle meccaniche: i pittori e gli scultori potevano anche
essere degli analfabeti (e spesso lo erano) tanto a loro non era chiesta alcuna attività di pensiero.
Essi dovevano solo possedere l’abilità tecnica per saper eseguire quello che il committente gli
chiedeva. Ed infatti, la paternità dell’opera d’arte, nel Medioevo, veniva considerata più del
committente che non dell’artista che l’aveva realizzata. Questa situazione andò evolvendosi nel
tempo, quando il fare arte divenne una tecnica sempre più evoluta, al punto che la capacità
dell’artista non poteva essere vista come quella di un semplice operaio che possiede solo abilità
manuali. Già nel Trecento, con Giotto, ad esempio, assistiamo ad una crescita straordinaria della
considerazione sociale di cui gode ora l’artista. Ma è soprattutto con l’affermarsi del Rinascimento
che l’evoluzione della figura dell’artista compie il grande salto: da questo momento in poi, anche
l’artista rivendicherà per se il ruolo di intellettuale.
Nel corso del Rinascimento, anche il luogo
dell’artista cambia: non è più quello della bottega,
ma quello della corte. Molti artisti lavorano
direttamente alle dipendenze dei signori che
governano i piccoli stati, in cui la penisola si divide
in questo secolo.
Alla figura del principe-mecenate, fa da
corollario quella dell’artista cortigiano. E nella
corte di un principe l’artista viene a contatto con tutti
i maggiori rappresentati dell’intellettualità del
tempo: poeti, scrittori, filosofi, matematici, e così
via.
Così avvenne a Firenze con i Medici, a Mantova
con i Gonzaga, a Urbino con i Montefeltro, a
Ferrara con gli Este, a Milano con i Visconti e
con gli Sforza. Anche Roma divenne una sorta di
corte principesca, dopo il ritorno del Papa dal
periodo avignonese, conclusosi nel 1377. Il Papa si
rapportò con gli artisti, applicando mecenatismo.
La posizione dominante di Roma come fulcro
artistico, si sviluppò sempre più, per trasformarsi nel
corso del 1500 nella capitale indiscussa dell’arte
italiana.
Nel corso del 1400, però, fu sempre Firenze la città
dove maturarono le più grandi personalità artistiche. Questo avvenne solo grazie al mecenatismo di
Lorenzo dei Medici, chiamato anche per questo Lorenzo il Magnifico, alla cui signoria
incrociarono e presero forma le più elevate personalità artistiche di tutto il Rinascimento italiano.
Nel campo dell’architettura, poi, il salto è stato radicale. Prima la figura dell’architetto neppure
esisteva, ma a dirigere e coordinare i lavori di un cantiere medievale era quella figura che potremmo
definire di «capomastro»: un muratore, cioè, che aveva più esperienza degli altri.
Nel Rinascimento l’architetto assume tutt’altra veste: egli è ormai un professionista, nel senso
moderno del termine, che conduce la sua attività attraverso lo studio teorico e la elaborazione
progettuale. Grazie ai nuovi strumenti progettuali offerti dal disegno, egli conduce la sua attività
prevalentemente a tavolino.
Non è infrequente, infatti, che importanti realizzazioni architettoniche siano state concluse da altri,
anche dopo la morte dell’ideatore, perché i progetti definivano compiutamente l’opera da realizzare.
Il disegno come strumento
La più grande innovazione avutasi in campo artistico nel
periodo del Rinascimento, crogiolo di altre innovazioni, fu
il disegno. Solo da questo periodo in poi gli artisti imparano
di fatto a disegnare: imparano cioè a disegnare per
raffigurare le proprie idee. Trasformano il disegno in un
autorevole strumento, capace di creare di tutto: cose,
rappresentazioni e spazi. Da qui in poi il disegno diventa lo
strumento progettuale, per materializzare le proprie idee,
per fissarle e consegnarle intatte. Gli antichi greci avevano realizzato un loro particolare
sistema progettuale: gli ordini architettonici. Con gli ordini
loro avevano fissato un insieme di regole per proporzionare
gli elementi che componevano l’edificio. Rispettando quelle regole si era sicuri di giungere ad un
risultato valido sia da un punto di vista estetico che statico. Questo strumento progettuale possiamo
definirlo «di dimensionamento».
Il disegno è invece uno strumento progettuale che possiamo definire «di visualizzazione»: esso mi
consente di visualizzare, cioè di vedere, il risultato finale, prima di realizzare l’opera. Oggi abbiamo
altri strumenti progettuali, molto più potenti, quali il computer, la tridimensionalità virtuale, e così
via, ma si tratta pur sempre di strumenti «di visualizzazione». Mi permettono, cioè, di vedere
l’opera che dovrò realizzare come se già esistesse.
La scoperta del disegno quale strumento progettuale,
portò ad una conseguenza inedita: fu possibile, per
l’artista, scindere il momento dell’ideazione da
quello dell’esecuzione. All’artista poteva anche
bastare fare il disegno dell’opera che intendeva
realizzare: la realizzazione poteva anche affidarla ad
altri i quali, grazie ai disegni avuti, divenivano dei
semplici esecutori materiali di quanto ideato
dall’artista.
La scissione dell’ideazione dall’esecuzione fu gravida
di conseguenze nuove soprattutto nell’architettura, la
quale da questo momento in poi, non ha più riunito i
due momenti. Ma fu una situazione nuova anche per le
altre arti figurative: anche nella scultura e nella pittura
il maestro, spesso, si limitava a disegnare (progettare)
l’opera: l’esecuzione materiale era poi affidata agli
aiuti e ai collaboratori.
Brunelleschi e l’invenzione della prospettiva L’arte medievale aveva semplificato la raffigurazione sia pittorica che scultorea, annullando tutti gli
effetti di spazialità. Le figure, in pose e immagini sempre molto schematiche, venivano collocate,
nel quadro o nei bassorilievi, sempre su un unico piano verticale. Ciò portava ad una
rappresentazione del tutto antinaturalistica, in quanto le immagini artistiche non assomigliavano in
nulla alle immagini che i nostri occhi colgono della realtà circostante.
La ricerca artistisca di Giotto produsse alcuni procedimenti per organizzare in modo accettabile lo
spazio pittorico al fine di renderlo più verosimile. L’urgenza di trovare un sistema scientificamente
rigoroso per rappresentare lo spazio si fece più pressante nel Quattrocento; con Filippo Brunelleschi
(1377 – 1446) si ebbe la prima definizione della nuova scienza della rappresentazione: la
prospettiva.
La paternità di questa invenzione è suffragata da testimonianze di contemporanei, primo fra tutti
Leon Battista Alberti, che scrivendo nel 1436 il Trattato De Pictura in lingua volgare dedica l’opera
a «Pippo architetto» auspicando che egli, grazie al suo «ingegno maraviglioso», potesse correggere
eventuali errori o debolezze nelle dimostrazioni della sua opera.
Le tavole prospettiche di Brunelleschi Nato a Firenze da padre notaio, ebbe una
formazione culturale di tipo umanistico, ma presto i
suoi interessi si volsero alle arti, praticando la
professione dell’orafo e dello scultore, e
successivamente all’architettura. I suoi viaggi di
studio a Roma (uno nel primo decennio del XV sec.
e l’altro alla fine del secondo decennio), gli diedero
modo di conoscere approfonditamente l’architettura
antica, dedicandosi con passione a rilievi condotti
con tecniche scientifiche. La sua padronanza di
procedimenti matematici, geometrici e ottici
produsse un primo clamoroso risultato verso il
1413, con la tavoletta prospettica che rappresentava
il Battistero di S. Giovanni a Firenze.
La cronaca (1475) di Antonio Manetti, biografo di
Brunelleschi, descrive l’esperimento; su una
tavoletta di forma quadrata con lato di mezzo
braccio (circa 30 cm) egli aveva dipinto il Battistero
con i suoi intarsi marmorei in un modo talmente
accurato «che non è miniatore che l’avessi fatto
meglio». Per dimostrare la verosimiglianza dell’immagine dipinta con quella reale, nella tavoletta fu
praticato un foro svasato verso il retro del dipinto, in modo che l’occhio dell’osservatore, posto in
un punto preciso (circa 60 cm all’interno della porta centrale del Duomo) potesse precepire
l’immagine reale della scena. Successivamente con
l’aiuto di uno specchio sorretto dall’altra mano
dell’osservatore e regolato a distanza opportuna,
egli poteva vedere l’immagine dipinta riflessa
nello specchio e ammirare la perfetta coincidenza
dell’immagine dipinta con quella reale.
La verosimiglianza era accentuata dall’effetto creato da una lamina d’argento che nel dipinto
cospargeva l’area del cielo, al fine di ottenere un’immagine riflessa del cielo reale e una esaltazione
dell’effetto illusionistico. Per sopperire all’inversione tra destra e sinistra con cui l’immagine
riflessa dallo specchio mostrava il dipinto, questo venne eseguito con rovesciamento simmetrico.
Questo sistema escogitato da Brunelleschi aveva lo scopo di dimostrare la precisione di un disegno
realizzato con la geometrica definizione di un punto di vista (la posizione dell’occhio
dell’osservatore).
Per rendere inconfutabile la validità della sua costruzione, Brunelleschi scelse un edificio esistente,
e non immaginario, in modo da verificarne i risultati. Altrettanto fece con la seconda tavoletta
realizzata in Piazza della Signoria, con la vista di Palazzo Vecchio e della Loggia dei Lanzi; ma la
posizione angolata non presentava una simmetria come nella prima tavoletta e pertanto non adottò
l’espediente del foro e dello specchio.
l procedimento geometrico teorizzato da Brunelleschi fu completato e regolamentato da Piero della
Francesca, verso la metà 1400. Egli scrisse il “De prospectiva pingendi” che costituisce il primo
trattato illustrato della prospettiva con la formulazione di un preciso sistema di leggi e
procedimenti matematici.
Elementi principali della Prospettiva
• Punto di Vista (PV): Punto dove s’immagina l’occhio dell’osservatore.
• Piano di terra o Geometrale (T): Piano sul quale si trova l’oggetto da rappresentare.
• Quadro o Piano Prospettico (Q): Piano perpendicolare al piano geometrale posto tra
l’oggetto e il PV; è su di esso che si forma l’immagine in prospettiva dell’oggetto.
• Punto Principale (PP): Proiezione ortogonale del punto di vista sul quadro che indica la
distanza dell’osservatore dal quadro.
• Punto di Stazione (PS): proiezione ortogonale del punto di vista sul piano geometrale.
• Linea di Terra (LT): linea d’intersezione tra il piano geometrale e il quadro prospettico.
• Linea di Orizzonte (LO): linea parallela alla Linea di terra che si trova sul quadro
prospettico e su cui si trova il PP. La sua distanza dalla linea di terra indica l’altezza
dell’occhio dell’osservatore.
• Raggi visuali: rette che congiungono il PV con i punti che costituiscono l’oggetto da
rappresentare.
Le regole d’oro della prospettiva:
1. Tutte le rette parallele hanno lo stesso punto di fuga;
2. tutte le rette parallele tra loro ma perpendicolari al quadro hanno punto di fuga nel punto
principale PP;
3. tutte le rette parallele al quadro (e quindi alla linea di terra) restano anche in prospettiva
parallele al quadro;
4. tutte le rette verticali (perpendicolari al geometrale) restano verticali anche in prospettiva.
Applicando queste regole si possono ottenere immagini del tutto simili a quelle che i nostri occhi
trasmettono al cervello. In tal modo, il quadro viene ad essere una sorta di illusione spaziale, dove le
figure sembrano non collocarsi su una superficie piana, ma in uno spazio virtuale, che si apre a
partire dal piano di rappresentazione.
Dopo la scoperta del chiaroscuro, che sfruttava la luce per definire attraverso la differenza di
tonalità la tridimensionalità dei volumi, la scoperta della prospettiva consentiva di rappresentare la
tridimensionalità dello spazio, attraverso l’uso della geometria proiettiva. Da questo momento in
poi, la tecnica pittorica del rinascimento italiano, andò ad affermarsi come la più avanzata e
perfetta, conquistando un ruolo di egemonia in campo europeo, ed occidentale in genere, fino alla
metà dell’Ottocento.
Le prime applicazioni della prospettiva
avvennero a Firenze, nel terzo decennio del XV
secolo, ad opera di Masaccio nel campo della
pittura e di Donatello nel campo della scultura.
Ma il vero inventore della prospettiva fu Filippo
Brunelleschi. Che Brunelleschi fosse un
architetto non è affatto casuale. In realtà tra
architettura e prospettiva esiste un rapporto molto
intimo: la prospettiva è un sistema che funziona
bene solo se dobbiamo rappresentare degli spazi
che seguono precise regole geometriche. Lo
spazio naturale non ha forme geometriche
regolari: in natura non troveremo mai linee rette,
linee parallele, angoli retti, quadrati, cerchi e altri
enti geometrici simili. Questi sono elementi
geometrici che troviamo solo nell’architettura:
solo lo spazio artificiale, quello costruito cioè
dall’uomo, ha una geometria di base fatta di linee
rette, di angoli retti, di parallele e perpendicolari e
così via. Ecco perché la prospettiva è una tecnica
che si usa per rappresentare spazi architettonici,
anche se Piero della Francesca nel suo trattato
propone degli esercizi con un grado di difficoltà
sempre maggiore, fino ad arrivare alla prospettiva
della testa.