Riassunti Psicologia Sociale Dello Sport

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LA MOTIVAZIONE ALLA PRATICA SPORTIVA TIPI DI MOTIVAZIONE Molteplici sono le ragioni in base alle quali si opta per una pratica sportiva: si sceglie uno sport per irrobustire il corpo, perché è uno sport che piace, perché è quello praticato dai genitori, perché ci viene proposto da qualcuno. Prima ancora però di arrivare alla scelta dello sport da praticare è necessario che si attivi nell’individuo qualcosa che lo indirizzi e lo spinga verso la pratica sportiva. Reuchlin (1957) intende col termine “motivazione” l’insieme dei fattori che promuovono l’attività del soggetto, orientandola verso certe mete e consentendole di prolungarsi qualora tali mete non vengano raggiunte immediatamente. Appare evidente che non esiste una ma molteplici motivazioni all’attività sportiva e si può affermare che la motivazione si riferisce all’interazione dinamica tra i bisogni dell’individuo e gli stimoli offerti dall’ambiente. Per Carron il termine “motivazione” rappresenta le ragioni per cui determinate azioni sono preferite ad altre, sono messe in atto con energia ed entusiasmo e portate avanti con impegno. Terrini e Occhini (1997) sottolineano che lo sport è un’attività praticata per libera scelta che si articola in tre momenti: La scelta: che prevede che il soggetto passi attraverso una valutazione degli elementi favorevoli e contrari alla pratica sportiva e prenda in considerazione tutte le alternative possibili La decisione di praticare sport come risultato di questa valutazione L’attuazione, ossia l’atto concreto della pratica sportiva come conseguenza della scelta e della decisione presa. Solo un individuo motivato avrà la costanza di allenarsi due o tre volte alla settimana. Questo individuo ha scelto di fare sport in base ad una valutazione di costi e benefici e ha trovato sufficienti motivi che lo spingono a fare sport. Alcuni motivi sono innati, connessi a bisogni biologici fondamentali dell’uomo; si tratta dei cosiddetti bisogni o motivi primari, contrapposti invece a quelli secondari che sono il prodotto di apprendimento.

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LA MOTIVAZIONE ALLA PRATICA SPORTIVA

TIPI DI MOTIVAZIONE

Molteplici sono le ragioni in base alle quali si opta per una pratica sportiva: si sceglie uno sport per irrobustire il corpo, perché è uno sport che piace, perché è quello praticato dai genitori, perché ci viene proposto da qualcuno. Prima ancora però di arrivare alla scelta dello sport da praticare è necessario che si attivi nell’individuo qualcosa che lo indirizzi e lo spinga verso la pratica sportiva. Reuchlin (1957) intende col termine “motivazione” l’insieme dei fattori che promuovono l’attività del soggetto, orientandola verso certe mete e consentendole di prolungarsi qualora tali mete non vengano raggiunte immediatamente. Appare evidente che non esiste una ma molteplici motivazioni all’attività sportiva e si può affermare che la motivazione si riferisce all’interazione dinamica tra i bisogni dell’individuo e gli stimoli offerti dall’ambiente. Per Carron il termine “motivazione” rappresenta le ragioni per cui determinate azioni sono preferite ad altre, sono messe in atto con energia ed entusiasmo e portate avanti con impegno. Terrini e Occhini (1997) sottolineano che lo sport è un’attività praticata per libera scelta che si articola in tre momenti:

La scelta: che prevede che il soggetto passi attraverso una valutazione degli elementi favorevoli e contrari alla pratica sportiva e prenda in considerazione tutte le alternative possibili

La decisione di praticare sport come risultato di questa valutazione L’attuazione, ossia l’atto concreto della pratica sportiva come conseguenza della scelta e

della decisione presa.Solo un individuo motivato avrà la costanza di allenarsi due o tre volte alla settimana. Questo individuo ha scelto di fare sport in base ad una valutazione di costi e benefici e ha trovato sufficienti motivi che lo spingono a fare sport.Alcuni motivi sono innati, connessi a bisogni biologici fondamentali dell’uomo; si tratta dei cosiddetti bisogni o motivi primari, contrapposti invece a quelli secondari che sono il prodotto di apprendimento. I termini “primario” e “secondario” trasmettono l’idea di una gerarchia relativa ai bisogni, che possono essere messi in sequenza e ordinati, come nella scala di Maslow, dove a salire dal basso si trovano i bisogni fisiologici, i bisogni di sicurezza, i bisogni di appartenenza, i bisogni di stima e i bisogni di auto-realizzazione. Secondo Maslow, mentre i bisogni alla base della piramide, una volta soddisfatti scompaiono, quelli al vertice continuano anche quando vengono soddisfatti (bisogni di crescita).

Secondo Antonelli e Salvini (1987), lo sport è un gioco con finalità agonistiche, per cui in campo sportivo le motivazioni primarie si riducono essenzialmente a due elementi: gioco e agonismo. Il gioco è un’attività praticata da tutte le persone, a tutte le età e in tutte le culture. L’attività ludica persegue finalità biologiche, in quanto ristabilisce l’equilibrio psico-dinamico scaricando attraverso il movimento il surplus energetico accumulato dal soggetto (Antonelli, Salvini). Sempre in riferimento al gioco, Caillois identifica quattro tipologie:

1. agon, giochi basati sulla competizione sia fisica sia intellettuale2. alea, tipologia che comprende giochi in cui le leggi del caso sono determinanti3. mimicry, giochi che si caratterizzano per l’imitazione e il cambio di ruoli4. ilinx, i cosiddetti giochi di vertigine, in cui si sospende l’equilibrio corporeo

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Questi aspetti possono essere trasportati allo sport in generale, il quale è per sua natura competitivo, a volte sottostà alle leggi del caso, in certi schemi d’azione ricorda l’imitazione di movimenti appresi e in alcuni casi sospende l’equilibrio percettivo.Antonelli e Salvini distinguono i giochi in simbolici, regolamentari, d’esercizio e creativi e indicano sei caratteristiche che fanno del gioco un’attività sperimentata a livello cosciente che coinvolge tutte le componenti psicofisiche dell’individuo:

1. libertà: l’attività ludica è il risultato di una scelta dell’individuo2. incertezza: essendo legato al caso, il gioco soddisfa la mutevolezza delle emozioni3. improduttività: il gioco non sottostà alle leggi utilitaristiche4. regolamentazione: il gioco ha le sue regole5. simulazione: il gioco esula dalla dimensione reale6. autenticità: il gioco viene integrato nell’esperienza della vita di tutti i giorni

Ma il gioco è intrinsecamente competitivo, oppure sono le regole imposte a renderlo tale? L’esaltazione del confronto viene spesso enfatizzata dalla famiglia, dalla scuola e dai mezzi di comunicazione di massa. In questo modo i bambini entrano nella logica della prestazione senza accorgersene, la assimilano e la interiorizzano come fosse naturale.In ogni caso, lo sport non può prescindere dall’elemento agonistico, e il confronto con la natura, con gli altri e con se stesso è un’esigenza spontanea dell’uomo. Antonelli e Salvini precisano che alla base dell’agonismo si colloca l’AGGRESSIVITA’. Secondo Terreni e Occhini (1997), lo sport può costituire uno degli strumenti preventivi del disagio giovanile. Infatti, se si considera che la maggior parte dei comportamenti aggressivi autodiretti o eterodiretti è commessa da persone di età compresa tra i 18 e i 25 anni, lo sport può costituire innanzitutto un valido strumento per indirizzare le pulsioni aggressive in modo innocuo e socialmente accettabile. Secondariamente, lo sport offre ai giovani un’occasione educativa che si affianca a quella familiare e scolastica. L’allenatore svolge il ruolo di tramite tra il mondo dell’adolescenza e il mondo adulto. Inoltre, il gruppo dei pari offre ai giovani atleti modelli di comportamento e permette un confronto diretto con persone con cui condividere valori e idee.Lo sport aiuta dunque a incanalare l’aggressività nei binari di comportamenti regolamentati e socialmente approvati; inoltre, l’aggressività espressa durante l’attività sportiva è produttiva. Gioco e agonismo sono senza dubbio le motivazioni principali alla base della pratica sportiva. Tuttavia, in aggiunta, si riscontrano delle motivazioni secondarie, il cui peso e significato variano in base alla personalità dell’atleta (Tamorri, 1999).Le motivazioni secondarie allo sport sono raggruppate in quattro categorie da Antonelli e Salvini:

FATTORI PSICO-BIOLOGICI, che hanno origine dalla costituzione dell’individuo e sono divisi in:

o Omeostatici o finalizzati al ripristino dell’equilibrio neuro-dinamico grazie alla scarica motoria,

o Auto-plastici o finalizzati al processo di crescita somatica e/o di maturazione nervosa;

FATTORI PSICOLOGICI, determinati dal carattere dell’atleta che cerca di colmare attraverso la pratica sportiva esigenze di vario tipo:

o affettiveo di comunicazione o di emulazione di modellio di individuazione e conferma della propria identitào proiettive di situazioni diverse che si creano contemporaneamente all’interno del

gruppo sportivoo catartiche o di liberazione di pulsioni libidiche e aggressiveo etiche ed estetiche di tendenza alla perfezione

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FATTORI SOCIO-CULTURALI, che esprimono:o il bisogno di affiliazione, di appartenenza ad un gruppo socialeo il bisogno di approvazione sociale, di sentirsi gratificati e accettatio il bisogno di affermazione e autorealizzazioneo il desiderio di raggiungere lo status socio-economico rappresentato dalla

remunerazione dell’atleta professionistao la possibilità di elevazione attraverso lo sport

FATTORI PSICO-PATOLOGICI che possono essere prevenuti e curati attraverso lo sport; si tratta:

o del sentimento di inferioritào del narcisismoo del desiderio di potenza che lo sport può assecondare e/o ridimensionare

Per alcuni il successo equivale ad una prestazione che sfrutta appieno le abilità dell’atleta, per altri ad un confronto vittorioso con un avversario. Nel primo caso ci si focalizza sulla competenza, nel secondo sul risultato. Nicholls (1992) considera questi due orientamenti come dimensioni indipendenti e li definisce rispettivamente orientamento al compito (competenze) e al sé (risultato). I due orientamenti possono essere presenti in varia misura in uno stesso individuo. Duda e Nicholls fanno notare che l’orientamento al compito è in relazione positiva con la percezione dello sport come attività divertente, mentre l’orientamento al sé riduce l’interesse intrinseco per l’attività sportiva. L’orientamento al compito sostiene l’impegno dell’atleta e mantiene l’interesse intrinseco di quest’ultimo per l’attività sportiva (Cei, 1998). La teoria della valutazione cognitiva (Deci, 1975; Cei, Ryan, 1985; Frederick, Ryan, 1995) considera la motivazione intrinseca come l’espressione dei bisogni dell’individuo e lo stimolo per i comportamenti che trasmettono un senso di competenza e auto-determinazione. Il soggetto trasmette a se stesso rinforzi positivi. Secondo questa teoria, la motivazione intrinseca è alla base di attività auto-determinate ed autonome e i rinforzi esterni tendenti a ridurre l’elemento dell’auto-determinazione incidono negativamente sulla motivazione intrinseca. Le situazioni di sfida contribuiscono ad alimentare la motivazione intrinseca che aumenta grazie a tutti i rinforzi che sottolineano la competenza. L’impatto di qualsiasi tipo di feed-back ambientale dipende dal significato attribuitogli dal soggetto. Weiss e Chaumeton (1992) partono dalla distinzione tra motivazione intrinseca ed estrinseca, sviluppando un approccio integrato agli orientamenti motivazionali nello sport. L’orientamento motivazionale è caratterizzato da due sottoelementi: l’orientamento intrinseco, o padronanza, e quello estrinseco, o risultato. Il primo enfatizza il processo della partecipazione e considera lo sviluppo delle competenze, l’affiliazione (connessa al processo di entrata in un gruppo), l’obiettivo fitness (come diventare più forti, restare in forma) e il divertimento condiviso per il fatto di partecipare all’attività sportiva. L’orientamento estrinseco focalizza l’attenzione sul risultato della partecipazione e considera i vantaggi connessi alla vittoria, il guadagno in termini di status sociale o di riconoscimento ottenuto, l’acquisizione di ricompense e la ricerca di approvazione sociale.

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Gli sforzi messi in atto per aumentare la padronanza, unitamente alla difficoltà del compito variano secondo l’orientamento degli individui. Quelli orientati alla padronanza tendono a scegliere in modo adeguato attività stimolanti e che permettono di mettere in mostra le proprie capacità; si tratta di attività difficili ma realizzabili. Al contrario, i soggetti maggiormente orientati al risultato sceglieranno o compiti molto semplici, per massimizzare la dimostrazione della loro abilità, o compiti molto difficili per evitare di mostrare basse abilità: scegliere un’attività difficile infatti

COMPORTAMENTO MOTIVATO

EMOZIONI

PERCEZIONE DI COMPETENZA E CONTROLLO

SVILUPPO DI UN SISTEMA DI RICOMPENSE E DI UNO STANDARD DI

OBIETTIVI (criteri interni VS esterni)

FEED-BACKE RINFORZO DA PARTE DI

ADULTI E PARI

RISULTATI DELLA PRESTAZIONE (SUCCESSO E

FALLIMENTO)

TENTATIVI DI RAGGIUNGERE PADRONANZA (DIFFICOLTA’ DEL

COMPITO)

ORIENTAMENTO MOTIVAZIONALE

INTRINSECO (PADRONANZA),

COMPETENZA,AFFILIAZIONE, FITNESS,

DIVERTIMENTO

ESTRINSECO (RISULTATO),

APPROVAZIONE SOCIALE,

RICOMPENSE, STATUS, VITTORIE

FATTORI DI DIFFERENZ

A INDIVIDUAL

E:MATURITA’

COGNITIVA, MATURITA’ FISIC

A, GENE

RE, SALIENZA DEL

SUCCESSO NELL

O SPORT

FATTORI

CONTESTUA

LI: STRUTTURA DELL

E RICOMPEN

SE, STILE DELL’ALLENATO

RE, DISCIPLINA SPORT

IVA, FATTORI

SOCIO-

CULTURAL I

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aumenta il rischio di mostrarsi inadeguati e non all’altezza della scelta compiuta e giustifica quindi il fallimento. I risultati della prestazione vanno considerati in funzione non solo della vittoria o della sconfitta, ma anche delle percezioni individuali di successo o fallimento. I soggetti orientati alla padronanza focalizzano la loro attenzione sui miglioramenti mostrati nelle prestazioni rispetto a standard precedenti. I soggetti motivati dal risultato, al contrario, definiscono successo e fallimento in base all’esito della competizione, in relazione soprattutto alla prestazione degli altri. Questo modello sottolinea l’importanza del feed-back e del rinforzo. I giovani sportivi possono essere influenzati, ad esempio, da comportamenti di approvazione o disapprovazione di compagni, genitori o allenatori rispetto ai tentativi messi in atto. Vanno considerati in questa ottica l’elogio di comportamenti desiderabili, la critica a errori contingenti nonché il tipo di attribuzione causale per prestazioni di successo o insuccesso. Anche lo sviluppo del sistema di ricompense e dello standard di obiettività è basato sul generale orientamento dei soggetti. Coloro che sono orientati alla padronanza cercano stimoli ottimali e svilupperanno un sistema di ricompense e un modello di obiettivi basati su criteri interni. I soggetti orientati al risultato svilupperanno un sistema di ricompense e obiettivi basati su criteri esterni. Weiss e Chaumeton prendono poi in considerazione le percezioni di competenza e di controllo, le emozioni e il comportamento motivato. Se per competenza s’intende la capacità percepita di un soggetto di avere successo in un compito e per controllo la responsabilità del proprio successo attribuita a sé (controllo interno) e agli altri (controllo esterno), allora la percezione di competenza e controllo è frutto della storia dei successi e fallimenti di ciascuno, tanto quanto delle caratteristiche dei feed-back e dei rinforzi provenienti dagli altri significativi. Gli individui che utilizzano soprattutto criteri interni per valutare la competenza e che hanno obiettivi di padronanza avranno un’alta percezione della competenza e un controllo interno; quelli che fanno uso di criteri esterni per giudicare le loro abilità e che perseguono obiettivi definiti esternamente avranno una bassa percezione della competenza e un locus di controllo percepito esterno.Anche lo stato emotivo influenza il comportamento motivato e la prestazione: uno stato emozionale connotato positivamente perché caratterizzato da divertimento, felicità, orgoglio, eccitazione e piacere, mantiene e aumenta la motivazione e i suoi successivi tentativi di padronanza; al contrario, uno stato negativo, caratterizzato da ansia, imbarazzo, vergogna, tristezza e disappunto, attenua la motivazione e il desiderio di partecipazione. Gli individui intrinsecamente orientati sperimenteranno più facilmente uno stato emotivo positivo; i soggetti orientati estrinsecamente avranno probabilmente uno stato emotivo positivo solo vincendo e saranno più esposti all’ansia. Il comportamento motivato si esprime nella persistenza della pratica sportiva e nell’abbandono della stessa. Gli individui orientati alla padronanza tenderanno a rimanere nello sport. Gli individui orientati invece al risultato continueranno l’attività sportiva finché hanno successo e finché riescono a mantenere un’alta percezione della loro abilità. A questi elementi vanno aggiunti anche fattori relativi alle differenze individuali nonché fattori contestuali.Sono da considerare fattori individuali:

la maturità cognitiva, in quanto legata a una crescente considerazione per le abilità espresse nell’analizzare i risultati del comportamento;

la maturità fisica che influisce sul risultato sia di per sé, sia per le aspettative create negli latri significativi;

il genere, che motiverebbe ad esempio i maschi a essere più orientati al risultato e le femmine alla padronanza;

l’importanza attribuita all’aver successo in campo fisico che, se elevato, influirebbe sui cambiamenti della percezione di sé conseguenti a prestazioni di successo o di insuccesso;

I fattori contestuali sono: le strutture di ricompensa che possono determinare diverse strutture competitive;

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l’orientamento o lo stile dell’allenatore, che può modificare la percezione di sé e il comportamento motivato degli atleti a seconda che si basi sul controllo o sull’informazione;

le differenze dovute al tipo di sport che attirerebbe di più certi soggetti piuttosto che altri; i fattori socio-culturali come razza, etnia e classe sociale.

LA MOTIVAZIONE NEL CONTESTO SPORTIVO E IL RUOLO DELL’ALLENATORECarron propone un modello:

FATTORI SITUAZIONALI SOGGETTI AL CONTROLLO DELL’ALLENATOREPer quanto riguarda i fattori ambientali, occorre distinguere la situazione oggettiva dalle percezioni soggettive. Solo alcuni degli aspetti situazionali, sia oggettivi che soggettivi, possono essere influenzati dall’allenatore. I fattori motivazionali a disposizione dell’allenatore sono le ricompense, le tecniche di goal-setting, la varietà delle sedute di allenamento, il rinforzo sociale e i comportamenti specifici dell’allenatore stesso. Il discorso delle ricompense si allaccia direttamente alle teorie classiche dell’apprendimento: l’allenatore può indurre, modificare oppure eliminare comportamenti specifici degli atleti concedendo o negando loro ricompense. La definizione degli obiettivi (goal-setting) incide sulla motivazione degli individui e contribuisce all’efficienza della loro prestazione. Carron (1984) individua alcuni principi generali:

1. gli obiettivi specifici, difficili da raggiungere e che rappresentano una sfida realistica sono più efficaci rispetto a obiettivi specifici e semplici da raggiungere, a obiettivi irraggiungibili o all’assenza di obiettivi;

2. gli individui devono possedere sufficienti abilità per poter raggiungere gli obiettivi prefissati;

3. gli obiettivi definiti in termini specifici, quantitativi e comportamentali sono più efficaci di vaghe intenzioni;

FATTORI SITUAZIONALI

Soggetti al controllo dell’allenatore:ricompensegoal-settingallenamentirinforzicomportamento dell’allenatore

Non soggetti al controllo dell’allenatoreSpettatoriConcorrentiClima del gruppo

FATTORI PERSONALI

Soggetti al controllo dell’allenatoreMotivazione incentivanteAnalisi del risultatoInteresse intrinsecoAspettative dell’allenatoreFiducia in se stessi

Non soggetti al controllo dell’allenatoreAnsiaAttenzioneMotivazione al successo

MOTIVAZIONE INDIVIDUALE

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4. nel caso di obiettivi a lungo termine è utile prevedere obiettivi intermedi;5. perché gli obiettivi contribuiscano al miglioramento della prestazione, è necessario il feed-

back, anche attraverso le ricompense (materiali e non) e la competizione interpersonale.Sono quattro i meccanismi motivazionali attivati dal goal-setting:

direzionamento di attenzione e azione (chiedere ad un atleta di presentarsi all’inizio della stagione agonistica in buona forma non equivale a porre delle condizioni precise, come definire il limite massimo del peso corporeo o dei limiti atletici da rispettare);

mobilitazione di energia (l’atleta che vuole corrispondere allo standard richiesto per l’inizio della stagione si impegna per raggiungerlo allenandosi e controllando la propria alimentazione);

persistenza, direzione di attenzione e azione pratica per un periodo prolungato nel tempo (l’atleta si allena e controlla la propria alimentazione per un certo periodo per raggiungere l’obiettivo);

motivazione allo sviluppo di una strategia individuale (l’atleta sa che la propria persistenza avrà successo solo se accompagnata da un piano di lavoro dettagliato ed effettivamente rispettato).

Perché la monotonia non rischi di prevalere sulla motivazione l’allenatore deve fare in modo di tenere vivo l’interesse degli atleti. Egli può rendere stimolanti gli allenamenti introducendo sempre elementi nuovi e variando la routine oppure prestare attenzione particolare e personale ai singoli atleti, trasmettendo loro la percezione di essere importanti.L’attenzione dell’allenatore verso gli atleti si esprime anche attraverso i rinforzi sia positivi che negativi, comunicati a livello verbale e a livello non verbale, che trasmettono un’informazione di tipo valutativo nei confronti degli atleti. Il comportamento dell’allenatore centrato sul rapporto con la squadra o con i singoli componenti, sulla trasmissione di istruzioni tecniche e sul rinforzo positivo, contribuisce a tenere viva e ad alimentare la motivazione degli atleti (Chelladurai e Saleh, 1978, 1980).Un rinforzo SOCIALE può venire anche da figure diverse dall’allenatore, come i genitori, compagni, dirigenti, pubblico, stampa.

FATTORI PERSONALI SOGGETTI AL CONTROLLO DELL’ALLENATOREL’allenatore può influire su alcuni fattori che motivano personalmente l’atleta.Alderman e Wood (1976) individuano sette esperienze incentivanti tipiche della pratica sportiva:

indipendenza o possibilità di fare qualcosa senza l’aiuto di terzi; potere o controllo sulle altre persone; affiliazione o possibilità di fare amicizia; stress o ricerca dell’eccitazione; eccellenza o possibilità di padroneggiare un’attività; aggressione o intimidazione nei confronti di altri; successo o ricerca di prestigio e status sociale.

Conoscere le motivazioni e i bisogni dei propri atleti consente all’allenatore di contribuire a soddisfarli tenendo conto delle varie esigenze di successo, affiliazione, di tenersi in forma, di scaricare la tensione. Un secondo fattore personale che l’allenatore può influenzare è la modalità utilizzata dall’atleta per analizzare i risultati che ottiene. Carron propone una spiegazione di come la conoscenza incide sulle aspettative e sul comportamento dell’atleta.

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Un qualsiasi evento produce un determinato risultato che può essere interpretato in termini di successo o di insuccesso. L’individuo analizza l’evento alla luce delle proprie esperienze pregresse e della situazione esterna e attribuisce il risultato a cause esterne e/o interne. In base all’attribuzione il soggetto si sente soddisfatto o insoddisfatto, prova orgoglio o vergogna e sviluppa aspettative di successo per il futuro. Il processo di attribuzione e le convinzioni che ne seguono influenzano dunque la motivazione per la partecipazione ad un successivo evento.L’allenatore può intervenire durante la fase di attribuzione di causa tenendo conto che un atleta che non si sente responsabile degli insuccessi agonistici tenderà in genere a mantenere un buon livello di motivazione; può altresì influenzare la fase di interpretazione dei risultati, facendo passare il messaggio che una sconfitta non deve necessariamente essere vissuta come un insuccesso. Circa la distinzione fatta tra motivazioni intrinseche ed estrinseche, secondo Carron i rinforzi estrinseci tendono ad aumentare l’interesse intrinseco o la partecipazione ad un’attività per la pura gioia di partecipare. Nello sport questo vale per quei rinforzi che aumentano nell’atleta la consapevolezza delle proprie capacità, il livello di autostima e la sensazione di raggiungere e controllare gli obiettivi prefissati ed è soprattutto l’allenatore a disporre di rinforzi positivi di questo tipo. L’allenatore sviluppa inevitabilmente delle aspettative in merito alle abilità degli atleti; tali aspettative influenzano il rapporto tra l’allenatore e il singolo atleta e, di conseguenza, la motivazione e la prestazione di quest’ultimo. Inoltre, le aspettative che l’allenatore matura nei confronti degli atleti, il rapporto che instaura a livello interpersonale, i rinforzi e i segnali che l’allenatore trasmette vanno ad incidere sulla fiducia che l’atleta ha in se stesso.

FATTORI SITUAZIONALI NON SOGGETTI AL CONTROLLO DELL’ALLENATORESecondo Carron, la situazione sportiva può avere effetti motivanti o demotivanti su cui l’allenatore non può influire. Un fattore importante è la numerosità degli spettatori presenti e del tifo.Un secondo fattore è costituito dalla presenza di un concorrente che implica per definizione una situazione competitiva. Ciò determina la percezione che l’atleta ha delle proprie abilità e le

EVENTO RISULTATOSUCCESSO/

INSUCCESSO

ORGOGLIO/VERGOGNA

ASPETTATIVE FUTURE

ANALISI POST-EVENTO

MOTIVAZIONE PER

PARTECIPAZIONE FUTURA

ATTRIBUZIONESPIEGAZIONE

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possibilità di vittoria in rapporto all’avversario; importanti inoltre sono le esperienze pregresse dell’atleta rispetto a situazioni analoghe. Anche le caratteristiche del gruppo sportivo o della squadra in senso stretto possono avere un effetto più o meno motivante; la somiglianza tra i membri di un gruppo può risultare sia stimolante sia demotivante per il gruppo considerato nel suo insieme, così come pure per i singoli atleti.Anche i fattori personali degli atleti presentano alcuni aspetti su cui l’allenatore non ha possibilità di agire; la personalità degli atleti incide sull’efficacia delle tecniche insegnate dall’allenatore. I tre più importanti tratti di personalità sono l’ansia, la capacità attentiva e la motivazione al successo (Carron). Da sottolineare che l’ansia relativa alla competizione sportiva tende a diminuire con l’età e l’esperienza degli atleti (Griffin, 1972; Gould, Horn, Spreeman, 1983).Passer (1981) individua sei elementi variabili che influiscono sullo stato di stress che una competizione provoca:

1. disciplina sportiva (gli sport individuali producono più stress);2. importanza della gara;3. risultato4. livello di autostima (indirettamente proporzionale allo stress);5. aspettative di successo (indirettamente proporzionali allo stress);6. livello congenito di ansia (direttamente proporzionale allo stress).

La competizione sportiva tende ad aumentare la tensione, circostanza questa che influenza sia l’attenzione sia la capacità di concentrazione. Entrambe incidono, a loro volta, sulla prestazione.

MOTIVAZIONE AL SUCCESSOIl contesto sportivo, soprattutto se riferito all’agonismo, è essenzialmente orientato alla riuscita, al successo, all’achievement (Carron, 1980; LeUnes, Nation, 2002). Sia per gli sportivi individuali sia per quelli di squadra, la prestazione degli atleti è misurata e confrontata a uno standard di eccellenza che può essere personale (una prestazione precedente), normativa (un grado di difficoltà) e/o ambientale (un antagonista). Secondo Atkinson e Carron l’orientamento ad impegnarsi in un compito di riuscita e l’orientamento ad evitare questo impegno sono due disposizioni caratteriali indipendenti ed entrambe presenti nell’individuo. La motivazione di un soggetto a impegnarsi in un’attività che prevede la possibilità di un successo in alternativa ad un fallimento viene definita tendenza ad affrontare un compito di riuscita (Ts). Questa tendenza dipende da tre fattori: 1) l’intensità dell’orientamento individuale o la motivazione ad impegnarsi in un compito di riuscita (Ms); 2) la probabilità di successo che il soggetto prevede di avere (Ps); 3) il valore che il soggetto attribuisce a questo successo (Is). La formula è:

Ts = Ms x Ps x Is

Gli ultimi due fattori sono inversamente proporzionali; Is = I - Ps La tendenza ad evitare il fallimento connesso al compito (Taf) deriva da tre fattori: 1) l’intensità dell’orientamento individuale o della motivazione ad evitare di impegnarsi in compiti di riuscita (Maf); 2) la probabilità di fallimento (Pf); 3) il valore che il soggetto attribuisce a questo insuccesso (If), cioè l’incentivo ad evitare il fallimento. La formula è:

Taf = Maf x Pf x If

Gli ultimi due fattori sono inversamente proporzionali; più il compito è difficile, meno un fallimento comporterà vergogna o dispiacere If = - (I – Pf); in questo caso si mette il segno meno perché If è sempre un valore negativo.Le due tendenze ad affrontare e ad evitare il compito di riuscita, sono sempre entrambe presenti quando un individuo si trova in una situazione di riuscita. Per ottenere la risultante, cioè l’effettiva

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motivazione, occorre fare la differenza tra la tendenza positiva ad impegnarsi nel compito e quella negativa ad evitarlo.

Tr = Ts + (- Taf)

Da questa formula se ne può derivare una seconda che permette di calcolare il variare della motivazione alla riuscita al variare dell’orientamento individuale ad affrontare/evitare i compiti di riuscita, della probabilità di successo/fallimento e con essa del valore attribuito al successo/fallimento.

Tr = (Ms – Maf) x (Ps x Is)

Cei (1998) riporta alcune conclusioni: gli atleti maschi che presentano un elevato orientamento al successo e una limitata paura dell’insuccesso ottengono i risultati migliori in gara, mentre un ridotto desiderio di successo e una forte paura dell’insuccesso sono tipici di atleti che rendono meglio in allenamento rispetto alle competizioni agonistiche; gli atleti che esprimono un elevato desiderio di successo forniscono complessivamente prestazioni migliori rispetto a chi ha una bassa attesa di successo.

LA MOTIVAZIONE NELLA SQUADRA E IL FENOMENO DELLA PIGRIZIA SOCIALELa motivazione del gruppo deriva direttamente dalla somma delle motivazioni, dei bisogni e delle aspirazioni individuali dei membri della squadra ? Zander (1982) sostiene che non è esattamente così perché gli individui non hanno solo obiettivi personali, ma perseguono anche obiettivi di gruppo.

Il gruppo ha motivazioni proprie che non derivano necessariamente dalla somma delle motivazioni individuali dei suoi membri. Zander (1971) ha sviluppato un modello simile a quello di Atkinson per studiare la motivazione alla riuscita nel gruppo. Zander fa riferimento alla tendenza a raggiungere un successo di gruppo (Tgs) e alla tendenza ad evitare un fallimento di gruppo (Tgaf). Dalla differenza tra queste tendenze risulta la tendenza alla azione del gruppo.

Rg = Tgs - Tgaf

Obiettivo dell’individuo per

il gruppo

Obiettivo del gruppo per se

stesso

Obiettivo dell’individuo per

se stesso

Obiettivo del gruppo per l’individuo

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I fattori che determinano la tendenza al successo del gruppo sono tre: 1) il desiderio di ottenere un successo di gruppo (Dgs); 2) la probabilità del successo di gruppo (Pgs); 3) il valore attribuito al successo di gruppo (Igs). I tre fattori si combinano nel prodotto:

Tgs = Dgs x Pgs x Igs

Parimenti, la tendenza ad evitare il fallimento di gruppo dipende da tre fattori: 1) il desiderio di evitare un fallimento di gruppo (Dgaf); 2) la probabilità del fallimento di gruppo (Pgf); 3) il valore attribuito al fallimento del gruppo (Igf). Il prodotto dell’interazione è:

Tgaf = Dgaf x Pgf x Igf

Ringelmann faceva notare che le persone si applicano al massimo quando lavorano da sole e la prestazione individuale media diminuisce all’aumentare delle dimensioni del gruppo. Stroebe e Frey (1982) attribuiscono il cosiddetto “effetto Ringelmann” ad almeno due tipi di perdite: coordinazione e motivazione. Le perdite di coordinazione sono dovute ad un’organizzazione non ottimale delle risorse. Le perdite di motivazione sono spiegate da Janssen (1995) attraverso due fenomeni di pigrizia sociale (social loafing). Il primo, indicato con il nome di “effetto Nassauer”, si esprime con la riduzione del proprio sforzo da parte di alcuni membri del gruppo quando il contributo individuale allo svolgimento del compito comune non è identificabile. E l’anonimato è tanto più probabile quanto più il gruppo è numeroso. Quando gli altri membri si accorgono di questo comportamento riducono a loro volta la propria motivazione e il proprio contributo per non fare la figura dei “merli” e così la prestazione si livella verso il basso. Questo secondo fenomeno è chiamato “effetto merlo”.Carron (1988) fa notare, anch’egli, che all’aumentare della dimensione del team la motivazione individuale diminuisce. L’autore individua quattro fattori che contribuiscono a creare la pigrizia sociale, i primi due studiati da Harkins, Latané e Williams (1980) e gli altri due da Orbell e Dawes (1981).

1. La spiegazione basata sulla strategia dell’allocazione parte dal presupposto che i soggetti siano motivati sempre a lavorare con impegno. Tuttavia essi si sforzano al massimo quando la loro prestazione è individuale perché in questo caso traggono personalmente i benefici maggiori.

2. Un secondo fattore che alimenta la pigrizia sociale è la strategia del minimo impegno. Gli individui cercano di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.

3. L’effetto free-rider; i membri del gruppo diminuiscono il proprio impegno quando sentono che il loro contributo non è indispensabile allo svolgimento di un compito. Più il gruppo è numeroso, più i membri credono che la capacità e competenza degli altri siano sufficienti.

4. L’effetto sucker. I membri di un gruppo non si impegnano a fondo per paura di permettere un free-rider ai compagni che non partecipano allo svolgimento del compito. Gli individui non si sforzano al massimo per paura di apparire dei “gonzi” che lavorano anche per gli altri.

Al contrario, la pigrizia sociale è minima quando l’apporto individuale può essere controllato ed è considerato indispensabile e/o comparabile all’apporto dei compagni.

SPORT INDIVIDUALI , SPORT DI SQUADRA E BISOGNO DI CHIUSURA COGNITIVA

Anche se negli sport individuali l’allenamento è spesso svolto con altri o in gruppo, il risultato della gara dipende esclusivamente dalla prestazione del singolo atleta ed è attribuibile soltanto a lui. Ma praticare uno sport individuale non significa fare sport da soli e non fare parte di un gruppo; soltanto assumersi pienamente la responsabilità e le conseguenze del risultato ottenuto durante le gare.

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Mantovani (1994) distingue gli sport individuali dagli sport di squadra sottolineando che nei primi il soggetto compete da solo con uno o più avversari, mentre nei secondi l’individuo è parte di una squadra che gareggia con un’altra squadra. Tassi (1993) distingue fra sport fianco a fianco e sport faccia a faccia. Nel primo caso l’avversario è “distante”, in quanto non si riscontra materialmente alcuna interferenza dell’azione dell’atleta con quella del suo antagonista; negli sport faccia a faccia l’avversario è “vicino”, dal momento che l’azione dell’atleta si lega direttamente a quella del suo concorrente, modificandola ed essendone modificata. In funzione dell’intensità dell’interazione, gli sport fianco a fianco si possono distinguere in paralleli e differiti: nei primi, come nella corsa o nel ciclismo, la prestazione di un concorrente è contemporanea a quella di un altro; nei secondi, come nello sci o nella ginnastica artistica, l’esecuzione di ciascun atleta è successiva a quella degli altri. Gli sport faccia a faccia si possono differenziare in mediati e di contatto: nei primi, come nella pallavolo o nel tennis, l’interazione tra gli avversari non è diretta ma si realizza attraverso un mezzo, solitamente la palla; i secondi, come il pugilato o la pallacanestro, prevedono l’interazione diretta e si risolvono in un vero e proprio contatto fisico. Tassi (1993) divide gli sport in giochi e discipline.

INDIVIDUALI DI SQUADRA

FIANCO A FIANCO

FACCIA AFACCIA

In ambito sportivo, il riferimento a “disciplina” richiamo l’attenzione su attività motorie da eseguire in modo molto preciso in base a schemi rigidamente predefiniti, mentre parlare di “gioco” porta a pensare ad attività motorie che si svolgono con infinite variazioni possibili dettate dallo specifico movimento, entro un limite formato dalle regole proprie di tali attività. Tassi colloca gli sport individuali fianco a fianco sul polo della disciplina e quelli di squadra faccia a faccia sul polo del gioco, lasciando al centro del continuum sia le attività sportive individuali faccia a faccia sia quelle di squadra fianco a fianco. In generale gli sport di squadra tendono a valorizzare maggiormente l’aspetto del gioco, mentre gli sport individuali sottolineano ed enfatizzano la parte disciplinare.

TIPI DI SQUADRA

Carron e Chelladurai (1979) ci forniscono uno schema

Disciplina (ginnastica artistica, corsa veloce)

Disciplina-gioco (nuoto sincronizzato,ciclismo)

Disciplina-gioco (tennis, pugilato)

Gioco (pallavolo, calcio)

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Questi autori rielaborano criticamente la distinzione dicotomica tra discipline interattive e coattive suggerita da Landers e Luschen (1974) sulla base dell’opposizione tra i concetti “faccia a faccia” e “coattivo” proposta da Allport (1924) e suddividono le discipline lungo due dimensioni relative al grado di interdipendenza all’interno della squadra. Ne risulta una prima distinzione tra discipline sportive indipendenti e dipendenti; e un’ulteriore articolazione della seconda classe in tre categorie: dipendenza coattiva, reattivo-proattiva e interattiva. Nelle discipline indipendenti non è richiesta alcuna attività coordinata.Nelle discipline dipendenti si hanno le seguenti distinzioni:

Nelle discipline coattive dipendenti i singoli atleti svolgono contemporaneamente una stessa attività, coordinata da un’unica persona secondo uno schema fisso e sempre uguale, come per il canottaggio.

Nelle discipline reattivo-proattive le attività dei singoli atleti si osservano in una sequenza data: ne sono un esempio il caso del lanciatore e del battitore nel baseball; chi completa l’azione dipende da qualcun altro che la inizia.

Nelle discipline a dipendenza interattiva i componenti di una squadra dipendono l’uno dall’altro per le varie attività che svolgono e per il gioco in se stesso, dal momento che ognuno può prendere un’iniziativa a seconda della situazione (nel calcio).

LA SQUADRA SPORTIVA E LE SUE CARATTERISTICHE

La squadra sportiva può essere considerata un esempio particolare di gruppo, il cui scopo è legato all’attività sportiva svolta dai membri. Le caratteristiche fondamentali vengono così riassunti da Baumann (1998): unità sociale, scopo comune, interazione, dimensione, posizioni, distribuzione dei ruoli, norme, sentimento del noi.

UNITA’ SOCIALE, SCOPO COMUNE E INTERAZIONEUna squadra sportiva si distingue non solo dagli altri gruppi in generale, ma anche da tutte le altre squadre. Tale distintività è sottolineata dall’abbigliamento uniforme e da un nome o soprannome particolare. Questo aumenta il senso di appartenenza e il sentimento del noi. Lo scopo sportivo – agonistico comune è il perno attorno al quale gravitano tutte le altre caratteristiche della squadra. La stabilità del gruppo dipende dalla disponibilità dei singoli a

DISCIPLINE SPORTIVE

INDIPENDENTI DIPENDENTI

coattive Reattivo - proattive

interattive

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sacrificare i loro interessi personali per gli obiettivi collettivi. Se le aspirazioni dei singoli sono troppo lontane dallo scopo comune, la squadra rischia di perdere di vista i suoi obiettivi e di sfaldarsi. Anche nello sport i processi interattivi comprendono i rapporti tra i membri di una stessa squadra (relazioni intra-gruppo) e quelli tra squadre (relazioni inter-gruppi). All’interno di una squadra i componenti possono sviluppare cooperazione o antagonismo. Come sostiene Cei (1998), l’ottimale è collaborare all’interno della squadra e tenere verso l’esterno un atteggiamento competitivo, essere cioè tutti uniti contro l’avversario (“sinergia all’interno e competitività all’esterno”). La cooperazione interna risulta incrinata ogni qual volta: alcuni atleti infrangono le regole tecniche o di altra natura, ci sono lamentele da parte di atleti non protagonisti a proposito della competizione, gli atleti esprimono critiche sull’allenatore e/o sui compagni con persone esterne al gruppo, si litiga in campo, si attribuiscono ai compagni le cause delle sconfitte.Behm (1996) afferma che la concorrenza tra i compagni della squadra è parte integrante dello sport agonistico ma resta spesso latente finché i confronti con altre squadre hanno esito vittorioso e sono fonte di soddisfazione. Vengono individuati cinque tipi di concorrenza:

Concorrenza per un posto da titolare; Concorrenza per la gerarchia interna alla squadra e per il prestigio; Concorrenza per l’affetto e la simpatia dell’allenatore e dei compagni di squadra; Concorrenza per eventuali premi materiali e gratificazioni psicologiche; Concorrenza verso l’esterno.

Per relazioni intergruppi s’intende il rapporto con le squadre avversarie. Nello sport non agonistico la cooperazione tra avversari è frequente. Il tipo di interazione che si sviluppa tra avversari nello sport dipende essenzialmente dal fatto che si persegua come scopo l’agonismo o il divertimento (Alfermann, 1993).

DIMENSIONE, POSIZIONI E RUOLISecondo Widmeyer, Brawley e Carron (1990) non è chiaro se il termine “dimensione” nello sport vada riferito al numero di atleti che sono in azione sul campo da gioco contemporaneamente oppure alla formazione schierata oppure a tutti gli atleti che partecipano agli allenamenti. La coesione può essere misurata dal Group Environment Questionnaire (GEQ). Il livello di prestazione delle squadre molto piccole è inferiore rispetto alle squadre intermedie, ma non alle squadre allargate. Le squadre di dimensioni intermedie sembrano essere le più coese dal punto di vista sociale e le più efficaci in campo. Nelle squadre meno numerose è facile trovarsi d’accordo sugli obiettivi e sui metodi da seguire, ma mancano le risorse per raggiungere gli scopi prefissati. Alcuni autori osservano una relazione inversa tra il numero di giocatori e variabili come divertimento, coesione, partecipazione o senso di responsabilità. In pratica, quanto più le unità di azione sono piccole, tanto più i componenti valutano positivamente le esperienze che vivono. In accordo con Carron (1988) si deve rilevare che le risorse di cui una squadra dispone non sono collegate direttamente alla prestazione collettiva e che occorre considerare, oltre all’ambiente esterno e alla situazione, anche fattori intergruppo quali la cooperazione, l’antagonismo, la coesione, il conflitto, la comunicazione, la leadership. In ogni squadra si possono distinguere diverse posizioni, direttamente connesse all’attività sportiva. Nel calcio, per esempio, ci sono portiere, difensori, centrocampisti, attaccanti. Alcuni ruoli legati ai singoli individui e non allo svolgimento del gioco possono cristallizzarsi: il capitano, il veterano, il nuovo arrivato. I ruoli più gratificanti e più importanti per lo svolgimento del compito conferiscono potere e prestigio a chi li ricopre e questo vale sia dentro sia fuori del campo di gioco. Nel calcio, ad esempio, la posizione del numero dieci è più prestigiosa. A proposito del capitano, Prunelli (2000) stila un interessante decalogo per definire questa figura e sottolinea l’importanza del suo doppio ruolo per la vita della squadra:

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Pensa per te e per gli altri e non sentirsi sminuito se devi metterti a disposizione dei compagni.

Cerca di essere tranquillo ed equilibrato, trasmetti sicurezza, rivolgiti all’arbrito nelle dovute maniere.

Intervieni a sostegno di un compagno in difficoltà o incapace di sottostare alle regole del gruppo. Mostrati propositivo.

Non defilarti se non sei in giornata, se l’avversario è più forte o se il risultato è compromesso.

Se occorre, fai le veci dell’allenatore: assumi responsabilità. Prendi decisioni. Nei momenti di difficoltà della squadra sforzati di essere creativo e coraggioso, diffondi

ottimismo. Tieni conto delle esigenze e dei problemi di ogni compagno. Armonizza i rapporti all’interno dello spogliatoio. Diventa leader, ma proponiti in modo tale che ogni componente del gruppo, in determinate

situazioni, sia leader a propria volta. Fai in modo di essere credibile senza aver bisogno del sostegno dell’allenatore.

Il problema del conflitto per la posizione è collegato a doppio filo alla tematica della dimensione della squadra. In primo luogo, non tutti gli atleti che prendono parte agli allenamenti possono essere schierati in occasione delle gare. Inoltre, solo una parte degli atleti schierati è titolare, gli altri devono restare in panchina. Scoppiano allora i conflitti per il posto, sia in squadra sia da titolare. Alfermann (1993) fa notare che l’interazione nella squadra sportiva si basa sia sullo svolgimento del compito sia sulla dimensione sociale.

NORME, SANZIONI E SENTIMENTO DEL NOISi può affermare con Baumann (1998) che gli atleti della squadra si trovano tutti d’accordo sulle norme che regolano il comportamento individuale e collettivo e chi non rispetta le regole è soggetto a sanzioni. Le regole nello sport possono avere carattere formale o informale. Nel primo caso si tratta di regole ufficiali. Le norme informali, invece, sono degli schemi di orientamento che gli atleti apprendono attraverso l’appartenenza alla squadra e interiorizzano con il tempo, come la professionalità negli allenamenti, nelle partite e nell’alimentazione. Secondo Eberspacher (1982), oltre alle norme interne al gruppo che concorrono a determinare le aspettative reciproche degli atleti di una squadra, vi sono anche le norme imposte dall’esterno, a riprova del fatto che le squadre sono inserite in un sistema sociale. Se anche uno solo degli atleti non rispetta gli impegni presi, lo sforzo di tutti gli latri può risultare vano. I componenti di una squadra nutrono inoltre aspettative reciproche per quanto riguarda il comportamento in campo nei confronti degli arbitri. Infine gli atleti si aspettano solidarietà reciproca quando devono confrontarsi con l’esterno, con l’allenatore o il direttivo. Nel caso del mancato rispetto delle regole formali sono gli arbitri a punire i giocatori. Quando invece i giocatori disattendono le aspettative dell’allenatore, questi può reagire con richiami verbali oppure effettuare modifiche nella formazione – base e nello schieramento. I giocatori stessi tendono ad escludere dalle interazioni interpersonali i compagni di squadra che non rispettano le norme di gruppo. Squadra si diventa nel corso di un processo che porta allo sviluppo di un senso di appartenenza, indicato spesso con i termini di sentimento di noi, spirito di squadra, anima del gruppo o coesione. Questo processo scaturisce dall’integrazione dei singoli atleti nello schema dei ruoli, dall’interazione tra i componenti della squadra, dall’adattamento al sistema normativo e, soprattutto, dall’adesione allo scopo comune. Questo senso di appartenenza si esprime attraverso una divisa della squadra e l’abbigliamento uniforme al di fuori delle gare agonistiche, oppure attraverso piccoli rituali come la mascotte tenuta in panchina (Syer, 1986).

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Il clima della squadra esprime l’armonia interna, le percezioni dei singoli atleti in merito alle condizioni e alle relazioni che intercorrono tra i membri ed è predittivo della coesione, il motivo per il quale l’atleta si sente di far parte della squadra (Hodge, 1995).

UN MODELLO PER LO STUDIO DELLA SQUADRA SPORTIVAIl modello viene tratto da Carron (1988).

VARIABILI INPUT------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

VARIABILI INTERVENIENTI

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

VARIABILIOUTPUT

Il modello considera le strutture e i processi di gruppo nonché la coesione, al fine di individuare le principali conseguenze del team sportivo sia sui singoli atleti sia sulla squadra considerata nel suo insieme. Per quanto riguarda le variabili input, Carron analizza l’ambiente di gruppo soffermandosi sul compito che la squadra deve affrontare, sulla dimensione del gruppo e sulla territorialità in cui si trova ad agire. Insieme alla coesione e ai processi di gruppi (motivazione, interazione, comunicazione, cooperazione e competizione), gli aspetti strutturali come lo sviluppo del gruppo, le posizioni, i ruoli, le norme e la leadership rappresentano le variabili intervenienti.

Caratteristiche dei membri

Ambiente di gruppo

Struttura del gruppo

Coesione del gruppo

Processi di gruppo

Prodotti di gruppo

Prodotti individuali

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IL BISOGNO DI CHIUSURA COGNITIVA

Il bisogno di chiusura cognitiva, postulato da Kruglanski (1989) all’interno della sua teoria dell’epistemologia ingenua, rappresenta una dimensione disposizionale e si riferisce al desiderio dell’individuo di ottenere una risposta certa ad un quesito/problema e all’avversione per l’ambiguità. Si tratta di una tendenza a cercare e difendere una qualsiasi risposta certa, piuttosto che un tipo particolare di risposta congruente con gli interessi del soggetto stesso. Pur essendo motivazione e cognizione due sistemi distinti, essi sono intrecciati, dal momento che ogni motivazione riveste aspetti cognitivi e ogni cognizione presenta elementi motivazionali. La teoria dell’epistemologia ingenua intende proporre una prospettiva nuova che unisca i diversi modelli di attribuzione causale proposti dalla psicologia sociale, considerandoli come casi specifici di un quadro più ampio, percorrendo la strada della social cognition. La dizione “ingenua” suggerisce una continuità tra senso comune e scienza, continuità che si delinea nel fatto che tutta l’attività epistemica è per certi versi ingenua. I suoi elementi principali sono:

L’elemento del contenuto, riferito a tutti i tipi di proposizioni e ipotesi formulabili da parte degli individui;

L’elemento logico, utilizzato per l’approvazione o il rifiuto delle credenze a partire dalla rilevante presenza di un’evidenza;

L’elemento motivazionale, che attiva il processo e stabilisce le basi per le relazioni affettive e cognitive dell’individuo, atte a valicare e/o invalidare l’informazione.

Le parti componenti tale ipotesi sono disponibili nella nostra memoria e accessibili nel momento in cui essa è costruita; a ciò si aggiunge la motivazione che un individuo ha per generare idee su un certo argomento, dal momento che nessuna attività epistemica può avere luogo senza una piccola quantità di motivazione.

L’individuo riguardo a un certo argomento può desiderare di ottenere una chiusura cognitiva oppure di mantenere la mente aperta ad altre informazioni, evitando tale chiusura. In pratica, la motivazione verso la chiusura varia lungo un continuum i cui poli sono, da un lato, un forte bisogno di chiusura e, dall’altro, un forte bisogno di evitarla: gli effetti della motivazione sono monofonici lungo questo continuum.

CHIUSURA COGNITIVA

RICERCA ELUSIONE

SPECIFICA NONSPECIFICA

SPECIFICA NONSPECIFICA

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La chiusura desiderata o evitata può essere di tipo particolare, ovvero specifica secondo qualche criterio, oppure di qualsiasi genere, purché conduca alla chiusura o alla sua assenza. Nella formulazione di Kruglanski la chiusura non è universalmente desiderata, nel senso che può essere ritenuta o meno necessaria, a seconda delle circostanze e dei soggetti coinvolti. In sintesi, il bisogno di chiusura cognitiva rappresenta contemporaneamente una dimensione stabile delle differenze individuali e uno stato evocabile situazionalmente.Le motivazioni epistemiche regolano la tendenza al congelamento o allo scongelamento delle sequenze conoscitive. Inizialmente sono state concettualizzate come tre spinte indipendenti, cioè bisogno di strutturazione, timore di invalidità e preferenza per le conclusioni desiderabili; Kruglanski riassume queste motivazioni nel bisogno di chiusura cognitiva lungo le due dimensioni bipolari che si combinano dando luogo a quattro tipi di bisogni di chiusura cognitiva:

1. Il bisogno di chiusura non specifica esprime il desiderio di una risposta definitiva su un dato argomento, una qualunque risposta purché ponga termine alla confusione e all’ambiguità. Un simile bisogno può dare il via a un’intensa attività epistemica che si fermerà non appena sarà avanzata una qualche ipotesi plausibile supportata dall’evidenza; in questo senso si dice che il bisogno di chiusura non specifica promuove il congelamento epistemico.

2. Il bisogno di chiusura specifica si riferisce al desiderio di una risposta particolare alle proprie domande, risposta relazionata con una qualche proprietà dei suoi contenuti come elementi lusinghieri o desiderabili. Se il bisogno di chiusura non specifica promuove il congelamento epistemico, quello di chiusura specifica conduce al congelamento oppure allo scongelamento a seconda del fatto che la conoscenza corrente sia o meno congruente con i particolare desideri dell’individuo.

3. Il bisogno di evitare la chiusura non specifica ha a che fare con le situazioni nelle quali un giudizio non determinato, vago, è valutato o desiderato; quindi, considerando l’esito finale perseguito, è l’opposto del bisogno di chiusura non specifica. Nei casi in cui dare un giudizio errato può risultare costoso, la mancanza di chiusura può essere valutata positivamente e in questo senso il bisogno di evitare la chiusura può dare luogo ad un’intensa attività epistemica volta a mantenere aperto l’orizzonte delle possibili informazioni e generalmente promuove lo scongelamento epistemico.

4. Il bisogno di evitare la chiusura specifica è spesso dettato dal fatto che certe chiusure, certe risposte, possiedono caratteristiche non desiderabili per l’individuo. In certi casi conduce al congelamento epistemico, in altri allo scongelamento, sempre a seconda della situazione cercata dall’individuo rispetto a quella in cui egli si trova.

L’individuo parte da una premessa che unisce una data evidenza con date ipotesi e procede ad inferire l’ipotesi a partire dall’evidenza; naturalmente, una stessa evidenza può essere connessa con più ipotesi tra loro alternative.Le condizioni motivazionali sottostanti alla struttura, o schema, della conoscenza possono modificarla, accrescendo o diminuendo le possibilità di riconoscere l’eventuale inconsistenza della struttura stessa, che sarà così mantenuta o abbandonata. Gli individui validano le proprie ipotesi secondo una logica soggettiva, le cui premesse condizionali usate come base per le diverse conclusioni sono socialmente costruite.L’errore logico può trovare ordine e spiegazione nella cornice offerta dall’epistemologia ingenua. Il bisogno di chiusura cognitiva è quindi il desiderio di una conoscenza definita su qualche argomento, desiderio basato sulla percezione di vantaggi e svantaggi che possono derivare da una chiusura o dalla sua assenza in una determinata situazione (Pierro, 1995). La conoscenza può essere desiderata perché porta informazioni positive riguardo a un dato fatto, oppure perché porta una qualche informazione definita, in situazioni in cui una simile informazione è richiesta per un qualche proposito. Nel primo caso si attiverà un bisogno di chiusura specifica, che implica la desiderabilità di una risposta particolare a una domanda, nel secondo caso un bisogno di chiusura non specifica, che sottintende la desiderabilità di qualunque risposta purché definita.

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Un beneficio dovuto alla chiusura è rappresentato dall’abilità nel prendere una decisione o nell’agire in tempo per un certo scopo, per cui la mancanza di tempo farà aumentare il bisogno di chiusura; al contrario, si avrà una diminuzione del bisogno di chiusura nelle situazioni in cui il timore di mostrarsi non efficaci nel dare un giudizio farà apparire più attraente un’analisi più ampia delle informazioni a disposizione. Altre condizioni nelle quali il bisogno di chiusura si eleva sono dettate dalle difficoltà inerenti al trattamento delle informazioni, che diviene più pesante e quindi più costoso nel caso di uno stato affaticato dell’individuo o in un ambiente rumoroso. Il bisogno invece di evitare la chiusura può derivare dal divertimento o dall’interesse legati al compito, cioè da attività piacevoli che la chiusura porterebbe a finire. Infine, ci sono anche differenze individuali stabili, disposizionali, nel grado di valutazione della chiusura Per Pierro (1995) il bisogno di chiusura cognitiva non va considerato in termini di presenza/assenza quanto piuttosto in termini di un continuum che va da un estremo caratterizzato da impazienza cognitiva, impulsività, tendenza a prendere decisioni non giustificate, rigidità di pensiero e riluttanza a considerare soluzioni alternative ad un altro caratterizzato da esperienza soggettiva di incertezza, indisponibilità ad impegnarsi esplicitamente un’opinione definitiva, sospensione di giudizio, frequente proposta di soluzioni alternative. Il posizionamento lungo questo continuum dipende sia da caratteristiche individuali, disposizionali, sia da fattori situazionali quali il rumore ambientale, il tempo a disposizione, l’affaticamento mentale, la monotonia del compito (Webster, 1993).In generale, il bisogno di chiusura può provocare la tendenza all’urgenza e alla permanenza. La prima si riferisce all’inclinazione ad afferrare la chiusura velocemente; la seconda tendenza è relativa al desiderio di perpetuare la chiusura, seguendo la duplice istanza di preservare, o congelare, la conoscenza passata e di salvaguardare la conoscenza futura. Queste due tendenze si basano sull’assunto che per gli individui con alto bisogno di chiusura l’assenza di chiusura sia un dato negativo e si ripercuotono sull’elaborazione delle informazioni e, indirettamente, sui fenomeni sociali dei quali l’elaborazione delle informazioni è parte (Webster, Kruglanski, 1998). Gli individui con un alto bisogno di chiusura tendono a formulare i propri giudizi sulla base di suggerimenti provenienti da dati preesistenti piuttosto che su informazioni successive.Nelle persone con un elevato bisogno di chiusura esiste la preferenza disposizionale ad unirsi e associarsi con persone con mentalità simile, nonché il sentimento positivo nei confronti di che, nel gruppo, facilita il consenso. Gli individui in questione cercano di preservare le proprie credenze per il futuro. Per misurare la dimensione disposizionale del bisogno di chiusura cognitiva Webster e Kruglanski (1994) hanno costruito una scala del bisogno di chiusura cognitiva: NEED FOR CLOSURE SCALE, composta da 42 item. Si identificano 5 dimensioni principali: bisogno di ordine e di strutturazione, intolleranza all’ambiguità, decisionalità, bisogno di prevedibilità, chiusura mentale. Per alcuni autori gli atleti che praticano sport individuali presentano un bisogno di chiusura cognitiva più accentuato rispetto a chi pratica sport di squadra. Sembra che gli sport di squadra possiedono caratteristiche in sintonia con la forma mentis dei soggetti con basso bisogno di chiusura cognitiva più di quanto avvenga per gli sport individuali.Shah, Kruglanski e Thompson (1998) hanno trovato che il bisogno di chiusura cognitiva aumenta l’attrazione degli individui nei confronti del proprio gruppo o dei suoi membri in misura maggiore rispetto ad altri gruppi o ai loro membri, con un effetto di discriminazione in favore del proprio gruppo (ingroup). È emersa una relazione positiva fra il bisogno di chiusura cognitiva e:

Self estreme collettiva Similarità percepita nei confronti di un membro del proprio gruppo Accettazione da parte di un membro delle credenze e atteggiamenti dei componenti il

gruppo.

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Questo costrutto disposizionale può influenzare il tipo di relazioni che un soggetto sviluppa nei confronti di membri del proprio gruppo o di altri gruppi. Ma può anche succedere il contrario: una forte identificazione al proprio gruppo può aumentare un generale desiderio di chiusura cognitiva.

PROCESSI DI GRUPPO E COESIONE NELLA SQUADRA SPORTIVA

La squadra sportiva può essere definita un piccolo gruppo orientato al compito e alla prestazione, i cui membri sono interdipendenti, vogliono raggiungere un fine condiviso e sviluppano un’identità collettiva. Si può far riferimento ad una squadra come a un gruppo di persone che svolgono insieme delle attività per raggiungere un obiettivo comune (Giovannini, 1993). Interdipendenza, scopo comune e identità di gruppo si perseguono attraverso la divisione dei compiti (strutturazione orizzontale e distribuzione dei ruoli) e del potere (strutturazione verticale e gerarchia di status) e attraverso modalità di comportamento e comunicazione armonizzate.

LA COESIONE NEL PICCOLO GRUPPO E NELLA SQUADRAIl termine “coesione” ha origine dal latino “cohaesus”, participio passato di “cohaerere”, tra i cui significati c’è quello di essere unito, congiunto, strettamente legato, connesso. Lewin introduce nella letterature psicologica il concetto di “group cohesiveness”, distinguendo tra due categorie di processi di gruppo, quelli relativi al raggiungimento di scopi comuni e quelli riferiti allo sviluppo e al mantenimento del gruppo considerato nel suo insieme.Nell’ottica di Lewin, Festinger, Schachter e Back (1950) definiscono la coesione come il campo totale delle forze che agiscono sui membri per farli rimanere nel gruppo, individuando due componenti del campo di forze in azione: l’attrattiva del gruppo e la valenza positiva delle relazioni interpersonali al suo interno, e la capacità del gruppo di soddisfare i bisogni individuali dei membri. Gross e Martin suggeriscono una definizione alternativa della coesione, in termini di resistenza del gruppo alle forze disgreganti, di tendenza dei membri a restare insieme, uniti gli uni agli altri. Carron (1988) sostiene che per capire e poter studiare la coesione è necessario conoscere gli obiettivi del gruppo, nonché le ragioni della sua esistenza cui sono strettamente connessi il suo sviluppo e il suo mantenimento; “la coesione può essere vista come un processo dinamico che si riflette nella tendenza dei membri di un gruppo a stare insieme e rimanere uniti al fine di raggiungere i propri scopi e obiettivi”. Carron trova nella teoria dell’identità sociale di Tajfel e nella teoria della categorizzazione del sé di Turner due contributi essenziali. Widmeyer, Brawley e Carron (1985) propongono una classificazione delle variabili considerate importanti per lo sviluppo della coesione:

1. caratteristiche dei membri del gruppo, relative alle somiglianze di personalità, atteggiamenti, background sociale, prestazioni, al senso di responsabilità ed impegno verso il gruppo, alla tendenza all’apertura, alla soddisfazione per la dimensione sociale del gruppo e per la dimensione legata al compito, alla disponibilità a fare sacrifici personali per raggiungere lo scopo comune;

2. caratteristiche del gruppo, che comprendono la dimensione, la prossimità fisica e funzionale, le interazioni intergruppo, il consenso sulla gerarchia e sulla connotazione dei ruoli, la leadership democratica e centrata sul gruppo, la chiarezza e la condivisione degli scopi del gruppo e dei modi per raggiungerli, la struttura equa delle ricompense, l’atmosfera del gruppo, l’apprezzamento delle prestazioni dei membri da parte del leader, l’interdipendenza tra i ruoli, la chiarezza dei ruoli;

3. situazioni vissute dal gruppo, riferite a variabili quali la minaccia da parte di una forza esterna, la competizione intergruppi, un fallimento condiviso, il successo del gruppo.

De Nicolò, Movilla e Segalini (1994) suddividono i fattori che concorrono a determinare la coesione di gruppo in estrinseci (controllo sociale, dipendenza gerarchica o funzionale da entità più

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ampie, somiglianza socio-culturale tra i membri), socio-operativi (interesse per gli obiettivi comuni, forza attrattiva all’azione comune, spirito di gruppo, affinità interpersonali, soddisfazione individuale) e socio-emotivi (articolazione e distribuzione dei ruoli, leadership, impegno personale). Gli autori individuano anche quattro cause disgreganti: aggressioni interpersonali, abbandoni (defezioni), disorganizzazione, mancanza di senso di appartenenza. Widmeyer, Brawley e Carron (1985) individuano la seguente articolazione delle conseguenze della coesione:

1. conseguenze per i membri: aumento dell’autostima, del senso di sicurezza, della familiarità con gli altri membri, dell’accettazione e della fiducia reciproche, della soddisfazione, della lealtà e della conformità verso il gruppo, della capacità di resistere alle pressioni, dello sforzo per raggiungere gli obiettivi comuni, diminuzione dell’ansia, diminuzione della tendenza a sfruttare gli altri membri, diminuzione dell’assenteismo, diminuzione della resistenza al cambiamento.

2. conseguenze per il gruppo: aumento dell’interazione e della comunicazione intergruppo, della partecipazione, della coordinazione degli sforzi, della disponibilità a fare sacrifici per il gruppo, della persistenza dei compiti, della conformità, dell’accettazione degli scopi comuni, della chiarezza e dell’accettazione dei ruoli, del consenso sulla gerarchia e della connotazione dei ruoli, della stabilità, diminuzione del turn-over e mantenimento del sentimento di appartenenza.

3. conseguenze per i prodotti del gruppo, in particolare per la prestazione.Si nota come alcune variabili si ritrovano sia tra gli antecedenti sia tra le conseguenze della coesione perché, essendo la coesione un processo dinamico e non statico, è ragionevole considerare la continua interazione con le altre variabili che caratterizzano il gruppo. Nel caso della squadra sportiva è più corretto parlare di legami circolari tra le variabili piuttosto che cercare rapporti di causalità tra la coesione e le caratteristiche ad essa connesse, sia strutturali che procedurali. “Non può esserci qualcosa come un gruppo non coeso; è una contraddizione in termini. Se un gruppo esiste, è in qualche misura coeso.” Questa affermazione di Donnelly, Carron e Chelladurai (1978) vale anche per la squadra sportiva. L’importanza dei gruppetti aumenta nei momenti delicati e impegnativi come una gara importante o una fase di crisi interna, momenti questi in cui i sottogruppi si caratterizzano per un alto grado di unità interna e si distinguono chiaramente tra loro. La vicinanza fisica favorisce la coesione grazie ad una maggiore prossimità e ai frequenti scambi comunicativi. Anche la comunicazione, sia con l’esterno sia all’interno della squadra, incide sulla coesione. Nel primo caso si parla di permeabilità e si osserva un rapporto inverso con la coesione: una squadra isolata risulta più coesa (utilità del ritiro sportivo).Lo scambio di informazioni e le interazioni tra gli atleti di una stessa squadra sono in relazione diretta con la coesione. Inoltre, una divisione molto articolata dei ruoli, legati sia alla posizione sia alla persona, favorisce all’interno della squadra lo sviluppo della coesione. La coesione di un gruppo non è una caratteristica statica, bensì un processo dinamico, connesso alle relazioni interpersonali all’interno del gruppo. Mazzali (1995) intende la coesione in termini di forza di aggregazione tra i membri e sottolinea che questo concetto non esprime né staticità né omogeneità. In una squadra la coesione si manifesta attraverso diversi fattori affettivi, sociali e operativi.

Disponibilità sociale, intesa come disponibilità a dare senza ricevere e ad accettare gli altri per come sono.

Scopo comune, cioè confluenza delle energie verso il raggiungimento dell’obiettivo condiviso

Comunicazione, ossia possibilità di esprimersi liberamente, senza per questo offendersi reciprocamente.

Conoscenza, impegno per conoscere gli altri e disponibilità a farsi conoscere dagli altri, senza voler nascondere la propria personalità.

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Reciprocità nelle interazioni. Soddisfazione sia dei bisogni individuali sia degli obiettivi della squadra. Auto-governo, nel senso di capacità di stabilire regole interne e nei confronti

dell’avversario. Interdipendenza, basata sulla reciprocità delle interazioni. Esperienza comune, cioè condivisione di situazioni ed esperienze, indipendentemente dal

background socioculturale, disponibilità a soffrire e gioire assieme, perdere e vincere assieme.

Divertimento condiviso, durante la fatica fisica dell’allenamento, senza diminuire l’impegno.

Carron insiste sul fatto che la coesione si sviluppa e si articola lungo due dimensioni: il raggiungimento degli scopi e degli obiettivi comuni prefissati e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri sociali dei componenti. Del resto anche la definizione della coesione di Festinger prevede due tipi di forze in azione:

L’attrattività, data da relazioni soddisfacenti e appaganti, dall’attrazione interpersonale, dai legami di amicizia all’interno del gruppo;

Il controllo dei mezzi, degli scopi e obiettivi che si possono raggiungere grazie all’appartenenza al gruppo.

FATTORI LEGATI ALL’AMBIENTE

FATTORI LEGATI ALLA PERSONA

FATTORI LEGATI ALLA LEADERSHIP

FATTORI LEGATI ALLA SQUADRA

COESIONE RELATIVA AL COMPITOCOESIONE SOCIALE

RISULTATI DI GRUPPO

RISULTATI INDIVIDUALI

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Nello schema l’ambiente rappresenta la categoria più generale, remota e nel contempo meno importante, mentre la squadra è il fattore più specifico, diretto e rilevante. Per quanto riguarda l’ambiente Carron indica le responsabilità contrattuali e l’orientamento organizzativo: nel primo caso si tratta delle regole di appartenenza e/o trasferimento degli atleti e degli obblighi contrattuali di professionisti o dilettanti. Nella maggior parte dei casi gli atleti non possono entrare e uscire dalla squadra liberamente. Il secondo fattore ambientale si riferisce al fatto che le squadre sono diverse tra loro per scopi comuni, strategie, età, appartenenza di genere, anzianità degli atleti, e ciò contribuisce alla coesione sociale e a quella relativa al compito.Carron, poi, aggiunge al suo modello tre variabili ambientali:

1. le pressioni normative a livello sociale che spingono le persone che entrano a far parte di una squadra a non abbandonare gli impegni presi;

2. la vicinanza fisica nello spogliatoio e sul campo, che favoriscono la comunicazione, l’amicizia e la coesione;

3. la dimensione del gruppo, che incide sullo sviluppo della coesione.La seconda categoria di fattori che contribuiscono alla coesione nella squadra sportiva è riferita alle persone. Un dato di fatto è che i maschi sono più orientati alla competizione agonistica, per cui dovrebbero sviluppare un più alto grado di coesione relativa al compito, mentre tra le femmine dovrebbe essere più forte la coesione sociale. Per quanto riguarda la soddisfazione, Martens e Peterson (1971) sostengono che la coesione, prestazione e soddisfazione sono legate in modo circolare: la coesione favorisce la prestazione e il successo; il successo, a sua volta, produce soddisfazione individuale; quest’ultima, infine, aumenta la coesione. Riprendendo quanto esposto da Cartwright (1968) riguardo ai gruppi in genere, Williams e Hacker (1982) ipotizzano, invece, la direzione opposta della circolarità: la coesione contribuisce alla soddisfazione, la quale favorisce il successo nelle prestazioni da cui deriva, a sua volta, un aumento della coesione. La terza grande fonte di influenza deriva dalla leadership, dove per leader si intende soprattutto l’allenatore. I fattori più studiati sono il comportamento del leader, lo stile decisionale e relazionale, la relazione interpersonale tra allenatore e atleti e la relazione tra allenatore e squadra. L’ultima categoria di fattori che contribuiscono alla coesione riguarda specificatamente la squadra. Carron concentra l’attenzione su cinque fattori relativi alla squadra: successo e prestazioni, sia a breve che a lungo termine; condivisione di esperienze negative come insuccesso, frustrazione e minacce dall’esterno; comunicazione e scambio aperto di idee ed opinioni; permeabilità; struttura di gruppo della squadra. Per quanto riguarda il fenomeno della condivisione di esperienze negative, Turner ipotizza una spiegazione in termini di categorizzazione sociale e conformità forzata: quando le persone si sentono coinvolte e impegnate nei confronti del gruppo, un’esperienza negativa e la minaccia esterna possono aumentare la coesione, il senso di appartenenza e l’interiorizzazione delle regole. Le categorie citate non sono indipendenti tra di loro ma si collegano in una realtà complessa che può favorire la coesione nella squadra sportiva, grazie allo sviluppo tra gli atleti di un’identità, di una struttura, di obiettivi comuni e di motivazioni collettive. Tra le variabili out-put si ritrovano anche elementi visti come input, a riprova della natura circolare della relazione tra i diversi fattori in gioco. Per quanto riguarda la squadra, Carron prende in considerazione prestazioni, stabilità, interazione e comunicazione, deformazione dei giudizi a favore dell’in-group e sostiene che:

1. tra coesione e prestazione o successo c’è una relazione complessa;2. la stabilità di una squadra si può dedurre osservando il turn-over, l’assenteismo e la

puntualità degli atleti;3. interazione e comunicazione si trovano in relazione circolare con la coesione: se i membri di

una squadra hanno la possibilità di interagire e comunicare l’un con l’altro frequentemente, la squadra è più coesa, cosa che favorisce, a sua volta, interazione e comunicazione;

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4. la percezione che gli atleti hanno della propria squadra risente della coesione, la quale favorisce la tendenza all’auto-inganno e alla sopravvalutazione dell’in-group.

Per i singoli individui che compongono la squadra la coesione e la presenza di compagni che offrono supporto hanno un impatto, oltre che sulla prestazione, anche sugli stati psicologici (autostima, sentimenti di fiducia e sicurezza, apertura al cambiamento e riduzione dell’ansia), sulla chiarezza, l’accettazione e lo svolgimento dei ruoli, sul rispetto delle norme e sulla soddisfazione personale. Inoltre, la coesione sembra favorire l’assunzione di responsabilità da parte dei singoli e diminuire la tendenza ad attribuire agli altri, sia all’interno che all’esterno della squadra, gli insuccessi e i problemi. Il meccanismo di attribuzione diventa meno egocentrico.

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AMBIENTERESPONSABILITA’ CONTRATTUALI ORIENTAMENTO ORGANIZZATIVOPRESSIONI NORMATIVEDIMENSIONI

PERSONACARATTERISTICHE SOCIO-DEMOGRAFICHESODDISFAZIONE ORIENTAMENTI INDIVIDUALI

LEADERSHIPCOMPORTAMENTOSTILE DECISIONALERAPPORTO ALLENATORE – ATLETARAPPORTO ALLENATORE - SQUADRA

SQUADRAORIENTAMENTO DI GRUPPONORME DI PRODUTTIVITA’STABILITA’DESIDERIO DI SUCCESSO COLLETTIVOCAPACITA’ TECNICHENATURA DEL COMPITOSUCCESSO E PRESTAZIONECONDIVISIONE DI ESPERIENZE NEGATIVECOMUNICAZIONEPERMEABILITA’STRUTTURA

COESIONE RELATIVA AL COMPITOCOESIONE SOCIALE

RISULTATI DI GRUPPO: PRESTAZIONE STABILITA’ INTERAZIONE COMUNICAZIONE BIAS IN FAVORE

DELL’INGROUP

RISULTATI INDIVIDUALI PRESTAZIONE STATI PSICOLOGICI SODDISFAZIONE CHIAREZZA DEI RUOLI RISPETTO DELLE NORME ASSUNZIONE DI

RESPONSABILITA’

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Nella squadra sportiva la coesione è legata a filo doppio a quattro variabili: allenamento, spogliatoio, prestazione e allenatore.

ALLENAMENTO E SPOGLIATOIODurante gli allenamenti è l’allenatore a guidare la squadra e a decidere quali posizioni vanno a ricoprire i singoli atleti. Alla gerarchia per anzianità, personalità e capacità tecniche si affianca una sub-struttura caratterizzata da regole implicite, che determina le interazioni all’interno della squadra. Nello spogliatoio l’allenatore non è presente e pertanto viene a cadere la rete di interazioni sociali, i rapporti sono personali e basati sull’amicizia e sulla simpatia, anche se la gerarchia può esercitare delle influenze e possono osservarsi, talvolta, riti di iniziazione ed episodi di cosiddetto “nonnismo”. La sub-struttura dei rapporti interpersonali durante la gara rispecchia chiaramente, oltre alle posizioni e ai ruoli, simpatie e antipatie; da qui deriva la sub-struttura percettiva, ossia l’intesa dei compagni che si trovano vicini in campo, che è alla base del pensiero collettivo di squadra. Infatti, la vittoria in partita non dipende da un singolo giocatore ma da un collettivo con una buona intesa, dal momento che non si sprecano energie e i movimenti sono coordinati e reciproci. Mazzali (1995) indica alcuni ruoli che non sono ufficiali ma che si delineano all’interno della squadra, come il leader occulto che non si riferisce all’allenatore ma agli atleti stessi. Spesso il ruolo del leader è svolto dal capitano e/o dai veterani della squadra. Esistono poi altri ruoli: il vice, il mistico, il gregario, l’outsider, il sindacalista, il capro espiatorio, il buffone, il “leader impostore”. Quest’ultimo è la persona che cerca il potere personale all’interno della squadra per appagare un bisogno represso e morboso di affermazione. Per raggiungere i propri scopi il leader impostore semina zizzania, manipola i compagni e situazioni e non esita a sacrificare la squadra considerata nel suo insieme come gruppo.Questi ruoli sono intesi come tipi ideali, classificazioni che si incontrano e si addicono in misura maggiore o minore ai componenti di una squadra. Un singolo atleta può anche mettere in atto comportamenti tipici di ruoli diversi e i vari ruoli possono essere svolti da più persone.

PRESTAZIONELa prestazione della squadra è il risultato misurabile del modo in cui gli atleti lavorano insieme.Widmeyer, Carron e Brawley (1993) suggeriscono di condurre un’analisi a partire da tre livelli gerarchici:

esiste una relazione tra coesione e prestazione nello sport ? quando e a quali condizioni si verificano e s’intensificano la relazione tra coesione e

prestazioni ? come si spiega il fatto che in alcuni casi coesione e prestazione sono in relazione e in altri

casi no ?Questi autori portano a riprova dell’esistenza del legame tra coesione e prestazione una lista di 30 ricerche sull’argomento, 24 delle quali individuano una relazione positiva, 5 una relazione negativa e solo 1 non rileva alcun legame. Meding (1989) fornisce un elenco di ricerche sull’argomento e trova che 21 su 27, pari ad oltre il 75%, sono a favore della relazione positiva. Queste ricerche considerano la prestazione quanto il risultato o successo agonistico, che dipende anche da altre variabili. Landers e Luschen (1974) riprendono la distinzione di Steiner tra compiti divisibili e unitari e sostengono che il legame tra coesione e prestazione dipende dal tipo di compito. Nel caso di compiti unitari non c’è alcuna forma di divisione del lavoro e l’assenza di interdipendenza tra gli atleti può portare ad un aumento della competizione interna che si ripercuote positivamente sulle singole prestazioni individuali, cioè sulla prestazione collettiva. Nelle discipline che prevedono la divisione dei compiti, come il calcio, la competizione interna e la mancanza di coesione sono in relazione inversa con la prestazione.

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In accordo con questo punto di vista, alcuni autori (Carron, Chelladurai, Widmeyer, Williams) affermano che nelle discipline interattive (caratterizzate da compiti divisibili) coesione e successo sono in relazione più stretta rispetto alle discipline coattive (caratterizzate invece da compiti unitari). Guiccardi, Staffa e Meleddu (2001) indicano sia il tipo di compito sia la struttura del gruppo; “che il successo agonistico migliori la coesione del gruppo è risaputo da tutti gli allenatori. Allo stesso modo è noto che un buon spogliatoio è fondamentale per ottenere prestazioni superiori”.

Anche per la coesione nello sport è importante disporre di una misura accurata. Il primo strumento messo a punto è stato lo SPORT COHESIVNESS QUESTIONNAIRE (SCQ) di Martens, Landers e Loy (1972). Si tratta di un questionario formato da sette item, relativi a tre dimensioni della coesione:

1. la relazione tra l’individuo e gli altri atleti della squadra;2. le relazioni tra l’individuo e la squadra considerata nel suo complesso;3. la valutazione della squadra.

Questo strumento, nonostante il largo impiego, ha un grosso limite: le sue proprietà psicometriche non sono state provate; non ci sono test che ne documentino la consistenza interna, l’attendibilità e la validità. Yukelson, Weinberg e Jackson (1984) svilupparono il MULTIDIMENSIONAL SPORT COHESION INSTRUMENT (MASCI) partendo all’idea che la coesione faccia riferimento a fattori collegati sia al raggiungimento degli obiettivi comuni sia al mantenimento di buoni rapporti interpersonali. I 41 item iniziali, legati al compito e alle relazioni intergruppo, derivano da altri strumenti per misurare la coesione, da definizioni teoriche della coesione, da ricerche pertinenti nell’ambito della psicologia industriale. Il loro è un approccio multidimensionale alla coesione nello sport e identificano 4 fattori della coesione:

1. qualità del lavoro di gruppo, concernente il livello di collaborazione tra i membri della squadra;

2. attrazione verso il gruppo, in riferimento al grado in cui l’appartenenza alla squadra soddisfa gli individui;

3. unità di propositi;4. apprezzamento dei ruoli.

Widmeyer, Brawley e Carron (1985) svilupparono il GROUP ENVIRONMENT QUESTIONNAIRE (GEQ), individuando tre punti essenziali:

1. la necessità di operare una distinzione tra l’individuo e il gruppo;2. la necessità di distinguere tra le questioni relative allo svolgimento del compito e le

questioni relative ai rapporti sociali;3. le percezioni dei membri del gruppo.

Greve, Whelan e Meyers (2000) precisano che la coesione sociale riflette la desiderabilità sociale dell’appartenenza al gruppo, mentre la coesione relativa al compito è riferita al ruolo strumentale che la partecipazione alle attività del gruppo svolge nel raggiungimento di un obiettivo.

IL RUOLO DELL’ALLENATORE

L’allenatore è il leader istituzionale della squadra sportiva. La sua funzione principale è certo quella di riconoscere e utilizzare tutte le risorse a disposizione e usare saggiamente il tempo per portare gli atleti ai massimi livelli di prestazione. Quest’ultima è il risultato di una serie complessa di fattori interagenti tra loro quali l’abilità tecnica e le caratteristiche fisiche e psicologiche degli atleti, il contesto nel quale si svolge la gara, il rapporto atleti – allenatore, l’equilibrio emozionale che questo rapporto genera nel singolo atleta, nella squadra e nell’allenatore.

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Antonelli e Salvini (1987) affermano che l’allenatore deve darsi una serie di obiettivi generali, il cui raggiungimento richiede da parte sua non solo doti organizzative e competenza tecnica, ma anche requisiti di personalità. L’allenatore può scegliere uno o più tra i seguenti obiettivi:

sviluppare gli atleti sul piano fisico, tecnico, psicologico e sociale; soddisfare i loro bisogni; formare atleti con mentalità vincente; vincere; rendere piacevole e divertente sia il momento dell’allenamento sia quello della gara; creare e gestire il gruppo in quanto squadra.

Stabiliti gli obiettivi da perseguire, l’allenatore dovrebbe individuare: gli strumenti adatti per raggiungerli (ad esempio, modalità di insegnamento, tecniche di

allenamento, gesti e movimenti dimostrativi, sostegno alla motivazione); la tipologia delle risorse umane disponibili per intraprendere le attività orientate agli

obiettivi (l’atleta, la squadra, se stesso nelle varie funzioni che assume); le strategie più idonee per evitare gli ostacoli insiti nel contesto entro il quale opera.

Allenare significa assumere contemporaneamente le funzioni di educatore/formatore, di tecnico/organizzatore e di leader; la capacità di passare da una funzione all’altra scegliendo di volta in volta il ruolo più adatto determina il patrimonio professionale più prezioso per l’allenatore.

COMPITI DELL’ALLENATOREIn quanto educatore l’allenatore ha il compito di formare atleti maturi fisicamente e psicologicamente, il più completi sul piano tecnico. In ogni seduta di allenamento egli cercherà di sviluppare e migliorare le abilità cognitive coinvolte nel processo di elaborazione dell’informazione (percezione, memoria e attenzione), di selezione della risposta (il gesto che diventa azione automatica) e di automatizzazione (liberare la mente dal controllo del gesto per indirizzarla verso l’analisi della situazione). La funzione di “docente” è quindi la caratteristica più importante del ruolo dell’allenatore.Egli favorisce l’acquisizione di abilità quali l’attenzione verso il proprio corpo e verso l’esterno, l’analisi e la valutazione della situazione, la selezione, la decisione sul gesto tattico da adottare.Per un allenatore è importante che gli atleti conoscano bene la tecnica e poiché non può gareggiare al posto loro, egli deve preparare sia il singolo sia la squadra a prendere proprie decisioni usando proprie valutazioni. La mancanza di autonomia è sempre un dato negativo. Un allenatore interverrà, pertanto, per ridurre qualsiasi forma di dipendenza per portare gli atleti a pensare oltre che ad agire da soli. Se resi più autonomi gli atleti sono maggiormente in grado di riconoscere e controllare i sintomi generatori dello stress. Fra i compiti dell’allenatore vi è quello di occuparsi della motivazione, intesa come molla soggettiva delle pulsioni. Senza motivazione non vi è apprendimento e non vi è neppure partecipazione. Per tenere alta la motivazione occorre indicare per ogni allenamento le mete da raggiungere, variare spesso gli allenamenti e gli esercizi in uno stesso allenamento, creare brevi momenti di competizione, non dilungarsi in spiegazioni monotone, far si che ogni atleta migliori, provando piacere, non rimproverare duramente gli atleti o esprimere valutazioni negative per gli errori commessi, sottolineare gli elementi positivi e far leva su questi. È utile e necessario un accordo allenatore – atleta all’inizio di ogni stagione sportiva: l’allenatore si informa circa gli obiettivi di ogni atleta e a sua volta espone le proprie aspettative nei suoi confronti, costruendo così insieme un “patto” condiviso sugli obiettivi.

OBIETTIVI E RESPONSABILITA’L’allenatore definisce una serie di obiettivi a lungo, medio e breve termine per la squadra e per ogni atleta. Egli predispone una sequenza temporale degli obiettivi a breve termine da raggiungere nei singoli allenamenti, con la consapevolezza che difficoltà contingenti, quali ad esempio malattie o infortuni, possono costringerlo a modificare quanto previsto.

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Programma inoltre l’acquisizione e l’affinamento dei gesti tecnici, dei fondamentali di squadra e degli schemi tattici, studia la preparazione di ogni atleta e predispone allenamenti individualizzati rispettando le caratteristiche metaboliche, costituzionali, cardio-circolatori e respiratori dei singoli. Inoltre, decide la formazione da schierare in campo, le posizioni che i singoli atleti ricoprono, nonché le sanzioni da applicare nei confronti di chi non rispetta le regole. Peterson, Bauer e Tiburzio (1987) riassumono in nove punti le responsabilità dell’allenatore:

1. sviluppare il senso di appartenenza, attraverso l’utilizzo del pronome “noi”;2. fissare obiettivi comuni, chiari, realistici e condivisi;3. definire per ogni atleta un ruolo e specificarne mansioni e responsabilità, al fine di

consentirgli di fare riferimento ad un codice di comportamento;4. utilizzare il rinforzo positivo ed evitare punizioni e sanzioni che aumentano inutilmente la

paura dell’errore: esse riducono la motivazione, l’autostima e la possibilità di apprendimento, incutono timore e portano al rifiuto dell’allenatore;

5. favorire la partecipazione;6. trattare tutti allo stesso modo senza favoritismi;7. premiare i comportamenti altruistici e i “sacrifici”;8. smorzare i comportamenti individualistici;9. promuovere occasioni per stare insieme anche al di là di allenamenti e gare.

Da questo si evince l’esigenza di possedere sul piano relazionale e comunicativo un set di abilità e di competenze indispensabili per svolgere adeguatamente il ruolo di allenatore. L’uso adeguato dei ruoli comunicativi in funzione degli obiettivi che si intende raggiungere è indispensabile. L’allenatore deve utilizzare la psicologia dello sport nello svolgimento del proprio ruolo (Brewer, 2000).

LEADERSHIP E POTERECiò che caratterizza veramente il leader è il fatto di poter influenzare gli altri membri del gruppo più di quanto essi possano essere influenzati. I membri del gruppo hanno quantità di potere e prestigio diversi che danno origine a gerarchie di status nella maggior parte dei casi. Queste differenziazioni di status sono strettamente connesse ai processi di confronto sociale attraverso il quale i membri possono valutare le loro capacità; tali confronti concorrono a influenzare non solo le reciproche auto ed etero-percezioni, ma anche i comportamenti effettivamente messi in atto. I rapporti di dominanza – sottomissione vanno considerati come uno degli aspetti strutturali della vita di gruppo. French e Raven (1959) considerano il potere sociale in termini di influenza esercitata da un agente sociale X su una persona Y che la riconosce come tale. Il potere di X su Y può derivare da diverse fonti o basi e può essere più o meno diffuso o circoscritto a determinate aree. Solitamente un rapporto di potere poggia su più basi:

il potere di ricompensa: X può influenzare Y perché è in grado di promettergli ricompense materiali e/o simboliche;

il potere coercitivo: la capacità di influenza di X deriva dalla sua possibilità, riconosciuta da Y, di infliggere sanzioni o negare ricompense;

il potere legittimo: ad X è conferito potere perché Y ha interiorizzato dei valori che affermano che X ha un diritto legittimo di influenzare Y;

il potere di esempio o di riferimento: Y si sente o vorrebbe essere simile a X, di conseguenza modifica i propri atteggiamenti e comportamenti e anche le proprie convinzioni per assomigliare a X. Y può anche non essere consapevole dell’influenza esercitata da X.

Il potere dell’esperto o di competenza: Y è soggetto all’influenza di X perché lo ritiene competente ed esperto.

Emerson (1962) definisce il potere collegandolo al concetto di dipendenza e afferma che alla base delle relazioni di potere-dipendenza c’è uno scambio sbilanciato o asimmetrico di risorse. Il potere di X su Y è uguale alla dipendenza di Y da X, e questo potere aumenta quando Y:

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Non può offrire in cambio nessuna risorsa interessante per X; Non ha fonti alternative per procurarsi la risorsa che X è in grado di offrire; Non dispone di alcun potere coercitivo; La risorsa gli è indispensabile.

Per Turner (1991) il leader è colui che, nel gruppo, esercita maggiore influenza, mostrando più iniziativa, occupando una posizione più alta nella gerarchia e più centrale nella rete di comunicazione del gruppo.Le più recenti concettualizzazioni considerano il potere e l’influenza come processi alternativi di modificazione del comportamento degli individui.

LA LEADERSHIPHersey e Blanchard (1988) definiscono la leadership come “quel processo volta ad influenzare le attività di un individuo o di un gruppo che si impegna per il conseguimento di obiettivi in una determinata situazione”. Per Becciu e Colasanti (1997) si possono individuare tre fasi (non da intendersi strettamente in senso cronologico) di studio del fenomeno della leadership. Una prima fase centrata sui tratti di personalità e sugli stili; una seconda fase di studi che si sviluppa in seguito all’incapacità delle teorie centrate sul leader di spiegare determinate variabili soprattutto ambientali; infine la fase dei modelli transazionali nella quale sono presi unitamente in considerazione gli elementi centrali delle due fasi precedenti, cioè leader, gruppo e contesto.Anche Trentini (1997) individua tre grandi scuole di pensiero: un approccio basato sui tratti di personalità, uno basato sugli stili e uno basato sulla contingenza (orientamenti funzionalisti). Stogdill (1974) analizza oltre 150 ricerche sull’argomento scoprendo che anche i tratti più ricorrenti, come l’intelligenza, la sicurezza di sé o la socievolezza, non riescono a dare ragione della leadership. I tratti più tipici di un leader sono infatti altri, ad esempio la propensione alla responsabilità, la tendenza a prendere l’iniziativa, la capacità di assorbire lo stress e di tollerare la frustrazione, l’abilità nell’influenzare gli altri, la fiducia in se stesso, l’originalità nell’affrontare i problemi, la tenacia nel perseguire gli obiettivi.Hollander (1985) sostiene che tutte le definizioni riconoscono l’implicazione di un processo di influenza tra leader e seguaci, ma non individuano un insieme di tratti di personalità che differenzia il leader dagli altri. L’idea del “grande uomo” e del “leader naturale” appaiono teorie molto suggestive ma inadeguate a spiegare la leadership.Per Bales e Slater (1955) due sono le funzioni essenziali per il leader: quella di assicurare un clima armonioso mostrando considerazione nei confronti dei membri (leader socio-emozionale) e quella di realizzare il compito assegnato al gruppo focalizzando l’attenzione sulle idee migliori e organizzando il lavoro di gruppo (leader centrato sul compito). Lewin, Lippitt e White (1939) hanno individuato tre stili di leadership:

1. Stile autoritario: il leader esercita un alto grado di controllo sui membri del gruppo ed è facile che in questa situazione si crei aggressività, manifestata direttamente o repressa attraverso una passiva sottomissione, verso il responsabile del gruppo e verso i membri in assenza momentanea del leader; di fronte alle difficoltà il gruppo tende alla disgregazione; generalmente, la produttività migliora, ma a scapito della soddisfazione dei membri che si trovano in una condizione di massimo ordine, minima libertà e minima interazione amichevole;

2. Stile democratico: il gruppo è condotto in modo partecipativo e responsabilizzante; in questa situazione, l’amicizia è forte e in caso di difficoltà il gruppo “serra i ranghi”; l’impegno è elevato anche in assenza del responsabile e la produttività, pur non essendo massima, è costante e di buona qualità; l’ordine non è particolarmente elevato, ma l’interazione tra i membri è massima;

3. Stile laissez-faire: il leader si disinteressa dei componenti del gruppo, che spesso ovviano a questa situazione creando e lasciando che emergano tra loro leader spontanei che si sostituiscano a quello ufficiale; la produttività del gruppo è scarsa sia da un punto di vista

Page 30: Riassunti Psicologia Sociale Dello Sport

quantitativo sia qualitativo e in pratica in questa condizione si rilevano tutti gli aspetti negativi delle altre due condizioni.

L’approccio situazionista sostiene che i comportamenti del leader vengono determinati dal compito e dal contesto in cui si svolgono le attività. Per Scilligo (1973) la leadership è “una funzione delle condizioni in cui si trova il gruppo, come pure dei valori e degli atteggiamenti che caratterizzano i membri del gruppo. Quello che viene messo in rilievo non sono i tratti di personalità, ma il tipo di attività richiesto dal gruppo per raggiungere i suoi scopi e il modo col quale i membri del gruppo partecipano alle attività dirette al raggiungimento delle mete del gruppo”.La leadership è considerata efficace non per le caratteristiche del leader, ma per la situazione specifica in cui il gruppo e il leader si trovano. Non esiste il leader ottimale in assoluto, dal momento che egli caratterizzerà il suo stile diversamente a seconda della specifica situazione. Il modello della contingenza proposto da Fiedler (1964) recita che l’efficienza del gruppo dipende da un’integrazione ottimale tra situazione nella quale il gruppo si trova e stile della leadership. L’idea di base è interazionista, secondo la quale l’efficacia della leadership è legata alla corrispondenza fra stile del leader e il suo controllo della situazione. Secondo Fiedler esistono due stili di leader, quello orientato al compito, che ha come scopo principale il raggiungimento degli obiettivi del gruppo, e quello orientato alla relazione, che si preoccupa soprattutto di mantenere buone relazioni all’interno del gruppo. L’efficacia dei due tipi di leadership varia di tre fattori situazionali: l’atmosfera del gruppo o qualità dei rapporti tra il leader e i membri, il livello di strutturazione del compito e il potere del leader. La leadership orientata verso il compito è più efficace in situazioni molto favorevoli o sfavorevoli per il leader, mentre la leadership socio-emozionale è più adatta in situazioni intermedie. Quando il leader è benvoluto dal gruppo, non viene messa in discussione la sua autorità e il compito è ben definito, egli non deve preoccuparsi del morale e può concentrarsi sul compito. All’estremo opposto, quando il leader non è ben accettato, dispone di poco potere e il compito è ambiguo, egli non è in grado di intervenire sul morale ma forse può limitare i problemi legati al compito dedicando ad esso la propria attenzione. Nelle situazioni intermedie, invece, l’orientamento socio-emozionale può aumentare la motivazione del gruppo e, con essa, la produttività. Il successo dell’uno o dell’altro stile dipende dunque dalla situazione: se il leader ha basso o elevato controllo situazionale sarà più efficace lo stile orientato al compito, se ha incerto controllo situazionale avrà maggiore gioco quello orientato alla relazione.Hollander propone una teoria basata sui modelli transazionali. In essi la leadership si costituisce sul principio “massimo guadagno con il minimo costo” adottato da ciascun membro del gruppo (Gergen e Gergen 1986)

SODDISFAZIONE E PRODUTTIVITA’Sono da considerare VARIABILI STRUTTURALI, come le abilità e caratteristiche di personalità dei singoli atleti, le gerarchie di status esistenti, le reti di comunicazione, la grandezza del gruppo degli atleti e della squadra, il livello di omogeneità o eterogeneità che li caratterizza. Un secondo gruppo di variabili è costituito dalle CARATTERISTICHE DEL COMPITO che i singoli o il gruppo si trovano ad affrontare. Inoltre, vi sono VARIABILI AMBIENTALI o contestuali; appartengono a questa categoria le caratteristiche dell’ambiente fisico in cui si svolgono le attività, la posizione dei singoli e della squadra dentro l’organizzazione di appartenenza e le relazioni con altri atleti e altri gruppi. Questi tre gruppi di variabili influiscono sui risultati della prestazione attraverso una classe di variabili intermedie rappresentate dagli stili di leadership dell’allenatore, dalla variazione delle norme di gruppo, dai livelli di motivazione al compito dei singoli e del gruppo, dalla coesione, dalla distribuzione delle informazioni, dai canali di comunicazione utilizzati, dalla partecipazione. Tutte questi elementi di solito non possono essere considerati indipendentemente gli uni dagli altri, ma interdipendenti.

Page 31: Riassunti Psicologia Sociale Dello Sport

Variabili strutturali Variabili relative Variabili ambientali al compito

Processi emergenti

Risultati

Abilità e caratteristiche di personalità dei singoli atleti

Gerarchie di status esistenti

Reti di comunicazione

Grandezza del gruppo e della squadra

Omogeneità o eterogeneità degli atleti

Tipo di compito Difficoltà del compito

(in allenamento o in gara)

Esigenze della situazione

Tempo disponibile per allenarsi

Caratteristiche dell’ambiente fisico

Posizione dei singoli e della squadra dentro l’organizzazione

Relazioni con altri atleti o altri gruppi

Stili di leadership dell’allenatore Variazione delle norme di gruppo Livelli di motivazione al compito Coesione Distribuzione delle informazioni Livelli di partecipazione

PRODUTTIVITA’SODDISFAZIONE

Page 32: Riassunti Psicologia Sociale Dello Sport

LA LEADERSHIP IN CAMPO SPORTIVOSecondo Haroux (1953) all’allenatore spetta il ruolo di leader, assieme a quello di tecnico, educatore e organizzatore-animatore. L’allenatore deve essere il centro di unità e coesione per il gruppo, rappresentare un modello, creare uno stato d’animo sereno, assumendosi il peso della responsabilità; occuparsi delle funzioni esecutive decidendo programma, sua attuazione e sua esecuzione, rappresentare il gruppo, e tenere sotto controllo le relazioni interpersonali dei membri. Secondo Ulatowski (1979), l’allenatore deve:

1. preparare la lezione in modo da tenere vivo l’interesse degli atleti;2. insegnare agli atleti le condizioni di lavoro che permettono di ottenere risultati ottimali;3. permettere all’atleta diventato esperto di partecipare alla pianificazione dell’allenamento;4. indicare agli atleti come risolvere da soli i problemi relativi alla pratica sportiva;5. controllare che la seduta di allenamento sia sempre interessante;6. mostrare che il controllo del lavoro non costituisce solo un mezzo di valutazione, ma anche

un’utile base di lavoro per una migliore pianificazione del futuro.Per analizzare i rapporti interni fra allenatore e atleti Chelladurai (1978) ha messo a punto un modello multidimensionale per lo studio della leadership dell’allenatore nel contesto sportivo. L’autore indica come conseguenze del comportamento del leader sia la prestazione della squadra sia la soddisfazione degli atleti. Chelladurai prende in considerazione, ad un tempo, le caratteristiche situazionali, i tratti personali e il comportamento del leader.

ANTECEDENTI COMPORTAMENTO CONSEGUENZE DEL LEADER

CARATTERISTICHE SITUAZIONALI

CARATTERISTICHE DEL LEADER

CARATTERISTICHE DEGLI ATLETI

COMPORTAMENTO RICHIESTO

COMPORTAMENTO EFFETTIVO

COMPORTAMENTO PREFERITO

PRESTAZIONESODDISFAZIONE

Page 33: Riassunti Psicologia Sociale Dello Sport

Il comportamento dell’allenatore si trova in stretto rapporto con la prestazione e la soddisfazione. Anche se il modello parla di antecedenti e conseguenze, le frecce che collegano il comportamento dell’allenatore con la prestazione e la soddisfazione sono bidirezionali, a riprova dell’influenza reciproca tra le variabili. Il comportamento dell’allenatore, in quanto leader della squadra, gli stili decisionali che utilizza, le caratteristiche della situazione e degli atleti determinano anche il rapporto dell’allenatore con la squadra considerata nel suo insieme e con i singoli atleti. Secondo Chelladurai e Carron (1981), questo comportamento si può meglio definire facendo riferimento a cinque dimensioni o stili principali:

allenamento e istruzione: il comportamento dell’allenatore mira al miglioramento delle prestazioni puntando sull’allenamento, fornendo istruzioni sulle abilità, sulle tecniche e sulle strategie tattiche, chiarendo i ruoli all’interno della squadra e strutturando e organizzando le attività degli atleti;

comportamento democratico: l’allenatore prevede e permette la partecipazione degli atleti alle decisioni relative agli scopi comuni, ai metodi per raggiungerli, alle strategie e alle tecniche di gioco;

comportamento autocratico: l’allenatore agisce in maniera indipendente, prende decisioni autonome e sottolinea la propria autorità personale;

sostegno sociale: l’allenatore si preoccupa del benessere degli atleti presi individualmente, del clima di gruppo e intrattiene relazioni interpersonali amichevoli con gli atleti;

feed-back positivo: l’allenatore ricompensa e rassicura gli atleti attraverso il riconoscimento e la conferma delle loro prestazioni.

Chelladurai e Haggerty (1978) collocando lo stile decisionale dell’allenatore lungo un continuum che va dall’assenza di partecipazione (stile autocratico) alla delega delle decisioni ad uno o più atleti (stile delegante). Tra questi estremi trovano posto lo stile consultivo, che prevede che l’allenatore senta l’opinione degli atleti e poi decida autonomamente, e lo stile di gruppo, in cui le decisioni sono prese dall’allenatore insieme ad un numero variabile di atleti. Un allenatore può adottare di volta in volta comportamenti e stile decisionale ritenuti più adeguati.Chelladurai e Saleh (1978, 1980) hanno sviluppato un questionario specifico per lo sport (la LEADERSHIP SCALE FOR SPORT – LSS), composta di cinque gruppi di item relativi al comportamento dell’allenatore: allenamento e istruzioni, gli stili decisionali autocratico e democratico, infine le due tendenze motivazionali al supporto sociale e al feed-back positivo.Chelladurai e Carron (1983) sostengono che con l’aumento dell’età e/o dell’esperienza maturata, gli atleti apprezzano maggiormente il sostegno sociale e il comportamento autocratico dell’allenatore. Per quanto riguarda il genere, Chelladurai e Saleh (1978) giungono alla conclusione che gli atleti maschi preferiscono un allenatore con uno stile comportamentale autocratico e cercano nel loro allenatore più supporto sociale rispetto alle femmine che invece prediligono un allenatore democratico. Anche la disciplina sportiva, o il tipo di sport, influisce sulle preferenze degli atleti. Terry e Howe (1984) hanno riscontrato che gli atleti praticanti sport che richiedono un’interazione diretta tra i membri del gruppo sportivo prediligono un allenatore autocratico, mentre negli sport che non prevedono interdipendenza diretta tra gli atleti è più marcata la preferenza per un allenatore democratico. Sia le caratteristiche degli atleti sia i fattori situazionali incidono sulle preferenze degli atleti per il comportamento del loro allenatore e sull’efficienza di quest’ultimo.Il comportamento dell’allenatore è giudicato soddisfacente quando l’atleta o gli atleti lo considerano adatto alla situazione e alle proprie esigenze individuali (Wurth, 1999). Le discrepanze nella valutazione degli atleti e degli allenatori sembrano più marcate nel caso di allenatori maschi (Salminen, Liukkonen, 1996). Horne e Carron (1985) hanno dimostrato che quanto più il comportamento dell’allenatore supera le aspettative degli atleti per quanto riguarda le istruzioni, il sostegno sociale e il feed-back positivo, tanto più questi ultimi saranno contenti dello stile di leadership adottato dal coach.

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Smoll e Smith (1989) analizzano i processi cognitivi e affettivi che intercorrono tra il comportamento dell’allenatore e la reazione dell’atleta.

1. Fattori situazionali: disciplina sportiva, livello agonistico o contesto (allenamento VS gara), successi o insuccessi antecedenti, rendimento, attrattività di gruppo.

2. Variabili individualia. Dell’allenatore: obiettivi, intenzioni comportamentali, strumenti usati in base alla

probabilità percepita di ottenere un dato risultato e al valore ad esso attribuito, percezione delle norme di allenamento e concezione del proprio ruolo, inferenze sulle motivazioni degli atleti, livello di auto-monitoraggio, genere;

VARIABILI INDIVIDUALI DELL’ALLENATORE

VARIABILI INDIVIDUALI DELL’ATLETA

COMPORTAMENTO DELL’ALLENATORE

PERCEZIONI E RICORDI DELL’ATLETA

REAZIONE VALUTATIVA DELL’ATLETA

PERCEZIONI DELL’ALLENATORE IN MERITO ALLE ATTITUDINI DELL’ATLETA

FATTORI SITUAZIONALI

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b. Dell’atleta: età, genere, percezione delle norme di allenamento, valenza attribuita al comportamento dell’allenatore, motivazione al successo in ambito sportivo, ansia da competizione, autostima generica e relativa all’aspetto strettamente sportivo.

3. Percezione dell’allenatore in merito alle attitudini degli atleti.

In una ricerca Dell’Anna (1990) ha riscontrato che i giocatori considerano un buon allenatore colui che li capisce nei momenti di difficoltà, che è astuto in gara, che favorisce l’affiatamento all’interno della squadra, che fa sentire importanti tutti i giocatori, che dialoga con loro, che tiene unito lo spogliatoio, che pretende il massimo da ognuno e carica gli atleti prima della partita. Il profilo dell’allenatore ideale fa riferimento a una persona che è vicina al giocatore dal punto di vista umano e che si caratterizza sostanzialmente come leader democratico.Merlo (1988), nella sua ricerca sul bisogno di chiusura in ambito sportivo, ha rilevato che gli allenatori considerano caratteristiche comportamentali importanti per lo svolgimento del proprio lavoro: favorire l’affiatamento tra gli atleti, stabilire norme di comportamento, sostenere la motivazione, far acquistare abilità, far rispettare le regole morali e insegnare le tecniche e le tattiche di gioco. La sfera socio-affettiva è ritenuta più importante rispetto all’aspetto strettamente tecnico. La maggiore difficoltà che un coach incontra, a detta degli allenatori intervistati da Merlo, sono i problemi scolastici, di lavoro o familiari degli atleti, l’intervento dei genitori, la gestione degli atleti che credono di non avere più bisogno di direttive, il reclutamento dei giovani, la difficoltà a formare il gruppo a causa di elementi che pensano solo a se stessi, l’assenteismo durante gli allenamenti e la gestione degli atleti con un carattere “forte”. Per quanto riguarda i comportamenti scelti per definire un buon allenatore, gli allenatori intervistati da Merlo indicano al primo posto la capacità di sfruttare le abilità psicologiche e tecniche degli atleti; al secondo posto ex equo la capacità di fare sentire importanti tutti gli atleti, di caricarli prima della gara, di dialogare con loro, di pretendere il massimo da loro e di favorire l’affiatamento. Tutte le risposte si riferiscono alla sfera socio-emozionale della leadership dell’allenatore. Per chi pratica uno sport individuale sono importanti soprattutto la comprensione da parte dell’allenatore, la varietà degli allenamenti e l’affiatamento, mentre per chi gioca in una squadra sono centrali l’affiatamento, la carica data dall’allenatore prima della partita, la sicurezza e l’astuzia con cui egli guida il gruppo durante le gare. Gardner e al. (1996) evidenziano la relazione tra coesione e percezione del comportamento dell’allenatore; in particolare, gli allenatori che ottengono punteggi alti sulle dimensioni dell’allenamento e delle istruzioni, del comportamento democratico, del sostegno sociale e del feed-back positivo e punteggi bassi per il comportamento autocratico, si trovano ad allenare giocatori che ritengono coesa la propria squadra. Per Dell’Anna ciò che serve ai ragazzi è un allenatore che adatti sì i propri comportamenti e il proprio stile di leadership alla situazione, ma mantenga con gli atleti un rapporto interpersonale improntato sulle competenze e le abilità che vuole loro trasmettere.

ADOLESCENZA E AGONISMO SPORTIVOPalmonari (1997) intende l’adolescenza come quel periodo di vita che si situa tra la fanciullezza e la cosiddetta età adulta, periodo caratterizzato da cambiamenti radicali per quanto riguarda il corpo, la mente, nonché i comportamenti; tali cambiamenti sono estremamente rilevanti perché riguardano rispettivamente la maturazione biologica, lo sviluppo cognitivo, i rapporti con gli altri e i valori sociali.Speltini (1997) sottolinea che con pubertà e adolescenza si fa riferimento a due processi differenti dello sviluppo individuale: con “pubertà” si indica il passaggio dalla condizione fisiologica del bambino a quella dell’adulto (la maturazione biologica); con “adolescenza” si indica il passaggio dallo status sociale del bambino a quello dell’adulto. Le trasformazioni somatiche e puberali sono caratterizzate da modificazioni concernenti lo sviluppo sessuale, lo sviluppo morfologico e lo scatto di crescita, che consiste in un aumento del ritmo di

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sviluppo di peso e altezza e che implica tutte le strutture scheletriche e muscolari, nonché le trasformazioni organiche. L’incremento della forza muscolare produce effetti psicologici ce sono all’origine di un comportamento più energico e più esuberante e di una maggiore fiducia in se stessi.Per Palmonari l’elaborazione di una nuova immagine del proprio corpo è uno dei primi compiti di sviluppo che l’adolescente deve affrontare. Il cambiamento fisico ha infatti luogo nei primi anni del periodo adolescenziale e il rapido sviluppo del corpo nella pubertà può spiegare il sentimento di insoddisfazione rispetto al proprio aspetto e la goffaggine tipica dei preadolescenti. Il pensiero dell’adolescente è caratterizzato dalla logica preposizionale: la logica delle operazioni concrete tipica del bambino è generalizzata e integrata con un insieme di combinazioni in un sistema di operazioni per cui l’adolescente è in grado di comprendere ed elaborare concetti e teorie astratti e ideali (Piaget). Havighurst (1952) parla di compiti di sviluppo: un compito di sviluppo è un compito che si presenta in un dato periodo della vita di un soggetto e che se viene risolto in modo positivo conduce alla felicità e al successo nell’affrontare i problemi successivi, mentre il fallimento nella risoluzione porta all’infelicità, alla disapprovazione sociale e a difficoltà di fronte a compiti seguenti. Alcuni di tali compiti sono determinati biologicamente, come imparare a camminare, altri sono determinati dalle pressioni sociali. Inoltre, i compiti di sviluppo sono suddivisi in ricorrenti e non ricorrenti: i primi si manifestano per un lungo periodo di tempo, se non per tutta la vita, invariati nel loro contenuto, i secondi vengono affrontati in modo definitivo a una certa età rispetto alla quale sono specifici. In linea generale il compito di sviluppo dell’adolescente è la ricerca di indipendenza; più in particolare:

Instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di entrambi i sessi; Acquistare un ruolo sociale femminile o maschile; Accettare il proprio corpo ed usarlo in modo efficace; Conseguire indipendenza emotiva dai genitori e da altri adulti; Raggiungere la sicurezza di indipendenza economica; Orientarsi verso e preparasi per un’occupazione o professione; Sviluppare competenze intellettuali e conoscenze necessarie per la competenza sociale; Desiderare ed acquistare un comportamento socialmente responsabile; Acquistare un sistema di valori ed una coscienza etica come guida al proprio

comportamento.Secondo Polmonari restano fenomeni universali dell’adolescenza:

1. i compiti di sviluppo in rapporto con l’esperienza della pubertà ed il risveglio delle pulsioni sessuali;

2. i compiti di sviluppo in rapporto con l’allargamento degli interessi personali e sociali e con l’acquisizione del pensiero ipotetico-dedduttivo;

3. i compiti di sviluppo in rapporto con la problematica dell’identità (o della riorganizzazione del concetto di sé).

Si notano in questi periodi mutamenti significativi nell’atteggiamento delle persone che circondano il soggetto, nella posizione di questo all’interno del gruppo sociale, nel ruolo che egli si trova a ricoprire. Da ciò l’esitazione, la goffaggine, le contraddizioni dell’adolescente che da un lato si trova a fronteggiare se stesso nel processo di trasformazione; dall’altro deve misurarsi con situazioni che non conosceva. L’adolescente tende a ripiegarsi su se stesso e nel contempo cerca invece di attrarre su di sé l’attenzione, dal momento che la sua personalità in fieri lo pone sullo stesso piano degli adulti. Da qui la tendenza a voler superare e sbalordire tutti e trasformare il mondo. Tali cambiamenti pervasivi e diffusi sono fonte di preoccupazioni e di ansie. Trovarsi di fronte a modelli diversi, spesso in contraddizione con quelli osservati in famiglia, decidere di effettuare esperienze non conosciute in precedenza che comportano una presa di rischio, sono ulteriori esempi

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dell’impegno richiesto all’adolescente per definire la realtà quotidiana, per rapportarsi ad essa e per ridefinirla.

Il gruppo dei coetaneiCi si riferisce all’adolescenza come al periodo nel quale ha luogo la socializzazione secondaria, cioè quell’insieme di pratiche che conducono all’acquisizione di conoscenze relative ai ruoli e alle posizioni sociali che gli individui rivestono nella società. Il gruppo amicale è vissuto come sostegno strumentale ed emotivo in grado di incidere nella costruzione della propria visibilità sociale e i coetanei svolgono sicuramente un ruolo importante in questo processo, diventando l’oggetto più prossimo di identificazione, a scapito delle relazioni con i genitori. Con i genitori s’instaura spesso un rapporto conflittuale, dal momento che essi rappresentano un forte legame con l’infanzia dalla quale l’adolescente desidera allontanarsi. Le nuove figure significative costituiranno dei modelli di imitazione e di identificazione. Come sottolinea Carugati (1995), tre grandi temi caratterizzano la cultura dei coetanei:

1. la partecipazione alla vita sociale, per la quale il gruppo è una metafora importante;2. il tentativo di affrontare incertezze, paure, conflitti della vita quotidiana; 3. l’opposizione e la messa in discussione delle regole e dell’autorità degli adulti.

Ecco allora che assume un importanza decisiva il gruppo sportivo. Secondo Palmonari e Sarchielli (1997), l’adolescenza può essere vista come cambiamento nell’appartenenza a categorie sociali; come il passaggio ad una posizione nuova, più o meno sconosciuta, sul piano cognitivo; come momento di attenzione per un corpo che cambia molto rapidamente; come periodo di estrema plasticità mentale, dovuta al cambiamento; come allargamento del proprio spazio di vita; come situazione simile a quella dell’ “uomo marginale”, rinchiusa tra due mondi. Da qui i caratteristici comportamenti di instabilità emotiva e sensibilità.

Lo sport nella fase adolescenzialeL’attività sportiva può essere utilizzata dall’adolescente per favorire la costruzione della struttura corporea o per migliorarla sul piano delle capacità motorie, o per trovare rassicurazioni ed uscire in questo modo da una forte sensazione di inadeguatezza; inoltre, l’attività sportiva consente di prendere coscienza della nuova identità corporea. Sul piano dello sviluppo cognitivo si assiste ad una forte carica intellettuale sviluppata in senso critico e ad un elevato entusiasmo per esperienze molto diverse; il senso critico in campo sportivo si manifesterà come vaglio delle tecniche di allenamento, delle strategie di gara, dei rapporti con li allenatori, mentre l’apertura a esperienze diverse troverà soddisfazione nella pratica delle varie discipline. Berti considera l’attività sportiva rischiosa come un nuovo rito di passaggio. La società moderna diversamente dalle società tradizionali non offre al giovane riti di iniziazione istituzionalizzati; i riti di passaggio erano una prova di coraggio ed erano connotati da un forte senso dell’avventura. Questi elementi sarebbero rintracciabili nella pratica di sport a rischio ed è per questo che la partecipazione a sport estremi, quali alpinismo, free-climbing, deltaplano potrebbero connotarsi come un rito di iniziazione. Se si considera il piano socio-affettivo e relazionale, si rileva l’importanza assunta dallo sport: la figura dell’allenatore può assumere il ruolo di guida che si attua ascoltando, consigliando, valorizzando e apprezzando l’adolescente. Inoltre, la presenza di altri adolescenti nel gruppo di allenamento o nella squadra favorirà l’altro elemento caratterizzante l’adolescenza: la ricerca del gruppo e del proprio simile. Proprio nel gruppo è facile trovare il proprio simile, l’amico del cuore in cui specchiarsi e riconoscersi: in questo caso vi è l’interesse reciproco a conoscere se stessi, offrendosi l’un l’altro conferma circa la propria personalità e la propria identità. L’approdo al club sportivo può essere un utile mezzo per conoscere questa nuova identità grazie anche alla maggiore autonomia di cui si può godere.

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Infine, essere parte di un gruppo è un momento essenziale di socializzazione per l’adolescente. Come sostiene Speltini (1991): “per gli adolescenti, l’esperienza socializzante dello sport può significare il sentimento di accettazione e di integrazione al gruppo”. Per l’adolescente il gruppo sportivo può rappresentare un’occasione privilegiata di azione collettiva, in cui la competizione è ammessa anche se sublimata dalle regole del gioco. I comportamenti intergruppi favoriscono sia i sentimenti di antagonismo nei confronti degli avversari sia la coesione al gruppo di appartenenza. L’adesione ai gruppi formali subisce un forte calo nel passaggio dalla prima alla piena adolescenza. L’attività sportiva attrae gli adolescenti essendo un’occasione per esprimersi attraverso il movimento, accompagnata da una situazione di incontro sociale e di operatività di gruppo. Nel periodo dell’adolescenza lo sport, facendo uscire gli adolescenti dal pericolo dell’isolamento per mezzo di attività operative e ludiche e offrendo la possibilità di misurare le proprie capacità di autocontrollo, di sfidare gli ostacoli, di confrontarsi serenamente con i propri limiti, non solo è elemento importante per la costruzione del sé, ma può anche divenire momento di prevenzione rispetto all’assunzione di comportamenti patologici. In sintesi la pratica dello sport è utile all’adolescente sotto diversi aspetti:

risponde all’esigenza di divertimento e offre l’occasione di utilizzare una grande carica di energia;

permette di scaricare la tensione dovuta allo stato di stress; insegna a conoscere il proprio corpo; indirizza verso la gestione dello spirito di competizione incanalandolo verso obiettivi precisi

e migliora così anche la tenacia nel perseguire le mete poste; favorisce lo sviluppo dell’intuito e delle capacità cognitive; soddisfa il bisogno di autonomia dalla famiglia consentendo nel contempo di mantenere un

rapporto di dipendenza.

Il rituale sportivo come unità strutturaleL’attività sportiva in età adolescenziale assume le dimensioni di un rito con caratteristiche educative che concorrono a ridefinire gli obiettivi intrinseci dell’attività sportiva stessa. Mantegazza (1999) propone di utilizzare coppie di sostantivi opposti:

Gruppo VS singolo: nelle discipline cosiddette di squadra la funzione socializzatrice dello sport è più evidente. Nello sport il concetto di gruppo diventa sinonimo di squadra, di “noi”.

Accoglienza VS espulsione: nei gruppi sportivi i nuovi arrivati sono spesso accolti con riti di iniziazione, che hanno lo scopo di sottolineare l’inferiorità dei nuovi membri e le regole collettive cui essi devono sottostare per essere ammessi a pieno titolo. L’allontanamento del singolo dal gruppo comporta sempre la perdita dell’identità collettiva acquisita con la partecipazione al gruppo. Le cause dell’allontanamento possono essere: una scelta volontaria del singolo, una decisione presa dall’allenatore o dalla società per motivi disciplinari oppure di selezione. L’espulsione per motivi disciplinari ha una funzione educativa, mentre l’espulsione per motivi di selezione può trasmettere un senso di fallimento all’adolescente.

Differenziazione VS omologazione: l’assegnazione dei ruoli e dei posti nello spogliatoio costituisce elemento importante per la differenziazione mentre l’abbigliamento comune e le divise sottolineano l’unità e tendono a omologare i membri. L’equilibrio tra differenziazione intra-gruppo e omologazione nei confronti dell’out-group è rilevante per il senso di identificazione collettiva e individuale dell’adolescente.

Regola VS trasgressione: ogni disciplina sportiva ha le sue regole formali, regole che vietano determinati comportamenti e ne prescrivono altri, con una prassi che prevede sanzioni per le trasgressioni. Ci sono, poi, le regole informali o non scritte, cioè i codici di comportamento interni al gruppo. Anche per le trasgressioni a queste regole implicite esistono sanzioni. Gli adolescenti imparano a confrontarsi con un sistema di compiti da svolgere, altri da evitare e conseguenze da affrontare in caso di trasgressione.

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Fantasia VS realtà: lo sport contribuisce all’idealizzazione di sé degli adolescenti. Vittoria VS sconfitta: a livello giovanile è importante distinguere il successo sportivo dalla

vittoria; il ragazzo che gareggia rendendo al massimo delle proprie possibilità deve vivere la gara come un successo. È compito dell’allenatore trasmettergli questa sensazione.

Corpo VS organismo: lo sport conferisce all’atleta il senso del proprio limite dal punto di vista fisico e il corpo è sottoposto a sforzi per spostare questo limite. Ma prima o poi arriva il momento in cui il fisico non ce la fa più è il momento di diminuire l’intensità degli allenamenti.

Gesto VS prestazione: il gesto tecnico è calcolabile, programmabile e ripetibile mentre la prestazione soggettiva non è computabile. Gli schemi e l’insistenza sulla tecnica di gioco devono lasciare spazio all’inventiva e al “genio” dell’atleta adolescente.

All’interno del pianta sport l’agonismo assume sempre più rilievo. Porro (1989) si chiede se sia lecito “propagandare lo sport per gli adolescenti come una risposta alla domanda di senso della società giovanile, se non si afferma contemporaneamente il valore in sé, vale a dire non strumentale, né puramente accessorio, dell’educazione della corporeità”. Non è infondato temere che l’esaltazione retorica della pratica agonistica generi aspettative esagerate e ricadute nella frustrazione o in insidie di doping.

Agonismo e sviluppoFino a quale limiti si può spingere l’allenamento, soprattutto in giovane età, e quali conseguenze potrebbe avere un eventuale superamento di questi limiti? Ogni singolo caso andrebbe considerato nella sua specificità, in quanto non c’è una regola o una metodologia che preservi sistematicamente da errori. La pratica agonistica, inoltre, ad altissimi livelli da parte di atleti giovanissimi è un fenomeno molto recente.

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