Riflessioni sull’ inizio dell'analisi · cose fossero vere o se invece non fosse un po' ......

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Riflessioni sull’ inizio dell'analisi Kathrin Asper, Meilen (1) C. G. Jung, “ Medici- ne and psychotherapy ”, in The Practice of Psy- chotherapy, C. W. vol. 16, N. York, Pantheon Books, 1954, pp. 85 ss. La complessità dell'inizio dell'analisi — l'analizzando è in una situazione in cui da solo non sa più come si- stematizzare il flusso di informazioni e in un primo momento neppure l'analista lo sa — richiede una compensazione attraverso una visuale che metta ordine nella “ massa confusa ” dell'inizio e chiarisca la nigredo, cioè Io stato in cui ancora brancoliamo nel buio. Sebbene Jung abbia sostenuto che è necessario essere molto prudenti con la diagnosi (1), l'analizzando proprio all'inizio ha un profondo bisogno di avere una risposta alla domanda che Io tormenta: “ Che cosa mi succede? ” Non occorre che questa visuale sia una diagnosi clinica, poiché la descrizione in parole della sua complessità psicologica è talvolta già abbastanza liberatoria. L'oscurità dell'inizio è spesso chiarita dall'osservazione e dall'interpretazione delle reazioni soggettive dell'analista. A questo proposito mi ricordo di una giovane donna, che mi aveva conosciuto in uno dei miei corsi. Quando mi telefonò ne fui lieta, perché allora mi era stata immediatamente simpatica e mi aveva anche colpito per la sua intelligenza. Nella prima seduta mi raccontò la storia della sua vita, che era

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Riflessioni sull’ inizio dell'analisi

Kathrin Asper, Meilen

(1) C. G. Jung, “ Medici-ne and psychotherapy ”, in The Practice of Psy-chotherapy, C. W. vol. 16, N. York, Pantheon Books, 1954, pp. 85 ss.

La complessità dell'inizio dell'analisi — l'analizzando è in una situazione in cui da solo non sa più come si-stematizzare il flusso di informazioni e in un primo momento neppure l'analista lo sa — richiede una compensazione attraverso una visuale che metta ordine nella “ massa confusa ” dell'inizio e chiarisca la nigredo, cioè Io stato in cui ancora brancoliamo nel buio. Sebbene Jung abbia sostenuto che è necessario essere molto prudenti con la diagnosi (1), l'analizzando proprio all'inizio ha un profondo bisogno di avere una risposta alla domanda che Io tormenta: “ Che cosa mi succede? ” Non occorre che questa visuale sia una diagnosi clinica, poiché la descrizione in parole della sua complessità psicologica è talvolta già abbastanza liberatoria. L'oscurità dell'inizio è spesso chiarita dall'osservazione e dall'interpretazione delle reazioni soggettive dell'analista. A questo proposito mi ricordo di una giovane donna, che mi aveva conosciuto in uno dei miei corsi. Quando mi telefonò ne fui lieta, perché allora mi era stata immediatamente simpatica e mi aveva anche colpito per la sua intelligenza. Nella prima seduta mi raccontò la storia della sua vita, che era

piena di avvenimenti insoliti e che in molti punti mi fece l'impressione di una favola. Varie volte e per un certo periodo era riuscita, lei che proveniva da condizioni molto modeste, a farsi strada e ad avere successo nel suo lavoro, per il quale però non possedeva alcuna formazione. Ma questi periodi erano stati sempre di breve durata e piuttosto casuali. Ella stessa me lo raccontò con in volto lo stupore di una “ Goldmarie ” (2). Mentre raccontava, mi chiedevo continuamente se quelle cose fossero vere o se invece non fosse un po' un'imbrogliona. Nello stesso tempo mi vergognavo delle mie reazioni e tentavo di reprimerle, poiché non potevo e non volevo pensare di essermi ingannata a tal punto sulla intelligenza e sulla essenza della paziente. Quando poi mi formai un giudizio, mi chiesi se la sua intelligenza non funzionasse in modo un po' autonomo e non fosse scarsamente integrata all'insieme della personalità. Per questo il suo sviluppo professionale sembrava così casuale e fantastico? Se l'intelligenza era parte del “ Sé grandioso ” nel senso di Kohut (3), agiva quasi esclusivamente nella fantasia e si mostrava nella realtà solo in alcuni momenti casuali? L'interpretazione della reazione di controtransfert doveva dimostrarsi appropriata. Nata in un ambiente piccolo borghese, del tutto privo di senso artistico, non aveva avuto alcuna possibilità di svilupparsi e gli stimoli che il suo ingegno aveva avuto, se mai ne aveva avuti, erano stati del tutto casuali. Senza una formazione professionale le mancava la posizione e la possibilità di sperimentare le sue capacità nella vita di tutti i giorni. A ciò si aggiungeva il fatto che ella non credeva di potersi sviluppare nell'ambiente della sua infanzia. Forti sensi di vergogna si sovrapponevano ai suoi progetti professionali e alle sue esigenze narcisistiche. Questo tema si presentava sempre nei suoi sogni, e partico-larmente caratteristico era il motivo onirico che la rappresentava da sola su un'isola meravigliosa o la mostrava immersa nella contemplazione di una montagna maestosa. Queste immagini oniriche sembrano

(2) Vedi Grimm, “ La si-gnora Molle ”, Le fiabe del focolare, Torino, Einaudi, 1961, p. 112.

(3) H. Kohut, “ Attivazione terapeutica del Sé grandioso ”, Narcisismo e analisi del Sé, Torino, Bo-ringhieri, 1976, pp. 109 ss.

(4) Ibidem.

(5) C. G., Jung, “ Scopi della psicoterapia ”, in // problema dell'Inconscio nella psicologia moderna, Torino, Einaudi, 1964, pp. 67-68.

essere l'espressione delle fantasie del suo “ Sé grandioso ” (4). A poco a poco il problema divenne più conscio e il motivo onirico si trasformò: ella lasciò l'isola e venne verso gli uomini, verso le persone “ che portavano cartelle nella scuola ”. Quest'ultima immagine onirica era un'esperienza “ riconoscibile ” e in conseguenza di essa cominciò a prendere più sul serio i suoi progetti professionali e a vergognarsene dì meno. In questo caso la mia reazione di controtransfert aveva portato a una visuale con cui si po-teva lavorare. Mi sembra importante che la visuale, che viene assunta all'inizio in riferimento alla problematica, venga trovata insieme (5). Quando cominciai a interessarmi del tema, volli tener presenti queste parole di Hermann Hesse: “ In ogni inizio c'è un incantesimo ”. Cominciai a interessarmi della parola “ incantesimo ” {Zauber} e ne scoprii l'affinità con l'inglese antico teafor, che significa colore rosso, ocra [Duden]. Il significato deriva dal fatto che per rendere visibili le rune le dipingevano di colore rosso. Mi sembra che quest'origine della parola Zauber (incantesimo) rap-presenti una buona immagine di ciò che accade nel-l'analisi, però all'inizio ha un significato particolare. Il rosso è generalmente considerato il colore della vita; le rune venivano dipinte di rosso, affinchè risaltassero sulla pietra grigia e divenissero visibili. Allora mi sembra importante che la << scrittura >> in un primo momento incomprensibile — l'incomprensibile con cui l'analizzando viene da noi — sia letta nel vissuto, cioè che si assuma una visuale per l'esperienza comune e che non si inseriscano gli analiz-zandi in qualcosa di abitudinario e di già noto. La visuale deve essere cercata là dove la runa si riempie di colore, di vita, quindi là dove viviamo un'esperienza comune. È un'esigenza legittima dell'analizzando sapere che cosa abbia. Nella medicina convenzionale si può dare un farmaco in base alla diagnosi. L'idea: descrivo la mia malattia e ricevo un farmaco per essa, è presente anche nei nostri analizzandi, poiché essi traggono la loro idea dal modello medico. Eppure la problematica psicogena non è una malattia in senso

proprio, non è il disturbo funzionale di un singolo organo, ma comprende l'essere umano nella sua totalità. A questo proposito mi viene in mente un'analizzanda, che pure mi descrisse la sua “ malattia ” e voleva da me la ricetta. Venne da me per dei sensi di vuoto, di assurdità e di sconforto. Precedentemente era stata da un analista maschio e sapeva ciò che aveva: depressione dovuta a un complesso materno negativo. Mi disse di aver “elaborato” la problematica patema con l'analista precedente e di voler ora “elaborare” con me la problematica materna. Oltre alla diagnosi, mi portò anche un preciso piano di lavoro. Ciò suscitò in me delle resistenze, sentivo “qualcosa” dentro di me che diceva: Non posso farlo, non l'ho ancora sentito In lei! La richiesta dì “elaborare” la problematica materna mi sembrava troppo razionale; avevo la sensazione che ci fosse come uno schermo tra me e l'esperienza. Avevo anche l'impressione che ella esigesse sempre una prestazione e volesse anche fare di me una figura esigente. Sentivo tutto questo, ma per il momento non avevo altra scelta che chiedere della madre. Tuttavia, procedendo con il programma, notavo che anche con queste domande non andava bene. Mi restava solo la possibilità di tenere consapevolmente nell'ombra la mia reazione di controtransfert, nella speranza di poterla usare almeno in seguito in modo proficuo. Ella mi descrisse sua madre come una persona estremamente coscienziosa, dominante e sempre esigente. Per la sua capacità era sempre stata in una posizione dominante ed era rispettata sotto ogni aspetto. L'analizzanda aggiunse anche che tutti si erano interessati sempre della madre e mai di lei, che ella, in verità, era apparsa sempre come una filiazione della madre. Questa analizzanda faceva di me un'ascoltatrice, ma permetteva anche che io “partecipassi all'esperienza”? In nessun modo; ella descriveva e raccontava, ma sembrava piuttosto chiedere conferma del suo programma. Sapevo anche che era venuta da me su consiglio dell'analista precedente e non di sua iniziativa. Allora mi venne in aiuto la mia reazione di contro-

transfert. Mi divenne chiaro all'improvviso che tra noi si ripeteva la stessa cosa che mi aveva appena descritto: anch'io mi informavo della madre e non di lei e così fu possibile rompere il ghiaccio: da ascol-tatrice divenni “partecipe dell'esperienza”. Allora mi descrisse la sua solitudine, la sua tristezza, il suo isolamento, la sua debolezza e le sue tetre malinconie. Aveva fatto proprio ciò che gli esseri umani con un complesso materno negativo non riescono a fare, mostrare cioè le proprie ferite. Così io fui concepita in modo diverso. Verso la fine dell'ora l'analizzanda mi disse che aveva parlato tanto di sé e non aveva affatto trattato la problematica materna; però le aveva fatto bene, ma la prossima volta avremmo dovuto “ elaborare ” la madre. Si staccò dì nuovo da sé e si ritrovò nell'esperienza materna per lei negativa. Potei allora dirle che ciò che aveva comunicato era un'espe-rienza strettamente connessa con la madre. Essendosi permessa di guardare se stessa per un momento, si era anche comportata in modo materno e mi aveva reso “partecipe dell'esperienza”. Ora avevamo una visuale comune e avevamo fatto un'importante esperienza comune. Per restare nell'analogia della runa: in questo caso la runa grigia era diventata rossa, la scrittura cifrata dell'inizio poteva essere letta nel vissuto e la grigia teoria era sostituita da un'esperienza comune.

(6) Bolte - Polivka, Anmer-kungen zu den Kinder — und Haus — marchen der Bruder Grimm, Hildensheim, Olms, 1963, I, 21, p. 168; III, 130, p. 60.

Inizio delle fiabe e inizio dell'analisi

L'inizio delle fiabe e l'inizio dell'analisi hanno spesso in comune qualcosa di affascinante. Vorrei esporre ciò basandomi su due fiabe, “ Cenerentola ” e “ Occhietto, Duocchietti, Treocchietti ”. Le due fiabe sono simili tra di loro, in particolare per quanto riguarda la situazione iniziale (6). Nella prima la matrigna e le sorellastre sono responsabili delle pene di Cenerentola, nella seconda la madre e le sorelle sono causa di sofferenza per Duocchietti. Tuttavia, diverse varianti di quest'ultima fiaba — è citata soprattutto la prima versione nota di Montanus dell'anno 1560 — indicano che anche

in essa si tratta di una parentela da matrigna. La differenza delle pene delle due eroine sta nel fatto che Cenerentola è obbligata a fare i lavori più umili, mentre Duocchietti deve sì lavorare, ma soffre soprattutto a causa delle sorelle che sono caratterizzate da un numero abnorme di occhi. Inoltre a Duocchietti manca il padre, mentre Cenerentola ha ancora un padre relativamente buono. Rivolgiamo ora l'attenzione a due analizzando, di cui illustrerò la problematica e l'esperienza di transfert basandomi per ciascuna su una delle due fiabe citate.

“ Cenerentola ” L'analizzanda che ho citato prima aveva un fortissimo senso del dovere e aveva una morale del lavoro già acquisita nell'esperienza con la madre; secondo le sue premesse soggettive doveva sempre guadagnarsi il diritto alla vita con il lavoro e con le prestazioni, e giustificarlo con particolari sforzi. La sua richiesta, nella prima seduta, di elaborare con me la problematica materna, suonava come una richiesta di prestazione e tendeva a spingermi nel ruolo della matrigna e anche a esorcizzare le sorellastre, poiché ella parlava del suo lavoro come di qualcosa che non era mai abbastanza buono e mi presentava ogni volta dei casi per confermarlo. Dava libero corso alla sofferenza. Nel momento in cui arrivava a parlare della sua vera esperienza, “ piangeva ” come Cenerentola sulla “ tomba di sua madre ” (7). La possibilità di que- st'espressione relativa alla sofferenza significava un primo passo sulla via della trasformazione (e doveva anche essere valutata positivamente dal punto di vista della prognosi), poiché all'inizio dell'analisi ero qualcosa di più dell'assenza della madre buona, più di una “ tomba ” della madre buona morta come in “ Cenerentola ”. Per un breve momento aveva osato dire che la sua sofferenza consisteva nella sensazione soggettiva di vuoto e nell'assenza di una 'madre buona, e senza saperlo mi aveva concepito come una madre buona. Le mie resistenze caddero: la paziente si era permessa di guardare se stessa in modo ma-

(7) Grimm, Le fiabe del focolare,cit., p.100.

terno. Non credo che si possa “ produrre ” una tale trasformazione; essa si verifica, come direbbe Jung, Deo concedente. Ciò che possiamo “ fare ” è affinare la nostra capacità di percezione, per esempio attraverso l'immagine di una fiaba, e così accorgerci del ruolo 'in cui gli analizzandi vogliono spingerci. Anche se in seguito questa analizzanda ricadde ancora in un atteggiamento da matrigna e da sorellastra, vedendo anche me nello stesso modo, questa piccola, ma importantissima trasformazione avvenuta nella prima seduta era diventata indicativa e promettente per me come analista. L'immagine della fiaba, che io le comunicai e alla quale potemmo sempre far riferimento in relazione alla dinamica esistente tra noi, ci aiutava a orientarci e aveva, come direbbero i fratelli Grimm, il “ verde ”, che è proprio delle fiabe, che “soddisfa, e placa senza stancare” (8).

“ Occhietto, Duocchietti, Treocchietti ”

Una delle mie prime analizzando nella prima seduta mi colpì per il modo affannoso in cui parlava. Ciò che mi impressionava particolarmente era il continuo mutare della visione di sé. Una domanda inquieta su ciò che per l'amor di Dio dovesse ancora fare, per sentirsi più tranquilla, si alternava con l'affermazione che non fosse nient'altro che questo o quello. Il tono della voce, la mimica e i gesti non erano omogenei ed erano soggetti a improvvisi mutamenti. Un tono interrogativo e un inquieto lampo degli occhi accompagnavano le sue parole. Un linguaggio elevato e delle asserzioni tristemente rassegnate su se stessa erano sostituite da affermazioni di propositi avviati. Dopo la seduta rimasi con l'impressione di essere stata davanti a un caleidoscopio, la cui composizione di immagini mutava continuamente. Indirettamente e direttamente nella prima seduta mi ero attenuta al principio di aggiungere sempre un'altra visuale e di inserirmi nella molteplicità delle visioni o di sostenere con una conferma univoca l'affermazione di un animus negativo nel senso di una visione unilaterale.

(8) Grimm, “Vorrede 1856 ”, KHM, Zurich, Manesse, vol. I, p. 13.

Mi sembrava però che il suo problema consistesse proprio nel fatto di non potersi accettare, di non essere mai soddisfatta e di dover cambiare sempre tra una visione unilaterale e una molteplicità di immagini di se stessa. In fondo, era troppo egoista per poter sopportare le ambivalenze. Alla base c'era un disturbo originario nei rapporti, che alimentava costantemente il carente senso di autostima. Parecchio tempo dopo mi venne in mente la fiaba di “ Occhietto, Duocchietti, Treocchietti ” come matrice di quest'esperienza e ciò ci aiutò nell'orientamento. Per restare nell'immagine della fiaba: era importante mantenere le molteplici visuali e non cadere ne in una visione unilaterale ne in una triplice o molteplice, ma sostenere la sua propria normale duplice visione. Ella aveva sofferto per un padre tirannico e a causa di circostanze sfavorevoli non aveva avuto un'esperienza sufficientemente positiva neppure con la madre, sebbene questa la comprendesse più del padre. Una zia fanaticamente religiosa, che viveva nella stessa casa, aveva saputo inculcarle nell'infanzia l'idea che nella vita ci fossero il comportamento giusto e la via giusta. Da un punto di vista biografico questa zia personificava la visione unilaterale. Lo splendore carente negli occhi della madre e la perdita della guida del padre erano stati ulteriormente responsabili del suo disturbo di identità, e ciò aveva portato al desiderio di avere una conferma dagli occhi degli altri, ma nello stesso tempo aveva portato anche alla paura di essere annientata dallo sguardo di un occhio estraneo. Per questo motivo ella concepì l'ambiente che la circondava come una molteplicità di visuali rivolte su di lei oppure come una visuale unilaterale, secondo se introiettava la zia o la propria insicurezza. Nel corso dell'analisi si determinò un transfert speculare, (9) che portò a un rafforzamento del suo senso di autostima e contemporaneamente affermò la sua normale duplice visione. Sotto la guida dell'analisi, l'analizzanda aveva dipinto molto e aveva tentato di rappresentare le sue esperienze e le sue sensazioni. Le immagini diven-

(9) H. Kohut, Narcisismo eanalisi del Sé, cit., pp. 109 ss.

nero per me più profondamente comprensibili nel momento in cui si trovò la fiaba della madre cattiva con le sorelle dalla visione triplice e unilaterale e a loro volta resero la fiaba più trasparente. La paziente aveva dipinto due immagini dopo circa due mesi di analisi e in esse aveva espresso la sensazione di essere tenuta stretta da un essere superiore. Se ci si immedesima emotivamente nelle immagini, si chiarisce non solo Io sfondo biografico, ma anche l'esperienza di sé. Nella stretta di figure superiori, che distolgono lo sguardo da lei, può solo contorcersi e sentirsi come un verme. Qualunque cosa faccia, qualunque atteggiamento o visuale assuma, il pugno è più forte e la comprime. Circa due anni dopo disegnò altre due immagini. La pro-blematica era diventata più conscia e non si svolgeva più sott'acqua, come nella prima immagine, o in una nebbia grigia come nella seconda, quindi a livello inconscio. Nella terza immagine l'analizzanda rappre-senta se stessa fissata da molti sguardi: li deve temere tutti, vorrebbe piacere a tutti, vorrebbe rassomigliare a tutti, vive l'esperienza di sé distesa a terra, sotto una linea al di sotto del livello degli altri esseri umani, spesso rinchiusa nella camera nera della depressione, come è rappresentato nella quarta immagine. Anche in questo caso l'immagine della fiaba era divenuta indicativa, aveva chiarito l'esperienza della situazione iniziale e aveva spiegato meglio la pro-blematica. Credo che il non essere caduta nei ruoli verso cui mi spingeva il suo transfert e il riferimento alla sua profonda carenza di un centro affettivo abbiano resa proficua l'analisi. Sebbene le immagini delle due fiabe si somigliassero ed entrambe le analizzando avessero in comune un fondo di depressione e di carente fiducia originaria, la conoscenza della differenza tra le immagini delle due fiabe rese possibile un esame più approfondito delle difficoltà. In “ Cenerentola ” si pone l'accento sul lavoro e ciò vale anche per la prima analizzanda, che con il suo sforzo di prestazione si conforma all'esagerato senso del dovere che si os-

serva spesso nei depressi. Anche per lei, come per “Cenerentola”, il padre era stato abbastanza buono. Per la seconda analizzanda il padre era stato tirannico e negativo ed era morto relativamente presto. L'impronta supplementare data da un padre negativo era corresponsabile del fatto che la sua problematica non si esprimesse tanto in un lo efficientista ma piuttosto in un profondo disturbo dì identità, per il quale la situazione iniziale della fiaba “Occhietto, Duocchietti, Treocchietti” dava una buona immagine.

Inizio dell'analisi alla luce della saga e della fiaba

Vorrei ora considerare l'inizio dell'analisi alla luce di alcuni tratti essenziali della saga e della fiaba. Tra i numerosi generi di letteratura popolare spiccano in particolare la fiaba e la saga. I fratelli Grimm s'interessarono principalmente di esse e definirono “storica” la saga e “poetica” la fiaba (10). Come ha dimostrato Max Luthi, i vari generi di letteratura popolare illustrano ciascuno un diverso modo dell'essenza umana (11). La saga e la fiaba rappresentano due generi che si integrano riguardo alla loro immagine dell'uomo e del mondo. Nella fiaba l'essere umano è in qualche modo protetto, la saga invece lo rappresenta in condizioni di insicurezza (12). Se la saga è il “ racconto di un episodio ” (13), che spesso termina con una “dissonanza irrisolta (14), la fiaba descrive un processo che risolve la situazione iniziale di conflitto e fa uscire dalla crisi l'eroe come un essere trasformato (15). L'insicurezza, l'irruzione di un'altra realtà incomprensibile e la “prossimità” della trasformazione fanno del protagonista della saga un essere dubbioso, che indaga le cause e cerca di dare una spiegazione basandosi sulla “ verità ” della saga (16). La psicoanalisi si è interessata della fiaba molto presto: già un anno dopo I’Interpretazione dei Sogni di Freud apparve un saggio di Friedrich von der Leyen su “Sogno e Fiaba” (17), e in seguito dovevano aumentare le voci che indicavano un'affinità tra la fiaba e il sogno. È noto che questo ramo della ricerca della psicologia analitica è stato

(10) Grimm, “Vorrede 1865”, Deutsche Sagen, I.

(11) M. Luthi, “Das Bild des Menschen in der Volksliteratur”, Volksliteratur und Hochiiteratur, Berna, Francke, 1970, pp. 9-10.

(12) Ibidem, pp. 15-16. (13) W. E. Peuckert, . Die Welt der Sage”, Vergleichende Sagenforschung, Wege der Forschung, Darmstadt, Wissenschaft-liche Buchgemeinschaft, 1969, vol, CUI, p. 153. (14) L. Rohrich, Marchen und Wirklichkeit, Wiesbade, Steiner, 1964, p. 13. (15) V. Kast, Das Bose im Marchen, Fellbach, Bonz, 1978. (16) M. Luthi, “Das Bild des Menschen in der Volksliteratur ”, op. cit., pp. 14-16; L. Rohrich, Marchen und Wirklichkeit, op. cit., p. 15. W. E. Peuckert, “ Die Welt der Sage ”, op. cit., p. 135. (17) F. von der Leyen, “ Traum und Marchen ”, Marchenforschung und Tiefenpsychologie, Wege der Forschung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buch-gemeinschaft, 1969, vol. Cll, pp. 1-12.

(18) C. G. Jung, “Fenomenologia dello spirito nella fiaba”, in G/i ar-chetipi e l'inconscio collettivo, Opere, 9, 1, Torino, Boringhieri, 1980, p. 210. (19) G. Isler, Die Sennenpuppe, Basilea, Krebs, 1971. (20) L. Rohrich, Marchen und Wirklichkeit, op. cit., p. 23.

approfondito in modo decisivo dalle opere di Jung e dei suoi allievi, e in esse la fiaba come affermazione dell'essenza umana sembra avvicinarsi di più al mistero della vita (18). La psicologia del profondo si è interessata della saga in misura molto più limitata (19). La ragione di ciò forse sta nel fatto che nella fiaba vengono offerti al protagonista per l'adempimento dei suoi compiti degli aiuti, che per lo più mancano nella saga. Lutz Rohrich dice a questo proposito: “La saga mostra il dominio del demoniaco, la fiaba il dominio sul demoniaco” (20). Inoltre l'ipotesi della psicologia analitica che nella psiche ci sia uno strato più profondo — l'inconscio collettivo — che è sano e trova la sua migliore espressione immaginale nella fiaba, può essere un altro motivo del particolare apprezzamento della fiaba nella psicologia analitica. Poiché le fiabe mostrano dei processi, sono interessanti anche dal punto di vista dell'energetica psichica; il finalismo lì postulato trova la sua migliore espressione nella fiaba. Riassumendo in breve, i tratti fondamentali della saga e della fiaba possono essere visti nelle coppie di opposti sfiducia-fiducia e passato-futuro. Confrontiamo ora alcuni tratti fondamentali della saga e della fiaba con l'esperienza dei nostri analizzandi. Da un punto di vista terapeutico, vorremmo che i nostri analizzandi, come gli eroi delle fiabe, trovassero la fiducia e si dedicassero a un processo che tende al futuro e allo sviluppo della vita. Però un gran numero di persone non viene da noi con un “ atteg-giamento da fiaba ”, di fiducia, ma si può piuttosto parlare per analogia di un “ atteggiamento da saga ”, di sfiducia: essi hanno smesso di avere fiducia nella vita e si trovano in uno stato di dissociazione dall'inconscio. Si spaventano di fronte all'irruzione dell'ignoto, per esempio di fronte a un sintomo tirannico, e non sono più in grado di superare una situazione interna o esterna. Come i protagonisti delle saghe, sono insicuri, isolati e sopraffatti da dominanti inter-ne o esterne. Il protagonista della saga, come abbiamo detto prima, è un essere dubbioso e indagatore e s'interessa specialmente delle cause di un avveni-

mento. Quest'atteggiamento rivolto al passato, se lo si trasferisce sui nostri analizzandi, ha due aspetti, uno positivo e uno negativo. Nella forma negativa i nostri analizzandi sono spesso rinchiusi all'inizio in un atteggiamento meditativo, che non è proficuo. Si tratta allora di mutare questa disposizione nell'atteggiamento positivo della ricerca del passato. All'inizio di una terapia l'interesse per la biografia è essenziale molto più che in seguito. Tuttavia, non sempre può essere assunto questo positivo “ atteggiamento da saga ”, ossia di ricerca, perché parlare dei genitori equivale spesso a infrangere un tabù. Così un uomo piuttosto giovane sognò una volta di aver visto il padre in abiti trasparenti e di averglielo fatto notare e per questo il padre gli aveva dato uno schiaffo. Guardare i genitori, osservarli al di là della “ Persona ”, era per lui un sacrilegio e per molto tempo non riuscì a parlare della sua infanzia triste con un padre estremamente severo, dominato dalla Persona e che osservava tutto. L'impossibilità di parlare non si fondava solo su un senso di colpa, ma era anche con-nessa con un transfert inizialmente negativo, nel quale anche io ero diventata una figura genitoriale, che voleva osservare tutto in modo critico. Egli quindi si guardò bene dal parlare di ciò che si rivelava nel motivo di un sogno, nel quale, mentre era insieme a qualcuno, all'improvviso gli cadeva a terra la borsa e un'infinità di piccole palline di legno per fare catene si spargeva per terra. Egli le raccoglieva in tutta fretta, cercando di farsi notare il meno possibile. (Il padre in lui, che anche illecitamente voleva osservare tutto e che nel sogno si era presentato allusivamente con abiti trasparenti, fu in un primo momento tenuto fuori dall'analisi e se ne poté parlare solo molto tempo dopo). In tali momenti iniziali, costellati dall'imago negativa dei genitori, quando i sensi di colpa vietano di parlare apertamente dei genitori, spesso non è possibile “ l'atteggiamento da saga ” della ricerca del passato. Mi sembra perciò proficuo cercare di realizzare il transfert non tanto nel passato, ma nelle immagini collettive che l'analizzando ha dello psicologo e della

(21) A. GuggenbuhI-Craig, “ Der Schatten des Psy-chotherapeuten ” in J. B. Wheelwright, The reality of the psyche, New York, Putnam's, 1968. (22) G. Wohmann, Paulinchen war allein zu Haus, Darmstadt, Luchterhand, 1974.

(23) K. Frey, Als Psychologe habe ich versagt, Zurigo, Hecht, 1978.

(24) C. G. Jung, Praxis der Psychoterapie, G. W., 16, Olten, Walter, 1971, pp. 20-22. (25) C. G. Jung, “ Scopi della psicoterapia ”, op. cit, p. 68,

sua professione. La scelta che l'analizzando incon-sciamente ha fatto tra queste immagini, spesso coincide con il comportamento dei suoi genitori ed equivale all'Ombra dello psicologo come ficcanaso, ciarlatano e poliziotto, che mira a provocare il transfert nell'analizzando o a dargli l'illusione del Paradiso senza dolore. Per il mio analizzando si trattava di entrambi i casi. Egli mi vedeva come poliziotto ficcanaso e come ciarlatano, perché in fondo si aspettava da me il Paradiso e la propria perfezione. Un discorso sull'Ombra dello psicologo può gettare un ponte per far rivivere all'analizzando l'esperienza dei suoi genitori e per indurlo a usare il positivo “ atteggiamento da saga ” della ricerca del passato. Questi aspetti dell'Ombra dello psicologo sono stati descritti assai acutamente da Adolf GuggenbuhI-Craig nel suo saggio “ L'Ombra dello Psicoterapeuta ” (21). Anche nella letteratura moderna sono rappresentati questi aspetti dell'Ombra; per esempio in “ Paolina era sola a casa ” di Gabriele Wohmann (22), una coppia di genitori che hanno una cultura psicologica considerano possibile la realizzazione dell'età dell'oro per mezzo della psicologia. Nel romanzo dell'autore zurighese Kurt Frey, “ Ho fallito come psicologo ” (23), si mostra l'Ombra come poliziotto e ficcanaso. Nel corso dell'analisi si verifica spesso un passaggio più o meno percettibile da un atteggiamento riduttivo a uno prospettico. Per analogia con l'atteggiamento dei protagonisti della saga e della fiaba possiamo parlare in questo caso di un passaggio dall' “ atteggiamento da saga ” all'“ atteggiamento da fiaba ”. Al centro della discussione non c'è più “ la provenienza ”, ma “ lo scopo ”. C. G. Jung, in relazione al suo contrasto con Freud, si è interessato a fondo di questo passaggio. Nel suo saggio “ Che cos'è la psicoterapia? ” egli definisce, tra l'altro, l'atteggiamento freudiano “ catartico-riduttivo ” (24) e ritiene che l'es-senziale che egli ha da dire cominci là dove cessa la terapia e inizia lo sviluppo (25). Per terapia egli intende l'elaborazione del passato, per sviluppo l'individuazione. Jung definisce “ sintetico ” il metodo che usa

in questa seconda parte dell'analisi e ciò è sinonimo della capacità di vedere nei sogni e nelle fantasie la finalità e l'aspetto “ riconoscibile ”, per trovare così l'orientamento per il cammino della propria vita. Per restare nel nostro paragone con la saga e con la fiaba, possiamo dunque dire che la sostituzione della visuale riduttiva e l'adozione di quella sintetica equivale alla sostituzione dell' "atteggiamento da saga” con I' “atteggiamento da fiaba”. Vari autori si sono occupati delle difficoltà di questo passaggio, anche se non sempre come tema principale, ma come pro-blema secondario. Mi sembra che Plaut (26) e Newton/Redfearn (27) abbiano considerato le difficoltà essenziali, quando mettono in rilievo che gli individui che hanno un rapporto negativo con se stessi hanno difficoltà a fantasticare, ad aprirsi al futuro e a riferirsi al linguaggio simbolico dell'inconscio. In altri termini: manca loro l' “atteggiamento da fiaba” della fiducia e della franchezza, sono chiusi nel negativo “atteggiamento da saga” e rimuginano invece di chiedere semplicemente e di indagare il passato. Solo l' “atteggiamento da fiaba” della fiducia in-frange il “dominio del demoniaco”. Credo che all'inizio dell'analisi sia importante tener presente che non possiamo aspettarci dai nostri analizzandi un “atteggiamento da fiaba” e che non possono essere più usate neanche le possibilità dell' “atteggiamento da saga”. All'inizio dell'analisi “viviamo insieme” la negativa “esperienza da saga”, che si esprime nell'isolamento, nel sentirsi sopraffatti e nel rimuginare, e possiamo rintracciare solo con molta cautela II punto in cui si chiarisce il passato e si schiude il futuro. In alcune riflessioni appena abbozzate ho tentato di afferrare l'atmosfera dell'inizio dell'analisi. Dal “vaso”, che dapprima viene utilizzato gradualmente, attraverso il transfert e il controtransfert siamo arrivati al processo che all'inizio si presenta in modo analogo alla differenza tra saga e fiaba e che, semplicemente in quanto processo vitale, oscilla tra saga e fiaba, tra impossibile e possibile.

Trad. di LUCIA RISPOLI

(26) A. Plaut, “ Reflections about not being able to imagine ”, The Journal of Analytical Psychology, vol. 11, n. 2, 1966, pp. 113 ss. (27) K. Newton, J. Redfearn, “ Die Wirkliche Mutter und die Ich-Selbst Beziehungen ”, Zeitschrift fur Analytische Psychologie. vol. 9, n. 1, 1978, p. 3.

Psicologia analitica eterrorismo politico

Giuseppe Bartalotta, Roma

« Dolce rivoluzione, vorrei che le mie lacrime di donna sitrasformassero in pallottole ». Questa frase fu scritta sullafacciata di una scuola di Milano poco dopo la morte delleader politico Aldo Moro, evento che segna la fase piùacuta del terrorismo in Italia fino ad oggi. « Dolcerivoluzione, vorrei che le mie lacrime di donna sitrasformassero in pallottole ». Solo una stregamedioevale o una feroce Medea dei nostri giorni, un «animus negativo» come diremmo noi junghiani, avevapotuto desiderare di trasformare in un mezzo di morte lelacrime, questa espressione dell'anima umana che nellanostra cultura è stata assegnata per lo più alla donna,perciò un uomo che piange è così poco maschile. E poiun uomo che piange difficilmente avrebbe potuto spararele pallottole delle tante guerre e repressioni che hannoucciso miliardi di uomini nel corso della storia. Una frasedel genere, scritta da una donna, lascia atterriti,esterrefatti, ma anche inchiodati a un interrogativo: qualeè la « luce » di una simile ombra, di quale contraddizioneessa è un polo? Quando iniziai a scrivere queste note, misentii meno sicuro, rispetto a quando avevo propostoquesto

tema, di poter trattare un argomento così scottante;c'era veramente da prendere in considerazione un fe-nomeno che a tutta prima sembrerebbe frutto di unapatologia psicopatica più che di una dinamica umana estorica. In quel momento mi venne in mente una frase diJung che dice:« L'incontro con se stessi è infatti una delle esperienze piùsgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che ènegativo sul mondo che ci circonda. Ora la figura delDiavolo, giustamente, è una proprietà estremamentepreziosa e molto piacevole; in effetti fino a che erraall'esterno di noi, come un Icone ruggente, si sa dove sitrova il Male; egli è in quel demone personale che esiste dasempre sotto questa o quella forma.A mano a mano che aumentò la coscienza, il demonio èstato demolito dopo il Medio Evo. Ma al suo posto ci sonodegli uomini a cui noi siamo grati di cedere la nostraOmbra. Con quanta voluttà, per esempio, si leggono igiornali che riferiscono dei crimini. Un criminale inveteratodiventa un personaggio popolare perché egli alleggerisceconsiderevolmente la coscienza degli altri uomini, in quantoquesti sanno ora dove si trova il Male »(1).C'era in questa frase di Jung quanto era sufficiente aincoraggiamenti ad affrontare l'argomento.Prima di affrontare il discorso sul terrorismo in chiave didinamica psichica, sarà necessario accennare brevementeall'aspetto sociologico del problema. Anzitutto possiamoaffermare che il terrorismo è un fenomeno universale diquesti ultimi anni, esploso in Occidente in forme cruente diguerriglia, nel mondo comunista in forme di contestazioneculturale represse nei manicomi e nei lager. Dobbiamoperciò chiederci quando e come è nato il terrorismo e so-prattutto chi sono i terroristi.Per quanto concerne il quando, un anno di riferimento è il1968: la contestazione giovanile, che si era andatamaturando nella scuola e nelle aggregazioni politiche deigruppi giovanili, scopre che non ha senso riformare lascuola in una società giudicata malata e che è necessarioinvece scendere nelle

(1) C.G. Jung, «Gli archetipidell'inconscio collettivo»,Opere, 9, Torino, Boringhieri,1980, p. 19. Vedi ancheEranos Jahrbuch 1934,Zurich, Thein Verlag, 1935,pp. 87 e 200.

piazze per contribuire con gli altri a migliorare la « qualitàdella vita ». Nasce così quel tentativo di incontro deglistudenti, da una parte, con gli uomini di cultura (Marcuse,Adorno, Sartre), dall'altra con la classe operaia, tentativoche caratterizzò quel periodo sessantottesco.Tralascio qui, per brevità, ogni altra considerazione, mami preme sottolineare che la rivolta giovanile sicaratterizza anche per l'individuazione dei nuovi nemicida combattere, accanto al tradizionale padrone «capitalistico », che quasi passa in secondo ordine. Igiovani scoprono che l'alienazione non è solo quellamarxistica dello sfruttamento del lavoro e del << plusvalore » e che ben altre alienazioni esistono nella società,alienazioni prodotte da altri tipi di rapporti sociali, rapportiche, attraverso la religione, la famiglia e i mass mediacondizionano la libera realizzazione dell'uomo. Tutto ciònella rivolta giovanile costituirà una rivoluzione nellarivoluzione in quanto mentre fino a quel momento nellastoria le rivoluzioni erano state articolate in sensoverticale, era cioè una classe subalterna che si ribellavaad una classe egemone, ora l'individuazione dei « nuovinemici » avverrà all'interno delle classi stesse, in generele classi alte o medioborghesi. Ciò articolerà la lotta insenso orizzontale, all'interno delle classi stesse: avremocosì le lotte delle minoranze etniche, del femminismo,degli studenti, degli omosessuali, dei « diversi » di ognigenere.E poiché tutte le rivendicazioni che si andranno for-mulando dovranno necessariamente passare attraverso ilfiltro dell'organizzazione politica, si verificherà nell'uomoquella che i sociologi chiamano la « scoperta del privato »e cioè che il « privato è politica ». Tutto ciò nonsignificherà individualismo ma un nuovo uso della politicache, da ora in poi, accanto all'aspetto amministrativo eformativo della società, dovrà prendere in considerazionel'uomo con i suoi bisogni che appartengono alla sua sferapiù privata e quindi alla sua evoluzione come individuo.Jung, che come è noto, parlando del processo di indi-viduazione, aveva sempre paventato la dissoluzione

dell'individuo nella massa, sarebbe oggi certamente d'accordocon chi sostiene la necessità della « ricerca del privato » daparte del singolo, e dell'interesse della politica alla sua sfera «privata ».Dobbiamo ora accennare sul dove nasce il terrorismo.Nei regimi democratici-parlamentari dell'Occidente, come ènoto, il popolo è chiamato ogni 4-5 anni ad eleggere un partito oun gruppo di uomini che lo rappresenteranno politicamente neivari organi dello Stato. In tal caso il potere decisionale delcittadino per quanto riguarda le leggi che regolano la società, èaffidato ai politici. Il cittadino può certo far sentire la sua voce ela sua critica, ma i mezzi attraverso cui egli può esercitarequesti suoi diritti, (il voto, il partito, i mass media) sono in generemezzi controllati da quello stesso potere a cui la criticadovrebbe indirizzarsi. È questo certo un grosso limite dei regimidemocratici-parlamentari che solo in parte l'opposizione riesce acontenere, date le inevitabili collisioni esistenti tra maggioranzae opposizione. Con la rivolta giovanile nascono, o meglio, simoltiplicano quei gruppi in genere definiti anarchici o extra-parla-mentari, combattuti aspramente dalla politica ufficiale.Sarà proprio in questi piccoli gruppi che nascerà una nuovaopposizione al potere politico ed in genere la proposta di unanuova società sganciata dai valori fin qui perseguiti. In questigruppi extraparlamentari si formeranno le leve della clandesti-nità o del terrorismo. Ma chi sono i terroristi?La brevità entro cui sono costretto mi permette solo dianalizzare le caratteristiche più importanti e comuni a quasi tuttii terroristi, senza consentirmi di soffermarmi su interessantibiografie dei singoli.L'estrazione sociale del terrorista tipo è quella della mediaborghesia; sono in genere figli di funzionar! dello Stato, liberiprofessionisti, commercianti.Il loro quoziente intellettivo è decisamente superiore alla media;la cultura è di livello universitario, anche se in molti casi, percontestazione alla scuola, non

è stato conseguito il diploma di laurea, dopo aver superatobrillantemente tutti gli esami. In genere hanno ricevuto unasolida formazione religiosa in famiglia, in molti casi essiprovengono da esperienze religiose fatte nelle Parrocchieo in Istituzioni religiose.L'itinerario formativo del terrorista è perciò quello delgiovane proveniente dalla media e piccola borghesia: studiregolari, buoni voti, educazione religiosa, matrimonispesso consacrati in Chiesa, ideologia di tipo marxistico.Le donne terroriste, inferiori per numero, non sono peròaffatto inferiori agli uomini per abnegazione alla causa eardimento nella lotta. Ciò premesso diamo uno sguardoalle motivazioni psicosociologiche che un giovane puòavere nell'aderire a gruppi anarchici ed extra-parlamentari.Queste motivazioni si possono così sintetizzare:— il bisogno di liberazione da un sistema socioeconomicorepressivo che fonda la sua conservazione sull'uso deimass media, della religione, della scuola, della polizia;— un bisogno di esperienza individuale, al di fuori dellamassificazione e del consumismo. Tale esperienzaindividuale è sperimentata in genere nell'uso della droga enell'appartenenza a gruppi politici, comunità Hippies, ecc.;— l'adesione a una ideologia, in genere proiettata in unuomo-mito, la quale propugni un futuro di libertà e digiustizia sociale in cui ogni uomo possa realizzare sestesso;— una visione religiosa e totalizzante della vita, legata aduna rigida polarizzazione del bene e del male. La sceltarivoluzionaria trova, in tale visione rivoluzionaria, siacomponenti morali, come il bisogno di una giustiziauniversale, sia componenti più strettamente religiose,come il bisogno di un assoluto e di una appartenenzatranscendentale. Questo bisogno di religiosità è giustificatosoprattutto dalla secolarizzazione della Chiesa e dallarelativa perdita di valori religiosi che da una parte hasottratto al controllo sociale vaste fasce dì popolazionedall'altra

ha lasciato nell'uomo quel vuoto di religiosità, chesoprattutto i giovani hanno cercato di colmare, vivendolain nuove ideologie politiche o religiose (religioni e filosofieorientali, marxismo, maoismo, ecc.). Fatte questepremesse, necessariamente sommarie, sullecaratteristiche psicosociologiche del terrorismo, qualeipotesi noi junghiani possiamo fare su tale fenomeno?A mio parere scarterei le tematiche junghiane dell'ar-chetipo del Puer, che potevano interpretare in parte lepsicodinamiche della prima rivolta giovanile, ma che nonpossono più spiegare la lotta armata rivoluzionaria delterrorismo, soprattutto per le caratteristiche organizzativeche fanno del terrorismo tutt'altro che una rivoltagoliardica, lo penso che il terrorismo attuale è ipotizzabileda un punto di vista psicodinamico soprattutto nell'ambitodelle tematiche junghiane dell'Ombra, sia quelleriguardanti l'Ombra archetipica sia quelle riguardantil'Ombra personale. In Italia il terrorismo ideologico trovònell'Università di Trento uno dei capisaldi della suaorganizzazione teorica e rivoluzionaria. Trento è unatranquilla cittadina provinciale della più cattolica regioneitaliana:gente laboriosa, gentile, rispettosa dell'autorità e dei ruolisociali in genere. Nel 1545 Trento fu la sede del famoso“Concilio di Trento" che più tardi doveva dar luogo aquella grande risposta reazionaria, al mondorinascimentale, che fu la Controriforma. Nel 1962, pochianni prima di quell'anno cruciale della rivolta giovanile chefu il 1968, viene fondata a Trento l'Università di ScienzeSociali, sul modello della Kritische Universitat di Berlino.Questa Università di Trento, come si diceva, dovevasubito diventare il luogo più importante in Italia della con-testazione giovanile prima e del Terrorismo poi.Concilio di Trento, 1545, Università di Scienze Sociali .diTrento, 1962: Una concidenza storica? Una nemesi? Chipotrà dirlo!I primi e più importanti gruppi e relativi leaders ri-voluzionari si formarono proprio in quest'Università diScienze Sociali, intorno a quella « Controuniversità » cheCurcio, uno dei leaders della rivolta ar-

mata, organizzerà con altri. La « Controuniversità » o «Università negativa » era una contestazione ideologica incui venivano tenute lezioni e corsi che reinterpretavano informa critica le lezioni e i corsi regolari tenuti nell'Universitàdai professori. Per definire questa « Università negativa »cito una frase dello stesso Curcio:« Lanciamo l'idea di una Università negativa che riafferminelle Università ufficiali, ma in forma antagonista alle lezioniufficiali, la necessità di un pensiero teorico, critico edialettico che denunci ciò che gli imbonitori mercenarichiamano ragione » (2).Questa Università negativa, che vedeva nelle sue fila glistudiosi più diligenti, nasceva sulla scia di quella «controcultura » che visse nelle attività culturali undergroundi momenti culturali della rivolta giovanile. In quegli anni ognivalore della società fu contestato, non ci fu arte o culturaufficiale che non trovasse una contro-cultura o una contro-arte a mettere in crisi valori acquisiti, fenomeno questo chein ogni campo dette luogo, tra l'altro, al costituirsi diavanguardie, le quali, con le dovute eccezioni, hanno inmolti campi trasformato gusti e tendenze culturali dellasocietà. La Storia certo sistemerà molti giudizi su quellache fu la rivolta giovanile, come sempre scarterà il granodalla gramigna; ma come ieri di fronte alla rivolta giovanile,così oggi di fronte al terrorismo, l'uomo, quello che ha inmano i destini del mondo così come il comune uomo dellastrada, si è posto, si pone oggi in un confronto critico difronte al terrorismo, questa immensa Ombra che in alcunimomenti e in alcuni paesi soprattutto sembra travolgerlo?Ha saputo, sa oggi cogliere l'uomo da questa Ombra cheha di fronte, il messaggio, certo disperato, che essa puòcontenere? Ancora Jung mi viene in aiuto:« .. in realtà l'accettazione del lato d'ombra della naturaumana sfiora addirittura l'impossibile. Si pensi che cosasignifica accettare la giustificazione del l'esistenza di ciòche è irragionevole, di ciò che è assurdo e di ciò che èmale! Ma questo vuole l'uomo

(2) A. Silj, Mai più senzafucile, Firenze, Vallecchi,1979, p. 43.

moderno; vivere con quello che è; sapere che cosa è; ed èper far ciò che mette da parte la storia. Vuoi essere nonstorico, per vivere sperimentalmente e accertare qualevalore e significato abbiano le cose in sé, a prescinderedalla testimonianza dei presupposti storici » (3).Certo una vita che non tenga conto della Storia è unartificio che fa dell'uomo un alienato o una macchina che èlo stesso. E la Storia è quella dì sempre, è il frutto dellegrandi contraddizioni che non sono fuori dell'uomo e dellanatura, ma nell'uomo e nella natura stessa. Il Terrorismo,così come ogni altro Male che da sempre ha attraversato ilcuore e la mente dell'uomo, nasce e vive nell'uomo.Il Terrorismo, di cui stiamo parlando, è nato in questasocietà, non sul pianeta Marte, è nato nella classeborghese che è la classe dominante in Occidente, esso èmanipolato, con sofisticatissimi fili, da uomini senzascrupoli, i quali invisibilmente manovrano i gruppiterroristici, di cui non condividono affatto le ideologie, ma dicui si servono per mantenere nella società quellaconfusione che per loro è l'ambiente ideale ai loro intrighipolitici ed alla conservazione del loro potere.Cito qui Jung: « Primitiva o no, l'umanità sta sempresull'orlo di azioni che essa stessa compie ma non controlla.Per fare solo un esempio, il mondo intero vuole la pace, e ilmondo intero si arma per la guerra, seguendo il detto: si vispacem, para bellum. L'umanità non può nulla nei confrontidell'umanità, e degli dèi, come sempre, le additano la viadel destino. Oggi gli dèi sono chiamati " fattori ", nome chederiva da facere = fare. I " fattori " stanno dietro le quintedel teatro del mondo. È così, nelle cose grandi come nellepiccole. Per quanto riguarda la coscienza, siamo padroni dinoi stessi, sembriamo addirittura noi i " fattori "; ma sevarchiamo la porta dell'Ombra, ci accorgiamo con spaventoche di questi " fattori " siamo oggetto » (4). Un pessimismoquesto di Jung verso i grandi reggitori del mondo che cideve far riflettere trattando un argomento come questo.Se crediamo alla dinamica così come prospettataci

(3) C.G. Jung, « Psicoterapiae cura d'anime », inPsicologia e religione (0pere.11), Torino, Boringhieri, 1979,p. 324.

(4) C. G. Jung, « Gli archetipidell'inconscio collettivo », op.cit., p. 21.

(5) C. G. Jung, « Ueber denindischen Heiligen. Vorwort zuH. Zimmer:' Der Weg zum Selbst », G.W. 11, Olten, Walter Verlag,p. 14.

(6) C. G. Jung, «Interpretazione psicologica deldogma della Trinità>>, inPsicologia e religione, op. cit.,p. 175.

da Jung, al grande equilibrio del nostro sistema psichico doveogni espressione conscia o inconscia deve analogicamentecoesistere con il suo opposto in un continuo processo, ebbenedobbiamo anche credere che le stesse leggi degli opposticorrelati regolano la Grande Anima dell'umanità. Ricordo che iterroristi sono esseri umani, spesso tra i più intelligenti e colti, conun passato non certo diverso dagli altri per sentimento eformazione, e, ripeto, essi sono nati e vissuti tra di noi e piùspecificamente nella classe borghese. Certo forse essi saranno ipiù deboli psichicamente, ma forse proprio per questo i più vicinia quelle grandi verità dell'inconscio e delle sue leggi.Ancora Jung: « Impazzire non è un'arte. Ma estrarre saggezzadalla follia è senza dubbio il colmo dell'arte. La pazzia e nonl'intelligenza è la madre dei saggi » (5).« Estrarre la saggezza dalla follia », un compito questoardimentoso ma che, presuntuosamente o meno, è anche ilcompito di uno psicoterapeuta. Egli, uomo come gli altri, ha l'«esperienza della pazzia »; egli ogni giorno si pone di fronte allapazzia, non arbitro, ma partecipe delle grandi contraddizionidell'anima umana che producono spesso i sintomi della malattiamentale.Non diversamente dovremo porci di fronte al terrorismo, trovare ilcoraggio di un confronto, di un riferimento che ci coinvolga comeuomini e psicoterapeuti, incontrare il Grande Male che ciattraversa con la stessa umiltà con cui siamo costretti ad in-contrare ogni giorno la nostra ombra personale. Perché nonsappiamo, ed invece dobbiamo sapere qualcosa che sta nelgrande Male. Ci ammonisce Jung:« II Dio luminoso percorre il ponte uomo passando dal latodiurno, ma l'ombra di Dio, dal lato notturno. Chi deciderà inquesto tremendo dilemma, che minaccia di spezzare il poverovaso con terrori ed ebbrezze mai conosciute? Appunto larivelazione di uno Spirito Santo dall'uomo stesso. Come ungiorno l'uomo si rivelò da Dio, così quando l'anello si chiude,anche Dio può rivelarsi dall'uomo » (6).

Cercare Dio nel terrorismo, cercare la luce in un'Ombra cosìgrande in questo secolo di grandi interrogativi sul destinodell'uomo?Fiduciosi o meno, noi abbiamo il dovere di confrontarci conquesta grande Ombra che è il terrorismo. All'angolo di un ponte,nel cuore della vecchia Roma, c'è una lapide su cui è scritta unapoesia di una donna sconosciuta, a ricordo di una ragazza nonancora ventenne, Giorgiana Masi, uccisa in quel posto il 19maggio 1977, durante una manifestazione di giovaniextraparlamentari.Questa è la poesia:Se la rivoluzione di Ottobrefosse stata di MaggioSe tu vivessi ancoraSe io non fossi impotente di fronte al tuo nemicoSe la mia penna fosse la mia arma vincentecoraggio nato dalla rabbia strozzata in golaSe l'averti conosciuta diventasse la nostra forzaSe i fiori che abbiamo regalatoalla tua coraggiosa vita alla nostra mortealmeno diventassero ghirlandenella lotta di noi tutte donneSe...non sarebbero le parole a cercare di affermare la vitama la vita stessa senza aggiungere altro.

Se in questi puntini che seguono l'ultimo « Se » ciascuno di noi,uomini e donne, avesse scritto un suo atto di coraggio, unimpegno a un confronto ormai improrogabile, quella lapide,quella morte, più o meno simile a tante altre, sarebbe stataevitata. Certo queste mie povere parole non avrebbero oggialcun senso, se mai ne abbiano uno, perché la vita, quella veranon necessita di parole.

Jung e la nuova coscienza

Fred J. Blum, Hemel Hempstead

1.

Tema centrale nel pensiero di Jung è il passaggio da una modalità di coscienza dominata dall'inconscio collettivo alla personalità individuale. Questo passaggio caratterizza sia l'evoluzione del genere umano dalla participation mystique propria dell'uomo arcaico fino alla consapevolezza consciamente differenziata dell'uomo moderno, sia la crescita e lo sviluppo dell'individuo verso quella personalità che rappresenta il frutto del processo d'individuazione. Questo tema esprime così la spinta fondamentale del processo evolutivo. Jung si rende perfettamente conto della natura critica delle trasformazioni in atto nel nostro tempo. Parlo intenzionalmente del "nostro” tempo, anche se Jung è nato più di cento anni fa, e quindi le sue intuizioni creative 'precedono gli sviluppi dell'epoca attuale di una o due generazioni. Stando così le cose, è più che notevole che Jung abbia effettivamente previsto, più di mezzo secolo fa, la crisi del nostro tempo e le potenzialità — così come i pericoli —

2.

Jung fu il pioniere di una nuova consapevolezza di cui noi, che viviamo una svolta decisiva nella storia, possiamo scorgere con maggior chiarezza la struttura e le linee fondamentali. Al fine di rendere più fruibili le sue intuizioni, le esamineremo in un ampio contesto storico, indicando come Jung avesse già una visione precisa della natura e del significato della nuova coscienza che sta sorgendo ai nostri giorni. Lo schema 1 mostra due linee curve che arrivano a un punto di intersezione e di rottura nella nostra epoca. Una di queste linee abbraccia tutta l'era patriarcale; l'altra, più corta, inizia all'incirca dall'anno 1000, con il mondo medioevale, e si spinge fino al 1500, introducendo quella che definiamo normalmente epoca moderna, che parte dal Rinascimento, dalla Riforma e dall'Illuminismo, e culmina nella rivoluzione industriale. Chiameremo tale periodo, che si sta avvicinando alla sua fine, era postmedioevale.

che l'accompagnano. Ne rintracciamo un esempio nel suo saggio // problema psichico dell'uomo moderno (1). In questo lavoro, scritto nel 1928 e ampliato nel 1931, Jung ha perfettamente riconosciuto che “L'anima dell'Occidente si trova in una posizione inquietante”, affermando allo stesso tempo che siamo “ soltanto all'inizio di una nuova èra spiritualistica ” (2). Scosso dalla prima Guerra Mondiale, da lui vissuta come sintomo della morte di una civiltà, Jung riuscì a vedere attraverso i veli che proteggevano il mondo Occidentale dall'“ abisso ” che gli si apriva dinanzi. “ L'Occidentale vive nella nube vaporosa del suo autoincensamento, che deve impedirgli di vedere il suo vero volto ” (3). Queste parole, scritte mezzo secolo fa, profetizzarono la situazione della nostra epoca, in cui la “ nube vaporosa ” sta perdendo il potere di nascondere la realtà effettiva in cui ci troviamo.

(1) C.G. Jung (1928), “II problema psichico dell'uomo moderno ”, in // problema dell'inconscio nella psicologia moderna, Torino, Einaudi, 1971.

(2) Ibidem, pp. 292 e 297.

(3) Ibidem, p. 293.

Schema 1

modalità dì coscienza

La tabella che segue indica le caratteristiche della curva più corta del processo evolutivo, che costituirà l'argomento principale del nostro studio.

TABELLA 1

Modalità di coscienza mediovale

Modalità di coscienza postmedioevale

Coscienza della Nuova Era

simbolo

segno

sostanza forma

qualità quantità sintesi

emozione pensiero delle

soggetto oggetto caratteristiche

intemo esterno essenziali

spirito materia delle

anima psiche modalità di coscienza

gruppo individuo medioevale

valore fatto e

fede scienza postmedioevale

assoluto relativo

teleologia causalità

eternità del tempo

tempo misurabile

La modalità di coscienza medioevale era centrata sul simbolo, nel senso in cui Jung lo intendeva, cioè come espressione di una realtà di vita più profonda. Era un mondo diretto dall'interno e lo spirito aveva in esso un posto centrale. La coscienza dell'uomo era dominata dalla fede; intensa era l'esperienza della qualità e della sostanza delle cose. Il tempo era sentito più come eternità che come il movimento regolare di un orologio.

La nascita della modalità di coscienza postmedioevale relegò il mondo dell'età di mezzo al ruolo di una realtà secondaria o terziaria, e conferì un'importanza di primo piano a quegli aspetti del reale che il mondo medioevale aveva trascurato (4). La sostituzione del segno al simbolo è un'espressione drammatica del fenomeno, una trasformazione che mutò radicalmente l'intera visione del mondo dell'uomo occidentale. La coscienza fu identificata con una razionalità di cui il segno matematico, che definisce il mondo “reale” esplorato dall'uomo postmedioevale, è l'espressione più chiara. Questo era un mondo di fatti scientificamente osservabili — un mondo riducibile a calcoli quantitativi applicabili a corpi materiali che si muovono nello spazio esterno secondo un tempo misurabile. Questo mondo riduceva il senso di personalità alla psiche di un individuo isolato, e in esso la causalità sostituì la teleologia come modalità dominante per spiegare le relazioni tra gli oggetti. La nuova era in cui ci muoviamo risulta essenzialmente da una sintesi degli aspetti della realtà che furono primari nelle modalità di coscienza medioevale e postmedioevale. Tale sintesi equivale a una “ riscoperta ” di quanto venne trascurato nell'era postmedioevale, e a una attivazione della “ funzione trascendente ”, in grado di creare una nuova e più alta unità tra gli aspetti più autentici delle modalità di coscienza medioevale e postmedioevale.

(4) J. Locke, Saggio sul-l'intelletto umano, lib. Il, cap. 8.

3.

L'opera di Jung tendeva al superamento di un tipo di razionalità orientata essenzialmente sull'oggetto esterno, che relegava nell'ombra il mondo inferiore, e costringeva l'uomo postmedioevale in una situazione di “ primitiva incoscienza ” (5). La trasformazione derivante dal fatto che “ la coscienza moderna si è in parte ritirata dalle realtà materiali esteriori, per rivolgersi verso la realtà soggettiva inferiore ” (6), costituisce il bisogno fondamentale dell'uomo che definiamo “ moderno ”, e Jung notava che “ l'enorme accrescersi, nel mondo intero, dell'interesse per la

(5) C. G. Jung, op. cit., p. 277.

(6) Ibidem, p. 285.

(7) Ibidem.

(8) Ibidem, p. 291.

(9) Ibidem, p. 300.

(10) Ibidem.

(11) J. Locke, op. c;f., lib. Il, p. 1.

(12) C.G. Jung, op. cit., p. 277.

psicologia ” (7), avviatesi quasi mezzo secolo prima, diventa ai “ nostri ” giorni un fenomeno ovvio. Egli comprese con chiarezza che “ gli dèi che dobbiamo detronizzare sono gli idoli, i valori del nostro mondo cosciente ” (8). Jung non ha rifiutato le acquisizioni positive del mondo postmedioevale, come quella di un corretto approccio scientifico alla vita, ma ha compreso che il tipo di scienza che caratterizza la nuova era è totalmente differente dalla scienza dell'epoca postmedioevale. Egli si è riferito specificamente alla teoria della relatività di Einstein, come a un esempio della radicale trasformazione della nostra visione del mondo, che dal determinismo e dal materialismo tende a una nuova sintesi di spirito e materia, interno ed esterno, soggettivo e oggettivo, anima e corpo. Per Jung, l'anima è “ l'aspetto inferiore della vita del corpo ”, e il corpo è “ la rivelazione esteriore della vita dell'anima ” (9). Tema centrale nella vita di Jung fu proprio la ricerca di una nuova sintesi. Egli sapeva di dover ancorare tale sintesi allo sfondo universale dell'" unica ” psiche del genere umano, e affermò esplicitamente: “ In certo modo noi siamo parti di una grande anima unitaria... di un uomo unico, immenso ” (10). Una tale concezione della psiche è in stridente contrasto con quella di John Locke, il filosofo dell'età postmedioevale che riduceva l'anima a una tabula rasa, come una pellicola fotografica impressionabile dal mondo esterno. Locke presumeva che l'ambiente modellasse la psiche dei singoli individui secondo l'immagine della cultura cui appartenevano, e non a caso egli credeva che il sogno facesse parte di una realtà incompatibile e del tutto separata dal mondo fattuale oggettivo dell'uomo postmedioevale (11). La sintesi che Jung si sforzò di realizzare abbracciava le realtà essenziali del mondo postmedioevale e di quello medioevale, e il suo atteggiamento era teso a cogliere gli aspetti fondamentali di entrambe le visioni del mondo. Egli accettava di esse alcuni elementi e rifiutava quelli incompatibili con la “ conoscenza più alta e più vasta ” (12) di cui c'è bisogno

oggi. In particolare rifiutava le identificazioni collettive che sottendono la modalità medioevale di intendere la fede, l'assoluto, ecc.; ma allo stesso tempo, fu profondamente influenzato da alcuni aspetti del pensiero medioevale, come l'alchimia. Possiamo illustrare meglio la radicale trasformazione di coscienza implicita nella visione junghiana della realtà, riferendoci alla sua concezione della sincroni-cità. Uno degli esempi di sincronicità offerti da Jung nel suo saggio [13) è l'apparizione di uno scarabeo sulla finestra del suo studio nel momento preciso in cui una paziente gli parlava dello scarabeo d'oro comparso in un suo sogno come simbolo di trasformazione. Altri esempi si riferiscono alla precognizione di eventi che accadranno in un momento successivo, e alla conoscenza (per esempio, attraverso un sogno) di fatti che si verificano in altri luoghi. Gli esperimenti parapsicologici di Rhine (14) danno ulteriori illustrazioni dei fenomeni sincronistici. La caratteristica comune degli eventi sincronistici consiste nel fatto che essi “ relativizzano ” il tempo e lo spazio, nel senso che avvengono indipendentemente dalla nostra concezione di uno spazio tridimensionale e di un tempo unidimensionale (15). Essi relativizzano quindi l'idea che la realtà consista di oggetti che si muovono nello spazio — su cui si basa il principio di causalità — in altre parole viene rela-tivizzato il principio guida che regola la comprensione dei fenomeni nel mondo postmedioevale. La sincronicità indica infatti " un principio di nessi acausali ”, e apre alla nostra comprensione una realtà che l'uomo postmedioevale non poteva afferrare, ma che era viva nella visione del mondo medioevale. Jung ha penetrato questa realtà con l'aiuto degli strumenti empirico-scientifici del mondo postmedioevale usando ancora una volta il metodo sintetico che caratterizza tutta la sua attività. Il principio sincronistico ci schiude una nuova immagine della realtà, intesa come un ordine globale dotato di un significato profondo, capace di rivelarsi nella coincidenza di eventi interni-soggettivi-perso-nali ed eventi esterni-oggettivi-universali. In questo

(13) C.G. Jung (1952), “ La sincronicità come principio di nessi acausali ”, in La dinamica dell'inconscio, Opere voi. 8, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 447-550.

(14) Ibidem, pp. 461, 469, 503, 541 e ss.

(15) Ibidem, p. 485 (archetipo dell'ordine), p. 475 (coincidenza di significato).

modo si realizza l'unificazione di una visione del mondo centrata sugli aspetti esterni e oggettivi della vita e di quella che invece si riferisce agli aspetti interiori e soggettivi.

4.

La natura sintetica della nuova coscienza si esprime in diversi modi. Il fatto stesso che essa risulta dalla sintesi delle visioni del mondo medioevale e post-medioevale, indica la sua comprensività. Ma dato che la visione medioevale del mondo è, nella sua stessa struttura, affine a quella del mondo Orientale, la nuova coscienza equivale anche a una sintesi di molti aspetti delle dimensioni di coscienza orientale e occidentale. Non è neanche necessario ricordare l'importanza che Jung attribuiva alla comprensione dell'Oriente. Se guardiamo nuovamente la tabella 1, possiamo capire quali trasformazioni fondamentali siano necessario per l'unificazione delle caratteristiche principali della coscienza medioevale e di quella post-medioevale. Aspetti della realtà che sono stati finora percepiti come opposti, mentre non esprimono altro che le diverse visioni del mondo, vanno riunificati in una nuova totalità realizzabile solo quando nella nostra psiche si verificano due movimenti: 1) un movimento verso il profondo, dove rintracciamo la realtà archetipica universale; 2) un'ulteriore dif-ferenziazione della coscienza. II movimento nel profondo equivale a un avvicinamento a quella realtà che, sebbene universale, si manifesta con varie modalità nei diversi stadi del processo evolutivo e nelle differenti culture. Potremmo dire che ci muoviamo verso le fondamenta universali al fine di realizzare delle visioni del mondo storicamente e culturalmente diverse. Senza questa discesa nel profondo non è possibile ottenere una nuova sintesi, ma soltanto un miscuglio di vari aspetti di culture diverse. Jung ci ha ripetutamente messo in guardia dalla pura e semplice accettazione della

visione del mondo orientale senza integrarla nella nostra tradizione occidentale. Un falso pluralismo, da una parte, e un'unità monolitica, dall'altra, costituiscono i pericoli reali in un periodo di fondamentale trasformazione della coscienza, che pone il compito di una nuova e più alta unità tra gli opposti medioevale-postmedioevale e Oriente-Occidente. L'unità della nuova coscienza è multidimensionale. Questa sua caratteristica indica la necessità di ar-monizzare le diverse dimensioni simbolo-segno, qualità-quantità, interno-esterno, riconoscendo il loro vero significato universale, e questo è possibile solo nel momento in cui si verifica la differenziazione tra ciò che è universale, e quindi eterno e senza tempo, e ciò che è collegato al tempo e alla cultura e, perciò, unico. La chiave per comprendere la struttura e la dinamica della nuova coscienza è data proprio da una simile differenziazione, resa possibile e attuale dalle intuizioni della psicologia del profondo. Fino ad ora la realtà universale e le sue espressioni particolari sono state spesso confuse tra loro. Storicamente o culturalmente, al fenomeno unico veniva attribuita una validità universale; cioè, si conferiva una sanzione assoluta e universale alle verità parziali delle diverse intuizioni scientifiche o religiose. Per quanto riguarda il mondo Occidentale, il legame tra cultura e tempo (sintesi di Roma, Atene e Gerusalemme) che costituisce un aspetto essenziale della Cristianità, era intrecciato con i suoi aspetti universali e atemporali in un modo che sanzionava il legame stesso tra tempo e cultura, dandogli un significato universale. Nella nuova coscienza possiamo operare una distinzione tra il nucleo e l'essenza universale di ogni manifestazione vitale e le espressioni storicamente, culturalmente e personalmente determinate della realtà archetipica universale. Questa differenziazione favorisce un nuovo processo dinamico di sviluppo: differenziare l'universale da ciò che è unico (storicamente, culturalmente e personalmente) schiude la via verso la fonte o centro della vita. La nuova totalità

comporta quindi un nuovo centro in ciò che è essen-zialmente e universalmente umano, il che equivale a essere centrati nel nucleo divino della nostra vita e della vita in genere. Parlando di un centro universale, intendiamo dire che la realtà universale e profonda della vita ha una sua struttura, un suo modello e un suo ordine. La sincronicità ci fa capire che questo ordine ha un significato che trascende gli eventi della vita quotidiana, che sembrano spesso esserne privi. Inoltre, la sin-cronicità rende evidente che il senso del nostro destino, della nostra vita personalmente unica, è intrecciato con una realtà ultima e transpersonale: esiste una connessione tra il soggettivo e l'oggettivo, tra l'interno e l'esterno, tra l'universale eterno e il personale unico. Grazie alla prospettiva della nuova coscienza possiamo comprendere questa intima con-nessione senza identificare l'universale con l'unico. Possiamo avere coscienza di noi stessi come mèmbri di un gruppo particolare, di una specifica cultura o civiltà; possiamo essere consapevoli della nostra unicità personale, e anche renderci conto delle peculiarità di altre epoche e delle altre civiltà. Una tale coscienza si radica nel suolo universale della vita, e conduce a una relazionalità nuova e più profonda. Tutto ciò è necessario affinché la nuova totalità sia una vivente realtà di esperienza. Per comprendere questa nuova totalità dobbiamo oc-cuparci di un'ultima caratteristica della coscienza che sta emergendo. Nello schema 1 ho mostrato come nella nostra epoca vadano a confluire due movimenti distinti: la fine dell'era postmedioevale e quella di un'epoca più lunga, l'era patriarcale. Oggi stiamo riscoprendo il significato del femminile. Esso svolge un ruolo importante nella psicologia di Jung, e non è un caso che Neumann abbia visto nelle sculture di Henry Moore una riemergenza dell'archetipo femminile. Questo sviluppo rende possibile raggiungere una nuova unità tra maschile e femminile, in una sintesi più alta e profonda. La nuova totalità si basa sul riconoscimento dei principi universali maschile e femminile, e su una chiara differenziazione tra ciò

che è maschile e femminile in senso universale e ciò che è considerato maschile e femminile nelle culture e nelle civiltà particolari. Tutta l'opera di Jung è permeata dal tentativo di dare un nuovo significato al femminile — dopo millenni di dominio patriarcale. La trasformazione resa necessaria dal riconoscimento del femminile e dalla sua unione paritetica con il maschile, insieme alla trasformazione essenziale per giungere all'unificazione del mondo medioevale con quello postmedioevale, ci danno la misura della difficoltà di quell'ulteriore trasformazione indispensabile perché le potenzialità di una nuova era dello sviluppo umano diventino realtà in una nuova coscienza.

5.

Per concludere, devo sollevare un'ultima questione. Cosa significa per la psicologia junghiana la nascita della nuova coscienza? Il costante aumento di interesse per l'opera di Jung indica chiaramente che il nostro tempo attribuisce una grande importanza al suo messaggio. Il suo pensiero ha infatti aperto una nuova era dello sviluppo umano. Ma, come Jung ha maturato le sue idee nel corso di tutta la sua vita, così noi che lo seguiamo abbiamo l'obbligo di portare avanti le intuizioni che egli ci ha trasmesso. In questo scritto non posso che indicare brevemente la direziono di tale sviluppo. Esso richiede innanzi tutto un riesame dei concetti di archetipo e di inconscio, usati da Jung in varie accezioni, che ora occorre sistematizzare con maggior chiarezza. Credo che sia anche necessario operare una nuova distinzione tra la struttura universale ed eterna (e quindi archetipica, nel senso in cui Jung si riferiva alla struttura cristallina, e non nel senso di emozione indifferenziata) e le diverse manifestazioni, legate al tempo e allo spazio, della realtà universale. Anche se la visione del mondo fondata sulla comprensione causale di corpi materiali che si muovono nello spazio esterno è inadeguata, gli esseri umani non vìvono

soltanto nella realtà di un significato, di un ordine che è al tempo stesso cosmico e unico. L'eterno-universale interagisce con la realtà spaziale (nazioni, culture, società diverse) e con quella temporale (diversi stadi di sviluppo umano). Si fa perciò imperativo il bisogno di distinguere, con maggior chiarezza di quanto abbia fatto Jung, tra un inconscio collettivo che possiamo definire umano, e l'inconscio collettivo sociale, determinato storicamente e culturalmente. Nel processo di tale differenziazione, le intuizioni junghiane possono servire da base per una comprensione più estensiva, e in questo senso più integrata, della psiche e della comunità umana. Dato che Jung è penetrato nel profondo di questa nuova coscienza, le sue idee possono fornire il quadro di riferimento in cui inserire anche intuizioni di scuole diverse che, a causa della limitatezza dei loro punti di vista, non offrono una struttura per l'integrazione. La nuova era si caratterizza come era dello Spirito Santo; per questo il principio integrativo finale, teso a un'ulteriore differenziazione e alla realizzazione di una psicologia junghiana più comprensivamente integrata, sarà rappresentato dalla realtà cosmico-universale di quello Spirito che conferisce alla vita unità e un significato ultimo, ma che si esprime in un numero infinito di modalità personalmente e culturalmente uniche. Tale Spirito trascende la manifestazione degli archetipi, in quanto emana da quella fonte universale ed eterna della nostra vita che Jung ha sperimentato personalmente (come si può vedere nella sua autobiografia) ma che, come medico che viveva in un mondo scientifico postmedioevale, non poteva porre quale pietra angolare dei suoi scritti. Egli ha accettato coscientemente le limitazioni di un empirismo incapace di rendere giustizia al tutto, e perciò al nucleo essenziale del suo essere, ma il significato della sua opera potrà realizzarsi completa-mente nella nuova coscienza.

Trad. di GIANNI BALDACCINI

Training analiticoe trainingdei guaritori Xhosa

M. Vera Buhrmann, Gansbaai

Negli ultimi cinque-sei anni ho condotto una ricerca sulletecniche terapeutiche degli amagqira, guaritoriappartenenti a una popolazione sudafricana di linguaXhosa, che risiede in una zona a sud est del Capo e faparte della nazione Nguni (1). Il mio interesse è limitato aun piccolo gruppo che vive in una area rurale, ma esercitaanche nei villaggi circostanti. In particolare mi riferirò aquelle persone che fanno uso esclusivamente di tecnichepsicoterapeutiche, senza prendere in considerazione tuttele varie modalità divinatorie (erboristi, lanciatori di dadi,ecc.) (2). Su questo gruppo è stato fatto uno studioapprofondito. Scopo della mia relazione è illustrare il tipo ditraining cui vengono sottoposti i futuri amagqira, ancheattraverso la descrizione di una delle numerose cerimonieche si svolgono nel corso di un processo lungo, difficile,costoso, che richiede all'individuo un notevole grado disacrificio personale. Alcuni dei loro concetti e dei lorometodi verranno poi confrontati con quelli della psicologiaanalitica.Saranno esaminati brevemente i seguenti aspetti:1. La cosmologia Xhosa e il ruolo degli antenati nella

salute e nella malattia.2. La malattia iniziale, thwasa, che spinge l'indivi-

(1) W. D. Hammond-Too-ke.The Bantu - speaking peoplesof Southern Africa, London,Routledge & Kegan Paul, 1974.

(2) M. Vera Buhrmann, “ Xhosadiviners as psychotherapists ”,Psychoterapeia, 3, 4, 1977, pp.17-20.

duo a rivolgersi a un igqira esperto per il trattamentoterapeutico e, in certi casi, anche per il training.

3. Descrizione di una cerimonia per illustrare alcuni punti.4. Dinamica del transfert e del controtransfert.

(3) M.-L. von Franz (1975),Le fiabe interpretate, To-rino, Boringhieri, 1980.

Cosmologia

La loro visione del mondo può essere definita olistica. GliXhosa, infatti, distinguono solo scarsamente le esperienzee le malattie fisiche da quelle psichiche. Natura e spiritonon sono nettamente differenziati, e ciò implica quellapartecipazione cosmica che sembra essere unacaratteristica tipica di un basso livello di culturalizzazione.Per il mio scopo è essenziale comprendere il ruolo degliantenati. Nella letteratura si parla anche di ' ombre ' o di 'morti viventi ', ma per ragioni psicologiche mi sembra piùappropriato il termine ' antenati ' perché denota un tipo dirapporto che assume molta importanza nel contesto delmio discorso. Gli antenati sono i mèmbri deceduti dellafamiglia o del clan, vivono nei dintorni della casa epartecipano intimamente all'esistenza dei parenti ancora invita. Gli antenati possono manifestarsi in molti modi, siacome esseri umani, conosciuti o sconosciuti, sia comeanimali, domestici o selvaggi. Secondo von Franz (3), nellefiabe e nelle leggende gli animali sono esseriantropomorfici — animali ed esseri umani nello stessotempo. Tutti gli eventi naturali sono visti comemanifestazioni dell'attività degli antenati, i quali possonoagire anche nel corpo umano, provocando sensazionipiacevoli o disturbi. Essi comunicano con i vivi soprattuttoattraverso i sogni, ma si può entrare in contatto con loroper mezzo di un gran numero di rituali e cerimonie. Unmetodo usato comunemente è la preparazione e l'usorituale di una sostanza chiamata ubulawu, un estrattovegetale che viene battuto fino a formare una schiumabianca, che poi viene bevuta e spalmata sul corpo. Unaltro rituale comune è la preparazione e l'assunzione di

birra. Cerimonie sacrificali o di altro tipo sono importantima meno frequenti.“ II profumo di ubulawu e l'aroma della birra attirano gliantenati. Noi sacrifichiamo agli antenati perché ciinsegnino a distinguere ciò che è giusto e ciò che èsbagliato ”.In complesso gli antenati sono mentori benevoli eprotettori, ma possono anche offendersi se non vengonosoddisfatte le loro richieste o se non si obbedisce alle loroingiunzioni. In questo caso essi ritirano la loro protezione,abbandonano l'individuo e la sua famiglia a ogni tipo didisgrazie, malattie e agli effetti della stregoneria. Diventaallora particolarmente importante l'osservanza dellenorme connesse al culto degli antenati e di quelle cheregolano la vita sociale.C'è poi un secondo gruppo di antenati che non hannolegami specifici con la famiglia o con il clan: sono gli 'spiriti della foresta ' e gli ' spiriti del fiume '. Questi ultimihanno un'importanza particolare per il mio studio. Essivivono sotto l'acqua, sono bianchi, hanno lunghi capellibiondi, allevano bestiame e svolgono attività agricoleproprio come i vivi. Accanto a questi ' spiriti ', vivono sottol'acqua anche degli antenati animali, tra cui il serpenteichanti. Gli spiriti del fiume hanno le stesse caratteristicheumane degli antenati del clan, sono molto potenti,numinosi e incutono timore. Sembra che siano loro iprincipali responsabili, anche se non i soli, della malattiathwasa che spinge a intraprendere il training per acquisirel'arte terapeutica dell’igqira. E infatti così si dice: “ Ti seiammalato a causa della foresta e del fiume, ma molti dinoi hanno la malattia del fiume ”. Nella descrizione dellacerimonia vedremo come interagiscono questi due gruppidi antenati e come l’igqira svolga una funzione dimediazione tra i vivi, gli antenati della famiglia e gli spiritidel fiume.

Thwasa

Tutti gli amagqira passano attraverso una malattia inizialechiamata thwasa, che però colpisce anche

(4) Axel-lror Berglund, Zuluthought - patterns andsymbolism, London, C.Hurst & Co., 1976, p. 136.

altre persone che non porteranno a termine il training. (Sideve precisare che, soprattutto nei primi stadi deltrattamento, non sempre è 'possibile distinguere tra terapiae training).Molti ricercatori e psichiatri hanno visto nella malattiathwasa, in base alla sua sintomatologia, una sindrome ditipo schizofrenico, ma in realtà essa può essere valutata ediagnosticata in modo appropriato solo nel contesto dellacosmologia Xhosa. Normalmente si manifesta come unacrisi che coinvolge l'intera modalità esistenzialedell'individuo e sembra essere un processo didisintegrazione che permette successivamente unareintegrazione a un livello diverso.Il disturbo può assumere varie forme, ma in genereprovoca irritabilità e chiusura, oltre a una gran quantità disogni incomprensibili che disturbano il sonno. Il malato faanche esperienza di allucinazioni uditive, ma queste “nascono dentro di me — dagli antenati ”.I malati sono irrequieti, abbandonano la loro casa pergirovagare, trascurano il loro aspetto fisico e lamentanoanche sintomi somatici di vario tipo. Nella cosmologiaXhosa tutto ciò è dovuto a un cattivo rapporto tral'individuo e gli antenati. I sogni sono descritti come oscurie spaventosi: “ Comprendiamo gli altri sogni, ma questinon sono noti a nessuno ” (4). Una persona che si trovi inqueste condizioni viene portata da un igqira per una visitadiagnostica {vumisa] e può accadere che si tratti dellamalattia thwasa. Questa è associata con il vissuto di “essere chiamato dagli antenati per diventare il loro servi-tore... per realizzare i loro desideri... e 'per diventare ciòche devi diventare ”.La parola thwasa significa alba: è l'inizio di un nuovogiorno, la comparsa della luna nuova o di una nuovacostellazione celeste.Generalmente c'è una notevole resistenza ad accettare unadiagnosi di thwasa e non è raro che venga consultato unaltro amagqira perché ne dia conferma. Essa richiede ungrande impegno e molti sacrifici sia dalla personadirettamente interessata che dai suoi familiari. “ Anche iparenti devono accettarla, poiché non riguarda solol'individuo ”.Il malato e i suoi familiari possono tergiversare finchévogliono, ma se chi è colpito da thwasa non si adegua aidesideri degli antenati, può verificarsi un aggravamentodelle sue condizioni e addirittura la morte. Uno di loro hadescritto la sua esperienza come “ una lotta con gliantenati... fino a che ho dovuto arrendermi alle lororichieste ”. Se e quando la diagnosi viene accettata, ilmalato lascia la sua casa e va a vivere con l’igqiraprescelto per iniziare il trattamento e il training.

Trattamento/training

II trattamento è lungo e complesso e se Io scopo non èsoltanto la liberazione dai sintomi ma anche il trainingcompleto, può durare dai tre ai cinque anni. Comprendeterapie localizzate, applicazione di medicamenti,interpretazioni dei sogni, cerimonie, sacrifici e danze rituali.Altrove ho descritto alcuni di questi sogni (5) e danze (6).La terapia e il training hanno in comune il primo degli scopisotto elencati, gli altri riguardano la situazione di training:1. Riportare la persona in piena salute.2. Imparare a comprendere ciò che gli antenati hanno da

dire di loro stessi e di coloro che cercano il loro aiuto,specialmente attraverso la comprensione dei sogni.

3. Apprendere l'arte della diagnosi (vumisa); conoscere lecause del problema e consigliare metodi correttivi.

4. Imparare a eseguire le istruzioni degli antenati perquanto riguarda i messaggi onirici, le cerimonie e irituali in generale, inclusi i sacrifici animali.

5. Imparare a conoscere i rimedi vegetali, le usanze e lecredenze culturali e imparare a utilizzarli.

6. Arrivare a “ comprendere adeguatamente la propriamalattia ed essere pronto a portare a termine il training”.

(5) M. Vera Buhrmann, “Tentative views ondream interpretation ofXhosa diviners ”, Journalof Analytical Psychology,23, 2, 1978, pp. 105-120.

(6) M. Vera Buhrmann, “Intlombe and Xhentsa:A Xhosa healing ritual ”,in corso di stampa sulJournal of Analytical Psy-chology.

7. Sperimentare personalmente tutte le tecniche ditrattamento: “ nessuno può applicare agli altri unaprocedura a cui non si sia egli stesso sottoposto ”.

8. Lo scopo più importante è forse quello di rafforzarel'allievo e aiutarlo a trovare una modalità di esistenzache gli permetta un rapporto costante con le ombresenza avere disturbi psichici. “ Si deve essere forti peraccogliere ciò che gli antenati hanno da dire —dobbiamo prendere medicine per diventare forti ”.

Descriverò ora in dettaglio una cerimonia per illustrarealcuni aspetti di questo complesso programma.

La cerimonia del fiume

È questa la prima cerimonia che viene celebrata perl'allievo, ma generalmente è preceduta da un lungoperiodo di trattamento consistente in terapie, medi-camenti, discussione dei sogni e sedute xhentsa (danza).Così si è espresso un igqira:“ Quando una persona affetta dalla malattia thwasareagisce bene al trattamento, io l'accompagno a casadove si discute con i familiari del suo futuro training... Sericevo i messaggi appropriati dai miei antenati e se i suoifamiliari sono d'accordo sul training, il primo passo è lacerimonia del fiume... Decideranno loro stessi il momentoin cui sono pronti a recarsi al komkhula, al ' GrandeLuogo ', il luogo in cui vivono gli antenati del fiume ”.Viene decisa una data e al momento fissato l'allievo tornaa casa per aiutare i familiari nei preparativi necessari,perché “ anche lui deve metterci mano ”. La cerimoniadeve essere celebrata sulla sua terra perché riguarda lui,la sua famiglia, i loro antenati e gli spiriti del fiume,chiamati anche Antenati del fiume. I preparativi servono a“ fare in modo che gli antenati della famiglia venganoaccettati dagli Antenati del fiume ”.La cerimonia vera e propria dura tre giorni. Il primo

giorno l’igqira e gli altri suoi pazienti ed allievi si recano inuna capanna destinata a loro uso esclusivo e lì compionoil lavoro principale del giorno, ossia la preparazione dellabirra di sorgo. Tutto ciò viene fatto nella loro capanna,secondo regole molto precise e sotto la supervisionedell'igqira.Il capo del villaggio metterà nel recinto del bestiame, nelpunto in cui gli antenati della famiglia amano trattenersi,un secchio contenente la birra, che resterà lì per tutta lanotte.“ La schiuma che si è versata sulla terra, sul letame, è ilsegno che gli antenati hanno accettato la mia missione. Ilpiù vecchio degli antenati verrà allora nella mia capannaper mettersi in rapporto con i miei antenati e cooperarecon loro nel lavoro di training ”.Questa birra viene poi usata per preparare quella chesarà offerta a tutti i partecipanti. È necessario che a farlosia una “ una figlia di casa ”, e non una moglie esterna,poiché deve avere gli stessi antenati del paziente. Labirra viene quindi posta nell'edificio principale delvillaggio, di fronte alla 'porta, nel luogo speciale degliantenati (entla), sopra al letame preso dalla stalla, “poiché gli antenati amano il calore e il benessere delletame ”.Il paziente rimane con i suoi familiari e non può entrarenella capanna dell'igqira.Il terzo giorno, prima dell'alba, una processione si avviaverso il fiume. Il gruppo è generalmente formato daquattro persone: due uomini e due donne, l’igqira o il suoassistente più anziano, uno dei suoi allievi e due parentidel paziente. Con le facce dipinte di argilla bianca, con icorpi ornati di perline bianche e a capo coperto,camminano in fila e in assoluto silenzio verso un puntopreciso, portando le loro offerte agli spiriti del fiume. Leofferte consistono di un piccolo recipiente di birra mista aubulawu, perline bianche, semi di zucca e di caravazza,semi di sorgo, tabacco e fiammiferi. I doni vengono gettatiin acqua — nel punto più profondo del fiume — uno pervolta, secondo un ordine prestabilito. Poi viene osservatocon grande concentrazione il loro mo-

vimento sull'acqua poiché esso esprime l'atteggiamentodegli spiriti del fiume — rifiuto o accettazione eapprovazione.Il gruppetto si affretta quindi verso il villaggio per riferirequanto è accaduto prima che sorga il sole. Il resocontodeve essere fatto nell'enkudla, lo spazio tra il cancellodella vaccheria e la porta della capanna principale, ossiain presenza degli antenati. Fino a quel momento hannotutti osservato un assoluto silenzio.Se l'esito è favorevole, cioè se gli spiriti del fiume hannoaccettato il nuovo allievo, l'evento viene celebrato esanzionato con l'assunzione rituale di birra. Gli antenativengono serviti per primi versandone un po' in terra, poiciascuno dei presenti prende un sorso dal recipiente chepassa in cerchio dall'uno all'altro.Poi viene dipinta di bianco anche la faccia del nuovoadepto, che si unisce al gruppo nella capanna dell’igqira.Nel frattempo sono arrivati altri amagqira con i loro allievie pazienti. Tutto il gruppo partecipa quindi a unadiscussione e a una seduta didattica sugli eventi dellamattina. Successivamente si recano tutti nella capannaprincipale del villaggio, dove si svolge un intlombe, ossiauna danza accompagnata da canti, suono di tamburi ebattere di mani.In uno stadio successivo del training la cerimonia delfiume viene ripetuta con alcune varianti, la più importantedelle quali è il completo isolamento dell'allievo per 36 ore,allo scopo di stimolare la ' meditazione ', cioèl'introversione della libido. " Tuttavia, prima che vengacelebrata questa cerimonia, egli deve aver acquistato unacerta forza ”.

Discussione

Ci sono molte analogie tra quanto abbiamo riferito e alcuniconcetti della psicologia de! profondo, e in particolaredella psicologia analitica. Gli Xhosa, infatti, sirappresentano le forze e le immagini dell'inconsciopersonale e collettivo con le figure degli antenati:l'inconscio personale con gli antenati fami-

liari e l'inconscio collettivo con gli antenati del fiume e dellaforesta.La persona colpita da thwasa è un individuo emotivamentedisturbato, che si trova in una situazione di vita intollerabile.Nella cultura occidentale questo può spingere l'individuo aricorrere alla psicoterapia e all'analisi per tentare di usciredal suo disagio inferiore. Il paziente Xhosa consulta unigqira, il quale gli dirà che “ è chiamato dagli antenati perservirli... per imparare a comunicare con loro... e acomprendere i loro messaggi ”.Questa formulazione ha una grande importanza poiché daun senso alla sua sofferenza e alla sua vita. Indica anche ilsuccessivo sviluppo e la direzione futura della suaesistenza. Tutto questo concorda con l'idea junghiana delvalore positivo da attribuire alla nevrosi.La resistenza alla diagnosi fatta dall'igqira non è diversa daquella dell'occidentale di fronte all'analisi, cioè allanecessità di fronteggiare il proprio inconscio e i propri latiombra. Un nostro informatore ha espresso moltochiaramente il problema:“ Anche se è una battaglia, tu la combatterai, perché nonappartieni a tè stesso ma all'antenato ”.Non è facile obbedire poiché normalmente ciò porta acambiamenti radicali nello stile di vita (7). E anche gliXhosa sono consapevoli che tutto ciò non è esente dapericoli (8). Senza una costante “ meditazione sugliantenati ”, cioè senza introversione e attenzione rivolta almateriale inconscio, proprio e degli altri, non c'è alcunapossibilità di divinare, di mediare e guarire veramente.Però, “ se non si hanno le medicine per diventare forti, lameditazione porta alla malattia e anche alla follia ”.Come nell'analisi, la comunicazione con l'inconscio avvieneattraverso il medium dei sogni. In entrambi i casi contasoprattutto la comprensione e l'accettazione. Nella culturaXhosa, come in altri popoli negri del Sud Africa (9), èparticolarmente accentuata l'obbedienza agli antenati.Nella situazione di training il problema del transfert e delcontrotransfert è affrontato attraverso il con-

(7) M. Vera Buhrmann, “ Thehealt cure of an iggira(indigenous healer) ”, inPapadopoulos e Saay-man (acura di), Contemporaryapproaches to JungianThought, South Africa, A.D.Donker, 1980.(8) Axel-lvor Berglund, op.c/t., p. 128.

(9) M. Vera Buhrmann, “ Theinner reality of the Black manand his criminalresponsability ”, S. Afr. med.J., 1980.

cetto di “ antenati animali ”: “ i nostri animali devonocollaborare ". Ogni igqira ha un suo animale particolare eanche l'allievo ne acquista uno, di solito a partire da unsogno. Questi animali hanno la funzione di spiriti guida,allo stesso modo di Mercurio. Ci è stato riferito che unapersona abbandonò il trattamento “perché i nostri animalinon colla-boravano pacificamente ”. Era chiaramente uncaso di transfert negativo.Scopo della cerimonia del fiume è consultare le potenzedell'inconscio collettivo. Questa persona è accettabile, èpronta per un confronto più profondo con le immaginiprimordiali? Ciò non avviene fino al momento in cui,secondo il giudizio del medico, il paziente non sia pronto,cioè guarito e sufficientemente integrato. L'igqira ha varimodi per dare tale valutazione, ma per il giudizio finaleaspetta il parere che gli antenati gli comunicano in sogno.I tré giorni della cerimonia sono ricchi di simbolismo e dicomportamenti simbolici, ma mi limiterò al rapporto tra gliantenati del medico e quelli del paziente, e al lororapporto con gli antenati del fiume.Con la preparazione rituale della birra nella capanna cheè diventata la sua dimora temporanea, l’igqira evoca isuoi antenati. Attraverso questa attività simbolica egli èintensamente concentrato sul proprio stato mentale e suquello dei suoi pazienti. Il fatto che una certa quantità dibirra venga offerta dal capo del villaggio agli antenati cherisiedono nel recinto del bestiame, indica ilcoinvolgimento di tutta la famiglia e la richiesta agliantenati di dare il loro aiuto a quanto si sta svolgendo. Gliantenati danno una risposta simbolica — la schiuma chesi sparge sul terreno coperto di letame indica che essihanno bevuto la loro parte e sono pronti a offrire il lorosostegno.“ II più vecchio dei loro antenati verrà allora nella miacapanna per mettersi in rapporto con i miei antenati ecooperare con loro nel lavoro di training ”. Sembra cioèche a livello interpersonale si sia stabilito un transfertintenso ed elaborabile.Tuttavia si deve ancora consultare l'inconscio arche-

tipico — gli spiriti del fiume — e confrontarsi con esso. Maquesto può avvenire solo prendendo misure speciali: i voltidi coloro che si recano al fiume devono essere coperti diargilla bianca, per non “ spaventare ” gli spiriti del fiume,che sono appunto bianchi. Ma c'è qualcosa di più: non ci sipuò avvicinare alla divinità a volto scoperto e non si puòguardarla negli occhi. La faccia dipinta di bianco e leperline bianche possono anche indicare una forma diidentificazione con i bianchi spiriti del fiume. Wosien (10),in The Sacred Dance, scrive:“ II corpo dipinto significa una trasformazione dinamica; ilcorpo, come involucro ornamentale, come sede del potere,come dimora di Dio, è sacro. II corpo è spesso coperto omascherato, essendo la sede del potere... Assumere unaltro volto con l'aiuto di una maschera significa ammetterel'esistenza di un altro spirito; la perdita della propria formae del proprio aspetto rende evidente la trasformazione neldio ”.II numero e la composizione de! gruppo che va al fiume,due maschi e due femmine che formano una quaternità,alludono all'integrazione e all'individuazione. Il rischiosoviaggio nell'inconscio può essere intrapreso soltantoquando esiste una cooperazione tra tutti gli antenati delmaestro e dell'allievo.La tensione che si sviluppa sulla riva del fiume mostrachiaramente che si tratta di un momento molto significativo.La pallida luce dell'alba, l'aspetto selvaggio dell'ambientenaturale, il silenzio totale rotto soltanto dal lieve mormoriodelle acque, danno alla scena un carattere numinoso cuinessuno può rimanere indifferente. Si ha la sensazione diessere stati toccati da qualcosa di sovrapersonale.Il paziente viene accettato come aspirante igqira solo dopoche tutti sono stati informati dell'accetta-zione da partedegli spiriti del fiume. Il suo volto viene cosparso di argillabianca, poi egli si allontana dalla casa paterna per recarsinella capanna dove sono riuniti gli amagqira. Ha inizio unnuovo stadio del suo sviluppo e dell'addestramento —viene iniziato a una nuova fase.

(10) Maria-Gabriele Wosien,The Sacred Dance, NewYork, Avon Books, 1974, p.21.

Questa cerimonia ha una certa somiglianza con quelloche avviene quando, dopo un determinato periodo dianalisi, l'analizzando fa domanda per il training. Vengonoallora richiesti i pareri dell'analista personale e di dueanalisti didatti; c'è poi la valutazione del comitato ditraining, cui spetta la decisione finale sull'idoneità delcandidato.In entrambe le situazioni, scopo del trattamento e deltraining è l'integrazione dei contenuti psichici coscienti einconsci, e Io sviluppo di tutte le potenzialità individuali.Tuttavia c'è una differenza: nella cultura occidentalel'intero procedimento è cosciente e cerebrale, mentrenella cultura Xhosa avviene a un livello simbolico einconscio, poiché essi sono ancora immersi in unamitologia viva.

Trad. di LUCIANA BALDACCINI

L’ importanza del danaro

Joel D. Covitz, Brookline

Ho avuto due occasioni di confrontarmi con il ruolo del danaro in psicoanalisi. La prima si è presentata quanto studiavo all'Istituto Jung e un giovane analizzando stava contrattando l'onorario con me. Gli dissi che il mio onorario era di venti franchi. Poi discutemmo la frequenza delle sedute e decidemmo che egli sarebbe venuto tre volte la settimana. Allora egli mi chiese, “ Andrebbe bene se pagassi cinquanta franchi per tre sedute? ”

II mio secondo approccio al problema del danaro derivò da una mia dissertazione su un libro dei sogni ebraico. Il Talmud afferma che c'era un interprete dei sogni, Bar Heyda, il cui lavoro dipendeva dal fatto che il suo onorario fosse pagato o meno. I sognatori che pagavano il suo onorario ricevevano una interpretazione positiva; quelli che rifiutavano di pagare ricevevano un'interpretazione negativa.

In verità, il danaro è un elemento importante nel lavoro di un analista con qualunque paziente. Ognuno ha un complesso del danaro e il modo in cui una persona si pone in relazione con il danaro può avere un

(1) W. Otto, The Homeric Gods, Thames and Hudson, London, 1951, p. 107.

(2) I lettera a Timoteo, 6, 9-10.

profondo effetto su altri campi della sua vita. Gli antichi Greci capirono ciò, quando misero in relazione la mancanza di danaro con lo stato di malattia e la presenza di danaro con la guarigione. II danaro è uno degli “ aspetti fondamentali della realtà vivente ”(1). E questa mattina voglio parlare della realtà psicologica del danaro.

Nella nostra società il danaro è una necessità. Il danaro è importante. Per l'impiegato medio o per il lavoratore autonomo il danaro e la sua acquisizione diventano estremamente importanti. La società occidentale si muove verso l'alto. Nella nostra civiltà molte persone vanno in analisi per problemi relativi alla propria condizione sociale, spesso perché vogliono cambiare classe e trasformarsi psicologicamente in modo da soffrire di meno per i problemi finanziari. In questa occasione voglio limitare i miei commenti agli individui che iniziano con pochissimo, a coloro che partendo da niente ottengono qualcosa. Mi in-teresserò meno dei ricchi, dell'uso, dell'investimento e del consumo di danaro e di più della sua acquisizione. Voglio indagare sullo sviluppo di quello che definisco un “atteggiamento” realistico verso l'acquisizione di danaro nella nostra società. L'acquisizione di danaro deve essere uno degli scopi di un analizzando che cerca di vivere in questa società. Ebbene, nella letteratura occidentale il danaro ha tra-dizionalmente avuto una “ critica ” piuttosto negativa. Nella nostra cultura c'è la salda opinione che la ricchezza porti alla decadenza e alla negazione dello spirito. La Bibbia dice: “ Ma quelli che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell'inganno e in molti desideri insensati e dannosi, che travolgono gli uomini nella rovina e nella perdizione. La cupidigia del danaro, infatti, è la radice di tutti i mali; e alcuni che ne sono stati presi, si sono allontanati dalla fede e si son procurati tormenti che li ro-dono ” (2). L'etica puritana del lavoro tiene conto solo del duro lavoro e del sacrificio di sé — il concetto che si dovrebbe guadagnare ciò che si ha con il sudore della

fronte, e che non dovrebbero esserci ne scorciatoie ne vie facili per la ricchezza. I debiti sono condannati. Ma nella nostra società questo è un atteggiamento semplicemente irrealistico, come dimostrerà il caso di Ralph. Raph era stato un giovane molto promettente. Voleva diventare medico e cercò di farsi strada alla scuola di medicina, mantenendo nello stesso tempo la sua famiglia; ma si rese conto di non poterlo fare. Così che prendere in prestito danaro dal governo con un prestito garantito. Egli pensò che se non avesse po-decise di abbandonare gli studi di medicina, piuttosto tuto pagarsi da sé la scuola, non avrebbe dovuto andarci. Ralph divenne così un rottame e non trovò mai un lavoro importante. Alcuni anni dopo, sua moglie lo lasciò. Egli voleva risposarsi, ma non aveva i mezzi per guadagnarsi da vivere. Allora iniziò l'analisi. Ebbene, questo rifiuto di indebitarsi è un'etica sbagliata nella nostra cultura. Ralph fu realmente sviato dall'etica tradizionale del lavoro. Nella nostra cultura i debiti appartengono a una persona di cui ci si può fidare; significano che si è degni di credito. Sottovalutare il proprio potenziale di credito significa sottovalutare i propri beni. Non capire ciò vuoi dire essere nevrotici nei confronti del danaro, perché significa vivere al di sotto del proprio potenziale. Fa parte della capacità di trattare il danaro sapere come e quando indebitarsi, in modo da poter ottenere il massimo potenziale dal danaro preso in prestito. Come disse Benjamin Franklin, “ II danaro può produrre danaro ” (3). Molte persone — Thomas Jeffer- son ne fu un primo esempio — vivono una vita feconda e creativa senza grandi disponibilità di contanti. Egli s'indebitò spesso, ma visse al massimo delle sue possibilità. Naturalmente, ciò va contro l'etica che ci spinge a risparmiare, piuttosto che a prendere in prestito. Ma la persona che risparmierà soltanto, che non correrà rischi con il suo danaro o con i suoi titoli di credito, che considera l'interesse per il danaro volgare o “ oscuro ” o “ losco ”, non avrà successo con il danaro. Il tradizionale approccio puritano al danaro procura

(3) B. Franklin, Works,vol. 2, p. 87.

molti danni — persone con atteggiamenti sbagliati nei confronti del danaro. Spesso alla radice di una nevrosi familiare c'è un trattamento irresponsabile dei propri beni. Per esempio, un analizzando aveva un nonno che era milionario. La moglie del milionario morì quando il milionario aveva ottant'anni e il vecchio si risposò. Visse ancora alcuni anni e poi morì; tutto il suo danaro andò alla sua nuova moglie — una situazione che disgregò la famiglia. Dunque, spesso sono i figli dei milionari che devono portare il segno della ricchezza dei loro genitori. I genitori possono consciamente o inconsciamente considerare losca la loro acquisizione di danaro, così malgrado essi lascino in eredità il danaro, lasciano anche i loro atteggiamenti ambivalenti e paradossali verso di esso. È certo possibile che alcune tendenze distruttive dei figli di famiglie ricche derivino da questa identificazione inconscia con qualcosa di losco. Essi hanno il compito di venire a patti con l'acquisizione di danaro, anche se non hanno mai dovuto procurarselo. Ci sono altri modi in cui il cattivo uso del danaro causa grandi difficoltà all'adattamento dell'individuo. Un mio paziente, John, era nevrastenico e introverso. Aveva bisogno di una spinta, che non gli venne mai. Gli mancava perfino l'energia di chiedere il danaro. Sapeva che suo padre l'aveva e sapeva che suo padre non glielo avrebbe dato. Egli era preso nella stessa situazione di Hermes: un padre ricco che non Io sosteneva. La differenza era che Hermes reagì con una terribile iniziativa e fu disposto a fare da sé. Ma i figli che non sono dei, o sono nevrotici o sono depressi, e non riescono a prendere nessuna iniziativa. Così il padre di John era milionario e John rimase un fannullone fino all'età di cinquant'anni, quando ebbe l'eredità. Ma allora era troppo tardi. Il bisogno di danaro aiuta a uscire dalla grotta in cui si è bloccati a testa in giù; da un incentivo. Il caso estremo della mancanza di incentivi si può vedere in alcune sette orientali e cristiane, che predicano la rinuncia ai propri beni e al proprio danaro, perché il mondo finirà presto. (È stato affermato che se

questo fu l'atteggiamento di Gesù, fu l'errore di un giudizio profetico). Tutti i problemi che ho appena citato derivano dalla mancanza di un atteggiamento realistico sulla necessità di acquisire danaro nella nostra società. Bisogna tenere presenti alcuni fatti importanti che riguardano il danaro: è un fatto che il danaro non è mai ceduto a titolo gratuito. Non si ottiene niente per niente. E non si dovrebbe mai dipendere dal danaro che viene dato. Il danaro non viene a voi; dovete andare alla ricerca del danaro, e ciò spesso richiede di essere geograficamente mobili. È un fatto che se non si chiederà il danaro, non lo si riceverà mai. La fantasia puritana è che il danaro non sia importante. Si è insistito molto di più su altri scopi — l'onestà, il lavoro duro, la generosità. Ma almeno un puritano, Benjamin Franklin, parlava di “ procurarsi la ricchezza e attraverso di essa assicurarsi la virtù; essendo più arduo per un uomo bisognoso agire sempre onestamente, ... di quanto sia difficile per un sacco vuoto stare diritto ” (4). Infatti, Franklin dedicò molto tempo ed energia allo sviluppo della sua teoria della “ Via per la ricchezza ”, che richiedeva di ricordare delle leggi sul danaro, semplici, ma molto realistiche e ancora applicabili. Egli diceva che “ l'uso del danaro ” — cioè la capacità sia di spenderlo che di farlo fruttare — " costituisce l'unico vantaggio che c'è nell'avere danaro ” (5). "Il tempo è danaro” e “il credito è danaro ” (6). Franklin sapeva che il primo modo per avere successo è investire il proprio danaro o prestarlo ad interesse, perché solo così è possibile far continuare a fruttare perfino una piccola somma. Egli mise in rilievo anche l'importanza del risparmio: “ un penny risparmiato è un penny guadagnato ”. Se ci si attiene alle regole e si restituisce 'puntualmente il danaro preso in prestito, si può avere a disposizione un'enorme somma di danaro: “ Colui del quale si conosce la puntualità nel pagare ”, diceva Franklin, “ in ogni momento e in ogni occasione, può procurarsi tutto il danaro che i suoi amici possono risparmiare ” (7). Ma egli sapeva che non si poteva restare seduti in ozio e aspettare di

(4) Ibidem, p. 92.

(5) Ibidem, p. 80.(6) Ibidem, p. 87.

(7) Ibidem, p. 88.

(8) Ibidem, p. 89.

(9) Ibidem, p. 95.

(10) C. Boer, tr. Thè Homeric Hymns, Irving, Spring Publications, 1979, p. 19.

(11) Ibidem, p. 20.

(12) Ibidem, p. 23.

diventare ricchi: “ la via per la ricchezza ”, egli diceva, “ dipende dal (non sprecare) ne tempo ne danaro ” (8). Nell'almanacco di Poor Richard, dove si dispensava la maggior parte di questa saggezza, egli diceva ai suoi lettori che “ Dio aiuta coloro che si aiutano ” (9). Ciò che dovete fare è prendere quello che il fato vi porta e trame il maggior vantaggio possibile. Ciò su cui ora vorrei concentrare l'attenzione è proprio questa capacità di ricchezza — riconoscere la necessità realistica di avere danaro in questa società e quindi riordinare tutte le proprie forze, in particolare l'atteggiamento da imbroglione (trickster) che è in tutti noi, per raggiungere quello scopo. II mito del dio greco Hermes fornisce un archetipo per questa psicologia “ da trickster ” che tiene conto di approcci creativi, flessibili e temerari allo sviluppo di tutte le possibilità dell'individuo, compresa la possibilità della ricchezza. Come sapete, Hermes era figlio di Zeus e della ninfa Maia. Subito dopo la nascita si sentì inquieto nella grotta oscura e strisciò fuori. Vide una tartaruga che passava. “ Quale grande segno, quale aiuto è questo per me! ” egli disse, “ Non Io ignorerò ” (10). (Anche a questa tenera età egli era sensibile alla sincronicità degli eventi). Così ingannò la tartaruga e la indusse a entrare con lui nella grotta. Poi prese un coltello e scavò l'interno del guscio, vi legò degli steli di canna, e così aveva inventato la lira. La tartaruga era passata “ al momento giusto ” (11) e Hermes aveva approfittato di quel momento. Era un opportunista. Poi Hermes trovò il bestiame sacro degli dei e rubò cinquanta vacche dalla mandria. Voleva coprire le sue orme, così escogitò per sé un magico paio di sandali, in modo che non fosse possibile riconoscere le sue impronte. Poi invertì le impronte delle vacche, “ invertendo la posizione dei loro zoccoli, mentre egli stesso camminò all'indietro ” (12). Ebbene, mentre Hermes fuggiva, un vecchio — un simbolo degli antichi valori — lo vide andar via con le vacche. Hermes gli disse, “ Tu non hai visto quello che hai visto, d'accordo? Non hai sentito quello

che hai sentito. Sta zitto e non ti sarà fatto alcun male ” (13). E Hermes se ne tornò tranquillamente, uccise due delle vacche e le sacrificò in modo adeguato. Poi gettò via i sandali magici — gli imbroglioni devono fare molta attenzione a dettagli simili — e ritornò alla grotta. Sua madre sapeva che egli non aveva combinato nulla di buono. Hermes però le disse di non preoccuparsi, perché egli avrebbe avuto cura di lei: “ Non vorremo dunque essere i soli tra gli dèi a restar senza doni e preghiere come desidereresti tu. È meglio gozzovigliare per tutta l'eternità con gli immortali in mezzo a ricchezze inesauribili, che rattrappirci in questa grotta oscura! Io voglio avere la stessa venerazione sacra di cui gode Apollo. Se mio padre non me la concede io avrò il coraggio — ne son ben capace — di diventare un capo dei ladri ” (14). Incoraggiato dalla meta dì una ricchezza inesauribile, invece di una spendibile, Hermes era deciso ad arricchirsi, facendo ciò che gli capitava per raggiungere la stessa posizione — e ricchezza — del suo famoso fratello. Apollo. Nel frattempo, Apollo aveva ovviamente notato la significativa diminuzione della dimensione della sua mandria di bestiame. Egli scovò Hermes e gli chiese di restituire le vacche: Hermes finse di essere del tutto innocente: non sapeva niente, diceva, del furto. Era ridicolo supporre che un bimbo potesse rubare cinquanta vacche. Apollo rise nel sentire questa storiella divertente, chiamò Hermes imbroglione e insistette affinché Hermes lo conducesse dove erano le vacche. Hermes si lamentò di essere stato falsamente accusato. Così essi andarono dal loro padre, Zeus, che li invitò a sostenere ognuno le proprie ragioni. Apollo raccontò la sua storia e Hermes parlò a propria difesa: “ Padre Zeus, ti dirò la verità. Sono una persona sincera e non so mentire ”, disse. “ Non ho preso il suo bestiame, sebbene io voglia proprio essere ricco ” (15). A questo, Zeus scoppiò a ridere, ordinò a Hermes di mostrare ad Apollo dove fossero nascoste le vacche. Apollo era ancora adirato, così Hermes decise di calmarlo suonandogli la lira. Suonò così bene che Apollo ne fu affascinato e disse che

(13) Ibidem, p. 24.

(14) C. Kerényi, Gli Dei e gli eroi della Grecia, Milano, II Saggiatore, 1963, pp. 141-142.

(15) C. Boer, op. alt., p. 45.

(16) C. Kerényi, op. cit., p. 145.

(17) Ibidem, p. 141.

la musica di Hermes valeva cinquanta capi di bestiame. Promise a Hermes una gloria immortale tra gli dei, se solo gli avesse insegnato questa arte. Hermes, sempre pronto a uno scambio equo, acconsentì, purché avesse potuto tenere il bestiame. Così Apollo ebbe la lira e Hermes la gloria e l'uso del bestiame. Poi Apollo “ gli consegnò ancora una verga, fatta di oro e ornata di tre foglie, che produceva ricchezza ” (16). Da allora in poi Hermes fu incaricato degli scambi e del commercio tra gli uomini e fu glorificato tra gli dei. La prima cosa da notare nella storia di Hermes è che egli sapeva di non poter restare nella sua grotta oscura. Aveva bisogno di uscirne, di andare in una casa con una vista. Non aspettò l'eredità di suo padre; piuttosto prese il fato tra le mani e rivolse all'esterno la sua ricca fantasia. Posto di fronte all'insidia della povertà, realizzò il suo sogno di ricchezza pur restando tra gli dei. “ Per ciò che riguarda me, io scelgo il mestiere per poter provvedere per sempre a me e a tè ” disse a sua madre (17). In lui si sviluppò una visione positiva, un sistema per diventare ricco, partendo con niente tranne il suo ingegno e la sua invidia. Lo stile di Hermes è unico. Nella sua improprietà c'è qualcosa di molto appropriato. Talvolta andando indietro si va avanti. I suoi metodi sono da imbroglione — furto con destrezza piuttosto che rapina a viso scoperto, menzogna, capacità di far ridere Zeus e Apollo invece di farli arrabbiare. Hermes è maestro nel tirarsi fuori dai guai raccontando storie. Il mondo reagisce a una storia, che sia vera o no. Se volete un prestito e raccontate al banchiere una storia sbagliata, egli non potrà darvi il prestito— così se siete in contatto con l'imbroglione che è nella vostra psiche, raccontate al banchiere la storia giusta. In alcune situazioni dire la verità è segno di masochismo. Bisogna osare, correre rischi, per arrivare a qualcosa. Hermes sapeva che Apollo e Zeus non credevano alla sua professione di innocenza, ma è la storia in sé che conta: con essa egli li fece ridere.

La capacità di convincere la gente è un elemento im-portante della capacità di arricchirsi. In primo luogo si pone la domanda: Hermes non è solo un comune criminale? L'imbroglione che ruba bestiame e poi mente non sembra particolarmente lodevole. Ma ci sono parecchie differenze tra la figura dell'imbroglione e il criminale. Tanto per cominciare, il criminale non opera nell'ambito delle tendenze del suo ambiente culturale. Egli è separato dalla sua cultura ed è ostile ad essa e non può identificarsi con il suo collettivo. Ma la persona che ha l'atteggiamento di Hermes conosce la struttura del potere e opera nell'ambito della sua cultura. Egli cerca gli espedienti, le scappatoie, ma non è un criminale; cerca semplicemente di essere più abile della sua cultura. La persona socialmente disadattata, per esempio, evade le tasse; quella che ha l'atteggiamento di Hermes, invece, trova delle scappatoie per non pagare le tasse. Una parte della chiave del successo di Hermes sta nel fatto che egli conosce le regole nell'ambito delle quali deve operare. Sa come, quando e che cosa sacrificare; rubò il bestiame, ma benché avesse fame, non rovinò il sacrificio mangiando un po' di carne. Secondo le parole di Rafael Lopez-Pedraza, “ II classico concetto junghiano (di sacrificio) si basa su ciò che è sacrificato in quanto già consumato, il che da un tocco ermetico ” (18). Sebbene Hermes sia un ladro, egli ha lo stile di Robin Hood — nel suo tentativo di restaurare un giusto equilibrio della società. “ Malgrado gran parte di ciò possa sembrare discutibile da un punto di vista morale ”, dice Walter Otto, “ciò nonostante è una configurazione che appartiene agli aspetti fondamentali della realtà vivente ” (19). Dobbiamo presumere che l'individuo che parte da niente debba essere un po' immorale. L'imbroglione è non solo conscio delle leggi formali della sua società; è anche consapevole dei costumi e della cultura — tenendo conto, per esempio, del principio etico americano “ Tu non sarai preso ”. In Russia un uomo con l'atteggiamento di Hermes è il comunista che è ancora capace di procurarsi il caviale.

(18) R. Lopez - Pedraza, Hermes and his children, Zurich, Spring Publications, 1977, p. 37.

(19) W. Otto, op. cit., p, 107.

(20) N.O. Brown, Hermes the thief: The evolution of a myth, New York, Vintage Books, Random House, 1947, p. 22.

(21) Ibidem, p. 42.

Nel porsi come meta la " ricchezza inesauribile ”, Hermes era sicuro di sé e intraprendente; sapeva di poterlo fare, sebbene in un primo momento non conoscesse il modo. Creò da ciò che aveva a disposizione e così mostrò la flessibilità che è fondamentale nell'atteggiamento di Hermes. Era un maestro nell'arte del collage, della combinazione, perché era pronto alle scoperte accidentali, e in questo modo egli partecipava al suo fato. Hermes era tradizionalmente il dio degli scambi di merci e di danaro tra gli uomini; era il dio dei confini presso cui le tribù vicine si incontravano per fare scambi e favorire lo sviluppo economico. Hermes era considerato “ una fonte di benedizioni materiali ” per gli uomini (20). Il suo bastone porta ricchezza, egli promuove gli scambi che sono vantaggiosi per entrambe le parti, proprio come il suo scambio con Apollo fu vantaggioso per entrambi. Nella Grecia antica “ il permesso reciproco di rubare ” (21) era ammesso come una specie di commercio, ma in effetti era una sorta di scambio di doni. Gli scambi di doni sono importanti. Quando si verifica uno scambio non equo, si spezza il delicato equilibrio del danaro e del potere. John, del quale ho parlato prima, ricevette sempre i regali sbagliati; in realtà, non ottenne mai ciò di cui aveva bisogno. Ebbe la peggio nello scambio con i suoi genitori. Capire come fare dei doni è saper trattare il danaro, e il padre di John non sapeva fare nessuna delle due cose. Naturalmente, la visione sentimentale è quella di fare dei doni per altruismo e amore. Ma, in realtà donare significa spesso porre la possibilità di uno scambio senza alcun costo per entrambe le parti. Il dono è uno scambio di potere. Dal punto di vista ermetico dare è ricevere. Allora il donare può essere visto come un investimento. Quello che conta non è accumulare danaro per il proprio piacere. Ciò che importante è avere uno stile ermetico, che aiuti a distribuire le esperienze positive. La persona che ha l'atteggiamento di Hermes si accorgerà di avere più energie per compiere le cose; di essere in una posizione di potere e di avere

la capacità di raggiungere il suo potenziale, pur avendo un possibile ruolo nell'influenzare il destino della sua cultura. Il danaro è un mezzo per un fine. Così la prossima domanda è: come possiamo applicare i principi ermetici al lavoro analitico? Come possiamo incoraggiare gli analizzandi a sviluppare l'atteggiamento da imbroglione nella loro psiche? L'approccio ermetico favorisce il fare da sé, l'intraprendenza, l'indipendenza e la flessibilità. Non è immorale incoraggiare in un paziente l'acquisizione di tecniche sottili e temerarie. Oltre a favorire l'atteggiamento da imbroglione in un paziente, l'analista deve diventare egli stesso una figura di imbroglione. Norman O. Brown dice, “ Secondo la concezione moderna... consideriamo l'imbroglio come l'antitesi dell'abilità positiva. Perciò gli studiosi moderni si sono sentiti in obbligo di stigmatizzare come immorale il culto di Hermes ' l'imbroglione '... ma la sua funzione è di promuovere il benessere umano ” (22), proprio come l'analista deve favorire il benessere dei pazienti. I Greci erano soliti chiamare “ dono di Hermes ” (23) qualunque fortuna trovata per caso da un viaggiatore. Naturalmente la capacità di vedere delle possibilità negli avvenimenti casuali, negli eventi sincronistici, è al centro del pensiero junghiano. Quando il mio paziente John aveva 8 anni, trovò una banconota da 20 dollari nell'area di parcheggio dell'aeroporto Kennedy e si rallegrò della “ fortuna trovata ”. Ma suo nonno, che non aveva sviluppato l'aspetto di imbroglione della sua personalità, ammonì John, dicendogli di riportare il danaro nel posto in cui l'aveva trovato e dicendogli “ Non puoi sapere di chi sia, ma sai che non è tuo ”. L'atteggiamento da imbroglione incoraggia anche l'in-dipendenza da parte del paziente. Hermes si liberò da suo padre e fu capace di badare a se stesso, e così fu in grado di occupare il posto giusto nell'Olimpo con gli altri dei. Hermes disse, “ Se mio padre non provvederà, posso far da solo e ne sono capace ”. La mancanza di danaro è spesso in relazione con la mancanza di flessibilità nella vita; oltre a ridurre la

(22) Ibidem, p. 23.

(23) Ibidem, p. 41.

mobilità geografica, può dimostrarsi una specie di paralisi psichica — una paralisi sia del movimento psichico inferiore che del movimento vitale esteriore. L'atteggiamento ermetico permette a una persona di sentirsi libera di seguire la sua anima, il suo destino; libera la sua energia psichica per permettergli di realizzare la sua anima. È noto che il ruolo positivo dell'invidia nella psiche è di mostrare all'individuo ciò che potenzialmente può essere suo. L'invidia di Hermes per la ricchezza e la posizione di Apollo lo spinge a realizzare il suo potenziale. Spesso all'interno della famiglia l'invidia ha una tale forza di motivazione. Una volta mio figlio chiese a mia moglie, “ Se entrerò nella Boston Symphony, guadagnerò quanto papa? ”. In giovane età egli usava già come motivazione un senso ermetico di competizione. Avevo un'analizzanda, Debra, che insieme con suo marito era maestra nell'arte non-ermetica della pura sopravvivenza. Essi erano quello che io chiamo il tipo del minimo comun denominatore — basso reddito, vestiti da Esercito della Salvezza, ma danaro in banca. Si accontentavano di stare a testa in giù nella grotta. Il loro sistema aveva però in sé un punto di rottura, che si verificò quando la loro figlia si iscrisse alla scuola di arte drammatica ed essi si trovarono di fronte alla necessità di guadagnare più danaro per pagare la retta annuale di 7.500 dollari per le tasse scolastiche e l'alloggio della figlia. Ciò li costrinse ad affrontare la loro situazione finanziaria. Come ci si poteva aspettare, Debra e suo marito, con il loro stile non-ermetico, costellarono uno stile ermetico nella figlia. Mentre Debra 'depositava i suoi limitati risparmi in banca, sua figlia faceva progressi nella carriera di attrice, lavorando come attrice televisiva durante tutto il periodo della scuola superiore e gua-dagnando da sé gran parte del danaro necessario per la scuola. Come si può produrre l'atteggiamento da imbroglione in un paziente? Un analista junghiano può riconoscere l'imbroglione quando appare nel materiale inconscio, e fare in modo di indicarlo all'analizzando. Può no-

tare come l'imbroglione si manifesti nei sogni e nelle fantasie, e cercare di integrarlo come una parte fon-damentale della personalità del paziente. L'analista dovrebbe osservare quando la mancanza di collegamento con l'atteggiamento da imbroglione ostacola il progresso di un paziente “ serio e inflessibile ”. Egli o ella dovrebbe anche osservare come l'atteggiamento da imbroglione sia proiettato nel rapporto con l'analista stesso e presentare quest'interpretazione all'analizzando. L'acquisizione di danaro e il suo rapporto con l'anima si riflettono nell'artista, nello scrittore, nell'attore, nel poeta e nel musicista e perfino nell'analista, che per molti è più un “ artista ” che un professionista. Jung espresse questo punto di vista quando disse che sarebbe stato disposto a cambiare tutte le sue teorie a beneficio di un paziente. E che dire dell'artista che non riesce a mantenersi? L'artista che non ha risolto il suo dilemma danaro-mantenimento può essere un genio, ma è anche malato dal punto di vista dell'archetipo del danaro. Se ci si rende conto di non potersi mantenere facendo l'artista, forse si dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di rinunciare a fare l'artista. Invece, il problema dell'artista che guadagna danaro esercitando la sua arte, è comprendere come e quanto guadagnare dall'arte. Molti artisti nevrotici sono inflessibili... “ Riesco a lavorare solo con una tela di queste dimensioni, con questa tecnica... ”. Questo modo di pensare è spesso rigido e limitante, mentre i veri artisti di solito sono flessibili. Molti dei grandi maestri di pittura della storia hanno lavorato su com-missione. A parte i pochissimi artisti che sono al-l'avanguardia rispetto ai loro tempi, l'artista nevrotico che non riscuote successo o non ha abbastanza talento o è troppo inflessibile. Jung mette in guardia dagli “ artisti per hobby ”, che dei loro hobbies cercano di fare una professione. Una variabile che bisogna esaminare nell'attore, nel musicista, nel poeta e nell'artista è il grado di necessità. Come è collegata l'anima alla particolare attività o arte? In che misura l'anima è investita di questo sforzo e quanto

profondamente radicato è l'impegno? Spesso quando il talento è carente, l'anima e la libido sono altrove e ciò si rifletterà nel materiale inconscio. Può sembrare grossolano parlare di arte nei termini del suo potere di guadagno, ma per l'artista è necessario venire a patti con la realtà finanziaria. Lavorare secondo una “ visione interiore ” senza una verifica esterna che abbia la forma di un riconoscimento finanziario è una prerogativa di pochissimi o delle persone molto ricche. La persona che usa trucchi ermetici per fare un po' di danaro, per avvantaggiarsi nel mondo, ottiene qualcosa per niente? No. Egli ottiene qualcosa per la sua abilità. L'imbroglione andrà in cerca della ricchezza. La “ mentalità dell'assistenza ” potrebbe essere un esercizio di illusione. La fantasia di chi riceve l'assistenza è che egli ottenga qualcosa per niente? II ricevente che pensa di ottenere molto è ingannato dal suo stesso trucco. Niente deriva da niente. Mi viene in mente la storia che si trova nel libro di Studs Terkel, Working, in cui la prostituta racconta il piacere provato le prime volte in cui gua-dagnava cinquanta dollari in venti minuti, senza sentirsi cambiata dopo averlo fatto. Fu solo alcuni anni dopo, quando da ragazza squillo era ridotta a prostituta di strada ed eroinomane, che ella capì il prezzo che aveva pagato per quel danaro. Fu ingannata dal suo stesso inganno. Si può anche essere ingannati dal trucco di sposare una donna ricca, perché ciò fa diminuire la capacità d'iniziativa per raggiungere il proprio potenziale. Secondo le parole di Jung, può anche ridurre il proprio senso di vitalità. Un analista non vuole che i suoi pazienti siano ingannati dai loro propri trucchi, così è tanto meglio se può incoraggiarli ad essere intraprendenti, flessibili e temerari. Nel 1911 Jung e Freud tennero il seguente dialogo su ciò che Jung chiama il problema del “ fallimento del matrimonio ricco ”. Freud scrisse a Jung, “ Lasci dunque alla Sua cara, intelligente e ambiziosa signora il merito di averLa preservata dal finire nella professione. Mia moglie dice spesso che sarebbe orgogliosa

di poter vantare qualcosa del genere per se stessa... Già nei Suoi rapporti con l'America il Suo gusto per il guadagno mi procurò qualche preoccupazione. Tutto sommato, risulterà un buon affare che Lei invece neghi se stesso alle occupazioni abituali. Con tanta maggiore certezza Le saranno così riservate cose fuori del comune di cui vale la pena occuparsi ”. Jung rispose, “ l'avidità di denaro non è poi un grande male... Penso di dovermi procurare molta esperienza mediante un'intensa attività pratica, perché non m'illudo certo di sapere molto. Ho dovuto anche dimostrare a me stesso che sono in grado di guadagnare per liberarmi del pensiero di essere incapace di vivere. Non sono altro che innocue sciocchezze, che posso superare solo vivendo ” (24). Può darsi che attualmente le donne esprimano il punto di vista di Jung quando pongono sullo stesso piano la vitalità e il guadagnare danaro. In passato, le donne possono aver trovato affermazioni e riconoscimenti in fonti non monetarie; comunque, queste sembrano mancare oggi. Che cosa significa per l'analista stesso il punto di vista ermetico? Hermes, che era il dio degli artigiani, degli uomini che guadagnano il danaro con il loro lavoro e, in alcuni miti, il dio dei guaritori, è una figura archetipica significativa per gli analisti. Lopez-Pedraza dice che “ malgrado gli aspetti marginali, disonesti, da imbroglione, ladro e truffatore dì Hermes, paradossalmente possiamo riconoscergli pienamente il ruolo di protettore della psicoterapia, poiché " il furto psicologico " — che ogni analista fa in gran misura — è " attività naturale e fondamentale di Hermes nella psiche " ” (25). I guaritori della storia sono stati assai ben pagati. Plinio una volta si lamentò che i guaritori guadagnavano “ enormi quantità di danaro ” (26). Come guaritori siamo fortunati ad avere dalla nostra parte il dio del commercio. Naturalmente la fluttuazione delle condizioni finanziarie del terapeuta è un argomento di grande interesse per la maggior parte di noi. C'è un'antica massima che un paziente debba adempiere a due obblighi nei confronti del suo analista: deve andare pun-

(24) Lettere tra Freud e Jung, Torino, Boringhieri, 1974, 266 F, 267 J.

(25) R. Lopez-Pedraza, op. cit., p. 31.

(26) G. Majno, The healing hand: man and wound In the ancient world, Cam-bridge, Harvard University Press, 1975, p. 348.

(27) S. Freud, Le origini della psicoanalisi, Torino, Boringhieri, 1961, p. 117. (28) Ibidem, p. 148.

(29) Ibidem, p. 164. (30) Ibidem, p. 187.

(31) Ibidem, p. 181.

tualmente alle sedute stabilite e deve di conseguenza pagare il conto. Noi tutti sappiamo che cosa ne è dei nostri sentimenti affettuosi e umanitari nei confronti del paziente che rifiuta di pagare il conto. È ancora più intollerabile di quando vi fa restare impegnati per la sua seduta e “ casualmente ” reprime la sua capacità di usare il telefono per informarvene. Se ricordate la storia che ho raccontato all'inizio dì questa relazione sull'interprete dei sogni del Talmud, che modificava la sua interpretazione a seconda del pagamento del sognatore — un commento del XIV se-colo interpretava questo passo dicendo che quando il sognatore rifiutava di pagare, l'interprete del sogno agiva nei confronti del sognatore come “ un nemico che si vendica ”. Perfino Freud, il primo a esercitare la nostra arte ermetica, scrisse molto sul rapporto tra danaro e terapia e se ne preoccupò. Le sue prime lettere a Wilhelm Fliess contengono molti riferimenti al ruolo importante che egli attribuiva al danaro nella sua professione. Nel 1895, egli notò di essere nella posizione di poter “ scegliere e cominciare a imporre i miei onorar! ” (27), e parlò del “ guadagno occorrente per star bene ” (28). “ Mi sento meglio con tanto lavoro ”, egli scrisse nel 1897. “ Per esempio, la scorsa settimana ho guadagnato 700 fiorini, ciò che non si può ottenere senza far niente ”. Ma aggiunse, “ Deve essere molto difficile diventare ricchi ” (29). Egli continuò “ a preoccuparsi e a risparmiare ” (30), come diceva. In seguito, le cose peggiorarono; per lui la stagione estiva era quasi sempre penosamente monotona e ciò lo deprimeva molto. Egli disse a Fliess, “ Siamo come mendicanti ” (31), e continuò a lamentarsi di essere diventato povero, senza lavoro sufficiente, dovendo accettare sempre nuovi pazienti — e perfino prenderne alcuni che non pagavano l'onorario, semplicemente per evitare di annoiarsi. Egli si preoccupava che i suoi problemi finanziari potessero cominciare a interferire con la sua auto-analisi e sentiva che, essendo lui così stanco e depresso, i suoi pazienti non spendevano bene il loro danaro. “ Peccato ”, egli scrisse, “ che non si possa vivere, per

esempio, della interpretazione dei sogni ” (32). (E si potrebbe dire che gli analisti junghiani lo facciano). Le sue preoccupazioni finanziarie lo lasciavano in “ una depressione mentale e materiale ” (33), ed egli notava che “ Dal cattivo umore non si cava nulla, come dalle economie ” (34). L'unico “ punto debole, la mia paura della povertà ” (35), era in contrasto con i suoi sogni di ricchezza: “ Così bella era la speranza della fama imperitura ed altrettanto bella quella della ricchezza sicura, dell'indipendenza completa, del viaggiare e dell'allontanare i bambini dalla cerchia delle preoccupazioni che hanno molestato la mia giovinezza ” (36). “ Oggi ”, egli scrisse, “ dopo dodici ore di lavoro e un guadagno di 100 fiorini, sono di nuovo allo stremo delle forze... Proprio come l'arte fiorisce solamente in mezzo alla prosperità, così le aspirazioni fioriscono nell'ozio ” (37). Così Freud comprese che l'analista poteva lavorare nel modo migliore solo quando era libero dalle costrizioni nevrotiche, una delle quali potrebbe essere la mancanza dì danaro. Si può lavorare bene solo quando non si è ammalati. L'equazione di Freud tra la mancanza di danaro e “ una depressione mentale e materiale ” corrisponde alla tradizione greca di considerare la povertà come una parte del processo di malattia. Questo tema è elaborato a fondo nel libro di C. A. Meier “ Antica incubazione e psicoterapia moderna ” (38). Il rapporto paziente-analista è uno scambio; l'analista si assume i problemi del paziente per un onorario. L'analizzando ottiene ciò per cui paga. Thomas Jefferson espresse questo concetto: non comprate mai ciò che non volete solo perché è a buon prezzo, per voi sarà caro. Ho a casa un aiutante pittore che afferma: “ Non prendetevela con il pittore. Se il pittore deve usare materiali economici per venire incontro alle vostre idee sul prezzo, non ne traete alcun vantaggio se il lavoro non dura. Pagate un prezzo equo per una vernice, uno smalto e una pittura one-sta ”. Spesso sento che lo stesso principio può applicarsi a un analista. Ciò porta a un'ultima e controversa domanda: se gli

(32) Ibidem, p. 187.

(33) Ibidem, p. 281.

(34) Ibidem, p. 277. (35) Ibidem, p. 273.

(36) Ibidem, p. 187.

(37) Ibidem, pp. 237-238.

(38) C. A. Meier, Antike Inkubation und moderne Psychotherapie, Zurich, Rascher, 1949.

(39) F. Fromm-Reichmann, Principi di psicoterapia, Milano, Feltrinelli, 1959.

(40) W. McGuIre and R. F.C. Hull (editors), C. G. Jung speaking, Princeton, Princeton Univ. Press, 1977, p. 428.

analisti debbano far pagare o meno le sedute a cui i pazienti mancano. La regola secondo la quale si fa pagare sia che il paziente si presenti o meno rientra nella tradizione ermetica: così facendo l'analista provvede a se stesso, si assicura la possibilità di mantenersi e non se la prende con i pazienti. Freud apparteneva a questa tradizione ermetica, anche se a volte accettò dei pazienti che non potevano pagare; egli sapeva di aver bisogno di un reddito stabile per la sua famiglia e per se stesso, per essere in grado di lavorare bene. L'idea è che il paziente non è aiutato solo durante le sedute; l'analista ha investito il suo tempo e la sua energia in tutto il processo dell'analisi e merita di essere pagato per questo. Frieda Fromm-Reichmann sembra essere d'accordo con questo punto di vista quando dice “ I servizi psichiatrici non hanno prezzo se hanno successo e non valgono niente se falliscono. Ciò nonostante è attraverso questi tentativi che il terapeuta si guadagna da vivere, così che il suo onorario deve essere determinato dal valore di mercato dei servizi psichiatrici in un dato momento e in un dato luogo... Se un paziente manca spesso alle sedute senza un motivo valido, si dovrebbe prima avvertire e poi far pagare ”. Ma alla pagina successiva dello stesso libro sembra contraddirsi; ella sostiene che “ non è un privilegio quello dello psichiatra di essere esente dal costume ge-neralmente accettato dalla nostra cultura di essere pagato per servizi non resi ” (39). Ritengo che l'approccio ermetico sia quello giusto per la risoluzione di questo problema, ma penso che molti analisti potrebbero sentirsi in imbarazzo. Anche Jung fu il tipo dell'imbroglione; egli disse una volta di aver iniziato a praticare la psicoanalisi perché riteneva di poter guadagnare più danaro con essa che con il suo primo amore, l'archeologia. “ Non avevo il danaro ”, egli disse, “ per essere un archeologo... Non ho mai creduto di avere qualche possibilità di far progressi, perché non avevamo affatto danaro... (Ma) un medico può farsi strada... può scegliere i suoi interessi scientifici ” (40). Comunque, Jung non dovette guadagnarsi da vivere

con la sua professione e, di conseguenza, alcuni so- stenevano che egli spesso faceva pagare troppo poco ai suoi pazienti. Ciò rendeva furibondi alcuni suoi colleghi analisti, perché involontariamente sottovalutava l'analisi e li metteva in imbarazzo per i loro onorari. Sembrava loro che Jung fosse insensibile all'acquisizione di danaro dalla pratica analitica. Probabilmente egli non aveva capito bene che assai spesso gli analisti erano guaritori che vendevano la loro competenza per provvedere a se stessi. Il suo ermetismo sembrava non estendersi al regno del da-naro. Mi chiedo perché. Era forse ancora legato all'idea della medicina come carità cristiana? O forse si sentiva in colpa per la fonte del suo danaro? Vorrei concludere con due brevi storie. Una è un antico racconto ebraico del 1200, che illustra la massima “ si ottiene ciò che si paga ”. Un giorno un Gentile era seduto in uno stato di depressione. Il suo amico gli disse, “ Perché il tuo volto è così depresso? ” ed egli rispose “ Ho sognato di cavalcare un cavallo rosso e il cavallo era vicino a una piattaforma sporca ”. Il suo amico gli disse “ Ciò significa che presto morirai nel tuo letto ”. E poi l'interprete del sogno gli disse “ Se mi darai qualcosa da bere, comprerò il sogno da tè ”. Egli rispose “ A questa condizione lo darò a tè — che il mio sogno sia venduto a tè ”. E diede qualcosa da bere all'interprete del sogno, e l'interprete del sogno morì dopo due giorni. E infine C. A. Meier ci dice che nell'antica Grecia, “ dopo la cura, si esigeva che il paziente pagasse un certo onorario e facesse delle offerte di ringraziamento. Sono riportati dei casi in cui il dio dava una dura lezione ai debitori riluttanti... ordinando subito una ricaduta ” (41).

Trad. di LUCIA RISPOLI

C. A. Meier, op. cit., p.316.

Training come apprendistato Thomas J. Kapacinskas, Notre Dame

(1) Professare (profess) significa confessare aper-tamente. Vedi E. Klein, A Comprehensive Etymological Dictionary of the Engl'ish Language, New York, Elsevier Publishing, 1971, p. 591. (2) Tao-te-ching (a cura di J.J.L. Duyrendak), Milano, Adelphl, 1975, XXXVIII, p. 99.

È mia intenzione delineare un'immagine del training. Secondo il mio punto di vista il training è essenzialmente una analisi confidenziale basata sull'affinità che diventa gradualmente una forma di apprendistato. Per analisi confidenziale intendo un lavoro analitico condotto nella massima segretezza. Credevo che questa filosofia del training fosse quella prevalente in ambito junghiano, ma mi sono reso conto che molti colleghi vedono le cose in maniera diversa. I programmi di formazione analitica sembrano accentuare soprattutto l'aspetto “ professionale ”. “ Professionalità ” sta a chi fa professione (1) di analisi, come la teoria delle attitudini sta alla “ vocazione ” dell'analista e ciò significa, per citare Lao Tsu (2), badare al “ fiore ” e non al “ nocciolo ”, preoccuparsi della forma soltanto, piuttosto che di forma e sostanza insieme. L'accento sulla professionalità pone la massima energia alla strutturazione di un curriculum e di standard collettivi che sono ritenuti “ professionali ”. Tutto questo non mi sembra altro che un tentativo di mettere sul mercato un programma che soddisfi la domanda di consumatori che si nutrono, appunto, dell'immagine della professionalità. Richiamo subliminale di tale offerta è il successo nella

lotta di classe. In una società nella quale l'immagine della professionalità regna sovrana e dove chi la possiede fa parte della famiglia reale, o almeno dell'aristocrazia, l'enfasi sulla professionalità conferisce un'immediata rispettabilità al programma e, per estensione, anche ai suoi organizzatori e fruitori. lo non sono affatto d'accordo con questo atteggiamento che considero “ anti-junghiano ”, nel senso che è contrario al rifiuto che lo stesso Jung opponeva a qualsiasi tecnica applicata in modo routinario. Sentiamo ciò che egli diceva nel 1958 agli allievi dell'Istituto di Zurigo: “ Dovete dare il massimo delle vostre possibilità. Nessun inganno, leggerezza o lavoro di routine; in questo caso, il diavolo è dietro di voi ” (3). La mia impressione è che l'accento sulla professionalità sia una compensazione — un aspetto Ombra estroverso — per il senso di inferiorità degli analisti junghiani (in massima parte introversi). Potrebbe anche esserci un vantaggio nevrotico collettivo: un segreto senso di superiorità rispetto al tipo di formazione analitica che altri hanno avuto o che impartiscono agli allievi. Attualmente noi possiamo permetterci un tale atteggiamento, poiché i nostri programmi di training sono apparsi più tardi sulla scena e ancora non è possibile valutarne gli effetti. Perché, quindi, non dovremmo rifugiarci nell'immagine della profes-sionalità come hanno fatto i freudiani e altri? L'accento sulla professionalità può essere una difesa dall'esperienza autentica e dall'individuazione, e pertanto negli junghiani appare come una forma di ipocrisia. Si potrebbe anche continuare con questo discorso sulla professionalità, e costruire così un fantoccio da abbattere. Ma non è questo che voglio fare. Nell'appendice ho annotato due fantasie che possono o meno avere a che fare con le immagini che dominano i nostri programmi di training. Personalmente non credo in un “ training ” che sia qualcosa di più del minimo indispensabile. L'esperienza e non la fede, mostra che il candidato, con uno stile “ ermetico ”, pian piano ruba ai suoi con-

(3) W. Me Guire, R.F.C. Hull (Editors), C. G. Jung Speaking, Bollingen Series XCVII, Princeton University Press, 1977, p. 360.

(4) Anna Quagliata, Notes for a Discussion on Training: The Effective Analyst and the Fatture of Training, relazione letta alI'VIII Congresso dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica, San Francisco, 1980.

(5) A. GuggenbuhI-Craig, Power in the Helping Pro-fessions, Zurich, Spring Publications, 1976.

(6) W. Me Guire, R.F.C. Hull (Editors), op. cit.

fratelli, alle figure parentali e all'interno di se stesso quello che è necessario per acquisire una condotta analitica professionale (4). II programma di training ha la sua raison d'etre nel fatto di fornire una famiglia da cui si possa imparare a rubare. La situazione di training è una strana forma di famiglia estesa e presenta tutti gli elementi ombra archetipici delle situazioni di questo tipo. Dì conseguenza, la nostra progenie — cioè i candidati — può apprendere nel corso del training l'arte di tener testa a una schiera, compatta o divisa, “ di genitori, nonni, zie e zii ” ecc. È così possibile ricordarsi dell'incesto, della rivalità tra fratelli e di altre utili cose di questo genere, in un modo “ con-naturale ” — per usare un termine dell'Aquinate. I candidati imparano qualcosa sul potere e su chi Io detiene nell'istituto di training, e si trovano davanti a tutti quei problemi che Adolf Guggenbuhl ha affrontato nel suo libro Power In the Helping Professions (5). Tuttavia io rimango del parere che il vero “ training ” sia soprattutto nell'analisi confidenziale e nella situazione di apprendistato che essa genera segretamente nelle persone adatte, quelle che diventeranno candidati per vocazione, e non perché attirate da un'immagine professionale. Mi riferisco ai candidati che arrivano al training nello stesso modo in cui alcuni si rivolgono ai ritiri spirituali o ai seminari, cercando persone capaci di distinguere la patologia da un'attivazione dello spirito — come direbbe Stanislav Grof — e compagni più o meno adatti per condividere l'esperienza. Tali candidati cercano qualcuno che sia in grado di riconoscere la linea di sviluppo che si manifesta e si rivela nelle immagini e nella fenomenologia della vita dell'altro. Essi cercano chi sia pronto, anche se con paura, ad accettare la sfida che Jung espresse con queste parole: “ È come se un uomo stesse morendo dissanguato e tu pensassi !. Puoi solo dire " Mio Dio, io non lo so, ma se è un errore l'inconscio Io correggerà, lo credo che sia così " ... E questo conta! ” (6). È sbagliato quello che dico, oppure è esagerato? Se la preoccupazione principale di Jung è stata quella

di capire in che modo operino le strutture spirituali, cioè gli archetipi, e che cosa sia il processo di individuazione, cioè la ricerca della via individuale, possiamo dire che i candidati che giungono al training junghiano ponendosi queste stesse domande sono arrivati nel posto sbagliato? Oppure per la ragione sbagliata? Inoltre, essi dovrebbero accontentarsi di uscire dal processo di training semplicemente come psicologi professionisti, sia pure con un certo sapore junghiano (come una goccia di limone in un cocktail)? lo vedo l'analisi, come dice Jung, come una “ lunga discussione con il Grande Uomo, un tentativo impossibile di comprenderlo ” (7). A mio parere l'analisi evolve come un essere vivente, e può diventare una virtù nel senso aristotelico: la pratica abituale di una via di mezzo — meditazione — tra gli estremi (8). In questo caso, gli estremi di egoismo e inconsapevolezza. Per esprimermi in altro modo, più complesso ma forse più descrittivo, un luogo di mezzo abituale che, se viene coltivato, si rivela come una via che si snoda tra stati parzialmente conosciuti di “ co-scienza ” (gli stati di coscienza a disposizione dell'Io) e stati irri-conosciuti di “ co-scienza ” che funzionano senza alcuna consapevolezza o scelta cosciente. Secondo il mio punto di vista, i veri candidati sono spinti dall'“ affinità ” verso certi analisti. La parola affinità deriva dal latino affinis (ad finis) che significa confinante, limitrofo, affine per via di matrimonio (9). La saggezza popolare dice che “ ogni simile ama il suo simile ”, e in un modo o nell'altro essi riescono a trovarsi. I candidati apprendono — di qui il mio uso della parola “ apprendista ”, colui che apprende — l'arte/ mestiere/scienza analitica della meditazione con un altro, condotta in segretezza in un'atmosfera di assoluta confidenza. È questo che da all'analisi il carattere particolare che la distingue da ogni altra forma di meditazione. La meditazione, nel senso in cui uso il termine — come virtù e come mediazione — ha a che fare con la pratica di essere nel mezzo, nel

(7) Ibidem.

(8) Aristotele, Etica Nico-machea, 1107 a.

(9) E. Klein, op. cit., p. 16.

(10) H. F. Ellenberger (1970), La scoperta dell'inconscio, Torino, Boringhieri, 1972, pp. 515 e 777.

(11) F. Dostoevskji, / fratelli Karamazov, Firenze, Sansoni, 1958, p. 65.

nucleo stesso delle cose, la materia, dove forma e sostanza vanno insieme. La pratica analitica si svolge rigorosamente con un altro. L'analista, coltivando questa modalità con un altro, ha già scoperto la via per accedere a quella storia che è la sua vita. L'analista e il candidato, osservando processi interconnessi, l'uno grazie a una via già trovata e l'altro in virtù di una segreta affinità che tende a svelarsi, sono entrambi apprendisti nell'opera comune — condotta dal “ Grande Uomo ”, la guida “ inferiore ”. Chi altri, se non una guida in-teriore ha accompagnato Freud e Jung in quella che Ellenberger ha definito la loro “ malattia creativa ”? (10). Spesso l'analista, e a volte anche il candidato, prendono o piuttosto " rubano ” qualcosa al maestro interiore che si rivela in un sogno o in un'immagine. Così il dio che si aggira nei dintorni, ai confini, Ermes, fornisce frammenti di conoscenza sul modo in cui vanno le cose in quest'area particolare. Ermes bambino doveva conoscere molto bene i movimenti di suo fratello per poter compiere il suo furto. Il furto di un candidato è pericoloso non perché sottrae qualcosa all'analista (questi infatti non è che un mediatore) e neanche perché premio di tale “ misfatto ” è un diploma o un riconoscimento professionale, piuttosto perché è in gioco la capacità di trarre dall'interno conoscenze che possano produrre frutti tangibili. Questa affermazione è parti-colarmente interessante perché, come dice Gesù da acuto psicologo, “ dai loro frutti li riconoscerai ”. La vita di un analista è sottomissione, per amore del frutto, a una guida inferiore che, come dice Dostoevskji,

“ si prende la vostra anima, la vostra volontà, e l'assorbe nella sua propria anima, nella sua propria volontà... vi separate dalla vostra volontà e la date a lui in obbedienza assoluta, con una autorinunzia completa. Questa prova, questa terribile scuola dì vita, colui che fa il voto l'accetta volontariamente perché spera, dopo la lunga prova, di vincere se stesso, di dominare se stesso a tal punto da potere, alla fine, con l'obbedienza di una vita intera, raggiungere la libertà perfetta, cioè la libertà dal proprio io, e sfuggire così alla sorte di quelli che hanno vissuto tutta una vita e non hanno ritrovato se stessi” (11).

Naturalmente è necessario distinguere questa guida interiore dall'analista e anche riconoscere se l'analista trae frutti dal proprio dialogo con il “ Grande Uomo ” oppure da nozioni e tecniche apprese sui libri. Senza la garanzia di un'assoluta confidenza non si può arrivare ad aver fede nella guida interiore, ne è possibile distinguerla dall'analista. Confidenza significa “ con fiducia ”, “ con fede ” (12). Ma come Jung ha sottolineato, la fede è un carisma, un dono, qualcosa che non si può insegnare o inventare, che viene solo “ deo concedente ”. Nella situazione di confidenza analitica si apprende ad aver fede nella guida interiore. Come un baco mette le ali all'interno del bozzolo, così questa delicata operazione avviene più facilmente in un vaso ermetico (13). Perciò l'interferenza dei comitati di training, o di chiunque altro, disturba questo spazio chiuso e ne muta le possibilità. Potranno nascere altri frutti, ma non il frutto segreto della fede. La meditazione viene deviata e non è più possibile stare nel mezzo. C'è quindi il pericolo di politicizzare l'analisi, oppure che si sviluppi nell'analista e nel candidato un atteggiamento estetico. È anche possibile che abbia inizio una forma di rituale. Come dice Lao-Tsu: “ Se si abbandona la giustizia allora (si fa valere) la condotta rituale ... la condotta rituale è il sottile guscio della fedeltà e della buona fede, è l'inizio del disordine ” (14). Desidero ora ricordare le parole di Jung su questa “ segreta ” apparizione che, a mio parere, la confidenzialità dell'analisi è destinata a proteggere e favorire. È una citazione piuttosto lunga, ma è giustificata dalla gravita dei problemi che tocca:

L'individuo che sia solo sulla sua strada ha bisogno di un segreto che per varie ragioni non possa o non gli sia consentito rivelare. Un tale segreto lo costringe all'isolamento, nel suo individuale progetto: molti individui non sanno sopportare un tale isolamento. Sono i nevrotici, che necessariamente giocano a nascondino con gli altri come con se stessi, senza essere capaci di prendere nulla veramente sul serio. Di solito finiscono col sacrificare il loro scopo individuale alla loro brama di ade-guamento collettivo, processo che tutte le opinioni, le credenze e gli ideali del loro ambiente incoraggiano. Inoltre non vi sono argomenti razionali che prevalgano contro l'ambiente. Solo un

(12) E. Klein, op. cit., p. 157. Vedi anche la voce “fidelity”, p. 280.

(13) Ibidem, p. 344: “ her-meticus, che attiene a Hermes (Trismegistus) ... ' Hermes tre volte il più grande ', è il nome greco del dio egiziano Toth che si diceva avesse inventato l'arte di costruire un tubo di vetro a tenuta d'aria ”.

(14) Tao-té-ching, op. cit., p. 99.

(15) Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung, raccolti e editi da Aniela Jaffé, Milano, II Saggiatore, 1965, pp. 381-383.

segreto che l'individuo non possa tradire — che tema di abbandonare, o che non possa esprimere a parole, e che pertanto sembri appartenere alla categoria delle follie — può impedire il cedimento altrimenti inevitabile. Ma se un uomo si trova di fronte a un conflitto di doveri e si accinge a risolverlo fondando sulla sua personale responsabilità, e dinanzi a un giudice che siede in giudizio giorno e notte, egli si ritrova nella posizione dell'” uomo solo ”. Possiede un segreto autentico che non può essere messo in discussione, non fosse altro perché egli è coinvolto in un dibattito interno senza fine, nel quale egli è avvocato e spietato accu-satore, e nessun giudice secolare o spirituale può ridargli un sonno tranquillo. Se le decisioni di tali giudici non gli fossero già note fino alla sazietà, non si sarebbe mal trovato in un conflitto, poiché questo presuppone sempre un alto senso di responsabilità. È proprio questa virtù che impedisce al suo possessore di accettare le decisioni di una collettività. Nel suo caso la corte si è trasferita dal mondo esterno in quello inferiore, dove il verdetto viene pronunciato a porte chiuse. Una volta che ciò accada, però, la coscienza dell'individuo acquista un significato che prima non aveva. Egli non è più soltanto il suo io ben noto e socialmente definito, ma è anche la corte che discute che valore esso abbia in sé e per sé. Nulla favorisce la presa di coscienza tanto quanto questo intimo confronto dei principi opposti. Non solo l'accusa presenta fatti del tutto insospettati, ma anche la difesa è costretta a scoprire argomenti fino a quel momento sconosciuti. Con questo, una parte considerevole del mondo esterno raggiunge l'interno, ma il mondo esterno ne risulta depauperato o alleggerito; d'altra parte il mondo inferiore ha guadagnato altrettanto d'importanza, per essere stato innalzato al rango di tribunale per decisioni morali. Comunque, l'io che prima era per così dire univoco, perde la prerogativa di semplice accusatore e acquista in cambio lo svantaggio di essere anche l'accusato. L'io diviene ambivalente e ambiguo, e si trova tra incudine e martello: diviene consapevole di una bipolarità sopraordinata a lui stesso (15).

Ritengo che scopo del training analitico non sia la professionalità o qualunque altra cosa, ma l' “ importanza ” che viene acquistata dalla psiche individuale che, come dice Jung, innalza il mondo individuale “al rango di tribunale per decisioni morali ”. L'analisi è, secondo me, uno strumento di questo processo segreto, e la confidenza è l'unico modo per proteggerlo. Per concludere, vorrei accennare al problema del denaro. L'analisi si paga col sangue, con denaro che equivale a carne e sangue. Gli spiriti dentro di noi,

presenze sconosciute che si fondano su strutture archetipiche, vogliono sangue, come in Omero. Se non puoi offrire un vitello o un ariete, offri i guadagni per cui hai sudato sangue in nome di un'immagine (probabilmente unilaterale) del valore della vita. Si deve pagare un prezzo di sangue: ologrammi neutralizzati nelle proteine, paradigmi, strutture archetipiche relegate nel mondo sotterraneo, e quindi trasformate in ombre che chiedono la loro parte di quello che si è guadagnato seguendo un'immagine del valore che non è la loro — mentre esse sono state tenute dietro le “ quinte ”, nell'inconscio, ma pur sempre presenti. L'analisi, come forma peculiare di meditazione archetipica, è un luogo di nutrizione; presenze sconosciute vengono qui segretamente per nutrirsi. Pagare per l'analisi è un modo dì erigere un tempio agli dei nascosti.

Appendice

Fantasia 1: Secondo una fantasia atletica, il training può essere Io sviluppo di muscoli, di velocità o di destrezza. Ma quali muscoli della psiche si devono sviluppare? È possibile insegnare a intervenire rapidamente o a usare una tecnica efficace, sapendo che proprio queste sono le più valide difese contro l'esperienza? Fantasia 2: II training può essere visto come una ferrovia. Si mettono insieme vagoni merci (che trasportano gli animali della psiche), vagoni di carbone (che trasportano la nostra putrefazione pietrificata) e vagoni passeggeri (che trasportano le nostre figure interne). Ma chi conduce questo convoglio? A chi pagano il biglietto i passeggeri? E infine, chi fa questo viaggio?

Trad. di LUCIANA BALDACCINI

La psicoterapia dellepsicosi nel trainingpsicoanalitico

Eberhard Jung, Berlino

Credo che un breve excursus storico sulla psichiatriadinamica sia importante per mostrare l'evoluzione che haportato alla situazione su cui si basa il nostro lavoroattuale.È noto che i prodromi o gli inizi di una psichiatriadinamica si possono far risalire ai medici stregoni e aglisciamani dei popoli primitivi. Già essi infatti curavano eguarivano con mezzi psicologici. Ma la concezionedinamica, in particolare nell'ambito della psichiatria, hasubito nel tempo numerose metamorfosi ed è statasempre trattata in modo estremamente ambivalente,come un bambino antipatico. Le scoperte nel campo dellafisica e della chimica o della fisiologia sono state ingenere accettate molto più facilmente. L'approcciodinamico nella psichiatria è stato particolarmentetrascurato nei periodi in cui c'è stata una ipertrofia dellescienze naturali. Questo fenomeno può essere facilmentedocumentato con un esempio dei nostri tempi, seseguiamo la marcia trionfale degli psicofarmaci lungo lavia della loro diffusione e la confrontiamo con il grannumero di interventi che sono stati necessari perché ilpen-

siero dinamico trovasse spazio nell'ambito della psichiatria.Ma ancora oggi ha un posto sicuro solo in pochi luoghi.Nonostante continui pericoli e le continue crisi, si puòtuttavia seguire un'evoluzione costante dagli inizi fino aisistemi dinamici dei nostri tempi.100 anni fa sembrava che finalmente il bando fosse venutomeno.Allora le speranze furono grandi, ma ben presto seguì unnuovo declino. La cosiddetta scuola psichiatrica hacontinuato a proliferare in contrapposizione con laconcezione dinamica all'interno del suo campo spe-cialistico e ha fissato dei limiti ancora più netti. Così lapsichiatria e la psicoterapia si sono trovate l'una di fronteall'altra come due fratelli nemici. Le oscillazioni che hannocaratterizzato i primi seri tentativi di una psichiatriadinamica, sono alimentate e sostenute dalla nettaopposizione coscientemente tracciata tra soma e psiche.Anche in Germania la psichiatria e la psicoanalisi seguonovie del tutto separate.Tanto più bisogna deplorare il fatto che le ricerchecondotte alla clinica psichiatrica Burgholzli di Zurigo acavallo del secolo non abbiano portato a una svoltaall'interno della psichiatria (1). Bleuler collegò con l'arrivo diC. G. Jung a questa clinica nel 1901 l'espresso desideriodi analizzare l'inconscio dei pazienti schizofrenici tramitel'esperimento di associazione, e con ciò fu postochiaramente l'accento sull'importanza della psicodinamica.Particolare menzione meritano anche psichiatri americanicome Brill, Peterson e Putnam, che molto prima dellaprima guerra mondiale hanno collegato la psicoanalisi conla psichiatria americana.C. G. Jung ha un posto importante tra i pionieri dellapsichiatria dinamica. Con la sua analisi dell'inconscioindipendentemente dalla psicoanalisi, anch'egli riprese ladualità caduta in oblio di psiche « conscia » e « inconscia »e sottolineò l'importanza del « rapporto affettivo » nellarelazione con il paziente. Merita la nostra attenzione ilprincipio umanitario sostenuto in particolare dalla scuola diZurigo. Già

(1) E. Jung, « Ueber denBeitrag der AnalytischenPsychologie C. G. Jungs zurpsychiatrischen Forschung »,Zeitschrift fur AnalytischePsychologie, 4, 2, 1973, p.105.

(2) C. G. Jung, « II con-tenuto della psicosi »,Psicogenesi delle malattiementali (Opere, 3), Torino,Boringhieri, 1971, p. 171.

(3) C. G. Jung, « Die FamiliareKonstellation », GesammelteWerke Band 2, Zurich,Rascher - Verlag, 1979, p.488.

(4) H. K. Fierz, « Klinik undAnalytische Psychologie »,Studien aus dem C. G. Jung -Institut Zùrich, Rascher-Verlag, 1963, vol. XV.

(5) C. T. Frey-WehrIin, «Behandiung chronischerPsichosen », Analyt. Psy-chol., Basilea, Karger-Ver-lag,1978, vol. 9, 2. p. 132.

nelle prime opere psichiatriche di Jung troviamo ripetutiaccenni al fatto che il clima psicologico della cllnicarappresenta tutt'altro che un lusso superfluo. Tutto ciò cheforma questo clima è una componente essenziale dellemisure terapeutiche che influiscono sui pazienti. Oltre adesternare la sua alta esigenza scientifica e il suo livelloelevato, Jung non ha mai esitato a esprimersi sui problemiterapeutici quotidiani. In forma assai polemica egli critica icontinui tentativi di somatizzare la schizofrenia: « il malatomentale... è un essere umano, che soffre come noi diproblemi che sono di tutti gli uomini, e non è una macchinacerebrale che abbia avuto un guasto ... Se cerchiamoinvece di immedesimarci nei segreti umani del malato,anche la follia svela il suo sistema, e noi riconosciamonella malattia mentale soltanto una reazione insolita aproblemi affettivi che non sono estranei a nessuno di noi »(2).Dei suoi lavori di ricerca con l'esperimento di associazionedi parole riguardo all'analisi della schizofrenia deve esserecitato qui solo lo studio fatto insieme con Emma Furst,poiché esso merita attenzione in relazione con la terapiafamiliare, riconosciuta oggi tanto come campo di ricercaquanto come metodo terapeutico (3).Come psicologi analisti dobbiamo segnalare comeomissione e deplorare il fatto che non sia stato continuatoil lavoro di allora per la sua importanza per la ricercapsichiatrica e l'ulteriore evoluzione. Non si devono peròdimenticare le poche eccezioni — come le operescientifiche di Fierz (4) e di Frey-Wehriin (5). Jung stesso,che fino alla sua morte ha rivolto il proprio interessescientifico alla schizofrenia, nel corso degli anni ha ridottomolto il lavoro terapeutico con gli psicotici. In questo sensoanch'egli appartiene ai terapeuti della psicosi inizialmentemolto impegnati, che si sono poi ritirati dalla clinicapsichiatrica dedicandosi prevalentemente alla terapia deidisturbi nevrotici.Ancora oggi la maggior parte dei colleghi, durante ilperiodo di training per diventare psicoterapeuti analisti, sitrovano di fronte all'opposizione tra psi-

chiatria, da un lato, e concezione psicodinamica, dall'altro,soprattutto quando continuano durante il training a lavorarein una clinica psichiatrica.Se oggi venisse realizzato il training a tempo pieno, ci sidovrebbe preoccupare seriamente per il successo deglisforzi attuali di integrazione e temere una nuova scissionetra psichiatria e psicoterapia e ciò in un periodo in cui lapsichiatria da parte sua si sforza di arrivare aun'integrazione della concezione dinamica.

In sintesi, Volk (6) ha contrapposto i ruoli nettamentedelimitati e perfino antitetici dello psichiatra e dellopsicoanalista. Ha dimostrato che cosa si pretenda dalcandidato in training psiconalitico, che per anni vieneesposto a questa tensione e ci si aspetta che la sopporti operfino che la risolva. Volk mette in evidenza i diversiconcetti diagnostici e le diverse strategie terapeutiche, inbase a cui entrambi pretendono di volta in volta unatteggiamento e un'attività terapeutica diversa. Resta perlui invincibile la polarità tra le due discipline, che opprimeparti-colarmente i colleghi giovani, poiché esse si esclu-dono per la loro opposizione e contraddizione. Così nelmigliore dei casi i due corsi di training si svolgono l'unoaccanto all'altro. Non si può offrire un sostegno chefavorisca l'integrazione, se coloro che devono comunicarele conoscenze e trasmettere le esperienze non hannocompiuto essi stessi questo passo.

Per l'ammissione al training le esperienze di rapporto congli psicotici rappresentano un criterio molto importante,probabilmente perché in questi casi è possibile unriconoscimento molto precoce basato su una diagnosidifferenziale. Dovrebbe quindi aumentare la sicurezza concui si fa una diagnosi di nevrosi. In ogni caso, con ciò nonsi intende includere gli psicotici nella cura psicoterapeutica.Nella pratica, per fare delle esperienze preziose sotto laprotezione dell'istituzione con pazienti agitati, aggressivi econ tendenze suicide la clinica psichiatrica è senz'altroabbastanza buona. Così fino ad oggi la psicoterapia dellepsicosi non è integrata nei

(6) W. Volk, Zur Polaritat vontiefenpsychologischerAusbildung und Psychiatrie,Theorie und Praxis derPsychoanalyse, Bonz-Verlag,1979, p. 265.

corsi di training. Ben presto anche quei colleghi che peranni si sono dedicati con interesse alla psicoterapia dellepsicosi si limitano alla cura delle nevrosi.Del resto si deve segnalare come un'impressionanteprova di carenza il fatto che un training talmente lungo edifferenziato e una forma di terapia basata sul rapportopersonale tra medico e paziente non siano riusciti acreare, a offrire e a comunicare le premesse necessarioper la terapia delle psicosi e per il rapporto con questogruppo di pazienti.Generalmente i didatti favoriscono negli allievi le riservementali piuttosto che un confronto critico con taleproblema. In ogni caso, una specializzazione nellapsicoterapia delle psicosi esclude il corso di training perdiventare psicoanalista. Quando un collega iniziaprecocemente a curare le psicosi, la sua attività vieneguardata con particolare sospetto. Non ci si fida di lui e siesamina attentamente se dietro l'interesse specialistico edietro il suo lavoro quotidiano non sia riconoscibileun'ostinazione maggiore di quella che gli è concessadurante il corso di training. In ciò probabilmente ha unruolo preciso il fatto che a volte i colleghi che si dedicanoalla psicoterapia sono particolarmente originali e ostinati.Così accanto alla critica che un collega nella sua attività dianalista lavori « in maniera troppo psichiatrica », c'èanche quella che egli nel suo lavoro di psichiatra sia «troppo analista ».Nella grande clinica psichiatrica da me diretta, che con lasua disponibilità di 950 posti letto è competente per lacompleta assistenza territoriale di 5 circoscrizioni diBerlino, abbiamo sviluppato una concezione terapeuticacon cui cerchiamo di realizzare sia i compiti terapeuticiche il training.A causa di vari problemi che si presentano, abbiamopredisposto un'articolazione funzionale oltre a quellasettoriale. Così dei pazienti scelti conformemente alle loroesigenze terapeutiche particolari possono essere curaticon una psicoterapia basata sulla psicologia del profondo.Accanto a una specifica unità di reparto per la terapiadelle malattie nevrotiche,

competente per tutta la clinica, è a disposizione di ognidivisione un reparto per la cura psicoterapeutica di quellemalattie nevrotiche e psicotiche per le quali la psicoterapiaanalitica in senso proprio non è indicata.Questo reparto, che può ospitare 30 pazienti, accettapersone o per ricovero diretto o per trasferimento daireparti chiusi. Per creare un'atmosfera che sia il piùpossibile vicina alle condizioni della vita reale fuori dellaclinica, vengono ricoverati insieme donne e uomini, insiemecon altri pazienti di età diversa. Oggi abbiamo alle spalleun'esperienza di oltre 10 anni per valutare l'efficacia delnostro lavoro (7). Naturalmente, nel corso degli anniabbiamo modificato il nostro metodo terapeutico, nellamisura in cui noi stessi siamo cambiati. In questo senso èovvio che prendiamo le mosse da una divisione psichiatricao da un'unità di reparto come gruppo dinamico, il cui lavoroè espressamente e prevalentemente determinato dallanecessità del cambiamento e dall'ulteriore evoluzione.Naturalmente tale progetto può riuscire solo se vengonoinclusi tutti coloro che prendono parte alla terapia comecollaboratori. Qui posso solo accennare all'importanza delpositivo processo di evoluzione dei collaboratori nonmedici. In ogni caso, nel corso di parecchi anni si è riuscitia sviluppare un'atmosfera di fiducia, di muta sincerità e diinteresse reciproco, alla cui creazione partecipano ipazienti e i collaboratori in ugual misura.L'evoluzione avvenuta negli ultimi anni si può sche-matizzare nel modo seguente:Se partiamo dai desideri regressivi molto forti di un gruppodi pazienti ricoverati per una terapia clinico-ospedaliera,allora non ci meravigliamo dei desideri regressivi chetalvolta si manifestano perfino con distorsioni estreme dopoun'assistenza e un sostegno passivo. II fatto che questidesideri non possano e non debbano essere soddisfattiporta necessariamente alla manifestazione di malumori einsoddisfazioni, delusioni e rimproveri. Dopo che ci èdiventata chiara la rimozione di altre esigenze molto

(7) E. Jung, « Interaktion undBeziehung im analytisch-therapeutischen Prozess mitPsychosekranken », Analyt.Psychol., cit., 1979, vol. 10,pp. 23-41.

più importanti ma anche più pericolose, proprio su questopiano materiale o orale, in un primo momento abbiamoassunto su di noi il ruolo della madre che nega e quindiabbiamo dato l'avvio a una lunghissima e produttiva fasedi confronto. Con nostra grande sorpresa, in uno stadiosuccessivo si è avuta l'elaborazione della delusionevissuta nei confronti del padre, sia che questi fossemancato completamente oppure che si fosseampiamente negato. Ma in ogni caso si era dimostratotroppo debole. I desideri repressi erano così statimobilitati e si è potuto chiarire in che misura questifossero stati spostati sul marito e sul partner, che daparte sua — considerato alla luce di questi desideriinconsci — rappresentava la figura del debole. Trascorsialtri mesi, abbiamo potuto lavorare per la prima voltasulla base sicura di un transfert paterno positivo, e conciò si è creato un contrappeso molto importante al-l'accentuazione materna, che invece è più forte nelquadro di un orientamento clinico. È relativamente facilericonoscere se nel transfert si cerca prevalentemente lacompensazione di un deficit. Attributi come coerente,ordinato, puntuale, scientifico, preciso, aperto, disposto aldialogo, incline, sperimentato, scomodo sono alloravissuti in modo prevalentemente positivo.Non mi è possibile qui esaminare più a fondo la si-tuazione terapeutica iniziale più difficile, cioè quella deipazienti a cui manca la percezione di malattia e lamotivazione alla terapia. Nelle mie argomentazioni sullaparte cattiva di sé e sull'oggetto cattivo, prenderò inconsiderazione le basi dell'immagine ostile che simanifesta regolarmente in queste persone e che vieneproiettata sulla cllnica e sui terapeuti. In questi casi, aiterapeuti si pone il problema di capire da dove essitraggano le premesse e la forza per affrontarequotidianamente una situazione in cui sono rifiutati,oltraggiati, minacciati e attaccati. Si pone qui in tutta lasua portata il problema pressante della qualità deltraining.Come cerchiamo allora di risolvere il problema e i compitidel training? Per me non c'è dubbio che la

struttura teorica della psicologia analitica e le esperienzepratiche acquisite con il suo uso terapeutico offrano dellepremesse sufficienti per un modello integrativo.La psicoterapia delle psicosi, in particolare nel quadrospecialistico di un ricovero in clinica, richiede l'inclusionedella psicoterapia di gruppo, che è stata troppo a lungoscreditata e trascurata, particolarmente dalla psicologiaanalitica. Con essa però è strettamente collegato ilpensiero dinamico della psichiatria. Le riserve dellapsicologia analitica nei confronti della terapia di grupporisalgono essenzialmente alle argomentazioni moltocritiche di C. G. Jung. Egli non solo ha messo in evidenzala coppia di opposti collettività-individuo o società-personalità, ma per lungo tempo ha semplicemente inteso ifenomeni di gruppo e la dinamica di gruppo sulla base diuna psicologia delle masse giudicata in modo negativo eperciò li ha rifiutati come metodo terapeutico. Ancora nellasua opera della maturità Mysterium coniunctionis (8) lamassa appare come un mostro, che nella sua primitività sidistingue per « il primordiale piacere dell'assassinio el'ebbrezza del sangue ». Queste riserve mentali hannoprodotto in generale un forte effetto frenante, per cui imetodi di terapia di gruppo in un primo tempo sono statisviluppati solo singolarmente. La psicoanalisi invece haabbandonato le sue riserve precedenti, e quindiinizialmente ci siamo orientati sulle sue ipotesi e le sueesperienze.Seifert (9), per primo nella letteratura specialistica in linguatedesca, ha chiesto che a proposito del nostro metodo nonsi parli di masse, ma di grandi gruppi: « I grandi gruppiprovocano lo sviluppo di metodi e di nuovi punti di vista,che rendono possibile la soluzione di molteplici problemiche spesso sono sicuramente pericolosi. Proprio a questoproposito la psicologia analitica dovrebbe e potrebbe offrireimportanti contributi, non da ultimo sulla base delladinamica compensatoria da essa riconosciuta tracoscienza collettiva e inconscio collettivo. L'Io del singolodeve affermarsi tra queste due forze ».

(8) C. G. Jung, Mysteriumconiunctionis, G. W. 14/2,Zurich, Rascher - Verlag,1968, p. 117.

(9) Th. Seifert, << Die Grup-pentherapie im Rahmen deranalytischen Psychologie »,Analyt. Psychol., 1974, vol. 5,pp. 30-44.

(10) Ibidem, p. 37.

(11) M. Grotjahn, « Grup-pentherapie in der psy-chiatrischen Praxis », Psy-chologie des XX Jahrhun-derts, Munchen, Kindler-Verlag, 1980, vol. X, p. 978.

(12) L. Kreeger (Hrsg.), DieGrossgruppe, Konzepte derHumanwissenschaften, ErnstKlett - Verlag, 1977.

Da ciò Seifert trae la conclusione che « la terapia di gruppooffre la possibilità di elaborare in maniera costruttiva deiproblemi centrali della psicologia analitica, cioè quelli delrafforzamento del singolo di fronte ai pericoli dei grandigruppi »(10).

Con la nostra proposta di terapia globale, consistente nellaterapia di gruppo, in gruppi grandi e piccoli, ed anche insedute di terapia familiare e in colloqui individuali,possiamo scoprire importanti compiti terapeutici, poichéessa tiene conto dei diversi interessi dello psicotico.Attraverso la partecipazione dei collaboratori alle singolesedute di gruppo si rivelano dei compiti essenziali deltraining. L'uso terapeutico della dinamica e dell'interazionenei grandi gruppi è ancora oggi largamente agli inizi.Anche l'opera enciclopedica in 15 volumi « La psicologiadel XX secolo » — ogni volume comprende più di 1000pagine — dedica non più di mezza pagina al tema deigrandi gruppi. Troviamo solo un breve accenno a LeonelKreeger, che ha riferito le prime osservazioni. Lì MartinGrotjan(11) dice: « Ma finora non si è riusciti ne apadroneggiare la tecnica ne a superare le difficoltà didescrizione di questo gruppo... Alcune deduzioni e alcunipostulati psicoanalitici del sistema teorico di Melanie Kleindiventano chiaramente accessibili all'osservazione direttanei grandi gruppi. Ma non è sicuro se lo stato attuale dellaterapia di gruppo permetta già degli esperimenti di ricerca,con cui sia possibile analizzare o anche solo descrivere iprocessi di gruppo nei grandi gruppi ».Già da parecchi anni avevamo acquisito importantiesperienze con il modello terapeutico da noi sviluppato,che comprendeva il lavoro in grandi gruppi terapeutici,quando nel 1978 apparve una prima pubblicazione piùestesa di Leonel Kreeger proprio sul tema del grandegruppo (12). Nelle esperienze che venivano lì riportateabbiamo trovato un'importante conferma del nostro lavoro.Però avevamo iniziato in un periodo in cui l'uso terapeuticodel grande gruppo era ancora quasi sconosciuto. In basealle nostre osservazioni e alle nostre esperienze, possia-

mo enunciare la tesi centrale che il lavoro terapeutico neigrandi gruppi non mette in pericolo l'individuazione delsingolo, ma anzi può favorirla, e che il singolo nonsoccombe fatalmente all'offerta regressiva e non diventavittima della sua passività, ma che proprio negli psicotici laregressione ai primi stadi dello sviluppo giova molto allaterapia. Definiamo « grande gruppo » quello formato dacirca 25 pazienti di un reparto che ne comprende in totale30 e consideriamo invece « piccolo gruppo terapeutico »,che è stato ben analizzato scientificamente, quello limitatoa 5, o al massimo 7-8 partecipanti. Proponiamo questadelimitazione in base alle nostre esperienze, anche se Asche altri (13) indicano nel numero di 50 partecipanti il confineoltre il quale un piccolo gruppo diventa un cosiddettogrande gruppo. Nell'ordine di grandezza da noi scelto imèmbri estroversi tendono a dominare le interazioni,mentre quelli introversi si ritraggono. La discussione èmeno esplorativa e per mezzo di essa vengono accettate ledifferenze non risolte tra i mèmbri. Tuttavia, dai partecipantial gruppo si pretende di più che in ogni altra situazioneterapeutica. Il fatto che il gruppo reagisce in modo piùarrendevole al leader e al suo intervento rappresenta unatentazione per il leader stesso e un pericolo per il gruppo,nella misura in cui l'istigazione può subentrare al postodella guida. Di regola in una settimana si tengono duesedute del grande gruppo della durata di 60 minuti. Unaparte dei pazienti, a causa di precedenti esperienzepsicotiche, è già stata curata in altre cliniche o anche nellanostra e così si accerta che le malattie e le terapieprecedenti non rappresentano una controindicazione.In questi anni abbiamo accertato che nella maggior partedei casi il processo dinamico all'interno del gruppo inducemolto presto a una collaborazione attiva anche quei pazientiche all'inizio erano ancora incerti sulla motivazione dellaloro terapia. Per quanto riguarda l'esame dì realtà i pazienticomunicano reciprocamente quanto sia importante la lorocollaborazione per il successo della terapia.

(13) ibidem, p. 117.

Dall'immediatezza dell'esperienza vissuta all'interno delgruppo deriva un influsso così positivo che può essereesercitato solo dai terapeuti in faticosi colloqui individualicon pazienti ambivalenti e fissati nella loro resistenza.Non possiamo in alcun modo confermare le riserveavanzate da C. G. Jung nei confronti degli esiti dinamiciall'interno di un gruppo. Egli le ha motivate con i pericoli acui l'individuo sarebbe esposto nel gruppo e a cuisoccomberebbe troppo facilmente:1. Rinunzia e mancata percezione della responsabilitàpersonale.2. Possibilità di essere istigato.3. Passività.4. Schivare l'individuazione.5. Trascuranza della forza creativa dell'individuo. Jungnon ha compiuto il passo di dire fino a che punto possanoessere utilizzati i rischi e i modi di comportamento delsingolo nel gruppo, e ciò è tanto più spiacevole in quantoegli con la sua psicologia analitica ha sviluppato deiconcetti teorici praticabili, cioè applicabili nella terapia.Nel grande gruppo, come unità sociale più grande subitodopo la famiglia, vengono rappresentati i valori, i principie le norme valide in una società più o menoconsciamente, ma in ogni caso in modo molto chiaro.In tale gruppo vengono abbandonati i tabù che pro-teggono l'intimità della famiglia e così il singolo sulla viadella sua autonomia si presenta in pubblico superando lepaure che sempre accompagnano questo processo. Eglisi libera dalle limitazioni poste frequentemente dallafamiglia e viene così messo in condizione di esporrel'aspetto sociale del suo problema. Quindi il lavoro neigrandi gruppi, in quanto lezione oggettiva per eccellenza,è particolarmente adatto allo studio della coscienzacollettiva, delle sue dominanti e in particolare della suarigidità. Un esempio a questo proposito: due giovanidonne comunicano di essere di fronte al problema di po-tere e volere far nascere i loro bambini o di doverdecidere di interrompere la gravidanza. Chiedono se

un'interruzione non sia perfino logicamente necessaria acausa della loro malattia, cioè a causa della loro attualesituazione di vita e del loro stato di sviluppo in quelmomento, in particolare per quanto riguarda l'assunzionedì compiti e funzioni materne. Subito si sviluppa unconfronto tra i partecipanti maschi del gruppo, da unaparte, e queste due donne, dall'altra. Dalla parte maschileviene sollevata la esigenza che una buona madre debbaovviamente accettare il proprio bambino ed anche volerlofare nascere. È sorprendente che le due donne incinte, inquesta situazione vengono lasciate sole, cioè in un primomomento non ricevono alcun tipo di appoggio, neppuredalle altre donne.Così devono « assumersi la responsabilità » da sole difronte agli uomini. Esse respingono decisamente la lororichiesta e protestano contro il fatto di dover confermarela loro immagine di donne e di madri, sottomettendosi adessa. Ben presto diventa chiaro ciò che gli uomini siaspettano dalla buona madre. Ora le partecipanti donnedel gruppo sono d'accordo tra loro e proprio per ilproblema del loro essere donne e madri, che è per lorofondamentale, pretendono qualcosa di più del diritto dipartecipare al discorso. Esse si oppongono al fatto che daparte degli uomini vengano loro imposte delle idee moralie dei valori, facendo anche leva sui sensi di colpa e sulsospetto che siano cattive, che non valgano nulla e nonsiano abbastanza dotate di abnegazione e altruismo. Conciò non si prende per nulla in considerazione il fatto che ledue donne sono lasciate sole dai loro compagni o uomini,anche nella decisione di accettare il bambino o diabortire. Così si rafforza in loro stesse la sensazione ditrovarsi nel ruolo del bambino abbandonato, per cui nonpossono vivere l'esperienza e reagire come donne omadri. Diventa chiaro che esse stesse da bambine sonostate deluse e abbandonate dai loro padri. Le loroesperienze negative si ripetono nel rapporto con ilpartner, con il marito, e ora anche all'interno dellasituazione di gruppo. Ma questa discussione e il confrontocon le norme e i valori che determinano la

(14) K. Theweleit, Man-nerphantasien, Verlag RoterStern, 1977, vol. 1 e 2.

coscienza collettiva sono solo apparentemente chiari edevidenti. Nello stesso tempo — cioè nel corso del processoterapeutico avvenuto nella settimana — il processodinamico più importante si è svolto sul piano dell'inconsciocollettivo.Klaus Theweleit, nel libro sulle « Fantasie degli uomini »(14) ha presentato questa tematica e questa problematicain una dimensione storica. L'immagine sbagliata dell'uomocon i falsi ideali dovuti all'educazione è un problema quasiinsolubile sia per gli uomini che per le donne. Essi hannospesso una personalità non sviluppata e infantile e inquesto atteggiamento infantile hanno paura — a ragione— come confermano affermazioni simili a questa: « Odio ilmio uomo per la sua infantilità, non è un uomo! » L'uomorimasto infantile non può comunicare alla sua donna lasicurezza desiderata, almeno se ella ha bisogno del suosostegno e del suo aiuto. « Io ero quasi prossima al partoed egli prima della nascita stava già nel letto di parto.M'inginocchiai davanti al suo letto e lo implorai di andare allavoro, affinchè avessimo qualcosa da mangiare. Glienesarei stata molto grata, anche se mia madre aveva semprepreteso gratitudine da me. A questo proposito fino ad ogginon ho capito perché ella mi abbia raccontato per anni chealcuni giorni prima del termine calcolato per la mia nascitaper poco non ero caduta nel gabinetto, perché ero venutaal mondo con una nascita improvvisa e precipitosa. Ero af-fogata nelle feci nel vero senso della parola! »Si può vedere assai bene la profondità del livello diregressione con l'esempio di un sogno di una dellepartecipanti al gruppo:Ho visto davanti a me grandi vene. Rosse fuori e nere dentro. Ho fatto unbalzo e sono rimasta sospesa nella profondità. Le vene andavano nellaterra e quando arrivavo alla fine c'erano molti letti in un grande ambiente.I medici erano seduti insieme nel locale ed io parlavo con loro e con ipazienti. Poi volevo ritornare. Ma la strada era sempre ostruita da barriereelettroniche. Lì accanto c'erano alcune persone. Non volevano lasciarmipassare. Mi è costata molta fatica passare attraverso gli ostacoli, ma l'hofatto. Quando sono tornata sopra, ho potuto respirare di nuovo e mi sonosentita così infinitamente liberata.

Dopo che la paziente aveva raccontato questo sognoalcuni mèmbri del gruppo hanno comunicatospontaneamente sogni analoghi, con la stessa tematicadi base e lo stesso simbolismo, nei quali si potevasempre scorgere la profondità della loro regressione.L'esempio di sogno citato indica in modo particolarmentechiaro la regressione archetipica nella madre. Tuttavianon è sognato il ritorno nel grembo della madrepersonale, ma piuttosto si tratta di un ingresso nellamadre terra in base alla necessità di un'unione o di unavita con la terra invece di una vita contro la natura e laterra. Con ciò la sognatrice manifesta uno dei problemicollettivi più attuali e più scottanti del nostro tempo. Ingenere viviamo troppo contro la natura, contro la terra econtro la nostra stessa vita, che stiamo distruggendoperché combattiamo contro la nostra natura e il nostromondo come se ne fossimo nemici inesorabili, In questosogno gli ostacoli minacciosi sulla via per la vitaassumono la forma delle barriere elettroniche di unatecnica ostile alla vita.II lavoro terapeutico nei grandi gruppi indica in modoparticolarmente chiaro la gerarchia dei vari livelli diregressione, poiché esso stesso offre lo spazio per taleprofondità. È questo il livello del rapporto duale simbioticotra madre e bambino, è il livello del Sé primario. Poiché idisturbi nell'area primaria sono rilevanti per la malattiapsicotica, per motivi terapeutici noi tendiamo a favorirequesta profondità di regressione, per lo meno in queipazienti che visibilmente credono in questa via. Partendoda lì possiamo dedicarci ai primi disturbi dell'Io con laformazione di un Sé individuale, di un'essenza propriadopo il superamento dell'unità simbiotica totale con lamadre. A nostro avviso, il grande gruppo simbolizza lamadre arcaica che abbraccia tutto, che come buonamadre rappresenta il mondo, il mondo della fiducia.Quindi non stupisce che la regressione a questa primafase di sviluppo riattivi anche antiche offese traumatiche.Sono rivissute così le sensazioni di non valere nulla e diessere rifiutati. Ma queste sensazioni di non ispirarefiducia e di non essere accettati

sono accompagnate dalla sensazione insopportabile diessere malvagi e cattivi. Tutto quello che si accompagna aqueste sensazioni viene respinto e ri volto contro lapropria esistenza e il proprio sviluppo. A questo propositosi può solo accennare all'origine delle cosiddetteschizofrenie coinestetiche. Per avere un atteggiamentopositivo tendente alla conservazione della vita, tutto ilmale deve essere eliminato al livello di questa primaesperienza.Con l'esperienza di essere malvagi, privi di valore e cattiviè strettamente collegato il problema della di-struttività. Laregressione protegge lo psicotico, tra l'altro, dal confrontocon la propria aggressività latente, egli conoscel'estensione e il pericolo dei micidiali impulsi latenti,mescolati ai sentimenti di odio. Partendo dal fatto che eglinon è in grado di controllarli, deve temere che anche il suoterapeuta non riesca a fronteggiarli. Non esente dadesideri e sensazioni magiche di onnipotenza, Ioangosciano straordinariamente le sue fantasie dismembramento.Antichi impulsi cannibaleschi si confondono con ildesiderio di smembrare l'altro per la sua forza e la suapotenza e di assorbirlo in sé, per essere così egli stessopiù forte e il più possibile vicino all'altro. Lacomunicazione, verbale o non verbale, è vissuta comestraordinariamente minacciosa, perché con essadiventerebbero evidenti le fantasie angosciose. A questolivello anche il linguaggio è vissuto come distruttivo,disgregante, egoistico e ostile, cioè la verbalizzazionedelle fantasie turba il rapporto con l'ambiente circostantein tale misura estrema che viene evitato completamenteogni tipo di rapporto. « II processo verbale dell'analisi » —dice Theweleit — « non si può avviare con i pazienti chenon dispongono di un lo edipico. L" io ' non è presente,perché lo sviluppo della persona è stato turbato in un pe-riodo in cui il bambino non ha un ' Io ' o non è un ' lo ', nepsichicamente ne fisiologicamente » (15). Oggi sappiamoche l'Io non si sviluppa semplicemente dallo statoinconscio, ma si differenzia dalla simbiosi madre-bambino, dall'unità duale di questo rapportostraordinariamente importante nelle prime fasi di svi-

(15) ibidem, vol. I, p.256.

luppo. Se il distacco dal rapporto simbiotico non riesce, siavranno gravi disturbi di importanti funzioni dell'Io. Il piùgrave di essi è che non si sviluppi affatto o sì sviluppi soloinsufficientemente la capacità di accettare rapporti con unoggetto. Mentre all'lo edipico resta sempre alla fine lacapacità di rimozione, quello così precocemente turbatodeve anche sopportare la consapevolezza dei suoiimpulsi distruttivi e così nel migliore dei casi può solotenerli nascosti.Nel grande gruppo la profondità della regressione diventapossibile perché ha il sostegno di tutti, senza però chetutti debbano parteciparvi attraverso l'espressioneverbale. Una parte — in particolare gli introversi — puòpermettersi di essere solo attentamente interessata.Quindi i partecipanti sostengono insieme la situazione digruppo, cercando e sopportando insieme il livello dellefantasie inconsce, e questo è molto importante per ilprocesso terapeutico, anche se in un primo momento nonsempre tutti partecipano alla sua espressione verbale.Tutti sono però interessati all'eliminazione della con-flittualità, al rifiuto dello stato di insicurezza, del senso dinon essere accolti e accettati. L'esperienza psichicavissuta nell'intimo viene dunque proiettata nelleinterazioni dove può essere rappresentata, e a ciò tuttisono decisamente interessati. Il grande gruppo offreproprio il teatro migliore per questa messa in scena.Il processo terapeutico va avanti con l'integrazione di unproprio aspetto del Sé, finora non integrato. Lacomunicazione non verbale ha in ciò grandissimaimportanza, se si tratta di mettere gli altri in unasituazione e in una disposizione affettiva simile a quellavissuta da uno o più partecipanti del gruppo. Trasformaree rappresentare tutto ciò a livello scenico è il lavorocomune del gruppo. In questo modo viene portataall'esterno l'esperienza incompatibile con il sentimentopsichico interiore e almeno alcuni partecipanti del gruppodevono conservare un ruolo determinato fino a quandociò sia raggiunto.

Nel grande gruppo diventano particolarmente evidenti lestrutture primarie di comunicazione. In particolare illeader del gruppo deve sopportare transfert arcaici earchetipici. Accettarli è una delle sue funzioni e dei suoicompiti più importanti, poiché attraverso di essi sonomobilitati desideri arcaici. Bisogna anche tener contodella dimensione dell'angoscia e delle sensazioni distupore, che diventano evidenti in relazione a ciò. L'utilitàterapeutica della situazione del grande gruppo si basa inprimo luogo sul fatto che tutti noi, dopo una prima fase disviluppo nella famiglia primaria, entriamo a far parte diraggruppamenti sociali più grandi. Tuttavia il lavoro neigrandi gruppi non sostituisce il lavoro nei piccoli gruppi ela terapia individuale.La conoscenza precisa del modo in cui si verificano iltransfert e il controtransfert è determinante per ilsuccesso della terapia. Uno dei miei pazienti si trovavasotto la pressione angosciosa delle sue fantasie e deisuoi impulsi di dovermi assassinare e fare a pezzi.Sentendo con certezza di avere delle forze magiche eonnipotenti, era sicuro di distruggermi veramente, ma eraanche ugualmente sicuro di perdermi facendolo. In unprimo momento seguì la via di un nuovo episodiopsicotico della durata di alcuni giorni. Il contatto con luinon s'interruppe mai neppure durante questo periodo.Allora egli mi spiegò anzitutto che niente aveva piùscopo, che egli era proprio malato psichicamente e chenulla poteva cambiare. Egli voleva lasciare la città eandare in un'altra regione. Il fatto che egli a questo puntopreferisse la malattia psichica come male minore mi con-fermò la dimensione del pericolo. Ma egli avrebbeserbato eterna memoria del fatto che io potevo sosteneredi fronte a lui ciò che provava, perché avevo capito la suasituazione. Se a questo punto non avesse sentito unallentamento della sua pressione interna, avrebbeperduto inutilmente la sua ultima occasione. Prima o poisarebbe certamente diventato un vero assassino eavrebbe dovuto passare il resto della vita in prigione.La sua vita e il suo sviluppo si erano interrotti al-

l'età di 8 anni. Nato durante la guerra, era stato trasferito inuna regione rurale. La sua sensibile anima infantile non erariuscita ad elaborare le esperienze alla fattoria, dovecontinuamente si macellavano, si facevano a pezzi e simangiavano gli animali. Dopo il ritorno in patria egli nonebbe la sicurezza che l'assassinio e la sofferenza noncontinuassero dappertutto. Trovò conferma alla suasfiducia nell'osservazione e nell'esperienza dei rapporti cheintercorrevano tra i suoi cari e i parenti.Dopo che egli aveva potuto abbandonare la sua corazza,gli furono accessibili anche delle antiche esperienze, peresempio il fatto che entrambi i genitori portassero occhialicon lenti spesse a causa della loro forte miopia, così cheegli vedeva rivolti su di sé gli occhi della madre moltoingranditi, quando durante il gioco guardava in alto verso dilei.In base alle nostre esperienze, è necessaria unadefinizione inequivocabile del cosiddetto transfert positivo,che noi a questo punto definiamo nel modo seguente: ilrapporto con il terapeuta deve essere tale da permettere lamanifestazione degli impulsi omicidi, sadici ecannibaleschi. Bisogna stare attenti alla pericolosità di uncomportamento apparentemente affettuoso e amichevole,nella misura in cui nasconde l'angoscia e mette così inpericolo la terapia, il paziente i suoi terapeuti. Ciò ètutt'altro che un atteggiamento diabolico dello psicotico.Piuttosto egli non ha più bisogno di proteggere il terapeuta,se ha la possibilità di manifestare il suo impulso didistruggerlo. Allora la disintegrazione dell'Io non è piùsinonimo di distruzione, se è riuscito il confronto conl'aspetto distruttivo in quanto parte della personalità. Alloraneppure i rapporti con gli oggetti sono più totali, poiché nonsi richiede più tutta la persona in ogni situazione. Soloadesso il paziente può aspirare e arrivare allasoddisfazione che « alcune parti si uniscono con parti dialtri oggetti e formano unità produttive transitorie, che sisciolgono di nuovo, affinché si possano formare altre unitàproduttive » (16).Qui non posso esaminare a fondo la teoria dei cosid-

(16) Ibidem, voi., I, p. 263.

(17) M. Mahler (1968), Lepsicosi infantili, TorinoBoringhieri, 1972, pp. 63 e 72.

(18) K. Theweleit, op. cit., vol.Il, pp. 244 e 310.

detti oggetti parziali e la sua importanza per i rapportioggettuali.Margaret Mahler (17) ha coniato il concetto di « mec-canismi di mantenimento ». Ella lo usa a proposito delcomportamento aggressivo dei bambini psicotici perdescrivere i meccanismi " con i quali l'Io che si stadisintegrando regredisce... quando gli manca la capacitàpercettiva integrativa ».Il fatto che la madre e il bambino sono in realtà dueindividui separati smentisce necessariamente l'ideaillusoria di un loro confine comune.Theweleit (18) parla di uomini non compiuti, non generatifino in fondo, che restano imprigionati in un determinatostadio distruttivo del loro sviluppo, oltre il quale non vannoper non frammentare il loro lo fisico. In questo senso unmio paziente dice: « Vivo ancora nell'utero, dipendoancora dalla placenta, il mio cordone ombelicale non èancora tagliato ».La fantasia o l'atto aggressivo-distruttivo è inoltre untentativo di comunicare all'lo una sensazione di « Io », cioèdi una struttura o un'unità psichica circoscritta, nonesposta alla dissociazione. Se questo Io è messo inpericolo, l'esperienza degli impulsi distruttivi o anche l'attodistruttivo può assumere la funzione di tenere insieme unlo minacciato dalla dissociazione.Deve essere evitata ogni apertura verso l'esterno. Ilpaziente in questione non può aprirsi, non può lasciareavvicinare nulla accanto a sé, ancor meno accoglierla olasciarla entrare in sé. Difficilmente si verifica ancora unadiffusione, i pori vengono chiusi per evitare la perditacompleta, il disfacimento di un lo debole e minacciato.Ricambio è sinonimo di mescolanza: è possibile solo seviene conservata la struttura dell'Io, cioè tutto deve esseree restare in sintonia con l'Io.A nostro avviso, è questo il problema centrale della terapiacon gli psicofarmaci. È ammesso solo ciò che è buono. Giàalcuni giorni dopo l'inizio della terapia farmacologica inmisura crescente con la remissione della sintomatologiapsicotica primaria, si rendono evidenti gli effetti collaterali avolte in-

sopportabili dei diversi medicinali. Queste alterazionimobilitano grandissime paure, proprio a causa deimutamenti che vengono percepiti nella vita corporea,nella sensibilità, nell'esistenza affettiva e perfinonell'attività della fantasia. Così nell'ambito parziale dellaterapia con gli psicofarmaci si sviluppa una lotta di potere.Il terapeuta diventa nemico del paziente, un violentoscassinatore che infrange con la forza i confini e il bloccodel malato imponendosi egli stesso come oggettonegativo e cattivo, con la conseguenza inevitabile cheviene eliminato, cioè respinto. Su questa base si devonointendere anche le frequenti affermazioni dei pazienti diessere avvelenati dai terapeuti.La tesi da cui sono partito era che il grande gruppo comesituazione terapeutica offre abbastanza e da la possibilitàdi regredire ai livelli dei primi disturbi. Il processoterapeutico guidato da un analista esperto può diventaretrasparente mediante la partecipazione di altri colleghi.Sono ovviamente necessario delle discussioni successivea proposito di ogni seduta. Esse danno ai colleghi che sitrovano in una fase relativamente iniziale del training,un'idea sufficiente dei rapporti dinamici e comunicanoanche importanti conoscenze sui rapporti terapeutici.Così essi possono continuare a lavorare nei loro piccoligruppi terapeutici e anche nelle sedute individuali con lasicurezza e la cura necessario. Certamente i risultati diquesto lavoro affluiscono di nuovo nel grande gruppo.

È noto che nel lavoro terapeutico con gli psicotici ci sipresenta di volta in volta una certa dinamicaparticolarmente accentuata e questo ci permette diriconoscere senza molte difficoltà la costellazionearchetipica di volta in volta interessata. Ma di fronte a noisi presenta anche la coscienza collettiva in tutta la suarigidità e anche nella sua limitatezza che impedisce losviluppo. In questo modo si può anche rendere evidentel'importanza dell'aspetto sociale. C. G. Jung ha sempreaccennato alla relatività e anche ai pericoli di una terapiache sia sottoposta

alla ristrettezza di una determinata tecnica terapeutica.L'inclusione delle varie malattie psichiche e psi-chiatrichenel quadro dei nostri sforzi psicoterapeutici richiede unamaggiore flessibilità del terapeuta, ma in particolareanche di quei colleghi che fanno il training in modoresponsabile. Se integriamo i nostri corsi di trainingincludendovi per esempio le malattie psicotiche e seteniamo conto delle variazioni dei quadri clinici, ciconfronteremo nello stesso tempo oltre che con laresponsabilità, che assumiamo in relazione alla cura digruppi più ampi di pazienti, anche con la relatività delleipotesi da noi fatte. Merita attenzione l'inequivocabileaumento dei disturbi psichici più gravi, in particolare deidisturbi narcisistici, dei casi borderline e degli episodi edelle reazioni psicotiche. Sarebbe una prova di carenzadella nostra psicologia analitica, se essa non riuscisse acomprendere meglio il suo compito dal punto di vista diuna cura globale psichiatrica o psicoterapeutica.

Trad. di LUCIA RISPOLI

Immagini di follianegliAborigeni australiani

Leon Petchkovsky, Hazeibrook

In molte psicosi funzionali acute degli occidentali,John Weir Perry trova sequenze di immagini chesono simili a quelle dei miti e dei riti di Rinnova-mento della Regalità dell'antico Egitto, di Israele edella Mesopotamia.Un esame delle storie di 21 aborigeni australiani psi-cotici non ha rivelato questi modelli di immagini. Èemerso però un modello specifico aborigeno; le im-magini dell' incesto tribale, che porta a un radicaleconflitto sociale e provoca un castigo mortale.Come il rovesciamento violento del Regno è un ar-chetipo di psicosi per l'uomo occidentale, così sem-brerebbe che il turbamento radicale della strutturadella parentela prodotto dall'incesto sia un archetipodella psicosi degli aborigeni.L'incesto è un'immagine ricorrente nei miti abori-geni della creazione e c'è un mito della Terra Occi-dentale di Arnhem (il mito di Balada) che tratta spe-cificamente l'impatto distruttivo dell'incesto sul si-stema della parentela.

Introduzione

« Nel processo psicotico chiamato schizofrenia acu-ta, gli interessi simbolici da cui una persona è presaappartengono a una realtà soggettiva. Sebbene que-sti interessi siano di solito del tutto in contrasto conla realtà oggettiva, essi sono significativi e non rap-presentano un disordine casuale. Tale ideazione puòessere soppressa con farmaci, dando l'impressionesuperficiale che la normalità sia stata ristabilita. Tut-tavia, se si fa ben attenzione all'ideazione piuttostoche sopprimerla, l'individuo nello stato psicotico neha un'esperienza totalmente diversa che cambia pro-

prio la natura stessa e la fenomenologia della psi-cosi » (1).II termine « schizofrenia » è molto controverso. Miattira la concezione di Karl Leonhard, secondo cuile « schizofrenie », come i « tumori », non sono unaentità patologica singola, ma molteplice. Inoltre,Leonhard distingue (sulla base di alcuni studi suigemelli) tra le « schizofrenie » con una diatesi gene-tica e quella senza (cioè, in gran parte quelle funzio-nali) (2).Questa discussione quindi tratta le immagini che sitrovano nella fase acuta di una psicosi funzionale(esclusi i disturbi di natura puramente affettiva).

// corso naturale della psicosi

Dall'avvento della fenotiazine, è stato virtualmenteimpossibile studiare il corso naturale della psicosiin tutti i dettagli fenomenologici. Perciò i primi studidi Jung sulla dementia praecox sono particolarmentepreziosi; ugualmente Io sono le osservazioni in tempipiù recenti di Perry a Diabasis, con psicotici non cu-rati con farmaci.Lo psichiatra che evita di dare farmaci allo psicoticopaga il prezzo di un rapporto molto impegnativo conil suo paziente, la cui profondità e le cui implicazioniricordano molto il legame normalmente esistente tramadre e bambino. (Uso il termine « madre » comeuna metafora per indicare chiunque si prenda curadel bambino a prescindere dalla procreazione).Jung comprese ciò fin troppo bene. Dopo aver curatocon successo una ragazza russa schizofrenica cata-tonica, egli scrisse... « questo caso è stato il peg-giore di questo tipo che io abbia mai curato, ma devoconfessare che non potrei mai decidere di curare dinuovo un caso di tale natura, perché non potrei sop-portare di nuovo la tensione di un trattamento cosìdifficile e pericoloso » (3).Poiché tali situazioni estreme esigono molto dal te-rapeuta, non è sorprendente che si disponga di datirelativamente scarsi del tipo di quelli che Perrydescrive. Nonostante ciò, si sta cominciando a rac-cogliere un ampio consenso tra quelle persone chehanno avuto l'opportunità di fare delle osservazionicome quelle che sto descrivendo.Perry considera il processo psicotico come una re-gressione significativa a uno stato dell'esperienzache precede i rudimenti della coscienza dell'Io. Lopsicotico ha bisogno di uno sviluppo della persona-lità attraverso quello che è essenzialmente un pro-cesso primordiale di rigenerazione. Lo stato che Sta-nislas Grof (4) chiama « transpersonale » è quello incui il campo dell'esperienza è pieno di immagini ar-

(1) J. W. Perry, Roots ofReneval in Myth andMadness, San Francisco,Josey Bass, 1976.

(2) K. Leonhard,<<Contradictory Issues inthe Origin ofSchizophrenia>>, Brit. J.Psychiatry, 1980, pp. 136,437-444.

(3) C. G. Jung, Letteranon pubblicata (sultrattamento della psicosi),al dr. G. B. Haslam.Fotocopia in possessodell’autore

(4) S. Grof, Realms of theHuman Unconscious,observations from L. S. D.research, New York, E. P.Dutton, 1976.

chetipiche (e incidentalmente può anche essere pro-vocato durante esperienze di LSD, di meditazione edi riti, per citarne solo alcune). Se ci si pone ade-guatamente in rapporto con l'esperienza psicotica,l'individuo non soltanto guarisce ma si sviluppa. Incaso contrario, s'instaura uno stato cronico.La sindrome tipica che Perry riconosce nella psicosiacuta degli occidentali comprende una sequenza diimmagini che egli chiama << Rappresentazione Ritua-le del Rinnovamento >>. Sequenze di immagini corri-spondenti si possono trovare nei rituali della Rega-lità egiziani, mesopotamici ed ebraici. Questa se-quenza di immagini è descritta più avanti; in questoscritto, comunque, è importante notare che Perrysottolinea che « Nelle persone psicotiche questa se-quenza di immagini apparentemente rappresentasolo una tra le diverse sindromi possibili, come quelledell'iniziazione o quelle dello sciamanismo. Peresempio, una mia paziente aveva l'illusione che du-rante un'operazione le fosse stata messa in testauna pietra preziosa, che le dava il potere magico disapere, sentire, vedere e controllare per telepatia; ellanon aveva nessuna delle immagini consuete del-la sindrome della regalità descritta. Solo parecchianni dopo appresi che tali pietre preziose rappresen-tano un fenomeno che si verifica comunemente nellosciamanismo in varie parti del mondo " (5).Nella mia pratica psicoterapeutica con psicotici acutiprovenienti dalle culture occidentali, ho trovato chele sequenze di immagini descritte da Perry sono ab-bastanza comuni. Tuttavia, gli aborigeni australianinon hanno istituzioni di regalità o qualcosa che sialontanamente paragonabile ad esse. In questo studio,ho voluto considerare in particolare le immagini del-le psicosi degli aborigeni per vedere: a) se fossepresente qualcuna delle immagini della regalità de-scritte da Perry; b} quali altre immagini fossero pre-sentì e in che modo fossero in relazione con i mitie i rituali degli aborigeni.

Immagini della Rappresentazione Rituale del Rinno-vamento nel Processo Psicotico

Segue la descrizione di Perry dello stato dell'esperienzae della sequenza tipica di immagini (6).

A. Immagine dissociata del sé

L'individuo presenta un'immagine negativa insie-me con una sfocata immagine positiva compensa-toria (per esempio, la persona crede di essereuna strega, un demonio o un peccatore, ma ancheun eroe, un santo o un profeta).

(5) J. W. Perry, Ladimensione nascosta dellafollia, Napoli, Liguori, 1980.

(6) J. W. Perry, Roots ofReneval in Myth andMadness, op. cit.

B. L'esperienza di un dramma o di una rappresentazionerituale

Ciò includerebbe la danza, il canto, i gestì di ceri-monia ed anche le esperienze della partecipazione a undramma cosmico, dì tutto ciò che è caricodi significato, della partecipazione alla TV, allaradio, ecc.

C. La sequenza di immagini del rinnovamento rituale

(Questa può non essere pienamente sviluppata intutti gli individui).I Centro del mondo / asse cosmico.Il Morte/ smembramento / sacrificio / i mortiche vivono in paradiso o all'inferno / impri-gionamento come equivalente della morte.IlI Ritorno alle origini / regressione / inizi deltempo / creazione del cosmo / Giardino del-l'Eden / acqua dell'abisso / primi gradi del-l'evoluzione / creazione dei pianeti / bisogniorali / figure dei genitori.IV Conflitto cosmico / guerra tra bene e male,luce e tenebre, ordine e caos / democraziae comunismo / trionfo dell'anticristo / di-struzione o la fine del mondo / intrighi, com-plotti, spionaggio, avvelenamenti, tutto perconquistare la supremazia sul mondo.V Minaccia dell'opposto, paura di essere domi-nato dal sesso opposto o di essere trasfor-mato in esso... medicinali che trasformeran-no una persona nel suo opposto, supremaziadell'altro sesso, tentativi di sradicarla.VI Apoteosi. (Regalità, Divinità, Re o Regina,Diavolo o Santo, Eroe o Eroina).VII Nozze Sacre. Matrimonio Regale, matrimonioincestuoso, matrimonio rituale, matrimoniocon un Dio o con una Dea / come una ma-dre vergine che concepisce per opera delloSpirito.VIlI Nuova Nascita di un bambino sovrumano o dise stesso - (idee di rinascita. Bambino Di-vino, Bambino Salvatore, Principe, concilia-tore della divisione del mondo).IX Nuova Società. È immaginato un nuovo or-dine di società, di una qualità ideale o sacra.Una nuova Gerusalemme, ultimo Paradiso,Utopia, pace del mondo, nuova età, nuovoCielo, nuova Terra.X Quadripartizione del mondo. Di solito è fis-sata una struttura quadrupla del mondo sottoforma di un cerchio quadripartito. (Quattrocontinenti o quarti) (Quattro fazioni politicheo Governi o Nazioni; quattro razze o reli-gioni; quattro persone della Divinità; quattroelementi o stati dell'essere).

Immagini del Rinnovamento nell'Antico Mito e nelRituale della Regalità

Per dare un chiarimento considererò in breve i ri-tuali egiziani. Ci sono miti e rituali mesopotamici edebraici molto dettagliati per la discussione dei qualisi rimanda il lettore a Roots of Renewal di Perry.Il principale mito egiziano è quello di Osiride, chedopo un conflitto con suo fratello Seth (la personifi-cazione del Male) è annegato e fatto a pezzi. Suamoglie Iside recupera i pezzi (tranne il pene) e liseppellisce, dandogli così nuova vita come Re del-l'Aldilà. Il suo figlio postumo Horus sconfisse poiSeth e divenne il nuovo Re d'Egitto, il Dio del Cielo.Osiride era considerato non solo la guida dei mortie la personificazione del Re morto, ma anche il Diodella fertilità, che dall'aldilà concedeva tutta la vitanon solo ai morti nell'aldilà, ma anche ai vivi (lapiena annuale del Nilo, il germogliare della vege-tazione, la fecondità degli uomini e degli animali).Si credeva che il padre morto del Faraone attualediventasse Osiride, il Signore del Regno dei Morti,e il Faraone vivente era incoronato come suo figlio,Horus, Dio del Cielo, Signore del Regno dei Vivi. Leforze vitali che davano vita al Regno erano trasmes-se dai regni ancestrali dei morti, attraverso Osiride,nel suo abbraccio del figlio, il Re vivente, e quindi alregno.C'erano parecchi rituali della Regalità che contene-vano in sé le sequenze di immagini a cui ci si èriferiti. Il Sed o la Festa del 30° anno era probabil-mente il principale rituale di incoronazione e il piùarcaico, e rappresentava la riaffermazione del Fa-raone vivente come figlio di Osiride. Il rituale con-teneva le seguenti caratteristiche:1. // centro del mondo era fissato a Memphis, ilcentro di unione tra l'Alto e il Basso Egitto, equindi del mondo ordinato.2. Morte. Questo tema era riferito alla morte diOsiride, alla morte del Faraone e alla piena delNilo, collegando così gli Dei, il Re e il popoloin un cosmo unificato.3. Ritorno alle origini. Dopo essere stato sottopo-sto alle purificazioni battesimali, il Re personi-ficava nel rituale il primo creatore Atum, che siergeva sul Primo Colle quando esso emerse dal-le acque del Caos.4. Conflitto cosmico. Si rappresentava un combat-timento sacro tra le due città del Delta, che raf-figurava la lotta delle forze della morte controquelle della vita. Le immagini comprendevanoSeth, che sotto forma di cinghiale era aizzatocontro Horus, l'erede legittimo al trono.5. Per un momento era sconvolto l'ordine legittimoe la morte e il nemico avevano la meglio. Questo

era il periodo del Capovolgimento degli Opposti.6. Apoteosi. Ma alla fine Horus prevaleva e il Fa-raone era reincoronato come vincitore, l'« HorusVivente », insieme con Atum, e partecipe dellanatura di Re, il Dio del Sole. Il Faraone eseguivauna danza nella quale formava un cerchio cheera una rappresentazione del regno.7. Nozze Sacre. Non si sa con certezza se questeimmagini avessero un posto nel rituale Sed, manelle altre Feste dell'Anno Nuovo e del Rinno-vamento, c'erano riti matrimoniali ben documen-tati.8. Nuova Nascita. Questa parte del rito inizialmen-te aveva a che fare con la trasfigurazione ritualedi Osiride morto nel Re dell'aldilà.9. Nuova Società. Il rito Sed di incoronazione se-gnava la creazione di una nuova epoca.10. Quadripartizione del Mondo. « La rappresenta-zione del mondo quadripartito ricorre in tutti i riti. Neisuoi riti di purificazione battesimale al-l'inizio, al Re viene data acqua dalle quattro Di-vinità dei punti Cardinali. All'atto dell'incorona-zione egli è seduto per quattro volte su quattrotroni... ed è proclamato a ciascuno dei quarti delmondo, poiché egli lancia una freccia verso cia-scuno di essi » (7).

// collegamento tra il disordine individuale e le immaginicollettive

II compito principale del processo psicotico è di pas-sare dal caos inferiore, dal conflitto e dalla frammen-tazione a una struttura della personalità in cui un losaldo sia in relazione adeguata con le altre partidella personalità, gli altri esseri umani, il mondooggettivo e il mondo spirituale o cosmo attraversoun senso di partecipazione significativa al drammadella creazione. Le immagini della Regalità costitui-scono un analogo particolarmente adatto di questoprocesso.Citando da Perry, La dimensione nascosta della fol-lia (8):« II progresso naturale dell'evoluzione della regalitàconsisté, quindi, nell'ardua opera di realizzazione, al-l'interno di sé, di tutto ciò che era stato vissuto inmaniera più ingenua all'esterno in forma proiettata,concreta, esternalizzata... la regalità rappresenta ilveicolo e la naturale struttura storica di questa tran-sizione dal concretismo della mentalità arcaica alcarattere essenziale e allo spirito del pensiero, più

(7) J. W. Perry, Ladimensione nascostadella follia, op. cit. , p. 85.

(8) Ibidem, p. 52.

consapevole, della nostra era. In quello stadio disviluppo più antico, per l'uomo era necessario ap-prendere l'autoaffermazione, il dominio e la riso-luta aggressività, tutte cose che fondano una effi-cace coscienza dell'Io in un contesto sociale. Nellostadio più recente, l'uomo si sforzò di affinare laconsapevolezza illuminata che avrebbe sviluppatol'accettazione e il riconoscimento di sé e degli altri,in uno spirito di non oppressione ».« Alla domanda del perché i motivi della regalitàprevarrebbero in questa particolare sindrome, la ri-sposta... è che il mito e il rituale della regalità furonoi veicoli attraverso i quali l'uomo raggiunse la consa-pevolezza del suo potenziale spirituale come indi-viduo... Lo psicotico, nel suo processo ricostitutivo,deve ripercorrere evidentemente una strada simileche va dalla esternalizzazione e concretizzazione pa-ranoica, alla realizzazione, all'interno di sé, della suaindividualità potenziale ».

Metodo

Si sperava che, malgrado le difficoltà linguistiche ela naturale diffidenza delle popolazioni tribali, l'ener-gia torrenziale del processo psicotico avrebbe offertoun numero sufficiente di immagini da inserire nellecartelle cliniche ospedaliere. Nell'aprile del 1980 hoottenuto dal Dipartimento della Sanità del TerritorioSettentrionale il permesso di visitare il Reparto Psi-chiatrico dell'ospedale Darwin e di esaminare le car-telle cliniche. In generale, le mie speranze si dimo-strarono piuttosto infondate. Le note su ciascun pa-ziente erano voluminose, arrivando spesso fino a duevolumi di 500 pagine di carta protocollo ciascuno, manon c'erano i dettagli della fenomenologia descrittivache io cercavo. Mi consolai pensando che tutte le de-scrizioni di allucinazioni e di deliri che c'erano ave-vano trovato posto nelle note per la loro forza.Esaminai a fondo le note di 12 pazienti ed ebbi l'op-portunità di intervistarne tre.C'erano anche alcune storie di casi moltoparticolareggiate che erano state pubblicate dalProfessor John Cawte nel suo eccellente studio etno-psichiatrico Medicine is the Law (9).Per questo scritto ho tratto materiale da nove delle suerelazioni.

Risultati

Disponendo in una tavola sinottica i risultati, risultaevidente che mentre le immagini psicotiche degliaborigeni hanno molte caratteristiche in comune coni primi stadi della sequenza di immagini di Perry, le

(9) J. Cawte, Medicine isthe Law, University Pressof Hawaii, Rigby itd. Aust.,1974.

immagini di

7. minaccia dell'opposto8. apoteosi9. nozze sacre10. nuova nascita11. nuova società12. quadripartizione del mondosono quasi del tutto assenti in questo campione eciò suggerisce che il paradigma appropriato non èquello della regalità. Inoltre, le psicosi degli abori-geni hanno delle proprie caratteristiche distinte, cheho classificato in fondo alla tavola I con le denomi-nazioni:

13. sentire la voce di spiriti ancestrali14. idee di magia15. invasione di animali o spiriti16. incesto tribaleForse la caratteristica più notevole che emergevaera la frequenza con cui si presentava l'immagine(o il fatto reale) dell'incesto tribale! Ce n'erano noveesempi precisi; e probabilmente anche un decimo(quattro di questi erano psicosi puerperali!).In questi casi l'incesto tribale si riferisce a rapportisessuali o matrimoniali tra due persone imparentatein modo tale che il matrimonio è proibito dalla tribù.(Le relazioni adulterine formano l'altra ampia cate-goria di rapporti sessuali proibiti). Parlando in sensolato, senza considerare se un particolare sistema diparentela sia determinato in linea paterna o mater-na, il matrimonio è esogamo, cioè con un membrodi un altro gruppo, clan o parte all'interno dellatribù... quindi in questo caso, il concetto di incesto èmolto diverso da quello che è familiare agli occi-dentali.Riepilogando, questo studio suggerisce che le psi-cosi degli aborigeni mostrano: a) idee di un ritualeo di un dramma; b) immagini di Conflitto, immaginidi Morte o di Persecuzione letale e Incesto Tribaleeffettivo o immaginale!Ci sono due gruppi particolarmente interessanti pergli analisti junghiani dal punto di vista delle imma-gini:

(1) un gruppo di Invasioni di Animali;(2) un gruppo di Incesto Tribale.

Per illustrare ciascun gruppo presenterò dei casi cli-nici, concentrandomi in particolare sul secondogruppo.

(1) Invasione di Animali in sogno

Descrizione di un caso tratto da Medicine is thè Lawdel Prof. Cawte (10).Un giovane Walbiri (di 26 anni) andò al Lago Nash

(10) Ibidem, pp. 183-184.

a pascolare il bestiame ed ebbe un attacco psicoticoacuto. La cultura del Lago Nash ha un chiaro sistemadi credenze che ha a che fare con l'invasione del« wilaiba », un animale diabolico che entra nel corpodella vittima e lo riempie di ossa.Il disturbo fu grave, ma breve e venne diagnosticatocome una sindrome acuta da shock culturale, sottoforma di « buffée delirante acuta ».Segue la trascrizione del racconto dell'esperienzafatto dal paziente: « Ero ammalato alla maniera deiQueensland, realmente ammalato. Facevo dei sognisu animali. Questi popoli credono che gli animalientrino nelle persone. Andai a pascolare intorno adAlexandria circa tre anni fa. Arrivai al Lago Nash...Vidi una vecchia tomba di un aborigeno. Un vecchiomi disse di guardarmi dai sogni su animali. Quelvecchio si chiamava Eric. Durante la notte appare insogno l'animale sacro; mi sento come se fossi pienodi ossa di animali, nelle gambe, nel ventre, nel pettoe nella testa. Mi sento molto male. Un animale sacronel sogno... non mi avevano detto di che specie. Ave-vano diversi animali. Un essere dallo sguardo feroce,con il corpo tutto bianco e la fronte e il muso neri.Diverso dal cane o dal gatto. Con la testa grossa ei denti aguzzi. Non mangiava carne, ma solo persone.Entrava... nelle ossa dell'uomo, nel cuore, nel ventre,nel petto, nel collo. Poi ne usciva. Per tutta la notte.Mi portano da un dottore a Dajarra con la macchinadi un ragazzo aborigeno. Mi trasportano, lo non riescoa camminare. Non riesco a mangiare. Parlo poco.Incontro Eric che mi porta al campo. Mi distende suun'incerata. Eric si lega alle braccia dei cespugli edei rami. Poi sfregandomi con un ramo fa uscire leossa da me. Le vedo sull'incerata. Due grosse tibie,vecchie, secche. Un gran numero di piccole ossa.Dopo di ciò mi dà del sangue. Molti uomini... circaventi... si fanno un taglio sul braccio con una lamadi rasoio e si legano il braccio. Ottengono quasimezzo secchio di sangue, lo lo bevo tutto, lentamente.Immediatamente mi sento bene, mangio, bevo, vatutto bene.Do a tutti loro trenta sterline. Per due settimane re-sto al Lago Nash, il maestro di scuola, il Sig. Ben-jamin, si prende cura di me. Non andrò più a pasco-lare. Potrei ammalarmi. Eric mi disse che qui è unacosa comune che gli animali lascino le ossa nellepersone ».

Commento

Al centro dell'esperienza di un grave disturbo psi-cologico c'era la sensazione di essere invaso daun'entità « estranea », in questo caso, l'Animale Dia-bolico « Wilaiba ».Ma le immagini di invasione non erano necessaria-mente « aborigene », come vedremo nel prossimocaso.

(2) Un'immagine di Conflitto interculturale

Invasione di un Serpente e di un Pesce. Descrizionedi un caso fatta dal Prof. Cawte(11).Questi tre casi, provenienti da Lucy Creek Station,riguardavano un padre, che era un medicine-man, ei suoi due figli. Il Prof. Cawte commenta, " una tra-sfusione tentata di un totem personale dal padre alfiglio si dimostrò incompatibile... il padre impazzì(posseduto da un serpente) e così anche i figli ».Laraga, di 60 anni, si presentò all'ospedale locale conun comportamento disturbato, sostenendo di esserestato invaso dal serpente dell'arcobaleno. Il figliominore, Digenda, di 35 anni, aveva cercato di aiu-tarlo, ma era stato invaso da un pesce. 11 figlio mag-giore, Joda, di 37 anni, cercò allora di curarli, ma asua volta divenne violentemente disturbato... era con-vinto che sua moglie e suo figlio fossero stati presidai diavoli. Egli credeva di parlare con Dio. Ciò sor-prese i dottori, poiché si sapeva che egli non avevaricevuto gli insegnamenti della religione cristiana.Comunque, si convenne sul fatto che potesse avernesentito parlare.Laraga e Joda furono mandati a un ospedale di Ade-laide. Dopo qualche tempo Laraga pensò che lo spi-rito lo avesse lasciato e si fosse introdotto nel figlioJoda. Laraga decise di tornare a Alice Springs, ma perandare a pascolare il bestiame, piuttosto che andarea caccia con la sua gente.Joda restò in ospedale molto più a lungo e divennecatatonico. Comunicava molto poco, ma sentironoche diceva che un pesce era conficcato nella suagola.

Commento

Qui le immagini rappresentano la perdita di controllosu un simbolo locale (il Serpente) e l'invasione daparte di un simbolo cristiano (il Pesce). Le immaginidi pesci non sono molto importanti nella mitologiadell'Australia Centrale e la preoccupazione di Jodaper il Dio cristiano sorprese un po'.Le immagini trovano una corrispondenza nei processisociali: gli uomini sono presi dalla disintegrazione del-

(11) Ibidem, pp. 176-180.

la loro cultura e dall'invasione di una cultura estranea.Comunque, c'è un'immagine ancora più essenzialedi disintegrazione culturale, l'immagine dell'incesto.Il sistema della parentela costituisce la strutturadella società degli aborigeni. L'incesto turba total-mente la società tribale; non solo fino ai più lontanilivelli dell'attuale struttura di parentela, ma anche in-dietro nel tempo, dagli antenati oltraggiati fino agliSpiriti del tempo del sogno, e per sempre in futuro,se si permette alla linea incestuosa di vivere e diriprodursi.

Incesto Tribale

Caso 1. Intervistato all'Ospedale Darwin

Quest'uomo di 32 anni dell'Isola Elcho fu ricoveratoall'ospedale Darwin con una storia di due settimanedi allucinazioni uditive e un comportamento spaven-tato e aggressivo.Il mattino dopo il ricovero, egli irruppe nella stanzadel personale infuriato e inquieto, tenendo un og-getto che aveva fatto da un attaccapanni di legnoe parecchi pioli per abiti. Egli puntò in basso il manicodi quest'oggetto in modo rituale, ma evitò accurata-mente di rivolgerlo verso di me.Quel giorno, più tardi, durante la mia intervista conlui (sotto forma di un procedimento Rogersiano di« ascolto attivo » piuttosto che di interrogatorio strut-turato), il suo disturbo si placò. Egli si dimostrò unuomo molto intelligente ed evoluto; e alcuni anni pri-ma, era stato anche rappresentante alla prima Confe-renza Nazionale degli Aborigeni. II suo primo matri-uomo molto intelligente ed evoluto; e alcuni anni pri-ma era stato anche rappresentante alla prima Confe-cancro ed era morta all'ospedale Darwin circa treanni prima. Lui si era risposato, questa volta con unrapporto non incestuoso, ma la relazione era stata in-felice. Si sentiva dilaniato tra le due culture. Non eraaccettato nella società occidentale e cercava dispera-tamente di farsi accettare dalla sua gente. Ciò eracomplicato dal fatto che egli sentiva di avere la mis-sione di portare la fede cristiana alla sua gente, madi non avere abbastanza forza per farlo.Questi particolari furono confermati da due funzionaridel Dipartimento per l'Assistenza alla Comunità, unodei quali era fratello del paziente e alle cui cure eglifu affidato 12 ore dopo quando fu dimesso.

Citazioni dalla Relazione (dei Funzionari del Diparti-mento per l'assistenza alla Comunità)

(1) «X fu rappresentante del Territorio Orientale diArnhem alla I Conferenza Nazionale degli Aborigeni.In questo ruolo, oltre a un enorme carico di lavoro,sopportò il peso dell'incontro di culture diverse.Una crociata religiosa di protestantesimo tradizionalesi diffuse nell'Isola di Elcho e negli ultimi due anni...X ne è stato influenzato... un fattore che ha contri-buito alla tensione... la sua famiglia non è stata di so-stegno come avrebbe potuto essere... io sento cheegli era stato chiuso in un ambiente irreale (di)... fa-natismo religioso... sarebbe migliorato in un ambientepiù realistico ».(2) « Egli ha bisogno di un sostegno da parte dellafamiglia maggiore di quello che ha avuto... questo ri-fiuto lo ha colpito nella misura della sua reazioneora... la mia forte raccomandazione è che egli sialiberato dal controllo di persone che hanno concezionidella vita diverse da quella in cui egli è stato coin-volto... " (dalla relazione scritta da suo fratello).

Caso 2. Un uomo di 37 anni dell'Isola Melville

Quest'uomo molto intelligente ricoverato tre voltenel periodo dal '73 al '78, aveva un'allucinosi uditiva;pensava che la sua gente parlasse di lui in modoostile e lo odiasse, volesse ucciderlo o avvelenarlo,perché aveva sposato una ragazza del « settore »sbagliato. Inoltre, sua sorella e suo fratello eranocoinvolti in due omicidi separati e credeva che i pa-renti delle persone uccise avrebbero cercato di ucci-derlo per il sistema di « ritorsione ».X sosteneva che le persone parlavano continuamentedi lui... in realtà, la comunità non parlava di lui. Ciònonostante, la gente non gli avrebbe lasciato avereuna casa o sedere in una commissione... X talvoltabeve... perché quando è ubriaco non può sentire levoci.Prima del suo ricovero nel '75, si presentò alla suorainfermiera all'Isola Melville, preso da un grande pa-nico... dopo essersi denudato « per mostrare alla genteche egli era proprio negro in tutto il corpo ». Era con-vinto di essere stato avvelenato e avrebbe preso ilcibo solo dalla suora infermiera o dalla moglie... nel-l'ambulanza aerea, egli gridava e intonava una can-tilena funebre.Quando veniva allontanato da Snake Bay per alcunigiorni, di solito si alleviava la sua tensione e quella

della gente.

Caso 3. Un uomo di 34 anni dell'Isola Bathurst con unadiagnosi di « reazione schizofrenica "

Nella sua storia clinica erano registrati due brevi ri-coveri, preceduti da insonnia e allucinazioni, li pa-ziente sentiva voci minacciose di persone Tiwi, madiceva che la Legge Tiwi impediva un'ulteriore ela-borazione. Le voci dicevano che stavano per liberarsidi lui perché volevano sua moglie. Dicevano che suamoglie era la sua « zietta » e che perciò egli avevaviolato la legge tribale. Pensavano che egli fosseSatana e stavano usando la magia dell'Ago Tiwi perucciderlo.Egli aveva discusso di ciò con la gente, ma essi ave-vano negato tutto. Smise di sentire le voci quandoarrivò al reparto.

Caso 4. Trentaseienne dell'Isola Elcho

Questa donna di 36 anni presentò inizialmente unapsicosi puerperale dopo la morte del suo primo bam-bino nel '62. Ella ebbe una relazione con un uomo del<< settore » sbagliato... e da allora in poi aveva avutodelle ricadute psicotiche. Durante gli episodi psico-tici presentava un comportamento aggressivo e fe-nomeni di regressione (sentiva di avere 3 anni) edanche affettazioni e pose religiose (teneva in altoil braccio nel gesto della benedizione, parlava con-tinuamente di Dio, del Paradiso e della felicità). Nel'67, durante un episodio psicotico, rifiutò di curareil suo bambino di tre mesi o di badare a se stessa efu necessario imboccarla... nove anni dopo, duranteun altro episodio, mise in allarme le altre madri per-ché portò via dalle loro capanne i bambini per alle-varli lei.

Caso 5. Dalle relazioni del Prof. Cawte(12)

Una donna di 37 anni, di puro sangue aborigeno, edu-cata alla missione, proveniente da una delle tribù di-sciolte presso il lago Eyre, stava per dare allaluce il suo 7° figlio... tentò di suicidarsi (ciò è moltoinsolito tra gli aborigeni dell'entroterra) ... soste-neva di aver causato la morte della madre il 12/2precedente, perché era stata un'adultera. Presentavauna depressione puerperale con allucinazioni e deliri.Gli spiriti degli antenati, « le voci della mia genteche è morta », le dicevano ciò che sarebbe acca-

(12) Ibidem, pp. 3-5.

duto... ella di solito stava sveglia di notte e parlavada sola.. gridando per rispondere alle allucinazioniuditive. (Si venne a sapere che durante l'ultimo pe-riodo della sua gravidanza un fulmine aveva colpitouna goanna, la cui coda si era rivolta verso il suoventre. Allora aveva saputo che lei e il bambino era-no condannati). Suo marito era un fannullone e ilmatrimonio era non tribale. Ella voleva prendersi ifigli e vivere con un altro aborigeno, Harry, che potevamantenerla, ma alla missione le spiegarono che que-sto sarebbe stato adulterio. Dopo una lunga malattia,alla fine risolse il conflitto identificandosi con lacultura occidentale. La paziente sapeva leggere e scri-vere e si erano conservati alcuni suoi scritti... « Misono sposata in chiesa e non con una torcia, quindinon credo che rivedrò più la mia piccola cara fami-glia ... perché sono andata contro la nostra legge.Nessuno mi diede una torcia, perché non volevano cheio sposassi questo uomo. Ora non m'importa semuoio, perché ho violato i costumi dei negri e misono messa nei guai da sola. Essi hanno messo ilmio sangue in un osso umano, l'ho scoperto in unsogno, così ci sarà una guerra. La mia vita è tenutaa Port Augusta in un osso umano. I miei capelli sonostati strinati e bruciati a Leigh Creek da alcuni negriper farmi impazzire trovandoli vicino al mio ombelicoe da allora non posso tenere niente segreto. Un negromi ha preso con un turbine e mi ha fatto impazzire;e mi è stato detto di non dare il nome di mia madre,perché la gente potrebbe pensare che sono infetta.Quando Harry non poté avermi in primo luogo conil turbine, prese mia madre, quindi è ciò che mi hafatto crollare il giorno della maternità ed è per questoche so che non potrò mai guarire dalla mia malattia.Quand'ero piccola mi fu messo un osso in testa. Pos-so ancora vedere il pericolo davanti a me... mia ma-dre mi trattava proprio male, così sposai quest'uomoper tirarmi fuori dai guai, ma le sue sorelle diven-nero molto cattive. Mia madre lasciò la missioneperché la chiamavano con il nome di suo padre ».

Discussione

In questi ultimi quattro casi le immagini della psichein disintegrazione degli aborigeni sono espresse at-traverso i temi dell'incesto e della persecuzione.Come abbiamo detto prima, l'incesto minaccia pro-prio la struttura sociale degli aborigeni. C'è un mitoGunwinggu sull'incesto che esprime chiaramente ledinamiche coinvolte.

Un mito sull'incesto riportato da Louis Allen (13).

Balada viveva nella terra di Arnhem con i suoi geni-tori. Egli era parte del suo paese proprio come glialberi o le pietre. Quando un falco sfrecciava comeuna lancia attraverso l'aria luminosa e portava inalto una goanna che si dibatteva tra i suoi artigli,Balada era esaltato dal fiero trionfo dell'uccello, maanche gli si stringeva lo stomaco contro la schiena,perché egli poteva sentire il morso delle unghie nellesue parti vitali. Quando vedeva l'ape, Manjal, occu-pata a cercare nettare nei germogli di prugna, eglile parlava piano: « raccogli molto miele, Manjal »,diceva, guardandola volar via pesantemente, « perchépresto lo dividerò con te ». Poi seguiva l'ape fino alsuo nido.Il fratello della madre di Balada, Awur, era vicino aBalada quanto suo padre. Awur portò Balada al GrandeAlbero. Nel Tempo del Sogno il suo primo antenatosi era trasformato in quell'albero. A Balada disse « ilGrande Albero per tè è sacro, perché è lo spirito dituo padre e di suo padre prima di lui » ... all'alberodisse « ho portato il ragazzo, Ngaba, aiutalo e pro-teggilo ».In seguito Awur fu il padrino di Balada in una cerimo-nia di passaggio di età (iniziazione), che gli avrebbepermesso di sposarsi.Il rituale Ubar esigeva che gli iniziati entrassero nelgrembo materno del Serpente dell'Arcobaleno (Nga-lyod) e poi emergessero per entrare nella maturità.Dopo l'iniziazione, Balada si innamorò di Waiula, cheera sua parente e perciò gli era proibita. Awurfu molto preoccupato e lo mise in guardia, ma la cop-pia fuggì. Si sviluppò un conflitto tra i parenti delpadre di Waiula e quelli di Awur. Riuscì a capireche se la coppia non fosse stata trovata subito, cisarebbe stato un massacro tra la gente, la cui ec-citazione stava giungendo al colmo. Egli avvicinò ilpadre di Waiula e disse « non ci saranno uccisioni, tiporterò da Balada ». Egli ebbe l'intuizione che Baladafosse alla grotta del Grande Albero.I parenti del padre di Waiula uccisero Balada conuna lancia... e i parenti di Balada trafissero Waiula.Con dolore, i parenti di Balada portarono al cimiteroil suo corpo avvolto nella carta. Immediatamentedietro di loro, camminavano i parenti di Waiula, por-tando il suo corpo avvolto.I corpi divennero due rocce, in modo che la gentericordasse sempre che le unioni sbagliate finisconomale.

(13) L. A. Allen, Timebifore Morning, New York,Thomas Y. Crowell Co.,1975, pp. 125-129.

Commento

Nonostante l'amore di Awur per Balada, egli decidedi tradirlo quando si rende conto che se si fa ameno di trattare l'evento dell'incesto, la conseguenzainevitabile è un imponente conflitto tra i due gruppi.Nella struttura della parentela non c'è spazio per leunioni incestuose, ed esse possono essere trattatesolo con la morte o con il bando.

Miti aborigeni della Creazione che rappresentanol'incesto

Come in altre culture, l'incesto è la prerogativa degliDei o degli esseri spirituali. Il motivo dell'incesto èmolto diffuso nei miti aborigeni della creazione. Peresempio nel Ciclo Djanggawul.

Il ciclo Djanggawul è una serie importante di mitidel Territorio Nord-Orientale di Arnhem. Un brevesommario, tratto da Louis Allen (14) dice:

Gandjudingu, il marito di Walu, la Donna del Sole,viveva con lei su un'isola al di là delle nebbie del-l'orizzonte, insieme con le sue due sorelle. MentreWalu era lontana, Gandjudingu commise incesto conle sue due sorelle e fu messo al bando da Walu.II fratello e le sorelle, conosciuti collettivamentecome i Djanggawul, si misero in viaggio verso ilcontinente, creando i laghi e dando i loro nomi allecaratteristiche naturali. I figli dell'unione incestuosafurono gli antenati della parte Dua... nei loro viaggiincontrarono Laindjung, che era l'antenato dell'altraparte (Jiridja).Julunggul, il Serpente dell'Arcobaleno, padre di Gan-djudingu, disapprovò profondamente il comportamentoincestuoso di suo figlio. Due figlie dei Djanggawulerano note come le sorelle Wawilag. Baoliri, la mi-nore, e Garangal, la maggiore, erano molto potentie viaggiavano insieme in cerca di avventure... Boaliriebbe una relazione incestuosa con un uomo del suoclan. Anche Garangal restò incinta, ma non in modoincestuoso. Le due donne incinte diedero alla lucei figli, ma Julunggul fu molto dispiaciuto e sentì l'odo-re delle lochiae di Boaliri, che avevano inquinato ilsuo lago. Egli divorò le sorelle Wawilag insieme coni loro bambini, sebbene fossero del suo stessototem... Pentito, insegnò agli altri serpenti le storiee le cerimonie delle sorelle Wawilag.La proibizione dell'incesto, oltre a impedire la disin-tegrazione del sistema della parentela, ha parecchiealtre funzioni strettamente connesse.(1) La storia di Ngalyod richiama alla mente il con-cetto di Leopold Stein (15) che il divieto di incesto èun espediente sociale per incanalare la libido nelregno dello spirito.

(14) Ibidem, pp. 43-51 e61-75.

(15) L. Stein, The IncestWound, Penguin, 1974.

Ngalyod. Un Mito Gunwinggu. Louis Allen (16)

Ngalyod era il Serpente materno dell'Arcobaleno. Lasua gente era infelice malgrado l'abbondanza. Essacercò di insegnar loro canti e cerimonie, ma essisubito le dimenticarono. Un vecchio commise un in-cesto con una nipote. Ngalyod lo rimproverò. In se-guito, un fratello convisse con le sue sorelle; Nga-lyod lo uccise e disse: « Il fratello non giacerà con lasorella » ... quando la gente cominciò a tenere contodelle sue ingiunzioni, cominciò a ricordare le storiee a compiere le cerimonie.(2) L'incesto, in particolare l'incesto tra madre efiglio, è anche un'immagine di infantilismo psicolo-gico. L'iniziazione Gunapipi all'età adulta prevede una« seconda nascita " nell'età adulta, questa volta inmodo non incestuoso.

Cerimonia di Iniziazione (Gunapipi). L. R. Hiatt (17)

Viene agitato un bullroarer e le donne e i bambini cor-rono via perché si sta avvicinando Julunggul (il Ser-pente dell'Arcobaleno). I novizi sono allontanati dalledonne e a queste viene detto che i novizi sonostati divorati dal serpente; le donne piangono i lorofigli morti. Parecchi mesi dopo, i neofiti partecipanoa una rinascita rituale da Garanggal (la sorella nonincestuosa delle Wawilag). Essi vengono messi inuna fossa e coperti di corteccia; e dopo parecchieore la corteccia è strappata via all'improvviso e iragazzi sono messi di fronte a due enormi rappresen-tazioni cilindriche di Julunggul, che gli uomini spin-gono attraverso la fossa, terrificando i ragazzi, cheallora sono considerati rinati.

Discussione

Questa relazione tratta il problema delle immaginifondamentali della psicosi degli aborigeni. Decisa-mente non sono le immagini della regalità. Comun-que, sono necessari degli studi più dettagliati perstabilire la relativa frequenza dei modelli dell'In-cesto e dell'Invasione di Animali. È probabile chequesti modelli non siano i soli comuni.Una delle debolezze junghiane è la libertà di pensarein modo teleologico... In questo contesto sembra chese uno scopo della psicosi occidentale è quello didare all'individuo disturbato l'opportunità di svilup-parsi psicologicamente, attraverso un processo in cuiegli può interiorizzare le qualità di competenza so-ciale e spirituale che sono esemplificate nelle im-magini della regalità, allora sembrerebbe che la psi-cosi degli aborigeni abbia come scopo la società

(16) L. A. Allen, op. cit .,pp. 76-77.

(17) L. R. Hiatt (a cura di),<<Australian AboriginalMythology>>, AustralianInstitute of AboriginalStudies, Carlton, N. S. W.Aust., Excelsis Press,1975, p. 150.

piuttosto che l'individuo. Così le sindromi di essereposseduti da Animali favorirebbero l'integrità terri-toriale e la psicosi da incesto assicurerebbe che lastruttura di una società basata sulla parentela nonsia infranta.Non è una semplice coincidenza che si possano tro-vare forme parallele tra le strutture sociali e quelleinteriori... Queste corrispondenze indicano un'impor-tante area di sviluppo del pensiero junghiano, il rap-porto tra immagini interne e forme sociali.Infine, si dovrebbe dire qualcosa sui problemi so-ciali degli aborigeni. È spaventosa la distruzionedella cultura che è chiaramente dimostrata in moltedi queste storie cliniche. Sembra tuttavia che coloroche lavorano con gli aborigeni stiano diventandomolto più sensibili al valore dei costumi tradizionaliper l'igiene mentale.

Tav. I

1. Immagine dissociata del Sé.2. Dramma o rituale (o rappresentazione rituale).3. Centro.4. Morte (o paura di essere uccisi).5. Ritorno alle origini (o al Sé o al Cosmo).6. Conflitto cosmico/guerra mondiale/scontrointerculturale.7. Minaccia dell'opposto/inversione degli opposti8. Apoteosi.9. Nozze Sacre.

10. Nuova nascita.11. Nuova società.12. Quadripartizione del Mondo.13. Sentire la voce di Dio o di spiriti ancestrali.14. Idee di magia.15. Invasione dì animali o spiriti.16. Incesto tribale (effettivo o immaginale).

Trad. di LUCIA RISPOLI

Un nuovo test di tipologia junghiana June Singer, Los Altos , Mary Loomis, Grosse Pointe

II Singer-Loomis Inventory of Personality (SLIP) ha lo scopo di esaminare gli stili cognitivi. L'ipotesi fonda-mentale su cui si basa è che esiste un rapporto tra la maniera in cui gli individui percepiscono e comprendono il loro ambiente e il modo in cui si comportano. Questa premessa e le categorie definitorie derivano dalla teoria tipologica di C. G. Jung. II test è stato approntato sotto il patrocinio della facoltà di psicologia dell'Università del Wayne e con il sostegno del Fondo per la Ricerca del C. G. Jung Institute di Chicago. Viene presentato per la prima volta a questo VIII Congresso dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica (S. Francisco, settembre 1980). Jung ha definito due atteggiamenti fondamentali — introversione ed estroversione — che interagiscono con le quattro funzioni — pensiero, sentimento, sensazione e intuizione — formando otto tipi psicologici comuni a tutti gli esseri umani. Il nostro test misura proprio queste otto categorie di base. Ciascuna delle otto categorie di funzionamento cognitivo viene considerata come una particolare modalità cognitiva, e il loro sviluppo assolutamente unico nell'individuo è ciò che costituisce il suo stile cognitivo.

Secondo la teoria junghiana, l'introversione e l'estro-versione determinano l'orientamento dell'individuo nei confronti del suo ambiente. Sebbene in ognuno siano presenti entrambi gli atteggiamenti, sembra che esista una tendenza biologicamente determinata al dominio dell'uno o dell'altro. L'individuo introverso da maggior valore al mondo interno delle idee e delle reazioni soggettive, svalutando il rapporto con il mondo esterno. La persona estroversa fa esattamente l'opposto. Per l'estroverso il valore sta negli oggetti, o nei rapporti con gli altri, mentre il mondo soggettivo ha un interesse minore. Jung avanzò l'ipotesi che le quattro funzioni fossero organizzate in due coppie polari. La funzione di giudizio comprende pensiero e sentimento; la funzione percettiva comprende sensazione e intuizione. Jung specificò che tali opposizioni hanno una natura bipolare, il che significa che estroversione e introversione si escludono a vicenda, così come pensiero e sentimento, sensazione e intuizione. Questa ipotesi ha fornito il fondamento per la costruzione dei primi test di personalità che misurano la tipologia secondo la teoria di Jung. Si tratta del Jungian Type Sur-vey (GW) di Gray-Wheelwright e il Myers-Briggs Type Indicator (MBTI). Sebbene questi due strumenti abbiano prodotto una grande quantità di ricerche e di dati, l'ipotesi junghiana di una fondamentale bipolarità non è mai stata sperimentalmente verìficata. Nel 1976 incominciammo a considerare l'importanza di indagare proprio il concetto di bipolarità utilizzato nel GW e nel MBTI. Lo studio era motivato dal fatto che un'altra ricerca psicologica aveva mostrato che certe opposizioni fondamentali — o che precedentemente erano state ritenute tali — si trovavano attualmente in una posizione dubbia. Per esempio, è stato dimostrato che la dicotomia maschilità-femminilità può comporsi psicologicamente nell'androginia (1). L'androginia veniva evidenziata anche nello studio condotto da Helson sulla creatività femminile in campo matematico (2). Contrariamente alle loro colleghe meno creative, queste donne conservavano la loro femminilità, pur accettando caratteristiche maschili.

(1) S. L. Bem. «The mea-surement of psycological androgyny », Journal of consulting and clinical psychology, 42, 1974, pp. 155-162; J. Singer, Andrò gyny: toward a new theory of sexuality. New

La creatività degli architetti fu studiata da MacKinnon nel 1961 (3). Si trattava di individui intuitivi con tendenze artistiche. Gli architetti creativi, oltre ad essere classificati come artistici, sapevano godere anche di esperienze estetiche e sensoriali, e ciò suggerisce la presenza di una funzione di sensazione molto sviluppata. Eppure, nella tipologia di Juhg, sensazione e intuizione sono considerate funzioni opposte e bipolari. Perché allora la sensazione e l'intuizione, oppure il pensiero e il sentimento, non sono mai apparse insieme come le due funzioni più differenziate nei profili di personalità ottenuti con i test che misurano la tipologia junghiana? L'esame del GW e del MBTI ci fornisce la risposta. Questi test sono formati da item a scelta obbligata, con una correlazione perfettamente negativa tra funzioni accoppiate. Scegliendo una delle due risposte alternative si rifiuta automaticamente l'altra. Parlando con le persone sottoposte al test, gli autori hanno potuto rilevare che molti individui trovano particolarmente difficile rispondere a certe domande. Ciò si verifica o perché entrambe le alternative descrivono le loro preferenze, oppure in quanto per loro entrambe le risposte sono ugualmente improbabili. Nel rispondere al test, una volta fatta la scelta, l'alternativa rifiutata è del tutto ignorata; questo significa che nel caso di due scelte altamente probabili — entrambe ugualmente rappresentative della preferenza individuale — una è omessa nel compilare il profilo. Nello stesso modo quando si presentano due scelte altamente improbabili —nessuna delle due veramente rappresentativa della preferenza individuale — a una di esse viene dato molto peso e viene considerata come scelta altamente probabile. A causa di queste distorsioni inerenti alla siglatura delle risposte a item a scelta obbligata, c'era dunque la possibilità che la funzione superiore non fosse veramente quella ottenuta secondo i test GW e MBTI. Gli autori hanno così concluso che per verificare l'ipotesi della bipolarità e per valutare correttamente la teoria junghiana dei tipi, avrebbero dovuto misurare

York, Anchor Press/Dou-lay, 1976. (2) R. Helson, « Women mathematicians and the creative personality »,Journal of consulting and clinical psychology, 36(2), 1971, pp. 210-220. D. MacKinnon, «The study of creativity and creativity in architects », in Conference on the creative person, Berkeley, University of California Indstitute of Personality Assessment and Research,1961

le funzioni indipendentemente una dall'altra, senza presumere una necessaria correlazione negativa tra di esse. Se la bipolarità si riscontrasse universalmente. l'opposizione della funzione superiore e di quella inferiore sarebbe dimostrata, a prescindere dalla costruzione degli item. Inoltre, se i profili ottenuti con i test GW e MBTI non fossero parzialmente falsati dagli item a scelta obbligata, allora cambiando la struttura degli item, ma non il loro contenuto, si dovrebbero ottenere profili identici. I test GW e MBTI sono stati ricostruiti in modo da eliminare la scelta obbligata e da permettere di sigiare ogni item indipendentemente secondo una scala da 1 a 7, dove 1 significa mai e 7 sempre. Per esempio, un item come 1. Quando sono in compagnia

a. mi piace parlare b. mi piace ascoltare è stato sostituito con due diversi

item scalari: Quando sono in compagnia mi piace parlare Quando sono in compagnia mi piace ascoltare I

risultati, visibili nella tabella 1, dimostrano che per molti individui, se hanno la possibilità di scegliere liberamente le loro risposte, la funzione superiore è diversa rispetto a quella emersa con i test a risposta obbligata. Oltre a ciò. in un numero significativo di casi, la funzione inferiore non risulta essere quella opposta alla funzione superiore.

Tabella 1

VARIAZIONI OTTENUTE CON SOMMINISTRAZIONE DI ITEM SCALARI RISPETTO

AGLI ITEM A SCELTA OBBLIGATA

GW MBTI Totale

Numero di soggetti 120 79 199 Variazioni nella funzione

superiore 86 (72 %) 36 (46 %) 122 (61 %) Funzione inferiore non

opposta alla funzione

superiore 66 (55 %) 29 (36 %) 95 (48 %)

ciò, esso non è idoneo a confrontare la particolare modalità cognitiva di un individuo con quella di un altro. Le quindici situazioni del test furono scelte dopo un'analisi fattoriale che portò a una revisione della stesura originaria comprendente venti situazioni. Riportiamo un esempio del tipo di « situazione » usato nello SLIP. Si chiede alle persone sottoposte al test di valutare ciascuna delle otto risposte secondo una scala di punteggi: Q: Ricevo l'invito a partecipare alla riunione politica di un

candidato a cui va la mia preferenza: 1. sono felice dell'occasione di sentire l'opinione di molte

persone che possono finalmente aiutarmi a chiarire il mio stesso pensiero.

2. getto via l'invito e lo dimentico. 3. mi siedo tranquillamente e presto attenzione a quello

che il candidato non dice. 4. scrivo una lettera per dire che concordo con le idee

espresse dal candidato, ma preferirei inviare un mio contributo piuttosto che partecipare alla riunione.

5. discuto con altre persone sulla nostra possibilità di influenzare il pubblico a votare per il nostro candidato.

6. vado alla riunione e offro la mia collaborazione per un sondaggio dell'opinione pubblica.

7. vado alla riunione, osservo le persone che vi par-tecipano e il modo in cui questa è stata organizzata. perché spesso le piccole cose rivelano la vera natura di una persona.

8. offro spontaneamente il mio aiuto per la preparazione di volantini o per fare altre cose necessario.

PUNTEGGIO

I risultati del test vengono elaborati da un calcolatore. e per ciascuna risposta si ottiene una scheda dettagliata che include per ogni individuo informazioni di questo tipo: la forza relativa delle varie mo-

Tabella 2

FATTORI PRESENTI NELLO SLIP E PERCENTUALE DI VARIANZA TOTALE

1. Sentimento 2. Intuizione 3. Pensiero 4. Sensazione introversa 5. Sensazione estroversa

varianza 33.910

II primo fattore conteneva item riguardanti giudizi di valore, empatia e simpatia. È stato definito sentimento, con l’8,9% di varianza. Metà degli item erano introversi e metà estroversi. Il secondo fattore, con 8,4% di varianza, conteneva item relativi all'immaginazione e alla speculazione. Anche in questo caso gli item erano metà introversi e metà estroversi. II

(5) M. Loomis, Predicting Artistic Styles from Cognitive, Relazione inedita, Wayne State University. Detroit, 1980.

dalità cognitive o funzioni; le funzioni usate più fre-quentemente e le interazioni tra le funzioni secondo il particolare modello individuale di preferenza. Ogni funzione viene poi descritta nel contesto del profilo individuale.

RICERCA

Analisi fattoriale

La prima versione dello SLIP era formata da venti do-mande con otto risposte per ciascuna. II test è stato somministrato a 217 persone, tutti adulti, e i risultati sono stati sottoposti ad analisi fattoriale (5). Dall'analisi sono emersi cinque fattori indipendenti. I primi quattro contenevano risposte introverse ed estroverse, mentre il quinto conteneva quasi interamente risposte estroverse. I fattori e la loro varianza sono riportati nella tab. 2.

Fattore Percentuale di varianza totale

8.967 8.355 6.076 5.750 4.762

fattore fu definito intuizione. II terzo fattore, con 6% di varianza, includeva item, per metà introversi e per metà estroversi, relativi alla funzione pensiero. Gli item includevano risposte di pianificazione sistematica o soluzione di problemi logici. Il quarto fattore, anch'esso con un 6% di varianza, conteneva item che si riferivano al raggruppamento o all'elaborazione manuale di dati indifferenti. In questo fattore si è riconosciuta la funzione non valutativa della sensazione. Gli item non erano ugualmente divisi tra risposte introverse ed estroverse. Nove dei dodici item di questo quarto fattore erano risposte introverse; perciò il fattore è stato definito sensazione Introversa. Il quinto fattore, con circa un 5% di varianza, conteneva tutti item relativi alle sensazioni fisiche o corporee. Dieci degli undici item erano estroversi e questo fattore è stato definito sensazione estroversa. I risultati dell'analisi fattoriale sono stati utilizzati per una revisione dello SLIP originario. In primo luogo, nella versione attuale sono state eliminate le ultime cinque domande discriminanti. In secondo luogo, i singoli item sono stati esaminati per determinare se il loro carico fattoriale era coerente con il punteggio delle otto modalità cognitive. Inoltre, gli item che coprivano più di un fattore sono stati riformulati. Le correlazioni negative erano accettabili, e alcuni item mostravano la bipolarità ipotizzata da Jung; questi erano però rari. Soltanto quattro item avevano un carico fattoriale negativo di circa 3, o maggiore. Il nostro test è ora a disposizione di terapeuti, educatori e altri professionisti. Si spera che lo SLIP venga usato da persone qualificate per la ricerca e che i risultati vengano portati a conoscenza degli autori di questo strumento. È disponibile un manuale di istruzioni [About the SLIP), che dovrà però essere aggiornato sulla base delle nuove ricerche. Per ulteriori informazioni si può prendere contatto direttamente con gli autori.

Trad, di LUCIANA BALDACCINI

L’ immagine dell'analista junghiano e il problema dell’autorità

J. Marvin Spiegelman, Studio City

Nella primavera del 1966, io e il mio collega Robert Stein fummo rifiutati come didatti dalla Commissione Didattica della Società junghiana cui apparteniamo. Ci venne detto di aspettare ancora sei mesi, con l'in- vito implicito a continuare l'analisi con uno degli ana- listi anziani. Fu per noi un vero e proprio shock, a cui non eravamo affatto preparati. Entrambi eravamo già regolarmente iscritti alla Società e membri del Comitato Esecutivo; io avevo anche avuto, come di- rettore didattico, l'incarico di valutare i candidati e in precedenza ero stato addirittura un membro della Commissione Didattica! Eravamo impreparati a quella risposta anche perché coloro che diedero il giudizio erano nostri amici, colleghi, analisti e didatti — tutte persone con cui eravamo in stretto rapporto. Per molto tempo cercammo di comprendere il senso di questo episodio e le sue conseguenze. Gli anni che sono trascorsi da allora (14 al momento attuale) hanno sicuramente attenuato il dolore, ma non hanno dato risposta alle nostre domande di allora. Stein si chiedeva: qual è la loro immagine dell'analista e del didatta junghiano? La mia domanda invece era la se- guente: come è possibile che gli junghiani siano così irrazionali, ingiusti, e passino a tal punto sopra ai rapporti personali? lo credo che l'analisi di questa esperienza e delle immagini che vi stanno dietro pos- sa contribuire a una migliore comprensione del trai- ning e della nostra idea dell'analista in generale. Qual è la loro immagine dell'analista? La domanda di Stein continuò a ossessionarmi a lungo, anche dopo che lui stesso l'aveva abbandonata ritenendola improduttiva, lo credo di aver trovato una possibile risposta leggendo la biografia di Jung scritta da Bar-

bara Hannah, nel punto in cui descrive rincontro, fondamentale, di Jung con Richard Wilhelm e rife- risce la storia, ormai famosa, del « Mago della piog- gia » che il sinologo gli raccontò e che lo colpì pro- fondamente: Richard Wilhelm si era trovato in un remoto villaggio cinese colpito da una tremenda siccità. Gli abitanti avevano fatto di tutto per mettervi fine, ricorrendo a preghiere e a incantesimi di ogni sorta, ma sempre invano, sicché gli anziani del villaggio avevano detto a Wilhelm che l'unica soluzione possibile era di di far venire un mago della pioggia da lontano. La cosa interessò enormemente Wilhelm, il quale era riuscito a essere presente all'arrivo del mago della pioggia. Questi, un vecchietto grinzoso, era giunto a bordo di un carro coperto. Scesone, aveva fiutato l'aria con espressione disgustata e quindi chiesto che gli fosse assegnata una capanna alla periferia del villaggio, ponendo come condizione che nessuno lo disturbasse e che il cibo gli fosse lasciato fuori dell'uscio. Per tre giorni, non se ne era saputo più nulla. Poi, il villaggio era stato svegliato da un vero e pro- prio diluvio; era persino nevicato, cosa del tutto insolita in quella stagione. Wilhelm, rimastone grandemente impressionato, era andato dal mago della pioggia uscito dalla sua volontaria reclusione, al quale aveva chiesto meravigliato: « Sicché, tu puoi far davvero piovere? ». Il vecchio s'era messo a ridere rispondendo che « naturalmente » non poteva far piovere affatto. « Ma finché tu non sei venuto » gli aveva fatto osservare Wilhelm « c'era una terribile siccità. Poi passano tre giorni, ed ecco che si mette a piovere ». E il vecchio: « Ma no, le cose sono andate in tutt'altro modo. Vedi, io provengo da una regione dove tutto procede per il meglio, piove quando è necessario e fa bei tempo quando occorre, e anche la gente è a posto e in pace con se stessa, Non così invece con la gente di qui, la quale è fuori dal Tao e fuori di sé. Quando ho messo piede nel villaggio sono stato subito contagiato, per cui ho dovuto starmene da solo finché non sono tornato nel Tao, e allora com'è ovvio s'è messo a piovere (1).

Barbara Hannah ricorda che Jung non soltanto rimase profondamente impressionato da questa storia, ma le consigliò anche di parlarne ogni volta che avesse te- nuto una conferenza sulla psicologia junghiana. Probabilmente qui si deve riconoscere un'immagine centrale della psicologia di Jung, un'immagine che informa tutti noi come un ideale. Una nostra collega, de Castillejo, nell'articolo intitolato « The Rainmaker Ideal » (2), esalta proprio questo tipo di approccio alla vita. Questa immagine mi fa venire in mente un aneddoto sull'atteggiamento di Jung, che circolava verso la fine degli anni '50, quando ero allievo al- l'Istituto di Zurigo. Si diceva che Jung avesse notato come gli uomini, dopo i trent'anni, fossero veramente soli, ognuno impegnato a seguire la propria via, come le navi che passano nella notte, accendono una luce di saluto e niente più. Questo veniva detto con tono di approvazione, sebbene anche un po' tristemente. Ricordo tuttavia che già allora io, Stein e James Hill- man non amavamo affatto questa immagine di gran- de solitudine e ci opponevamo ad essa, sottolineando come portasse soltanto a una separazione delle stra- de, quella dì Freud, di Adler, di Jung, di Rank, di Reich e così via. Noi sentivamo che la fratellanza

(1) B. Hannah (1976),Vita e opere di C. G.Jung, Milano, Rusconi,1980, pp. 178-179.

(2) Irene Claremont deCastillejo, «The Rainma-ker Ideal », Guide of Pa-storal Psychology, Guild Lecture n. 107, febbraio

1960.

e il cameratismo potevano essere una parte impor- tante del « viaggio ». Da veterano della Marina Mer- cantile, vorrei anche ricordare che le navi hanno equipaggi dì almeno trenta persone e sono necessari gli sforzi di tutti e una reciproca tolleranza sia per navigare che per consentire un minimo di riservatezza negli alloggi comuni. Ecco l'immagine che sta dietro a quella prospettiva: l'uomo solo che si riconcilia con le potenze dell'uni- verso, che si ritira in solitudine e guarisce a dispetto di tutti i dilemmi sociali. E qui c'è anche Jung con la sua diffidenza per i gruppi e le istituzioni, asser- tore della necessità di internalizzare il conflitto tra le nazioni per permettere lo sviluppo della coscienza individuale. Quante volte Jung ha detto che dieci o cento saggi messi insieme non formano che una stu- pida massa e che la salvezza dell'umanità poggia sull'individuo e non sul gruppo (3)? Ecco l'immagine: l'Ideale del Mago della Pioggia. Non sono anch'io un seguace di questo ideale? Non ho praticato l'im- maginazione attiva per tanto tempo, da quando ho cominciato l'analisi all'età di 24 anni? Non ho con- diviso la diffidenza di Jung per i gruppi? Nei loro confronti ero anche più severo di Jung. Inoltre, an- ch'io ero d'accordo con la sua idea che l'individuo fosse il luogo della coscienza. Qua! era allora la dif- ferenza? Qual era la mia immagine? Mi resi conto che io avevo sempre privilegiato il dialogo e il lavoro reciproco, e allora mi ricordai che nel 1965, nell'articolo su « Alcune implicazioni del transfert » (4) sottolineavo proprio questo carattere del lavoro analitico e la necessità di un'apertura re- ciproca. Mi tornò anche in mente il sospetto con cui questo articolo fu accolto allora dai più anziani, e compresi che la mia immagine dell'analista era ba- sata soprattutto sul modello alchemico: l'Alchimista e la Soror Mystica. Questo per me non rappresentava soltanto l'alchimista e la sua anima inferiore, ma esprimeva anche la reale partecipazione di entrambi i partner all'opera di trasformazione della prima ma- teria, ossia a un'opera che ha inizio nella dimensione inconscia del paziente, ma che ben presto influenza anche l'analista ed esige che i due, con impegno e preghiera, con sforzo e devozione, si rivolgano agli dei che si manifestano nell'opus, dentro di loro e tra di loro. Mi resi conto che dietro l'ideale junghiano dell'anali- sta c'è anche questa immagine alchemica, ma sotto- linearla spaventa e scandalizza anche quegli junghia- ni che riconoscono il valore del modello alchemico. In Inghilterra un allievo disse che non avrebbe mai raccontato a una paziente un proprio sogno di carat- tere sessuale che la riguardasse, ma avrebbe lavorato su se stesso per mutare il proprio atteggiamento. lo sentirei invece l'obbligo morale di parlarne con la paziente, poiché la questione riguarda entrambi. Il

(3) Vedi soprattutto « Pre-sente e futuro » (1956) inRealtà dell'anima, TorinoBoringhieri, 1970.

(4) M. Spiegelman (1965).« Alcune implicazioni deltransfert », Rivista di psi-cologia analtiica, vol. 1,n. 1, 1970.

fatto di parlarne potrebbe attenuare la percezione dell'analista come un'autorità impersonale, mostran- do che egli è coinvolto personalmente nel processo. Molto spesso Jung afferma di essere d'accordo sulla reciprocità in analisi, per lo meno in ogni analisi pro- fonda, fondamentalmente trasformativa. Nel saggio « I problemi della psicoterapia moderna » (5) Jung scrive:

Orbene, che significa questa esigenza [che anche II medico debba essere analizzato]? Nient'altro se non che il medico è al- trettanto « in analisi » quanto il paziente. Il medico è, come il paziente, un elemento del processo psichico della cura e perciò è esposto, come quest'ultimo, alle influenze trasformatrici. Anzi, quanto più il medico si dimostra inaccessibile all'influenza del paziente, tanto più egli è anche privato della possibilità di in- fluire sul paziente, e se egli è solo inconsciamente influenzato sorge nel campo della sua coscienza una lacuna che gli rende impossibile di capire bene il paziente. In ambo i casi il risultato della cura è compromesso.

Jung continua dicendo che al medico « incombe... lo stesso compito che egli vorrebbe imporre al pazien- te » - parole molto importanti per sostenere l'idea della reciprocità. Ci sono quindi due immagini canoniche secondo cui l'analista vede se stesso: il Mago della Pioggia, solo e autotrasformante, e l'Alchimista, che partecipa al- l'opus e dialoga col suo partner. In un certo senso anche quest'ultimo ha il carattere del Mago della Pioggia: egli sa che gli archetipi influenzano ambo le parti, ma trasforma se stesso per produrre cam- biamenti. Non si rivolge quindi al « terzo >> presente nell'opera, cioè al rapporto stesso e all'inconscio « tra » di loro. Per quanto mi riguarda, io ero Mago della Pioggia quando ero solo e Alchimista con i pazienti. Perché i miei colleghi rifiutano questa visione del processo reciproco? lo credo che essi in questo modo rifiutino quelle che secondo me sono con- clusioni implicite nella visione junghiana del tran- sfert. Per me, nel momento in cui comincia ad avere fantasie sul paziente, o a percepire ostacoli o af- fetti intensi, l'analista è afferrato in un processo reciproco con l'inconscio e non è più in possesso del- l'« oggettività ». Piuttosto i due partner sono comple- tamente assorbiti nella dimensione anima/animus, o in altre dimensioni archetipiche del rapporto incon- scio. La mia conclusione era che avevo una respon- sabilità morale (in nome dell'onestà) a comunicare le mie fantasie esattamente come ad ascoltare quelle del paziente, lo credo che sia proprio questo a spa- ventare e a scandalizzare i miei colleghi. Tuttavia è proprio da tale partecipazione reciproca che il pa- ziente e il terapeuta traggono una certa compren- sione di quello che accade ne//'inconscio (non nel

(5) C.G. Jung (1929), « Iproblemi della psicotera-pia moderna », in // pro-blema dell'inconscio nellapsicologia moderna, Tori-no, Einaudi, 1971, p. 25.

« mio » o nel « tuo » inconscio): ora siamo entrambi reciprocamente connessi al « terzo » che è il rap- porto stesso. L'oggettività e l'autorità vengono quindi trasferite all'inconscio, quale si rivela nelle fantasie e nei sogni dei partecipanti, che sono diventati com- pagni nell'opera di trasformazione alchemica di cui Jung ci ha parlato, e possono ora occuparsi nella stessa misura di se stessi, dell'altro e del terzo. Vorrei portare un esempio di questo tipo di scambio, raccontando una sequenza clinica avvenuta mentre lavoravo a questa relazione. Una paziente aveva delle fantasie sessuali su di me, ma era riluttante o inca- pace di dire quali fossero, lo mi sentivo alternativa- mente stimolato e rifiutato, senza sapere minima- mente che cosa mi stesse succedendo, li suo allon- tanamento produceva in me un analogo movimento oppure fantasie sessuali aggressive di carattere im- personale. Feci anche un sogno in cui avevo con lei un rapporto sessuale. Le raccontai il sogno e le fan- tasie, insieme all'interpretazione: io stavo cercando di penetrare la sua resistenza e di unirmi a lei, ma ne ero anche spaventato. Lei allora sognò che il te- rapeuta le puntava addosso una pistola, all'altezza della regione genitale, ma lei lo invitava a stendersi sul pavimento e a fare l'amore. Il terapeuta le rispon- deva che non era possibile (fine del sogno). Le feci notare la precisione delle immagini e lei aggiunse che ciò che la spaventava era sia l'intensità dei suoi desideri che la paura di essere rifiutata, A quel punto parlò della sua fantasia: sta sola davanti a un camino acceso, e danza nuda; appare il terapeuta e lei diventa gradualmente il fuoco stesso; sotto forma di fuoco tenta di avvicinarsi al terapeuta. La mia rea- zione a questa fantasia fu di ritirata, per paura di essere bruciato. Le comunicai il mio vissuto e poi le dissi che eravamo coinvolti nell'unione alchemica fuoco-acqua: cioè nel tentativo dell'inconscio di unire il fuoco della passione e del desiderio con l'acqua del sentimento. Il gioco di questi opposti si stava svolgendo dentro ciascuno di noi e nel rapporto stesso. L'immagine fuoco-acqua e l'unione nel va- pore (fantasia, spirito) faceva sorgere dall'inconscio un « terzo >> salvifico a cui entrambi potevamo col le- garci. Dopo che avevo scritto queste righe vidi ancora una volta la paziente. Mi disse che era stata molto stu- pida a credere a quelle sciocchezze, che ora aveva riacquistato il suo potere personale e che aveva sen- tito che io la giudicavo per il suo desiderio fisico. Rimasi sorpreso e addolorato, per non parlare della sensazione di essere stato ingannato, visto che avevo usato questo episodio nel mio articolo. Le comunicai i miei sentimenti e le dissi anche che avevo portato l'episodio come esempio in uno scritto. Lei fu chia- ramente commossa e mi disse che dopo l'ultima se- duta era caduta in preda a uno spirito sarcastico, so- spettoso, cinico, che le faceva pensare che io non

mi interessassi veramente di lei e che lei non era altro che una forma di vita non ancora evoluta, priva di qualsiasi valore. Attraverso l'elaborazione analitica divenne chiaro che l'unione fuoco-acqua era avve- nuta, ma ora si stava manifestando un'altra dimen- sione, terra-aria, anche questa in forma scissa. Lei si sentiva identificata con il corpo, con l'aspetto ter- restre dell'esaudimento concreto, e lo spirito (aria, giudice) appariva come un potere negativo e rifiu- tante. La nostra discussione sembrò appianare le cose e in particolare lei ebbe la certezza che mi in- teressavo veramente del nostro rapporto. Poi sognò una bellissima principessa che viveva in un magnifico castello, ma era completamente sola. A guardia del castello c'era un giovane principe, che lei ammirava e amava profondamente, che cavalcava avanti e indietro sul suo cavallo, con la spada sguai- nata, pronto a battersi con chiunque si fosse avvici- nato. Alla fine la principessa invitava il principe a deporre la spada, a entrare nel castello e a stare con lei. Non voleva più stare sola e non aveva più bi- sogno di protezione (fine del sogno). Nel sogno successivo il terapeuta stava davanti a lei, sorrideva e le tendeva le braccia. Questo sogno era simile a un altro che aveva fatto all'inizio dell'ana- lisi, un anno prima; in esso il terapeuta stava in cima a una lunga rampa di scale, con le braccia aperte per accoglierla. Per raggiungerlo lei doveva salire quelle scale, che non avevano ringhiera. Nel sogno attuale lei sentiva il potere del terapeuta, ma anche la sua umanità e la sua vulnerabilità. Percepiva una enorme carica di amore e attenzione. Nella stessa notte sognò che il terapeuta andava a casa sua, co- nosceva la sua famiglia e suonava il piano. Credo che questi sogni siano del tutto trasparenti. Nel so- gno del castello lei entra finalmente in rapporto con il suo animus, ed è pronta per l'unione interiore - un'opera da Mago della pioggia! Dopo aver superato l'uso difensivo dell'animus, la paziente è anche pron- ta per un « processo reciproco » con me, a un livello più profondo, come mostrano i sogni successivi. So- no anche colpito dalla presenza dell'archetipo del Giudice, che si intrude nell'opera e cerca di distrug- gere l'unione avvenuta. Questa figura di Giudice, di cui parlerò più diffusamente nel paragrafo seguente, si manifesta molto spesso sia nel lavoro analitico ordinario (particolarmente nei problemi di transfert), sia nel processo di training e di valutazione. Ma qui era essenziale che io fossi disposto a « rivelare » le mie fantasie e i miei sogni in relazione alla paziente, come lei stessa aveva fatto fino al momento in cui si era bloccata. Secondo me non c'era altro modo perché l'unione avvenisse veramente. Dopo che il mio scritto era già nelle mani dell'edi- tore, la paziente sognò di venire nel mio studio, ma lo studio e io stesso eravamo cambiati, lo avevo in-

dosso un costume verde elisabettiano, ero piuttosto grasso e avevo un aspetto da sciocco. Una voce au- toritaria diceva che il terapeuta non poteva aiutarla (fine del sogno). La paziente fu molto colpita da questo sogno, e lo fui anch'io, sentendomi ancora una volta ingannato. Ma no. II lavoro analitico chiarì che lo « sciocco >> adesso ero io, sciocco come lei si era sentita in precedenza, e questo era vero nella misura in cui dipendevo dalla sua psiche per convalidare la mia visione del processo. Emerse anche che la voce autoritaria insisteva proprio per impedire che lei si abbandonasse totalmente al rapporto, come rischiava di fare, e conservasse invece un contatto con il suo Sé interno, il << Dio interiore ». Lei era quindi spinta avanti e indietro tra questi opposti ed era costretta ad accettare sia il proprio Mago della pioggia sia il processo alchemico tra di noi. Questa intuizione mi aiutò a rendermi conto di quan- to fossi diventato stupidamente dipendente dai sogni della paziente, che consideravo rivelatori di una au- torità oggettiva. In questo modo io e la mia paziente eravamo veramente nella stessa barca. Nel training junghiano ci viene insegnato che i sogni in cui appare il terapeuta sono generalmente proiettivi, lo invece, con la mia idea del processo reciproco, ero spesso sconfinato nella direzione opposta e avevo accolto i sogni su di me come « veri », perdendo così la mia autorità interiore. lo credo che i miei colleghi avessero dei grossi dubbi proprio sul fatto di rivelare al paziente le proprie fantasie. Il materiale che viene rivelato può inclu- dere elementi sessuali, aggressivi e infantili, e si teme che tale sincerità possa portare a un acting out o a una perdita di controllo da parte del terapeuta. È una paura legittima, ma si deve anche comprendere che questi timori sono istintivi e hanno una funzione di regolazione, come nell'esempio che ho riportato. Se ho la fantasia di schiaffeggiare un paziente, ho anche paura di fargli del male o di riceverne, ed è questo che trattiene la mia azione corporea. Anche questo fa parte del << rivelare », Inoltre, quando noi comprendiamo che la terapia è un rapporto psicologico che tende all'ampliamento della coscienza e del- la capacità di amare, i limiti naturali che derivano da questo scopo condiviso impediscono - o rendono meno probabili - degli sviluppi dannosi. In ogni caso, io ritengo che sia preferibile la massima apertura su tali processi (rendendoli consci a entrambi) piut- tosto che lasciarli infettare nell'oscurità, dove pos- sono causare veramente dei guai se cadono in mano all'archetipo della strega o del demonio. Un collega mi ha suggerito che i terapeuti rifiutano l'idea del processo reciproco e la possibilità di tale apertura da entrambe le parti perché non sono di- sposti a rivelare la propria debolezza e vulnerabilità,

o i propri bisogni. Quando fai questo, egli dice, tu perdi la tua autorità e l'altro può colpirti! Temo che questo sia vero. Sono stato trattato così più di una volta. Però il terapeuta può anche parlare del suo dolore e del senso di essere rifiutato, magari susci- tando la compassione del paziente e quindi aumen- tando l'autorità interiore di quest'ultimo. Questo aggrapparsi all'autorità non è un'esperienza rara tra i terapeuti. Ne ho visti parecchi, tra cui molti junghiani, con un atteggiamento da giudice, inflazio- nati dall'archetipo del vecchio saggio (anche nella sua forma femminile), impenetrabili e invulnerabili. Perciò sono particolarmente grato a Guggenbuhl che, nel libro Power in the Helping Professions (6), ha mostrato con precisione quanto facilmente i terapeuti possano cadere vittime della rigidità e dell'impene- trabilità che la nostra professione sembra produrre. lo credo che il modo in cui Guggenbuhl dipinge que- sta patologia dia un'immagine perfetta dell'ombra del Mago della pioggia. E penso che i timori dei miei colleghi fossero soprattutto rivolti all'apertura nei confronti dell'altro, come ho già sostenuto nei miei scritti sul transfert. D'altronde sono anche consapevole del grande valore delle immagini che esprimono la « chiusura ». La fan- tasia della crescita che avviene nel silenzio e nel- l'oscurità della terra e del grembo, ne è un valido esempio, così come il carattere ermetico della via « indiretta ». Se sottolineo l'apertura è solo perché è stata enormemente trascurata nel nostro campo. Come è possibile che gli junghiani siano così irra- zionali, ingiusti, e passino a tal punto sopra i rapporti personali? Come è possibile questo? Ci si potrebbe anche chiedere per quale ragione non dovrebbero esserlo, dato che siamo tutti << troppo umani », come diceva Nietzsche, e dato che tutti abbiamo in noi l'« uomo cattivo » che fa queste cose. A quel tempo io credevo che chi percorre coscientemente la via dell'individuazione non si sarebbe mai comportato in modo simile. Non è che allora fossi più ingenuo di adesso, ma semplicemente non avevo strumenti concettuali ade- guati per differenziare la mia esperienza personale dal problema impersonale, più vasto, del giudizio. Niente nel mio training o nella mia esperienza mi aveva insegnato a penetrare il senso di questo even- to. Retrospettivamente mi rendo conto che il modello del Mago della pioggia (non cosciente all'epoca) e quello dell'Alchimista non potevano aiutarmi a capire qualcosa di più. lo sapevo di essere vittima di un giudizio ingiusto e questo era l'elemento centrale della mia esperienza. La mia immagine interna del- l'archetipo del giudice era perfezionista, rigorosa ed esigente, e fu a questa figura che mi rivolsi cercando di affrontare il mio dolore e la mia sorpresa. A quel tempo questo giudice era molto severo con me per

(6) Adolf GuggenbuhI-Craig, Power in the Help-ing Professions, N. York-Zurich, Spring Publica-tions, 1971.

alcune violazioni dei suoi standard nella mia vita personale, e quindi io già vivevo un intenso conflitto. Potevo dare facilmente una interpretazione freudiana a quello che mi era successo: io stesso avevo pro- dotto e causato inconsciamente quel tradimento e quei giudizi esterni per punirmi delle mie trasgres- sioni. Questo potrebbe anche spiegare perché non riuscii a difendermi con più energia e a denunciare l'ingiustizia. L'interpretazione causale freudiana deve essere vera. Dopo un certo tempo potei vedere an- che il valore di un'interpretazione finalistica adle- riana. A dispetto del fatto che ero stato rifiutato co- me analista didatta, io continuavo ad avere in analisi molti terapeuti (almeno la metà del mio lavoro è stato da allora con terapeuti). Questo era un « ag- giustamento » nel senso di Adler? Ossia, io dovevo sacrificare la mia volontà di potenza di essere « ana- lista didatta » solo per diventarlo in modo non uffi- ciale, al di là della dinamica del potere, e così con- tribuire a un autentico « interesse sociale »? Anche questo aveva un senso e mi aiutò ad apprezzare il punto di vista adleriano. Poi vidi anche il valore dell'interpretazione finalista junghiana: arrivato a quarant'anni dovevo allonta- narmi dal gruppo per seguire la mia individuazione. Questa interpretazione ebbe una risonanza nei miei sogni e anche in un mio racconto fantastico. Molto probabilmente questo prodotto immaginativo indivi- duale non sarebbe nato se le mie figure interiori fos- sero rimaste soltanto al servizio del collettivo jun- ghiano; di qui la validità dell'interpretazione finalista junghiana. Ma queste tre interpretazioni non erano sufficienti, poiché conservavano un punto di vista orientato sull'interno (e cioè ancora il Mago della pioggia) e non davano un peso sufficiente alle neces- sità dialogiche, relazionali e di gruppo che vi erano implicate. Proprio su questo punto io e Stein cer- cammo dì prendere coscienza e di curarci in qualche modo da soli. Sapevamo di essere entrambi influen- zati dal Giudice inferiore e così tentammo, nel nostro rapporto, di affrontare il problema. Ma, a dispetto del successo che la mia idea del processo reciproco aveva con i pazienti (soprattutto con i giovani tera- peuti e con quelli che avevano una formazione esi- stenziale) io sentivo ancora la ferita e il dolore del « Giudice ingiusto ». Le varie interpretazioni, causale, finalista e relazionale, sembravano tutte utili e valide, ma io non riuscivo a isolare l'immagine e il mito che stavo vivendo. In qualche modo la percepivo, ma mi sembrava troppo importante per essere col- legata ai problemi e alle angosce relativamente ba- nali con cui mi stavo confrontando. Mi riferisco alla storia di Giobbe e al libro di Jung su questo impor- tante mito della nostra coscienza occidentale (7). In quest'opera, come sappiamo, Jung ha affrontato quello che sentiva come un mito centrale della cultura occidentale: l'ingiustizia di Dio, il suo bisogno

(7) C.G. Jung (1952), « Ri-sposta a Giobbe », in Psi-cologia e religione. Operevol. 11, Torino, Boringhie-ri, 1979.

di dialogare con l'uomo per ampliare la propria co- scienza, la continua incarnazione - l'umanizzazione di Dio e la conseguente divinizzazione dell'uomo. Questi gravi problemi e la spiegazione appassionata che offre Jung di questo sviluppo nell'immagine oc- cidentale del divino, sono stati essenziali nella sua psicologia, come Io è stato il suo interesse per l'al- chimia, vista come il precursore e l'espressione sim- bolica della coscienza moderna. Era proprio questa storia che sentivo attiva nella mia esperienza con i colleghi junghiani, nel lavoro che facevo con me stesso e nella mia pratica clinica. Per me la commissione giudicatrice, che si arrogava il diritto di darmi un giudizio regressivo senza cu- rarsi del parere del collettivo e solo in osservanza dei propri bisogni di potere, era un'incarnazione del giorno del Sinedrio di Gesù. lo ero parzialmente iden- tificato con Gesù, un uomo che aveva un rapporto interiore con Dio, che negava l'autorità degli « an- ziani » e univa in se stesso l'umano e il divino! lo mi sentivo veramente crocifisso e abbandonato. Il mio approccio alla terapia si basa sull'idea del pro- cesso reciproco, ossia sull'elaborazione di questo complesso in modo che noi tutti, come gruppo, pos- siamo trovare la relazione con il Dio-tra-noi. Pensavo che proprio in questa combinazione del personale e dell'impersonale consistesse il processo di uma- nizzazione dell'archetipo. Naturalmente la storia non andò così, né i miei colleghi cooperarono minima- mente. Mi trovai allora immerso nel mito e non po- tei trovare alcuna soluzione alternativa soddisfacen- te. Pensavo che una graduale disidentificazione dal- l'archetipo dell'uomo-Dio fosse difficile, dato che la coscienza portatrice di tale immagine è precisamente la condizione dell'uomo contemporaneo, come affer- ma Jung in Risposta a Giobbe. Nella civiltà occiden- tale stiamo vivendo in qualche modo questo mito e penso che noi psicologi junghiani abbiamo con esso una particolare affinità. I problemi del giudizio, di essere « uomini » e di disidentificarsi dalla posses- sione archetipica sono presenti nella terapia e nella vita, ma risaltano particolarmente nel processo di training. Alcuni aspetti del mito si riferiscono alla situazione analitica e di training. Sono precisamente le dimen- sioni Personale-Impersonale; Soggettivo -Oggettivo; Potere e Rivendicazione-Sottomissione. Personale-Impersonale. L'immagine della figura di- vina nella storia di Giobbe è passionale, personale, primitiva e apparentemente irriflessiva. Egli si iden- tifica con il suo potere, ma non ne considera gli ef- fetti. È personale nell'intensità e nella passione, ma è impersonale e indifferente alla realtà del partner umano. Egli trama in segreto e si giustifica con il suo potere e con le sue mete elevate. In ogni caso emet- te sempre dei giudizi. Questa immagine autoritaria si trova in molti di noi.

Quando non è umanizzata, può portare confusione nella situazione terapeutica e può provocare molte sofferenze; ma il bisogno di guarigione e una certa forma di unione può produrre una soddisfacente uma- nizzazione dell'archetipo. Nella situazione di training, tuttavia, particolarmente se è in discussione una va- lutazione della validità, dell'adeguatezza o della « ma- turità » del candidato, può intromettersi l'aspetto ne- gativo di questo archetipo. Se ciascuna delle due parti insiste nell'avere ragione (questo avviene spesso) è difficile accorgersi che non c'è alcuna possibilità di prendere una risoluzione. Se invece si accetta l'idea del processo reciproco, è possibile prestare atten- zione alle reazioni personali, ai punti di vista, ai so- gni, alle fantasie di tutte le parti, e il « terzo » può emergere dall'inconscio per mostrare la possibilità di unione del personale con l'impersonale.

Oggettivo - Soggettivo. L'emotività presente nel mo- dello archetipico Giobbe-Jahvèh, e le conseguenze di una valutazione ingiusta, hanno portato molti a sostituirla con un punto di vista Oggettivo. Le diffi- coltà sono enormi, specialmente se ci illudiamo di essere veramente « oggettivi », e di aver superato gli affetti e i pregiudizi personali che distorcono il no- stro giudizio. Questo è particolarmente evidente nel- la situazione di training/valutazione e provoca quel distacco e quella violazione che gli junghiani criti- cano nei freudiani, e i pazienti in entrambi. Le diffi- coltà sono particolarmente grandi per il fatto che il Giudice generalmente si considera perfettamente giu- sto e in possesso dell'ultima verità. Nello stesso tem- po, il distacco dall'emotività e dalla soggettività pro- duce un'illusione di oggettività, proprio per il fatto di aver « superato » gli affetti. Eppure ciascun punto di vista riconosce l'inadeguatezza dell'altro, e colui che è giudicato si lecca le ferite come Giobbe. Il prologo in cielo, con l'oscillazione tra i lati luminoso e oscuro dell'autorità, si conclude con la scissione dell'archetipo che vediamo nella situazione umana. Per superare questa scissione dell'archetipo è ne- cessario sacrificare la propria pretesa a un'esclusiva oggettività, esattamente come io credo che sia sag- gio sacrificare la dimensione impersonale. Si può permettere l'esistenza del conflitto tra oggettivo e soggettivo nel proprio sé e sapere che la massima oggettività può prodursi quando i punti di vista di tutte le parti sono connessi, ancora una volta, con il terzo costituito dall'inconscio stesso. Potere e Rivendicazione-Sottomissione. Nella descri- zione di Jung del processo psicologico che si svolge nel divino, attraverso il riconoscimento della propria ingiustizia e dell'inconsapevolezza di « quello che si- gnifica essere umani », avviene un sacrificio del pro- prio potere e una resa alla fragilità della condizione umana. Questa « incarnazione » comporta un avanza- mento della coscienza che può comprendere il divino

e l'umano; in termini psicologici ciò significa un'unio- ne nella coscienza della dimensione archetipica e di quella personale. È possibile che tale processo av- venga continuamente in noi sul piano psicologico, ma nella situazione di training e di valutazione è fin troppo facile che l'archetipo si scinda e l'allievo/can- didato debba sottomettersi al potere e all'autorità del didatta/giudice, lo sostengo, ancora una volta, la pos- sibilità di comporre tale scissione attraverso il suo riconoscimento. Credo che per superare la negatività e la distruttività dell'archetipo scisso in divino/uma- no, giudice/giudicato, valutatore/candidato, noi dob-biamo seguire lo stesso processo che seguiamo per noi stessi e per i nostri pazienti quando, come ana- listi junghiani, ci sottomettiamo all'inconscio stesso e al processo del suo manifestarsi! Ma qui l'inconscio è anche « tra >> e non solo individualmente dentro ciascuno. Mi rendo conto che ci sono anche altri modi di affrontare questo problema (che può essere defi- nito in generale come il problema dell'autorità) e sono queste diverse soluzioni che desidero esaminare ora. Antidoti all'autoritarismo del terapeuta. Il problema dell'autorità nel nostro campo risale alle origini stes- se della psicologia del profondo. Il conflitto tra Jung e Freud a questo proposito è ben documentato sia nell'autobiografia di Jung (8) che nella Psicologia del- l'inconscio (9). Jung sentiva che il conflitto nascon- deva un problema di tipologia, ma nei suoi Ricordi mostra chiaramente che era vera anche l'idea di Freud che si trattasse di una « rivolta contro il padre ». Anche le defezioni di Adler, Rank e Reich possono essere viste come altrettante storie di uno spirito nuovo incapace di rimanere nel vecchio contenitore, o di essere accolto da questo. Jung ha descritto molto bene questo processo e sia von Franz (10) che Hill- man(11) hanno indagato la dimensione archetipica che sta dietro a tale conflitto. GuggenbuhI è stato il primo a descrivere il problema dell'autorità e la lotta per il potere nel contesto spe- cifico del lavoro terapeutico. Per evitare il pericolo che il terapeuta diventi invulnerabile, rigido e sempre più impenetrabile, egli propone la coltivazione del- l'eros nella forma di amicizie esterne alla relazione terapeutica. Secondo GuggenbuhI, amici e colleghi sono l'antidoto per la tendenza all'isolamento e al dominio in un impero personale. Sembrerebbe un con- siglio confortante, ma dubito che questa soluzione possa essere sufficiente. L'amicizia è certamente au- spicabile, ma l'immagine archetipica padre/figlio, o

(8) Ricordi, sogni, rifles-sioni di C. G. Jung, rac-colti e editi da Aniela Jaf-fé, Milano, II Saggiatore,1965. (9) C.G. Jung (1942), Psi-cologia dell'inconscio, To-rino, Boringhieri, 1968.

(10) M.-L. von Franz, TheProblem of the Puer Ae-ternus, New York-Zurich,Spring Publications, 1970. (11) J. Hillman, Senex etpuer, Padova, Marsilio E-ditori, 1973.

separazione/individuazione, sembra più potente del cameratismo, nonostante la presenza di società che incoraggiano quest'ultimo. La mia proposta è stata invece quella di aumentare l'eros nella relazione ana-litica stessa, sottolineando l'apertura e il processo reciproci. Questo tipo di eros sembra aver avuto per me lo stesso significato dell'amicizia per Gunggen- buhi, ma qual è l'esperienza dei nostri colleghi nel confronto con l'autoritarismo? Hillman, nel suo articolo « Psychology: Monotheistic or Polytheistic? » (12), attacca l'autoritarismo della coscienza monoteistica, assimilandola a una forma di teologizzazione in contrasto con la psicologizzazione, e sostiene che una visione policentrica è più in linea con la realtà della psiche e quindi più vera per l'ani- ma. Hillman si rende conto che la sua posizione e-o è di per sé un'espressione del tipo di coscienza che rifiuta, però non accetta una visione più comprensiva. Kathleen Raine risponde alla concezione di Hillman, nei termini del sistema di William Blake, dicendo che il vero nemico è la concentrazione del potere su una sola funzione o un solo « dio ». La mia risposta deriva invece dallo Yoga Kundalini: il « Posto di comando » non è e non deve essere necessariamente l'autorità superiore. Nel sistema Kundalini ogni chakra contiene la sizigia divina formata da un dio e una dea, e rappresenta un certo tipo di coscienza e di energia. Poiché l'ener- gia sale e scende in una circolazione continua che produce illuminazione, nessun chakra è superiore al- l'altro e nessuna manifestazione divina ha una posi- zione egemonica. Anche Ajna, il « terzo occhio », che ha il nome di « Posto di comando », è sottomesso a Sahasrara, il loto superiore alla sommità del capo. Questo chakra connette lo yogin all'esperienza più sublime del divino e alla sua più alta illuminazione. Ma non è I' <<ascesa » in sé la cosa desiderata, poiché lo scopo è la circolazione dell'energia e tutte le im- magini degli dei sono viste come aspetti dell'unica coppia divina unita. Questa immagine multipla del- l'autorità offre un modello per deletteralizzare il no- stro simbolo dell'autorità. Ci si potrebbe chiedere come possa accordarsi un'immagine di molteplici centri con la visione discussa da Jung in Risposta a Giobbe, quella dell'umanizzazione dì Dio e della di- vinizzazione dell'uomo, lo ho tentato questa riconci-liazione nel mio racconto fantastico, The tree: Tales in Psycho-Mythology (13). In esso, dieci persone, cia- scuna rappresentante di una fede diversa - catto- lica, pagana, atea, taoista, indu, gnostica, ebreo-caba-

(12) J. Hillman, « Psycho-logy: Monotheistic or Po-lytheistic? », Spring 1971.

(13) J. Marvin Spiegel-man, The Tree: Tales inPsycho - Mythology, LosAngeles, Phoenix House,1975.

listica, alchimista, zen, musulmana - raccontano le loro storie di individuazione nei termini dei loro miti. Essi si incontrano in Paradiso e sembra chiaro che la loro diversità ha un elemento in comune nel- l'esperienza di « umanizzazione del divino-divinizza- zione dell'umano », il paradigma che Jung ha indagato nella sua opera su Giobbe. Mi sembra che il problema non sia soltanto quello dell'autorità, poiché ogni funzione, ogni tipo di co- scienza, di religione o di « Dio >>, ha la propria sfera di potere. Piuttosto noi siamo di fronte all'usurpazione dell'autorità e al rifiuto di relativizzare le richieste. Neil Micklem, di Londra, ha suggerito la necessità di un de-training come antidoto per la rigidità e la ristrettezza di idee del terapeuta (14). Ha anche pun- tualizzato come lui stesso abbia dovuto in qualche modo rinunciare alla sua formazione medica quando diventò analista presso lo Jung institute di Zurigo. Micklem mi fa notare anche che molti analisti jun- ghiani si sono sottoposti ad altri tipi di analisi, prima o dopo quella junghiana. È ben nota l'esperienza klei- niana di molti analisti di Londra, lo stesso ho fatto un lungo lavoro reichiano (otto anni) e posso testimo- niare che questo de-training può avere effetti molto importanti sulla personalità. Ogni sistema terapeutico ha qualcosa di specifico da offrire, che difficilmente si può trovare in un'altra modalità. Nello stesso modo, ogni sistema ha la sua Ombra: il raggiungimento della meta principale di ciascun sistema implica anche il suo opposto, il fallimento. Sembra cioè che ci sia sempre altro lavoro da fare. In campo junghiano, l'ombra del processo di indivi- duazione (isolamento, rigidità, invulnerabilità) si può affrontare con una modalità eros. Questo eros sì tro- va nel rapporto, forse anche nel lavoro di gruppo. Jung, naturalmente, era assolutamente contrario alla terapia di gruppo, e per motivi piuttosto fondati. Sap- piamo tutti come i gruppi possano usare il potere degli archetipi per distruggere l'individualità e ri- durre la coscienza dei suoi membri al minimo de- nominatore comune. Ma questo è davvero inevitabile? Non possono esistere dei gruppi composti da indivi- dui che tendono alla propria individuazione e sap- piano partecipare a una ricerca comune? Qualcuno potrebbe obiettare che in tutto il mondo ci sono gruppi junghiani convinti di fare proprio que- sto. Non è stato così nella mia esperienza con un gruppo particolare molti anni fa, e le mie occasionali incursioni in ambienti junghiani, sia negli Stati Uniti che altrove, mi fanno pensare che neanche oggi molti di questi gruppi siano sensibilmente diversi dalle normali associazioni professionali, con tutte le loro lotte per il potere e i problemi politici. Una volta F. Riklin disse al Club junghiano di Zurigo: « Questo non è un club, ma un campo di battaglia! ». Però ci sono tutte le possibilità che qualcosa stia accadendo

(14) Comunicazione personale.

o possa accadere lungo le linee di una ricerca co- mune. Che altro possiamo fare, oltre che seguire i sugge- rimenti di GuggenbuhI, Micklem, Hillman e i miei? Credo che si possa tornare ancora all'immagine di Giobbe offertaci da Jung, un'immagine che ha in- staurato la nostra epoca ormai in declino. Forse il passo successivo per il « Giobbe » che è dentro cia- scuno di noi (i « molti » eredi dell' << unico » soffe- rente) è non soltanto riconoscere le falle e le om- bre delle autorità e degli dei, nonché internalizzare le nostre stesse ombre, ma smettere di « coprirsi la bocca » (come fa Giobbe alla fine) e parlare. Mi sembra che noi abbiamo un'eccessiva facilità a sci- volare nell'identificazione inconscia con l'autorità e abbiamo bisogno di farcelo notare reciprocamente. Ma è possibile che nell'atto stesso di indicarlo a qual- cuno, si cada di nuovo nell'identificazione, perpetuan- do così la situazione. Secondo me, l'accento sull'eros, sulla connessione con l'anima dell'altro, è il migliore antidoto contro l'identificazione. Mi rendo conto sem- pre più chiaramente che noi passiamo impercettibil- mente dalla descrizione della nostra posizione perso- nale, o dalla connessione con l'altro, all'affermazione di quella che è « la verità ». II processo reciproco è un modo di affrontare questo problema nel rapporto a due, ma spesso non è adeguato al rapporto di grup- po. Mi piace molto un aneddoto raccontato da Hannah a proposito del periodo di Jung al Burgholzli (15). Jung riunì insieme tre pazienti, che pensavano tutti di essere Gesù Cristo. Ognuno era convinto che gli altri due fossero pazzi, lo credo che il passo succes- sivo, per coloro tra noi che sono portatori di questa immagine di Cristo, ossia che sperimentano una con- nessione interiore con il Sé, sia di riconoscere anche il Sé degli altri, di ascoltare la loro verità comuni- cando la propria. Questo, secondo me, è l'individuo capace di reggere il conflitto derivante dalla coesi- stenza delle dimensioni personale e transpersonale, un individuo che ha la sua autorità interiore ma è aperto nei confronti degli altri, che lavora da solo e nei gruppi, che vive le proprie convinzioni, ma è con- sapevole della relatività della sua esperienza. Che cosa ha a che fare tutto questo con il tema del training? Tutto, io credo. Un analista può insegnare e influenzare soltanto in base al suo vero essere, e non alle sue parole, alla sua Persona e alla sua autorità. Noi insegnarno attraverso quello che siamo. Ci conviene dunque seguire il consiglio di Jung ed essere sempre consapevoli di quello che siamo, senza nasconderci dietro concetti come « transfert » o « pro- iezione » per cercare di proteggere noi stessi e i pa- zienti dalla nostra realtà. Mi rendo conto di essere

(15) B. Hannah, op. cit.

sostenitore di un impegno personale dell'analista e che questo può infastidire qualcuno. Ma costoro ignorino i problemi che ho posto in questa relazione, anche al rischio (come dice Jung) di « compromettere la cura ». lo penso che gli junghiani in particolare siano eredi del problema di Giobbe: come eredi di Jung, siamo eredi di Giobbe. Perciò gli orrori coscienti e inconsci di cui sono vittime i candidati - e coloro che emet- tono i giudizi - non dovrebbero essere lasciati ancora una volta a prologhi celesti e a sequele infernali, a taciti complotti e a opinioni inespresse, il tutto se- guito da dichiarazioni solenni e decisioni unilaterali. Piuttosto io credo che sia necessario esaminare que- sti problemi e cercare di non « compromettere » il training. Sappiamo benissimo che quando sì arriva al training il problema della valutazione può costellare un disa- gio profondo. Per questa ragione spesso l'analista per- sonale non è chiamato a dare un giudizio, ma in que- sto modo non si evita affatto la valutazione in sé. Alla luce di questi problemi, vorrei suggerire che una volta che un candidato è stato accettato a! training, il processo del giudizio non segua più il modello pa- triarcale asimmetrico, lo credo che sia preferibile rendersi conto che c'è un impegno reciproco ad aiu- tare il candidato a determinare il momento in cui è pronto a passare da uno stadio all'altro. Particolar- mente quando c'è qualche dubbio, io suggerirei di applicare il modello del processo reciproco. E questo implica che i partecipanti si comunichino apertamente le loro opinioni e i loro sentimenti, che non sia necessaria alcuna autorità superiore, e che vengano destinati a tali discussioni più di un incontro. In questo processo devono anche essere esaminati i sogni significativi dei candidati e dei giudicanti. L'im- magine è dunque quella in cui unico Giudice diviene il « terzo », il Dio-tra-noi a cui tutti si collegano.

Trad. di LUCIANA BALDACCINI

Omosessualità femminile e società

Hélène Téboul- Wiart, Puteaux Défense

Introduzione

Per più dì due anni ho lavorato in una stazione radio; ospitavamo tutti i giorni una coppia in difficoltà; ho visto realizzarsi davanti ai miei occhi tutto ciò che C. G. Jung diceva delle proiezioni dell'animus e del- l'anima come dominanti della coscienza. Ognuno di questi individui, qualunque fosse il sesso, si aspettava che il partner fosse come lui desiderava (anzi esigeva) consciamente e inconsciamente; da individuo « diverso » l'altro diventava persecutore. M'è sembrato che fosse necessario riflettere sui com- portamenti sessuali in rapporto alla struttura che li sottende. I lavori di Stohler per esempio s'interessano anche all'identità sessuale: il sesso « funzionale » non è il sesso biologico, ma quello che l'inconscio permette di vivere. Da ciò l'ipotesi di un'omosessualità strutturale, laten- te e che il più delle volte si esprime attraverso altre manifestazioni; l'anorgasmia femminile, per esempio, mi sembra direttamente legata a questo genere di questione. In Francia, il termine « omofilia » indica la simpatia immediata che ogni uomo (e ogni donna) prova per qualcuno del proprio sesso: essa deriva molto più dai ruoli culturali assegnati agli uomini e alle donne - ognuno dà alle stesse parole significati diversi secondo il sesso a cui appartiene - che da una omosessualità strutturale; là siamo nella com- plicità dell'esperienza vissuta ed è tutt'altra cosa. Dunque questo lavoro s'interessa all'omosessualità strutturale, quel rifiuto - o la negazione - della differenza nell'altro sul piano della sessualità. Questo, secondo tre registri: - psicosomatico: il terreno del cancro - sociologico: l'estremismo politico

- psicologico: un nuovo matrimonio, omosessuale.

1. Omosessualità

L'essere umano si costruisce in un doppio movimento di differenziazione. L'uno è cosciente, l'altro è incon- scio. Ma in ognuno è essenziale la qualità del padre. - Nella psiche del bambino, il fantasma di onnipo- tenza della madre scaturisce dalla proiezione che lui fa naturalmente su di lei del fantasma della Si- zigia: è il progressivo intervento dell'imago paterna che toglie alla Sizigia l'onnipotenza vissuta in modo più o meno divorante; la misura del maschile del- l'imago materna è l'animus. È la prima funzione paterna. In un secondo tempo il bambino grida e diventa un essere « parlante », in una relazione con l'animus ma- terno in cui la cosa appare magicamente appena lui la reclama; questo cerchio che l'unisce alla « madre » deve spezzarsi davanti all'anima del padre - spesso riparatrice delle nevrosi materne -. Un'anima pas- siva o psicologicamente rigida lascia il bambino chiu- so nella prigione della coazione a ripetere che indica che il legame con la madre persiste, circolare. La spirale non si mette in moto. - Nella coscienza del bambino, la percezione del padre si associa progressivamente alla possibilità di essere diverso dalla madre. Libero di muoversi, e dal bisogno della madre per sopravvivere, il padre è indipendente e in più parla una Legge che la madre ascolta e ripercuote. È sempre più facile constatare come, nella nostra cultura latina, questo processo di differenziazione, se continua in età adulta, sostenuto dalla differenza sessuale e dalla relazione eterosessuale reale, possa passare anche per altri canali, e cioè nelle coppie omosessuali. Si può prevedere che questo sarà sem- pre più frequente; nella società divenuta più permis- siva, gli uomini e le donne disorientati dalla perdita dei ruoli patriarcali e per paura di dover inventare nuovi modelli, tendono a vivere certe esperienze af- fettive all'interno del loro stesso sesso. Ma un buon segnale d'allarme di un'omosessualità strutturale (non di un'omosessualità scelta, dove si vive la differenziazione creatrice su altre vie) sembra sia, nella storia di un individuo, il non essere stato mai capace di superare la barriera dell'incontro con l'altro sesso. Non è mio proposito dare un senso peggiorativo alle coppie omosessuali, ma al contrario far riflettere le coppie biologicamente eterosessuali sul loro vero supporto psicologico. Il criterio di que- sto lavoro è l'accettazione, o la non-accettazione della differenza dell'altro, del suo diritto di essere quello che è, nella sua specificità.

2. Omosessualità femminile

Nella mia esperienza, posso delimitare grosso modo tre tipi di omosessualità femminile: - il primo è l'omosessualità fusionale. La separazione fantasmatica tra la madre e la bam- bina non è avvenuta; da qualche parte la « figlia » è ancora un pezzo del territorio della « madre », on- nipotente e bisessuale; la figlia è sessualmente in- differenziata. Non parleremo di omosessualità ma di identità arcaica; siamo ben oltre la differenziazione sessuale; siamo sul registro della psicosi e della psicosomatica d'organo; - il secondo è quello dell'omosessualità di compe- tizione. La figlia si è identificata con l'immagine materna por- tatrice dei potere; l'anima del padre ha lasciato fare all'animus materno; in età adulta la vita trascorre per la figlia in cicli di dominazione-sottomissione in cui lei rappresenta alternativamente i due ruoli. Ciò può accadere con un uomo o con una donna. La sin- tomatologia ossessiva è sempre presente ed è spesso la ragione che spinge questa donna in terapia; - il terzo è l'omosessualità di trasgressione. La figlia è rimasta fissata al padre, più capace di calore della madre; vivendo nell'ossessione dell'in- cesto, l'inconscio spinge la figlia a tornare verso le donne, a sostituire la « madre » maschile; se il padre partecipa al processo mediante fantasie incestuose, possiamo assistere a una pesante sintomatologia psi- cosomatica, perfino a un'anoressia; altrimenti siamo nel campo delle fobie e delle conversioni.

3. Omosessualità e cancro

Dopo il Congresso internazionale di cancerologia del 1976, i nostri colleghi organicisti ammettono che la perdita delle difese biologiche dell'organismo è il terreno del cancro. In effetti, ogni cellula invecchiata viene distrutta, sostituita da cellule nuove; se questo non avviene, le vecchie cellule possono fissarsi e met- tersi a « delirare >> sotto l'impulso di un ultra-virus. Tutti noi ogni giorno produciamo sistemi di questo tipo che però vengono immediatamente distrutti. Il punto comune degli accessi cancerosi è l'esistenza di un trauma affettivo nei tre o quattro mesi che li precedono: sembra che la perdita delle difese biolo- giche equivalga a un suicidio in un individuo che non solo non può prendere coscienza di questo stato de- pressivo acuto, ma possiede anche un io che non permette le difese deliranti. Ho seguito personalmente, dopo il decorso operato- rio, due casi di cancro al seno e uno di cancro al retto.

- I due primi casi erano di donne di una quarantina d'anni; tutt'e due madri di famiglia, una lavorava, l'al- tra no. Il fattore comune era la loro assoluta dipendenza dall'anima psicologicamente rigida del marito; i figli avevano acquisito lo stesso potere di dettar legge. Queste donne esibivano la loro dedizione come si mostra la corteccia vuota di un albero... In questi due casi, tre mesi prima della diagnosi c'era stato un trauma affettivo considerevole; una aveva perduto la madre, l'altra aveva ammogliato l'amatissimo figlio. - Il terzo caso è quello di una figlia primogenita che la madre aveva sacrificato all'educazione di cin- que fratelli e sorelle: sposata (cito) « con grande stupore » della madre con un chirurgo, si tiene nel- l'ombra, fa l'assistente in sala operatoria - natural- mente senza una vera remunerazione. « Ha » quattro figli, e si dedica a loro. Il marito, di fronte a un ab- bassamento della libido sessuale le chiede di par- tecipare con lui a un gruppo di evoluzione senso- riale, tipo Esalen; dopo due anni di queste tecniche, lei ha un cancro al retto talmente fulmineo che a 42 anni si ritrova con un ano artificiale. Non è nelle in- tenzioni di questo lavoro discutere le indicazioni di quei gruppi a cui si partecipa in coppia, dove viene mobilitata l'aggressività più arcaica senza che trovi vie di simbolizzazione. I due casi di mastosi presentano analogie notevoli: - l'età: fra 35 e 36 anni - il peso: 45 e 48 kg. - lo schema corporeo anorettico (le regole erano normali e una aveva tre figli) - la struttura fobica isterica delle loro madri - l'anima psicologicamente rigida dei padri, al li- mite della paranoia patologica - le fantasie coscienti di acting out omosessuale, ragione della loro entrata in terapia.

4. La chiusura

Qualunque sia il comportamento che è oggetto dello studio di un gruppo, il comportamento della maggio- ranza è quello che definisce la norma; i due estremi sono le fasce della marginalità. Un individuo marginale a volte partecipa alle regole del sistema sociale e a volte se ne differenzia su uno o più punti per un suo bisogno creativo indivi- duale - può essere un comportamento nevrotico, che indica tanto la latenza creativa quanto il cattivo stru- mento espressivo di ciò che nell'ombra aspetta di prendere forma. Le donne omosessuali che si accet- tano sono marginali rispetto alla sessualità della mag- gioranza; ora, a questo punto, la questione della giu- stezza dell'evoluzione individuale è contaminata da una lotta collettiva e politicizzata. La rabbia di aver

dovuto disprezzare le loro madri, il dolore di aver do- vuto « dar prova delle proprie capacità » prima di ac- cedere al mondo del lavoro, le uniscono contro l'uomo vissuto come persecutore. Gli uomini diventano in assoluto i supporti delle proiezioni negative attivate dalla società-madre cattiva. Si costituisce una mi- noranza formata dalle donne omosessuali marginali, questo gruppo rifiuta tutto ciò che non è identico alle sue scelte, comprese le donne eterosessuali - tranne che per la questione dell'aborto, in quell'oc- casione tutte le donne sono scese in piazza. Questo atteggiamento in cui l'oggetto « buono » e l'oggetto «cattivo » sono separati e concretizzati si basa su una situazione di possesso di un fantasma arcaico; credo che possiamo comprendere in questa dimensione la tonalità paranoica delirante di certi loro discorsi; separata dalla matrice dei gruppi, spes- so ogni donna è profondamente depressiva.

5. Omosessualità e matrimonio omosessuale

La questione si riallaccia direttamente alla preceden- te. Il matrimonio è un contratto sociale che grazie ai figli assicura la trasmissione del patrimonio. L'unione religiosa si pone su tutt'altro piano, quello della cop- pia; la coppia è costituita da due individui che si amano e sperano di procedere insieme. Per quanto mi sembri comprensibile che delle donne omosessuali si amino, vivano insieme e - perché no? - desiderino promettersi l'un l'altra davanti a un religioso, tanto parlare di matrimonio e rivendi- care il diritto all'adozione mi pare negare il fatto naturale della differenza sessuale. La specie umana, la parentalità umana, funziona così ed è in questa situazione che il bambino acquisisce la sua identità sessuale. Una società omosessuale diventa unises- suale, cioè indifferenziata. Riguardo tutto ciò le posizioni delle donne variano. - II primo caso è sorprendente. Due donne sposate, madri, divorziano per vivere insieme; hanno la cu- stodia dei figli. I padri lasciano fare. Credendo di far bene, per non provocare gelosie, tutta la comunità ogni giorno si sposta da un appartamento all'altro per una notte; compresi animali domestici e giocat- toli preferiti. I bambini le chiamano « i genitori ». Una mattina, la più anziana tenta il suicidio e for- tunatamente sopravvive: la storia viene scoperta così. - Il secondo caso si fa sempre più frequente a mano a mano che la società diventa permissiva. Due donne, vedove o divorziate, decidono di sfuggire all'avarizia del cuore mettendo in comune la loro esperienza; al- l'inizio si tratta di simpatia, di amicizia. Poi gradual- mente - che vi siano o no rapporti sessuali: credo che in questo caso l'accesso al reale sia più sem- plice - i «corpi uguali» sembrano riattivare i cir-

cuiti dell'antica relazione con l'imago materna, che diventa attuale. Appaiono la dipendenza e la soffe- renza. In genere queste donne vengono a consultarci per una sintomatologia ossessiva. - Il terzo caso è uno di quelli in cui le ferite sem- brano irreparabili. Due donne che non hanno mai po- tuto passare la barriera della differenza sessuale si incontrano. Sono letteralmente «sposate» con l'ani- mus materno. A volte aspettano l'una dall'altra la ri- parazione dei danni operati dal fantasma onnipotente dell'immagine, a volte sperano che finalmente abbia inizio la differenziazione. L'attesa diviene avidità, esi- genza; l'universo si limita a questo solo desiderio. Ho conosciuto un caso in cui la più intransigente ha gradualmente sviluppato un delirio di persecuzione alimentato dalle reticenze e dalle atterrite menzogne dell'altra; sentivo un uroboros rotto in due pezzi, il « buono » e il « cattivo », che si davano il cambio nella rabbia e nella consapevolezza. Conclusione

Sappiamo che certi soggetti sono incapaci di ela- borare l'avidità e l'aggressività delle loro pulsioni; è il caso degli psicopatici oppure di un impulso sui- cida legato all'effrazione del fantasma da parte del reale. Sembra che la specie umana trovi un senso grazie alla relazione sessuale che i rispettivi fantasmi han- no preparato; se si mantiene il nome di fantasma allo scenario dell'immaginario, in questo caso il corpo sa- rebbe capace di una funzione simbolica diretta che non deve niente ai fantasmi originari. I nostri colleghi freudiani dissertano sul pene; ciò che ci interessa qui è il pene in erezione. Perché quest'ultimo a volte fa parte dell'io del soggetto, parte del suo corpo e momento della sua storia; e a volte, non appena s'inizia la relazione sessuale, esso partecipa dell’ «altrove». Più precisamente i corpi uniti rendono attuale l'Androgino mitico, se sono di sesso diverso; e il tempo orgastico, mettendo l'io tra parentesi, abbattendo il fantasma, lascia il posto alla psiche obiettiva. Facciamo l'ipotesi che l'archetipo della Sizigia elevi a simbolo il segno dei corpi riuniti grazie alla rela- zione dei diversi. La domanda che pongo è duplice: - se ammettiamo che il sesso funzionale è quello che permette la maturazione della libido da cui l'ac- cettazione della differenza, non possiamo interessarci un po' all'omosessualità strutturale delle coppie ete- rosessuali?

- se ammettiamo che la relazione sessuale ha un senso nell'ambito dell'eterosessualità come momento di incarnazione della Sizigia, non possiamo allora ca- pire perché una coppia omosessuale funziona in ge- nerale esaurendo più rapidamente il suo dinamismo interno, la sua creatività? In ogni caso, noi proponiamo che le organizzazioni psicologiche che favoriscono l'apparizione di lesioni maligne sono quelle di donne che vivono in etero- sessualità un'identità arcaica con l'immagine materna. Infine, certe donne la cui immagine materna è par- ticolarmente mortifera, rischiano realmente la vita nel desiderio delirante di una rinascita. Permettetemi un riassunto: il rifiuto della differenza dell'altro è mortale; morte fisica, morte psichica - la follia -, morte dell'evoluzione dell'essere. Non è possibile alcuna evoluzione se non si corre il ri- schio del confronto con la differenza.

Trad. di PAOLA FRANCO MAGLIANO

Festa, comunione e reciprocità

William Willeford, Seattle

Le parole « comunione », « comunità » e « comunica- zione » hanno delle interrelazioni che ci rivelano qual- cosa di importante sulla natura e lo scopo delle feste e delle celebrazioni. La comunione è infatti una ce- lebrazione della comunità — ossia dell'appartenenza a un gruppo sociale all'interno del quale i membri co- municano per mezzo di immagini, parole e concetti condivisi da tutti. Ma « comunione >> può anche in- dicare una modalità di interazione emotiva che è in ampia misura preverbale o subverbale: anche questa è una forma di comunicazione. La caratteristica prin- cipale di questo secondo tipo di comunione — e di comunicazione — è la reciprocità, la quale costitui- sce a sua volta un presupposto e nello stesso tempo un prodotto di quel dare ed avere che è tipico della festa. Alcune interessanti osservazioni di D. W. Winnicott sul rapporto madre-bambino riguardano direttamente e in modo significativo questa comunione emotiva e preverbale. Ci sono dei momenti in cui i] bambino piccolo ac- quista la chiara consapevolezza di un senso di sicurezza interiore. Tali momenti, secondo Winnicott << non hanno acme ». « Ciò - egli osserva - li distingue dai fenomeni che sono sostenuti dagli istinti, in cui l'elemento di orgasmo ha una parte essenziale e in cui le soddisfazioni sono strettamente legate con l'acme » (1). Egli osserva anche come gli psicoanalisti abbiano trascurato «la straordinaria intensità di que- ste esperienze senza acme » (2). Guntrip ricorda in un suo libro (3) come Winnicott abbia negato decisa- mente che « le esperienze più intense appartengono a eventi istintuali e orgiastici », poiché una tale vi- sione << non tiene conto della funzione di organizza- zione dell'Io. Solo se c'è qualcuno che permette di

(1) D.W. Winnicott (1967),« La sede dell'esperienzaculturale », in Gioco erealtà, Roma, A. ArmandoEditore, 1976, p. 169 (2) Ibidem, p. 170

(3) H. Guntrip, PsychoanalyticTheory, Therapy, and the Self,New York, Basic Books, 1971, p.122.

integrare l'esperienza personale in un tutto che possa diventare un sé, la soddisfazione istintuale non as- sume un carattere disgregante, acquista cioè un signi- ficato che va oltre quello connesso alla sua localizza- zione fisiologica ». In altre parole, l'organizzazione dell'Io e il senso di identità si strutturano soprattutto attraverso esperienze di reciprocità, nettamente indi- pendenti dal bisogno fisiologico. La festa non soltanto conferma la reciprocità, ma può anche elevarla al livello di un valore fondamentale. S. Agostino, ad esempio, espresse la sua visione della comunione perpetua con Dio affermando che nella Casa del Signore è un'eterna festa (4). La festa conferma la reciprocità nel suo modo particolare di soddisfare l'appetito. Nelle riflessioni che seguono prenderò in considerazione i principi diversi, ma com- plementari e interrelati, del comportamento appeti- tivo e delle esperienze di reciprocità. Desidero ora precisare come è nato in me l'interesse per gli argomenti che tratterò in questa relazione. Nel corso degli anni, il tema della reciprocità ha assunto una posizione centrale nelle mie riflessioni su que- stioni psicologiche, e attualmente sto lavorando a un libro che ha come sottotitolo On the Psychology of Mutuality and the Self (Psicologia della reciprocità e del Sé). Ho posto la << reciprocità » prima del « Sé », poiché il Sé e l'individuazione mi sono del tutto in- comprensibili senza reciprocità. La nostra vita è ampiamente governata da ciò che per il momento chiamerò valutazione emotiva, cioè da quei processi psichici che riflettono la nostra auto- stima, la fiducia e la speranza - o anche la loro mancanza - i nostri amori e i nostri odi, le nostre reazioni spontanee e i nostri atteggiamenti più con- solidati. Per dare coerenza significativa a questi pro- cessi, è indispensabile un'esperienza di reciprocità. Tenendo presente la distinzione tra comportamento appetitivo e reciprocità, desidero illustrare breve- mente, con l'aiuto di tre esempi, queste affermazioni, e anticipare così i problemi che intendo discutere. Un giovane mi descrive le sue episodiche e frequenti esperienze sessuali. A livello appetitivo esse sono abbastanza soddisfacenti, ma ciò che non Io soddisfa è proprio la semplice soddisfazione dell'appetito. Tali esperienze non riescono a diminuire il suo isolamen- to, e nemmeno ad accrescere la sua dimensione rela- zionale e la sua consapevolezza dei propri sentimenti. II nostro giovane ha dunque un gran numero di rap- porti sessuali, ma si lamenta proprio di un'abbondanza priva di qualunque significato. Un uomo e una donna - rispettivamente sposati con altri - si incontrano e vedono l'uno nell'altro le qua- lità migliori di cui sono dotati - senza prendere in considerazione le ' mancanze ' che sicuramente hanno come tutti gli altri. Essere visto nei propri aspetti mi-

(4) S. Agostino, << Enarrationesin Psalmos 41.9.>>, Migne,Patrologia Latina, 36, p.470.

gliori è un'esperienza di abbondanza, così come ve- dere il meglio nell'altro. A differenza del giovane descritto prima, quest'uomo e questa donna sanno che la loro abbondanza riguarda qualcosa di estre- mamente positivo e di unico, che appartiene a un ordine diverso rispetto alla sessualità come appetito. Senza aver avuto rapporti sessuali tra loro, essi - in modo non molto diplomatico - hanno interrotto ogni rapporto con i rispettivi coniugi. E questo dimostra che i due ordini di esperienze alla fine si incontrano, anche se in modo misterioso. Una giovane donna, che ha avuto occasione di fre- quentarli, osserva: « Voi avete un segreto; avven- gono tante cose tra di voi, anche quando state tran- quillamente seduti ». Lei ha compreso che essi non soltanto vedono reciprocamente i loro aspetti migliori, ma che in qualche modo li fanno anche emer- gere e li confermano. Ma la giovane non intende dire che quanto avviene tra i due sia soltanto un loro segreto, ma piuttosto un segreto che appartiene in generale all'esistenza umana e alle possibilità che forse offre anche a lei. La ragazza, l'uomo e la donna sono dunque consapevoli che ciò che hanno sco- perto fa parte dì una dimensione più ampia del loro mondo privato. Relazioni come questa, in cui prevale il senso di ab- bondanza, sono rare quanto sono comuni le espe- rienze come quella del giovane. I termini « proiezio- ne » e « idealizzazione » sono assolutamente ìnade- guati per descriverle. La giovane donna ha perfetta- mente ragione di sentire che l'ordine di realtà che ha potuto intravedere grazie ai suoi amici ci riguarda tutti, se solo siamo qualcosa di più che frammenti di noi stessi. Tenendo in mente la distinzione e le interrelazioni tra comportamento appetitivo e reciprocità, desidero ora affrontare tre temi: primo, la festa e l'uomo naturale; secondo, la festa e l'identità personale; terzo, la festa e il simbolo. Inizierò con alcune osservazioni sul modo in cui Shakespeare ha trattato questi temi, e concluderò con un quarto paragrafo su Festa, co- munione e reciprocità ne ' La Tempesta '.

I. La festa e l'uomo naturale

Molto spesso nei drammi di Shakespeare compaiono scene di matrimonio, banchetti, parate, oppure feste come il martedì grasso, la notte di mezza estate e i dodici giorni di Natale fino alla Dodicesima notte. Come osserva il critico letterario C. L. Barber, l'uso

che Shakespeare fa di tali elementi scatena un'on- data di « vitalità che normalmente viene tenuta a freno e a distanza » e ciò produce - sia nei prota- gonisti che nel pubblico - una percezione più chiara. Barber la descrive come « un'accresciuta consapevo- lezza del rapporto tra uomo e ' natura ' - poiché la natura viene celebrata nei giorni di festa... Le rap- presentazioni teatrali offrono un'immagine burlesca di ciò che è innaturale... [e nello stesso tempo] di ciò che è semplicemente naturale-.. » (5). La reciprocità, nel mio modo di intenderla, non deriva affatto dalla compensazione di un deficit; piuttosto, essa comporta fin dall'inizio un senso di abbondanza, e assomiglia solo scarsamente, ad esempio, al fatto di assicurarsi che nel proprio conto c'è abbastanza denaro per coprire tutti gli assegni emessi. È in- vece molto più simile a investire del denaro in azioni per ricavarne un certo reddito, e poi scoprire con sor- presa che tale reddito è anche più alto di quello che ci si aspettava. Queste riflessioni riguardano da vicino il tema della festa, in quanto anche questa offre ai partecipanti qualcosa di più del necessario: la festa è di per sé una celebrazione dell'abbondanza. Ma qual è, in sen- so psicologico, la fonte primaria e la natura dell'ab- bondanza che viene vissuta durante la festa? In che modo la festa ci fa sentire più pienamente vivi? La risposta di Barber, come abbiamo visto, è che l'energia psichica, precedentemente « tenuta a freno e a distanza », attraverso la festa viene investita in un rinnovato apprezzamento della natura e di quella parte di noi stessi che S. Paolo chiamava « l'uomo naturale » (1 Cor. 2,14). E, in verità, anche se le parole che indicano lo « spirito » - come il termine tedesco Geist - derivano da radici verbali che sug- geriscono un'attività spontanea e spumeggiante (6), ci sono anche forme di « spirito » calme e indifferen- ti. Si potrebbe pensare, ad esempio, all'asceta me- dievale i cui esercizi spirituali producevano una ca- ratteristica « austerità spirituale ». Riflettendo sulla personalità di un burocrate rigido e ossessivo, po- tremmo fare dello « spirito » descrivendolo come un individuo troppo spirituale ma spiritualmente contrat- to e inerte. Quando il sale dello spirito perde in que- sto modo il suo sapore, l'uomo naturale può fornire le energie necessario per un cambiamento dell'atteg- giamento. Tuttavia, non è giusto fare, come Barber, una di- stinzione troppo netta tra natura e soddisfazione im- mediata del desiderio, da una parte, e spirito – o cultura - inteso come la forza che impedisce la sod- disfazione, dall'altra. Di fatto, una delle funzioni della festa è proprio quella di attenuare la distinzione tra natura e spirito, così che la natura diventi natura- secondo-spirito, e lo spirito diventi spirito-secondo- natura. Questo avviene perché la festa trasforma la

(5) C. L. Barber, Shakespeare’sFestive Comedy, Princeton,Princeton University Press,1959, pp. 5, 7-8.

(6) C.G. Jung (1946/1948),<<Fenomenologia dello spiritonella fiaba>> in Gli archetipi el’inconscio collettivo, Torino,Boringhieri, 1980, p. 203.

soddisfazione del desiderio in un processo conosci- tivo. Ciò che viene compreso è spirituale in senso lato: la festa è un'occasione in cui si celebra qual- cosa che si considera più ampio e più significativo della propria vita individuale, qualcosa che è gene- ralmente in connessione con la divinità. Come sappiamo dalle malattie psicosomatiche, esiste un « pensare del corpo ». Il comportamento durante le feste ha sempre delle regole molto precise, e la soddisfazione dell'appetito nella festa è un compli- cato processo di comunicazione: la buona qualità del cibo, ad esempio, dice all'invitato che il suo anfi- trione è generoso e che ha considerazione per lui; la raffinatezza gli dice che è considerato una per- sona di gusto; il carattere tradizionale lo informa che egli ha legami con gli antenati e gli dei. La festa comprende sempre elementi transpersonali, come la composizione del gruppo e l'occasione della celebra- zione. Ad esempio, una festa alla presenza del Re è diversa da un'altra cui questi non partecipi; la gioia di Pasqua è diversa dall'allegria sfrenata del Carne- vale. Le feste di Caterina dei Medici e di altri go- vernanti del XVII secolo erano vere opere d'arte, son- tuose ed elaborate (7). Tuttavia, anche se regole, strut- tura e inibizione sono elementi necessari per la festa nel suo senso più ampio, l'esperienza che offre è sempre di abbondanza. Più specificamente, è un'espe- rienza dell'abbondanza come qualità della reciprocità.

II. La festa e l'identità personale Prima di affrontare questo argomento, desidero ri- cordare che uno degli scopi della festa, in molti luo- ghi e tempi, è stato quello di fare impressione sugli ospiti e di accrescere il prestigio dell'anfitrione, allo scopo di assicurarsi più facilmente il dominio su di loro. Proprio per sottolineare questo scopo, un re- cente libro sulle cerimonie potlatch tra gli Indiani Americani della costa Nordoccidentale del Pacifico, è intitolato Feasting with Mine Enemy (A pranzo con il mio nemico) (8). Il mio interesse, però, va a un tipo di reciprocità più positiva e al suo rapporto con l'identità personale. C.G. Jung ha anticipato di alcuni decenni gli autori psicoanalitici che si occupano attualmente della di- stinzione tra lo e Sé. Il concetto junghiano di Sé, con i suoi molteplici aspetti e il suo carattere parados- sale, ha un dinamismo che raramente i concetti psico- analitici riescono a raggiungere. I! Sé, come egli lo intende, è spesso simbolizzato da contenuti religiosi

(7) F. Yates, The ValoisTapestries, London, War-burg Institute, Universityof London, pp. 51-108.

(8) A. Rosman, P. G. Ru-bel, Feasting with MineEnemy, New York, Colum-bia University Press, 1979.

di vario tipo, che Jung ha studiato negli scritti più maturi. Ma il concetto di Sé è già prefigurato in una delle sue prime opere, Psicologia della dementia praecox, che io userò come punto di partenza per il mio discorso sull'identità personale. In questo saggio, Jung punta l'attenzione su « un di- sturbo psicologico centrale, un disturbo che si innesta là dove è la fonte vitale di tutte le funzioni mentali, dunque del riconoscere, del sentimento e del desi- derio » (9). Seguendo Wilhelm Wundt, chiama questo disturbo « deterioramento appercettivo >>, intendendo con appercezione « il singoio processo attraverso cui un qualunque contenuto psichico viene portato a chiara comprensione ». Riflettendo sul complesso termine di « appercezione », Jung sottolinea che essa è « volontà, sentimento, affetto, suggestione, feno- meno ossessivo ecc., perché tutti questi sono pro- cessi che portano un " contenuto psichico a chiara percezione " >> (10). Implicitamente qui Jung parla del Sé e di ciò che più tardi Maurice Merleau-Ponty avreb- be chiamato « soggetto corporeo ». Ed è come sog- getti corporei che partecipiamo alla festa. La disintegrazione schizofrenica deriva da ciò che John Weir Perry ha definito « danno centrale », un danno a quel nucleo vitale della personalità che ha delle capacità di integrazione e disintegrazione, pas- sando dal più semplice comportamento appetitivo alle più raffinate complessità del linguaggio, dell'arte e del simbolismo religioso (11). A livello fisiologico ci sono dei bisogni vitali - il bisogno d'aria, per esempio, di acqua e di una certa gamma di temperatura. Ma « vitale >> è anche un termine di valore, e certe cose possono essere di " importanza vitale " sia in senso letterale che in senso traslato. I bisogni vitali fisiologici sono infine inseparabili da un bisogno vitale di autostima, che viene acquisita e offerta grazie a esperienze di re- ciprocità. La reciprocità è dunque di importanza vi- tale - in senso traslato, ma anche letteralmente - in quanto la frustrazione di tale necessità può produrre un danno centrale che si manifesta nei modi più di- versi a livello corporeo e a livello psichico. Eppure, anche negli individui così danneggiati non mancano tentativi - che sono espressione del nucleo vitale - di ricostituzione della personalità. Perciò Jung con- sidera il senso di indegnità di una sua paziente in parte come " la normale correzione delle [sue] grot- tesche idee di grandezza " (12) - ma queste ultime molto spesso rappresentano tentativi di compensare una mancanza di autostima. Un'assenza di reciprocità

(9) C.G. Jung (1907),« Psicologia della demen-tia praecox », in Psicoge-nesi delle malattie men-tali, Torino, Boringhieri,1971, p. 21.

(10) Ibidem.

(11) J.W. Perry, «AcuteCatatonic Schizophrenia »,Journal of Analytical Psy-chology, 2, 1957, pp. 137-152

(12) C.G. Jung (1907), op.cit., p. 156.

ha sicuramente contribuito alla psicopatologia di que- sta paziente; per raggiungere una partecipazione più vera alla vita sociale sarebbe necessario un aumento di autentica autostima - insieme all'abbandono del- la sua grandiosità. Ma possiamo anche dire che la sua patologia esprimeva, almeno in parte, un tenta- tivo fallito di autoguarigione. Tali tentativi devono essere visti come espressione della volontà di vivere. Ho parlato dell'autostima in rapporto alla volontà di vivere a questo livello fondamentale, poiché il Sé, come nucleo vitale della persona, ha un aspetto valu- tativo che non è mai stato sufficientemente sotto- lineato - e mai abbastanza evidenziato - sebbene Jung avesse in mente proprio questo quando consi- derava il sentimento e l'affettività come qualità es- senziali del nucleo vitale. Si può riassumere in que- sto modo l'aspetto valutativo del nucleo vitale: nel- l'individuo esiste un Sé, relativamente distinto dall'lo e ad esso sopraordinato, che sa ciò che è bene per lui. Questo bene deve essere trovato nel mondo, ma il presupposto della ricerca è la conoscenza di ciò che si deve cercare. S. Agostino esprime lo stesso concetto in termini religiosi, quando ringrazia Dio per avergli dato da bambino le cure necessarie al suo benessere (13). Due pazienti di Jung hanno espresso la ricerca del loro benessere nella forma di « allu- cinazioni teleologiche »: uno cercò di togliersi la vita saltando dalla finestra, ma fu respinto indietro nella stanza da un tortissimo chiarore; l'altro cercava di suicidarsi inalando gas, ma " improvvisamente sentì come se una pesante mano lo afferrasse al petto e lo gettasse a terra » (14). Dicendo che l'autostima viene acquisita e offerta grazie a esperienze di reciprocità, intendevo dare Io stesso rilievo sia alla ricerca e alla conquista del bambino sia all'offerta da parte della madre. Vorrei ora elaborare ulteriormente la mia definizione del- l'aspetto valutativo del nucleo vitale: sapere che cosa è bene per se stessi è anche conoscere se stessi come qualcosa di buono. Questa conoscenza può essere ampliata, attenuata, inibita o anche completamente distrutta nell'intera- zione con gli altri, ma non è semplicemente data dagli altri. L'espressione " madre sufficientemente buona » implica che nessuna madre è perfetta - anzi è impor- tante che nessuna madre Io sia - e che il bambino dispone di risorse proprie per trovare ciò di cui ha bisogno in un ambiente necessariamente imperfetto. Come comprese Jung, la compensazione è uno dei principi fondamentali della vita psichica - agisce, per esempio, quando un sogno diurno concede una tregua dai rigori del pensare indirizzato, oppure quan- do un sogno corregge la percezione conscia di una situazione, o quando deliri di grandezza bilanciano

(13) Agostino, Le confes-sioni, Torino, Einaudi,1966, p. 22.

(14) C.G. Jung (1907), op.cit, p. 155.

un'autostima danneggiata. L'attività compensatoria esprime l'aspetto valutativo del nucleo vitale, cioè del Sé che sa ciò che è bene per l'individuo. La compen- sazione comprende processi e contenuti dei tipi più diversi, ma la sua natura è essenzialmente valutativa ed emotiva. I valori culturali entrano a far parte della personalità nel corso dello sviluppo attraverso il meccanismo dell'introiezione. Tra questi valori hanno un'importan- za particolare quelli vietati da un'ingiunzione come « Non devi... ». Ma prima che il bambino possa re- cepire questi << Non devi » culturali, la sua valuta- zione si attua sulla base del Sé che sa che cosa è bene per lui. Perciò il bambino può cadere in uno stato di depressione nel momento in cui è costretto a rifiutare una madre che egli sente non sufficiente- mente buona. II significato positivo di tale depres- sione sta nel tentativo di difendere il nucleo vitale del bambino, anche se in ultima analisi si tratta di un tentativo suicida. Dovrebbe essere chiaro che la visione del Sé che sto presentando è molto diversa da que!!a proposta da Edward P. Edinger nel suo libro Ego and Arche- type(15). I termini fondamentali con cui Edinger de- scrive la relazione tra l'Io e il Sé sono « inflazione » e « alienazione », ed esprimono entrambi condizioni di- sastrose che non possono suscitare altro che paura e inquietudine. Edinger sostiene che l'oscillazione tra questi due stati può essere sostituita da qualcosa come un processo dialettico tra l'Io e il Sé (16). In effetti il Sé che « sa ciò che è bene per l'individuo » può manifestarsi anche in forme terribili, come nel caso dei pazienti di Jung, ma in modo più caratteristi- co il Sé ci dice che quando è necessario e auspicabile per il nostro autentico benessere è disponibile, ac- cessibile e forse anche già presente. E a tale cono- scenza non rispondiamo con inquietudine o paura, ma con una gioia serena. Come ho affermato nel paragrafo precedente, la reci- procità è un'esperienza di abbondanza. Più specifica- mente, è un'esperienza di abbondanza del buono; e la festa è una presa di contatto con questo buono. Ci sono, naturalmente, feste che commemorano le tristi ombre della morte, e feste di lutto- Ma anche il ban- chetto funebre convoglia un messaggio positivo. « An- che colpiti da questa perdita noi siamo e dobbiamo rimanere partecipi della vita e aperti alla sua bontà ». Un filosofo ha visto la natura essenziale della festa proprio nell'affermazione che tutto è bene (17), In quest'affermazione è all'opera il Sé che sa ciò che è bene per l'individuo.

(15) E. F. Edinger, Ego andArcbetype, Baltimore, Pen-guin, 1973.

(16) Ibidem, p. 103.

(17) J. Pieper, << Ueber dasPhanomen des Festes>>,Arbeitsgemeinschalft furForsehung des LandesNordrhein-Westfalen, Heft 113,1963, p.12.

III. La festa e il simbolo

Il potere della festa deriva in gran parte dal suo ap- pellarsi ai livelli non verbali de! nostro essere. Non- dimeno, come abbiamo visto, la festa ha un contenuto simbolico - ad esempio, nell'occasione per cui viene celebrata o nel « potere superiore » che viene invo- cato. Perciò esiste una relazione tra la natura della festa e quei tipi di simboli << sovradeterminati », com- plessi, polivalenti che interessano particolarmente gli psicologi del profondo, in special modo quelli che si pongono nella tradizione di Jung. Mi riferisco a quei simboli che non soltanto danno l'impressione di affermare e condensare qualcosa in modo illumi- nante, ma che offrono anche un'immagine momen- tanea di qualcosa di ignoto, che probabilmente scom- parirà di nuovo nella sua oscurità. E' un errore trac- ciare una distinzione troppo netta tra tali simboli e i « segni », più prosaici, che usiamo per le nostre at- tività pratiche nel mondo. Tuttavia, una certa distin- zione ha ragione di esistere, e rifletterà i diversi at- teggiamenti relativi ai nostri scopi e alla natura delle nostre azioni. La nostra caratteristica peculiare è il linguaggio, che, attraverso la metafora, estende il noto nell'ignoto e rende noto l'ignoto, dandoci così il dominio del mondo. Ma il dominio utilitaristico non è la sola forma di rapporto con il mondo; anzi, questa è spesso sol- tanto un'illusione autodistruttiva. Ce ne rendiamo conto se mettiamo a confronto questa forma di rap- porto col mondo con quella che ritroviamo presso altri popoli, dove si considera l'intera esistenza ba- sata su un'intima connessione tra esseri umani, ani- mali, elementi naturali e spiriti di vario tipo. L'atteg- giamento di dominio utilitaristico del mondo distrugge proprio il senso di reciprocità che ho descritto prima- Ma quelle concezioni che esprimono la profonda rela- zione dell'uomo con gli elementi del suo mondo, dimostrano che la mente ha la capacità di creare sim- boli che favoriscono il senso di reciprocità. La loro natura e funzione - e il processo della loro crea- zione - sono stati descritti con estrema chiarezza dal filosofo Mikel Dufrenne. Possiamo cominciare - propone Dufrenne - conside- rando la percezione di un oggetto ordinario, il quale - anche quando è individuato dalla percezione - ri- mane parte di un più ampio mondo di oggetti, da cui non può essere completamente separato. Quindi, in un certo senso, si può dire che l'oggetto percepito si estende oltre se stesso nel mondo contro cui si

staglia, oppure che esso emerge da quello sfondo che costituisce la garanzia della sua forma e della sua realtà. « È per mezzo del mondo che l'oggetto è reale », os- serva Dufrenne, « non soltanto perché il suo profilo si staglia contro di esso, ma anche perché è sostenuto da quell'insondabile serbatoio di esseri » (18). Generalmente la coscienza dell'Io, con la sua modalità analitica e discriminante - che riflette l'atteggia- mento utilitaristico di dominio sul mondo - ci porta a sperimentare noi stessi come soggetti incapsulati e a vedere gli oggetti isolati dal loro contesto vi- vente, che è invece parte della loro realtà e del loro significato. Il simbolismo poetico e mitico serve a compensare questo atteggiamento unilaterale. Du- frenne osserva che « le religioni più antiche ci spin- gono a percepire il mondo (come se fosse una tota- lità spaziale incompleta e forse al fine di offrire una compensazione per ciò che manca alla totalità) come un potere elementare - la Madre Terra, il suolo - una forza fondamentale di cui il mito è la spiega- zione " (19). In una visione di questo tipo, l'evento o la singola cosa vengono colti in relazione al mondo, in virtù della comune partecipazione a questa forza fondamentale. La festa è uno dei modi più antichi e diffusi per riattivare questo senso di partecipa- zione, poiché l'abbondanza festiva corrisponde, al li- vello di appetito, a ciò che potremmo chiamare la << pienezza » del simbolo mitico - la « forza fonda- mentale » descritta da Dufrenne - così la festa diviene il medium attraverso il quale tale simbolo viene percepito tramite il « pensare del corpo ". La risposta più adeguata a questa abbondanza - come alla grandezza della divinità o di un'altra << forza fondamentale » invocata nell'occasione festiva - è la gratitudine. Perciò, uno degli scopi principali delle feste è quello di rendere grazie. E, tornando dalla festa alle osservazioni di Winnicott sulla reciprocità non orgiastica tra madre e bambino, penso che non sia affatto una forzatura ritenere che tali esperienze siano caratterizzate da un senso di gratitudine: per il fatto di essere diversi l'uno dall'altro e perché tale alterità in fondo è ignota. Melanie Klein ha affer- mato in modo convincente che la gratitudine è un'esperienza formativa molto importante per il bambino (20). Le congetture sull'unità psichica indiffe renziata tra madre e bambino devono essere senz’ altro relativizzate dalla riflessione che madre e bambino possono veramente provare questa reciproca gratitudine. Ho così inteso la festa come un veicolo del simboli-

(18) M. Dufrenne, ThePhenomenology of Ae-sthetic Experience, Evan-ston, Northwestern Uni-versity Press, 1973, p. 150.

(19) Ibidem.

(20) M. Klein (1957), Invidia egratitudine, Firenze, Martinelli,1969.

smo mitico. Ma, come suggerisce S. Agostino, che considera la Casa del Signore un luogo di eterna fe- sta, questa può diventare in se stessa tale simbolo. Desidero elaborare questo punto facendo alcune os- servazioni conclusive su La Tempesta di Shakespea- re.

IV. Festa, comunione e reciprocità ne ' La Tempesta '

In questo dramma. Prospero, duca di Milano in esilio, vive in un'isola incantata con la figlia Mirando. Un naufragio fa giungere sull'isola il fratello malvagio, insieme con il Re di Napoli (complice del fratello nel tradimento), Ferdinando (il nobile figlio del Rè di Napoli, che il Re crede annegato) e vari altri. Mi- randa e Ferdinando si innamorano e Prospero bene- dice la loro intenzione di unirsi in matrimonio. Verso la fine del dramma. Prospero organizza tre celebrazioni che sono in relazione con i temi che stiamo trattando. La prima è un banchetto magico preparato per tre dei naufraghi « peccatori », che si tendono verso il cibo, ma soltanto per vederselo sparire davanti. In questa breve azione il cibo (materiale per la soddisfazione dell'appetito) è separato dalla reciprocità e dal si- gnificato più ampio della festa. La sparizione del cibo è un giudizio su coloro che hanno soltanto l'intenzione di mangiarlo. La seconda è uno spettacolo di canti e danze, che ri vela a Miranda e Ferdinando le dee Iris, Giunone e Cerere [Giunone e Cerere sono patrone della fedeltà e della fecondità che dovrebbero regnare nell'immi- nente matrimonio; Iris è l'intermediaria tra il mondo divino e quello umano]. Tale invocazione di << potenze superiori » è un ingrediente consueto della festa, che ci porta in comunione con esse. Ma anche questa se- conda celebrazione è interrotta bruscamente, come se la festa di nozze dovesse aver luogo entro una comunità più ampia e più adatta per quella circo- stanza. E poiché i personaggi cattivi non si sono anco- ra pentiti, tale comunità non è stata ancora raggiunta. La terza immagine è notevole per la sua brevità e la sua incisività. È giunto il momento per Prospero di rivelare al fratello malvagio e al Re di Napoli che Ferdinando è vivo e sposerà Miranda. Prospero lo fa tirando una cortina e mostrando i due innamorati che giocano a scacchi. Si ode Miranda che dice: « Mio dolce Signore, voi barate »; e Ferdinando risponde: « No, amor mio, non barerei per il mondo intiero ». Mi- randa allora protesta: « Ma anche se voi doveste ar- rabattarvi per la posta di venti regni, io lo chiamerei

giuoco onesto » (21). Il gioco degli scacchi richiede l'intelletto analitico discriminante per lo scopo finale di vincere. Esso quindi riflette un mondo in cui si combattono guerre, si esiliano duchi e si usurpano ducati. Ma il gioco, che con le sue regole elaborate garantisce la reci- procità, viene fatto qui da due innamorati, per i quali il loro amore è il valore più alto della vita. E se le mosse degli scacchi sono astratte e << spirituali », l'amore - e la reciprocità - di cui il gioco degli scacchi diviene qui espressione, è corporeo ed ero- tico. Come abbiamo visto, la reciprocità non deriva dalla necessità di compensare un deficit- Perciò, se Ferdi- nando desidera « arrabattarsi », Miranda lo chiamerà « giuoco onesto », dato che il tipo di deficit rappre- sentato dal perdere una partita non la riguarda. Ciò che invece la interessa è un senso di abbondanza che esalterebbe la sfera del gioco con una « posta di venti regni », che ella ben volentieri lascerebbe a Ferdinando. In queste tre scene, Shakeaspeare ha analizzato la festa nelle sue componenti. L'ultima che ci viene presentata - il senso di reciprocità - è la più es- senziale, e senza di essa, noi possiamo al massimo essere frammenti di noi stessi. La reciprocità è un bi- sogno vitale; la fede e la speranza che esso venga soddisfatto sono a loro volta all'origine della celebra- zione: ogni festa è una celebrazione di questa fede e di questa speranza.

Trad. di LUCIANA BALDACCINI

(21) W. Shakespeare, « Latempesta », in Tutte le o-pere, Firenze, Sansoni,1977, p. 1210.

L’ idrolite: Del bere e dell’aridità in una medicina archetipica

Alfred J. Ziegler, Zurigo

1.

La comprensione archetipica dell'uomo e delle sue malattie non rientra in nessuna logica e sebbene ci siano diverse logiche, nessuna vuole occuparsi a fon- do dell'archetipico. Certamente non è adatta la lo- gica tradizionale, quella classica, come l'ha chiamata Kant, che collega le scienze naturali; il rapporto con l'archetipico, infatti, sembra non volersi attenere al principio di identità, di opposizione, né a quello del terzo escluso, e non ha neanche relazioni legittime con il principio di causa ed effetto, con la causalità. Malgrado tutti i tentativi di affrontare il pensiero archetipico con la logica, esso si sottrae sempre al nostro intervento; sembra avere fin dall'origine una sua qualità peculiare che anzi, per molti riguardi, sembra integrare la logica stessa. Il rapporto con l'archetipico è originario e suscita in noi sensazioni che sono di natura « sofica » piuttosto che « logica ». Infatti la comprensione archetipica è un rapporto con la «Sophia», con la saggezza, e non con il Logos, con l'intelligenza nel senso proprio della parola. È come se si trattasse di due diversi modi dell'Eros spirituale e quando sentiamo per la prima volta la parola « sofico », può sembrare difficile cogliere l'im- portante contenuto di realtà che essa nasconde e constatiamo che manca assolutamente nel nostro patrimonio lessicale. Ciò dipende probabilmente dalle premesse unilate- rali della nostra cultura. In verità già i presocratici avevano diagnosticato la nostra dicotomia spirituale. Sembra che Eraclito sia stato il primo a introdurre la parola « philosophos » nell'uso linguistico, e con essa contrapponeva colui che amava la saggezza a

quello che era « solo » intelligente. In seguito, con Fiatone, filosofo diventa colui che è modesto, che sa di non sapere niente, ma continua ad essere preso dall'amore per la saggezza. Con Aristotele il rapporto con la « Sophia » diventa « prima philosophia », vera e propria metafisica. Anche i Romani conoscevano la differenza esistenziale tra « Sapientia » come sag- gezza e «Scientia » come conoscenza. Ma non sa- rebbe questo il luogo per approfondire ulteriormente questa differenza- Nondimeno possiamo qui consta- tare con stupore che la maggior parte dei filosofi non sono affatto filosofi, ma filologi, poiché essi per lo più si ispirano completamente al Logos, quindi il loro spirito ama una cosa del tutto diversa. Il rapporto con l'archetipico già si dimostra come qual- cosa di particolare a seconda dell'esperienza, così c'è anche un rapporto diverso. In questo caso il pen- siero è piuttosto una sensazione e al posto di con- cetti chiari e definiti c'è qualcosa di cangiante e spesso di indistinto. Ma dove si può perdere chia- rezza e concisione, si guadagna profondità. Dove il collegamento « superficiale » con Io spazio e il tempo diventa qualcosa di second'ordine, passa in primo piano l'eternità, invece dello sviluppo c'è un eterno presente. Ciò che si discosta dalla realtà terrena dei concetti logici viene recuperato alla « magia ». La ce- rebralità del giudizio che manca viene sostituita dal- l'empatia. Il pensiero è un pensiero di tutto il corpo. Ciò che secondo la logica consueta è sempre ogget- tivo, qui diventa soggettivo e passionale. E dove di solito domina una grave spinta, dove ci si rivolge alla vita e alla morte, lì è il teatro, lì il nostro essere di- venta qualcosa di quasi-illusorio e richiama l'ironia. La comprensione archetipica si muove così nel pos- sibile, è possibilistica e la sua lingua non è quella dello scienziato, ma quella del poeta, che è in rap- porto con le Muse. Se dunque la psicologia analitica si occupa della comprensione archetipica dell'uomo e delle sue sof- ferenze, nella sua denominazione si dovrebbero sco- prire subito due confusioni e una limitazione ingiu- stificata. Infatti in primo luogo, come si è appena detto, essa ha solo poco a che vedere con la « Lo- gica » e non si deve propriamente confrontare in alcun modo con ciò di cui si occupano le scienze. Con gli studi sull'associazione Jung aveva definito qualcosa che si poteva ancora orientare entro la scientificità convenzionale. Ciò che è venuto in se- guito tendeva a un altro spirito ed equivaleva piut- tosto a una ricerca di saggezza. Sembra però che la

nuova posizione sia stata fissata in modo così equi- voco che fino ad oggi si verificano sempre nuovi ten- tativi regressivi di correzione. Mi sembra cioè che ci siano sempre nuovi tentativi che mirano a trasci- nare ancora la psicologia analitica nell'ambito del pensiero scientifico ufficiale, dove essa viene poi a trovarsi come su un letto di Procuste. In secondo luogo, in base alle riflessioni introduttive sul Logos e sulla « Sophia », non si può dire che la psicologia analitica sia veramente analitica. Infatti secondo l'uso linguistico, analisi è " scomposizione o separazione di un tutto organico nelle sue parti ». Si potrebbe allora chiamare sintetica; ma in questo modo le si attribuirebbe una struttura che non ha. Essa è piuttosto l'arte di interpretazione degli arche- tipi; partendo da singoli fenomeni arriva per via ana- logica agli archetipi. Così essa svela il << senso »; si occupa di arte, non di tecnica. In terzo luogo, infine, la psicologia analitica si pone una autolimitazione, che fino ad oggi non sono mai riuscito a capire bene: sebbene essa sia qualificata dal rapporto con l'archetipico, pretende, secondo la sua denominazione, di non occuparsi dell'intero essere umano, dell'Anthropos, ma di limitarsi alla sua « psi- che ». Benché a suo modo debba essere una pato- sofia generale e quindi ogni psicologo analista debba propriamente a priori considerarsi medico, essa si attiene alla psichiatria. Così separa l'anima da un tutto come « sistema relativamente organico » e ap- plica solo alla prima il pensiero archetipico. Allora è possibile collegare il corpo con l'anima solo per mezzo di artifici intellettuali più o meno plausibili. Per esempio, si parla di « irradiazioni » della psiche nel soma e simili. Ma per quanto benevoli e acco- modanti si possa essere, questo rimane sempre uno scandalo della teoria della conoscenza. Accanto al suo carattere a-Iogico si potrebbe attri- buire soprattutto a questa particolare limitazione al- l'ambito della psiche il fatto che la psicologia anali- tica abbia avuto così poco a che vedere con la me- dicina. Nel caso che poi qualcuno dovesse lasciarsi prendere dal desiderio di mettere ordine nella mol- teplicità delle malattie fisiche per mezzo della psico- logia analitica, si ritrarrà subito disorientato: non si deve mettere in relazione la pratica medica con la psicologia analitica, non solo perché essa non è lo- gica, ma perché questa non ha applicato all'intero essere umano il mezzo del pensiero archetipico. Così arriviamo al punto di sottostare a delle finzioni. È come se nella terapia potessimo fare i conti senza

l'oste; in questo modo ci occupiamo del comporta- mento psichico e lasciamo ai medici la tecnica, poi- ché essa non appartiene propriamente al sistema re- lativamente organico della psiche; ci muoviamo dun- que in una dimensione, che vive in un rapporto più o meno stretto con un'altra, senza però conoscere suf- ficientemente quest'ultima. Ci rendiamo conto abba- stanza di tutto quello che accade quando certe sin- dromi psichiche scompaiono di fronte allo sviluppo di una qualunque specie di malattia fisica più o meno manifesta? Qui la domanda si pone non tanto a livello morale quanto sul piano della teoria della conoscen- za. Evidentemente non si può fare giustizia a tutto nello stesso tempo. Ma è come se il non tener conto della patologia fisica ci aiutasse a muoverci in quella terra dell'irreale, che si deve chiamare lo psichico. La comprensione archetipica dell'uomo e delle sue sofferenze non ha avuto origine nel XX secolo. Se ne possono ritrovare le tracce attraverso tutta la storia dello spirito occidentale. Ma è come se queste si svolgessero sempre soltanto come una specie di via occulta, come una via oscura, all'ombra dello spirito ufficiale. È come se a coloro che l'hanno percorsa sia stato sempre inerente il carattere dì outsider. Erano considerati come pagani o eretici, ed erano scomunicati o erano bruciati sui roghi della chiesa. Infatti la comprensione archetipica storicamente non si è mai associata del tutto a quello spirito che tra l'altro ha creato anche la nostra rappresentazione del più alto valore sacro, del dio cristiano. Essa non si può collegare né con un dio creatore unipolare e im- mutabile, ne con la sua immagine profana, quella del- l'Homo faber che crea il Bene e resta identico a se stesso. In confronto a tutto ciò mi sembra che la comprensione archetipica abbia delle caratteristiche fondamentalmente opposte. Storicamente essa appare nel modo più evidente proprio dove ci si riferisce a un'immagine comple- tamente diversa di dio e dell'uomo: per esempio, nella visione panteistica, dove l'essere supremo è al tempo stesso anche il mondo che viene colpito da conflitti interni. Naturalmente lì c'è anche un'analoga immagine dell'uomo. E come il dio creatore è colle- gato con l'Homo faber per associazione di immagini, così anche qui c'è una corrispondenza e una parte- cipazione tra il livello macrocosmico e quello micro- cosmico. Ma in una tale immagine dell'essere umano e di dio si è tentati di vedere non tanto una divinità maschile quanto piuttosto una divinità femminile; per questo sono evocate non solo le visioni indiane e del-

l'Estremo Oriente, ma in base all'esperienza si sta- bilisce di nuovo un collegamento con la « Sophia » come saggezza. Per iniziare in modo arbitrario un'enumerazione arbi- traria, storicamente una tale concezione di dio e del- l'uomo si può riconoscere già presso i presocratici; per esempio, Eraclito, l'Oscuro, pensa che il mondo sia un dio colpito dal conflitto delle passioni ele- mentari, propriamente il fuoco de! mondo, in cui i fenomeni risplendono e poi scompaiono di nuovo. La continuazione di questa visione sembra ritrovarsi in Platone: in lui il fuoco eterno si trasforma in un dio dotato di ragione, che non invecchia, che si an- nuncia nel mondo dei fenomeni e che, simile al dio di Pitagora, possiede un cuore centrale. Il mondo diventa per lui un vero e proprio teatro, qualcosa di sofferente, ma anche di spettrale. Questa fonda- mentale concezione platonica trova una nuova forma nel successivo neoplatonismo e nel platonismo del Rinascimento fiorentino, a cui può essersi ispirato perfino Shakespeare, che all'ingresso del suo nuovo teatro Globus scrisse: « totus mundus agit histrio- nem », tutto il mondo è un teatro. Se vogliamo pre- scindere dal Barocco, che è senz'altro incline al tea- tro del mondo, la concezione archetipica trova nuova forma nel Romanticismo: qui i « fenomeni primor- diali » trovano migliaia di modi di trasformazione, e il dio che di questi è composto diventa per loro un organismo immenso, messo in moto dalla lotta degli opposti interiori. Questa immagine corrisponde al ca- rattere romantico, instabile ed esaltato, che si aspet- ta soprattutto dalla condizione astenica, più o meno morbosa, una particolare ascesa dell'esistenza; sem- bra che non prenda mai nulla sul serio, è sempre associato a una dubbia ironia e spesso vive la sua vita « tremando e vacillando », come dice Novalis. Ogni volta che nella storia dello spirito incontriamo una comprensione che precorre quella archetipica, ci imbattiamo in rappresentazioni e in una lingua che, per così dire, sono quelle della natura stessa. Non sono cerebrali, ma in generale corporee ed emotive. Per concludere la prima parte della mia relazione vorrei dire ancora qualcosa di più esauriente sulle tre caratteristiche a cui ho accennato prima, che più di ogni altra cosa qualificano l'archetipico. Certamente ne esistono delle altre; queste sono però sufficienti a far capire che cosa si possa intendere per « me- dicina archetipica ». Sebbene queste caratteristiche sembrino indipendenti l'una dall'altra, si presentano quasi sempre associate tra di loro, come si è potuto

vedere dall'excursus sulla storia delle religioni. Non- dimeno separatamente formano un'unità della teoria della conoscenza. Si tratta della mutevolezza dell'ar- chetipico, del fatto che si manifesta sempre negli opposti e del suo riferirsi a un punto centrale. Ora, in primo luogo, la mutevolezza, la variabilità del- l'archetipico appare nella medicina archetipica in modo più evidente là dove un comportamento si tra- sforma in una forma somatica e viceversa. Ciò che è stato parte di uno stile di vita può manifestarsi in modo diverso come quadro clinico somatico. Così la nostra disponibilità può incorporarsi in un tremore patologico; la nostra resistenza può manifestarsi più o meno all'improvviso in diverse forme di irrigidi- mento reumatico, o la nostra capacità di mantenere la vita nel bagnato può ritrovarsi nell'idropisia. Nella psicologia analitica ci si comporta con tali incorpo- razioni allo stesso modo in cui ci si regola con le funzioni inferiori: anche esse portano nella vita gran- di difficoltà, soprattutto quando assumono forme so- cialmente inaccettabili. Così l'archetipico muta soltanto la sua forma di ma- nifestazione. Esso sceglie, per così dire, un altro stato di aggregazione, si condensa, immobilizza e co- stringe a stare a letto. A questo punto affiora la que- stione psicosomatica fondamentale, cioè il problema del modo in cui lo psichico agisca sul fisico; l'arche- tipico appartiene per sua natura a una dimensione sufficientemente ampia da consentire tali metamor- fosi. Al tempo stesso spariscono anche i confini tra il cosiddetto funzionale e l'organico puro. Ciò che dal punto di vista diagnostico viene espresso in com- plesse e articolate argomentazioni, dal punto di vista archetipico diventa fondamentalmente un problema di somatizzazione. Ne risultano quadri clinici mute- voli, più o meno reversibili. Ma questi non devono essere confusi con degli stati patologici. Infatti que- sti ultimi derivano da una medicina diversa, che fa parte delle scienze naturali, e se si confondono in modo acritico le due medicine si va incontro a gravi difficoltà di comprensione. Si resta infatti ai quadri e perciò anche alla meraviglia per una drammaturgia che è a volte così stupefacente da essere in grado di agire come la natura. In secondo luogo, l'archetipico si manifesta di pre- ferenza negli opposti. È come se soddisfacesse il bi- sogno di una più salda struttura conoscitiva, poiché il mondo archetipico con tutta la sua mutevolezza tende anche a scardinarsi. Così accanto alla com- mozione umana si può constatare l'arroganza più o meno manifesta, accanto all'ostinazione l'arrendevo- lezza, e accanto alla propensione per il bagnato una ricerca dell'asciutto. Nel rapporto degli opposti non c'è neppure nulla dì definitivo, di stabile, anzi do- mina una dialettica multiforme: talvolta un'integra-

zione può produrre l'impressione di una particolare armonia, talvolta prevale una dimensione limitata o appena una sfumatura; o infine una tendenza a evi- tarsi, che equivale a una scissione interiore, così che da una parte si tende a un'inflazione e dall'altra alla via della somatizzazione. Così l'archetipico non solo vuole afferrarci completamente e imporci uno stile assoluto ed esclusivo, ma anche condannare il suo complemento all'esilio corporeo, dove è costret- to a una forma di vita surrealistica e deteriorata. Il momento di tale metamorfosi è per lo più aporetico, è l'attimo in cui manca una via d'uscita; essa dunque si verifica quando la vita ha assunto una forma com- pletamente distorta. Infine, l'archetipico non solo cerca la sua struttura nella polarizzazione citata, ma anzi tende proprio a re- stare riferito in sé a un virtuale punto centrale- È come se fosse sempre rivolto a un centro, come le immagini panteistiche di dio sono al centro del mondo. Così tutte le varianti dialettiche di rapporto dell'archetipico e le citate possibilità di metamorfosi hanno in ogni momento un punto di riferimento. È come se la nostra vita si svolgesse seguendo le trac- ce del filo rosso del senso, anche se noi possiamo avere a che fare con gli estremi, con la nausea, con il nulla e con l'assurdo. Che lo vogliamo o no, la natura ci induce a una « vita fìlosofica » nel senso citato all'inizio: noi non possiamo evitare per tutta la vita l'aspirazione per quella « Sophia », quella sag- gezza, nella quale ci vengono incontro anche tutte le spaventose metamorfosi dell'essere, come qualcosa di numinoso e di stupefacente.

2.

Vorrei ora tentare di presentare i temi della sete e del bere e le loro trasformazioni patologiche in que- ste riflessioni generali, che, anche se in modo fram- mentario, costituiscono la teoria di una medicina ar- chetipica. Dovremo a questo punto porci la stessa do- manda fondamentale che già si è posta Eraclito, cioè la domanda del rapporto in cui il liquido, il bagnato, l'umido sta con l'asciutto, ciò che nell'uso linguistico dei presocratici suona all'incirca: che cosa hanno in comune Dioniso e Ade? Dell'umido e del bagnato si sostiene che essi por- tano con sé il caotico, tendono alla mobilità, alla la- bilità e all'impulsività, anzi all'ebbrezza e al delirio. Essi implicherebbero l'infinito e l'abisso, al punto che secondo i taoisti l'acqua non può propriamente

avere alcuna sponda. Considerando la sua pericolo- sità, Isaia implorava il Signore di salvarlo, poiché le acque della morte si erano infiltrate nella sua anima ed egli annegava nel fango. D'altra parte nel bagnato alberga anche la genialità, l'ingegno e l'umore; anzi la liberazione è qualcosa che apparentemente non possiamo definire in modo più appropriato se non prendendo a prestito un concetto dall'idrofisica. Per questo Cristo può dire che egli darà da bere agli as- setati, che l'acqua cadrà nel deserto e che nella terra della sete sgorgheranno delle sorgenti e la rende- ranno fertile. Anche per questo nell'opera di reden- zione di Cristo lo Spirito Santo si effonde come fons vivus, come una sorgente viva sugli uomini. In realtà Dioniso e Bacco sono strettamente legati all'umido e al liquido. Essi sono le divinità dell'istin- tivo e del mutevole. Sono essi che tendono alla mo- bilità, al delirio, alla dilatazione e alla dissoluzione. Ma sono anch'essi che introducono il loro spirito nel- l'arte e che portano nel mondo le commedie, le tragedie e la risata e che in una mistica orfico-bacchica promettono la liberazione della vita dalla vita stessa. D'altra parte l'asciutto tende all'infecondità, alla ste- rilità, alla frustrazione infinita, alla rinuncia e alla privazione. Secondo la storia del simbolo esso è tanto salato quanto amaro; in quanto polvere gli si addice il senso del nulla. D'altra parte però arriva alla di- gnità suprema, con esso tutto ciò che esiste si eleva dai flussi dell'immenso. Così l'asciutto nella storia della creazione diventa il primo « divenire », la prima cosa stabile. Nel tantrismo da esso si costituisce l'Io, che così si determina rispetto a un Essere uni- versale, e nella Bibbia il bevitore Noè lo vede come terra del futuro. Nella speculazione alchimistica si trova che molte isole insieme formano un vero e proprio luogo, come le scintille che unendosi diven- tano la luce della coscienza; e l'asciutto ricorda l'a- scesi interiore, il puritanesimo e quella urbanità che noi cerchiamo di conservarci con un eccesso di ener- gia del fuoco. Esso somiglia davvero a Ade, che deve aver ereditato una sola cosa da suo padre Kronos, poiché come questi ha divorato i propri figli, così anche Ade tende alla distruzione della vita- Non solo egli già a priori non vede e non sente, poiché ha la testa rivolta al- l'indietro, ma fa anche dissolvere in polvere e spa- rire, rende invisibile se stesso e gli altri e così sot- trae loro la forza vitale. Sotto questo aspetto si av- vicina alla “ Morte " cristiana, che come scheletro decrepito e dalle ossa asciutte miete con la falce ciò che è vivo. Ade al contrario di Dioniso guarda

per lo più il mondo in modo lugubre; egli è un dio serio. Per questo vive anche nel Tartaro desolato, roccioso e polveroso, in cui non c'è mai luce. Seb- bene questo sia attraversato da alcuni fiumi, sembra estendersi come un infinito deserto di pietra e sab- bia, e ovunque si incontrano anime frustrate e tor- mentate dalla sete; naturalmente anche le Danaidi assassine, che tentano invano di riempire d'acqua un vaso forato, e lo sventurato Tantalo, che stando nel- l'acqua cerca invano di placare la sua sete. Tuttavia l'immagine infausta ha anche un aspetto lu-minoso; Ade diventa anche Plutone e come tale pos- siede la ricchezza ctonia sotto forma di metalli e pietre preziose di ogni genere. Egli presiede le atti- vità scientifiche e tecniche e a Roma è chiamato semplicemente « Dis », il ricco. Ade deve avere qual- cosa a che fare con la nostra società urbana, con l'emancipazione moderna e razionale. Cioè quanto più allontaniamo la morte dalla nostra vita, tanto più immensamente essa si estende sotto forma di un generale urbanesimo di grigio cemento.

È certo che tutti noi in un modo o nell'altro e in misura diversa siamo condizionati dalle tendenze dio- nisiache e dall'aridità di Ade. Spesso però non è af- fatto semplice separare quelle da questa e delimitare la loro sfera d'influenza; infatti nella psicologia ana- litica incorriamo nella nota difficoltà di rimanere con- fusi di fronte alla iridescenza polare degli atteg- giamenti e delle funzioni psichiche. Ci troviamo tal- volta nella condizione di non poter affermare con si- curezza quale sia realmente la funzione dominante e quale quella inferiore; spesso possiamo dire con convinzione soltanto una cosa, e cioè, che la vita è influenzata in particolare da questo o da quel con- flitto. Ma, secondo l'esperienza generale ciò che si mani- festa nel modo più evidente è il lato oscuro di en- trambe, il cosiddetto lato inferiore, che non solo porta a particolari difficoltà psichiche, ma tende anche a incorporarsi, e ciò, come già detto, avviene quando l'aspetto dominante prende possesso di noi. Se dunque l'asciutto sotto questo o quell'aspetto im- pone alla nostra vita uno stile troppo unilaterale, pos- siamo ipotizzare che un'improvvisa « ebbrezza di vita » sì esprimerà in una forma patologica caratterizzata da una particolare sete e dalla necessità ineluttabile di bere. Ciò che prima si poteva considerare solo uno squilibrio psichico, si modifica ulteriormente e co- mincia a rientrare nella medicina somatica. Così c'è tutta una serie di sofferenze più o meno gravi tra quelle con cui Dioniso può colpirci. Tutti noi possiamo immedesimarci nel fatto che prendiamo

il bicchiere se ci troviamo proprio all'asciutto. Però l'azione che non è affatto sensazionale in certe per- sone di particolare « eccitabilità asciutto-nervosa » - come si dice nella letteratura psicosomatica - può trasformarsi in un impulso pericoloso, che co- stringe a bere fino a venti litri di liquido al giorno. A questo proposito è molto difficile stabilire in che mi- sura esistano delle alterazioni fisiche: soprattutto del- le secrezioni anormali di quegli ormoni che regolano il metabolismo dei liquidi e che possono essere in relazione con vere e proprie malattie cerebrali: per esempio, con un'infiammazione cerebrale o con un tumore che coinvolge nella malattia certe antiche regioni cerebrali originarie. Che la natura somatizzi così ampiamente oppure no, in ogni caso parleremo di un Diabetes insipidus, di diabete insipido. Ci sono anche delle forme di alcolismo, soprattutto l'alcolismo da birra, che sono collegate a un'analoga alterazione dell'equilibrio dei liquidi. In questi casi si può spesso constatare facilmente che ciò che spin- ge i pazienti a bere è una particolare sobrietà di vita, una particolare noia, « un'anima assetata ». La sete e la necessità ineluttabile di bere possono diventare particolarmente penose nei diabetici; si dice che essi abbiano anche una propensione all'a- dempimento rigido dei doveri e all'autofrustrazione collerica; e il loro diabete mellito, se non è curato, li porta spesso anche ad assumere un aspetto goffo.

Dunque nei quadri clinici di questo tipo si somatizza una « ebbrezza di vita » che si trasforma in un mo- struoso alcolismo. Ci ritiriamo, per così dire, su qualcosa di inorganico, ma soccombiamo a un pro- cesso che non è diverso da quello che si verifica nella maggior parte dei quadri clinici: il reumatico diventa « meno vivace ", quando la resistenza si incorpora nelle sue articolazioni; colui che soffre di una malattia della pelle, quando i suoi sentimenti asociali assu- mono la forma delle squame del rettile o colui che soffre di tremito, che deve sentire la commozione come tremore. Per ultimo, ma non meno importante, anche lo psicotico solitario diventa « prevedibile », quando il metabolismo degli enzimi del suo cervello prende una direzione diversa e i suoi rapporti con il mondo diventano troppo allucinati. Tuttavia ciò diventa non solo qualcosa di inorganico, ma anche di bizzarro. Di solito l'organismo conserva determinati stati di concentrazione e di diluizione. Nelle cellule e tra le cellule domina una pienezza ottimale, cioè un rapporto equilibrato tra i sali di ogni tipo - in particolare il doro - e i sali dello

zucchero - e l'acqua come loro solvente. Quest'equi- librio appartiene, per così dire, all'asse ereditario della nostra origine da condizioni oceaniche primor- diali: viviamo nel modo migliore in un determinato stato di gonfiamento, in un gonfiore ottimale; è come se qui la natura soccombesse a una specie di « horror torri », a una paura dell'essiccazione. Tut- tavia nelle malattie della sete i sali asciutti secondo le leggi dell'osmosi apportano un'omogeneità quasi- erotica, allontanano l'acqua sotto forma di forti quan- tità di urina o l'attirano nei tessuti del corpo, così che la conseguenza è il bere tanto forzato quanto vano. In questo caso non solo la sete si localizza in una faringe bruciata e febbrile, ma piuttosto la ca- tastrofe osmotica è il tormento di un inappagamento generale.

Quest'alterazione è piuttosto grave e comprende de- stini mitici. Sotto molti aspetti ricorda il desiderio bacchico di bere e secondo certe tradizioni le malat- tie di Dioniso. Senza un'eccessiva forzatura si può considerare a questo proposito il destino di Tantalo, re dei Frigi. È noto che questi nell'Ade greco soffre di una sete eterna, poiché ha rubato il dolce nettare dalla tavola degli dei. Sembra quasi che la fantasia degli antichi abbia voluto rappresentare in un mito la malattia del diabete, come in genere l'immagina- zione collettiva cerca naturalmente di inserire la malattia in storie dal senso profondo. Anche nell'am- bito della cultura germanica ci sono delle saghe si- mili. Qui in verità Tantalo diventa una figura diabolica, che è stata chiamata « la sete eterna ». Si avvicina anche a Wotan, che era realmente il dio di ogni ebbrezza. A lui appartiene non solo l'idromele, ma anche ogni arte emotiva, come la poesia e la musica. Così egli ha delle caratteristiche simili a quelle del mediter- raneo Dioniso; ma egli era anche il dio della con- dotta di guerra, che aveva poco a che fare con la tecnica, ma piuttosto viveva della voglia di combat- tere, dell'avidità di sangue e del sanguinario. Non è passato molto tempo da quando egli con i suoi guerrieri morti infuriava nelle notti di tempesta per le valli remote della Svizzera centrale. Ma è come se anch'egli non solo fosse stato bandito da un nuovo mondo religioso, ma, come Bacco e Tantalo, si fosse ritirato nella patologia. È come se egli non solo si aggirasse come l'ombra di un tempo illuminato, ma anche come se si fosse incarnato in diverse malattie, dove quasi nessuno più lo riconosce. In Svizzera Wotan si chiama anche Turst, e « die Turse » è un'an- tica denominazione per ; giganti. E qui ci sono molte connessioni con l'umidità e con l'ebbrezza: secondo la saga non solo essi addensavano le tempeste in gigantesche caldaie, ma erano anche allattati per sette anni al seno materno. Il loro alcolismo è pro- verbiale e li si vedeva ubriacarsi sulle montagne. Essi

non erano mai particolarmente assennati, e come Wotan di fronte a un atteggiamento troppo rigido e razionale dell'uomo era costretto a vivere in forme strane e in fenomeni patologici, così avveniva anche per i giganti, sebbene si dica che tutti « ebbri » siano stati sopraffatti nella guerra contro gli astuti austriaci. Naturalmente è da notare che qui risultano dapper- tutto delle relazioni con i citati disturbi di secrezione di quegli ormoni che regolano l'equilibrio dei liquidi e dei sali. In realtà c'è una psicosindrome endocrina, un'alterazione più o meno caratteristica dell'essere in presenza di malattie ormonali; essa si distingue in particolare per la vistosità dell'impulso e del biso- gno, per il cambiamento dell'umore e simili. Si pre- senta anche associata all'acromegalia e ai disturbi acromegaloidi dello sviluppo, in cui si possono osser- vare predisposizioni al gigantismo nelle parti sporgenti del corpo, alle mani e ai piedi, al mento o al naso; e proprio queste si presentano spesso con smodatezze di ogni genere, non da ultimo nel bere.

Nei casi in cui il bere diventa una coazione e assume una dimensione medica come malattia della sete, poiché l'uomo si è trovato troppo al'asciutto, la te- rapia da secoli verte intorno alla questione della quan- tità di umido e di asciutto che è conveniente per il paziente. È un tentativo di influire sui rapporti osmo- tici e l'ambiguità del tema ha sempre dato occasione di prescrivere le cose più diverse, anche le più con- traddittorie. Nella terapia degli stati osmotici c'è una lunga storia di dispute, da una parte sulla quan- tità di sali, di carboidrati che diventano salì, di pro- teine igroscopiche e simili e, dall'altra, sulla quan- tità giornaliera di liquidi che si può presumere in un paziente. Le terapie si sono sempre attenute a due antichissimi principi terapeutici: da una parte è stato necessario « asciugare », secondo la regola del « contrarium contrario ». Si è fatto quindi qualcosa di opposto, perché tutto chiama in azione mostruose forze an- tagoniste. Si è consigliata una sottrazione di liquidi e una dieta asciutta, sebbene ciò talvolta abbia porta- to alla morte tra i tormenti della sete. Si sono pre- scrìtte delle cure di essudazione o si sono mandati i pazienti nel deserto. Dall'altra parte ci si è attenuti al principio « similis simile curatur » e si è fatto pro- prio l'opposto: si è soddisfatto l'impulso, si è pre- scritto di bere e di fare dei bagni, si sono mandati i diabetici assetati in note località termali quali Karls- bad e Vichy. Attualmente la cura della necessità ineluttabile di bere è certamente diventata più efficace e accanto a

una dieta adeguata sono diffusi i diuretici, delle so- stanze che sottraggono al corpo i sali e l'acqua che ad essi è legata; oppure si prescrivono degli ormoni, per esempio l'insulina, che partecipano alla regola- zione dei rapporti osmotici. In tutte le cure pragmatiche si è però sempre im- posta anche la necessità di rivolgere all'archetipico ciò che facciamo. La terapia resta inefficace se viene praticata solo in base ai concetti delle scienze na- turali e, malgrado tutta l'abilità, resta sempre qual- cosa da dilettanti. Si va affermando così una filo- sofia che porta sia i terapeuti che i pazienti ad ave- re un'idea dell'aspetto archetipico presente nel li- quido e nell'asciutto, il cui conflitto è così determi- nante per il destino. Altrimenti è come se in tutta la terapia non sapessimo mai esattamente dove ci tro- viamo. Sembra che la natura non tolleri di essere trattata e curata solo secondo le conoscenze razionali o i punti di vista sociali. In questo caso essa devia facilmente nell'irrazionalità, da l'impressione di es- sere magia. Non solo i fenomeni psichici, ma anche le sindromi fisiche spingono spontaneamente all'am- plificazione.

Dopo aver visto nell'esempio delle malattie della sete e della coazione a bere sia la mutevolezza che la dialettica dell'archetipico, dobbiamo infine occuparci del suo riferimento a un virtuale punto centrale. Sia nell'ambito della medicina naturalistica che in quella archetipica è indispensabile riferirsi a un centro; e in tutte le diagnosi e le terapie ci accom- pagnerà tanto l'idea delle regioni cerebrali primitive e coordinanti dell'ipotalamo e dell'ipofisi, quanto anche l'idea di un Sé nel senso della psicologia ana- litica; a questo si riferiscono i fenomeni sani e pa- tologici dell'umido e dell'asciutto. E questo vale an- che per la psichiatria, dove la comprensione del ne- vrotico e dello psicotico ruota ugualmente intorno a un virtuale punto centrale. Per dargli un nome, anche qui basta solo un para- dosso. Deve essere un punto che si inserisce signifi- cativamente nella lunga serie di quelle denomina- zioni che stanno per la " pietra filosofale ». Sebbene la fisiologia moderna, per far comprendere la regola- zione dei sali e dei liquidi, produca modelli grafici e simboli che ricordano un misterioso linguaggio da cabala, il nome dovrebbe avere una qualità diversa « sofica », non razionale. Nella speculazione alchi- mistica c'è l'idrolite, il deposito calcareo dell'acqua, che non è né cristallo, né silicato di potassio, ma

misteriosa « acqua solida >>. Sembra che in essa si vogliano assommare e risolvere tutte le difficoltà della teoria della conoscenza, che risultano dalla relazione assai complessa dell'asciutto con l'umido. Come in tutti i simboli del Sé anche nell'immagine dell'idrolite risplende quel filo rosso del senso, di cui si è parlato nella prima parte di questa relazione. Esso però non solo è associato a una generica sensa- zione numinosa ma per il suo particolare carattere suscita anche una sensazione numinosa specifica. La sua osservazione ci fa presumere che la frustra- zione, l'autodisciplina e la razionalità, da una parte, la soddisfazione e l'arte, dall'altra, abbiano rela- zioni tanto misteriose quanto equilibrate. La rifles- sione sull'idrolite ci può far comprendere quale at- teggiamento dobbiamo assumere verso Dioniso e Ade. Essa comprende una conoscenza filo-sofica del grado di privazione e di soddisfazione che ci può spettare in questa vita; e così a livello di medicina preventiva non solo può impedire la comparsa delle malattie citate, ma può anche darci un sostegno in- teriore, se queste sono già diventate irreversibili e portano alla morte. Trad. di LUCIA RISPOLI