L'espressione obbligatoria dei sentimenti

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L’espressione obbligatoria dei sentimenti Alcune riflessioni sulle emozioni nelle società etnologiche Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica Antonella Caforio

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Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolicahttp://www.unicatt.it/librario

ISBN: 978-88-8311-519-6

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L’espressioneobbligatoriadei sentimenti

Alcune riflessionisulle emozioninelle societàetnologiche

Pubblicazioni

dell’I.S.U. Università Cattolica

Antonella Caforio

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ANTONELLA CAFORIO

L’espressioneobbligatoriadei sentimenti

Alcune riflessionisulle emozioni

nelle societàetnologiche

Milano 2007

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© 2007 ISU Università Cattolica – Largo Gemelli, 1 – Milanohttp://www.unicatt.it/librarioISBN 978-88-8311-519-6in copertina: Episodi della vita coniugale secondo la volontàdegli dèi, dipinto su un paravento giapponese del XVIII secolo.Venezia, Museo orientale.

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Indice

Premessa 7

Che cos’è un’emozione 17

Il caso dei bambini selvaggi 29

“Il dolore stanca”: il rapporto corpo/mente 37

L’apprendimento delle emozioni 51

La cultura come controllo dei sentimenti 67

“Almeno le mie lacrime la terranno legata ame”: la perdita del controllo e l’eccessodei sentimenti 91

La trasformazione dei sentimenti incomportamenti e istituzioni 107

La paura 118L’invidia 129La collera 139

Da una mancanza di comunicazionead una categoria: il silenzio 145

Infine... 153

Bibliografia 155

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a Guglielmo Guariglia

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Premessa

emozione: turbamento più o meno vivo dell’animo. Ha un’infinitàdi sfumature di significato, adattandosi ai fenomeni più disparati cheagiscono sull’animo umano.... Dal fr. émotion, deriv. del tardo lat.emòtio-ònis, sommovimento dell’animo.

sensazione: impressione prodotta negli esseri animati da uno stimoloesterno o interno su un organo di senso, trasmessa dai nervi al cervelloed elaborata dalla coscienza; percezione di una modificazione fisica opsichica avvenuta nel proprio organismo; impressione, senso; atteg-giamento psichico, stato d’animo; la cosa stessa, lo stimolo che provocauna determinata impressione fisica e psichica.

sentimento: sensazione interiore profonda e duratura, positiva onegativa, che coinvolge la sfera emotiva, affettiva o passionale, chepuò essere o meno manifestata agli altri; coscienza, consapevolezzadelle proprie azioni e dei propri principi morali (ha un alto sentimen-to religioso, il sentimento del bene ...), senso; la sfera emotiva in con-trapposizione con quella razionale; il modo di sentire e di mostrarsiagli altri; sensibilità.

Voci del Grande Dizionario Illustrato della Lin-gua Italiana di Aldo Gabrielli

Un termine oggi molto diffuso soprattutto quan-do si parla di sentimenti è quello di empatia, che, in-vece, secondo molti antropologi va usato con pruden-za. Per molto tempo,

il concetto di unità psichica del genere umano e la conse-guente concezione delle emozioni come naturali e univer-sali giustificarono a livello teorico una supposta possibilitàdi comprensione immediata tra persone di culture diverse:l’antropologo avrebbe quindi potuto comprendere empati-camente le emozioni altrui in quanto identiche alle proprie,in virtù della comune umanità, e utilizzare senza problemile proprie categorie per descrivere un altro mondo affettivo.In un universo di costumi bizzarri e logiche differenti, eraconfortante assumere che gli altri non erano poi così diversida noi quando piangevano, ridevano, amavano e si arrabbia-vano. Varie critiche sono state a ragione mosse agli approcciche si sono avvalsi in modo aproblematico dell’empatia co-

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me “sensibilità straordinaria, quasi una capacità preternatu-rale di sentire, pensare e percepire come i nativi” ... in quan-to spostavano la possibilità di comprensione transculturalein un’improbabile dimensione extraculturale nella qualesarebbe possibile un accesso emozionale diretto alle personedi altre culture1.

Ora, il rischio maggiore nell’uso del concetto diempatia è proprio quello di enunciare delle banalità.Infatti le vaste generalizzazioni, sosteneva Boas, pos-sono ridursi a luoghi comuni e il compito dell’etno-logia diventa, invece, quello di descrivere e analizzarele differenze nella maniera in cui si manifestano nellediverse culture e di renderne conto. Che cosa impa-riamo, in verità, dal concetto di empatia quando civiene detto che esso è universalmente presente, data lacomune appartenenza alla specie umana? Oltretutto,un uso ingenuo di questo concetto può portare moltofacilmente al malinteso, come nota Pussetti, “inquanto non considera né il punto di vista dei locali néil più ampio contesto politico, storico e sociale, e col-loca acriticamente l’esperienza degli altri all’internodi concetti di persona ed emozione propridell’antropologo, rischiando di dare luogo “a unaforma di imperialismo occidentale sulle emozionidegli altri”2.

Piangere la morte di un bambino nelle societàcapitalistiche non è equivalente, per esempio, al do-lersi per la perdita di un piccolo nelle società etnolo-giche: cambiano l’intensità, le concezioni di vita, lefinalità ecc. Come riferisce Le Breton, citando unostudio di Lofland, la sofferenza relativa alla mortecambia

in funzione soprattutto del grado di investimento del de-funto, del tasso di mortalità del gruppo, del modo in cui leemozioni vengono controllate o esacerbate e infine dal livel-lo di isolamento del soggetto che lo porta a fissarsi sul lutto

1 Pussetti, Chiara, Poetica delle emozioni I Bijagó della GuineaBissau, introd. di F. Remotti, Laterza, Bari, 2005, p. 50.

2 Pussetti, C., op. cit., p. 22.

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per mancanza di relazione con gli altri o all’inverso ad atte-nuarne le conseguenze nella trama dei legami sociali. Cosìun tasso di mortalità infantile elevato, implicando il rischioper una famiglia di perdere un bambino in piccola età, fa-vorisce meno l’investimento affettivo al suo riguardo. Semuore, il lutto non ha in generale l’intensità drammaticache riveste nelle nostre società in cui il bambino è moltodesiderato, oggetto di un forte investimento dei suoi geni-tori. Nelle famiglie contadine europee del XVIII o del XIXsecolo in cui la morte colpisce spesso, il lutto ha meno pre-gnanza sociale... da avvenimento doloroso, ma passeggero, lamorte del bambino è oggi una tragedia. Il cambiamento disignificato della morte porta con sé quello delle attitudiniaffettive al suo riguardo, esso trasforma il contenuto e ladurata del lutto3.

Anche Pussetti sottolinea l’importanza degli ele-menti simbolici nella percezione del dolore quandoafferma che “in società ... con altissimi tassi di morta-lità infantile ... è abbastanza comune che il processo disocializzazione che trasforma un bambino in una per-sona sociale sia molto lento. Attribuire gradualmenteai bambini caratteristiche umane quali consapevolez-za, volontà, intenzionalità, capacità di provare senti-menti e memoria, è infatti... una strategia che concedealle madri un periodo piuttosto lungo di attesa primadi investire materialmente ed emotivamente neibambini, consentendo loro di proteggersi dal doloredella eventuale perdita”4. Del resto, nelle culture etno-logiche tutto ciò che riguarda la nascita è evento pri-vato, mai festeggiato a livello sociale e la morte even-tuale del neonato deve avere manifestazioni luttuosemolto contenute.

Nella tradizione europea, come in quella di altricontinenti, vita e morte si succedono in un ciclo con-tinuo senza che l’una possa prevalere sull’altra. Il sim-bolo universalmente riconosciuto di tale ciclo puòessere considerato il chicco di grano che, gettato nel

3 Le Breton, D., Les passions ordinaires Anhtropologie des émo-tions, Colin, Paris, 2002, p. 108.

4 Pussetti, C., op. cit., pp. 63-64.

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terreno in autunno, sembra morire per poi rinascerein forma di spiga in estate, quindi circa nove mesi do-po. “In questo mondo continuamente in movimento,nel quale la vita si manifesta sotto forme così diverse,le specie coesistono senza confondersi: non c’è incon-tro, alleanza possibile tra la specie umana e una specieanimale e vegetale: solamente strane corrispondenze, i‘segni’”5. Nulla si confonde, nulla si può confondereperché l’universo continui nella sua vita ordinata emeravigliosa – un miracolo quotidiano per l’uomodel passato –, ma tutte le forme così diverse sono incorrispondenza tra loro, in continua comunicazione.Le stesse leggi regolano la vita dell’uomo e quelladell’universo perché l’essere umano è egli stesso uni-verso e il corpo è semplicemente lo specchio perfettodel grande corpo dell’universo. Come sostiene unmaestro vietnamita: “se guardiamo le cose in pro-fondità vedremo che una cosa contiene tutte le altrecose. Se guardi un albero in profondità, scoprirai chenon è soltanto un albero: è anche una persona, unanuvola, la luce del sole, la terra, gli animali e i mine-rali... in un pezzo di pane c’è la luce del sole. Non èdifficile da capire: senza sole, il pane non potrebbeesistere. In un pezzo di pane ci sono le nuvole: senzanuvole, il grano non potrebbe crescere. Quindi, ognivolta che mangi un pezzo di pane, mangi le nuvole, laluce del sole, i minerali, il tempo, lo spazio, tutto...senza la luce del sole, le nuvole, l’aria, i minerali, unalbero non può sopravvivere”6. L’uomo concepisce sestesso come un prolungamento dell’universo e nel suocorpo non ci sono frontiere, ma grande fluidità dipassaggi. “Il suo corpo era ‘aperto al mondo esterno’attraverso tutte le sue aperture, tutti i suoi fori, tuttele sue appendici: la sua bocca, gli organi genitali, iseni, il fallo, il suo ventre prominente, il suo naso. Ilcorpo si mescolava con il mondo, gli animali, le cose;

5 Gélis J., L’arbre et le fruit La naissance dans l’Occident mo-derne (XVI-XIX siècle), Fayard, Paris, 1984, p. 26.

6 Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma Dialogo tra cristia-nesimo e buddhismo, Mondadori, Milano, 2003, pp. 7-16.

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era un corpo cosmico”7. Così gli uomini nasconodalla Terra, fonte inesauribile di vita, e più precisa-mente dalle sorgenti, dalle pietre o dagli alberi. Ilsimbolismo dell’albero come fonte di vita è estrema-mente antico e anche nella tradizione europea il neo-nato è sempre paragonato a un germoglio che emerge“dall’albero-madre e incarna le speranze della fami-glia. Che fuoriesca direttamente dal fusto o dalle ra-dici dell’albero, è destinato anche lui a portare deifrutti un giorno... Così, a immagine della natura, nellaquale la morte vegetale preparava per via sotterraneala futura mietitura, gli antenati attendevano con im-pazienza il momento nel quale il corpo del nuovo na-to permettesse di assicurare la permanenza del li-gnaggio”8. Infatti, secondo antiche credenze raccolte,per esempio, in diversi luoghi della montagna dei Vo-sgi in Francia, i neonati riportano alla vita l’anima deiloro antenati. “Per Ognissanti e il Giorno dei Morti, epiù precisamente durante la notte dal 1° al 2 novem-bre, si effettuava in maniera privilegiata la rinascitaperiodica del mondo e dei suoi esseri; ciascuna fami-glia, ciascun lignaggio celebrava allora gli antenati lacui scomparsa non poteva, non doveva essere chetemporanea. Poiché la morte non è che un cambia-mento di stato, una nuova vita. Ecco perché la mortedi un bambino era perfettamente accettata nel mo-mento in cui era stato battezzato”9. La morte, quindi,veniva considerata semplicemente come una trasfor-mazione, un passaggio dalla società visibile dei viventia quella, invisibile, degli antenati, che ha i suoi luoghie tempi di manifestazione. Come sostengono questedonne pugliesi:

“Nell’aldilà siamo tutti spiriti, ma si vedono anche se nonc’è il corpo. Siamo uguali come nella vita, ma siamo spiriti...Siamo spiriti perché così tutti ci cacciamo [ci stiamo tuttisulla Terra]... Noi simu tutti circondati dagli spiriti. Stanno

7 Gélis, J., op. cit., p. 29.8 Gélis, J., op. cit., pp. 89-104.9 Gélis, J., op. cit., pp. 104-105.

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dappertutto ... Tutto an giro, ci stanno tutti spiriti e sannotutto quello che succede ... Certo noi non li vediamo, maloro ci vedono. L’anima del defunto ci vede. Noi le abbiamosempre... circondate, le abbiamo in giro”.

Insomma, dietro questi modi di dire e questicomportamenti traspariva l’idea di un mondo pieno,di una grande famiglia di vivi e di morti sempreuguale nel numero; di un ‘capitale costante e conti-nuo di anime’ ripartite nei due mondi, tra i quali gliscambi si fanno ‘vita per vita, anima per anima’; diun’umanità continuamente mutevole, ma sempreuna, sotto il suo doppio vestito di vita e di morte,come è una la natura, il cui sonno invernale precede esegue le belle mietiture”10.

Così si comprende come presso molte popola-zioni, per esempio i Quecha delle Ande peruviane, lacoppia madre-neonato sia pensata come una entitàunica. Se per noi occidentali il neonato è già una per-sona, non così per gli andini, o per le altre popola-zioni etnologiche, per le quali egli è per metà assimila-to a sua madre sino a quando, verso i due anni, dopolo svezzamento, diviene un essere compiuto che co-munque ha ancora un lungo tragitto da compiere perarrivare alla maturità. Il distacco, la separazione dalcorpo della madre segna, così, l’inizio della costruzio-ne della sua identità come essere vivente così che sipuò parlare di una vera e propria fabbricazione socia-le del bambino che avviene, appunto, in seguito aduna lunga serie di rituali e cerimonie.

Presso i Toradja dell’Indonesia, per esempio, ilbambino che muore prima che siano apparsi i dentinon ha diritto a celebrazioni luttuose e il suo corpoviene incluso in un albero vivente11. Il bambino è unfrutto e quindi il destino e la natura deciderannodella sua maturazione o meno: l’uomo in questo nonpuò nulla perché anch’egli è soggetto alle leggi della

10 Gélis, J., op. cit., p. 106.11 Cfr. Jannel, C., Lontcho, F., Les Toradjas d’Indonesie Lais-

sez venir ceux qui pleurent, Colin, Paris, 1992, p. 71.

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natura. Secondo le popolazioni etnologiche, come si èvisto, il neonato o il bambino molto piccolo, non es-sendo ancora considerato una persona, nel caso dimorte ritorna immediatamente da dove è venuto. Se-condo i Bijagó, per esempio, “un neonato, fino allosvezzamento, è infatti ritenuto più vicino alla catego-ria ‘spirito’ che alla categoria ‘persona’: è incompleto,ancora senza identità, “nessuno lo conosce, non hamai parlato e non ha niente nella testa”, e quindi“non ha importanza”. La sua morte dunque non vie-ne pianta e il cadavere è abbandonato senza alcunacerimonia alle onde del mare o interrato rapidamentein un posto qualsiasi: non avendo il neonato alcunsignificato sociale, non ne ha infatti nemmeno comedefunto”. Perciò una madre non deve piangere per laperdita del suo bambino poiché “così affliggerà il suoorebok [spirito, principio vitale] ed egli avrà paura diritornare nel suo ventre”12. Sempre per questi motivila morte di un neonato o di un bambino che presentamalformazioni provoca reazioni deboli da parte dellacomunità: egli verrà sepolto velocemente, senza unacerimonia funebre e senza lamenti, nella foresta,quindi all’esterno del villaggio. Anche in questo caso,il pianto impedirebbe al neonato di ritornare rapida-mente in vita.

O ancora, la morte e il lutto costituiscono per lanostra società fortemente individualista un’esperien-za intima e comunque un evento traumatico che nonpresenta una ritualità comune significativa. Nelle so-cietà europee del passato, e in quelle etnologiche, in-vece, la morte era avvenimento sociale per eccellenza,spesso con un personaggio d’eccezione, la prefica, adincarnare il dolore della comunità e non solo dellafamiglia colpita dal lutto. Sempre presso i Bijagó, peresempio, secondo numerosi osservatori, gli uomini siuccidevano alla minima provocazione e in generaleusano impiccarsi poiché la morte per un Bijagó

12 Pussetti, C., op. cit., 156.

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“non è niente più che un breve sonno, e a causa di questacertezza di essere istantaneamente reincarnati nel loro pae-se, un Bijagó si mette la corda al collo e si impicca con lastessa facilità con cui noi ci mettiamo la cravatta. Il caso piùrecente è quello che accadde a Bissau. Una piroga di Bijagòlasciò il porto, dimenticando a terra uno dei loro compagni.L’abbandonato, venuta la bassa marea, malgrado i suoi ten-tativi e le sue grida non riuscì a farsi sentire dalla piroga, chesi era già di molto allontanata. Fece allora questo ragiona-mento: “loro mi hanno abbandonato, ma io arriverò perprimo nel mio paese e allo stesso istante, afferrata un’ascia,si tagliò la gola ... altri confermano che i Bijagò si suicidanoper questioni veramente futili [naturalmente per noi]”13.

Tutto ciò che noi possiamo fare, come chiarivaLévi-Strauss quando scriveva dei rapporti tra storia eetnologia, è l’ampliamento di un’esperienza particola-re fino a che diventi più generale in modo che possaessere accessibile in quanto esperienza ad uomini dialtri paesi o di altri tempi ed eventualmente esserediscussa o scelta. In altri scritti, sempre Lévi-Strausssosteneva che definire la cultura attraverso le sue pro-prietà formali – quali le credenze religiose, le regole dimatrimonio ecc. – non basta, così come sapere cheesistono tratti universali della condizione umana nonci insegna molto sull’uomo. “Constatarlo non basta;occorre anche capire perché queste credenze e questeregole sono diverse da una società all’altra, o taloraaddirittura contraddittorie. La cura dei morti, paurao rispetto, è universale; ma qualche volta si manifestain pratiche tendenti ad allontanarli definitivamentedalla comunità dei vivi perché sono ritenuti perico-losi, altre volte, al contrario, in azioni che mirano adaccaparrarli, ad implicarli in ogni istante nelle lottedei viventi... il problema della cultura, e quindi dellacondizione umana, quale si pone oggi agli etnologi,consiste nello scoprire le leggi d’ordine, sottostantialla diversità osservabile delle credenze e delle istitu-zioni... Esse sole, invarianti attraverso le epoche e leculture, potranno permettere di scavalcare l’antino-

13 Pussetti, C., op. cit., p. 95.

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mia apparente tra l’unicità della condizione umana ela pluralità apparentemente sconfinata delle formesotto cui la percepiamo”14.

Lo studio della diversità serve molto: scoprire chequalunque fenomeno, in apparenza arbitrario, obbe-disce a leggi universali non accessibili immediatamen-te all’osservazione empirica, questo sì permette dicomprendere la sostanziale uguaglianza degli esseriumani, ma su basi profonde di conoscenza e riflessio-ne. Come insegna lo strutturalismo, tutto l’universomentale dell’uomo, compresi i miti considerati fruttodi libera inventiva sociale, obbedisce ad una ferrealogica ed è governato da determinate leggi e strutture,di natura per lo più inconscia. Comprendere questimeccanismi e vederli all’opera in persone di societàdiverse dà la possibilità a noi di rispettare realmentel’altro e di avere con lui un rapporto tra uguali. Il ri-spetto, infatti, nasce solo dalla comprensione profon-da.

E, in fondo, come pensano i Bijagó, è anche pos-sibile un ‘contagio delle emozioni’ poiché esse

“al pari delle malattie, possono passare da una personaall’altra, specialmente qualora queste condividano una rela-zione di prossimità, penetrando facilmente i permeabiliconfini corporei. Questa trasmissione avviene in modo in-volontario e quotidiano, senza necessità di prendere ap-punti o accendere il registratore, semplicemente parteci-pando delle stesse situazioni, in particolar modo quandoqueste siano di particolare intensità emotiva, come nel casodi conflitti o crisi... Restava innanzitutto a me, secondo imiei anziani precettori, adottando un’attitudine umile, at-tenta e ricettiva, rendere il mio corpo accessibile, e al loroimpegno e pazienza trovare il modo di ‘aprire i miei occhi ele mie orecchie’, ciechi e sorde alle loro parole”15.

14 Lévi-Strauss, C., Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino,1984, pp. 43-44.

15 Pussetti, C., op. cit., p. 23.

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Che cos’è un’emozione

Che cos’è un’emozione? Che cosa significa parlaredi ‘mia’ o ‘nostra’ nozione di emozione, ammesso cheesistano così come ne parliamo abitualmente? Permolto tempo, gli antropologi sono stati molto rilut-tanti nell’affrontare tale materia che “come la vetta diuna montagna, ... presenta un’apparente immediatez-za e concretezza, e tuttavia ha la caratteristica di sva-nire in una nebbia concettuale”1. Il tema in veritàrappresenta proprio, come sottolinea Pussetti, unazona di vere e proprie sabbie mobili tanto che la let-tura delle emozioni come costruzione sociale si svi-luppa in antropologia piuttosto tardi, essenzialmentea partire dagli anni settanta “anche in seguito alle no-te affermazioni di Geertz secondo il quale “non solole idee, ma anche le emozioni dell’uomo sono manu-fatti culturali ... e le passioni sono culturali quanto glistratagemmi”2.

Una prima riflessione che questo tema suscita ri-guarda non solo la struttura di concetti come la mor-te, la gioia, la sofferenza, le emozioni nelle altre socie-tà, ma anche le origini dei termini e gli usi linguisticidelle categorie adottate. Come sostiene sempre Pus-setti, di fronte alle definizioni, tutti sanno cosa èun’emozione fino a quando non ci viene richiesto didefinirla. Anzi, “nonostante molti psicologi diano perscontata l’esistenza di un corrispettivo di ‘emozione’in tutte le lingue, considerandola un’esperienza uni-versale, in alcune culture questo concetto non vienedistinto in quanto categoria autonoma, quanto piut-tosto assimilato ad altre forme di esperienza e connes-so ad altri aspetti della realtà”3.

1 Pussetti C., “Introduzione Discorsi sull’emozione”, in An-tropologia Annuario diretto da Ugo Fabietti, n. 6, a. 5, 2005, p. 6.

2 Pussetti, C., Introduzione cit., p. 7.3 Pussetti, C., Poetica cit., p. 27.

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L’estrema varietà delle concezioni sui sentimentisi riflette del resto già nel vocabolario, molto limitatopresso numerose popolazioni, invece ricco anche dicentinaia di termini in altre, la qual cosa naturalmen-te ha la sua spiegazione nelle idee riguardanti la fa-miglia, le attività sociali, quelle economiche ecc. Laparola ‘emozione’ non trova, per esempio, un equiva-lente nelle lingue dei Papua della Nuova Guinea,degli Aborigeni australiani e di altre popolazioni co-me i Bijagó della Guinea Bissau. Le stesse definizionidel concetto di persona mettono in evidenza, inoltre,come la separazione netta propria dell’Occidente tracorpo e mente, pensiero e sentimento, pubblico e pri-vato, spesso si dimostra inadeguata in molte altre cul-ture. Molti studiosi si sono chiesti se esistono emo-zioni che possiamo considerare primarie e universali,ma non è mai stato trovato un accordo sul repertorioeventuale delle emozioni che si pretendono essere in-nate e fisiologicamente descrivibili. Inoltre nessunastruttura neurofisiologica autorizza a credere nell’e-sistenza di emozioni ad essa collegate. Così la nozionedi ‘emozione di base’ rimane un’ipotesi di scuola e lastessa domanda risulta essere errata, “come se si do-mandasse quali sono i popoli di base? sperando di ot-tenere una risposta che chiarisca la diversità umana”4.L’emozione, inoltre, ha a che fare strettamente con ilconcetto di identità: come sostiene Ferrarotti, noisiamo ciò che ricordiamo di essere e quindi l’identitànon è tanto una sostanza, quanto un sentimento chenon ha realtà in sé. Esso infatti non dipende dalla na-tura umana, ma dalle condizioni sociali della sua esi-stenza, dal tessuto sociale, dalla sensibilità particolaredell’individuo ed è il sentimento ad orientare lo stiledelle relazioni tra le persone, ad assegnarne valori egerarchie. Come nota Le Breton, “la particolarità so-ciale e culturale dell’affettività delle società, il fattoche gli ethos differiscano sensibilmente in luoghi etempi diversi secondo gli orientamenti collettivi, si

4 Le Breton, D., op. cit., p. 168.

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notano dall’esistenza di emozioni o di sentimenti chenon sono traducibili senza errori grossolani di inter-pretazione nel vocabolario di un altro gruppo... nu-merosi etnologi dicono così la loro impotenza a ren-der conto della cultura affettiva della società che stu-diano a causa della sua singolarità”5. L’esistenza uma-na è già, essa stessa, forma affettiva tanto che, tra gliIndo-Figiani dell’Oceania, i sentimenti non sono ri-tenuti stati della mente, eventi interiori, ma vengonoindividuati negli avvenimenti stessi. Così in Grecia, leattività nei caffè frequentati solo dagli uomini tendo-no a far dimenticare le preoccupazioni e gli affannidella quotidianità per far emergere lo stato di kefi,‘buonumore’, il quale non è una emozione solitaria,ma un sentimento condiviso, vissuto in un luogopreciso e in seguito ad eventi determinati. In questomodo, l’emozione, difficilmente controllabile equindi pericolosa, viene come rimodellata e trasfor-mata in qualcosa di molto più facile da gestire, quindiin un avvenimento che produce un ‘umore’, uno statod’animo. “Il kefi è legato a una socialità liberamente,volontariamente condivisa, così come è messa in ope-ra nel caffè: bere in compagnia, cantare, danzare; derti[cattivo umore] e ponos [dolore, pena] sopravvengo-no nei contesti di una socialità contrattuale, funzio-nale, a carattere più (il lavoro dipendente) o meno (ilmatrimonio) obbligatorio”6. Il ‘buonumore’ è pro-priamente “uno stato affettivo di gioia e di distensio-ne, idealmente, uno stato presociale di purezza emo-zionale e di leggerezza dal quale il sé si lascia penetraree del quale partecipa”7.

Dunque, parlare di emozioni in senso assolutocomporta senza dubbio un ritorno al concetto di et-nocentrismo poiché si presuppone implicitamente unsignificato comune per le diverse culture. Come so-stiene Le Breton, “i motivi di vergogna, per esempio,

5 Le Breton, op. cit., p. 126.6 Papataxiarchis, E., “Émotions et stratégies d’autonomie en

Grèce égéenne”, TERRAIN, 22, mars 1994, p. 11.7 Papataxiarchis, E., op. cit., p. 12.

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possono essere diversi, sconosciuti ad altre società, leconseguenze ben differenti e il sentire affettivo cosìguardato non avere nulla dei tratti comuni con quellodi un individuo “che prova vergogna” nelle nostresocietà”8. ‘Avere i nervi’, per esempio, per noi vuoldire essere arrabbiato o agitato, mentre per i Bijagól’esperienza dell’attacco di nervi è collegata all’eticadel controllo dei sentimenti e può essere intesa anchecome una risposta a fratture di carattere sociale ofamiliare. Come spiega Pussetti

Quando la situazione si calma, chiedo ... che cosa significa‘avere i nervi’. Loro mi rispondono in bijagó: Kariá è altera-to; non si sa controllare e trema per i nervi (tendini, mu-scoli, vasi sanguigni). Mi spiegano in seguito che è abba-stanza normale che i giovani vengano presi dai nervi, inspecial modo qualora vengano pubblicamente rimproveratio derisi... questo ikosó [avere i nervi] ... è un kutribá[pensiero-sentimento] che si prova generalmente quando siperde il controllo di fronte agli anziani, mentre non lo sisente in presenza di donne o bambini. Un esempio tipico èl’ubriachezza, che è motivo di ikosó solo se sotto lo sguardodi superiori di grado d’età. La causa, ossia l’elemento chesuscita questo kutribá è quindi individuato nella percezionedi aver infranto una norma sociale, ma all’interno di unarelazione interpersonale asimmetrica, ossia di fronte a per-sone superiori per età o che sono comunque in una situa-zione di potere e quindi rappresentano in un certo senso lenorme che sono state infrante. In questo caso forse la tra-duzione più adeguata è ‘vergogna’, pur tenendo conto delleeffettive differenze9.

La depressione, altro sentimento a noi molto no-to, non trova, per esempio, equivalenti semantici inmolte lingue di società non occidentali o in quella ci-nese. Anzi uno studio transculturale su questo senti-mento ha messo in evidenza come essa non sia affattorappresentata nel lessico dei popoli non occidentali eciò dovrebbe far riflettere. Sappiamo, infatti, che mol-te malattie in realtà sono delle creazioni sociali: si

8 Le Breton, D., op. cit., p. 126.9 Pussetti, C., op. cit., pp. 89-90.

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pensi, per esempio, nelle nostre società alla bulimia oall’anoressia.

Il concetto di ama, considerato dallo psichiatraDoi come un concetto basilare per comprendere lavisione del mondo giapponese, non ha anch’essoequivalenti in altre lingue poiché rinvia ad una cultu-ra specifica, appunto quella sviluppatasi in Giappone.I giapponesi stessi si sorprendono per l’assenza di untermine equivalente nell’Occidente e tale sentimentopotrebbe essere definito con queste perifrasi

“dipendere dall’amore di un altro”, “riscaldarsi” o “abban-donarsi alla dolcezza di un altro” per il quale si prova allostesso tempo ammirazione. L’emozione si riferisce a unagradevole dipendenza, alla ricerca di una gratificazione oall’abbandono passivo all’affetto di un’altra persona... ilcomportamento del bambino nei confronti della madre dàl’archetipo di un sentimento che proseguirà in seguito su unaltro registro... al di là del modello d’origine, il sentimentoama si ritrova nelle relazioni tra marito e moglie, maestro ediscepolo ecc. Sul fondo di una relazione asimmetrica, amaintroduce un calore riconfortante, una dolce intimità. Laverticalità delle relazioni sociali nel Giappone è un princi-pio di spiegazione della essenzialità di questo sentimentoche valorizza e rende meno dura una dipendenza persona-le... Doi analizza l’intrico di sentimenti legati all’ama checompone la vita affettiva dei giapponesi... I giapponesi ...pensano che l’uso delle parole possa raffreddare l’atmosferamentre gli americani al contrario si sentono incoraggiati erassicurati da una tale comunicazione. Ciò è legato alla psi-cologia dell’ama perché in Giappone coloro che sono viciniuno all’altro – o piuttosto coloro che hanno il privilegio difondersi insieme – non hanno bisogno di parole per espri-mere i loro sentimenti. Bisogna non essere a stretto contat-to con l’altro (mancare di ama) per provare così la necessitàdi usare le parole10.

Questo esempio mette molto bene in evidenzacome sia impossibile comprendere in quale modopossa essere vissuto un sentimento se non si conoscealtrettanto bene la cultura a cui esso appartiene.

10 Le Breton, D., op. cit., pp. 127-128.

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Un altro esempio illuminante riguarda un’emo-zione spagnola, la verguenza ajena, caratterizzata dauno sconvolgimento interiore “che si prova alla vistadi un individuo il quale si comporta in modo inade-guato. La vergogna provata rimane esterna all’indi-viduo che non partecipa per nulla all’infrazione dellenorme, né si sente colpevole. Ma la risonanza affettivaè così forte che essa è differenziata dalle altre perchétocca una nozione chiave della cultura spagnola,quella della dignitad”11. La verguenza ajena, che si ri-trova anche nel sud d’Italia ed è spesso espressa da unmodo di dire molto diffuso, quale ‘mi vergogno per teo per Tizio’, “è un’arma terribile per squalificareun’azione o un attore, coloro che ne sono all’originevengono considerati come ridicoli, e ciò per la culturaspagnola diventa un marchio temibile”12. Anche inquesto caso, non si può comprendere questo senti-mento se non si conosce bene l’importanza in questipaesi del concetto di onore così sapientemente studia-to per esempio da Bourdieu13.

Oltre a ciò, molte altre culture possono unirequelle che noi consideriamo emozioni distinte, crean-do nuove categorie, oppure individuare emozioniparticolari e originali che non trovano facilmente unacorrispondenza nella nostra classificazione emoziona-le. Alcune lingue africane, per esempio, assimilano inun unico termine ‘tristezza’ e ‘rabbia’ mentre l’espres-sione ilongot delle Filippine liget significa contempo-raneamente rabbia e invidia.

Così, presso i Kaingang del Brasile, l’ira implicasentimenti diversi dai nostri, come sottolinea Henry

In molte lingue esistono parole che hanno implicazioni, equindi effetti emotivi, le cui origini non possono essere rive-late grazie alla semplice conoscenza delle definizioni delleparole stesse. Simili parole possiedono aure emotive chenon sono affatto evidenti per le loro definizioni. “Libertà”,

11 Le Breton, D., op. cit., p. 129.12 Ibidem.13 Cfr. Bourdieu, P., Per una teoria della pratica con Tre studi

di etnologia cabila, Cortina, Milano, 2003.

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“eguaglianza” e “democrazia” ne sono, in inglese, degliesempi. Queste parole, in virtù della loro storia culturale e,in particolare, a causa del loro rapporto con la storia degliStati Uniti, hanno un grosso effetto su qualunque uditoriocomposto da americani. Si dovrà riconoscere che un taleeffetto è del tutto sproporzionato rispetto al significato ef-fettivo di queste parole... Fenomeni analoghi si verificanoanche a livello primitivo, ma le loro radici possono spessotrovarsi a tale profondità da non poter essere svelate se nonmediante una conoscenza approfondita della popolazione.In kaingang ... “essere adirato” potrebbe essere un buonesempio di una parola del genere ... nella società kaingang lapaura spesso si muta in collera. Una persona spaventata puòsia sfuggire alla causa della sua paura sia aggredirla e distrug-gerla in preda a un violento accesso d’ira... Ho udito i Kain-gang descrivere un incontro con un serpente, un animaleche temono anche più del giaguaro: “egli [l’uomo] si arrab-biò [con il serpente] e lo uccise”. In una situazione di faida,in cui due gruppi vivono assieme in un reciproco terroremortale, la tensione ha come conseguenza l’omicidio e unamanifestazione emotiva che viene descritta e percepita co-me rabbia14.

Si deve, perciò, ricordare sempre che tutte leemozioni o i sentimenti vengono valutati sempre esoltanto secondo un metro di giudizio sociale, cioèsecondo l’utilità o meno che quel determinato senti-mento può avere all’interno di un gruppo. Nessunsentimento, infatti, viene mai considerato nel sensoprivato, personale, ma solo secondo forme e modi chepossano essere ‘intesi’ e ‘comunicati’ all’interno dellasocietà ed ecco perché essi prevedono sempre formealtamente convenzionali, rigide. Così anche senti-menti intensi come il dolore, il desiderio, la gelosia,trovano, attraverso delle forme ben definite, quali icanti, i lamenti, la poesia, la danza, una espressioneche “rispettando i criteri estetici locali di coerenza,controllo e bellezza, non rappresenta un pericolo perl’individuo né per il gruppo, né costituisce un’effet-tiva ribellione contro i valori della società. Questi lin-

14 Henry, J., L’espressione linguistica dell’emozione, Ei, Roma,1994, pp. 21-23.

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guaggi permettono dunque di esprimere affetti per-sonali, intensi e pericolosi, attraverso simboli e signi-ficati pubblicamente accettati: un processo che è statodefinito ... ‘lavoro della cultura’”15.

A noi, invece, le percezioni sensoriali e l’espres-sione delle emozioni sembrano “emanazioni dell’inti-mità più segreta del soggetto” e quindi assolutamentespontanee e individuali16. Tuttavia gli stessi gesti, co-me già rilevava Mauss, non sono pura e semplice fisio-logia, né sola psicologia, ma il simbolismo corporale èl’insieme di questi due elementi. Allo stesso modo, leemozioni non sono sostanze che possiamo trasferireda una persona o da un gruppo all’altro e neppureprocessi puramente fisiologici: esse sono relazioni,cioè il frutto di una valutazione di una situazioneall’interno di una cultura affettiva che fornisce glischemi d’esperienza e di azione. L’individuo, in que-sto contesto già determinato, costruisce la sua con-dotta e quindi le emozioni secondo la sua storia, il suocarattere e il suo stile di vita.

Se l’insieme degli uomini del pianeta dispone dello stessoapparato fonatorio, essi non parlano necessariamente lastessa lingua; allo stesso modo se la struttura muscolare enervosa è identica, ciò non lascia presagire in nulla gli usiculturali alla quale essa darà luogo. Da una società umana adun’altra, gli uomini sentono affettivamente gli avvenimentidella loro esistenza attraverso repertori culturali differentiche qualche volta si rassomigliano, ma non sono identici.Ciascun termine del lessico affettivo di una società o di ungruppo sociale deve essere messo in rapporto con il contestolocale ...Si tratta di evitare la confusione tra le parole e lecose e di naturalizzare le emozioni trasportandole senzaprecauzioni da una cultura all’altra attraverso un sistema ditraduzione cieco alle condizioni sociali dell’esistenza cheavvolge l’affettività. In un contesto di comparazione tra leculture, l’impiego dei termini affettivi impone di metterli

15 Pussetti, C., op. cit., p. 146.16 Le Breton, D., op. cit., p. 7.

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sempre tra virgolette per ricordare l’indeterminatezza che licirconda17.

Come già aveva visto bene Aristotele, le emozionivanno ricercate nella questione del senso da dare aqualunque avvenimento. “Nel terrore che si impa-dronisce di una folla, nell’odio razzista o nelle manife-stazioni di furore individuale o collettivo, non vi èalcun trionfo dell’“irrazionale” o della “natura”, mal’intervento di un ragionamento, di una logica menta-le, di un’atmosfera sociale”18. Secondo alcuni studiosi,invece, l’emozione nasce semplicemente dai cambia-menti del corpo e solo in seguito interviene il pensie-ro: il pianto, il tremito, l’atto di picchiare ecc., cioèdei fenomeni puramente fisiologici, producono solosecondariamente l’emozione, quindi una sensazionedell’avvenimento. In poche parole, secondo questeanalisi, non è pensabile un’emozione che non abbiaun radicamento e una sensazione organica cosicchédiventerebbe semplicemente una conseguenza dellaconsapevolezza del cambiamento corporeo. Altristudiosi, invece, sono dell’opinione che sia la consa-pevolezza del fatto a determinare l’emozione e nonl’inverso. Come sottolinea Le Breton: “non è il corpoad essere commosso, ma il soggetto”19. A questo pro-posito, è dimostrato come il mutamento del ritmocardiaco, della pressione sanguigna o la dilatazionedelle pupille di per sé possa significare emozioni piut-tosto diverse, quali la gioia, la collera o la paura. Co-munque, secondo i dati dell’esperienza, il contenutodell’emozione è dato dall’interpretazione diversa chel’individuo fornisce dell’evento, come in questoesempio chiarificatore

Un uomo è spaventato se si sente minacciato da un rumoresospetto nella sua casa; avanza con timore, ma si rassicura sevede una finestra rimasta aperta e agitata dal vento. Ma lapaura può ritornare se si ricorda di averla chiusa prima e

17 Le Breton, D., op. cit., p. 7.18 Le Breton, D., op. cit., p. 99.19 Le Breton, op. cit., p. 102.

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scopre allora la maniglia forzata. Da un ragionamentoall’altro l’emozione cambia radicalmente di forma. L’in-dividuo spinto su un marciapiede da un passante anche luiintrappolato nei movimenti della folla passa oltre in tuttaindifferenza, ma non se è stato brutalmente spintonato...per essere presi dalla rabbia occorre un motivo, come dicevaAristotele, il sentimento di essere stato oggetto di un’ag-gressione, o di un disprezzo che sconvolge il senso della di-gnità personale20.

La propria storia, la propria psicologia e soprat-tutto le scelte culturali della società cui si appartienesono così essenziali nell’elaborazione delle emozioni edei sentimenti che qualunque individuo può benis-simo arrivare sino alla morte nel momento in cui in-teriorizza, per esempio, la convinzione del tutto cul-turale di essere vittima di stregoni, o maghi comenelle nostre società, o di aver infranto un tabu. Illu-minante, a questo proposito, è il breve saggio di Mar-cel Mauss sulla suggestione collettiva dell’idea di mor-te a partire da alcuni fatti australiani o neozelandesi21.Dunque, perché un sentimento possa essere espressoe di conseguenza provato, esso deve fare parte inqualche forma del repertorio culturale del suo gruppopoiché le emozioni non sono altro che “modalità diaffiliazione ad una comunità sociale, un modo di ri-conoscersi e di poter comunicare insieme su un fondodi un sentire comune”22. Se, infatti, non si condivideuno stesso mondo simbolico, non si può neppurecomunicare alcun sentimento poiché esso risulta in-comprensibile ad un altro che non appartenga algruppo.

Mi sembrano, perciò, veramente illuminanti leconclusioni a cui giunge la linguista Wierzbicka checosì scrive:

l’unità psichica dell’umanità non risiede nell’universalitàapparente di nozioni quali l’amore, la collera o la gioia, ma

20 Le Breton, D., op. cit., p. 103.21 Cfr. Mauss, M., Teoria della magia e altri saggi, Boringhieri,

Torino, 1965, p. 330 sgg.22 Le Breton D., op. cit., p. 104.

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nell’universalità di nozioni più elementari, come volere,dire, sapere, pensare, buono, cattivo eccetera, che sembranoavere una realizzazione lessicale in tutte le lingue. Le no-zioni del campo dei sentimenti, quali l’amore, la collera o lagioia risultano essere delle configurazioni specifiche di que-ste nozioni elementari; esse sono comparabili tuttavia alleconfigurazioni concettuali di altre lingue o di altre culture,perché tutte queste configurazioni riposano su idee univer-sali, semplici e chiare, espresse negli elementi indefinibili ditutte le lingue del mondo23.

23 Le Breton, D., op. cit., p. 132.

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Il caso dei bambini selvaggi

Alla sua nascita e nei primi anni della sua esistenza, l’uomo èil più sguarnito tra gli animali. La venuta nel mondo di unbambino è quella di un organismo prematuro ... che deveessere completamente plasmato. Questa incompletezza nonè solamente fisica, ma anche psichica, sociale, culturale. Ilpiccolo uomo ... deve acquisire i segni e i simboli che glipermettano di dotarsi di un mezzo per comprendere ilmondo e comunicare con gli altri. Alla sua nascita,l’orizzonte del neonato è infinito, aperto a tutte le solleci-tazioni, mentre le condizioni future della vita dell’animalesono essenzialmente già lì, iscritte nel suo programma ge-netico, praticamente immutabili all’interno di una stessaspecie. Nell’uomo, invece, l’educazione supplisce agli orien-tamenti genetici che non assegnano alcun comportamentoprestabilito, né determinano la sua intelligenza. La naturadell’uomo si realizza solo all’interno della cultura che lo ac-coglie ... egli dispone esattamente della stessa costituzionefisica dell’uomo del neolitico. Così il neonato dell’età dellapietra continua a nascere in ogni istante in tutti i luoghidella terra con la stessa possibilità di apertura e la stessa atti-tudine ad entrare nel sistema di senso e di valori del gruppoche lo accoglie1.

L’uomo, infatti, possiede, a differenza degli ani-mali, il sistema simbolico e l’educazione ha appuntola funzione di modellare il linguaggio, la gestualità,l’espressione dei sentimenti, le percezioni sensorialiecc. secondo le esigenze del gruppo. Il simbolico di-venta nondimeno corporeità che permette di com-prendere istintivamente le modalità corporee deglialtri e di comunicare. Nella specie umana, del resto,nessun bambino – e per molti versi neppure un adul-to – potrebbe sopravvivere all’abbandono del gruppo.Riguardo a questo tema molto utile per comprenderea fondo la malleabilità profonda della nostra specie, vi

1 Le Breton, D., op. cit., pp. 11-12.

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sono numerosi documenti storici che hanno permes-so la ricostruzione delle vicende di alcuni bambinisopravvissuti all’isolamento precoce dalla comunitàumana. Di per sé, già il concetto di ‘bambino selvag-gio’ ancora oggi suscita inquietudine nel nostro im-maginario. I bambini ‘selvaggi’ possono essere suddi-visi in due categorie: da una parte vi sono i bimbi al-levati o raccolti da un animale in seguito a circostanzeeccezionali, quali la guerra, che si identificano anchecorporeamente agli animali con i quali vivono edall’altra dei piccoli abbandonati o persi per indiffe-renza o negligenza dai loro genitori nella prima età.“Il denominatore comune a queste categorie di bam-bini consiste in un isolamento precoce e nell’assenzadi una mediazione umana sufficientemente prolunga-ta per assicurare loro una entrata socializzata nelmondo che li circonda. La denominazione di ‘sel-vaggio’ è solo un’immagine eccessiva ereditata daiLumi e rinvia ad una carenza di educazione, adun’assenza sensibile degli altri nei primi anni dellaloro esistenza”2.

Le testimonianze su bambini raccolti dagli ani-mali – in genere lupi, orsi, pecore, leopardi ecc. – so-no piuttosto rare, ma confermano che “anche le no-stre sensazioni più intime, le più impercettibili, i li-miti delle nostre percezioni, i nostri gesti più elemen-tari, la forma stessa del nostro corpo e anche moltialtri tratti dipendono dall’ambiente sociale e cultura-le. Le modalità di espressione corporea del bambinovissuto insieme ad un animale dicono con chiarezzaquanto noi siamo modellati dall’ambiente circostantenonostante il nostro sentimento di autonomia e dispontaneità”3.

In India, sino agli inizi del 1900, sono stati sco-perti numerosi casi di bambini allevati da lupi: essi sicomportano esattamente come loro, e la loro stessacostituzione fisica rassomiglia a quella degli animali,

2 Le Breton, D., op. cit., pp. 11-13.3 Le Breton, D. op. cit., p. 14.

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con occhi che brillano nell’oscurità, denti ravvicinaticon bordi taglienti, canini lunghi e appuntiti ecc. An-che questi bambini si muovono, corrono, mangiano,dormono come gli animali con i quali vivono e ciòsottolinea in maniera precisa la malleabilità del corpoumano. Inoltre essi sembrano conoscere solo emo-zioni come la collera o l’impazienza mentre ignoranola risata o il sorriso, ma si rivelano docili di fronte aglisforzi degli educatori e trasformano molto rapida-mente le loro antiche esperienze corporee. Essi, inol-tre, si conformano abbastanza alle regole del loronuovo gruppo senza riuscire mai a cancellare del tuttole tracce del loro passato poiché la durata del loroisolamento costituirà sempre un limite. L’educazioneli porterà, per esempio, a parlare e ad esprimere alcunisentimenti, ma la loro storia sembra essere quella diuna forma di violenza esercitata per ricondurre il lorocorpo e la loro intelligenza a dimensioni socialmenteaccettabili tanto è vero che la maggior parte di questibambini muore precocemente. Comunque, sono im-pressionanti i resoconti di coloro che hanno potutoconoscere questi ragazzi in quanto immediatamenteci si rende conto della potenza della cultura: veramen-te la specie umana può essere qualunque cosa, bastache lo voglia.

Si può citare come esempio il caso di Victor, unragazzino francese di dodici anni abbandonato forseverso i quattro o cinque anni nell’Aveyron e ritrovatonel 1800. Egli sembrava muto, a parte l’emissione digrida gutturali e uniformi, insensibile alle minacce oalle carezze, indifferente alle donne, ai suoni, agliodori e ai profumi, incapace di fissare la sua attenzio-ne su un oggetto e sembrava ignorare le lacrime.Quando venne scoperto, il ragazzino viveva intera-mente nudo nonostante gli inverni molto freddi. Inpieno inverno, si rotolava nella neve cosicché il suotutore iniziò ad imporgli giornalmente dei bagni didiverse ore nell’acqua calda, quindi in quella fredda.Victor, così, iniziò a temere il freddo, e divenne molto

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fragile mentre prima godeva di ottima salute4. Inoltre,seduto vicino al fuoco, raccoglieva senza fretta i car-boni ardenti e li deponeva nel focolare o ancora to-glieva le patate dall’acqua bollente per mangiarle im-mediatamente, pur avendo una pelle sottile e velluta-ta. Le analisi approfondite hanno sottolineato il ca-rattere selettivo dei suoni che interessavano il ragazzo:il rumore di una noce caduta accanto a lui, delle vociche lo disturbavano e dalle quali cercava di allonta-narsi attraevano la sua attenzione, mentre restava in-differente ad altre stimolazioni sonore che non eranolegate ad alcun significato a lui conosciuto. Inoltreegli usava in abbondanza il linguaggio dei gesti. Comerileva Le Breton, i ragazzi selvaggi ci insegnano che al-l’interno di una società le attitudini del corpo sonolontane dall’essere tutte concretizzate. Ciascun indi-viduo realizza nella sua esperienza corporea solo unapiccolissima parte delle possibilità offerte dalla naturae nello stesso tempo l’educazione e l’ambiente circo-stante influiscono in modo determinante nel campodella vita organica, cioè in quella sezione che sembre-rebbe sfuggire alle influenze esterne: le percezionisensoriali, il campo dei sentimenti e delle emozioni,per esempio. Inoltre, secondo la loro età, le condi-zioni e la durata del loro isolamento, questi ragazzi,una volta reinseriti nella vita sociale, riescono solo inparte a riprendere i loro sistemi percettivi o gestuali:Victor, per esempio, non parlerà mai poiché il suoisolamento si era protratto per troppo tempo e la suaetà non gli permetterà che una flessibilità molto limi-tata.

Un altro caso studiato è stato quello, molto cono-sciuto, di Kaspard Hauser, un ragazzo di circa 17anni rinchiuso per molti anni da solo in un mastio eritrovato nel 1828 a Norimberga: anch’egli, come al-tri ragazzi selvaggi, vede perfettamente nella notte eha una forte sensibilità olfattiva.

4 Le Breton, D., op. cit., p. 20 sgg.

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Insomma, questi casi dimostrano la rilevante ela-sticità e resistenza del corpo umano mentre le tra-sformazioni fisiche, le singolarità sensoriali o affettivedi cui danno prova sono legate alla durata del loroisolamento e alla pressione dell’ambiente circostante.Esse sono una conseguenza della loro capacità diadattamento: il trauma iniziale (isolamento immedia-to, allevamento da parte di un animale, abbandonodei genitori ecc.) non deve per nulla intaccare in pro-fondità le loro difese psicologiche. Questa è la primacondizione per la sopravvivenza di un uomo che siritrova improvvisamente in situazioni estreme, comesi può notare nei casi di naufraghi rinvenuti morti neiloro canotti dopo soltanto qualche giorno di deriva:fisiologicamente, non vi è alcuna ragione per la loromorte precoce. In realtà, essi non sono morti né per lafame né per la sete, ma semplicemente a causa delladisperazione. Così, per un Victor che riesce a soprav-vivere, ve ne sono molti morti per sfinimento o divo-rati dagli animali: solo una volontà tenace rende pos-sibile l’adattamento progressivo ad una situazioneestrema e quindi una forza di carattere poco comuneche non ci permette, perciò, di evocare la debolezzamentale per questi soggetti. Invece, per quanto ri-guarda certe funzioni, come la parola o l’intelligenza,queste esperienze mettono in evidenza come esse sipossono realizzare solo in un momento preciso dellacrescita individuale in quanto sono legate agli scambitra il bambino e il suo ambiente. Tuttavia, come mol-to giustamente e acutamente osserva Le Breton,

i ragazzi ‘selvaggi’ non sono un negativo della socialità, nonne sono che una singolare deviazione. Essi realizzano aimargini della vita collettiva alcune varianti delle possibilitàcorporee che la cultura trascura (visione notturna, resisten-za al freddo, quadripedia, ecc.). Essi non sfuggonoall’‘umanità’ dei loro corpi né alle sue virtualità. Tutte lemodalità fisiche che mettono in opera per sopravvivere,lungi dal dimostrare la loro ‘idiozia congenita’ come pensa-va Pinel, illustrano al contrario il potere stupefacente diadattamento di cui dispone l’uomo, anche se immesso inuna situazione estrema. Questa forza di resistenza attinge

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alla elasticità della sua condizione corporea. L’educazionedei bambini detti ‘selvaggi’ presenta sotto tratti esagerati ilprocesso di acquisizione che fa di qualunque bambino unindividuo conforme, nella sua singolarità, alla cultura per-cettiva e gestuale del suo gruppo. Tuttavia una necessitàantropologica presiede allo sviluppo di questa facoltà:l’impronta che l’Altro ha lasciato nelle fibre del corpo.L’uomo non esiste senza l’educazione che modella il suorapporto con il mondo e con gli altri, il suo accesso al lin-guaggio, e plasma contemporaneamente le risorse più inti-me del suo corpo5.

Pertanto, come i recenti studi di neurobiologiahanno confermato, “il cervello umano non è un orga-no definitivamente formato alla nascita, bensì un’en-tità dinamica, modellata dall’ambiente e dall’espe-rienza individuale e capace di creare continuamentenuove connessioni tra le sue cellule. Questa caratteri-stica viene generalmente denominata ‘plasticità’, no-zione che occupa oggi un posto centrale nell’ambitodelle neuroscienze”6. Del resto, Clifford Geertz ricor-dava come la cultura non debba essere intesa tantocome un ornamento dell’esistenza umana, quantopiuttosto come una condizione vitale poiché il cervel-lo e il sistema nervoso del corpo umano hanno biso-gno di un ambiente sociale e culturale per poter fun-zionare.

Ora, “il cervello umano infatti si sviluppa anchedopo la nascita e la crescita neuronale continuerà peri primi due anni; soltanto dopo vincerà a mostrare iprimi segni di decrescita. Il naturale isolamento dellacorteccia e le connessioni di mielina ... non si forma-no completamente prima dei sei anni di vita. Solo allapubertà si potrà dire che la maturazione fisica del cer-vello umano si è completata, anche se lo svilupponeuronale continuerà per tutta la vita... Si può parlareperciò, secondo gli studiosi, di un ‘cervello ecologico o

5 Le Breton, D., op. cit., p. 28.6 Pussetti, C., op. cit., p. 33.

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culturale’, dipendente per tutta la vita dalla relazionecon l’ambiente”7.

Un esempio ci viene dallo studio dell’apprendi-mento del linguaggio: secondo gli specialisti, il bam-bino produce e riconosce molti suoni, dei quali sol-tanto alcuni si troveranno nell’adulto. In Le strutturedella parentela, Lévi-Strauss ha affermato che i neo-nati sono capaci di distinguere esattamente suoni chegli adulti non distinguono, ma cominciano a perderequesta capacità acquisendo un linguaggio particolare.Infatti, “quando il bambino supera quel momento diporosità molto speciale, cui spesso ci si riferisce defi-nendolo ‘periodo critico’ e che va circa dai diciottomesi ai tre anni di vita, il cervello diverrà mano a ma-no sempre meno plastico e non gli sarà più possibileapprendere un linguaggio con la stessa facilità. I cen-tri cerebrali legati al linguaggio sembrano non poterraggiungere piena maturità senza una stimolazioneadeguata nel periodo adatto, come nel caso dei bam-bini selvaggi. Se un bambino non viene inserito du-rante questo periodo in un ambiente nel quale è uti-lizzata una data lingua, in seguito non riuscirà ad ac-quisire e utilizzare con competenza un linguaggio,nemmeno se sollecitato da insegnamenti intensivi”8.

Per di più, alcuni ricercatori londinesi hanno sco-perto che, durante gli ultimi cinque milioni di anni, lacrescita considerevole del nostro cervello, e in manie-ra specifica della corteccia, è stata provocata soprat-tutto dallo sviluppo delle relazioni di tipo emoziona-le, quindi dalle relazioni sociali più che da quello delleabilità tecniche. E se, come dichiarava sempre Geertz,il cervello è progettato per accogliere ciò che noi de-finiamo cultura – dunque i sistemi simbolici – gli es-seri umani che sono senza ‘cultura’ sono forse ancheesseri senza emozioni, secondo la stimolante doman-da di Pussetti?

7 Le Breton, D., op. cit., p. 34.8 Le Breton, D., op. cit., pp. 35-36.

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Molti studiosi hanno tentato di scoprire, dunque,un linguaggio ‘naturale’ delle emozioni, un linguaggioche possa essere, cioè, anatomicamente e fisiologica-mente identificabile. L’emozione, però, non è unasostanza, una entità fissa e immutabile poiché“nell’esperienza affettiva corrente, l’emozione o ilsentimento non sono mai di una sola tinta, esse sonospesso mescolate, oscillanti da una tonalità ad un’al-tra, segnati da una ambivalenza. Si può ... essere gelo-so disapprovando un tale sentimento o trovandoloinfondato; avere vergogna per una situazione dicen-dosi che è tempo di prendere l’impegno di respingereun’educazione troppo pudica ecc. L’emozione non hala chiarezza di un’acqua di sorgente, essa è spesso unmiscuglio inafferrabile la cui intensità non cessa dicambiare”9.

9 Le Breton, D., op. cit., p. 171.

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“Il dolore stanca”:il rapporto corpo/mente

Per noi occidentali, legati alla dicotomia ragio-ne/sentimento, corpo/anima, il discorso legato allamaterialità dell’emozione appare piuttosto strano ecomunque difficile da comprendere, ma presso moltealtre società non c’è frontiera chiara tra corporeità erelazione affettiva o emozione: l’emozione è anche esempre qualcosa che si prova con il corpo e non puòesistere slegata da esso. Il corpo è parte, dunque, es-senziale delle relazioni sociali.

“I Chewong della Malesia, per esempio, traduco-no i loro sentimenti attraverso l’intermediario del fe-gato così possono dire ‘il mio fegato è buono’ (mi sen-to bene) o ‘il mio fegato è tutto ristretto’ (ho vergo-gna ) ... Per i tahitiani incontrati da Levy, le emozionihanno ugualmente la loro sede in organi differenti. Sene parla in terza persona, e non come se provenisse dasé. Un uomo in collera dirà per esempio: ‘i miei inte-stini sono in collera’”1. È esperienza quotidiana pertutti noi, comunque, quella di essere influenzati for-temente non solo nello spirito, ma anche nel corpo dauna sensazione o una emozione: quante volte la pauraci ‘blocca’ lo stomaco o accelera i battiti del cuore oancora la gioia ci rende particolarmente vitali! Questacomune esperienza è alla base di una credenza moltoradicata e diffusa secondo la quale l’emozione non èsolo qualcosa di immateriale o spirituale, ma ha unasua componente corporea. Anche nelle nostre espres-sioni quotidiane usiamo metafore come queste: avereun grande cuore = bontà; ci vuole fegato= coraggio.Come è noto, le tecniche di guarigione sciamanicherivolte al recupero dell’anima persa o quelle che ri-guardano la stregoneria si muovono appunto

1 Le Breton, D., op. cit., pp. 123-124.

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nell’ottica di questo rapporto essenziale tra le diverseparti del corpo. Infatti nelle società etnologiche, ilcorpo fisico è solo la parte visibile del corpo completoil quale ha anche una parte energetica non visibile benpiù importante. Lo dice molto bene Pussetti quandorileva che per i Bijagó l’energia vitale è “immaginatacome un’ombra bianca evanescente aggrappata aldorso del corpo”2. Del resto, l’Oriente ha teorizzatoin modo molto approfondito questa idea attraverso ilconcetto di aura3.

Il corpo visibile, insomma, è solamente la portasensoriale sul mondo e, proprio per tale motivo, leemozioni possono essere espresse anche attraverso illinguaggio dei sensi: una strega o uno stregone ha inmolte società un odore cattivo, e nei luoghi in cui siriuniscono gli stregoni si sente un fetore di decom-posizione, di fermentazione, quindi un odore disgu-stoso/minaccioso. Così tutti gli emarginati o i‘diversi’ come i barboni, gli zingari, i tossicodipen-denti ecc. si contraddistinguono in primo luogo per laloro diversità visibile e sensoriale: l’odore sgradevole,l’abito in disordine, la vista ‘oscena’, il contatto proi-bito. Come sostiene Pussetti, le pratiche antisociali eantimorali collegate a queste persone suscitano“reazioni di disgusto, al punto che vengono associateall’odore repellente della putrefazione”4. Allo stessomodo, gli spiriti della foresta dei Bijagó della GuineaBissau, spaventosi e errabondi, “possiedono un corpo,ma in decomposizione; hanno ancora la voce, mamonocorde, priva delle tonalità e del ritmo propridella vita; necessitano di nutrirsi, ma non sono ingrado di procurarsi il cibo”5. Così, nel caso di unamorte, il corpo viene massaggiato con un infuso dipiante odorose e poi il cadavere viene avvolto in unastuoia mentre si inizia a bruciare foglie odorose.

2 Pussetti, C., op. cit., p. 62.3 Cfr. Rampa Lobsang T., I segreti dell’aura, Astrolabio-

Ubaldini, Roma, 1975,4 Pussetti, C., op. cit., p. 117.5 Pussetti C., op. cit., p. 122.

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L’odore della morte viene sempre associato alla figuradello stregone o “a qualsiasi condotta pericolosa oaberrante, che provoca disgusto. Un cadavere cheemani un odore molto intenso e ripugnante sarà fa-cilmente sospettato di essere stato uno stregone e siprocederà a rituali di divinazione ... allo stesso modoanche gli spiriti dei morti sono caratterizzati da unodore specifico, che riflette a livello olfattivo la lorocondotta in vita”6.

Mentre nelle nostre società il senso sociale per ec-cellenza è costituito dalla vista, in molte altre anchel’udito ha una funzione fondamentale. Ciò che è fa-cilmente comprensibile perché “lo scambio di parole,la dinamica parlare/sentire, fondamentale nelle rela-zioni sociali, viene brutalmente interrotta dal so-praggiungere della morte: la frattura dei legami affet-tivi, il sentimento della perdita, è quindi metaforica-mente espresso nei canti attraverso l’immagine delgiovane che tenta invano di comunicare con i suoidefunti”7. Tra i Bijagò, “una delle maggiori cause disuicidio tra gli anziani è infatti la sordità, che impedi-sce loro di ascoltare e comprendere le parole degli al-tri e degli antenati, escludendoli di fatto da qualun-que tipo di relazione sociale ... il penultimo re, si èucciso: “perché aveva la più brutta malattia: avevaperso l’udito ... Se non senti sei già morto, perché nonascolti i problemi, le discussioni del villaggio e quindinon fai parte del consiglio degli anziani. Non senti lavoce del tamburo e quindi non sai cosa avviene al vil-laggio e nell’isola e non ascolti le parole degli antenati.Un re deve essere uno che ha un buon udito-checomprende”8. Dietro questi comportamenti, dunque,vi è sempre l’idea centrale che la vita valga la pena diessere vissuta solo quando è vita di relazione e di ade-sione piena ai valori socialmente condivisi.

Inoltre “è interessante notare che ... l’influenza delmale venga trasmessa più generalmente per mezzo

6 Pussetti C., op. cit., p. 154.7 Pussetti C., op. cit., p. 206.8 Pussetti C., op. cit., p. 65.

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dello sguardo, mentre l’influenza complementare delbene ... per mezzo del tatto... comunque l’atto di fissa-re ha connotazioni che variano dal malaugurio allavera e propria scortesia, a seconda della cultura”9.Uno sguardo fisso e strano presenta comunque degliaspetti temibili o una vera e propria natura ingiuriosa.Quando il grande studioso di mitologia Campbellparla delle tradizioni religiose dell’umanità, sostieneche esse sono tutte legate da alcuni motivi mitici e traquesti cita l’impulso al saccheggio, all’avidità. “Psi-cologicamente esso potrebbe forse essere interpretatocome un’estensione del comando bioenergetico al nu-trimento e al consumo; tuttavia la motivazione inquesto caso non fa parte di alcuna esigenza primaria,ma proviene da un impulso lanciato attraverso gli oc-chi, non a consumare ma a possedere”10. Quindi, do-po aver analizzato questo impulso, sottolinea come“le forze che ci motivano sono sempre costituite dallastessa temibile triade di necessità di cui Dio ci hafornito: nutrirsi, procreare, dominare. E per il corret-to soddisfacimento almeno della prima e della terza diqueste motivazioni, nello stagno dei pesci che è lastoria, il primo requisito nell’ordine della natura ... èla soppressione dell’impulso naturale alla pietà”11.

Ora, come si è potuto già osservare, mentre il maleha la sua via immateriale, cioè l’occhio e quindi losguardo, per entrare nel mondo, “l’influenza com-plementare del bene ... esige il contatto fisico, agisceper mezzo del tatto; il bene ha bisogno di toccare”12.Ecco perché segnare alla maniera dei guaritori diventapositivo: “la segnatura è toccare con amore, è un con-tatto che trasmette all’altro un’energia benefica, un

9 Douglas M. (a cura di ), La stregoneria Confessioni e accusenell’analisi di storici e antropologi, Einaudi, Torino, 1980, pp. 383-384.

10 Campbell, J., Le distese interiori del cosmo La metafora nelmito e nella religione, TEA, Milano, 2003, p. 15.

11 Campbell, J., op. cit., p. 17.12 Cecconi A., L’acqua della paura Il sistema di protezione

magico di Piteglio e della montagna pistoiese, B. Mondadori, Mila-no, 2003, p. 68.

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contatto che guarisce e cura. Accanto al rituale del-l’acqua e dell’olio, la segnatura è infatti usata propriocome antidoto e rimedio al malocchio. Alessio è unguaritore ed è convinto che “a tutti si può segnare,basta volerlo”; allora non siamo solo prede in baliadelle occhiate altrui, in noi c’è anche il potere di neu-tralizzarle, in noi abita il potere di curare e curarsi”13.

Del resto, il saluto o l’atto di accomiatarsi è spessoespresso attraverso un contatto che investe l’interapersona, come l’abbraccio, la stretta di mano, l’alzarsi,il togliersi o mettersi il cappello ecc.

Questa positività del contatto probabilmente puòessere anche una conseguenza del modo di portare ibambini di molte popolazioni. Gli antropologi, e inparticolare Margaret Mead, hanno insegnato che lamaniera di trattare i bambini anche nelle cose che ap-parentemente sembrano irrilevanti o di poca impor-tanza, quali appunto il modo di essere nutrito, porta-to con sé, addormentato ecc., “è una delle cose piùsignificative nella formazione della personalità del-l’adulto” e naturalmente delle emozioni che ad essesono collegate. Il bambino Arapesh della Nuova Gui-nea per esempio “non è mai lontano dalle braccia diqualcuno. Andando in giro, la madre lo porta o suldorso, in un sacco di rete speciale sostenuto dallafronte, o sospeso sotto uno dei due seni, in una speciedi bilancia di scorza d’albero intrecciata”14. Allo stessomodo, tra i Fore della nuova Guinea, i neonati sonotalvolta portati sulla schiena della madre, in ceste im-bottite di morbida scorza e di foglie, come in un uteroartificiale, ma spesso sono anche portati sotto il brac-cio. L’antropologo Sorenson rileva inoltre che

i bambini più piccoli restavano in contatto corporeo quasicontinuo con la loro madre, i suoi familiari o le sue compa-gne di lavoro nell’orto. Il grembo materno è il centro dellavita infantile ed i piccini se ne stanno lì a succhiare il latte, a

13 Ibidem.14 Mead M., Sesso e temperamento, il Saggiatore Net, Milano,

2003, p. 68.

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dormire e a giocare con il loro corpo o con quello della loronutrice. Ed essi non vengono messi da parte neppure duran-te lo svolgimento di altre attività, come la preparazione delcibo o il trasporto di oggetti, anche pesanti. Restando astretto e ininterrotto contatto fisico con quelli che stannoloro attorno, i loro bisogni basilari – riposo, nutrimento,stimolazione e sicurezza – vengono continuamente soddi-sfatti senza problemi. Poiché tutti i bambini fore hanno unapossibilità costante di interscambio tattile, ben prima dipoter parlare, essi comunicano bisogni, desideri e senti-menti ad un certo numero di persone che si occupano diloro, tramite il tatto ed il movimento fisico. Questo costan-te ‘linguaggio’ del contatto rende pronta e facile la soddi-sfazione dei bisogni e dei desideri dell’infante e rende su-perflui i più rigidi espedienti normativi e dietetici... questomodello ‘socio-sensuale’ istituisce un rapporto molto inti-mo con le persone circostanti ... l’economia cooperativa, lerelazioni umane di tipo consensuale e l’ordine sociale egua-litario emergono dalla condizione iniziale di relazione tatti-le15.

Poiché il corpo fisico è solo la parte visibile del no-stro essere nelle popolazioni etnologiche in generenon si fa differenza tra gli ambiti che noi definirem-mo propri della mente e quelli che riguardano leemozioni così come spesso si ritiene che l’emozioneabbia in genere un organo specifico nel quale risiede.Anche in questo caso la separazione tra corpo e men-te non ha nessun significato poiché un sentimento,quindi qualcosa che noi riteniamo invisibile, ha unluogo corporeo ben visibile. Quindi, ambiti che noidefiniamo razionali, quali la riflessione, l’intelligenza,la ragione vengono considerati come uniti agli statiemozionali. Tra i Bijagó,

“la traduzione immediata che si può dare del termine kutri-bá è quindi quella di pensiero-sentimento, in quanto si riferi-sce in generale a tutti quelli che noi definiremmo come statimentali, andando da ciò che consideriamo ‘pensiero’ a ciòche chiamiamo ‘emozione’. La presenza di n’atribá [plurale]

15 Sorenson E.R., “Cooperazione e libertà tra i Fore dellaNuova Guinea”, in Montagu A. ed., Il Buon Selvaggio, Elèuthera,Milano, 1987, pp. 23-24.

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si può avvertire fisicamente, a seconda delle circostanze,nella pancia, nel cuore, nel fegato, nella testa, nelle gambe,negli occhi. Per esempio, il rispetto è associato alla testa, latristezza e la pazienza al petto e alla pancia, l’invidia agli oc-chi, la rabbia alla gola; certi n’atribá possono cuocere gliocchi, bruciare il torace o bloccare le gambe; un’alterazionedell’equilibrio dei n’atribá può causare malattie e addirittu-ra morte; l’odio può materializzarsi sotto forma di una so-stanza nera nel ventre; la pancia può arrabbiarsi, infastidirsio addirittura aprirsi per fare uscire n’atribá pericolosi. Que-sti sono certamente organi fisici, ma anche, in un modo cheè difficile per noi apprezzare pienamente, fonte di azione econsapevolezza. La concezione indigena collega dunque lapsicologia e la fisiologia umana, includendo come aspettidello stesso processo quanto noi distinguiamo come pen-sieri, sentimenti, desideri, volontà e i loro intimi effetti sulcorpo”16.

Naturalmente il corpo energetico, quello che inmolti casi viene impropriamente definito anima, dà emantiene in vita l’essere umano, mentre il corpo fisi-co ci consente di essere presenti nel mondo, di averedelle attività e soprattutto un carattere e dei rapportisociali. Il corpo fisico non è perciò una muraglia im-penetrabile, una fortezza, soprattutto nell’età infanti-le e, per tale motivo, esso è sempre esposto alle in-fluenze altrui e ai pericoli che vengono dall’esterno.Se abbiamo chiara questa idea del corpo, allora diven-ta facile capire le tecniche dei guaritori, degli stregonio sciamaniche di recupero dell’anima.

Nella maggior parte dei gruppi amazzonici, peresempio, e in particolare presso gli Jivaro, come rilevaacutamente Taylor, la malattia è la sofferenza inquanto tale e non ciò che le dà origine. Essa è vistacome un’esperienza di metamorfosi che nasce da unosquilibrio con la società, da un’alterazione dei rap-porti sociali e trasforma l’individuo sano in un pa-ziente, cioè in un essere ammalato. La risposta dellasocietà a questa alterazione avviene attraverso “l’ela-borazione, a fini terapeutici, di una trasformazione

16 Pussetti C., op. cit., pp. 60-61.

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corrispondente”, positiva, questa, e attuata dagli spe-cialisti quali appunto gli sciamani17.

Koká così racconta la morte improvvisa del figlioper un incidente e la perdita del proprio principiovitale:

sentivo gridare per strada, le donne chiamavano il mio no-me e così ancora segnavano il mio destino. Mi hanno rac-contato quello che era successo e che dovevo correre ... iocorrevo, ma poi le gambe non si sono più mosse e non pote-vo camminare. Sono caduta e sono rimasta così, le miegambe sono ancora malate, guarda: sono gonfie e pesanti.Da allora ero sempre malata, il mio spirito si era perdutoper il dolore. Mi hanno portata da diversi guaritori e poi nelcontinente ... ma non guarivo... non mangiavo, non bevevo,non dormivo, non avevo più pensieri-sentimenti, stavo solosdraiata e basta. Avevo perso un figlio... il mio corpo erasempre più debole e dicevano che sarei morta presto... ma larealtà è che Koká non poteva smettere di piangere ... avevoperduto il controllo... adesso mi sono stancata di piangereper il mio dolore ... il dolore stanca ... ma le sofferenze ...sono restate qui: nello stomaco e nelle gambe è il loro ricor-do18.

La perdita del figlio, quindi un sentimento, è an-che perdita corporea, perdita del controllo, delle forzevitali, della coscienza, paralisi momentanea, inappe-tenza, insonnia o confusione, mollezza, svogliatezza,fiacchezza. E il corpo negli anni continua a ricordarequesto dolore e questa nuova condizione.

Come osserva Pussetti, la grande capacità deiguaritori tradizionali è proprio quella di saper curareallo stesso tempo l’unità costituita dal corpo, dai sen-timenti e dalle relazioni sociali.

Obennó mi descrive i sintomi che la affliggono, mi parla diun corpo aperto ... dai confini dissolti dalle sofferenze, uncorpo ‘annodato’, invaso e violentato ... dai pensieri, daisentimenti e dalle azioni degli altri: “...non voglio ricordare

17 Taylor A.C., “L’oubli des morts et la mémoire des meurtresExpériences de l’histoire chez les Jivaro”, TERRAIN, 28, mars1997, p. 86.

18 Pussetti C., op. cit., pp. 138-139.

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quel tempo così brutto. Ma il mio corpo ricorda: mi venne-ro a prendere per lavorare e io non potevo camminare,quella gente mi attaccò una malattia, non so, ero sempre piùdebole e rimasi al villaggio. In tutto il corpo soffrivo: il cor-po si era aperto ... e tutto mi faceva del male... tutto il corpomi doleva, non riuscivo a dormire, né a parlare, non potevocamminare. Stavo per morire, non avevo più consapevolez-za di nulla, stavo solo sdraiata e basta. Dopo qualche tempomi portarono nel luogo dove si fanno le cerimonie, mi cura-rono, mi massaggiarono ... per rendere la pelle dura e farmisudare. Mi lavarono e quella notte riuscii già a dormire.Quella cosa nel mio corpo aveva smesso. Poiché continuavoa lavarmi con quella medicina che rendeva il mio corpo du-ro e forte, non riuscirono a uccidermi. Ma continuo ad averedolore alle gambe e al petto, sempre a causa di quella gen-te”19.

Dunque, la prima reazione ad un forte dolore èsempre corporea, ed è una reazione di blocco dellavitalità. Sembra quasi che il corpo non riesca a sop-portare un evento tanto grave e straordinario cosicchési ferma, come per prendere coraggio e affrontare ladura sfida. La natura, del resto, dà l’impressione dicomportarsi allo stesso modo quando, prima di unevento straordinario – un ciclone, un terremoto ecc.– si ferma per un attimo e sempre in questo lungoattimo tutto tace. Così, il tema del silenzio e del-l’immobilità in occasione di eventi speciali si ripre-senta, per esempio, nei testi della tradizione religiosain seguito alla nascita di creature ‘eccezionali’ qualiCristo o Buddha. La vita cosmica sembra sospesa, e “imondi creati ... entrano in una condizione di stuporeche si esprime come immobilità, silenzio, interruzio-ne improvvisa del ritmo continuo e normale degli attie del flusso vitale. Trascorso l’acme ... la normalità del

19 I corsivi sono miei, a sottolineare che la malattia si guariscerendendo il corpo duro, non più malleabile e penetrabile da qua-lunque entità.

Pussetti C., op. cit., p. 140.

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corso cosmico riprende il suo flusso”20. Il silenzio,perciò, è solo “un aspetto del più vasto quadro dellostupore e della riverenza che invadono i mondi difronte ad un’epifania la cui destinazione salvifica ...investe uomini, animali e dei”21.

Come illustra molto efficacemente De Martino,in una sua opera molto nota,

“nella sua forma più radicale la crisi del cordoglio presentala caratteristica polarità dell’assenza e della scarica convulsi-va: la presenza perde se stessa degradandosi a pura e sempli-ce energia meccanica che defluisce senza significato. La fre-quenza di una reazione di questo tipo è incredibilmente altafra le contadine lucane ... in una forma meno radicalel’assenza si attenua in uno stato di ebetudine stuporosa, o inluogo della scarica meramente meccanica si ha la terrifican-te esplosione parossistica, tendenzialmente autoaggressiva.Lo stato di ebetudine stuporosa ha tra le contadine lucaneuna incidenza così forte da essere indicato con un vocabolodi uso corrente nei villaggi lucani: attassamento. La personaattassata è irrigidita in una immobilità fisica che riflette unvero e proprio blocco psichico più o meno accentuato... lapersona attassata – ci ha detto una informatrice di Monte-murro – non riconosce le persone: non ricorda neppure chec’è il morto. Se le si chiede qualche cosa non risponde, op-pure dà risposte senza senso. È come se sognasse. Quandoesce dall’attassamento, si guarda intorno per capire che cosaè successo, poi getta un grido e riprende la lamentazione”.“L’attassamento può durare un quarto d’ora... viene spe-cialmente quando si ha la notizia di una morte improvvisa.Può durare anche mezza giornata... appena si escedall’attassamento si dà un grido perché si riconosce che cosaè accaduto”. Polarmente contrapposta allo stato di ebetudi-ne stuporosa è l’esplosione parossistica. Se nell’ebetudinestuporosa la donna colpita da lutto sta come inerte, ...nell’esplosione parossistica essa si getta a terra, dà col caponel muro, salta, si graffia a sangue le gote, è accesa da furoretendenzialmente diretto verso la propria persona, si strappai capelli, si lacera le vesti, si abbandona ad un gridato che è

20 Di Nola A.M., Antropologia religiosa Introduzione al pro-blema e campioni di ricerca, Newton Compton, Roma, 1984, p.178.

21 Di Nola A.M., op. cit., p. 181.

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piuttosto un ululato. A questo comportamento disordinatoe pericoloso, possiamo dare la denominazione di planctusirrelativo”,

cioè di un pianto privo di un legame e di una relazio-ne, quindi un pianto ‘disumano’ che può trascinaresino alle soglie della follia22. Solo in un secondo mo-mento, con la ritualizzazione del pianto, viene ricon-quistata l’umanità e il corpo ritorna sotto il controllodella mente.

Presso gli aborigeni australiani, Glowczewski cosìracconta: “quando gli Aborigeni decidono di lasciarsimorire, non c’è nulla che si possa fare dal punto divista medico ... L’uomo era il padre adottivo di ungiovane di cui gli era stato annunciato oggi la mortein un incidente stradale. E secondo il costume, per ildolore era in una specie di stato catatonico che avreb-be potuto farlo morire. Solo l’entourage, parlandogli emassaggiandolo, poteva bloccare questo processo.Dopo qualche ora di cure premurose commoventi,uomini e donne succedendosi al suo capezzale e par-landogli dolcemente, egli ritornò in sé”23.

Tra gli Hagen della Nuova Guinea, un sentimen-to, detto pipil, equivalente alla nostra vergogna e pau-ra insieme, si può notare sulla pelle.

Le manifestazioni di questo sentimento implicano non sol-tanto il fatto di essere tenuti in scacco dai propri pari, maanche di essere terrorizzati dagli spiriti al punto che “la no-stra pelle si copre di sudore; i capelli si sollevano dal collo; identi si legano; noi diciamo che gli spiriti ci vogliono ucci-dere e mangiare. Ciò succede quando andiamo in un cimi-tero o una casa in cui un uomo è morto e quando sentiamoun pipistrello o un gufo... se pipil è un’emozione che si este-riorizza sulla superficie del corpo, popokl traduce una collerasuscitata dall’estorsione degli altri ma che resta chiusa nellavita segreta dell’individuo. Essa non può mai essere rivelata.Il modo corrente di espressione rimane la malattia. Se il

22 De Martino, E., Morte e Pianto Rituale dal lamento funebreantico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino, 1975, pp. 83-84.

23 Glowczewski, B., Les rêveurs du désert peuple Walpirid’Australie, ACTES SUD, Arles, 1996, p. 110.

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pipil è tutta esteriorità, popokl è tutta interiorità. Cadendomalato il soggetto annuncia la sua emozione. La proceduraterapeutica impone che egli riveli la ragione della sua agita-zione. La confessione, il proiettare fuori da sé con le paroleil popokl costituisce la tappa iniziale della guarigione. Mar-garet Mead aveva osservato un rituale simile nelle isole Sa-moa”24.

Questa ‘malattia’, quindi, sembra essere un’espres-sione controllata di un’emozione pur sempre perico-losa se lasciata a se stessa. In Africa, per esempio, chiha perduto ‘l’anima’ a causa della paura presentasempre gli stessi sintomi che ritroviamo anche nelleconcezioni europee. Colui che cede alla paura, chenon è educato a controllare le proprie paure e a colti-vare il coraggio, presenta “una sintomatologia tipica:inappetenza, insonnia, dolori somatici diffusi, espres-sione assente e indifferenza per quanto lo circonda. Ilmalato generalmente passa le sue giornate seduto osdraiato, senza intrattenere alcuna relazione con ilmondo intorno a lui: questa totale abulia lo porteràlentamente alla morte”25. Molto frequenti e propri dimolte culture sono, infatti, i racconti di apparizionidi entità sovrumane, quali il morto, che determinanolo squilibrio e spesso la morte nel giro di tre giorni acausa della forte paura.

In conclusione, ciascuna società dà la sua spiegazio-ne circa il luogo o i luoghi in cui si troverebbero leemozioni. Nelle nostre culture, estremamente razionali,che hanno come miti fondanti la scienza o la ragione, visono teorie di altro tipo, quali quelle neurologiche, or-monali ecc. mentre in molti altri gruppi gli organi sonoin genere la sede dei diversi sentimenti e ciò cambia dasocietà in società. Comunque è molto difficile com-prendere veramente questi sistemi di conoscenza, no-nostante l’apparente facilità di approccio.

Come sostiene Descola:

24 Le Breton, D., op. cit., p. 130.25 Pussetti, C., op. cit., p. 109.

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presupponendo l’universalità di una distinzione convenzio-nale tra l’interiorità e la fisicità, non ignoro che l’interioritàè spesso presentata come multipla né che la si suppone con-nessa con la fisicità da numerose delimitazioni reciproche...qualunque sia il numero delle componenti immateriali dellapersona, che siano innate o acquisite, che vengano trasmessedal padre, dalla madre, per caso o da un’entità benevola oostile, che siano temporanee, durevoli o eterne, immutabilio sottomesse al cambiamento, tutti questi principi genera-tori di vita, di conoscenza, di passione o di destino hannouna forma indeterminata, sono fatti di una sostanza inde-finibile che risiede ordinariamente nella parte più intimadei corpi. Certo, spesso si dice che queste ‘anime’ risiedanoin un organo o in un fluido ... o che siano legate in manieraindissociabile con il corpo, come il soffio, il viso o l’ombra ...Dappertutto presente sotto modalità diverse, la dualitàdell’interiorità e della fisicità non è dunque la sempliceproiezione etnocentrica di un’opposizione che sarebbe pro-pria dell’Occidente tra il corpo, da una parte, l’anima o lospirito, dall’altra.... Bisogna al contrario comprendere que-sta opposizione così come è stata fabbricata in Europa ...come una variante locale di un sistema più generale di con-trasti elementari ... contrariamente ad un’opinione molto invoga, le opposizioni binarie non sono invenzioni dell’Oc-cidente o finzioni dell’antropologia strutturale, poiché essesono largamente utilizzate presso tutte le popolazioni inmolte circostanze26.

26 Descola, P., Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris,2005, pp. 174-175.

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L’apprendimento delle emozioni

La vita sociale, di relazione, dunque la cultura dicui parlano gli antropologi, è “quella disposizione adaffrontare la realtà che si costituisce negli individui inquanto membri di una società storicamente determi-natasi e determinantesi. Cultura cioè designa quelpatrimonio sociale dei gruppi umani che comprendeconoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli,norme, valori, nonché le disposizioni all’azione che daquesto patrimonio derivano e che si concretizzano inschemi e tecniche d’attività tipici in ogni società”1. Ilprocesso di acquisizione della cultura da partedell’individuo è chiamato dagli antropologi incultu-razione o socializzazione e, come ben si comprende,costituisce un processo fondamentale che si sviluppadurante tutta la vita dell’individuo.

La fase più importante del processo inculturativo è, però,quella che si attua nei primi anni di esistenza dell’individuo,anni durante i quali si struttura la personalità di base e siinteriorizzano i valori fondamentali della cultura. Per di-stinguere tale fase dalle restanti, alcuni Autori propongonodi riservare ad essa soltanto i termini di ‘inculturazione’ o‘socializzazione’ e di indicare come ‘integrazione socialedell’individuo’ l’intero svolgimento del processo che si rea-lizza nella rete di rapporti dinamici che l’individuo contraecon il proprio ambiente sociale ed ecologico e in virtù deiquali struttura il proprio ‘patrimonio culturale e individua-le’. Nel rapporto integrativo di questo patrimonio conquello biopsichico dell’individuo si articola la ‘personalità’2.

I modi socialmente accettabili di esprimere leemozioni, dunque, come qualunque altro elementodella cultura, vengono insegnati e trasmessi, perciò,soprattutto nel primo periodo della vita umana.

1 Tentori, T., Antropologia culturale, Studium, Roma, 1976, p.13.

2 Tentori, T., op. cit., p. 142.

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Come sottolinea Lévi-Strauss, “non va mai di-menticato che se all’origine dell’umanità l’evoluzionebiologica ha potuto selezionare caratteri preculturaliquali la stazione eretta, l’abilità manuale, la tendenzaalla vita associata, il pensiero simbolico, l’attitudine afocalizzare ed a comunicare, molto presto il determi-nismo ha cominciato a funzionare in senso inverso...Non è il gene (se pure esiste) che conferisce resistenzaalle temperature polari ad aver donato agli Inuit laloro cultura: al contrario, è stata questa cultura che haavvantaggiato i più resistenti al freddo, sfavorendo glialtri”3. Perché una scelta di vita possa mantenersi neltempo, però, ha bisogno di includere e accoglierepratiche e credenze attraverso le quali i suoi modellidi adattamento possano essere trasmessi alle nuovegenerazioni. Così, se possiamo anche ammettere chele emozioni possano essere innate e che si manifestinoin modo comune nelle diverse società, bisogna, però,differenziarle dagli stati affettivi che le liberano.

Se io sono più commosso per la presa in ostaggio di unconcittadino che da quella di uno straniero, ciò è dovutosicuramente al fatto che faccio una differenza tra gli uni e glialtri e che apprendo ad associare delle emozioni a questacategorizzazione. Se sono indignato per la trasgressione diquesta regola, ciò è dapprima perché la regola esiste ed èstata trasgredita: la regola è anteriore all’emozione ed è essache determina a quale proposito si può (o no), si deve (ono) provare e manifestare delle emozioni e quali. Il processodi trasmissione, sebbene più intenso nei primi anni di vita,prosegue lungo tutta l’esistenza, particolarmente nelle so-cietà in cui la divisione sociale del lavoro è complessa e icambiamenti rapidi in tutti i settori dei costumi. Se si ag-giunge che, in queste società, trasmettere l’eredità vuol direanche, almeno parzialmente, essere capace di rimetterla indiscussione e modificarla, si comprende la complessità delproblema di fronte al quale ci si trova4.

3 Lévi-Strauss, C., op. cit., 1984, p. 41.4 Héraux, P., “Modes de socialisation et d’éducation”, in Poi-

rier J. (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. I, Modes et modèles,Gallimard, Paris, 1991, p. 310.

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Così, ogni società non solo crea e fabbrica i ‘suoi’sentimenti nel momento in cui sceglie il proprio stiledi vita – così come ogni cultura effettua una selezionetra il complesso delle potenzialità umane e ne svilup-pa solo alcune a scapito di altre –, ma li rielabora e litrasforma continuamente in seguito a cambiamenti diordine sociale, economico o politico.

Si comprende, quindi, come, per le popolazionietnologiche, la persona sia prima di tutto, come giàsosteneva Van Gennep, una creatura sociale: il picco-lo infatti “verrà considerato appartenente alla cate-goria ‘persona’ solo quando acquisirà – grazie al con-tatto con gli altri e attraverso un lungo cammino diformazione e costruzione – caratteristiche, compe-tenze e comportamenti sociali”5. Pertanto il bambino,crescendo e interiorizzando i modelli culturali, vienesottoposto, come sostengono molti antropologi, adun processo di specializzazione emozionale diretto dalgruppo.

Come già sappiamo, il termine infante viene dallatino in-fans, cioè senza parola, quindi senza una ca-pacità di simbolizzare il mondo che lo circonda. Si ègià visto come nelle società etnologiche, durante iprimi mesi della sua esistenza, in generale, il neonatoabbia una relazione quasi simbiotica con la madre,dalla quale non si distacca quasi mai. La presenza diquesta figura è continua e il contatto corporeo direttocon il neonato particolarmente intenso. Parlare,quindi, significa imparare la ‘buona distanza’ e, non acaso, i sentimenti sociali come la vergogna, il senso dicolpa, l’imbarazzo appaiono verso i tre anni circa,quando il sé comincia a fissarsi in modo ormai stabile.“In mille modi la parola o il gesto formalizzanol’affettività del bambino e confermano ciò che eglisente vedendo vivere il suo prossimo. In un primomomento il bambino in collera, per esempio, urla,batte i piedi per terra, piange ecc. ma diventando piùadulto apprende a ritualizzare la sua emozione, a con-

5 Pussetti, C., op. cit., p. 59.

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tenerla nelle norme espressive”6. Inoltre “Condon se-gnala che la sincronia dell’interazione è un dato rile-vante della condizione umana. Egli ha potuto mostra-re come i neonati armonizzino i loro movimenti conle voci che sentono intorno a loro, qualunque sia lalingua. Egli suggerisce inoltre che questa sincronia siritrovi già nell’utero”7. In questo modo, il rapportointenso e continuo con la madre permette al neonatodi apprendere semplicemente attraverso gli innume-revoli stimoli sensoriali di ogni tipo mentre, secondoalcune teorie, le emozioni dei neonati sono ancoranon definite e senza controllo poiché la corteccia ce-rebrale non si è pienamente sviluppata a contatto conl’ambiente. Del resto, l’accrescimento continua perlunghi anni completandosi solo verso il periodo chenoi definiamo adolescenza. Sempre tra i Bijagó, si sot-tolinea appunto come le donne considerino in modomolto diverso il neonato, il bambino molto piccolo equello che oramai è arrivato ad avere tra i quattro e isette anni. Secondo queste teorie, i bambini piccolipossono provare solo sensazioni simili a quelle deglianimali – fame, sete, dolore, sonno – in quanto nonhanno ancora acquisito una personalità sociale8. Ciòche è importante rilevare è il fatto che per le cultureetnologiche i sentimenti non sono elementi ‘innati’,ma si formano gradualmente in seguito alla crescita esoprattutto in seguito all’educazione. Ecco perché lamorte di un bambino è sempre un evento piuttostoprivato. Si diventa un essere umano quando si con-dividono le regole e per condividere le regole in primoluogo bisogna conoscere, usare e comprendere,quindi, una lingua. La parola è ciò che ci fa entraredirettamente in un gruppo: essa è molto potente, èenergia, creazione poiché produce trasformazioniprofonde. Ascoltare e parlare, infatti, non sono equi-valenti al semplice sentire dei suoni, capacità chepossiedono già i bambini piccoli.

6 Le Breton, D., op. cit., p. 141.7 Le Breton, op. cit., p. 88.8 Cfr. Pussetti, C., op. cit., p. 56 sgg.

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A Giava, per esempio, nei primi anni di vita, ilbambino “è considerato come non ancora giavanese”.La stessa frase si applica a persone che hanno difficol-tà mentali o ad adulti che si mostrano irrispettosi neiconfronti degli anziani ... Ciò implica che la personanon è ancora civilizzata, non è ancora capace di con-trollare le sue emozioni o di esprimersi con il rispettorichiesto dalle differenti situazioni sociali. Alla finedel processo educativo, il bambino diventa un uomoo una donna interamente, partner dello scambio so-ciale”9.

Come commenta Pussetti

i neonati e i bambini piccoli, che ancora non sono socializ-zati ... certamente piangono, ma si tratta di lacrime senzauna relazione con gli eventi sociali, il pianto di chi “noncomprende l’importanza delle cose”. Per questo il piantodei neonati è considerato in qualche modo paragonabile aun verso animale: è un lamento del tutto dipendente da ne-cessità fisiologiche, da fame, sete o disagio fisico. “È un pian-to come quello di chi ha qualcosa in un occhio – mi spiegaKoka – non come quello di chi soffre per la morte di qual-cuno, e quindi non è veramente umano” ... Infatti, quandoun bambino piange urlando in modo incontrollato – midicono alcune donne parlando dell’educazione dei loro figli– dev’essere immediatamente ripreso e pubblicamente bia-simato, in modo che acquisisca in fretta a livello corporeoun habitus, inteso come disposizione a piangere nel modoappropriato in qualsiasi circostanza... il pianto dei bambinideve presentare al più presto un suono tipicamente‘umano’10.

Interessante, perciò, notare come il suono, pensa-to come ‘naturale’, per essere parte del sociale, equindi ‘compreso’, debba essere sempre modellatoculturalmente.

Si comprende meglio il discorso sul pianto deibambini se si tiene presente che, sempre presso i Bi-jagó, già verso i cinque anni, il pianto avviene secondoun modello culturale preciso, modulato su due note

9 Le Breton, op. cit., p. 143.10 Pussetti, C., op. cit., p. 164.

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separate da un intervallo di quinta aumentata e nono-stante la lingua “possieda un unico termine ... per in-dicare sia il piangere, sia il verso di alcuni animali (ipiù rappresentativi sono gli uccelli, i bovini e i gatti), iBijagó ci tengono a specificare sempre se si tratta di...‘pianto dei neonati’, ... ‘pianto degli adulti’ ... o‘verso/pianto degli animali’ ... forse uno degli aspettipiù sorprendenti era proprio il sentire piangere inquesto modo melodico sia per esempio una ragazzinain lacrime dopo una severa punizione, sia una donnache si era ferita al braccio, sia una madre per la mortedi suo figlio”11.

L’espressione del dolore è perciò un aspetto fon-damentale sul quale riflettere perché il pianto cultu-ralmente appreso è il modo, l’unico modo secondo ilquale l’individuo esprime in maniera ‘comprensibile’e quindi condivisa il suo dolore. Proprio per questo,le distinzioni tra pianto ‘naturale’ o istintivo e pianto‘convenzionale’ o simulato, cioè quel pianto intesocome espressione formale e quindi priva di sinceritàdei sentimenti, non hanno significato. Il particolareurlo delle donne, caratterizzato da brevi grida ripetu-te in falsetto, di cui parla Pussetti, piuttosto che ilpianto lungo e forte con stile melodico ritmico deiGusii dell’Africa occidentale o il lamento studiato daDe Martino nelle società mediterranee sono modidiversi di esprimere in maniera spontanea la sofferen-za. Se la vita è innanzitutto relazione sociale, piangereo ridere in modo ‘appropriato’ significa in primo luo-go mostrare la propria umanità.

De Martino, nelle sue analisi sul pianto ritualeantico, parte dalla constatazione che il lamento fune-bre è per prima cosa una tecnica del piangere specificanata dall’esigenza di umanizzare la pura scarica mec-canica di energia psichica data dall’urlo o dal gridodisperato.

Così, nel rito della lamentazione, il cordoglio ac-coglie il pianto, ma lo sottopone alla regola di gesti

11 Pussetti, C., op. cit., p. 165.

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ritmici già stabiliti dalla tradizione poiché ‘si piangecosì’ e solo così. “Operata questa prima selezione or-dinatrice sul numero e sulla qualità dei gesti, il lamen-to rituale lucano riplasma il gridato e l’ululato in ri-tornelli emotivi da iterare periodicamente, in modoche fra ritornello e ritornello sia dato orizzonte al di-scorso individuale”12. Quindi, il lamento funebre pre-vede un tema melodico dato da “una linea melodicacon cui ciascun versetto è cantilenato, e dalla strofamelodica nel suo complesso”13. Inoltre, come nel casodi un lamento registrato a Ferrandina, in Basilicata,“ogni versetto è cantato su una linea melodica che inFerrandina è tradizionale per lamentare il morto: essaè formata da una scala pentatonica discendente dal faal si: ne nasce, per ogni versetto, un senso di caduta oaddirittura di scarica, accentuata dal fatto che spessoappare un portamento del fa, cioè una breve salitainiziale, come un librarsi prima di precipitare. Un se-condo carattere che domina la melodia del lamento èil vuoto sonoro determinato in ogni versetto dalla co-stante mancanza del re. Tale vuoto non ha luogo acaso rispetto alla struttura letteraria del testo, poichécade sempre prima del ritornello emotivo invocante ilfratello [cioè il morto]”14.

Lamentarsi diventa, dunque, un atto complessogiacché significa “innanzitutto ricordarsi dei moduliletterari adatti scegliendoli fra quelli che stanno a di-sposizione della memoria culturale di ciascuna lamen-tatrice, e che tendono per così dire ad esaurire i tipifondamentali delle possibili situazioni luttuose. Maalla memoria culturale di ciascuna lamentatrice ap-partengono non soltanto questi moduli, ma anche –in organica connessione unitaria – la mimica che lideve accompagnare e la melodia con cui vanno can-tati”15.

12 De Martino, E., op. cit., p. 85.13 De Martino, E., op. cit., p. 97.14 De Martino, E., op. cit., p. 100.15 De Martino, E., op. cit., p. 136.

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Pussetti poi sottolinea un altro aspetto molto in-teressante del pianto che andrebbe approfondito ul-teriormente, cioè la sua associazione al mondo degliuccelli. Infatti “il pianto umano opportunamentemodulato è inoltre associato a un altro ‘pianto’ consi-derato armonioso ed esteticamente appagante: quellodegli uccelli. Il canto degli uccelli non è infatti consi-derato solo un piangere ..., ma anche un cantare ...,che, secondo i miei informatori, evoca in modo parti-colarmente appropriato sentimenti che hanno a chevedere con la perdita, l’abbandono, la partenza...‘diventare o essere come un uccello’ o ‘piangere comeun uccello’ sono espressioni tipiche per rappresentarecolei che piange per la perdita di una persona cara”16.

Del resto, come sostiene Lévi-Strauss, il mondodegli uccelli è concepito nelle mitologie e nel folclorecome una società umana metaforica, cioè a noi similee in alcuni casi persino letteralmente parallela17.

Ora, si è potuto osservare come gli esseri umanipossano imparare praticamente tutto: emblematico aquesto riguardo è il caso dei bambini ‘selvaggi’. Notiagli studiosi sono, per esempio, gli studi di MargaretMead sulla personalità e le differenze tra i sessi e inparticolare sull’inesistenza del concetto di ‘maternitànaturale’ da noi spesso invocato. Infatti la forza delcondizionamento sociale è tale che, come puntualizzala grande antropologa americana, “si è costretti aconcludere che la natura umana è incredibilmentemalleabile, tale da adattarsi infallantemente, conaspetti contrastanti, a condizioni culturali in contra-sto. Le differenze tra individui appartenenti a culturediverse, come le differenze fra individui della stessacultura, sono da attribuirsi quasi interamente a diffe-renze di condizionamento, soprattutto durantel’infanzia; un condizionamento la cui forma è de-terminata culturalmente”18.

16 Pussetti, C., op. cit., pp. 165-166.17 Cfr. Lévi-Strauss, C., Il pensiero selvaggio, EST, Milano,

1996, p. 223.18 Mead, M., op. cit., p. 296.

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Altrettanto interessanti sono gli studi in cui sianalizza il modo in cui molte popolazioni educano iloro bambini alla non aggressività e al rifiuto dellacompetitività. L’aggressività cui ci si riferisce è quelcomportamento finalizzato ad infliggere sofferenzafisica o psichica ad altri e noi sappiamo che vi sonodegli studiosi quali Konrad Lorenz o Desmond Mor-ris i quali sostengono la tesi innato-aggressivista se-condo la quale l’aggressività sia innata e universale.Ora, però, la costituzione genetica umana e le poten-zialità aggressive, qualunque esse siano, non sono suf-ficienti a creare un comportamento aggressivo che,invece, dipende, in ogni sua fase, da una complessainterazione tra geni e ambiente.

Il comportamento aggressivo non è determinato da ele-menti innati più di quanto lo sia quel comportamento chechiamiamo linguaggio. Senza le potenzialità innate per illinguaggio non impareremmo mai a parlare, per quantostimolante fosse l’ambiente, in termini di linguaggio perl’appunto. Ma senza un ambiente di “parlanti” non impare-remmo mai a parlare poiché, per quanto se ne abbiano lepotenzialità innate, perché si parli bisogna che ci si parli eche si viva in un ambiente di linguaggio ... Quello che larealtà conosciuta sembra indicare è che non ci sono modellioperativi prefissati, non ci sono “istinti”che determinano laspontanea comparsa dell’aggressività oppure il suo scate-narsi a partire da un determinato stimolo. Ciò che puòsembrare una reazione “scatenata”, “automatica”, “prefis-sata”, “stereotipata” ad uno stimolo può essere in realtàqualcosa di assai diverso19.

Tra i Fore della Nuova Guinea, per esempio, lacomunicazione tattile e la libertà nelle attività esplo-rative del piccolo, insieme ad altre forme di insegna-mento che vengono attuate sin dalla prima infanzia,contribuiscono a plasmare un carattere cooperativo enon conflittuale, come ben specifica il ricercatore

il modo culturalmente peculiare di trattare il bambino ... fasì che non si instaurino comportamenti tipo ‘fuggire o fare a

19 Montagu, A., op. cit., pp. 12-13.

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botte’. E, ‘vendicarsi’, ‘fargliela pagare’ o analoghi impulsidistruttivi rivolti contro la famiglia, le persone care e il loromodo di vita non entrano a far parte del repertorio compor-tamentale dei Fore. Tra i Fore non si presentano problemiassai comuni nelle società occidentali come il ‘gap genera-zionale’, la rivalità tra fratelli, la prepotenza sociale, la rivol-ta adolescenziale ed atteggiamenti aggressivi simili. Vi sonoatti aggressivi sperimentali ed accidentali da parte dei piùpiccini che, tuttavia, vengono considerati conseguenza na-turale dell’immaturità di chi non si rende ancora contodell’impatto di simili azioni. Vengono perciò giudicati di-vertenti. Non viene fatto alcun tentativo di castigare né vie-ne esibita normalmente alcuna espressione di ira o di disap-provazione. Piuttosto, la reazione tipica dei bambini piùgrandi e degli adulti fatti oggetto di azioni aggressive odostili dei più piccoli è di interessato ed affettuoso diverti-mento. Se l’attacco diventa doloroso, chi ne è oggetto se neva oppure cerca di distrarre il piccino con affettuosa scher-zosità o proponendogli altri interessi. Quando l’“aggres-sione” è rivolta verso coetanei viene scoraggiata ma, di nuo-vo, non con rimbrotti o punizioni bensì tramite giochi di-versivi. Il comportamento aggressivo sperimentale e acci-dentale dei più piccini non dura; le loro azioni aggressivecasuali od embrionali non riescono a trovare uno spazionello stile di vita quotidiana. Nella loro vita l’ira, il litigio, lalotta non diventano ‘naturali’. Espressioni momentaneed’ira – ad esempio in caso di ‘incidenti’ durante giochi rudi,si disperdono rapidamente. Il conflitto riguardante il pos-sesso o l’uso di ‘cose’ viene tipicamente sviato tramite co-stumi comportamentali di rispetto reciproco o di sintoniacooperativa20.

Allo stesso modo si può educare a provare qua-lunque sentimento e però questi comportamenti so-no prodotti e controllati da un insieme di influenze,da valori dominanti che vanno cercati altrove, e piùprecisamente nei modelli di adattamento socio-ambientale scelto dalla cultura di riferimento. Così,per esempio, la nota gentilezza nella società tahitianaè un comportamento adattativo essenziale, da inten-dersi come un tratto del comportamento che dà buo-

20 Sorenson, E., R., op. cit., pp. 27-28.

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ne possibilità di successo nell’ambiente polinesiano,come la competitività nelle nostre società in trasfor-mazione dopo la rivoluzione industriale.

Se, perciò, in una società viene enfatizzato un trat-to particolare, quale, per esempio, la gentilezza, ciòche la caratterizza non è tanto la tecnica educativaquanto il modello dei controlli di quel comportamen-to che potrebbe essere definito di superficie. Esso, in-fatti, implica una invisibile, ma forte struttura di fon-do che incide profondamente sulla personalità, enfa-tizzando, per esempio, determinati comportamenti,come quelli citati da Levy

si ritiene che l’ostilità cronica sia molto pericolosa ancheperché porta a conseguenze magiche, all’attivazione di spi-riti ancestrali che spesso determinano, in una complicatateoria della ritorsione, la morte della persona arrabbiata... Ladottrina tahitiana dell’ira dice che tutto ciò che va oltre labreve espressione verbale è sbagliato, che indica una man-canza di autocontrollo ed immaturità. È perciò cosa di cuivergognarsi. La gente che, nonostante le numerose e formi-dabili forme di controllo, provano [sic] sentimenti ostili,non li esprimono, se vogliono essere considerati cittadiniresponsabili e se vogliono evitare quel senso di vergogna cheper varie ragioni turba profondamente il carattere tahitianotradizionale... L’ira che non viene trattata e dominata inquesto modo viene considerata una mancanza di controlloregressiva, e se gli altri si accorgono dell’incapacità di unindividuo a padroneggiare l’ira lo svergognano. Un indivi-duo su cui hanno operato tutte queste influenze culturali ...non s’arrabbierà spesso e quando gli succede ne proverà di-sagio e timore e tenderà a liquidare l’ira il più presto possibi-le21.

Ora, in ogni società si possono vedere all’operauna serie di dispositivi tecnologici e sociali e una seriedi credenze che favoriscono l’accettazione di un valo-re ritenuto essenziale ad una pacifica convivenza. Nelcaso del carattere gentile dei tahitiani, ciò non signifi-

21 Levy, R., I., “Gentilezza tahitiana e controlli ridondanti”, inMontagu A.(ed.), op. cit., pp. 262-263.

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ca che in questa società non ci siano segni di ostilità edi controllo dell’ostilità. Anzi,

all’ostilità ci si deve preparare, le frustrazioni debbono esse-re ridotte e debbono essere istituiti controlli su quei pro-cessi emozionali e comportamentali che minacciano dievolversi in senso distruttivo. Ma questo viene fatto inmodo tale che l’ostilità come patologia, come forza disgre-gante dell’organizzazione personale ed interpersonale, vienetenuta ad un livello minimo in forma garbata e con un“costo” minimo. Non sono necessari complessi controllisecondari (cioè sanzioni sociali severe, come la prigione, oun duro autocontrollo personale)... Per esempio, è opinionecorrente che gli individui abbiano scarso controllo sulla na-tura e sul comportamento degli altri; che, anzi, se qualcunosi dà troppo da fare, se cerca di forzare la realtà in nuovimodelli, quella realtà (Dio, la natura, gli altri) inevitabil-mente reagirà distruggendo il trasgressore. Viceversa, se unonon si agita troppo per forzare le cose, la realtà inevitabil-mente si prenderà cura dell’individuo. La gente impara cosìad essere “passivamente ottimista”. Questa opinione genera-le, prodotta dalle condizioni della socializzazione, viene raf-forzata da leggende, pratiche guaritorie dei medici – stre-goni e da valori consciamente e universalmente manife-stati22.

In questo modo, i controlli non saranno solo ab-bondanti, ma quasi gerarchizzati nel senso che quelliacquisiti molto precocemente entreranno a far partedell’io e diventeranno ‘naturali’ o ‘istintivi’; saranno,quindi, molto più potenti perché inconsci e riguar-danti il corpo. “Così, se l’opinione, universalmenteaccettata, secondo cui l’ambiente sociale e fisico è re-frattario all’aggressione non è sufficiente a trattenereun individuo dal pensare o iniziare un’azione aggres-siva, proverà comunque vergogna per la sua “de-vianza” e la vergogna terrà sotto controllo il suo agi-re”23. In conclusione, “da un lato, i tahitiani presenta-no potenzialità aggressive. Dall’altro hanno imparatoa strutturarsi in modo tale da non essere

22 Levy, R., I., op. cit., pp. 257-258.23 Levy, R., I., op. cit., p. 264.

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“fondamentalmente aggressivi”. Essi in genere nonhanno alcun bisogno di reprimere l’ostilità dentro diloro; sono strutturati in modo tale da minimizzare ilproblema”24.

Per comprendere l’importanza di questi controlli,si pensi, per esempio, come, in molte società etnologi-che, il rispetto nei confronti di un anziano sia prin-cipio fondamentale che ispira continuamente il com-portamento di ciascuno e i rapporti interpersonali.Tra i Bijagó, per esempio, avere un comportamentosociale corretto significa accettare i legami con gli altrie rispettare le posizioni gerarchiche. Così la condottache si deve avere nei confronti degli anziani viene as-similata lentamente attraverso la pratica, l’abitudine euna serie continua di collegamenti apparentementearbitrari con situazioni sempre apparentemente mol-to diverse. Come riferisce Pussetti,

aiutata dalle loro indicazioni ho imparato a non guardaremai un anziano negli occhi, a salutarlo inchinandomi leg-germente e prendendogli la mano in modo da fargli capirela mia posizione nel percorso iniziatico, a non sovrastarlofisicamente, cercando di scegliere sempre posizioni compo-ste e inferiori in altezza. Ho compreso l’importanza delmantenere un atteggiamento corporeo compito e pacato,del controllare l’irrequietezza e gli sguardi, del dominare laparola, non conversando mai oltre misura, a voce troppoalta, impulsivamente o interrompere un anziano. Ho presoa servire da bere nel giusto ordine e modo, ad attendere ilmio turno per mangiare o parlare, ad anticipare i desideriper non infliggere l’umiliazione di chiedere, ad accettaresempre le offerte o le richieste, sapendo di poterle in ognicaso passare a qualcuno a me inferiore d’età, costretto dallastessa regola a non rifiutare. Tutti questi atteggiamenti aiquali si viene educati fin da ragazzini costituiscono un codi-ce morale tacito che viene incorporato visceralmente e chemette in relazione i concetti di rispetto, pazienza, ordine,compostezza e controllo... senza l’abitudine, il rispetto saràsolo un’apparenza, un’ostentazione, che non reggerà a lun-go di fronte alle situazioni più difficili, come per esempio ilritiro iniziatico in foresta, in cui i giovani dovranno sotto-

24 Levy, R., I., op. cit., p. 266.

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stare umilmente alle angherie degli anziani. Il legame tra ilrispetto per gli anziani e un atteggiamento calmo e misuratoè indicato a livello semantico e concettuale. Le espressionidi rispetto più frequenti nei consigli e nei commenti che horegistrato sono ... avere testa, ma anche dare un senso, unsignificato alle cose ... essere testa, ma anche essere consape-vole e riflessivo ... essere ordinato, fare pulizia, essere buonoad agire lentamente25.

E così presso gli Oglala, gruppo della nazioneSioux, alla comparsa dei primi denti, al piccolo eraimpedito l’allattamento al seno attraverso piccolicolpi sulla testa. “Un trattamento così inabituale pro-voca violente collere. Lo si fascia allora sino al collo, losi attacca sulla culla e lo si lascia urlare sino all’esau-rimento (più grida forte e più, si crede, sarà un buoncacciatore), rendendo così impossibile l’esterioriz-zazione della sua rabbia se non attraverso la voce”26.Questo comportamento apparentemente di poca im-portanza, in realtà è uno dei molteplici modi in cui ilbambino impara per esempio a “riorientare una partedell’aggressività in autoaggressione, nell’obbligo disopportare il dolore con impassibilità, e anche a ricer-carlo in alcuni momenti di determinate occasioni ri-tuali”27. Oppure, ancora presso molte popolazioniafricane, per esempio, i giochi dei bambini, che pure

occupano la maggior parte del loro tempo, sono facilmenteinterrotti: gli adulti o i primogeniti utilizzano i bambini pereffettuare tutti i lavori che questi ultimi possono sostenere eche sono compatibili con le loro forze e le loro capacità. Ilgiovane deve prendere presto l’abitudine di aiutare le per-sone che lo circondano. Egli ne trae in compenso la con-vinzione, giustificata, che è a tutti gli effetti un membro delgruppo ed è utile ad esso. Egli è anche necessario per tenerecerti ruoli rituali: simbolizzando il rinnovamento, è insosti-tuibile quando bisogna maneggiare le sementi, festeggiare leprimizie28.

25 Pussetti, C., op. cit., p. 75.26 Héraux, P., op. cit., p. 342.27 Ibidem28 Héraux, P., op. cit., p. 349.

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Insomma, comportamenti, credenze, teorie, abi-tudini apparentemente strane o assolutamente arbi-trarie possono essere comprese solo se inserite in uncontesto. Esse, infatti, assumono significato analogonell’acquisizione di un corretto comportamento, inquanto forme diverse in cui si sottolinea lo stessoconcetto di base e si educa ad applicarlo con natura-lezza in tutte le circostanze.

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La cultura come controllodei sentimenti

In nessuna società, quindi, i sentimenti vengonomai espressi liberamente poiché il controllo di sé è ilvalore fondante della propria umanità. Si potrebbe,anzi, dire che la società è controllo delle emozioni,controllo che viene attuato attraverso quella cheMauss denomina “l’espressione obbligatoria dei sen-timenti”, cioè la mancanza di spontaneità assolutanell’espressione di un sentimento1. Questa espressio-ne, infatti, non è mai un fatto puramente individualetanto è vero che è sempre manifestata in gruppo, intempi, luoghi e persone ben determinate. Questo ca-rattere collettivo non esclude affatto la sincerità delleemozioni, ma “tutte queste espressioni collettive, si-multanee, con valore morale e con forza obbligatoriadei sentimenti dell’individuo e del gruppo, sono qual-cosa di più che semplici manifestazioni; sono segni,espressioni capite, ossia un linguaggio. Questi gridisono come frasi e parole. Bisogna emetterli, ma se bi-sogna emetterli è perché li capisca tutto il gruppo.Dunque è più che un manifestare i propri sentimenti;è un manifestarli agli altri, perché si deve manife-starglieli. Li si manifesta a se stessi esprimendoli aglialtri e per conto degli altri. Si tratta, essenzialmente,di una simbolica”2.

Allo stesso modo Granet, nel suo saggio moltofamoso sul linguaggio del dolore nel rituale funerariodella Cina classica, sottolinea come nell’espressionedei sentimenti

1 Cfr. Mauss, M., “L’espressione obbligatoria dei sentimenti”,in Granet, M., Mauss, M., Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi,Milano, 1975, p. 3 sgg.

2 Mauss, M., op. cit., p. 13.

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la spontaneità non appare che al termine di una evoluzione:per reazione contro il formalismo iniziale e il ritualismosviluppato del linguaggio sentimentale, e solo quando lasocietà è abbastanza instabile perché l’individuo percepiscauna dissonanza tra il proprio ideale e l’organizzazione socia-le. Ma in una società stabile e che tiene alla propria stabilitànon sono certo l’originalità dell’individuo né le tradizioni difamiglia a governare il sentimento e la sua espressione. Percui tutti gli avvenimenti che danno materia a una emozioneche conta veramente nella vita personale, riguardano nellostesso tempo l’individuo e tutta la società. Nel momento incui l’amore, il dolore penetrano in un’anima umana, il cor-po sociale è testimone dell’unione sessuale o della morte chene sono l’occasione, e partecipa attivamente al matrimonioe al lutto che modificano la sua propria composizione e ilsuo ordinamento. A ogni grave crisi della vita affettiva cor-risponde una rottura di equilibrio della vita sociale3.

Non a caso, la tradizione orientale è molto chiarain tema di cortesia, come si può leggere in questobrano: “In Vietnam è tradizione che marito e mogliesi trattino l’un l’altro come ospiti di riguardo. Ci sirispetta davvero a vicenda: quando ci si cambiad’abito non lo si fa davanti all’altro; ci si comportacon reverenza. Se non c’è più il rispetto dell’altro, ilvero amore non può durare a lungo. Rispettarsi l’unl’altro, trattarsi a vicenda come ospiti è una tradizionedella società asiatica... Senza questa sorta di mutuorispetto... la rabbia e le altre energie negative comin-ciano a prendere il sopravvento... gli sposi si inchina-no l’uno all’altro in segno di rispetto”4. La cultura,infatti, è controllo ferreo delle emozioni: le buonemaniere, la cortesia, dunque ciò che viene ritenutoforma è, invece, sostanza. Del resto, senza questo con-trollo, non potrebbe esistere alcuna società, cioè unacomunità che decide di fare insieme il viaggio dellavita giacché le emozioni, sia positive sia negative, se

3 Granet, M., “Il linguaggio del dolore nel rituale funerariodella Cina classica”, in Granet, M., Mauss, M., op. cit., pp. 37-38.

4 Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia Governare leemozioni, vivere il nirvana, Mondadori, Milano, 2002, pp. 49-50.

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lasciate libere, la distruggerebbero. Come sostiene Ni-tobe, in Giappone

Il fine di qualsiasi norma di cortesia è coltivare la mente inmodo che persino quando siete seduti tranquillamente nes-suno oserà assaltarvi, nemmeno il più rozzo dei ribaldi. Ciòsignifica che, esercitandosi costantemente nelle buone ma-niere, si portano tutte le parti e le facoltà del corpo a fun-zionare secondo un ordine perfetto, e si arriva a una talearmonia con se stessi e con il proprio ambiente da esprimerela padronanza dello spirito sulla carne. La cortesia è unagrande conquista della cultura umana ... per esempio, sietesotto un sole cocente e abbagliante, senza ombra intorno avoi. Un conoscente giapponese vi passa accanto; vi accostatea lui, e istantaneamente questi si toglie il cappello: bene,questo è perfettamente normale, ma... mentre parla con voi,tiene il parasole chiuso e anch’egli rimane esposto al solecocente... La motivazione che si cela dietro questo gesto è:“sei sotto il sole e io simpatizzo con te; ti prenderei volen-tieri sotto il mio parasole, se fosse abbastanza grande o sefossimo amici intimi; dunque, poiché non posso farti om-bra, condividerò il tuo disagio”. La disciplina da un lato, conlo sviluppo di una forza d’animo tale da sopportare tuttosenza un lamento, e l’insegnamento della cortesia dall’altro,con l’imposizione di non guastare il piacere o la serenitàdegli altri esprimendo loro il dolore o la sofferenza perso-nali, si sono combinati nel generare l’orientamento appa-rentemente stoico del nostro carattere nazionale5.

E sempre Nitobe, quando deve spiegare il domi-nio di sé e il controllo ferreo delle emozioni nella so-cietà giapponese che non permette alcuna espressionedel dolore, così scrive

Era considerato indegno di un samurai tradire le proprieemozioni lasciandole trapelare sul volto. La frase “non mo-stra segni di gioia o di collera” era usata per descrivere unuomo di grande carattere. Persino l’espressione degli affettipiù naturali era tenuta sotto controllo. Un padre potevaabbracciare suo figlio solo a spese della propria dignità; unmarito non avrebbe baciato sua moglie in presenza di altrepersone ... Se andate a trovare un amico giapponese in un

5 Nitobe, I., Bushido L’anima del Giappone, Luni, Milano,2003, pp. 42-68.

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momento di profondo dolore, egli vi riceverà invariabil-mente ridendo, con gli occhi rossi o le guance bagnate. Diprimo acchito, potreste pensare che è un isterico. Se preme-te affinché vi dia delle spiegazioni, non pronuncerà chequalche luogo comune senza senso: “La vita dell’uomocomporta dei dolori”; “coloro che si incontrano devonosepararsi”; “colui che nasce deve morire” ... In realtà, i giap-ponesi ricorrono al riso ogni volta che la fragilità della natu-ra umana è messa a dura prova6.

In maniera magistrale, Granet aveva chiarito laquestione con queste acute riflessioni:

“il dolore erompe davanti alle condoglianze recate – chi lereca rende sensibile l’obbligo di tale dolore – e si esprimesullo schema di temi tradizionali, per mezzo di manifesta-zioni convenzionali e obbligatorie, imposte a ciascuno ecomuni a tutti, – perché esso è efficace solo se la sua espres-sione, rituale, chiara come un segno, immediatamente ac-cessibile, mette in gioco automaticamente la simpatia. Undolore, se fosse possibile, che volesse restare assolutamenteintimo o che riuscisse a tradursi in termini liberi e sponta-nei, in un momento di propria scelta e secondo una formulapersonale, che, in una parola, non si accordasse subito aivoti del pubblico, non comporterebbe da parte di questoalcuna partecipazione e non recherebbe alcun conforto.Anzi, arresterebbe il proprio sviluppo e, limitato alle formepiù passive dell’angoscia, non manifestandosi conveniente-mente, perderebbe i benefici di un esercizio attivo per mez-zo del quale può essere regolato, disciplinato, espulso. Perquesto i gesti del dolore si sono ordinati in una successionedi riti che sono anche un sistema di segni. Essi costituisconouna tecnica e una simbolica; formano un linguaggio praticoche ha le sue necessità di ordine, di correttezza, di chiarezza;che ha la sua grammatica, la sua sintassi, la sua filosofia e,direi, anche la sua morale”7.

Propria di gran parte delle società etnologiche è lacreazione dell’istituzione iniziatica, essenziale percomprendere la vita e il pensiero di queste popola-zioni, come illustra Servier a proposito delle culture

6 Nitobe, I., op. cit., pp. 68-70.7 Granet, M., op. cit., p. 39.

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aborigene australiane: “i miti [in queste popolazioni]sono come una rivelazione. Essi rivelano all’uomo lanatura dell’umanità e del mondo nel quale vive, indi-cano il modo di pervenire alla redenzione ... la nascitae la morte sono cose relativamente minori, pochi ri-tuali le accompagnano. In tutti e due i casi, le potenzedivine sono considerate agire in modo arbitrario e gliesseri umani, a questo riguardo, hanno ben poco dadire. Fondamentali sono, invece, le serie interminabilidei riti di iniziazione con i quali l’individuo afferma ilsuo controllo dei miti, dei riti e dei postulati sui qualiè fondata la vita della comunità”8.

L’istituzione iniziatica ha, tra le altre, la funzionedi insegnare ad affrontare in maniera corretta le pro-prie emozioni e soprattutto le proprie paure una voltaper tutte. Appunto per questo motivo entra in giocoil corpo, in quanto, attraverso lo strumento del dolo-re, si rafforza in maniera decisiva e ‘definitiva’ questaentrata nel mondo degli uomini.

Il corpo dell’iniziando, infatti, è un corpo nonsocializzato, simile a quello di un animale feroce equindi va ‘umanizzato’. Non a caso, dei bambini sidice che hanno emozioni ancora incontrollate e cheper questo le loro reazioni assomigliano a quelle deglianimali: i bambini, cioè, non sono ancora stati model-lati completamente dalla ‘cultura’ e reagiscono, per-ciò, secondo ‘natura’, appunto come gli animali.L’atteggiamento selvaggio esprime in modo simbolicola mancanza di ‘cultura’, cioè di pensieri-sentimenti‘umani’. Del resto, solo i bambini, i folli o coloro chesono ai margini della società esprimono i loro senti-menti in modo incontrollato o perché non hanno an-cora acquisito o hanno perso la propria energia vitaleoppure non hanno ancora le caratteristiche specifi-camente umane e una posizione sociale certa. Comerilevano i bijagó, “tutto ciò che può provare un bam-bino piccolo sono le sensazioni che provano gli ani-

8 Servier, J., “Histoire de la pensée symbolique”, in Poirier J.(sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 2 Modes et Modèles, Galli-mard, Paris, 1991, p. 704.

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mali: il neonato avverte solo fame e sete, dolore fisicoe sonno... prima di nascere il bambino non può averepensieri – sentimenti, perché non riceve stimoli, nonfa esperienze, non intesse relazioni”9.

La cultura è, invece, legge, ordine, regola, comeracconta questa donna bijagó

La gente un tempo viveva come gli animali, tutti volevanocomandare. Se eri in grado di picchiare .... qualcuno, lo pic-chiavi. Se volevi una cosa di qualcun altro e lui rifiutava didartela, lo picchiavi e rubavi la cosa che era sua: la gente sipicchiava gli uni con gli altri. Ci si comportava come ban-diti e ciò non aveva nessuna conseguenza. Quello che avevaforza fisica comandava ‘sulla testa di tutti’: tutti facevanociò che volevano, senza mai curarsi degli altri. Un giorno unfiglio del clan padrone della terra, ... pensò nella sua testache ciò non poteva essere, che questo comportamento erapericoloso ... e minaccioso ... Chiamò suo padre e parlò conlui. Il padre chiamò tutti i più anziani, uomini e donne:parlò con loro dell’idea del figlio. Tutti gli diedero ragione edecisero di discutere per sedere il villaggio nella legge ... af-finché se qualcuno avesse fatto qualcosa lo si castigasse. In-ventarono anche il n’obitr kusina,[ciclo dei doni agli an-ziani] per trasmettere la legge ... e aiutare gli anziani che nonpossono più lavorare. Tutto ciò è l’origine del manras[iniziazione]10.

Colui che decide di non entrare nella societàtramite l’iniziazione naturalmente non sarà mai con-siderato un uomo completo e potrà sempre, proprioper questo, rappresentare un pericolo per il gruppocome racconta questo adulto

Kariá non ha fatto il manras [iniziazione], non conosce lalegge. La responsabilità-legge non è scritta sul suo ventre, nénei suoi pensieri-sentimenti. Non ha dimostrato controllo,né rispetto e ha offeso gli anziani. In foresta dovrà scontaretutto questo con dolore. Attenzione a chi non si comportabene con gli anziani: il castigo dipenderà dagli errori com-messi. In foresta si impara a controllarsi e ad avere coraggio.Questo è ciò che ci si aspetta da un uomo bijagó, che sappia

9 Pussetti, C., op. cit., p. 63.10 Pussetti, C., op. cit., pp. 84-85.

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riconoscere il cammino indicato dagli antenati e ascoltare-comprendere il consiglio degli anziani. I pensieri-sentimentipossono muovere un uomo come fa il vento con gli alberi, ola tempesta con le piroghe: possono travolgere chi non èforte o non sa governare le onde. Sono come il fuoco, che èindispensabile per vivere, ma può trasformarsi in incendio.Chi non sa resistere alla forza dei pensieri-sentimenti puòammalarsi e fare ammalare il villaggio. La disciplina e il con-trollo ... si imparano dagli anziani ogni giorno e dagli ante-nati in foresta11.

Molto acutamente Pussetti sottolinea che “l’isti-tuzione della legge rappresenta quindi il termine diquesta condizione primeva, caratterizzata da un’il-limitata libertà individuale e da un mondo di pen-sieri-sentimenti totalmente egoistici, in favore di esi-genze sociali più ampie. La creazione della societàcoincide con l’assunzione individuale della respon-sabilità, che viene rappresentata simbolicamente dallescarificazioni incise sul petto degli uomini iniziati... laresponsabilità sociale e l’etica iniziatica del controlloappartengono invece decisamente a un processo chepotremmo definire di androgenesi, destinato cioè astabilire ciò che l’uomo ha da essere in quanto indivi-duo maschile. Gli uomini infatti hanno bisogno dimaggiore controllo perché i loro n’atriba [pensieri-sentimenti] sono più pericolosi e violenti: sono statieducati a provare emozioni adatte a un guerriero de-stinato a difendere il villaggio”12. Naturalmente anchele donne avranno la loro iniziazione rappresentataanche in maniera corporea, ma le iniziazioni fem-minili sono dappertutto, quando ci sono, molto me-no rilevanti di quelle maschili perché le donne sonoritenute già ‘complete’, espressione perfetta e compiu-ta della ‘natura’, data la loro capacità di generare co-me la Terra. La ‘cultura’, quindi l’umanità, cioè la fa-coltà di vivere insieme – espressione propria dell’es-sere maschile – è, invece, in continua costruzione e

11 Pussetti, C., op. cit., p. 93.1212 Pussetti, C., op. cit., p. 85.

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trasformazione in quanto dato che non ci viene dallanatura.

Come si è già accennato, i sentimenti pericolosi odifficili da dominare possono essere, così, espressi inmodo conveniente e sicuro solo attraverso i veli pro-tettivi della forma poetica, attraverso una forma con-venzionale – quale il lamento funebre, il canto o ladanza – e all’interno di uno spazio e di un tempo ri-gidamente definiti. Per fare un solo esempio, si po-trebbe citare il cosiddetto duello canoro degli Eschi-mesi centrali e orientali così descritto da Harris

Accade spesso che un uomo ne accusi un altro di averglirubato la moglie. La controquerela sostiene che la donnanon è stata portata via ma che se n’è andata volontariamen-te perché suo marito “non era abbastanza uomo” per pren-dersi cura di lei. La controversia viene risolta di fronte ad unnumeroso pubblico lì convenuto che potrebbe essere para-gonato ad un tribunale, ma non viene prodotta alcuna te-stimonianza a sostegno di una delle due versioni sui motividell’abbandono del marito da parte della moglie. Piuttosto,le “due parti” si scambiano, a turno, insulti in musica, sottoforma di canzoni. Il “tribunale” reagisce ad ogni esibizionecon risate più o meno fragorose. Alla fine, uno dei due can-tanti viene sopraffatto e le urla e le grida lanciate contro dilui diventano generali – perfino i suoi parenti fanno fatica anon ridere:Si va sussurrando qualcosa/ su di un uomo e sua moglie/ chenon riuscivano ad intendersi/ di che si trattava, in sostanza?/di una moglie che, giustamente in collera,/ strappò le pelliccedel marito/ prese la loro imbarcazione/ e remò via con suofiglio./ Ay-ay, tutti voi che ascoltate/ cosa pensate di lui,/ pos-sente nella sua collera/ ma privo di forza,/ a balbettare de-bolmente?/ ha avuto quello che meritava/ poiché è stato luiche, con protervia,/ ha dato inizio a questa disputa con stupi-de parole./ ... Gli eschimesi non hanno nessun tipo di spe-cialisti poliziesco-militari che si occupino di imporre il“verdetto”. Tuttavia, è possibile che lo sconfitto nel duellocanoro lasci perdere, poiché non può più fare affidamentosul sostegno di nessuno se decide di esasperare il conflitto.

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D’altra parte, il perdente può anche decidere di continuareda solo13.

O ancora, in molte società vi sono alcuni indivi-dui che possono essere equiparati ai bambini e visti,perciò, come ‘selvaggi’ e sono coloro che costituisconoil gruppo degli iniziandi o di coloro che affronteran-no le cerimonie relative al passaggio da un grado dietà ad un altro. Nella cultura bijagó, per esempio,proprio agli individui che ancora non fanno a pienotitolo parte del gruppo, come coloro che ancora nonsono iniziati e quindi anche alle ragazze non sposate,o a personaggi speciali quali il musicista, vengonopermesse canzoni definite della ‘miseria-sventuraumana’. Essi possono, quindi, cantare liberamente iltormento, la sofferenza, il dolore, l’amore, il tradi-mento, il desiderio, cioè quei sentimenti dolorosi odifficili che pure fanno parte dell’esistenza umana eche in qualche modo devono trovare sfogo, devonoessere liberati. La liberazione, però, non può che av-venire attraverso figure che hanno uno status socialeancora incerto o che non hanno acquisito quel sensod’onore e di dignità dell’essere umano completo.Come sottolinea sempre Pussetti, l’ammissionepubblica di debolezza è molto significativa perché dàsfogo, sempre in modo pubblico, a tutte quelle carichedolorose e potenzialmente negative della società ri-spetto alla fragilità che l’esistenza umana comporta,ma sotto il velo protettivo della forma poetica e co-munque sempre da individui che non rappresentanola comunità nella sua pienezza: “il cantante si dichiaraad alta voce vinto, soggiace suo malgrado all’intensitàdei suoi n’atriba [pensieri-sentimenti], esponendo sestesso e gli altri ai rischi del suo mancato controllo.Gli uomini, la cui condotta dovrebbe essere di esem-pio per i più giovani, confessano la loro debolezza; iragazzi, che devono affrontare il manras, svelano i lo-ro timori e le loro perplessità; le donne, che dovreb-

13 Harris, M., Antropologia culturale, Zanichelli, Bologna,1990, pp. 174-175.

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bero preoccuparsi dell’armonia familiare, cantano laloro gelosia, il desiderio e la rabbia per il tradimento.E il pubblico, coinvolto, si lascia conquistare: rapito,si arrende al contagio del dolore”14.

La persona, l’essere umano nella sua piena realiz-zazione è prima di tutto individuo, essere sociale cheha acquisito caratteristiche e comportamenti sociali.Il concetto di persona, come si è già notato, si riferiscesempre al modello culturale della società di riferimen-to. Esso va visto, dunque, “come una “finzione lega-le”, vale a dire una costruzione fondata su valori soli-dali dell’organizzazione sociale. Ma tali valori, o al-meno alcuni, non si assorbono se non attraverso leusanze che ad essi si ispirano o li mettono in prati-ca...”15. Tra gli Yoruba, per esempio, le loro idee sulladipendenza dell’individuo dalla famiglia o dalla co-munità, che raggruppa i vivi e i morti cosicché gli an-tenati si perpetuano nei discendenti, comportano an-che un concetto di persona originale che rinvia sem-pre ad una eredità insieme cosmica e familiare. La te-sta, infatti, sede dell’intelligenza, ritorna nella fami-glia, mentre il ritorno del principio vitale, o spirito, èlibero. “La testa rimane per qualche tempo nel paesedei morti prima di tornare sulla terra, di modo chenormalmente sono i nipoti ad essere considerati lareincarnazione del nonno o della nonna recentemen-te scomparsi”16. Al fondo di simile concezione vi èl’idea che il mondo dei morti e quello dei vivi siano incontatto continuo tra loro e che vi sia un passaggio euno scambio continuo tra le due realtà.

Tuttavia la nozione di persona non è un dato ac-quisito una volta per tutte: l’insieme dei destini, in-fatti, non sempre è completamente determinato dalladiscendenza e dalla nascita: tra gli Jivaro, per esempio,un individuo adulto maschio può cumulare diverseanime e l’anima più importante, quella denominata

14 Pussetti, C., op. cit., p. 219.15 Augé, M., “Persona”, in Enciclopedia Einaudi, vol. 10°, Ei-

naudi, Milano, 1980, p. 655.16 Augé, M., op. cit., p. 656.

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arutam, si acquisisce. Come sostiene molto efficace-mente Augé, “la nozione di individuo è sempre sulpunto di dissolversi per eccesso o per difetto di signi-ficato”17. L’identità si può perciò acquisire, conquista-re o trasformare come nel caso di quelle che avvengo-no in seguito all’iniziazione o alle successive inizia-zioni così come la successione del nome spesso si col-lega al concetto di reincarnazione, anche se solo par-ziale, degli individui.

Per prima cosa, però, come sostengono i Mossidell’Alto Volta, “bisogna parlare per vivere”: le parolesono la parte centrale del pensiero poiché senza paro-le non c’è pensiero. Per di più ogni parola richiedeuna risposta: la forma elementare della vita sociale èin realtà il dialogo. Il dramma della morte è proprioquello di non poter comunicare “tanto che in molteregioni il morto è denominato ‘colui che non ha piùaria’ o ‘colui che ha terminato di parlare’18. Infatti ilsoliloquio, in tutte le culture provoca sconcerto esgomento e viene sempre ricollegato a disturbi nelrapporto sociale, quali la follia o l’ubriachezza. Comele piante, anche le parole maturano e ciò è proprio deisaggi la cui parola, matura per eccellenza, può essereindirizzata verso le divinità ed è l’unica capace di pro-teggerci dalla morte o di provocarla, come nel casodegli stregoni. La parola è, secondo i Mochicadell’antico Messico “il segno più evidente dell’esisten-za individuale e sociale della persona”19.

E così, in molte regioni dell’Africa, il saggio, “coluiche possiede la conoscenza, si esprime con misura,ponderazione, lentezza (ciò che i Dogon definiscono“la parola solida “)... L’uomo che sa tacere è l’esseresociale per eccellenza. Egli dà prova di pazienza, trat-tiene le parole quando è necessario e evita anche leliti. Un tale uomo è molto apprezzato nel villaggio ...

17 Augé, M., op. cit., p. 658.18 Calame-Griaule, G., “La parole et le discours”, in Poirier, J.

(sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 1 Modes et modèles, Galli-mard, Paris, 1991, pp. 39-40.

19 Calame-Griaule, G., op. cit., p. 41.

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presso i Bambara, il silenzio è ancora più valorizzatodella parola, perché è la prova del controllo di sé, deldominio del proprio sé; da ciò la sua importanzanell’iniziazione... Il proverbio francese “la parola èd’argento, il silenzio è d’oro” si ritrova in tuareg. Que-sto silenzio tuttavia, non deve arrivare sino all’assenzadi comunicazione, perché “il mutismo è assimilatoall’isolamento, o addirittura alla solitudine”... il silen-zio di cui si parla è piuttosto fatto di ritegno e implicache si sappia ascoltare”20.

Il linguaggio e dunque la parola sono la condizio-ne necessaria per essere considerati uomini in qua-lunque società e per tale motivo hanno acquisito unvalore sacro in tutte le culture. Nella tradizione euro-pea, per esempio, quando si parla degli animali dome-stici spesso gli intervistati dicono: “sembra una per-sona, gli manca solo la parola”. Sempre presso i Do-gon del Mali, l’uomo è stato creato senza parola: pri-ma della nascita gli esseri umani sono dei ‘pesci’ eall’arrivo sulla terra conoscono una specie di ‘infanzia’che consiste nell’esprimersi con gesti o versi inartico-lati, di abitare in caverne e nutrirsi solo dei frutti dellaterra. Solo in seguito all’arrivo del dio Nommo, laciviltà comparve ed egli rivelò la parola e il linguaggioagli uomini21. Una delle domande costanti nelle di-verse culture, quindi, è quella relativa all’origine dellalingua, alla sua natura e alle sue funzioni. Per molteciviltà, all’origine del mondo vi è la Parola di una di-vinità che ‘nominando le cose’ ha dato loro realtà. Laparola, quindi, ha una grande forza creatrice e perciòva usata con cautela e sobrietà.

Così, la persona ideale, tra Bijagó come in moltealtre popolazioni, è colei che ha “il dominio di sé, lasobrietà nell’espressione delle proprie emozioni, ilcontrollo dei propri bisogni fisiologici. Il comporta-mento privo di pudore e ritegno, assolutamente di-pendente dalle necessità fisiologiche dei bambini vie-

20 Calame-Griaule, G., op. cit., p. 45.21 Cfr. Calame-Griaule, G., op. cit., p. 21.

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ne associato in senso denigratorio a quello degli ani-mali”22.

La forma fisica in cui si esprime questo controlloè, appunto, la lentezza, la calma, la moderazione nellaparola. Del resto, l’eccesso nella parola, non a caso pa-rolaccia, è per esempio tollerato in molte società, ma ilgiudizio della comunità è comunque negativo percolui che non riesce a mantenere il controllo delle si-tuazioni dimostrando collera. Ora, come osserva sem-pre Pussetti, il valore di un essere umano non risiedenell’individualismo, ma nel senso comunitario del-l’esistenza. “La vera indipendenza, l’autonomia, nonsono quindi il prodotto di una volontà privata, di unatteggiamento individualistico, ma il risultato dellarelazione con gli anziani: non diventa adulto-completo chi è solo, ma chi siede insieme agli altri. Ladipendenza sociale che i ragazzi criticano è infatti ilfondamento stesso del loro essere-nel-mondo e dellaloro personalità: essi devono infatti agli altri la lorovita, il loro nutrimento, la loro educazione e la cresci-ta dei loro pensieri-sentimenti, che li renderà ungiorno persone complete”23. Questo senso comunita-rio della vita nell’universo proprio della specie umanaè dato da “un’invenzione umana, un patto segreto, unaccordo, un ‘giuramento’ ... l’iniziazione viene infattidefinita anche manras, ossia ‘il patto originario’, ‘ilgiuramento’”24.

Così, per esempio, tra i Senufo dell’Alto Volta,l’iniziazione è un congegno molto complesso: presso iKiembara e i Nafara essa è ripartita in tre fasi di unadurata di sette anni ciascuna cosicché il ciclo si esten-de su ventuno anni. Si può comprendere dunque co-me le attività riguardanti l’iniziazione dirigano tuttala vita sociale della comunità e le numerose tappe ostadi intermedi dei rituali permettano solo nell’etàadulta di arrivare alla vera e propria conoscenza delleleggi e conoscenze del gruppo. Essa è da intendersi

22 Pussetti, C., op. cit., p. 63.23 Pussetti, C., op. cit., pp. 82-83.24 Ibidem

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come una ‘università’ nella quale ogni membro ricevegradualmente un’istruzione completa il cui fine èquello di renderlo uomo a tutti gli effetti. “... l’uomonasce nell’animalità e vi resterebbe se non ricevesseun’‘illuminazione’ data dal poro [iniziazione] che, ri-velandogli il senso dell’universo, la natura e la conca-tenazione delle cose, gli rivela il suo carattere divi-no”25.

La dignità, il rispetto, l’onore nascono quindidagli antenati che hanno creato la legge e dagli an-ziani che la fondano nel villaggio. La dignità deglianziani, dunque, “non deriva esclusivamente dal fattoche sanno dirigere i loro pensieri-sentimenti in base aun principio morale che impone il dominio di sé peril bene della società, ma dipende soprattutto dal fattoche sono gli autori di questo principio morale. Senzagli anziani che la creano, proclamano, simboleggianofisicamente, la legge sarebbe un’astrazione inesistente,priva di vigore e di efficacia”26. Essi sono, dunque, larappresentazione fisica e sociale di un pensiero pro-fondo e insieme di una necessità della vita in gruppocosì che il rispetto verso l’autorità che gli anziani rap-presentano in pieno ha un valore fondamentale, es-sendo quasi un indice di ‘umanità’.

Inoltre la lentezza di cui parlano i Bijagó e che èpropria degli anziani non è altro che una espressionecorporea della necessità di non rispondere alla vee-menza del sentimento. “Come l’ubriachezza, ancheun eccesso di energia non controllato può travolgereuna persona, lasciandola in balia della furia dellatempesta e dell’impeto delle onde, disorientata, con-fusa, incapace di riconoscere e seguire la direzione, ilsenso e lo scopo indicati dagli anziani”27. Per chi nonrispetta le regole, per colui che si pone fuori dalla co-munità rimane perciò la vita propria di ogni esserevivente – animale, pianta, montagna, fiume ecc. – e

25 Holas, B., Les Senoufo (y compris les Minianka),L’Harmattan, Paris, 2006, p. 153.

26 Pussetti, C., op. cit., p. 83.27 Pussetti, C., op. cit., p. 86.

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non certo quella, speciale, con un destino specificoproprio della specie umana. La vita umana, si vuolesottolineare, è vita di relazione e non vita solitaria o inbranco.

Anche in Europa, come ripetono incessantementenei loro studi storici e antropologi, nel Mediterraneola scelta fondamentale è sempre stata nei millennipassati quella della vita insieme agli altri. “Dove vive-re? Mai da soli, ma in gruppo, quali che siano le di-mensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaiodi uomini che vivano poveramente del lavoro dellaterra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente,nel Mediterraneo, a costituire una città, a ricrearne lasolidarietà e le contrapposizioni fondamentali: altro-ve, anche due volte più numerosi, essi formerebbero amalapena un villaggio”28.

Proprio per questo motivo, i pastori vengonoconsiderati quasi una categoria di uomini al di fuoridelle regole o della legge:

La gente di pianura, agricoltori e arboricoltori, li vede passa-re con timore e ostilità. Per loro e per gli abitanti della cittàsi tratta di barbari, quasi di selvaggi. Proprietari e commer-cianti astuti, che li attendono quando scendono a valle, so-no d’accordo per imbrogliarli. Fa scandalo la sola idea cheuna bella ragazza possa innamorarsi di uno di loro, come inquesta canzone: Tu ti pigghij nu picurare,/ Nenna mia,n’ha proprio boni:/ jetta nu pezzu de fiatuni,/ dint’a li piat-tu nun ce sa magnà./Nenna mia, muta pensiere,/muteraisorte e fortuna:/’nnanze pigghiate nu cafoni/ca è ommi desocietà./”29

Come osserva Braudel, quando sottolinea il sognodi coloro che vivono nelle masserie di stare nel paeseperché si possono frequentare i caffè, il cinema e so-prattutto gli altri esseri umani – in quanto la lorostessa presenza istruisce –, essere un uomo significa

28 Braudel, F. (a cura di), Il Mediterraneo lo spazio e la storia-gli uomini e la tradizione, Bompiani, Milano, 1987, p. 126.

29 Braudel, F. (a cura di), op. cit., p. 24.

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vivere tra gli uomini e non tra gli animali. E, a questoproposito, cita un bel brano di Rocco Scotellaro:

“Quando sto così che guardo le bufale penso a tanti chevanno camminando alla spasso ... quelli che stanno assettatiavanti al bar, si accattano l’aranciata, il caffè, tante cose, equelli che vanno al cinema tutte le sere, loro possono ... epoi vorrei tante cose, come per esempio io vorrei più zappa-re, uccidermi di fatica e non guardare le bufale, mettere ma-no a faticare alle sette e alle cinque levar mano ed essere alibertà ... e la sera vorrei stare al paese: anche se uno non ciha i soldi, pure che guarda nel paese già si spratichisce, siistruisce”. Il suo sogno, paradossale ai nostri occhi per unuomo che beneficia di un lavoro per tutto l’anno, mentre laregola è l’impiego temporaneo o la disoccupazione, è quellodi diventare un semplice giornaliero: “lo zappatore, comevorrei fare io, quando è il sabato sera piglia la settimana dipaga e la porta a casa... se avessi i soldi mi farei la casa” ... e“vorrei un po’ di terra per fare un orto”... Si tratta di sognisimbolici, e non di semplici rivendicazioni materiali. Unacasa: l’indipendenza. Un orto: un posto da lavorare per sé, enon per un padrone, e un certo livello di autonomia... lavo-rare, certo: ma un lavoro che non dia alla terra e al padronepiù tempo di quanto ne meritino, e lasci liberi di partecipa-re alla vita del gruppo. “Istruirsi”: non essere uno zotico, un“cafone”. E soprattutto, vivere tra gli uomini e non tra lebestie: è il solo modo di essere uomo e di sentirsi tale30.

Come è stato già rilevato, l’onore e la dignità, cioèi sentimenti con i quali ciascuno può esprimere il suo‘essere’ nel mondo – fondamentali in tutte le societàin quanto espressione emozionale della preoccupa-zione fortissima per la salvaguardia dell’individuo edella comunità – forse possono essere consideraticome i sentimenti centrali del controllo del sé. A que-sto proposito, possono essere molto utili, per esem-pio, gli studi di un grande sociologo, Erving Goffman,il quale ha analizzato in modo approfondito il sé conacute microanalisi sui comportamenti dell’individuonelle società occidentali e così Bourdieu in uno studiosull’onore tra i Cabili veramente penetrante e illumi-

30 Braudel, F. (a cura di), op. cit., pp. 130-131.

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nante31. I concetti di dignità e onore, però, presup-pongono in genere una marcata differenza tra ladonna e l’uomo e molte sono le società nelle quali ledistinzioni fondamentali non sono quelle relative alleclassi sociali o alle etnie, ma quelle che si riferisconoalla categoria maschile/ femminile. In numerose cul-ture, gli uomini maturi non possono manifestare libe-ramente qualunque sentimento in quanto essi sonol’espressione della comunità nel suo pieno vigore edequilibrio, quella parte del gruppo che rappresentasimbolicamente, anche dal punto di vista corporeo, laParola e quindi la Ragione, la Cultura. Alle donne,pura Natura, per dirla con Lévi-Strauss, spetta, pro-prio per questa loro caratteristica, il compito di met-tere in scena le emozioni dei momenti collettivi fon-damentali, come, per esempio, il matrimonio o inparticolare la morte. Non solo, ma, visto che in ognicaso sarebbe contrario alla natura della specie umanaimpedire qualunque manifestazione di emozioni, gliuomini e le donne sono educati ad esternare emo-zioni specifiche al loro genere: i primi imparano aproiettare il loro corpo verso l’esterno, verso il gruppocosicché devono esprimere sempre emozioni attiveche dimostrino continuamente la loro abilità e chepermettano loro di essere sempre in competizione. Labravata, così, permette all’uomo di mantenere l’onoree il prestigio sociale che riposa soprattutto sulla capa-cità di essere ‘uomo’. L’aggressività di molti compor-tamenti e le molteplici forme di aggressione verbale ogestuale di questi uomini, perciò, sembrano essere de-terminate soprattutto dalla continua paura di perderel’onore e dunque la caratteristica di uomini di fronteagli altri. Come si può leggere in un articolo lucido eprofondo sulle emozioni in rima presso un villaggiodel sud del Portogallo, “la mascolinità deve essere co-struita e affermata in continuazione, mentre la fem-minilità è considerata come stabile. Quando si è pic-

31 Per lo studio sui Cabili si veda Bourdieu, Pierre, Per unateoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Cortina, Mila-no, 2003.

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colo, non si è ‘uomo’ nel senso di ‘maschio’. Per arri-varci è necessario rompere l’intimità con la madre ... ilservizio militare segna il completamento di questoprocesso, affermando attraverso l’irreggimentazionedel corpo l’identificazione tra la categoria del‘maschile’ e i valori del ‘militare’ e del ‘nazionale’”32.Questa condizione deve essere continuamente riaf-fermata poiché essa è sostanzialmente una relazionedi dominio, di potere, quindi ‘culturale’, e non unasituazione ‘naturale’ come quella femminile. La ma-scolinità è in sostanza continuamente in bilico ancheperché il ‘valore’ è qualcosa che dà forma al sé, ma èanche e comunque qualcosa che è conferito dagli altri.Onore e famiglia sono le due parole-chiave per com-prendere, per esempio, le società mediterranee, comeviene ben analizzato anche in un breve saggio sullaGrecia egea: “onore è il sentimento che l’individuo hadel proprio valore, un sentimento profondamenteancorato in colui che è al suo ‘posto’. Ciascuno, uomoo donna, nasce in un luogo, una famiglia, una comu-nità, una nazione; da ciò, un primo segno: il nome.Con il tempo, si formano dei legami e si sviluppano,delle prospettive future cambiano, ma il sé rimanesempre parte integrante di un insieme sociale più va-sto, determinato dalle cittadinanze che compongonola sua identità relazionale”33. Dunque, il sentimentodell’onore è l’emanazione affettiva della struttura so-ciale tanto è vero che “perdere il proprio posto equi-vale a perdere il proprio ‘valore’. La persona ‘fuori po-sto’, colui o colei che non si comporta secondo le esi-genze del suo ‘posto’, perde il suo statuto morale ma,fatto ancora più rilevante, perde il sentimento intimodel proprio onore; uno spostamento effettivo è so-cialmente rivelatore di una grave colpa morale, di unacolpa che tocca il sostrato emozionale dell’individuo:che rivela la sua incapacità di riconoscere il suo posto

32 Vale de Almeida, M., “Émotions rimées Poétique et politi-que des émotions dans un village du sud du Portugal”, TERRAIN,22, mars 1994, p. 25.

33 Papataxiarchis, E., op. cit., p. 7.

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e di agire di conseguenza. Ma il senso che si ha delproprio posto è anche funzione del sesso; uomini edonne provano in maniera diversa il sentimento ditimi [onore]. Degli uomini, si dice che sono ‘per na-tura’ dotati di andrismos (di ‘virilità’): un carattereforte, coraggioso, nobile che li autorizza a possederedei beni, ad avere dei ruoli (a rappresentare), a difen-dere i doveri di vassallaggio, a governare un sé terri-torializzato. Le donne, essendo ‘per natura’ la partedebole dell’umanità, ritengono nel tessuto della loroidentità sociale qualcosa della loro vulnerabilità natia.Per proteggersi e per proteggere coloro che dipendo-no da loro, bisogna dar prova di ritegno e voltarsi ver-so l’interno, provare e manifestare della ‘vergogna’...Se, per l’uomo, la nozione di posto si identifica conl’affermazione del suo diritto al primo posto, per ladonna, essa suggerisce il ritiro nella sfera del priva-to”34. Quindi i due sentimenti collegati ad una visionecosì precisa del mondo sembrano essere per l’uomo,l’audacia e la baldanza, e per la donna, la vergogna.

I modi in cui viene reso operante il controllo delleemozioni nelle società sono naturalmente molto nu-merosi: un esempio tra i tanti, lo possiamo leggere inun classico di un grande antropologo, Malinowski,che in questo modo descrive una scena luttuosa nelleisole Trobriand

Scegliamo come esempio la morte di un uomo dovuta all’etàormai avanzata, che lascia una vedova, parecchi figli e fra-telli. A partire dal momento della sua morte, la distinzionefra i suoi parenti veri, ovvero quelli matrilineari, da una par-te, e i suoi figli, parenti acquisiti e amici dall’altra, assumeuna forma precisa e persino visibile dall’esterno. I parentidel defunto cadono sotto un tabù: devono stare lontani dalcadavere... Inoltre i parenti non possono esibire alcun segnoesteriore di lutto nel loro abbigliamento o nei loro orna-menti, anche se è lecito che mostrino il loro dolore e vi dia-no sfogo piangendo. Qui, il concetto che sta alla base diquesta consuetudine è che i parenti materni sono colpitinella loro stessa persona; che ognuno di loro soffre perché

34 Papataxiarchis, E., op. cit., pp. 8-9.

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tutto il sottoclan al quale appartengono è stato minato dallaperdita di uno dei suoi membri. “Come se fosse stato taglia-to un membro della propria persona, o un ramo da un albe-ro”. Ma anche se non devono nascondere il proprio dolore, nonpossono però ostentarlo. Questa astensione da qualsiasi dimo-strazione pubblica del lutto si estende non solo ai membridel sottoclan oltre che ai veri parenti, ma a tutti i membridel clan al quale apparteneva il defunto. D’altra parte il tabùche impedisce di toccare il cadavere vale in primo luogo peri membri del sottoclan e in particolare per i parenti veri peri quali evidentemente la tentazione di toccare il cadavere,come espressione d’affetto, è più forte che per gli altri. Mol-to diversa è invece la concezione degli indigeni riguardo alrapporto tra la vedova, i figli e i parenti acquisiti e il defuntoe il suo cadavere. Secondo il codice morale questi devonosoffrire e sentirsi privati della persona amata. Ma sentendosiprivati della persona amata non soffrono direttamente, nonsono afflitti per una perdita che colpisce il loro sottoclan edunque la loro stessa persona. Il loro dolore non è sponta-neo come quello dei parenti materni, ma è piuttosto un do-vere quasi artificiale derivante dagli obblighi acquisiti. Perquesto essi devono ostentatamente esprimere il loro cor-doglio, dimostrarlo, e portarne su di sé i segni esteriori. Senon lo facessero, offenderebbero i membri ancora in vita delsottoclan del defunto. Tutto questo dà luogo a una situa-zione interessante e a uno stranissimo spettacolo: poche oredopo la morte di una persona importante il villaggio siriempie di persone con la testa rasata, il corpo tutto untocon uno spesso strato di fuliggine, che urlano come demonidisperati. Sono le persone che non fanno parte dei parentidel defunto, coloro che non sono effettivamente colpiti dallutto. Poi, in contrasto con queste, se ne vedono altre vestitecome al solito, esteriormente calme, che si comportano co-me se non fosse successo nulla. Queste appartengono al sot-toclan e al clan del defunto, e sono i veri dolenti... Quandola morte sta per sopraggiungere, la moglie e i figli, i congiu-rati e i parenti acquisiti si affollano attorno al letto, riem-piendo completamente la capanna. Il momento della morteviene accolto con un frenetico scoppio di pianto. La vedova,che generalmente sta in piedi vicino al capo dell’uomo mo-rente, emette il primo grido acuto, al quale rispondono im-mediatamente le altre donne fino a quando in tutto il vil-

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laggio risuona la strana armonia del melodioso lamento fu-nebre35.

La strategia del controllo è qui molto chiara: i pa-renti stretti, che potrebbero perdere il controllo, sonotenuti a nascondere il dolore, mentre coloro che sicu-ramente non potranno subire conseguenze dalla ne-gatività della situazione, sono tenuti a manifestare ildolore in maniera plateale, a ‘metterlo in scena’, dun-que ad esprimere l’intensità e la profondità dellaperdita. Mauss aveva appunto sottolineato questoaspetto importante quando aveva scritto che non so-no le parentele di fatto, cioè quelle prossime, maquelle di diritto, e spesso i semplici congiunti impa-rentati, a guidare le manifestazioni del lutto, a dimo-strazione proprio dell’obbligatorietà dell’espressionedei sentimenti.

Un altro esempio, sempre piuttosto noto, potreb-be riguardare le società indonesiane e comunquequelle comprese nell’area del Sud-est asiatico e delPacifico: gli studi antropologici hanno messo in rilie-vo sin dall’inizio l’assenza di un’espressione direttadei sentimenti nel comportamento quotidiano dellepopolazioni esaminate. Vorrei ricordare, a mo’d’esempio, gli studi su Bali di Margaret Mead, laquale rileva l’equilibrio e la compostezza nella postu-ra, in qualunque gesto o atteggiamento del Balinese.Sull’educazione dei bambini poi ella osserva che aipiccoli non viene mai permesso di litigare, né di bi-sticciare anche semplicemente per i giocattoli o tantomeno di picchiare o essere picchiati. Negli anni tra-scorsi in un villaggio balinese, la Mead infatti dichiaradi non aver mai visto litigare bambini o ragazzi. PerGeertz questa posa nasce dalla “paura del palcosceni-co” e comunque per tutti gli studiosi essa è il frutto di

35 I corsivi sono miei.Malinowski, B., La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia

nord-occidentale Resoconto etnografico sul corteggiamento, sul ma-trimonio e sulla vita familiare fra gli indigeni delle Isole Trobriand,nella Nuova Guinea Britannica, Feltrinelli, Milano, 1968, pp. 148-151.

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un duro e costante lavoro sull’emozione determinatoda una concezione del mondo riguardante la moralitàe la salute molto specifica. L’imperturbabilità dellepersone e delle espressioni dei loro volti nascedall’idea secondo la quale i turbamenti provocanouno squilibrio corporeo e quindi favorisconol’insorgere di una malattia. Come sostiene un indige-no toradja dell’Indonesia, “uno sempre arrabbiato,non ci piace uno così. Perché una persona del generenon fa altro che dire cose cattive così che anche noifiniamo per diventare infastiditi e arrabbiati... unoirascibile è uno che butta (tutto) fuori (uno cheesprime la sua rabbia), ma uno paziente e tollerante èuno che la tiene per sé ... se tu reagisci alla rabbia diqualcun altro (diventando a tua volta arrabbiato) nonva bene ... se la si butta sempre fuori (la rabbia), ci so-no sempre difficoltà. È meglio rimanere pazienti/tolleranti”36. Presso i Toradja, dunque, i regimi emo-zionali fondamentali sono due e opposti l’unoall’altro: il primo, quello della rabbia, cioèdell’eccesso, della mancanza di controllo, l’altro,quello della pazienza, proprio di chi non si lascia co-involgere dal punto di vista emozionale e mantiene ilcontrollo di se stesso.

Una volta per esempio, durante il periodo che trascorsi sulcampo, cadendo da un motorino mi graffiai un ginocchio.La ferita seppur leggera si infettò rapidamente e divennedolorosa. Poiché in pochi giorni mi salì la febbre el’infezione mi fece gonfiare le ghiandole della parte sinistradel corpo, cominciai a preoccuparmi. Ero sorpresa che unaferita tanto piccola potesse farmi stare così male. Non c’eranessun ospedale o dottore nel villaggio e mi sentivo troppomale per andare a Makale a cercarne uno. Quando unamattina mi svegliai e scoprii che l’infezione era ulteriormen-te peggiorata, cominciai a piangere sommessamente. Unadonna allora mi rimproverò con delicatezza dicendomi chesarei dovuta essere ‘sa’bara’ [paziente]. Poiché in quel mo-

36 Donzelli, A., Hollan, D., “La disciplina delle emozioni traintrospezione e performance: pratiche e discorsi del controllo aToraja (Indonesia)”, in Antropologia, n. 6, a. 5, 2005, p. 49.

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mento non stavo facendo nulla che potesse sembrare impa-ziente e nervoso, non riuscii a comprendere completamentel’invito della donna a essere ‘paziente’. Il suggerimento, tut-tavia, non era un invito a essere ‘calma’, ma piuttosto unammonimento a non esternare le mie emozioni, a sopporta-re il dolore senza lamentarmi37.

Così in un’altra situazione

Un giorno mi svegliai e venni a sapere ... che una delle figliedel nostro vicino era improvvisamente morta durante lanotte... la donna che mi riferì dell’accaduto mi chiese se vo-lessi andare con lei a casa ... quel pomeriggio dove si sarebbetenuta una piccola cerimonia islamica prima di procederealla sepoltura del cadavere della bambina. Quando arri-vammo fummo invitati a prendere posto nella stanza piùgrande della casa dove si erano già radunate molte personeprovenienti dal villaggio e dai dintorni. Ci vennero offerticaffè e biscotti mentre i familiari ultimavano i preparatividella salma per il funerale... mentre stavo seduta nella salainsieme agli altri abitanti del villaggio, al cospettodell’improvvisa morte di una giovane ragazza, la tristezza ela compassione presero il sopravvento e si trasformarono inlacrime irrefrenabili. La vista degli altri che stavano tran-quillamente seduti senza emettere un solo sospiro rese an-cora più acuto il mio dolore e cominciai a piangere ancorapiù forte. Ero l’unica a piangere in un gruppo di almenocinquanta persone. Dopo che l’imam insieme a un gruppodi rappresentanti religiosi locali ebbero recitato alcune pre-ghiere islamiche, i partecipanti lasciarono la casa mentre ungruppo di membri della famiglia si diresse con il piccolocadavere al luogo della sepoltura. Fu soltanto quando me eme ne stavo tornando a casa insieme agli altri che udii deilamenti disperati provenire dalla casa che ci stavamo la-sciando alle spalle. Quando tornai al villaggio nel 2004 ap-presi che i genitori della bambina si erano spostati inun’altra casa. Nonostante la compostezza che, ai miei occhi,avevano dimostrato al funerale della figlia, quando ci rin-contrammo dopo più di un anno dalla sua scomparsa, lamadre mi disse immediatamente che avevano deciso di la-sciare la vecchia casa perché dopo la sua morte “l’atmosferaera troppo triste e svuotata” e perché lei si sentiva troppo

37 Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 49-50.

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“stordita” e “confusa/ disorientata”, al punto che non pote-vano più sopportare di vivere là”38.

L’utilizzo di termini come “confusa” e “stordita”non è casuale, ma allude alle credenze locali sulla con-sapevolezza continua necessaria nelle azioni, sul di-stacco dagli eventi e sull’importante concezionedell’energia vitale che ricorda quella orientale dei cen-tri di energia corporei detti chakra. Bisogna, infatti,essere sempre all’erta, sempre attento, lucido e“consapevole delle implicazioni delle proprie azioni.Ma quando uno è emozionalmente eccitato o turbato... egli diventa confuso e stordito e quindi perde ... laconsapevolezza delle proprie azioni”39 e a lui può suc-cedere qualunque cosa anche molto spiacevole o peri-colosa. Inoltre la pazienza e la calma non servono so-lamente a dominare le proprie emozioni: l’effetto ne-gativo prodotto dal turbamento emotivo, infatti, siriflette anche sugli altri e può provocare danni a per-sone e cose poiché l’energia circola liberamente e nonconosce barriere.

38 Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 50-51.39 Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., p. 55.

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“Almeno le mie lacrimela terranno legata a me”: laperdita del controllo e l’eccessodei sentimenti

Gli studi di Lévi-Strauss hanno indicato oramaicon grande chiarezza l’importanza che ogni culturaattribuisce all’equilibrio e alla ‘giusta distanza’ comescelta fondamentale della vita sociale. Come rileva ilgrande antropologo, “alle due prospettive, che po-trebbero entrambe sedurre la sua immaginazione, diun’estate o di un inverno eterni, ma che sarebbero,l’una licenziosa sino alla corruzione, l’altro puro sinoalla sterilità, l’uomo deve risolversi a preferirel’equilibrio e la periodicità del ritmo stagionale.Nell’ordine naturale, quest’ ultimo risponde alla stes-sa funzione cui, sul piano sociale, soddisfa lo scambiodelle donne nel matrimonio e lo scambio delle parolenella conversazione, purché l’uno e l’altra siano prati-cati con la franca intenzione di comunicare; cioè, sen-za astuzie né perversità e, soprattutto, senza secondifini”1.

Il buon uso della comunicazione, dunque, èpreoccupazione essenziale di ogni gruppo giacché,senza una corretta comunicazione, nessuna società èpossibile. La comunicazione è una forma di socialità,anzi è socialità pura e semplice, in quanto oppostaall’ostilità e alla guerra2. A questo proposito Lévi-Strauss illustra, in altri scritti, l’importanza dell’oblioo della dimenticanza nel pensiero mitico di molte po-polazioni e sostiene che l’oblio formerebbe un sistemaassieme al malinteso, l’indiscrezione e la nostalgia:

1 Lévi-Strauss, C., Antropologia strutturale due, il Saggiatore,Milano, 1990, p. 59.

2 Cfr. Lévi-Strauss, C., L’uomo nudo Mitologica 4, il Saggiato-re, Milano, 1974, p. 652.

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... che cosa vi è di comune e che cosa vi è di diverso tra ladimenticanza, il malinteso e l’indiscrezione? ... Definiamol’indiscrezione, consistente nel rivelare a qualcuno qualcosache non gli si sarebbe dovuto dire, un eccesso di comunica-zione con l’altro. Ne risulta che il malinteso, consistente nelcomprendere in ciò che qualcuno ha detto un’altra cosarispetto a quella che egli ha voluto dire, può essere definitoun difetto di comunicazione anch’esso con l’altro. Vediamoallora quale posto è da attribuire all’oblio in questo sistema:esso consiste in un difetto di comunicazione, non più conl’altro, ma con se stesso. Infatti, dimenticare significa nondire a se stessi ciò che avremmo dovuto poterci dire3.

Il motivo dell’oblio nei miti greci, per esempio,serve a fondare delle prescrizioni rituali, dei divieti,come quelli di pronunciare dei nomi di persone o didivinità in luoghi speciali o di entrare in determinatiluoghi sacri o ancora a istituire dei rituali. In realtà, lafunzione specifica e quindi la più rilevante della pra-tica rituale è senza dubbio quella di “preservare lacontinuità del vissuto. Infatti, proprio questa conti-nuità è quella che viene rotta dall’oblio nell’ordinementale: lo riconosciamo ogni volta che parliamo di“vuoti di memoria”. E sovente, in America e altrove, imiti stessi lo riconoscono, al loro modo, quando fan-no derivare l’oblio da un passo falso: l’eroe perde lamemoria quando barcolla, perché ha messo il piede inuna depressione del terreno che è una discontinuitàd’ordine fisico”4. In queste forme simboliche, dunque,viene espressa una preoccupazione essenziale per ognigruppo, cioè la perdita di memoria di sé, della societàcui si appartiene e delle regole a cui ciascuno deve sot-tostare. Allo stesso modo, nelle gesta di Asdiwal, unmito indigeno della costa canadese del Pacifico, l’eroemuore a causa della “nostalgia provata sia per la terrasia per il mare, dunque per non aver saputo realizzareun equilibrio tra i due elementi”5. La nostalgia,quindi, può essere definita come un eccesso di co-

3 Lévi-Strauss, C., op. cit., 1990, pp. 231-232.4 Lévi-Strauss, C., op. cit., 1984, p. 231.5 Lévi-Strauss, C., op. cit., 1990, p. 230.

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municazione con se stesso. Trattandosi naturalmentedi una mancanza di equilibrio, cioè di un elementoinsufficiente o sovrabbondante, esso può essereespresso solo dai membri della comunità ancora nonmaturi, da stranieri, emarginati o individui in condi-zioni economico-sociali di inferiorità, come in questoracconto che riguarda i Toradja dell’Indonesia

Quando ritornai sul campo dopo più di un anno di assenzapassato a scrivere la mia tesi, rimasi colpita da un commentoche mi venne fatto diverse volte quando rincontrai alcunidei miei amici. Durante le visite che feci alle famiglie a cuiero più affezionata, notai che gli adulti generalmente attri-buivano ai bambini sentimenti di nostalgia nei miei con-fronti. Trovavo strano sentire il mio amico Daud dire cheKalambe’(il suo bambino di due anni che era un infantequando lo avevo conosciuto) aveva sempre chiesto di medurante la mia assenza. Il mio vicino di casa... mi disse laprima volta che ci rincontrammo: “Songgo (il figlio di ottoanni di suo fratello) continuava a chiedermi: “quando tor-nerà Aurora?” Nura mi rimproverò bonariamente dicendo:“Iutten (il suo figlio più piccolo) chiedeva sempre: “perchéAurora non ci ha mai mandato una cartolina per il Lebaran’(la fine del periodo di Ramadan)?” Mi resi conto che questicommenti costituivano un modo abbastanza comune direndere l’idea del “ci sei mancata” o del “ci chiedevamoquando saresti tornata”, frasi che invece nessuno mi ha maidetto... le persone di rango inferiore o i bambini sono inqualche modo incaricati di un’espressione vicaria delleemozioni di nostalgia6.

Insomma, gli studi antropologici insegnano chel’eccesso danneggia non solo l’individuo, ma la societàe quindi deve essere trattato con estrema cautela. Unodei modi adottati è quello di inserire in categorie so-ciali speciali le persone che non riescono a risolvere ocomunque a ‘controllare’ i loro sentimenti: la follia è,infatti, sempre in agguato e con ciò i rischi di disgre-gazione sociale. Gli stregoni o i guaritori-divinatori,per esempio, in molte culture sono ritenute personeche ‘non si sanno dominare’, “possedute da pensieri –

6 Donzelli A., Hollan, D., op. cit., pp. 57-58.

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sentimenti che non controllano, i quali secondo i casipossono essere gelosia, invidia, rancori o ambizionidivoranti, appetiti incontrollabili, sete di potere, de-siderio eccessivo di denaro, profitto e successo. Sonole persone che hanno perso di vista la direzione indi-cata dagli anziani, costituendo una minaccia per ilbenessere del gruppo o addirittura per la loro fami-glia”7. Un altro modo di trattare l’eccesso è quello dicontrapporlo ad un eccesso opposto, ricreando conciò un nuovo equilibrio e riducendo al minimo i ri-schi di conflitto sociale o di pericolo come in questocaso: “il trattamento del cadavere di un suicida saràlasciato alle donne che sono in quel momento in statodi possessione, in quanto ... “non c’è alcun pericolo seil contatto avviene tra iarebok”[anime, spiriti vitali]8.In questo caso, il suicidio è proprio di chi non ha sa-puto controllarsi, non ‘ha resistito sotto le cose’,quindi di un debole: a questo deficit di vitalità devecorrispondere perciò un eccesso di energia, come nelcaso di una donna posseduta da uno spirito.

Un altro esempio di eccesso socialmente previstoriguarda una istituzione particolare relativa ai lin-guaggi d´etichetta, cioè la cosiddetta parentela perscherzo. Ad un eccesso di riserbo e di vergogna neiconfronti di parenti stretti – quali la suocera, i fratellio le sorelle – spesso espresso, per esempio, in forma ditabu di evitazione (non si può guardare, parlare ecc.con il parente oggetto di tabu) si risponde con un ec-cesso opposto, cioè l’insulto, l’angheria, la sfacciatag-gine obbligatoria nei confronti di un altro gruppo diparenti: “al dovere senza limiti e senza contropartita,possono esserci diritti senza limiti e, in certi casi, an-che senza reciprocità”9. Sono numerose, infatti, le po-polazioni nelle quali alle parentele implicanti il rispet-to si contrappongono quelle implicanti lo scherzo, le

7 Pussetti, C., op. cit., p. 122.8 Pussetti, C., op. cit., p. 153.9 Mauss, M., “Parentele implicanti lo scherzo”, in Granet, M.,

Mauss, M., Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano, 1975, p.84.

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cosiddette parentele per scherzo. Mauss, studiandoqueste usanze, cita il saggio di Radin sui Winnebago,una tribu Sioux tra i quali “un uomo è estremamenteriservato e educato con tutta la gente della propriaparentela e del proprio gruppo imparentato. Invece,non smette di prendersi gioco di parenti e congiuntiquali: figli di sorelle di padri, di fratelli di madri, ...fratelli di madri, cognate e cognati. “Egli lo fa[scherza] ogni volta che ne ha l’occasione, senza chel’altro possa offendersi”... la loro ragion d’essere puòconsistere nel fatto “che permettevano di allentarequella “etichetta costante che impediva rapporti di-sinvolti e senza disagio con tutti i parenti prossimi”10.Inoltre, questa usanza serve a minimizzare statid’animo che possono presentare dei pericoli stabilen-do “un ritmo che fa sì che si succedano senza pericolostati d’animo opposti. Il ritegno, nella vita corrente,cerca una contropartita e la trova nell’indecenza enella grossolanità. Noi stessi abbiamo ancora dei mu-tamenti d’umore di questo genere: soldati che abban-donano la posizione comandata; studenti che si spar-pagliano nel cortile dei licei; signori che si rilassanonel fumoir dopo le cortesie troppo a lungo prodigatealle signore”11. Infine, questo sistema presenta senzadubbio una rilevante utilità sociale nell’eliminazionedi eventuali rivalità tra parenti stretti, quali i suoceri oi generi e le nuore, o nell’eliminazione di eventualirischi di incesto, per esempio tra fratelli.

Il controllo, come elemento fondante dell’uma-nità e per questo tenacemente cercato in ogni società,è però sempre estremamente fragile: la malattia, lamorte, il dolore, la sofferenza sono contraddizioniinsanabili dell’esistenza. L’eccesso, pur inevitabile,comporta, però, uno stato di disequilibrio tra le com-ponenti del corpo e quindi è sicuramente fonte dimalattie che possono portare anche alla morte. Comegiustamente nota Pussetti, le emozioni che più facil-

10 Mauss, M., op. cit., 1975, p. 87.11 Mauss, M., op. cit., 1975, pp. 90-91.

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mente agiscono in maniera molto pericolosa sono lapaura, il desiderio, il dolore per la perdita di un esserecaro e l’angoscia di colui che pensa di essere vittima diun maleficio. Per questo, in molte società è considera-to estremamente pericoloso essere individualisti e ri-belli e non orientare secondo uno scopo socialmenteutile le proprie emozioni poiché un eccesso di senti-menti “può travolgere una persona, lasciandola in ba-lia della furia della tempesta e dell’impeto delle onde,disorientata, confusa, incapace di riconoscere e seguirela direzione, il senso dello scopo indicati dagli an-ziani”12. Qualunque malattia, infatti, nasce dalla per-dita di equilibrio dei propri sentimenti e dalla frattu-ra del legame tra le varie componenti del corpo e dellospirito. Questa convinzione che la forza vitale possaessere perduta nelle situazioni di sconvolgimentoemotivo o catturata dagli stregoni i quali voglionoassorbirne l’energia è diffusa in molti contesti etno-grafici.

In questo racconto riguardante i Toradja, si spiegamolto efficacemente questa concezione

Una volta ... ero seduta sul sedile anteriore di ... una speciedi taxi collettivo con la mia amica Nura con cui stavo an-dando a fare compere al mercato ... la macchina, come alsolito, si fermava spesso lungo la strada per permettere aipasseggeri di scendere dove volevano e per farne salire altri...durante una di queste fermate lungo la strada scoscesa e aquel tempo non ancora asfaltata che scendeva dalla monta-gna con strette curve, il guidatore scese per prendere qual-che cosa da una casa nelle vicinanze, dimenticando di tirareil freno a mano. La macchina cominciò quindi a muoversiverso il ciglio della strada che dava su uno strapiombo. Tra-salii. Non urlai, ma trasalii, tirando un profondo e udibilesospiro. Fortunatamente, un uomo che sedeva vicino al vo-lante ebbe la prontezza di tirare il freno impedendo così chela macchina precipitasse nel dirupo. Con mia grande sor-presa, Nura, che mi sedeva accanto, mi rimproverò severa-mente per la mia reazione di paura e per avere dimostratomancanza di controllo. Per molti giorni dopo l’incidente

12 Pussetti, C., op. cit., p. 86.

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continuò a sgridarmi per avere trasalito con tanta facilità. Ioallora protestai che i suoi rimproveri erano troppo severipoiché dopo tutto avevo solo sospirato per la paura. MaNura continuava a insistere che si trattava di una cosa grave.Fu così che capii che la mia amica stava alludendo a unacredenza locale secondo cui gli spaventi improvvisi possonoseriamente nuocere alla salute. Secondo l’opinione di Nura,trascurando di mantenere vigilanza su me stessa, avevo cor-so seri rischi. Non sapevo che trasalire per uno spavento(kaget) era pericoloso? Come appresi poi ... è importanteevitare spaventi improvvisi, per quanto piccoli essi possanoessere13.

E ancora questa donna ormai anziana della Gui-nea Bissau esprime con parole chiarissime la fragilitàdella vita e la difficoltà di riuscire a risanare le soffe-renze della condizione umana

Io già avevo dimenticato gli altri quattro morti da bambini,perché lei faceva tutto. Proprio tutto, aggiustava le cose,cucinava, era rispettosa, non sbagliava in niente. Si chiama-va Kanimisia. È di lei che canto e della malattia ... che mi hacausato Kanimisia, la figlia che ho perduto. Gli altri sonomorti così piccoli, non hanno avuto importanza, non face-vano niente, non sapevano niente. Ma per le sofferenze cau-sate da Kanimisia ho perso il controllo ... tutto il mio dolo-re-malattia è per Kanimisia. Se tu perdi un figlio piccolo,non ha importanza, ne partorirai un altro. Ma se perdi unfiglio grande perdi tutto, e perdi il controllo... io non volevolasciarla andare, ho puntato i piedi per la morte di mia figlia,e così ho perso il controllo e sono rimasta con questo doloreincollato al corpo. Se indosso un abito, quando penso a miafiglia l’abito stringe il mio corpo. E mi soffoca, tutto ciò cheindosso si strappa, per la forza del mio dolore che esce dalmio corpo... la sorella di mio marito ... mi dice di limitare lemie lacrime, di smettere di piangere, perché se non smetteròdi piangere mia figlia mi ammalerò. Ma io non voglio smet-tere di piangere, perché perdendo mia figlia sono rimastasenza niente. Se fosse stata una bambina piccola, allora nonl’avrei pianta perché sarebbe ritornata presto. Ma era una

13 Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 52-53.

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figlia grande, che cosa mi resta ora? Almeno le mie lacrimela terranno legata a me14.

Questo attaccamento, però, non può che risultarenocivo e autodistruttivo, così Pussetti nota che “idolori permangono e ritornano per mantenere vivo estraziante il ricordo di ciò che non può essere dimen-ticato. Più questi sintomi diventano intensi, gravi eminacciosi, consumando le loro energie, più le duedonne vengono spinte ai margini dell’umanità (noncamminano, non parlano, non capiscono, non man-giano, non dormono). Se nessuno intervenisse a sal-varle, il peso dei loro pensieri-sentimenti le trascine-rebbe in un baratro”15.

Anche sentimenti che sicuramente hanno un va-lore positivo per la società, come l’amore, devono es-sere vissuti con equilibrio e seguendo la norma fon-damentale della ‘giusta distanza’. Un’eventuale so-vrabbondanza di tali sensazioni è vista, quindi, contimore e giudicata negativamente, come in questa ri-flessione di Lanternari sull’amore

Un caso illustrato da Nicole Echard, è dato dal criterio colquale gli Hausa dell’Ader [Niger] valutano la ‘passioned’amore’. Se nel nostro linguaggio la dizione ‘folle passione’,‘follia d’amore’ riveste un significato candidamente con-venzionale e al più ironico, gli Hausa vedono, nella‘passione’, una manifestazione di vera follia, contrassegnatada valenza negativa in senso per nulla affatto convenzionale,bensì istituzionale. La ‘passione d’amore’ è da loro social-mente misconosciuta e condannata come base e movente dilegami matrimoniali. Si riconosce in essa una ovvia formacon la quale si esprime una nuova relazione amorosa frauomo e donna; ma si esclude che possa essere assunta comefondamento di un rapporto socialmente valido e cioè di unlegame matrimoniale. Certo, per gli Hausa la ‘folliad’amore’ può coinvolgere uomini e donne in rapporti ero-tici, ma tali rapporti restano privi di valore sociale. Inoltre lastessa ‘follia d’amore’ caratterizza un diverso livello di rap-porti, cioè quello che si instaura nella religione Bori, fra un

14 Pussetti, C., op. cit., pp. 183-184.15 Pussetti, C., op. cit., pp. 142-143.

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genio o spirito sovrannaturale e l’individuo-uomo o donna-su cui lo spirito incombe e che esso attacca. Infatti la cre-denza sita alla base del culto Bori è che lo spirito in certomodo si ‘innamori’ follemente di un individuo, e che perciòvuole conquistarlo, lo perseguita selvaggiamente per farseneun ‘amante’. Lo spirito sovrannaturale identificantesi conun essere del bosco – dunque selvaggio – attacca infatti ilsoggetto del quale si innamora, spinto da desiderio incon-tenibile, da folle passione... Una volta regolata, secondo lanorma del culto, la relazione con lo spirito suo persecutore-amante, quest’ ultimo perderà la sua natura selvaggia. Cosìla persona ‘attaccata’, per innanzi soggetta a crisi psichichesconvolgenti e incontrollabili, troverà nella partecipazioneal culto l’occasione rituale di risolvere in modi controllati,anzi carichi di alto valore simbolico e sociale, la sua attitu-dine a manifestazioni psichiche di carattere sovra-ordinario.Si dirà, allora, che il seguace del culto è ‘cavalcato’ dallo spi-rito che lo possiede. Come si vede, in questa cultura è im-portante il fatto che una violenta esplosione di passioned’amore, sia nei rapporti interindividuali, sia nei rapportifra persone e spiriti sovrannaturali, si configuri come‘pazzia’, e richieda terapie adeguate per superarla... il colpodi fulmine, tipico di una repentina passione amorosa fragiovani, non può essere assunto a motivo e base di un ma-trimonio. L’assunto è socialmente ‘illecito’... Come in nu-merosi contesti di società a livello tecnologico, il matrimo-nio funge da alleanza fra gruppi familiari o lignaggi, e devefondarsi su condizioni di equilibrio intergruppo16.

Presso molte popolazioni, come i Pomak dellaTracia, la gelosia è pur sempre un eccesso rispettoall’immagine della persona ideale, che, invece, deveessere generosa e può nascere anche per motiviesterni, quali la penuria, l’invidia di beni materiali o lamalattia. Insomma l’eccesso si compensa con un altroeccesso, come appunto la povertà, la cattiva salute o lamancanza di felicità. Anche in queste comunità, lapotenza dello sguardo può provocare il malocchiosempre se associata alla privazione della gioia. Infatti a

16 Lanternari, Vittorio, Medicina, Magia, Religione. Dallacultura popolare alle società tradizionali, Libreria InternazionaleEsedra, Roma, 1987, p. 115-116.

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provocare il malocchio vi sono i malati, gli ‘strani’, imolto credenti, le vedove e le persone che non sorri-dono facilmente. Nella montagna pistoiese” ... Rinaintravedeva la causa del malocchio (soprattutto diquello che colpisce i bambini) non solo nell’invidiama anche nel troppo amore. Come è possibile chel’amore porti malocchio? Allora Rina, per farmi capi-re, ha sottolineato la parola ‘troppo’. È la ‘spro-porzione’ del sentimento, è il ‘troppo’ che può gene-rare un malessere nell’altro; anche involontariamenteuna madre può ‘ammaldocchiare’ suo figlio”17.

Allo stesso modo, nella Persia orientale si dice che“l’occhio amoroso è più pericoloso del malocchio.Questa considerazione mette in guardia, per esempio,dai pericoli dell’occhiata adorante di una madre... so-no incline a interpretare tutto questo come un’e-stensione del concetto di malocchio. Chi è fuori dellacomunità invidia, chi è dentro adora. Entrambi gliatteggiamenti sono forme di attenzione indebita”,quindi di eccessi di rapporto e di comunicazione18.Anche l’esuberanza o l’esaltazione sono forme esage-rate di espressione della felicità o della vitalità chevanno tenute a bada così come l’eccesso di lacrime nelcaso di una morte di un neonato farebbe “per un ver-so ‘morire di dolore’ la madre, per l’altro impedirebbeal bambino-spirito di compiere un’altra volta il per-corso tra i due mondi, rendendogli la strada difficileal punto che potrebbe perdere la direzione”19. In que-sto caso, qualunque manifestazione di dolore verràsenz’altro condannata perché valutata come inoppor-tuna. Nella tradizione antropologica europea, peresempio, sussiste la credenza nella sopravvivenzatemporanea del defunto durante un breve periodo

17 Cecconi, A., L’acqua della paura Il sistema di protezionemagico di Piteglio e della montagna pistoiese, B. Mondadori, Mila-no, 2003, p. 68.

18 Spooner, B., “Il malocchio in Medio Oriente”, in Douglas,M. (a cura di), La stregoneria Confessioni e accuse nell’analisi distorici e antropologi, Einaudi, Torino, 1980, p. 382.

19 Pussetti, C., op. cit., p. 156.

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immediatamente dopo il decesso: “il cadavere ... vedeed ode, soffre e partecipa sino alla sepoltura, ma nonpuò parlare... gira per la casa e osserva le reazioni e illutto dei superstiti. Per questi motivi ricerca la pace edisdegna gli eccessi di pianto”20. Spesso, le praticherituali del lutto possono presentare elementi che ap-paiono eccessivi e di difficile comprensione, come ap-punto nel caso della veglia del cadavere, cioè diquell’istituto culturale, “soprattutto popolare, attra-verso il quale familiari, parenti ed amici, secondoforme rituali spesso rigorose, sono tenuti ad assistereil defunto dal momento del decesso al momento deltrasporto dalla casa al cimitero”21. Si pensi alla notatradizione irlandese della veglia funebre che tantecritiche e commenti negativi ha suscitato soprattuttoda parte del clero cattolico a causa degli eccessinell’uso di bevande alcoliche e per i comportamentilicenziosi o i divertimenti esagerati. Tuttavia questieccessi di cibo, di bevande, di vitalità che si traduco-no, per esempio, nei giochi sfrenati o nello stare svegliper tre giorni vegliando il cadavere ininterrottamentesoprattutto durante la notte, cioè nel non chiudere‘occhio’ come il morto, diventano forme simbolicheimportanti perché solo una sovrabbondanza di vitali-tà può aiutare ad allontanare la morte che, al contra-rio, è sovrabbondanza di inattività. Come sottolineaSorlin, “ci si diverte e si ride parecchio, di quelle risateche assordino colui che veglia, vicino alla morte sorda.Di questa morte ci si burla, la si prende in giro, le sifanno subire mille tormenti, ci si fa beffe ... Questigiochi, che hanno la loro ragion d’essere in un conte-sto rituale, talvolta termineranno molto male, condu-cendo al punto ultimo di saturazione, in un ambiente

20 Di Nola, A.M., La nera signora Antropologia della morte,Newton & Compton, Roma, 1995, p. 202.

21 Di Nola, A.M., La morte trionfata Antropologia del lutto,Newton & Compton, Roma, 1995, pp. 237-238.

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di follia organizzata che deve regnare nel corso dellaveglia”22.

L’elaborazione normale del lutto, però, subiscedelle forti variazioni quando ci si trova di fronte aduna morte violenta, non ‘naturale’, cioè di fronte aduna malamorte. Nelle società etnologiche europee,per esempio, muore di malamorte colui o colei checompie atti contrari alla coesione sociale o che si pone,sempre a causa dei suoi atti, al di fuori della società. Inquesto caso la sua morte provocherà paura e smarri-mento23. Anche in molti paesi asiatici, la malamorte èil risultato di una violenza, come l’uccisione, il suici-dio o una malattia sospetta24. Questa interruzionebrutale di un’esistenza prima della sua scadenza natu-rale fa sì che si crei una rimanenza di vita non vissutala quale induce lo spirito di quell’essere all’erranza.Nelle società in cui è presente il culto degli antenati,questo essere è posto fuori del sistema genealogicoperché non può diventare un antenato e non può es-sere oggetto delle pratiche ritualizzate. Queste animesono dunque bloccate, non possono avere pace o re-incarnarsi, e neppure scomparire. Esse sono come“sospese”. Inoltre, non avendo diritto alla nascita inun nuovo stato, esse possono appropriarsi provviso-riamente del corpo di un vivo per ‘agire’ in lui. Ora,colui che muore in modo violento, dunque ‘ecces-sivo’, è proprio per questo un ‘cattivo nato’, un ‘natomale’ perché ha ereditato sicuramente un karma ne-gativo che porta avanti oltre la morte. I buoni morti,invece, sono gli antenati, cioè coloro che hanno accet-tato serenamente la vita sociale con le sue regole e so-no rimasti legati alla parentela, quindi sono i ‘mortisenza viso’.

22 Sorlin, E., Cris de vie cris de mort Les Fées du destin dans lespays celtiques, Academia Scientiarum Finnica, Helsinki, 1991, p.141.

23 Cfr. Di Nola, A.M., La morte trionfata, cit., pp. 237-238.24 Cfr. Baptandier, B., “Introduction De la malemort en quel-

ques pays d’Asie”, in Baptandier, B. (sous la dir.), De la malemorten quelques pays d’Asie, KARTHALA, Paris, 2001, p. 10 sgg.

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Qualunque società, però, ha bisogno di lasciare li-beri gli individui di dare sfogo ad emozioni forti e cosìprevede periodicamente dei periodi in cui certe esi-genze possano essere espresse senza prevedere puni-zioni o ritorsioni. Gli unici eccessi previsti, obbliga-tori, ma anche strettamente codificati e ritualizzati,sono inseriti nei tempi considerati ‘straordinari’, cioèfestivi. I più noti sono quelli che riguardano il Carne-vale, ciclo dell’anno connesso con le attività agricole econ le stagioni denominato propriamente dagli etno-logi come ciclo della fine dell’inverno o di Carnevaleappunto. Come sostengono gli storici, il carnevale,periodo in cui si esaltano il corpo, il riso e la gozzo-viglia, è un’innovazione della città medievale e nascecirca nel XII secolo in contrapposizione alla quaresi-ma. Allo stesso modo, in Europa nascono, sempre inambiente urbano, a partire dal XIII secolo, le feste deifolli con le relative sfilate del giorno di Capodanno25.Ora, una delle caratteristiche degli eccessi di rilevanzasociale è quella di essere manifestazione obbligatoria,alla quale nessuno si può sottrarre.

Sull’obbligatorietà della risata e dello scherzo, esulla frenesia gioiosa del carnevale, Toschi scrive pa-gine acute e in questo modo riflette: “anche se questafrenesia gioiosa può avere la funzione psicologica, eti-ca e sociale di un momentaneo allentamento nei vin-coli di una rigida morale, e di sfogo a un repressooscuro fondo di istinti e di passioni, il suo caratterefondamentale è invece puramente e sacralmentepropiziatorio. I riti, nei quali viene a configurarsi e adatteggiarsi questo principio magico, sono dunqueispirati al tripudio... Con un linguaggio un po’ para-dossale si potrebbe dire così: mentre nei teatri di oggiè la commedia che provoca il riso degli spettatori, quiinvece è il riso degli spettatori che produce la com-media. E, prolungando il paradosso, si può aggiungereche se la commedia non facesse ridere ... andrebbero

25 Schmitt, J.-C., Medioevo “superstizioso”, Laterza, Bari, 2004,p. 143 sgg.

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male i raccolti, ci sarebbe il pericolo di una cattivaannata. Così, lo scherzo, la satira, la burla sonod’obbligo: e tanto più gli scherzi sono arditi e sguaiati,le satire pungenti, e le burle atroci, tanto più riesconoa far ridere la collettività e tanto più hanno valore.Perciò “per Carnevale ogni scherzo vale”; ognuno hail diritto di fare lo scherzo e il dovere di subirlo”26.

Altri periodi in cui si può constatare, per esempio,un’eccezionale sfrenatezza sessuale, anche se ritualiz-zata, sono quelli in rapporto con i riti di passaggio,come nel caso di molte popolazioni australiane chechiudono i riti di pubertà femminile con cerimonialidi carattere sessuale27.

In uno studio noto, Evans-Pritchard riflette sulleespressioni collettive e quindi rituali di ‘oscenità’ inAfrica, cioè sulle espressioni di carattere erotico chenella vita quotidiana non vengono ammesse, anzi co-stituiscono un vero e proprio tabu, ma che hannomolta importanza, anzi sono persino obbligatorie inalcune particolari situazioni. Secondo le analisi diquesto antropologo, le cerimonie in cui l’oscenità èammessa sono di due gruppi: 1) cerimonie di inizia-zione; cerimonie funebri; feste in onore delle animedegli antenati di rilievo; cerimonie per ottenere lapioggia; cerimonia per la protezione dei raccolti dagliinsetti nocivi; furto fatto al fratello della madre; so-cietà segrete; cerimonie relative ai gemelli; matrimo-nio e malattie dei bambini; cerimonie per proteggere iraccolti; danza della semina. Il secondo gruppo èquello che riguarda i lavori difficili e di lunga durataeseguiti insieme, come quelli relativi alla costruzionedi una nuova abitazione, alla semina, alla fonditura,alla pesca, al trasporto dei tetti delle capanne, al fal-ciare e trasportare l’erba e così via. Come rilevaEvans-Pritchard: “tutte queste cerimonie costituisco-

26 Toschi, P., Le origini del teatro italiano, Boringhieri, Tori-no, 1976, pp. 9-10.

27 A questo proposito, si può vedere, per citare un solo esem-pio, il libro di Lanternari V., La grande Festa, Dedalo, Bari, 1976,p. 512.

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no altrettante occasioni di stress emotivo, e sono gra-vide di pericoli sia per l’individuo che le sperimentache per la società in genere. Tutte le emozioni che sisono accumulate, l’ira, la paura, il dispiacere, il dolore,raggiungono un punto tale d’intensità che un’attivitàsi rende in qualche modo necessaria; d’altra parte, setale attività non fosse imbrigliata entro canali inof-fensivi, finirebbe per dimostrarsi fatale all’individuo edistruttiva per la società. È appunto in tali occasioniche la società ammette o addirittura prescrive azioniche ordinariamente proibirebbe e punirebbe...l’oscenità fa parte di un gran numero di usanze, chehanno tutte la stessa funzione sociale, quella di cana-lizzare in forme di dispendio inoffensivo le tensioniemotive altamente pericolose per l’individuo e di-struttive per la società”28. Nello stesso tempo,l’oscenità collettiva e obbligatoria dà forte rilievo alvalore sociale dell’attività ad essa connessa. Infatti lasospensione da parte della società dei normali divietiviene attuata in due occasioni importanti nella vita diuna comunità, quali le cerimonie religiose e le attivitàeconomiche eseguite in comune. Anche un saggio diDi Nola su un rituale della tradizione meridionale,quello dell’incanata, che prevede un comportamentopiuttosto licenzioso e aggressivo collegato soprattuttoalle due attività rurali della vendemmia e della mieti-tura, mette in evidenza gli stessi elementi simbolicistudiati da Evans-Pritchard29.

Insomma, come si è potuto notare, gli eccessi in-dividuali vengono considerati sempre in modo nega-tivo, mentre quelli socialmente controllati hannosempre rilevanza e forte utilità sociale.

28 Evans-Pritchard, E.E., La donna nelle società primitive e altrisaggi di antropologia sociale, Laterza, Bari, 1973, pp. 92-93.

29 Cfr. Di Nola, A.M., L’arco di rovo Impotenza e aggressivitàin due rituali del sud, Boringhieri, Torino, 1983.

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La trasformazione dei sentimentiin comportamenti e istituzioni

La parola è il mezzo verbale con il quale si entra inrelazione con le persone o le cose, perciò essa è sempresegno di umanità. L’assenza della parola, quindi, èuna caratteristica di colui che non è inserito a pienotitolo nella comunità, come il demente, il muto o an-che il neonato che, anonimo, non sa che vagire. Pertale motivo, dare e ricevere un nome significa poterparlare di un essere semplicemente denominandolo equindi togliendolo dal pericoloso silenzio relativo allasua persona a cui lo avrebbe costretto l’anonimatoiniziale. “Creare significa porre dei limiti ad un pen-siero, cioè ‘dargli un nome’”1. In mancanza del nome,infatti, la comunicazione di qualunque cosa sarebbeimpensabile e quindi socialmente inesistente. Comedicono gli orientali, nel momento in cui vi è una for-ma è pronto il nome: per questo motivo nell’Egittoclassico esso viene considerato il più sottile e il piùimmateriale tra i principi che compongono l’in-dividuo ed anche il più segreto e quello che determinal’esistenza dell’individuo. Esso è il modo in cui noipossiamo rappresentarci in maniera concreta unaforma visibile e quindi la pronuncia del nome costi-tuiva già nei più importanti testi liturgici egizi l’ele-mento fondamentale di qualunque operazione chedovesse mettere in moto ‘l’Invisibile’.

Dare un nome, così, significa anche determinare ildestino di una persona, come racconta questa donnabijagó

quando ero bambina ... una sera, al crepuscolo, quando miasorella era piccola e la mamma l’allattava ancora, siamo an-

1 Servier, J., “Histoire de la pensée symbolique”, in PoirierJean (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 2 Modes et Modèles,Gallimard, Paris, 1991, p. 1108.

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dati al pozzo ... mi ricordo che era quasi tramontato il sole;all’improvviso comparve di fronte a mia mamma un’ombra,scivolata giù dal grande albero come un pitone. Ricordo unvolto trasparente, dai tratti delicati, ma allora non capii,perché non sapevo nulla. L’ombra le girava intorno, alzandoun gran vento e impedendole il cammino. Mia mamma miprese la mano e mi mise dietro di lei per proteggermi con ilsuo corpo. Io non capivo bene cosa stava succedendo, masapevo che lei era spaventata. Quella cosa continua a volareintorno a mia mamma, due, tre, quattro volte; sembravanon vedere nemmeno me e mia sorella. Mia madre all’inizioera come paralizzata, ma poi si fece forza e riuscì a portarciin salvo al villaggio, dove l’ombra non poteva entrare. Daquel momento però mia madre divenne sempre più debolee malata: non riusciva più a camminare, non poteva uscire,stava solamente sdraiata, fino al giorno in cui è morta. Èmorta e io non ho capito cosa le era successo, nemmeno mene sono accorta. Dormivo contro la sua schiena e pensavodormisse... mi sono svegliata e le ho parlato, lei non rispon-deva, credevo dormisse e sono rimasta in silenzio. Dopoalcuni minuti è entrata una zia di mia madre, che veniva asalutare e a vedere come stava. Ricordo ancora le sue grida ei lamenti delle donne: ... povera, povera bambina! Provopena per te ..., tua madre è morta. Io ascoltavo, ma non ca-pivo l’importanza... Koká, ‘poverina’ quello è rimasto il mionome ed è anche il mio castigo. Da allora tutto ciò che mi ècapitato è legato al mio nome e la gente mi vede per strada edice ‘Koká’ chiamando il mio nome. Stai attenta a comechiamerai tuo figlio, perché scegliendone il nome decideraiil suo destino2.

Bisogna, infatti, tenere sempre presente che nonesiste propriamente un destino individuale, giacchéesso è il frutto di molti elementi di ordine sociale,quali l’acquisizione di un vincolo di parentela, di unarelazione di alleanza, il raggiungimento di una con-dizione sociale o l’appartenenza ad una classe d’età ecosì via. Tutto nell’esistenza ha un significato: “è inquanto nipote, figlio, membro della stessa classe d’età,marito, padre o zio, che un individuo (secondol’opinione del gruppo o che si forma egli stesso) può

2 Pussetti, C., op. cit., pp. 112-113.

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essere colpito nel fisico, nell’equilibrio psichico onella vita; al contrario, il progredire dell’individuonella vita, la sua resistenza alle prove, il benessere o lasventura dei congiunti sono ogni giorno di più la te-stimonianza di una forza che non si potrebbe qualifi-care rigorosamente se non dopo molto tempo, dopoaver prodotto i suoi effetti. Nessun vincolo sociale sitesse impunemente. Nessuna malattia si affronta in-nocentemente. La longevità, come la sventura e lamorte, non è mai priva di significato”3. Del resto, l’ioesiste solo quando riconosce l’altro, sia quello esternoa sé sia quello interno poiché pensare alla persona si-gnifica sempre pensarla in relazione con un altro.

Così, se noi non possiamo scegliere di essere soli, aprezzo, altrimenti, di rinunce essenziali, ma solo diessere ‘noi’ – quindi una comunità – il nostro destinoè segnato dalla società nella quale siamo nati el’iniziazione definisce il nostro destino sociale e la no-stra trasformazione da esseri viventi in esseri umani.Pertanto il rifiuto dell’iniziazione da parte di uncomponente della comunità è sempre indice di alte-razione dell’ordine e dell’equilibrio nelle relazioni so-ciali. Così tra i Bijagó, la storia di Abas è molto indi-cativa: il suo atteggiamento negativo nei confrontidell’iniziazione si collega a segni di squilibrio mentalesempre più gravi così che nel villaggio si sostiene che:“Abas va senza destino. La gente dice che non ha fattole cerimonie (non sta bene ...), egli è passato in unluogo sacro, ma non si è fermato”... dopo essere fuggi-to in foresta ... verrà trovato morto dopo tre giorni”4.

Allora, in quale modo le parole possono agire e fa-re agire persone o gruppi o, come sosteneva Marx,come le idee, impadronendosi delle masse, possonodiventare o meno delle forze materiali? Uno dei modiè sicuramente quello della creazione di un’istituzionecorrispondente tanto è vero che una parola che noncrea una sua istituzione è destinata a scomparire,

3 Augé, M., op. cit., p. 666.4 Pussetti, C., op. cit., pp. 91-92.

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spazzata via da altre nel corso del tempo. Debray cital’esempio del simbolo monetario. “Esso non si accre-dita da solo. Un biglietto non ha valore di per sé.Anch’esso è come una parola, leggera, soffice, maneg-gevole. Materialmente adatto a passare di mano inmano, come l’altra di bocca in bocca, per circolareveramente ha bisogno di essere garantito da un puntofisso, un apparato di potere pesante, una potenza or-ganizzata, suscettibile all’occorrenza di punire (sinoalla reclusione a vita) i falsificatori, ossia, al di là diuna banca centrale, di uno Stato o un gruppo di Sta-ti... Curiosamente, qui, il leggero fa sparire il pesante.La parola si presenta a noi senza la sua infrastruttura... Questa è la regola: il sostegno è ciò che si vede me-no e che conta di più ... la parola, mobile, ci nascondel’istituzione, motrice”5.

Le emozioni, come si è già potuto osservare, sonocomponenti attive della struttura sociale, vere e pro-prie strategie che servono a favorire l’armonia socialeo a rafforzare e indebolire differenze di status o di ses-so. Ogni società ha i ‘suoi’ sentimenti, nel senso cheogni comunità elabora le emozioni che vanno consi-derate socialmente appropriate e quelle ritenute peri-colose. Così, a partire dal concetto che si ha del pro-prio essere nel mondo, cioè del modo migliore diporsi sulla Terra, ogni gruppo elabora la propria ideadi dignità e onore, e crea istituzioni che le controlli-no, come il pettegolezzo, e figure appropriate attra-verso le quali tenere a bada i sistemi emozionali, qualiil vicino, lo psicologo, la polizia, il tribunale ecc. Sap-piamo, infatti, che il giudizio altrui opera come pre-venzione molto efficace contro i tentativi di sfuggirealle norme del gruppo.

I sentimenti sono manifestazioni di partecipazio-ne alla vita del gruppo, oltre che strumento di coesio-ne e quindi l’assenza di emozioni viene vissuta dallacomunità come un’offesa. La società esercita in ogni

5 Debray R., “Le mot et son institution”, Ethnologie française,XXIX, 4, 1999, pp. 579-580.

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momento una forte pressione perché i sentimentidegli individui siano sempre in armonia con la situa-zione e quindi provare indifferenza denota disinteres-se e rifiuto del gruppo6. Già Durkheim aveva spiegatocon parole molto efficaci che “una famiglia che tollerache uno dei suoi possa morire senza essere pianto te-stimonia di mancanza di unità morale e di coesione:essa abdica; rinuncia ad essere. Da parte sua,l’individuo, quando è fortemente attaccato alla socie-tà di cui fa parte, si sente moralmente tenuto a parte-cipare alle sue tristezze e gioie; disinteressarsene si-gnificherebbe rompere i legami che lo uniscono allacollettività”7.

Infatti il lutto, come osserva acutamente Dur-kheim, non è semplicemente un avvenimento che ri-guarda la sensibilità strettamente individuale, ma è“un dovere imposto dal gruppo. Ci si lamenta, nonsemplicemente perché si è tristi, ma perché ci si develamentare. Si tratta di un’attitudine rituale che si èobbligati ad adottare per rispetto all’uso, ma che è inlarga misura indipendente dallo stato affettivo degliindividui”8. La stessa estrema convenzionalità o ob-bligatorietà dell’espressione del lamento potrebbesembrare semplice recita mentre è semplicementel’espressione di adesione al gruppo e anche una stra-tegia molto efficace di contenimento di emozionimolto intense.

Dunque, se l’esibizione dei sentimenti è ritenutanecessaria, l’assenza di emozioni, però, è consideratacome moralmente inaccettabile quando l’emozionediventa una delle forme in cui la società esprime lapropria ‘umanità’. Solo in questo caso, essa vienesanzionata giacché, come nota Paperman, “se un attoche ci pare coraggioso, lascia un altro indifferente, ciò

6 Cfr. Paperman, P., “L’absence d’émotion comme offense”, inPaperman P. et Ruwen O. (sous la dir.), La couleur des penséesSentiments, émotions, intentions, EHESS, Paris, 1995, p. 177 sgg.

7 Durkheim, É., Les formes élémentaires de la vie religieuse,Alcan, Paris, 1912, p. 571.

8 Le Breton, D., op. cit., p. 105.

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significa che egli non condivide le ragioni che indu-cono a pensarlo come coraggioso e quindi c’è un di-saccordo, una divergenza morale. Riconoscere unadivergenza morale, però, non significa riconoscereuna incapacità morale che poi va sanzionata”9. Nonprovare emozioni, per esempio, per un omicidio ese-guito, un atto di stupro o di violenza verso un handi-cappato denota forte distacco dai principi fondamen-tali della nostra società e quindi la riprovazione non èpiù sufficiente. Pertanto, la sanzione deve essere con-siderata come una cristallizzazione di un’emozione ele sanzioni hanno sempre carattere emozionale siaquando sono organizzate socialmente attraverso corpidefiniti e costituiti sia quando sono regolate da cia-scun individuo o da tutti in modo indifferenziato.Dunque, la vera ed essenziale funzione delle reazionipassionali, come sostiene Durkheim, è quella di man-tenere intatta la coesione sociale.

Il sentimento fondamentale con il quale noiesprimiamo naturalmente il legame sociale è l’affetto,forma emozionale di attaccamento al gruppo el’affetto di cui parliamo è quello che noi manifestia-mo per tutti coloro che appartengono al nostro grup-po e in particolare per coloro che fanno parte dellanostra famiglia.

Si pensi, per esempio, ai sistemi di parentela dellesocietà del Mar Mediterraneo e in particolare agli abi-tanti dell’isola greca di Karphatos nell’Egeo tra i qualivige un sistema di parentela basato sui primogeniti e icadetti e su linee di discendenza maschili e femminilinettamente separate. Il primo nato, infatti, eredital’intero patrimonio paterno e la prima nata quellomaterno cosicché tutti gli altri figli maschi in genereerano costretti all’emigrazione mentre le altre donnespesso rimanevano nubili e continuavano a vivere infamiglia come lavoratrici agricole o come donne dicasa per la coppia dei primogeniti. In questi casi, perciò che riguarda l’investimento affettivo, esso natu-

9 Paperman, P. op. cit., p. 190.

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ralmente privilegiava in modo assoluto la famiglia deiprimogeniti, quindi la famiglia di appartenenza. Delresto, come rileva Vernier, “lo studio degli scambi af-fettivi deve sempre essere articolato su quello degliscambi economici e simbolici e su quello dei rapportidi forza intra-familiari”10. In questi gruppi, lo stessonome di battesimo ha già un suo valore nell’elabora-zione di un sentimento di affinità tanto che l’autoreparla quasi di ‘feticismo’ del nome. Nelle relazioniamorose, per esempio, i giovani ci tengono a sottoli-neare alle loro amate di avere lo stesso nome del padreo della madre della ragazza. O ancora un adolescenteracconta che la sua vicina lo adora semplicementeperché ha il nome di un figlio marinaio. In queste so-cietà, dunque, si tende ad avere una naturale simpatiaper i parenti che hanno il nome di un altro parenteparticolarmente amato.

Insomma, qualunque società pretende moltissimodall’individuo, impone sacrifici veramente notevoli,però, la grande forza della comunità, della parentela,del vicinato e comunque dei rapporti sociali stretti èquella di creare un sistema di protezione estremamen-te efficace e concreto, e non solo nei momenti di peri-colo. Infatti, la solitudine è la minaccia peggiore perchiunque poiché essa è sentita come molto vicina allamorte, anzi come sottolinea Pussetti, essa è “la peg-giore e più miserabile condizione possibile ... la mortedei propri familiari ha come tragico esito proprio laperdita di ogni supporto economico e affettivo: spe-cialmente per le persone anziane, ... questa situazionesi traduce in un totale isolamento sociale”11.

Non a caso, le sofferenze più profonde sono quelleche si collegano a rotture sociali, come appunto so-stiene sempre Pussetti: “Il dolore che lascia il segno,che “si incolla al corpo”, è quello causato da perditeche spezzano i legami sociali rilevanti”12. In alcuni

10 Vernier, B., La gènese sociale des sentiments Aînés et cadetsdans l’île grecque de Karpathos, EHESS, Paris, 1991, p. 16.

11 Pussetti, C., op. cit., p. 209.12 Pussetti, C., op. cit., p. 161.

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canti bijagó viene rappresentata questa condizionecon parole commoventi: “io vado da solo a casa, chimi riceverà? / Guardate come sono sfortunato;/ giànon ho più nessuno e/ ogni anno piango qualcuno./ Itamburi sacri del villaggio/ guardate cosa hannomandato per me:/ i tamburi sacri del villaggio mihanno fatto rimanere nella veranda da solo;/ nessunoparla più con me nella veranda./ I tamburi sacri, pri-mo segnale di un lutto al villaggio, vengono utilizzaticome metafore della morte stessa ... la veranda, luogoprivilegiato di riunione della famiglia, di incontri, vi-site e chiacchiere, è ora silenziosa, muta”13.

A questo proposito, basti pensare all’importanzapresso numerose culture dei rituali che riguardano laveglia funebre e di tutti i comportamenti del vicinatoe della famiglia durante il periodo del lutto in quantoessi sono un esempio molto interessante di come lacomunità possa sostenere in maniera profondal’individuo e la famiglia nei momenti più difficili.

Inoltre il lavoro della cultura nasce dal tentativodi trasformare tutto ciò che è doloroso o pericoloso in‘discorso’ possibile. Come precisa Pussetti riguardo allamento funebre, esso “non è soltanto indice di unsentimento di perdita, ma suggerisce un desiderio disocialità, di unione, di supporto sociale all’individuoferito”14. I lamenti, i canti, le danze, le poesie e qua-lunque forma di espressione artistica o letteraria di-ventano, così, una maniera di comunicare e parteci-pare emozioni comuni. In questo senso, si può affer-mare che i sentimenti sono delle pratiche discorsiveattraverso le quali è possibile esprimere ciò che i co-dici sociali altrimenti non autorizzerebbero.

E sempre per questi motivi, in molte società colo-ro che sono stati colpiti da un grave lutto evitano diparlare in pubblico di questo argomento. Come os-serva molto bene Pussetti, “di fronte a perdite perso-nali, gli individui in genere esprimono ostilità, rabbia,

13 Pussetti, C., op. cit., p. 209.14 Pussetti, C., op. cit., p. 171.

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sospetto, piuttosto che dolore, oppure semplicementenon parlano di ciò che provano, rispondendo allamorte come a un affronto o a un attacco personalepiuttosto che come a una tragedia. Al contempo, ildolore è considerato il pensiero-sentimento più rap-presentativo, al punto che l’espressione che general-mente viene utilizzata per indicare quello che noi de-finiremmo ‘coinvolgimento emotivo’ è ... ‘soffrire nelcuore’”15.

Certo, il dolore rappresenta in tutte le società ilsentimento che più è stato oggetto di riflessioni e for-se quello che più ha determinato stili di vita e com-portamenti sociali.

Pensiamo, per esempio, di trovarci di fronte adadulti che di fronte alla sofferenza di un bambino o diun parente adulto reagiscano con serenità e compo-stezza, con il silenzio o quasi con indifferenza, e co-munque senza il senso di dramma che circonda ildolore nelle nostre società. Cosa penseremmo di tut-to ciò e come valuteremmo la situazione? E, ancoraoltre, cosa in realtà noi stiamo ‘vedendo’ di questepersone? Nelle società occidentali, gli individui han-no una paura terribile della sofferenza e cercano intutti i modi di eliminare questo aspetto dalla vitaquotidiana. Non così avviene in altre società nellequali, invece, il dolore va sperimentato e vissuto in-tensamente poiché, come sostiene un africano, chinon conosce la sofferenza è un uomo a metà:“Attraverso il dolore, i ragazzi della montagna impa-rano a dare senso alla loro vita. Può un uomo, diconogli anziani, vivere senza affrontare in modo coscientee consapevole il dolore fisico o morale? Nella nostraterra chi non ha conosciuto il dolore è un uomo in-completo perché vive con il senso di colpa el’umiliazione di essere diventato vecchio senza maiessere stato adulto”16. Nelle filosofie orientali, questaposizione riguardante il dolore viene teorizzata in

15 Pussetti, C., op. cit., p. 137.16 Kpan Teagbeu S., Il condottiero, EMI, Bologna, 2003,

p. 115.

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modo forte quando si sostiene che la via della felicitànon può essere raggiunta finché non si entra in con-tatto con la sofferenza, e non se ne comprende la na-tura. Il dolore, sia fisico sia morale, è una realtàdell’esistenza di tutti gli esseri che vivononell’universo ed è errato negarlo. Da questa constata-zione, come sappiamo, ha avuto origine la meditazio-ne del Buddha e l’analisi delle quattro Nobili Verità,fondamento di tutto l’insegnamento buddhista: 1) lavita è sofferenza; 2) la comprensione delle radici ocause della sofferenza; 3) la possibilità di liberazionedalla sofferenza; 4) i mezzi e i modi per raggiungere laliberazione dalla sofferenza. Il lavorio dello spirito, lostudio, la conoscenza e la meditazione servono ap-punto a trasformare la sofferenza in felicità poichédalla sofferenza si può e si deve imparare se si vuolemigliorare la propria vita e non si vuole rimanerneimprigionati quando la si vede solo come elementonegativo. Si tenga presente che il dolore è inevitabile,in quanto sensazione corporea, mentre la sofferenza èuno stato della mente: dunque il dolore e la sofferen-za sono due cose diverse e possono essere trattate edavere ciascuno la propria risposta, ma tutte e due co-stituiscono delle occasioni di liberazione. La maggiorparte degli esseri umani spende molte delle sue ener-gie a inventare dei mezzi per aumentare il piacere ediminuire il dolore mentre le teorie orientali e le con-cezioni di vita delle popolazioni etnologiche ci sugge-riscono di investire una parte del nostro tempo e dellenostre energie a fare fronte ai dispiaceri poiché uncerto grado di dolore è inevitabile e quindi l’unicomodo di trattare la sofferenza è quello di essere sem-pre pronti ad affrontarne le conseguenze. Se osser-viamo in profondità, vedremmo che la felicità nonpuò esistere se non si accompagna a quella che chia-miamo sofferenza, proprio come non ci sono rifiuti escarti organici che non possano trasformarsi in fiorené fiori che non si trasformino in rifiuti. Solo se si ac-cetta e si comprende la natura della sofferenza, si puòcoltivare la comprensione e la felicità, mentre colui

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che non riflette e che non cerca di conoscere in pro-fondità la vita dell’uomo non può imparare e rimarràintrappolato nel dolore.

Il buddhismo ci insegna, come del resto tutte lereligioni, che sempre la sofferenza può essere trasfor-mata in felicità, e anche la morte può diventare occa-sione generatrice di speranza in un mondo migliore,come in questa magnifica riflessione di ManfrediBorsellino: “Sono orgoglioso e onorato di aver avutoun padre simile e spero che altri figli possano dire lastessa cosa dei loro padri”. Il ricordo in questo casodiventa fonte energetica continua, carica spiritualepositiva, oasi fresca e ricca di acqua nei momenti discoraggiamento, di paura, di sconforto. Ecco come lamorte può essere trasformata in elemento positivo,quindi in speranza, memoria, ricordo, rispetto per glianziani, e di conseguenza in pratiche relative ai mortio culto degli antenati, quindi sentimenti collegati adistituzioni precise capaci di legare in modo forte edefficace un gruppo.

I sentimenti di gioia e di vitalità, invece, sonoespressi soprattutto nella creazione dei tempi festivi,non ordinari e quindi nell’invenzione di festività operiodi di divertimento, anch’esse strutturate moltorigidamente e secondo sequenze rituali e comporta-menti precisi e già stabiliti. Per fare solo un esempio,l’opera eccellente di Toschi sulle origini del teatroitaliano offre a questo proposito un’analisi chiarissi-ma e molto lucida del modo in cui in Europa si sonolentamente organizzate le grandi feste che noi oramairiteniamo tradizionali, quali il Capodanno, il Carne-vale, la Pasqua e ne mette in rilievo i significati pro-fondi di eliminazione del male, rinnovamento e pro-piziazione. La più importante fra queste feste è stataper noi il Carnevale: in essa “centro propulsore deltripudio, che dà anima e carattere a tutta la festa, è ilprincipio magico secondo il quale l’intensa manife-stazione della gioia da parte di tutta la comunità, pro-voca e assicura il prospero svolgersi degli avvenimenti,

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l’abbondanza dei prodotti, il maggiore benessere peril nuovo anno che sorge”17.

Ed ecco come alcune emozioni, elaborate e con-trollate socialmente secondo le scelte culturali delgruppo, diventano comportamenti e istituzioni so-ciali.

La paura

C’era una volta Corbezzi un paese arroccato sopra unamontagna. Qui vivevano un fratello e una sorella. Si chia-mavano Giovannino e Ninetta, erano orfani e abitavano dasoli in una grande casa, appena fuori dal paese. D’inverno aCorbezzi faceva molto freddo e la strada che raggiungeva ilpaese era spesso interrotta dalla neve, si restava isolati ancheper giorni interi. Giovannino faceva il falegname e ogni sera,appena ritornava a casa dal lavoro, scendeva in cantina aprendere la legna per accendere il fuoco. Una sera che eraparticolarmente stanco chiese alla sorella di andare in can-tina a prendere la legna, ma non aveva fatto ancora tre sca-lini che la ragazza gridò “ho pauraaaa...” Paura? Che cosadiavolo significa? Dato che non aveva mai avuto paura dinulla, Giovannino non conosceva il significato di questaparola. La stessa cosa accadde la sera dopo e stavolta Gio-vannino disse alla sorella “se lo dirai un’altra volta, giuro cheme ne vado”. La sera dopo chiese alla sorella di andare incantina, e la ragazza dopo due scalini non riuscì a trattenersie gridò ancora “ho pauraaaa ...”. “Hai paura? Bene, domanipartirò”. E infatti il mattino dopo si svegliò, preparò il suofagotto, se lo mise in spalla e se ne andò per la sua strada:voleva scoprire cosa fosse la paura. Giovannino cominciò agirare per il mondo in cerca di questa cosa chiamata paura.In un paese della Calabria scoprì che alla gente veniva“l’assustu”, in Sicilia incontrò chi aveva lo “spantu”, arrivòpersino sulle Ande dove c’era chi provava il “susto”. Riempìil suo sacco di tanti racconti, di modi diversi di chiamare lapaura, ma restavano soltanto parole parlate, parole guscioche non riusciva a succhiare. Cos’è questa cosa che gli uo-mini chiamano paura? Dove si trova? Viaggiò in lungo e inlargo ma la paura non la riusciva a trovare. Una mattina

17 Toschi, P., op. cit., p. 9.

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d’aprile quasi senza accorgersene si ritrovò a Corbezzi, da-vanti alla porta della sua casa. Non sapeva quanto tempo erastato via, tutto sembrava rimasto uguale, ogni oggetto era alsolito posto. Cominciò a guardarsi intorno e sarebbe statosenz’altro travolto da una folata gelida di ricordi se non fos-se arrivata prima una stanchezza lunga come tutto il viaggioche aveva fatto. Non fece in tempo ad appoggiare a terra lozaino pieno di paure che ci si addormentò sopra. La casa eravuota, Ninetta dopo la partenza del fratello era andata adabitare da una zia, solo un merlo, che durante l’inverno siera rifugiato nella cantina, gli si avvicinò incuriosito e glipicchiettò la spalla. Giovannino si svegliò di soprassalto, checosa era stato? Si guardò intorno e non vide niente. Si sdraiòdi nuovo e chiuse gli occhi ma mentre cercava di riaddor-mentarsi si accorse che una strana sensazione gli era entratanel corpo. A poco a poco l’immobilità e il silenzio della casacominciarono a diventare insopportabili. Il suo cuore decisedi battere più forte, la sua faccia di impallidire, e la sua pan-cia di stringersi. I suoi sensi, i suoi occhi, le sue orecchiesembravano abbandonarlo e mescolarsi faticosamente allasua immaginazione, giocando ad amplificare rumori imper-cettibili, e prendendosi gioco di lui nel materializzare im-provvise apparizioni. Cosa gli stava succedendo? Si alzò inpiedi per guardarla, non sapeva ancora se era “lei” perché erala prima volta, ma forse senza più cercarla aveva incontratola paura18.

La paura è un’emozione essenziale nello sviluppodi una personalità equilibrata: essa è necessaria inquanto aiuta a muoversi nel mondo senza subiretraumi anche gravi o irreversibili ed è una delle formein cui si esprime il nostro istinto di sopravvivenza.Come sostengono gli studiosi, senza la paura nessunaspecie potrebbe sopravvivere poiché essa rappresentaun riflesso necessario per sfuggire all’annientamento.Questa emozione, però, presenta anche un aspettopericoloso poiché, non controllata adeguatamente,potrebbe prendere il sopravvento ed impedirci qua-lunque azione o cambiamento, come nel caso dellamorte per paura o della paralisi di fronte ad essa.

18 Cecconi, A., op. cit., pp. 72-73.

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Secondo Delumeau, la paura è “un’emozione-choc, spesso preceduta da sorpresa, provocata dallapresa di coscienza di un pericolo presente ed immi-nente che avvertiamo come atto a minacciare la no-stra incolumità”19 e quindi è un’abitudine, cultural-mente creata, “posseduta da un gruppo umano di te-mere questa o quella minaccia (reale o immagina-ria)”20.

Allora siamo andati alla spiaggia dove c’è quell’uomo anzia-no che conosce Serafinte [spirito in forma di serpente] e gliabbiamo portato due galline e del vino di palma, perché cela facesse incontrare. Il vecchio ha accettato i doni e poi ciha detto che se fossimo riusciti a guardare senza avere paura,rimanendo fermi con sguardo sicuro, Serafinte non ciavrebbe fatto del male: solo in quel caso ci avrebbe ascolta-to. Se ci fossimo spaventati, invece, correndo via con gli oc-chi chiusi, si sarebbe vendicata e ci avrebbe fatto morire.Chi ha paura, ci ha detto il vecchio, non c’è niente che lopossa salvare: Serafinte non sopporta i vigliacchi e li ucci-de21.

La paura è stata considerata in genere la più natu-rale fra le emozioni ed è stata contrapposta spesso allacolpa o alla vergogna, due emozioni considerate inve-ce come sicuramente culturali. Questa concezionenasce sicuramente dall’idea che essa derivi sostan-zialmente dall’istinto di sopravvivenza. Come sostie-ne, però, Pussetti “questa prospettiva riflette l’ideache percezione e valutazione del pericolo, dalle qualideriva l’emozione della paura, siano esclusivamentedeterminate dall’istinto di sopravvivenza. É stato inseguito sostenuto che la cultura non ha meno rilevan-za per la paura di quanto non l’abbia per la colpa:questa affermazione è supportata da diverse ricerchesul campo, che hanno messo in luce come le societàpossano variare nella percezione e definizione di ri-

19 Delumeau, J., La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII) Lacittà assediata, SEI, Torino, 1978, p. 27.

20 Delumeau, J., op. cit., p. 26.21 Pussetti, C., op. cit., pp. 107-108.

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schio e pericolo”22. Infatti, si può arrivare sino allaperdita del principio vitale a causa della paura e levittime tipiche sono i bambini e le donne. In moltesocietà, da quelle tribali alla nostra contadina euro-pea, una delle cause di perdita del principio vitale o digrave malattia che in genere porta alla morte è datadall’apparizione di una entità soprannaturale o di unmorto. L’etnologo De Martino ha svolto al riguardolavori eccellenti nei quali, tra l’altro, si mette in evi-denza come il mondo dei morti che, dappertutto, è daintendersi come ‘altro’ rispetto alla società dei viventi,non possa essere visto impunemente e che quindi de-ve sempre fare paura. Come si può notare, la paura dicui qui si parla e che spesso sarà all’origine della mortefisica di colui che ha avuto la visione è, dopotutto,una paura culturale innestata su una capacità fisica diprovare un’emozione di tal genere, come in questoracconto della tradizione meridionale e più specifi-camente pugliese:

Quello era un uomo bestemmiatore, però era un uomo cheandava alla messa. Poi quest’uomo è morto. Una volta lamoglie, era tempo d’estate, andò in campagna per raccoglie-re la spiga ed era quasi mezzogiorno, quasi le dodici e mezzoe stava per finire. La campagna era attaccata al cimitero.Edda si chiamava Carmela e lu maritu lu chiamavano lumirduddu. Quando, a un certo punto, si sentì chiamare:“Carme’, Carme’..”. Lei sentì che era il marito che la chia-mava, ma si prese paura e non rispondeva. Allora lui disse dinuovo: “Carme’, non mi conosci? Sono tuo marito”. Leirisposi: “Sì, ti sto conoscendo” – “Sono venuto per dirti chedevi dire ai nostri figli, quando vai a casa, di vedersi la messaperché io per mezzo della messa sono stato salvato, ci no luSignori m’era condannatu”. Questa donna fu tanto lo sgo-mento di sentire quest’uomo parlare vivo che prese tutta lasua roba e se ne andò a casa. Per tornare a Latiano dovevaattraversare un ponte che passava sotto alla stazione.[questo ponte faceva da limite tra il cimitero e il paese] Neltraversare stu ponti, quest’anima le disse: “Sai, Carme’, finoa qua ti pozzu accompagnari, non ti pozzu accompagnari

22 Pussetti, C., op. cit., p. 109.

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nel paese”. Sta cristiana tanta paura ca si prese, tantu sgo-mentu ca ebbi ca gli venne freddo e febbre e di dda moríu.

Come sottolinea Delumeau, “il timore, lo spaven-to, il terrore appartengono più alla sfera della paura;l’inquietudine, l’ansietà, la depressione a quelladell’angoscia. La prima si riferisce all’ambito di ciòche è conosciuto, la seconda a quello dell’ignoto. Lapaura ha un oggetto determinato, a cui si può farfronte; l’angoscia non ne ha ed è vissuta come attesadolorosa di fronte a un pericolo tanto più temibile inquanto non è chiaramente identificato: si tratta di unsentimento di insicurezza globale. Perciò l’angoscia èpiù difficile da sopportare della paura”23. Ed è perquesto motivo che abbiamo bisogno di ‘dare’ un no-me alla paura così che essa diventi paura di ‘qualcosa’,paura con un ‘nome’.

“Dal momento che è impossibile conservare ilproprio equilibrio interno affrontando per lungotempo un’angoscia fluttuante, infinita e indefinibile,è necessario per l’uomo trasformarla e frammentarlain paure precise di qualcosa o di qualcuno”. Lo spiritoumano fabbrica in permanenza la paura “per evitareun’angoscia a livello di malattia che sfocerebbenell’abolizione dell’io. Si tratta di un processo chepossiamo ritrovare al primo stadio di una civiltà.Mediante una lunga serie di traumi collettivi,l’Occidente ha vinto l’angoscia ‘denominando’ cioèidentificando, e perfino ‘fabbricando’ paure partico-lari”24. La stessa paura della morte, perciò, può in ognicultura essere frazionata in paure altrettanto terribili,ma in ogni caso ‘nominate’ e spiegate cosicché possa-no diventare accettabili: si pensi, per esempio, allapaura del demonio, del peccato e quindi della perditadell’anima come testimoniano questa poesia insegna-ta ai bambini e la riflessione conseguente di una don-na contadina pugliese

23 Delumeau, J., op. cit., p. 27.24 Delumeau, J., op. cit., p. 29.

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Vita breve/ morte certa./ Del morire l’ora è incerta/un’anima sola si ha/ se si perde che sarà./ Dio mi veti/ Diumi giudicherà/ o paradiso o inferno mi toccherà./ Finiscitutto/ e finisci presto/ eternità non finisci mai./“La signora D’Ippolito mi diceva sempre: ‘Ma signora,guarda un po’: quando mi vede, mi dice sempre di pregareper la salvezza dell’anima dei suoi figli. Mi piace che per leiprima viene l’anima poi tutto il resto’. Ma scusa, a che vale illavoro, i soldi se poi non si salvano l’anima. Prima di ognicosa bisogna pensare all’anima”.

O ancora si pensi alla paura della notte e dell’o-scurità giacché, come sostiene una donna africana,“Dio ha fatto la notte, ma l’uomo l’oscurità ed èdall’oscurità che devi difenderti e non dalla notte”25.Così, la notte è stata riempita, nella lunga storia delleculture, da figure immaginarie che tramano control’uomo: lupi mannari, fantasmi, malefici stregoneschi,spiriti di ogni genere nel passato hanno affollato que-sta parte della giornata come oggi i criminali di qua-lunque tipo.

Alla distinzione fondamentale tra paura e ango-scia, Delumeau fa seguire un’altra teoria estremamen-te interessante per comprendere i meccanismi delpensiero, cioè quella dell’‘attaccamento’, ovvero diuna tendenza originaria e stabile tesa a ricercare larelazione con l’altro. Come sottolinea lo storico, lanatura sociale dell’uomo si presenta come vero e pro-prio fatto biologico, tanto che proprio in questo so-strato è possibile ricercare le radici della sua affettivi-tà. Così, il bambino rifiutato dalla madre o l’indi-viduo che non ha avuto sin dall’inizio della sua esi-stenza legami normali con il gruppo rischia graviforme di disadattamento le quali produrranno inprimo luogo un senso profondo di insicurezza deri-vante da questa mancata realizzazione del bisogno direlazione. E questo senso di insicurezza, per esempio,diventa quasi sempre causa di aggressività perl’individuo o per la collettività cosicché “la tendenza

25 Kpan Teagbeu S. op. cit., p. 46.

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da parte di un gruppo dominante di relegare in unasituazione di disagio materiale e psichico una catego-ria di dominati costituisce perciò, a più o meno lungascadenza, un atteggiamento suicida. Un tale rifiutodell’amore e della ‘relazione’ genera inevitabilmentepaura ed odio. I vagabondi dell’Ancien Régime, cheerano degli ‘spostati’, respinti dai quadri sociali, pro-vocarono nel 1789 la ‘Grande Paura’ dei possidenti,anche modesti e, con una conseguenza inattesa, ilcrollo dei privilegi giuridici su cui era fondata la mo-narchia... Come conseguenza, si verifica anche a livel-lo collettivo ciò che risulta evidente sul piano indivi-duale: si realizza cioè un legame tra paura e angosciada un lato e aggressività dall’altro”26.

Le riflessioni dello storico francese, che seguonol’opera sull’angoscia del filosofo Kierkegaard, permet-tono un’analisi più profonda quando sottolineanoche l’angoscia può anche essere intesa in modo positi-vo come “vertigine del nulla ed esperienza di una pie-nezza: è ad un tempo tema e desiderio... per noi, uo-mini del ventesimo secolo, essa è diventata la contro-partita della libertà, l’emozione del possibile. Infatti,liberarsi significa abbandonare uno stato di sicurezza,affrontare un rischio. L’angoscia è insomma la carat-teristica della condizione umana, l’aspetto specifico diun essere che si crea incessantemente”27. Non a caso,essa sembra essere uno dei sentimenti importanti delnostro periodo e delle nostre società sempre tese versoil futuro e verso quella che potrebbe essere definitaquasi un’ossessione del nuovo come della creatività.

Nelle società etnologiche, inoltre, alla paura è col-legato il periodo fondamentale della formazionedell’individuo, cioè quello dell’iniziazione. Una dellegrandi lezioni dei riti di iniziazione in fondo stasemplicemente nel confronto con la paura al fine dipoter entrare in contatto con la forza interiore cheesiste in ciascuno di noi. Confrontarsi con la paura

26 Delumeau, J., op. cit., p. 30.27 Delumeau, J., op. cit., p. 28.

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significa giocare con metà della vita poiché solo spe-rimentando se stessi si può vedere se si può essere vin-centi o perdenti. Nella vita di molte comunità tradi-zionali, infatti, non conta il denaro, il possesso mate-riale, ma il rispetto degli altri, l’onore, l’esperienza,risultato, tutto ciò, di anni di duro lavoro e di duroallenamento. La conoscenza della sapienza del gruppoè senza dubbio obiettivo fondamentale del periodoiniziatico, ma il cammino dei riti diventa oltremodonecessario semplicemente per misurarsi con se stessi,per dimostrare di essere un vero essere umano e cometale farsi rispettare.

La vita è piena di sfide e noi esseri umani ci mettiamo allaprova accettandole. Anche se si soffre ne vale la pena, per-ché ci arricchiamo, diventiamo più maturi, più intelligenti epiù adulti... Nella lotta quotidiana uno può vincere o esserevinto, l’importante è lottare e continuare a farlo: anchegraffiando, pieni di ferite, bisogna sempre andare avanti.Superare gli ostacoli ci fortifica perché ci spinge a confron-tarci con le nostre paure, a usare una buona dose di corag-gio, e l’azione, per affrontarle e vincerle. Solo chi ha com-battuto, usando l’immaginazione e l’intelligenza, armato delcoraggio, della volontà, ed è sopravvissuto, può considerarsiun trionfatore... Tutti abbiamo paura, la paura è umana,affrontarla vuol dire andare verso l’ignoto. C’è bisogno dicoraggio e di volontà per agire e affrontare la paura”28.

Allora, come fronteggiare questo sentimento cosìrilevante e insieme sfuggente nella vita di tutti igiorni? La tradizione antropologica europea, peresempio, ci propone diversi modi in cui è possibileaffrontare questi momenti difficili in maniera protet-ta culturalmente. Cecconi, in un bel libro sul sistemadi protezione messo in atto nella montagna pistoieseper affrontare l’imprevedibilità della natura e dellavita umana, così riflette

La Paura è invisibile, sta fuori e a un certo punto entra den-tro, può arrivare in qualsiasi momento, non dà preavvisi e

28 Mamani, H.H., La donna dalla coda d’argento, Mondadori,Milano, 2005, p. 284.

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spesso non ha nemmeno un perché, arriva e basta. Ma dadove entra? Dalla testa, dalle orecchie, dagli occhi? E poidove sta? C’è chi la sente nelle spalle, chi nella pancia, chinei pensieri, chi nel cuore, chi nella gola. Ognuno ha la suageografia della paura, ognuno la descrive con parole diverse,ma cosa si può fare davanti alla paura?... Quando la pauraassale l’uomo gli impedisce di dormire e mangiare, si va allo-ra da chi sa fronteggiarla e manipolarla. In ogni paese c’eraqualcuno che sapeva “lavare la paura” ... È come se nel pen-siero “magico” avvenisse una solidificazione degli statid’animo: la paura, l’invidia, l’odio, l’amore diventano“cose”, e proprio questa solidificazione permette di elabora-re delle strategie concrete ... se la paura è senza forma, senzanome, invisibile, senza contorno, si attorciglia intornoall’uomo, gli paralizza le gambe, gli impedisce ogni azione,lo immobilizza. Solo se la paura diventa qualcosa di concre-to, l’uomo la può “guardare”, “toccare”e “lavare via”. Il ritua-le cresciuto sulla Montagna pistoiese, per liberarsi dalla pau-ra, consiste proprio nel “lavarla” con un’erba magica chia-mata erba lavandaia o erba di paura... Si lavano prima gliocchi e il viso, poi si passa con la mano tutto intorno allapersona, per quattro volte, e in ultimo si lavano le mani epiedi. Il rito va ripetuto per tre giorni, e se l’ultimo giornol’acqua è ancora densa vuol dire che la paura non è ancorascomparsa del tutto e la persona dovrà essere lavata finchél’acqua nella bacinella non resterà limpida29.

Un altro modo che permette di fronteggiare lapaura è quello di personificarla in luoghi o situazioni

ma la paura non è solo un “qualcosa” che sta dentro l’uomo,la paura è una vera e propria presenza: “la paura ce lo dice-vano i vecchi, c’era in tal posto e se uno passava di lì, anchese non ce l’aveva, gli montava”. Antonio si ricorda bene delsuo incontro con la paura: “io e un altro che è morto, s’era afare il carbone nel bosco, e c’era un seccatoio dove seccava-no le castagne, e dicevano che c’era la paura lì dentro. Unpo’ che si fosse impressionati noi, ma inverso le 11.30, mez-zanotte, si sente suonare la fisarmonica, un valzer. È verità,si prese la roba e si venne a casa. Erano le due di notte quan-do si venne a casa. Non ci si dormì mica più lì, c’erano glispiriti ... “Lassù, sul Toricella, c’era una paura” racconta El-

29 Cecconi, A., op. cit., pp. 74-75.

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sa, e indica il luogo dalle finestre di casa sua. Lei questa cosal’ha sempre sentita dire, ma di persona non si è mai azzarda-ta a verificare30.

Le considerazioni più rilevanti e commoventi perla profondità dello sguardo si possono leggere, però,nel momento in cui la ricercatrice illustra la filosofiache muove esseri umani di culture diverse a trovaredei modi sempre efficaci con i quali superare la paura

In Perù il malato di “susto”, dopo essere stato curato dalguaritore, finalmente si addormenta, e accanto al suo letto ifamigliari staranno svegli una notte intera. Lo guarderannodormire, in cerchio intorno a lui vigileranno che il suo re-spiro resti regolare, e impediranno al “susto” di entrare an-cora nel suo corpo, approfittando della solitudine notturna.Questa “veglia” e questa protezione collettiva rappresenta-no la fine rituale della cura iniziata dal guaritore. La paura sisupera con il calore dell’altro, con la carezza di una manoche ti lava, una voce che scaccia gli incubi che tagliano ilrespiro. La paura va condivisa, ascoltata, e visto che il corpoè il primo a sentirla arrivare, è lui che può fare da guida... Seper alcuni è terapeutico il “flusso di parole” consigliato dallapsicanalisi, per altri sarà un “flusso d’acqua ed erba lavan-daia” a lavare via quella paura che non fa più dormire emangiare: c’è chi parla della paura e chi si fa lavare31.

Ed ecco anche perché nelle società etnologichequesto sentimento viene affrontato nei riti di inizia-zione, vissuti in gruppo e guidati dagli anziani.

In conclusione, ogni società costruisce le sue pau-re e quindi i suoi sistemi di sicurezza che perciò si ri-feriscono sempre a oggetti ed esseri specifici, ben di-versi a seconda del periodo storico e della situazionesociale. Come sostiene Febvre, la paura e il bisogno disicurezza, – l’uno negativo e l’altro positivo – sonodue sentimenti che alla fine si incontrano, ma certa-mente bisogna intendersi bene sui termini32. L’aiutoreciproco, per esempio, non è certamente la sicurezza

30 Cecconi, A., op. cit., pp. 75-76.31 Cecconi, A., op. cit., p. 82.32 Febvre L., “Pour l’histoire d’un sentiment: le besoin de sé-

curité” in ANNALES, 2, 1956, p. 246 sgg.

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quale noi la intendiamo. La domanda che allora sipone lo storico è estremamente importante poichéchiarisce l’importanza sociale del bisogno di sicurez-za: quando nasce questo bisogno? È vero infatti che,sino a quando nella cultura occidentale ci si è abban-donati alla volontà di Dio, anche se imperscrutabile,sicurezza è stato un vocabolo con un significato mol-to diverso da quello che noi gli attribuiamo. Il termi-ne, invece, acquisisce un nuovo valore quando ad essoassociamo una organizzazione umana, l’uso del dena-ro, e una risposta immediata, automatica ed efficacedi fronte ad una qualunque catastrofe o a ciò che noiriteniamo catastrofico. Dunque il bisogno di sicurez-za nasce con il capitalismo, quando cioè l’interventodivino non appare più necessario agli uomini perspiegare gli avvenimenti che, invece, diventano, dalquel periodo in poi, di ordine puramente umano,come testimonia questo affascinante racconto diDelumeau

Nel XVI secolo, non è facile entrare di notte ad Augusta.Montaigne, che visita la città nel 1580, rimane stupito difronte alla “porta segreta” che, per opera di due custodi, fil-tra i viaggiatori che arrivano dopo il calar del sole. Essi siimbattono dapprima in una postierla di ferro che il primoguardiano, la cui camera dista più di cento passi, apre dalproprio alloggio mediante una catena di ferro, la quale“dopo un lungo percorso e molteplici giri” tira un paletto,anche esso di ferro. Una volta superato questo ostacolo, laporta si richiude di colpo. Il visitatore oltrepassa quindi unponte coperto sopra un fossato della città e arriva su un pic-colo spiazzo, dove declina le proprie generalità e indical’indirizzo a cui intende alloggiare ad Augusta. Il guardianoavverte allora con un colpo di campanella un compagno,che aziona un congegno situato in una galleria vicino allasua camera. Questo congegno apre dapprima una barriera –sempre di ferro – poi, mediante una grande ruota, comandail ponte levatoio senza che si possa vedere nulla di tutti que-sti movimenti, “ché avvengono nello spessore del muro edelle porte” e “di improvviso ogni cosa si richiude con granfracasso”. Al di là del ponte levatoio si apre una grande por-ta, “di legno molto spesso e rinforzata con parecchie grandipiastre di ferro”. Attraverso questa porta lo straniero accede

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a una sala, dove si ritrova chiuso, solo e senza luce. Maun’altra porta simile alla prima gli permette di entrare inuna seconda sala, stavolta “illuminata” e dove si imbatte inun vaso di bronzo appeso a una catena: il forestiero vi devedepositare il denaro del pedaggio. Tirando la catena il se-condo portiere recupera il vaso e verifica la somma deposi-tatavi dal visitatore; se questa non è conforme alla tariffa, ilportiere lo lascerà “marcire fino al giorno dopo”; se invece èsoddisfatto “gli apre, allo stesso modo, una grossa portasimile alle altre, che si chiude dietro di lui, ed eccolo in cit-tà”. Un particolare importante completa questo dispositivoad un tempo macchinoso ed ingegnoso: sotto le sale e leporte è sistemato un grande scantinato capace di alloggiarecinquecento armati con i propri cavalli, per fare fronte adogni eventualità. In caso di emergenza, essi vengono impie-gati in azioni di guerra “all’insaputa dei cittadini qualun-que”. Si tratta di precauzioni singolarmente rivelatrici di unclima di insicurezza: quattro grosse porte che si susseguonol’un l’altra, un ponte sul fossato, un ponte levatoio e unabarriera di ferro non sembrano troppo per proteggere con-tro ogni sorpresa una città di 60.000 abitanti che è, aquell’epoca, la più popolosa e ricca della Germania. In unpaese in preda alle contese religiose, e mentre i turchi pre-mono alle frontiere dell’Impero, ogni straniero è sospetto,soprattutto di notte. Nello stesso tempo viene nutrita diffi-denza verso i “cittadini qualunque” i cui “turbamenti” sonoimprevedibili e pericolosi; perciò si provvede a che essi nonsi accorgano dell’assenza dei soldati abitualmente di stanzasotto il complicato dispositivo della “porta segreta”.All’interno di quest’ ultima sono stati messi in opera gli ul-timi perfezionamenti dell’arte metallurgica tedesca di queltempo. Grazie a queste precauzioni, una città il cui possessoè particolarmente bramato arriva, se non a respingere com-pletamente la paura fuori dalle proprie mura, almeno adattutirla in misura sufficiente per potervi convivere33.

L’invidiaCome è facile comprendere, l’invidia è un senti-

mento molto pericoloso che non può essere tollerato

33 Delumeau, J., op. cit., pp. 7-8.

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in nessuna società e quindi ha dato origine a strutturesociali che costituiscono veri e propri mezzi di con-trollo sociale, i più diffusi dei quali sono la stregone-ria, con la relativa creazione di specialisti a tempoparziale di religione come gli stregoni, e il malocchio.

Il grande antropologo americano Marvin Harrispresenta questo fenomeno culturale in maniera mi-rabile e, come al solito, estremamente chiara e moltopiacevole da leggere.

Ciò che più colpisce nella stregoneria intesa come un mezzodi controllo sociale è che coloro che la praticano, ammessoche esistano, raramente possono essere individuati. Conogni probabilità, il numero delle persone ingiustamenteaccusate di stregoneria supera di gran lunga quello dei vericolpevoli. È chiaro, quindi, che l’astenersi dal praticare in-cantesimi non basta a proteggersi dall’accusa. E allora, comeevitare di essere ingiustamente incolpati? Comportandosiin un modo amabile, aperto e generoso, evitando le disputee facendo quanto possibile per non perdere l’appoggio deipropri parenti. Insomma, l’occasionale uccisione di un pre-supposto stregone rappresenta qualche cosa di molto piùimportante della semplice eliminazione di pochi individuieffettivamente o potenzialmente antisociali. Questi inci-denti violenti convincono tutti dell’importanza di non esse-re scambiati per dei malfattori. Ne risulta, come presso iKuikuru [indios del Brasile], che la gente diventa molto piùamabile, cordiale, generosa e disponibile a collaborare: “laregola che prescrive di essere gentili trattiene gli individuidall’accusarsi reciprocamente di delitti e quindi, in assenzadi un reale controllo o politico o da parte di un gruppo diparenti, le relazioni interpersonali sono diventate una speciedi gara in cui forse l’unica regola restrittiva è quella di nonmostrare ostilità reciproca per paura di essere sospettati distregoneria”. Questo metodo non è “a prova di bomba”.Sono noti molti casi di sistemi fondati sulla stregoneria chesono crollati, trascinando la comunità in una serie distrutti-va di accuse e omicidi di ritorsione. Tuttavia tali casi(specialmente in situazioni di forte contatto coloniale, co-me in Africa e in Melanesia) devono essere correttamentemessi in relazione con le condizioni di base della vita collet-tiva. In generale, la frequenza delle accuse di stregoneriavaria a seconda dell’intensità del dissenso e della frustrazio-

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ne della collettività... Quando una cultura tradizionale èsconvolta dal contatto con nuove malattie, da una accre-sciuta competitività per accaparrarsi la terra edall’assunzione di persone per il lavoro salariato, bisognaaspettarsi un periodo di più marcati dissensi e frustrazioni.Esso sarà anche caratterizzato da una frenetica attività daparte di coloro che sono in grado di individuare e renderemanifesti i malvagi effetti delle streghe, come nel caso dellaframmentazione della società feudale in Europa e dellagrande ossessione per la stregoneria dal XV al XVII secolo34.

Secondo Di Nola, la stregoneria potrebbe esseredefinita come “uno statuto mitico-rituale nel quale,all’interno di ogni cultura, viene ad esprimersi la re-azione aggressiva di gruppi e di ‘margini sociali’ che,per motivi vari, non sono integrati (o sono parzial-mente integrati) nei modelli propri della cultura dallaquale dipendono, o anche che respingono tali mo-delli”35. In alcune culture, per esempio, questo statutoviene attribuito a gruppi che la maggioranza respingeo emargina, come i Rom e i Sinti nelle nostre società, iFalascià nella cultura etiopica o i Fabbri in molte cul-ture etnologiche. O ancora, si riversa su aree emargi-nate anche interne alla società il proprio malessere e sicerca di riacquisire una sicurezza di essere nel mondocombattendo simili individui o categorie. Si pensi,per esempio, ad un periodo storico della stregoneria,quello dei secoli XV-XVIII in Europa, come momen-to di culmine di un lungo processo di emarginazionedella donna nella figura della strega e in piccola partedello stregone nelle società cristiane. Malinowski so-steneva che in fondo la stregoneria costituisce unmodo di spiegare il male e le crisi fondamentalidell’esistenza, quasi una delle forme in cui si esprimela teoria del capro espiatorio, secondo cui all’originedi tutto ciò che noi riteniamo inaccettabile o negativovi sia un’azione o dei personaggi potenti che appar-tengono ad un mondo molto lontano da quello reli-

34 Harris, M., op. cit, pp. 177-178.35 Di Nola, A.M., “Stregoneria”, in Enciclopedia delle religioni,

v. 5°, Vallecchi, Firenze, 1973, p. 1413.

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gioso. Si pensi, per esempio, all’universo culturaledelle fatture, dei filtri, degli operatori di malefici equindi degli stregoni. In questo senso, Di Nola ritieneche la stregoneria vada considerata un fenomeno are-ligioso, “nella misura in cui si contrappone, negan-doli, ai modelli religiosi del gruppo culturale in cuiemerge”36. Essa sembrerebbe quasi una creazione cul-turale con la quale rendere visibili e personificare lepulsioni negative estreme, le forze oscure dell’agiredegli uomini che pure sono parte integrante della no-stra umanità. Anche la pratica dell’interrogazione delmorto, cioè della ricerca del colpevole, molto comunein Africa, è una rappresentazione, quindi un drammacarico di tensione che aiuta a dare ampio sfogo allecariche aggressive, invidiose o rancorose del gruppo.

In Sud e magia, De Martino ricorda appunto que-sta riflessione dello studioso Strehlow sugli Arandacentro-australiani: “l’arte dello stregone consiste spe-cialmente nel rendere innocua l’influenza di uominiostili o di esseri maligni. Egli è chiamato in casi gravi,o che la malattia sia causata da persone ostili, o cheinvece la causa di essa sia una entità demoniaca ... tut-te le malattie sono ricondotte dagli indigeni a in-fluenze esterne, e cioè ad uomini che con l’aiuto dellamagia nera asseriscono di poter causare la morte di unaltro individuo, ovvero a demoni che in forma anima-le o nei fenomeni naturali (per esempio nei venti ma-ligni) si avvicinano all’uomo e gli recano danno”37.

Naturalmente gli individui accusati di stregonerianon vengono scelti a caso, ma secondo dei criteri bendefiniti orientati sempre socialmente che, per esem-pio, tra i Kuikuru del Brasile, erano i seguenti: “1)una storia di litigi e contese all’interno del villaggio,2) un motivo per continuare a nuocere (il fidanza-mento rotto) e 3) un debole sostegno parentale”38.

Come sottolineano gli studiosi, gli sciamani, spe-cialisti religiosi i quali svolgono un ruolo essenziale

36 Di Nola, A.M., op. cit., 1973, p. 1416.37 De Martino, E., Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959, p. 81.38 Harris, M., op. cit., p. 177.

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nell’eliminazione delle fonti di conflitto, sono senzadubbio delle autorità, ma non sono onnipotenti, anzisono fortemente vincolati dall’opinione pubblica.Essi devono essere sempre molto attenti a non accusa-re di stregoneria “persone benvolute e che godonodell’appoggio di un forte gruppo parentale” poiché sepersistono nelle loro accuse rischiano l’espulsione ol’uccisione39. Quindi stregone è sostanzialmente coluiche è emarginato all’interno del gruppo e che rappre-senta e incarna i forti pensieri-sentimenti individuali-sti, antisociali, violenti degli esseri umani. Presso iBijagó, “ogni male, sofferenza e sfortuna dipendonodall’azione di una persona che ci è vicina. L’originedel male è dunque sempre sociale; non solo, ma nascespesso proprio all’interno della comunità familiare eper questo costituisce una minaccia contro i legami disolidarietà interni di un clan, contro la compattezzadi un villaggio, cui è difficile sfuggire... la stregoneria... in questa interpretazione è il ‘lato oscuro’ della pa-rentela, la consapevolezza del fatto che le gelosie, irancori e le invidie più intense e violente nascanoproprio all’interno della famiglia, dove non dovrebbe-ro regnare che fiducia e solidarietà. Tutte le relazioniumane, soprattutto quelle di grande prossimità socia-le e affettiva, implicano interdipendenze troppo stret-te per non essere intensamente caricate di sentimentidi ambivalenza. Questo discorso è soprattutto veroper le società di piccole dimensioni, le comunità dalleinterazioni ‘faccia a faccia’, e a maggior ragione per ilpiù ristretto, intimo e coeso gruppo familiare”40.

La stregoneria è quindi l’espressione visibile edrammatica della paura della solitudine, della fratturadei rapporti con la famiglia e la messa in scena deisentimenti di invidia, gelosia e rancore esistenti inogni gruppo familiare.

Il ruolo del malocchio nell’organizzazione sociale,invece, non è così ben “definito e evidente (o meglio,

39 Ibidem40 Pussetti, C., op. cit., p. 133.

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così ben studiato) come quello della stregoneria. Adesempio non esistono pubbliche accuse riguardo almalocchio. In alcuni casi, esso può essere persino li-quidato come una superstizione. Generalmente, tut-tavia, rappresenta il reale timore di un’influenza ma-lefica attuata per mezzo di altre persone... secondoalcune testimonianze, si tratta di un potere maleficoautonomo, che agisce attraverso certe persone e incerte situazioni: secondo altre, si tratta semplicemen-te di individui il cui sguardo è malefico”41. Come sipuò notare, le credenze presentano delle differenze,anche se non particolarmente rilevanti. SecondoSpooner, per esempio, in Persia, “colui che possiede ilmalocchio può sapere o no di avere questa facoltà.Egli può essere nato con il malocchio. Quest’ultimoha diversi gradi di efficacia in persone diverse”42.

Questa credenza, però, può essere anche intesacome capacità che l’essere umano ha di credere in unaforza negativa che può colpire quando non si ha laforza di reagire positivamente alle disavventure dellavita, come in questa testimonianza di una donna dellaprovincia di Pistoia: “il malocchio te lo puoi dare an-che da te, è l’energia negativa che hai quando staimale, sei triste. Infatti è vero che te lo puoi dare ancheda te, se ti metti in una visione negativa per cui tupensi di stare male quando invece potresti anche starebene”43.

In generale, la vittima privilegiata del malocchio èil bambino piccolo che è visto da tutte le culture comeun essere molto vulnerabile dal punto di vista fisico.In Africa, per esempio, è considerato come molle ebianco, e proprio questa penetrabilità del corpo“rende i piccoli estremamente fragili, esposti alle ma-lattie, al vento malvagio e alla possessione da parte diesseri extraumani. I bambini hanno inoltre bisogno diessere protetti dai n’atribá violenti o malvagi, che pos-sono assorbire in primo luogo nel latte materno e che

41 Spooner, B., op. cit., pp. 379-380.42 Ibidem43 Cecconi, A., op. cit., p. 168.

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possono farli ammalare o addirittura morire... per lostesso motivo i bambini non vengono mai lasciati soli;anzi in questo periodo di maggiore labilità dei confinicorporei sono tenuti sempre a stretto contatto con ilcorpo della madre”44. Essere esposti al vento natural-mente si riferisce al ‘malocchio’ che potrebbe essere‘soffiato’ sulla madre e sul bambino o che potrebbeessere trasmesso attraverso uno sguardo tagliente, an-che in questo caso, quasi sempre da un amico o ancorpiù da un parente. Come sottolinea Le Breton, lacredenza nel malocchio è semplicemente una cristal-lizzazione sociale dell’idea che lo sguardo abbia unforte potere sull’altro sino a metterne in discussionel’identità e a farlo sentire sotto una forte influenza.Non c’è scambio senza lo sguardo, attraverso il qualeogni distanza viene eliminata. Come nota Le Bretonquando analizza i rituali di seduzione, si pensiall’adescamento e allo sguardo insistente dell’uomosulla donna che finge all’inizio di ignorarlo, mentre lostesso sguardo fatto da parte della donna mette quasisempre in imbarazzo l’uomo45. In un noto libro sullavisione dell’harem nell’Occidente, la sociologa Fate-ma Mernissi così si esprime: “gli arabi pensano chesiano gli occhi a tradire. “Gli occhi sono una portaaperta sull’anima ... scrutano i suoi segreti, comunica-no i suoi più intimi pensieri”. Questo è il motivo percui mi hanno insegnato che è buona tattica, per unadonna, tenere gli occhi bassi, così che gli uomini nonpossano indovinare i suoi pensieri. La cosiddetta mo-destia delle donne arabe è in realtà una tattica diguerra”46.

Uno dei testi fondamentali di un grande etnologoitaliano, De Martino, appunto ci presenta il tema,importante nel sud d’Italia, ma diffuso presso nume-rosissime altre popolazioni, del fascino o fascinazione.

44 Pussetti, C., op. cit., pp. 64-65.45 Cfr. Le Breton, D., op. cit., p. 179.46 Mernissi, F., L’harem e l’Occidente, Giunti, Firenze-Milano,

2006, p. 13.

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Con questo termine si indica una condizione psichica diimpedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso didominazione, un essere agito da una forza altrettanto po-tente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomiadella persona, la sua capacità di decisione e di scelta. Coltermine affascino si designa anche la forza ostile che circolanell’aria, e che insidia inibendo o costringendo... cefalgia,sonnolenza, spossatezza, rilassamento, ipocondria accompa-gnano spesso la fascinazione: ma l’esperienza di una forzaindomabile e funesta resta il tratto caratteristico. La fasci-nazione comporta un agente fascinatore e una vittima, equando l’agente è configurato in forma umana, la fascina-zione si determina come malocchio, cioè come influenzamaligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il ma-locchio è anche chiamato invidia), con varie sfumature chevanno dall’influenza più o meno involontaria alla fatturadeliberatamente ordita con un cerimoniale definito, e chepuò essere – ed è allora particolarmente temibile – fattura amorte. L’esperienza di dominazione può spingersi sino alpunto che una personalità aberrante, e in contrasto con lenorme accettate dalla comunità, invade più o meno comple-tamente il comportamento: il soggetto non sarà più allorasemplicemente un fascinato, ma uno spiritato, cioè un pos-seduto o un ossesso, da esorcizzare ... il trattamento dellafascinatura ... si fonda sull’esecuzione di un particolare ce-rimoniale da parte di operatori magici specializzati47.

I possibili mezzi con cui può essere esercitata la fa-scinatura sono l’occhio, cioè lo sguardo, la mente,quindi il pensiero negativo o la volontà invidiosa difare del male. Gli scongiuri servono a cancellare il fa-scino tentando di istituire una barriera dall’energiamaligna che trama contro persone o beni (infatti an-che gli animali possono essere oggetto di invidia equindi avere il malocchio cosicché quando un maiale,per esempio, dimagrisce o non ingrassa a sufficienzasarà oggetto anch’esso di una pratica guaritoria) men-tre gli incantesimi d’amore vengono usati per legarechi si ama in modo irresistibile e in certi casi sonoimpiegati dall’innamorato per far morire colui o coleiche per esempio ha rifiutato il matrimonio.

47 De Martino, E., op. cit., 1959, p. 13.

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L’ideologia della fascinazione, secondo De Martino,costituisce l’elemento fondamentale della concezionedel male e della malattia nel sud come in molte altreregioni del mondo. L’infanzia naturalmente è partico-larmente esposta al rischio della fascinazione e, giàprima della nascita, il destino del bambino è legato aicomportamenti della madre durante la gravidanza (sipensi semplicemente alle voglie ecc.). La gravidanza,perciò, è un momento critico dell’esistenza, un perio-do molto pericoloso per la madre e per il neonato an-che a causa di una condizione organico/psichica difragilità e quindi di propensione alla malattia. Così lamadre deve preoccuparsi di nascondere il suo stato edi evitare incontri pericolosi che potrebbero trasmet-tere energie negative per l’uno o per l’altra.

“I bambini colpiti dal malocchio piangono, vomi-tano, diventano pallidi; e per malocchio possono an-che scattare cioè ‘crepare’. Proprio quando stannobene, e sono floridi, occorre stare attenti, perché sonoesposti all’incontenibile moto d’invidia delle altremadri. Se si va a far visita in una casa dove ci sonobambini, è bene entrando render loro un ostentatosaluto rituale: ‘cresci, san Martino,’ cioè ‘cresci innome di San Martino,’ che è il santo dell’abbondanzae della vigoria. Questo saluto è reso ai piccoli al dupli-ce scopo di difendersi dai propri incontrollati impulsiinvidiosi e al tempo stesso per rassicurare la mammache non nutra sospetti in proposito... lo stesso temadel neonato da confermare e proteggere magicamentesi manifesta in altre costumanze ... in genere, il mani-festarsi del fatto ‘crescita’ rivela un trapasso, un mo-vimento, un mutamento di stato: e quindi anchel’accentuazione del rischio magico, perché ciò che èlabile, problematicamente inserito nell’esistenza, puòannullarsi (crepare o schiattare) o non passare inmodo giusto nel nuovo stato. La dentizione, la cresci-ta delle unghie e dei capelli, lo svezzamento, la primauscita costituiscono appunto fatti rivelatori di unacondizione che muta, di una vita che avanza nel-l’esistenza; pertanto ciascuno di questi fatti riaccende

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l’agone magico, nella sua vicenda di rischi, di annul-lamenti e di contromisure di confermazione”48.

Le forze maligne, se i piccoli non sono protetti,possono essere estremamente contagiose poiché ilcorpo, come abbiamo già sottolineato, è aperto ener-geticamente al mondo. Questo modo di rappresenta-zione del male e della malattia naturalmente è unadelle maniere possibili di fronteggiare le crisi dell’e-sistenza e di dare una risposta sicura alle incertezzedella vita. Il corpo è la forma in cui si può esprimerein modo concreto la sofferenza, la malattia, il nonadattamento alla propria società in forma di pazziacosicché la cura deve essere finalizzata al ristabilimen-to dell’ordine e dell’armonia.

Il malocchio, dunque, è un linguaggio “psico-logico istituzionalizzato, per personalizzare o sempli-cemente personificare la sventura, ed è particolar-mente efficace quando la sventura o la paura di essapuò essere messa in relazione con la paura di estraneie della loro invidia. Si è parlato anche dell’idea paral-lela della malalingua: oltre a essa, troviamo un’ul-teriore idea connessa alle precedenti, quella di “mala-nimo”, cioè qualcosa di malefico che emana attraversoil respiro”49. È interessante notare come questi con-cetti abbiano un organo di riferimento, quale l’occhioper il malocchio, la lingua e quindi la parola per lamalalingua o pettegolezzo, il cuore e il respiro per ilmalanimo. Per di più, questi concetti vengono im-mediatamente collegati alla figura femminile, che ècolei che è destinata in molte società a rappresentaregli aspetti negativi dei sentimenti50.

In genere è gente singolare – persone che per una ragione oper l’altra non appartengono pienamente alla comunità ba-sata su forti legami interni, o perché sono straniere, o per-ché hanno qualche difetto fisico o qualche anormalità, non

48 De Martino, E., op. cit., 1959, pp. 33-34.49 Spooner, B., op. cit., p. 383.50 Su queste problematiche, può essere molto utile, per esem-

pio, il saggio di Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli,Milano, 1998.

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necessariamente dell’occhio o della vista – che è sospettatadi essere veicolo del malocchio. Uno straniero è consideratoun veicolo temporaneo, mentre un uomo con un difettofisico è probabilmente sospettato di essere nato con il ma-locchio. Presso alcune comunità si trova anche la concezio-ne parallela della malalingua, e un detto turcomanno affer-ma che l’occhio da solo non nuoce, se l’agente non pro-nuncia anche parole invidiose... le donne sono particolar-mente sospettabili. Poiché il loro ruolo sociale è definito piùrigidamente di quello degli uomini e poiché, tanto per co-minciare, sono in svantaggio fisico e sociale, qualunque por-tamento inconsueto o ogni elemento che impedisca loro diassolvere completamente alla loro funzione di donne, puòrenderle sospette: per esempio la sterilità, la sfacciataggine,le visite inspiegate... i mendicanti [in quanto stranieri o co-munque emarginati dalla comunità] sono generalmentesospetti e devono proprio a questo sentimento molti deiloro guadagni. L’usanza di donare a un ospite un oggettoche egli ammira è molto probabilmente connessa in originecon il malocchio51.

Questa concezione che tende a personificare epersonalizzare la sventura è evidente, inoltre, in unaltro originale istituto culturale proprio della culturameridionale del Settecento, avente una sua letteraturae credenze specifiche, quale la jettatura, oggetto diuno studio famoso di De Martino.

La colleraLa collera, come già si è potuto osservare, è un

impulso che va sempre controllato e in qualunqueambito tribale o di società più complesse uno deicompiti importanti degli anziani è sempre statoquello di limitare tutte le pulsioni violente all’internodella comunità ed eventualmente di rivolgerle delibe-ratamente all’esterno.

La morte, come si è visto, provoca in molte societàsentimenti di dolore e insieme di rabbia che a lorovolta fanno emergere tensioni e angosce all’interno

51 Spooner, B., op. cit., pp. 382-384.

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della comunità. Secondo i Bijagó, “in quel tempo an-tico nel quale gli uomini non avevano la legge, quan-do moriva qualcuno la rabbia, che nasceva dal dolorenon controllato, veniva sfogata in omicidi e atti diviolenza tra famiglie, che davano origine a lunghissi-me faide. Oggi invece le cose non stanno più così: conla legge non si può uccidere quando si ha desiderio difarlo”.Ciò nonostante, i giorni immediatamente suc-cessivi alla morte sono carichi di ostilità, inquietudini,risentimenti e sospetti. Spesso, nonostante tutte leregole e il biasimo morale, mi è capitato di assistere acerimonie di divinazione e rituali di interrogazionedel morto, che si sono trasformati in violenti litigi”52.Già Ruth Benedict aveva parlato del sentimento dicollera come di una compensazione attuata mettendoin lutto un’altra famiglia e poi Durkheim aveva sot-tolineato come presso i Kurnai dell’Australia i parentidel defunto provassero un sentimento complesso econfuso di dolore e insieme collera così che sentivanoil bisogno di vendicare questa morte magari pensandodi andare ad uccidere dei nemici. Per tali motivi, ildolore può essere considerato il sentimento più dif-ficile da affrontare sia per l’individuo sia per il gruppoe sempre per questi motivi, “in numerose culture afri-cane l’espressione della collera è vietata e non si mani-festa mai. Se però traspare, essa è associataall’immaturità, alla stregoneria. La chiacchiera è ilsolo modo di disattivare un conflitto”53. Allo stessomodo, presso gli eschimesi Utka, la collera sembranon esistere nella vita quotidiana. “Non soltanto essinon la esprimono, ma non la provano, e non dispon-gono di alcun termine per nominarla. Delle circo-stanze che nelle nostre società la provocherebbero,non suscitano alcuna battuta di quest’ordine. Nessuntermine del lessico utka evoca neppure lontanamenteun equivalente della collera. Questa attitudine è tut-tavia ben percepita tra i bambini o presso gli stranieri,

52 Pussetti, C., op. cit., pp. 171-172.53 Le Breton, D., op. cit., p. 132.

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e uno stesso termine la qualifica come infantile”54. Lacollera, però, può anche esprimere sentimenti relativial senso di pericolo per la nostra sopravvivenza.L’antropologo Henry fa considerazioni molto inte-ressanti per comprendere a fondo questo collegamen-to piuttosto diffuso tra emozioni apparentementediverse quali la collera e la paura attraverso la narra-zione di questo evento presso i Kaingang del Brasile

Quando Patkle morì, Kangdadn eresse per lui una pira etentò di bruciarlo, ma Patkle cadde giù dalla pira quando ilfuoco aveva solo consumato i suoi piedi e le sue mani, mo-strando così di possedere una pericolosità sovrannaturale edi costituire una terribile minaccia per chiunque. A causa diciò, prosegue la storia, “essi [i suoi parenti] si arrabbiarono ese ne andarono. Quattro giorni dopo, andai a seppellire lesue ossa [è l’informatore che parla]. I parenti lo temevano eper questa ragione se n’erano andati. Patkle era vai[pericoloso in senso soprannaturale] per loro e potevanomorire. Aveva mostrato loro che stavano per morire pro-prio lì. Per questo era caduto in direzione del posto in cuiessi stavano per morire. Perciò essi si arrabbiarono. “Per noiè pericoloso (vai)”, dissero”... Quindi la paura-rabbia èun’emozione dall’aspetto duplice e la stessa espressione‘essere arrabbiato’ significa anche ‘essere pericoloso nei tuoiconfronti’. Come sottolinea Henry, “i congiurati in uncomplotto omicida non dicono ‘uccidiamoli’, ma‘adiriamoci con loro’. Quando Thuli chiede a suo suocerodi ‘essere in collera’, gli sta chiedendo di commettere unomicidio... Se dite ad A “sono in collera con te”, la sua re-azione non è di contrizione o di pentimento o qualche altrasorta di sentimento negativo verso se stesso, ma di rabbia.Questo avviene perché, anche se costui può sapere che voinon avete alcuna intenzione di nuocere fisicamente, un’auradi pericolo circonda la collera e il pericolo genera paura laquale, a sua volta, porta con sé l’ira55.

Inoltre, sono molto interessanti le riflessioni dellaPussetti, quando rileva che i principi etici che guida-no il comportamento sottolineano la necessità diinibire la manifestazione di n’atribá negativi quali

54 Le Breton, D., op. cit., p. 130.55 Henry, J., op. cit., pp. 24-30.

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‘collera’ o ‘gelosia’: è meglio essere d’accordo piutto-sto che in disaccordo quando si parla con qualcuno,anche se il consenso raggiunto è solo superficiale.Nella psicologia bijagó, dunque, non è tanto pericolo-so per la salute e per le relazioni sociali reprimere leproprie emozioni quanto piuttosto esprimerle aper-tamente: “se si provano n’atribá pericolosi è sempremeglio non manifestarli, mi suggerisce Tcharte, pernon apparire ridicoli e non avere problemi di salute econ la gente del villaggio”. In particolare la ‘collera’ vasempre controllata: non è bene farsi vedere arrabbiaticon qualcuno al villaggio, si diventa infatti il caproespiatorio per qualsiasi cosa capiti a lui o alla sua fa-miglia. La strategia più solidamente adottata è agirein modo indiretto, attraverso sortilegi, incantesimi opozioni mortali. L’arte dei veleni è infatti molto dif-fusa in tutto l’arcipelago ... Per questo una delle primeregole di sopravvivenza nelle isole è non bere mai sen-za che prima abbia bevuto il tuo ospite e comunqueprestare sempre attenzione ai suoi movimenti nel pas-saggio del bicchiere. Come è il caso delle accuse di‘stregoneria’, che vengono spesso utilizzate per man-tenere ai margini certi settori della collettività, anchelo spettro dell’avvelenamento è un linguaggio velatodel potere, che per un verso ha una grande efficacianormativa e di controllo, per l’altro rivela i contrastipolitici tra villaggi o gruppi di individui. D’altra parte... [la collera e l’aggressività] se ben diretti e padro-neggiati, sono n’atribá che hanno anche un valorepositivo, per esempio qualora si debba difendere ilvillaggio. Ciò che è pericoloso è non saperli gestire,come quando si accende un fuoco per cuocere la car-ne e, non sapendolo dominare, si finisce per dar fuocoalla casa o al villaggio”, come sostengono gli indigenicon un’espressione proverbiale molto diffusa56.

Anche in società fortemente competitive e nellequali vige il diritto del più forte, come quella somalain cui c’è una continua oscillazione tra guerra e paci-

56 Pussetti, C., op. cit., pp. 92-93.

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ficazione, le dispute all’interno del clan o dei lignaggivengono rapidamente conciliate in quanto minaccia-no gli interessi comuni legati per esempio allo sfrut-tamento di una sorgente d’acqua o all’accesso al pa-scolo ed intaccano il sistema di solidarietà del lignag-gio. Lewis racconta a questo proposito un caso di di-sputa interessante

Un noto anziano ... litigò con un figlio avuto dalla sua pri-ma moglie... l’anziano aveva la schiena dolorante ed avevachiesto alla prima moglie se poteva dargli da bere un po’ dighi come medicina. Lei aveva risposto di non averne. Poi ilmarito le aveva chiesto se poteva uccidere per lui una pecoradel gregge di lei. La moglie aveva risposto acidamente, con-sigliandolo di andarsene a comprare una. Il marito avevaperso le staffe ed aveva chiesto al figlio della donna ... didargli un po’ di ghi. Il giovane aveva risposto che avrebbevisto cosa si poteva fare. A quel punto, la madre era andatadal marito dichiarandogli che non gli sarebbe stato dato ilsuo ghi e che la pecora se la sarebbe dovuta comprare. Lorimproverava di trascurarla, favorendo la sua moglie nuova.“Non hai bisogno di noi, non hai bisogno dei nostri ani-mali” – aveva urlato rabbiosamente. Poi si era lanciata inuna lunga invettiva contro il marito ... il marito aveva affer-rato un bastone e aveva cominciato a batterla. Il figlio, cheaveva una ventina d’anni, aveva perso le staffe anche lui, masaggiamente aveva preferito andarsene via. Erano accorsi deiparenti stretti del marito, che lo avevano afferrato cercandodi impedirgli di colpire la moglie. Alla fine, la coppia erastata separata e l’uomo se n’era tornato al lavoro nei campi.La sera, rientrato nella capanna della moglie ultima, l’uomoavvampò di nuovo d’ira. Afferrò un lungo coltello e andònello stazzo della prima moglie. Uccise una grossa pecora diquattro anni, minacciando di ucciderne altre. Ma giunserodei suoi parenti, che gli impedirono di fare altri danni... ilmattino successivo, gli anziani ... si dedicarono all’esame diquella che tutti ritenevano una gravissima violazione dellatranquillità collettiva. Alla discussione parteciparono parec-chi uomini che si trovavano in luogo per motivi non ine-renti al caso... il procedimento si svolse tutto in modo abba-stanza informale. Non ci fu alcuna dichiarazione formale digiudizio contro l’uomo o il figlio, e nessuno dei due conte-stò di essersi comportato male. Tutti diedero per certo che ifatti si erano svolti nel modo che io ho riferito e non furono

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citati testimoni. In effetti, gli anziani si limitarono ad am-monire padre e figlio, e quasi tutti i presenti condannaronoil loro comportamento. Era chiaro che la preoccupazioneprioritaria di tutti era quella di riconciliare i due uomini e ledue co-mogli57.

Infine, anche la collera può essere trasformata inelemento positivo, tanto da diventare un segno dimaturità: solo chi la prova, infatti, dimostra di aversuperato la fase infantile e di essere inserito a pienotitolo nella vita sociale. Essa, quindi, è utilizzata avantaggio della comunità e vissuta senza conflitti epaure, come tra gli Ilongot delle Filippine. In una no-ta ricerca di Rosaldo, è stato mostrato il caratterespecificamente culturale del liget, una emozione chesi avvicina alla collera degli europei, ma è differentenei modi di scatenamento e di espressione. “Liget ... èun termine associato al caos, alla separazione, al di-sordine, alla fuoriuscita di una forma affettiva noncontrollata dall’individuo, una “collera” che nascedalla rabbia o dal successo di un altro. Un tale stato,però, viene connotato positivamente perché conferi-sce potenza al cacciatore, esso rappresenta una viad’entrata simbolica nell’età adulta. Bisogna averla vis-suta per avere il diritto di sposarsi e assumere le pro-prie responsabilità di adulto... “sono carico di ligetquando caccio”, dice un uomo, perché non temo laforesta” ... liget orientato su un oggetto desiderabilesupera la diffidenza e l’irritazione che è all’origine... lostesso termine vernacolare ingloba ciò che, ai nostriocchi, dipenderebbe da esperienze diverse comequelle della collera e dell’invidia”58.

57 Lewis, I.M., Una democrazia pastorale Modo di produzionepastorale e relazioni politiche tra i Somali settentrionali del Cornod’Africa, F. Angeli, Milano, 1983, pp. 269-271.

58 Le Breton, D., op. cit., p. 129.

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Da una mancanza dicomunicazione ad una categoria:il silenzio

Nelle società occidentali, la Parola rappresenta ilveicolo simbolico per eccellenza della Ragione, mitofondamentale delle culture contemporanee: giornali,libri, televisione, radio, e mail, telefonini ci inondanocontinuamente in modo diverso di parole; siamo cir-condati dalle parole e quasi loro prigionieri. La nostraè stata più volte soprannominata la ‘società dellachiacchiera’ nella quale non solo non viene ricono-sciuto il valore sacro della parola, ma colui o colei cheha una comunicazione scarna mette imbarazzo. Il si-lenzio crea tensione e impaurisce.

Tuttavia anche l’assenza apparente di comunica-zione è un modo di espressione che viene scelto damolte società ed è legato al concetto di parola come diun atto creatore, quindi estremamente potente e pe-ricoloso. Il silenzio implica, pertanto, un altro mododi vedere il mondo, essenziale e non gestito dalla ra-gione. Esso ha una forte rilevanza nella gestione delleemozioni ed è un altro elemento fondamentale chequalifica la morte e che, per tale motivo, viene elabo-rato in tanti modi dalle società etnologiche. Sono, in-fatti, numerose le culture nelle quali vige il silenzio suimorti che può essere espresso, per esempio, in formadi tabu. Ne aveva già parlato, tra gli altri, Frazer nellesue opere, ma senz’altro un caso particolarmente in-dicativo riguarda il popolo nomade dei Rom e inparticolare i Ma \nuš del Massiccio Centrale francese.Nei mesi successivi alla morte, i parenti stretti nonpronunciano il nome del defunto e cessano di parlaredi lui. Durante il tempo del lutto e talvolta per tuttala vita, per rispetto nei confronti del defunto, essi ces-sano di consumare ciò che al morto piaceva: “Si smet-

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te di mangiare o di bere quello che il morto preferiva,ma si può anche smettere di cantare la canzone cheegli aveva l’abitudine di cantare nelle feste, di raccon-tare le sue storie favorite, di ascoltare le musiche chegli piacevano, di frequentare i luoghi in cui andava adivertirsi ... oppure si può rinunciare a quella che erala sua attività prediletta (la pesca alla trota, il gioco acarte della belote...) ... la rinuncia a un certo cibo o auna certa attività non è accompagnata da nessuna di-chiarazione. Non si dice niente. Ognuno sceglie e ri-spetta le proibizioni che si è scelto e non ne deve par-lare con nessuno. Non ho mai sentito nessuno rifiuta-re un certo piatto o un bicchiere spiegando che era‘per rispetto’ per il tale defunto”1.

Il rispetto nei confronti del morto non permettedi fare domande o di commentare i propri atti cosic-ché tutti si osservano continuamente, ma questo si-lenzio sembra quasi rafforzare la comunicazione tra ivivi, come in questo racconto: “una sera, un giovane,Pope, litiga con un uomo maturo, Xitâri, che ha lareputazione di essere particolarmente vendicativo. Iltono sale, minacce, ed ecco Pope che salta nella suaroulotte e ne ridiscende armato di un fucile. Xitâriesita un istante, smette di sbraitare, si crede che vada agettarsi sul suo avversario, poi bruscamente si rigira esi allontana; la disputa è finita. L’indomani, Xitâri mispiega che il fucile era ... “un fucile di un morto”,quello del padre di Pope deceduto due anni prima;non ha voluto insultare il fucile di un morto. Certo, èsolo a me che lo spiega, tutti gli altri hanno capitoperché si era tirato indietro – possedevano tutto ilcontesto –, nessuno può pensare che Xitâri abbiaavuto paura di affrontare Pope”2.

Il silenzio può essere inteso, inoltre, come unastrategia estrema per tenere a bada i sentimenti o an-che un modo in cui esprimere con forza ciò che le pa-role non possono comunicare, per esempio la pro-

1 Williams, P., Noi, non ne parliamo. I vivi e i morti tra iMânuð, CISU, Roma, 1997, p. 10.

2 Williams, P., op. cit., p. 26.

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fondità di un dolore o di una gioia. Questa scelta èpossibile in tutte quelle società che hanno privilegiatoil potere dell’affetto rispetto a quello della ragione.Per esempio, in uno studio socio-antropologico digrande acutezza e profondità sulla Corsica, Giudicisostiene che in questa società il concetto di philos gre-co è essenziale per comprendere i meccanismi pro-fondi dell’agire corso, ma anche delle società del Me-diterraneo in genere. Qui il primato dell’istanza af-fettiva si impone a uomini e divinità nel senso che ilsistema di parentela è al contempo regola di vita incomunità e senso della vita sociale. Il rapporto affetti-vo non è mai affare privato, ma centro attorno alquale gravita la comunità, “la sua memoria, il suofondamento, il suo tesoro”3. Affetto e solidarietà diclan sono le forze che cementano la vita dei gruppi ela sopravvalutazione dei rapporti familiari imprigional’individuo con i suoi divieti e con le emozioni chediventano regole di comportamento. La filosofia del-l’Illuminismo e la conseguente distinzione tra civile,quindi pubblico, e privato non fanno parte della con-cezione di queste comunità le quali, invece, ricono-scono valore solo alle solidarietà di clan. Questomondo, però, presuppone la valorizzazione del silen-zio, del buon comportamento sociale come quellodettato dalla morale dell’onore – anch’essa silenziosa,‘idea muta’. Del resto, come afferma Giudici, “l’osses-sione dell’onorabilità è la costante più ambigua delmezzogiorno” ed è una chiave fondamentale percomprendere soprattutto i silenzi e i segreti che cir-condano questo sistema di vita il quale non riconosceil potere contrattuale, laico e della libera circolazionedelle idee e dei beni proprio delle società capitalisti-che4.

Così, in molte culture, parlare è un atto che vacompiuto con prudenza e circospezione, in modoparsimonioso, senza mai abbandonarsi alla collera,

3 Giudici, N., Le crépuscule des Corses Clientélisme, identité etvendetta, Grasset, Paris, 1997, p. 204.

4 Cfr. Giudici, N., op. cit., p. 170.

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sentimento che comporta un uso eccessivo della paro-la. Per un Tuareg, per esempio, le espressioni ‘portareil velo’ e parlare in modo misurato esprimono lo stes-so concetto: per un uomo adulto, il velo serve a sotto-lineare la sobrietà nell’espressione, la misura ed essereuomini significa appunto avere un contegno e uncomportamento sempre controllato.

E allo stesso modo, secondo uno studio molto in-teressante di Larsen sulla cultura della Norvegia, ilnorvegese non è homo ludens ed è fortemente antiri-tualista tanto che per lui dire ‘buongiorno’ non haalcun significato. Egli è abituato a parlare pochissimoe a scambiare solo le parole necessarie. Così ancheconfessare di amare un altro diventa cosa molto dif-ficile e tutte le parole e le situazioni riguardanti lemanifestazioni d’affetto sono percepite come ambi-gue. In questo saggio, per esempio, si racconta come,dopo una discussione tra padre e figlia su un paio discarpe, il padre cerca di calmarsi tagliando legna men-tre la figlia, colta dai rimorsi, porta bracciate di legnasenza parlare, lava il pavimento e poi va a dormiresempre in silenzio. Il padre rimane seduto accanto alcamino e si commuove perché lei, con questi suoi atti,le aveva manifestato tutto il suo affetto. L’autore ri-corda anche un episodio relativo alla vita di duegrandi attori, Liv Ullman e il marito Max von Sidow.Durante un film, l’attrice si ammala e così è costrettaa letto. Il marito le è accanto e ad un certo punto leaccarezza i capelli. Per giustificare questo gesto affet-tuoso, le dice: “siamo buoni amici noi”. Non ‘ti amo’o ‘mi dispiace che tu stia male’, ma semplicementeuna frase più neutra e meno imbarazzante5.

Quando si hanno forti emozioni, del resto, la re-gola è quasi sempre quella del silenzio poiché la parolanon riesce ad esprimere in pieno ciò che si prova.

Tra i Pomak dellaTracia greca, il silenzio è l’ele-mento fondamentale della vita quotidiana ed è ciò

5 Cfr. Larsen, T., “Des paysans en ville”, in Klausen, A.M.(sous la dir.), Le savoir-être norvégien Regards anthropologiques surla culture norvegienne, L’Harmattan, Paris, 1991, p. 63 sgg.

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che colpisce in particolare il visitatore giacché è quasiassoluto6. Nei momenti importanti, come il matri-monio o la morte, ma anche nella vita quotidiana essodomina incontrastato: nel caffè, per esempio, gliuomini seduti qualche volta parlano a voce bassa alloro vicino, ma spesso hanno una espressione sonno-lenta. Tutte le pratiche funebri, dal lavaggio alla se-poltura, si fanno in silenzio e non si ode alcun lamen-to né tra i giovani né tra gli adulti. Certamente sipiange, ma le lacrime sono sempre silenziose. E poi-ché il diritto islamico vieta alle donne di parteciparealla sepoltura, esse danno l’addio al morto sulla sogliadi casa sempre in silenzio. Solo nei momenti di crisi odi emergenza il silenzio viene spezzato, come nel casodell’apparizione di un serpente, e allora viene invoca-to il genio perché possa fungere da protettore. In-somma, il silenzio costituisce un vero e proprio ordi-ne culturale tanto che solamente coloro i quali ven-gono ritenuti non pienamente inseriti nella comuni-tà, come i folli, gli stranieri, i giovani, gli anormalicome i posseduti, non sono silenziosi e allo stessomodo la voce e il rumore sono segni di disordine.Ora, se si ritiene che la parola sia il mezzo d’espres-sione migliore della ragione, in questa società ciò che,invece, domina è lo sguardo, quindi un sistema che sibasa sull’affetto e i sentimenti. E anche qui i racconti,le leggende, cioè la cosiddetta tradizione orale diventaun pilastro nella costruzione dell’immaginario ancheperché essa è uno dei pochi modi in cui si possonoesprimere i sentimenti individuali.

Allo stesso modo in Giappone, il silenzio rimanela modalità più importante di espressione, come silegge in questo racconto

Ricordo quando, durante l’ultima guerra con la Cina, unreggimento lasciò una certa città e una gran folla di genteinvase la stazione per salutare il generale della sua armata. In

6 Cfr. Tsibiridou, F., Les Pomak dans la Thrace grecque Di-scours ethnique et pratiques socioculturelles, L’Harmattan, Paris,2000, pp. 211 sgg.

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quell’occasione un americano residente in Giappone si recòsul posto, aspettandosi di essere il testimone di grandi di-mostrazioni d’affetto, dal momento che la nazione interaera coinvolta nella guerra incombente e c’erano padri, ma-dri, mogli e fidanzate dei soldati tra la folla. L’americanorimase deluso: quando il treno cominciò a muoversi, mi-gliaia di persone si tolsero silenziosamente il cappello, e leloro teste si abbassarono in un reverente addio; non ci fualcuno sventolare di fazzoletti, non venne pronunciata al-cuna parola; ci fu solo un profondo silenzio7.

E così anche presso gli eschimesi, una donna nondeve mai mostrare le sue emozioni, soprattutto versoun uomo che non appartiene alla propria tribu. Eccocome una donna Inuit racconta l’abbandono dellapropria casa e i due trasferimenti in un altro paese

senza un gesto di addio, senza uno sguardo al villaggio e aisuoi abitanti che ci avevano lungamente osservato, ci siamodiretti verso il Nord addentrandoci nella tundra ancora ri-coperta di neve e di ghiaccio... l’indifferenza delle personealla nostra partenza era uguale alla nostra. Per gli Inuit,spesso l’espressione dei sentimenti non è visibile, sono i ge-sti che rivelano le emozioni.... Il giorno della mia partenzafu molto commovente. Tutti gli abitanti erano venuti sullascogliera circostante la piccola baia per salutarmi. Questiuomini e queste donne che conducono una vita dura nonhanno per abitudine quella di esprimere i loro sentimenti.Era in silenzio dunque che essi mi guardavano partire. Laloro sola presenza testimoniava che erano stati segnati daciò che era passato, e in fin dei conti, si dispiacevano di ve-dermi partire. Anch’io, come loro, dissimulavo la mia emo-zione. Molto tristemente, mi imbarcai sulla piccola zatterache doveva condurmi a bordo del grande battello. Non po-tei impedirmi di abbozzare un gesto di arrivederci a tutti,sapendo bene che questo genere di manifestazione non ap-partiene al nostro popolo. Gesto al quale rispose fortementecon brevi parole l’uomo più anziano [non a caso rispondesolo il più anziano] del villaggio: “niente sarà più come pri-ma!”8

7 Nitobe, I., op. cit., pp. 68-69.8 Pouget, D., L’esprit de l’ours Croyances et magie inuit,

Présence Image, s.l., 2004, pp. 153-154.

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Anche presso i Rom, la modalità del silenzio ri-mane una costante nell’espressione quotidiana delleemozioni, come sostiene Williams: “È vero che iMa \nuš appaiono molto laconici. Il pudore (i lac í, la“vergogna”) è tra di loro un valore sociale cardinale.Esprimere i propri sentimenti è una cosa che non sifa. Se si vuole interrompere uno scambio (non solotra Ma\nuš e Gage [non zingari]), il mezzo migliore èquello di mettersi a far domande. La risposta allora ...è ... la scomparsa dell’interlocutore... Il silenzio ... è ciòche lega i Ma\nuš tra loro. Quando ci si separa, non cisi dice arrivederci, ci si dice – e la formula è divenutacosì abituale che appare equivalente a una formula dicongedo – ... “ci diciamo niente”9.

Emblematico, infine, del silenzio come di un ele-mento che ha in sé una forte tensione spirituale èquesto emozionante racconto di Carmelo Bene

A Mosca, Carmelo Bene arriva per uno spettacolo teatraleed è accolto dalla stampa come lo ‘zar del teatro italiano’.Così egli racconta la sua esperienza: “alla ‘prima’, ma anchenelle repliche successive, non volava una mosca a teatro. Sichiude il sipario nel silenzio assoluto. Sembrava un cimite-ro. Penso a un ‘fiasco’ straordinario, una sorta di choc col-lettivo. Trascorsi parecchi minuti, mi raggiunge Shadrin [ilsovrintendente del teatro] in camerino. Mi abbraccia com-mosso, raggiante. “Un trionfo!” Quel silenzio raggelantetestimoniava l’apoteosi. “Devo ringraziare, allora?” “Un ve-ro zar non s’inchina mai”, mi esime Shadrin. Sbircio dalsipario chiuso. Qualcuno in platea è genuflesso su un sologinocchio, come in preghiera ... La sera della terza recita,presente l’elite culturale moscovita, alcuni poeti chiedonodi vedermi ... torno in camerino. Mi avvisano che era il casodi mostrarsi ancora, sorta di bis urlati da tanto silenzio10.

9 Williams, P., op. cit., pp. 77-78.10 Bene C., Dotto, G., Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Mila-

no, 1998, pp. 380-381.

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Infine...

Insomma, perché si piange, si ride, si scherza, ci siarrabbia, si ha paura?

In fondo, la risposta degli studiosi è molto sempli-ce: ciò succede soltanto perché pensiamo, e questo cipermette di percepire il mondo e di valutarne glieventi.

Che cos’è dunque un’emozione? È semplicementeuna maniera di essere nel mondo, un modo di dare unsenso e di agire nel mondo. Come sostiene MichelleRosaldo, l’emozione è un ‘pensiero incorporato’, si-tuato in quella zona di confine tra individuo, corpo esocietà. “Parlare di emozioni significa dunque discu-tere questioni che hanno a che fare con il potere, lapolitica, la parentela, i cambiamenti storici, le diffe-renze di genere, i concetti di normalità e devianza.Significa anche ... studiare “il modo in cui le personeconcettualizzano, orientano e discutono i processimentali e i comportamenti propri e altrui”1.

1 Pussetti, C., op. cit., pp. 48-51.

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finito di stamparenel mese di luglio 2007

presso la LITOGRAFIA SOLARI

Peschiera Borromeo (MI)

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L’espressioneobbligatoriadei sentimenti

Alcune riflessionisulle emozioninelle societàetnologiche

Pubblicazioni

dell’I.S.U. Università Cattolica

Antonella Caforio