Riassunti - Lingue e Spazi

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Capitolo 1 Etnie, culture, espressioni linguistiche 1.1. L’etnia e i suoi elementi costitutivi In riferimento ad un gruppo umano, per cultura si intende l’insieme degli elementi che costituiscono il modo di vivere del gruppo stesso: credenze collettive, simboli, valori, forme di comportamento, sistemi sociali. Per indicare un più ampio gruppo di individui che condividono i tratti di una specifica cultura si ricorre solitamente, invece, al termine etnia. I gruppi etnici sono generalmente associati a dei territori di cui sono occupanti principali o esclusivi e su cui hanno finito con l’imprimere particolari segni. Il concetto in sé però appare difficile da definire esattamente e in più casi viene utilizzato indifferentemente per indicarne altri: la razza, la nazione, il popolo. Proprio per questo motivo è utile ricostruire prima le origini del concetto di etnia. Solo dopo aver fatto ciò potremo continuare con l’affrontare lo studio di quella componente fondamentale della cultura che è la lingua: elemento che, insieme alla religione, identifica e classifica gli individui all’interno di società complesse. Una comunità umana legata al suo interno dalla coscienza di possedere un comune patrimonio storico e da vincoli culturali forti e consolidatisi nel tempo, viene definita come comunità etnica o gruppo etnico. Derivante dal greco éthnos (popolo), il concetto di “etnia” fu introdotto alla fine del Settecento dallo svizzero Chavannes. Fu però l’antropologo francese Georges Montandon, con il suo L’ethnie francaise, a fornire una prima definizione abbastanza esauriente del termine, riferendosi ad esso per indicare un gruppo alla cui identificazione concorrono tutti i caratteri umani, siano essi somatici, linguistici o culturali. Più completa è però la definizione di Becquet che sottolineò come un’etnia sia un gruppo umano unito dalla comunanza di tratti culturali e psicologici, derivanti dalla pratica di una stessa lingua. Posizione, questa, simile a quella espressa negli stessi anni da Héraud secondo il quale popoli di uguale lingua formano una stessa etnia. La lingua tuttavia, dice Héraud, non è la cultura, ma il suo veicolo; se una comunità perde la sua lingua mantiene ancora per un certo lasso di tempo la sua cultura e continua ancora ad essere una comunità etnica. Altri studiosi riservano l’aggettivo “etnico” soltanto a quei gruppi che hanno coscienza di sé come insieme, considerando il sentimento di appartenenza come il fattore fondamentale per l’identificazione di un’etnia e sottolineando come non basti avere in comune una cultura di base, ma occorra anche la

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Riassunti fatti da me.

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Capitolo 1

Etnie, culture, espressioni linguistiche

1.1.L’etnia e i suoi elementi costitutivi

In riferimento ad un gruppo umano, per cultura si intende l’insieme degli elementi che costituiscono il modo di vivere del gruppo stesso: credenze collettive, simboli, valori, forme di comportamento, sistemi sociali. Per indicare un più ampio gruppo di individui che condividono i tratti di una specifica cultura si ricorre solitamente, invece, al termine etnia. I gruppi etnici sono generalmente associati a dei territori di cui sono occupanti principali o esclusivi e su cui hanno finito con l’imprimere particolari segni. Il concetto in sé però appare difficile da definire esattamente e in più casi viene utilizzato indifferentemente per indicarne altri: la razza, la nazione, il popolo. Proprio per questo motivo è utile ricostruire prima le origini del concetto di etnia. Solo dopo aver fatto ciò potremo continuare con l’affrontare lo studio di quella componente fondamentale della cultura che è la lingua: elemento che, insieme alla religione, identifica e classifica gli individui all’interno di società complesse.

Una comunità umana legata al suo interno dalla coscienza di possedere un comune patrimonio storico e da vincoli culturali forti e consolidatisi nel tempo, viene definita come comunità etnica o gruppo etnico. Derivante dal greco éthnos (popolo), il concetto di “etnia” fu introdotto alla fine del Settecento dallo svizzero Chavannes. Fu però l’antropologo francese Georges Montandon, con il suo L’ethnie francaise, a fornire una prima definizione abbastanza esauriente del termine, riferendosi ad esso per indicare un gruppo alla cui identificazione concorrono tutti i caratteri umani, siano essi somatici, linguistici o culturali. Più completa è però la definizione di Becquet che sottolineò come un’etnia sia un gruppo umano unito dalla comunanza di tratti culturali e psicologici, derivanti dalla pratica di una stessa lingua. Posizione, questa, simile a quella espressa negli stessi anni da Héraud secondo il quale popoli di uguale lingua formano una stessa etnia. La lingua tuttavia, dice Héraud, non è la cultura, ma il suo veicolo; se una comunità perde la sua lingua mantiene ancora per un certo lasso di tempo la sua cultura e continua ancora ad essere una comunità etnica. Altri studiosi riservano l’aggettivo “etnico” soltanto a quei gruppi che hanno coscienza di sé come insieme, considerando il sentimento di appartenenza come il fattore fondamentale per l’identificazione di un’etnia e sottolineando come non basti avere in comune una cultura di base, ma occorra anche la consapevolezza di far parte, per libera e cosciente affiliazione, di una comunità. Un’analisi più approfondita dei contenuti e del significato del concetto di “etnia” è stata fatta più di recente da Smith che ha individuato sei condizioni necessarie per poter definire una comunità sociale come etnia, sei caratteri specifici e costituitivi del legame etnico.

1- La prima di queste condizioni è il nome collettivo che deve essere riconosciuto da tutti come elemento di identificazione, segno della comunità etnica attraverso cui essa distingue se stessa e riassume la propria essenza;

2- La seconda è invece la coscienza, per tutti i membri della comunità, della discendenza comune. Tale consapevolezza, che molto spesso è di tipo mitologico, dona senso alle esperienze dei componenti del gruppo, fornendo loro anche una linea di continuità generazionale ben definita;

3- La terza condizione è il senso di una storia comune: il riferimento è alle memorie condivise, che non solo uniscono gli individui, ma rappresentano anche la trama del tessuto connettivo tra le generazioni;

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4- La partecipazione ad una cultura condivisa costituisce il quarto carattere specifico di un legame etnico, distinguendo un gruppo dagli altri in tutte le espressioni che da tale patrimonio di base conseguono. Lingua e religione sono, secondo Smith, i tratti distintivi più comuni. In particolare la lingua non è considerata da Smith un fattore essenziale di identità etnica, egli sostiene, anzi, che il linguaggio può perfino costituire un elemento di divisione per il senso di appartenenza al medesimo gruppo.

5- Quinta condizione è il rapporto fra la comunità e un territorio determinato o immaginario, ma comunque sentito come patria. Il territorio è rilevante, cioè, non in quanto effettivamente occupato né per le sue caratteristiche oggettive, ma per il legame esistente tra esso, simbolo e valore impresso nella memoria collettiva, e la comunità.

6- E infine ci deve essere all’interno della comunità un senso di solidarietà perché si possa definire un gruppo come etnia: un nome, una discendenza, una storia, una cultura ed un territorio condivisi fra tutti come patrimonio collettivo tendono infatti ad alimentare uno spirito di comunanza che può tradursi in molteplici episodi di aiuto reciproco.

Vi sarebbero altri due concetti che, secondo Smith, ne definiscono il comportamento verso l’esterno: l’etnocentrismo e l’etnicismo.

1- L’etnocentrismo induce i membri della comunità a distinguere in via pregiudiziale il “noi” dal “loro”. Ciò conduce a catalizzare la totalità, o la maggior parte, dei sentimenti positivi nel gruppo d’appartenenza, riservando quelli negativi per gli “altri”.

2- L’etnicismo, invece, riguarda la possibile mobilitazione del gruppo contro dei fattori di disgregazione interni o una minaccia esterna, e spinge a rafforzare e ad esaltare i suoi caratteri collettivi nei riguardi di un referente negativo, interno o esterno, che viene percepito come un pericolo.

Tre sono anche le condizioni storico-sociali che, per Smith, hanno favorito nel corso del tempo l’insorgere del legame etnico.

1- In primo luogo la sedentarietà che ha contribuito allo sviluppo nei gruppi di un senso d’appartenenza comune in risposta alla profonda nostalgia per la vita di prima.

2- In secondo luogo la religione organizzata che ha permesso di definire il “noi” contro il “loro” e l’interno del gruppo inteso come il “bene” dall’esterno visto come il “male”.

3- Infine attraverso la formazione di una classe di intellettuali organica all’insieme, il clero , che mediante l’uso del potere mito-simbolico in tutte le sue forme, garantisce la continuità e la stabilità identitaria della comunità nel tempo.

È però probabilmente un altro l’elemento che sembra aver contribuito più di tutti all’affermazione dello spirito etnico, ed è la guerra: essa agisce tanto come strumento di mobilitazione interna ai gruppi, rinnovandone l’identità, quanto come specifico fattore di stress esterno che attiva meccanismi identitari di difesa e di rafforzamento del “noi”.

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Più articolata è l’analisi del concetto di “comunità etnica” fatta da Breton. Questi nel definire i caratteri generali della struttura etnica fa riferimento a nove elementi.

I primi tre, le pre-strutture, sono rappresentati dai: dati demografici del gruppo, dalla sua lingua e dal suo territorio. Si tratta di tre componenti essenziali in quanto una comunità etnica, per esistere, deve possedere una sua consistenza demografica, deve vivere su e in rapporto ad un certo territorio e deve parlare una sua lingua. Il dato demografico è importante in quanto se il gruppo tende ad invecchiare anche la sua lingua tenderà a perdere vigore; in un gruppo in piena espansione, al contrario, anche la lingua recepirà nuovi stimoli e conoscerà continue innovazioni.

Nel secondo insieme di elementi che Breton identifica, le strutture, rientrano invece la: cultura non materiale, le classi sociali ed il sistema economico. La cultura non materiale è tutto il patrimonio spirituale ereditario del gruppo: la storia comune, la religione in quanto fattore di coesione, la letteratura ecc. L’analisi della struttura sociale di una comunità linguistica e la sua divisione in classi sono, d’altra parte, ritenute necessarie poiché dalla presenza o meno di barriere sociali dipendono le possibilità di circolazione della cultura e l’omogeneità della lingua; un gruppo rigidamente suddiviso in classi difficilmente adopererà una medesima forma di espressione: le classi più elevate tenteranno, infatti, di distinguersi dalle inferiori anche attraverso la lingua, adottando forme espressive più elaborate o una lingua straniera, laddove questa abbia un maggior prestigio. Lo sviluppo economico può incidere sulla vita di un gruppo, sulla sua struttura sociale e sulla sua stessa distribuzione spaziale. Di un’economia debole, che subisce continui condizionamenti da sistemi produttivi più forti, risentirà in senso negativo anche la cultura, in quanto il gruppo economicamente dominante influirà anche sulla cultura (e alla lunga sulla lingua) di chi viene dominato.

Infine Breton prende in considerazione la presenza di istituzioni politiche, il ruolo della metropoli e il tipo di rete urbana esistente (post-strutture). Le istituzioni politiche possono ammettere diversi modi di partecipazione al potere da parte di settori più o meno ampi o ristretti del gruppo, e questo non è privo di importanza perché in un sistema democratico chi gestisce il potere deve saper interloquire con tutti, anche con le classi più povere, e dunque deve conoscerne linguaggio e cultura. La metropoli è intesa come il principale centro decisionale del territorio abitato dalla comunità etnica: dalla sua vitalità e dalla sua forza dipende l’elaborazione di nuove idee, di nuovi modelli comportamentali, di nuove espressioni linguistiche e culturali.

Essi costituiscono un sistema, nel senso che ad ogni variazione di uno conseguono variazioni e adattamenti degli altri. Il merito di Breton sta proprio nell’aver dimostrato che un gruppo etnico non è caratterizzato soltanto dalla sua cultura e dalla sua lingua, ma da un insieme di elementi in stretta connessione fra loro. Al di là della difficoltà di giungere a definizioni precise, ciò che emerge è che nell’ambito del genere umano si formano vari insiemi, ove l’unione è data da elementi numerosi e diversi. Tutti questi elementi hanno una loro importanza, ma i vari insiemi così individuati presentano differenti aree di intersezione. Quel che è certo è che non esiste nella realtà contemporanea uno Stato la cui popolazione costituisca un insieme omogeneo sotto i diversi punti di vista. La maggior parte della società del pianeta vede coesistere al proprio interno più gruppi etnici. L’idea di uno Stato-nazione etnicamente “puro”, di fatto, non è più realistica. In Europa il concetto di “etnia” è diventato non solo uno dei più controversi, ma anche uno di quelli più “a rischio”. Esso, infatti, ha rappresentato spesso un pretesto per mantenere saldo il potere nelle mani di gruppi dominanti intenzionati ad emarginare dalle posizioni sociali più rilevanti altri individui, non appartenenti alla stessa etnia, o addirittura ad eliminarli fisicamente (pulizia etnica).

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1.2.Termini diversi per concetti differenti

Il concetto di etnia non va confuso né con il concetto di razza:

- che designa, senza alcuna implicazione ideologica, un gruppo umano contraddistinto dalla frequenza media di determinati caratteri somatici, un sottoinsieme della popolazione, cioè, i cui membri hanno in comune alcune caratteristiche biologiche che li distinguono fisicamente da altri gruppi;

né con quello di gruppo culturale:

- che, al contrario, prescinde da ogni riferimento biologico.

Da quando al concetto di razza si è affiancato quello di etnia è andata diffondendosi una sorta di inquietudine concettuale. Questo proprio perché l’etnia doveva essere individuata attraverso due criteri: da una parte, criteri dell’antropologia fisica, basati sull’accertamento oggettivo di caratteri somatici; dall’altra, criteri delle scienze sociali, ove era difficile arrivare a conoscenze oggettive. Fu negli anni trenta del Novecento che si cercò di superare il problema, e ciò avvenne mediante l’introduzione del concetto di modello di cultura: ogni elemento di un gruppo umano veniva considerato parte di un insieme di elementi collegati e costituenti un tutt’uno. La cultura si rivelava, così, una componente più importante rispetto a quella antropologico - fisica. Occorre aggiungere che nella definizione del concetto di etnia acquista una considerevole rilevanza anche la coscienza dell’appartenenza al gruppo (elemento soggettivo), vale a dire la consapevolezza di essere sostanzialmente diversi da coloro che non condividono le medesime caratteristiche distintive né la medesima eredità culturale, e la volontà di perseguire i propri scopi.

Un’altra precisazione da fare riguarda, poi, il concetto di nazione. L’idea di nazione rientra nell’ambito della scienza politica e fa riferimento ad un gruppo che condivide degli ideali ed uno stesso progetto politico (come quello di creare uno Stato nazionale). Nazione è, in altri termini, una collettività di individui, coscienti di appartenere ad un popolo con una propria peculiarità ed autonomia culturale, che hanno in comune il progetto di ottenere o conservare un proprio ordinamento giuridico e territoriale. Se, quindi, la consapevolezza di possedere un comune patrimonio di valori sostiene l’identità culturale, quella di condividere uno stesso progetto politico è alla base dell’identità nazionale.

Poi troviamo la differenza tra stato e nazione. Mentre, infatti, quando si parla di nazione si fa riferimento alle persone, ad un gruppo di individui, cioè, legati da un forte senso di unità, che condividono una cultura comune ed il progetto di un proprio ordinamento giuridico e territoriale, per Stato si intende un’entità politica indipendente che detiene la sovranità su un territorio ed una popolazione definiti. In quest’ultimo significato, il termine è sinonimo di “Paese”, ma non di “nazione”. L’espressione Stato-nazione andrà riferita, di conseguenza, ad uno Stato la cui estensione territoriale coincide con l’area occupata da una nazione o, almeno, la cui popolazione condivide un senso generale di coesione e adesione ad un insieme di valori comuni. In realtà, per quanto tutti i Paesi si diano da fare per arrivare ad un patrimonio di valori condivisi e suscitare nei cittadini un senso di fedeltà verso lo Stato, pochi possono definirsi realmente Stati-nazione. Attraverso la richiesta di riconoscimento della propria soggettività storica e le azioni politiche tipiche del nazionalismo, un gruppo può cercare di ottenere quello strumento con cui la nazione può finalmente diventare soggetto politicamente autonomo, ovvero lo Stato, che è così Stato nazionale. Se, pur non raggiungendo il suo obiettivo, riesce a conseguire almeno una quota dell’autonomia desiderata, il gruppo nazionale viene a far parte di uno Stato multinazionale (il più delle volte una federazione); qualora, invece, non riesca a realizzare lo Stato nazionale e debba rimanere nell’ambito di uno Stato a maggioranza

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nazionale diversa, esso costituisce una minoranza nazionale. Secondo Francesco Capotorti, si può parlare di minoranza in presenza di un gruppo numericamente inferiore rispetto al resto della popolazione di uno Stato, purché esso non si trovi in una posizione dominante. I membri di tale gruppo hanno la cittadinanza dello Stato, ma le loro caratteristiche etniche, religiose o linguistiche li distinguono dal resto degli abitanti.

1.3.La diversità etnica oggi

Mentre alla soggettività culturale nessuno può rinunciare, perché l’appartenenza ad una comunità etnica è un dato acquisito (si può tuttavia rinunciare a difendere questa soggettività quando essa è minacciata), la soggettività storica è una scelta politica, e può quindi cambiare con l’evolversi del pensiero sociale e politico. Ma il senso della propria individualità culturale (etnia) e quello della propria individualità storica (nazione) non sempre coincidono, e i due fenomeni (etnismo e nazionalismo) hanno natura diversa. Gli etnismi attuali deriva più probabilmente dal fatto che le comunità minori avvertono, di fronte all’oppressione indotta da un modello di società che tende ad uniformare schemi comportamentali e modi di pensare, il pericolo della loro scomparsa in quanto entità culturali. La loro reazione, pertanto, non consiste in una ricerca di individualità di fronte alla storia (un nazionalismo), ma è piuttosto espressione della volontà di difendere la propria soggettività culturale, e tende ad ottenere forme di tutela per un patrimonio spirituale e culturale considerato fondamentale. Smith ha osservato che le identità culturali, una volta create, non appassiscono facilmente. Uno Stato è evidentemente favorito se la sua popolazione è fortemente coesa e compatta, ed è chiaro che la divisione in tanti gruppi diversi rende più difficile la nascita di un sentimento nazionale forte. Negli ultimi anni i conflitti tra gruppi etnici all’interno di singoli Stati si sono inaspriti in tutto il mondo. Nel caso dell’Africa, ad esempio, i contrasti sono stati una costante dopo la decolonizzazione; una volta ottenuta l’indipendenza politica, infatti, le ex colonie hanno fatta propria l’idea di “Stato”, accettando generalmente i confini tracciati dai precedenti dominatori europei: confini che avevano finito col riunire in uno stesso territorio gruppi che avevano ben poco in comune tra loro. Le suddivisioni amministrative decise dai colonizzatori europei avevano così diviso quasi tutte le etnie tra più Stati. Ecco perché il difficile problema che molti dei nuovi Paesi africani si sono trovati a dover affrontare è stato quello di “creare” la nazione, ovvero cercare di sviluppare, in una cittadinanza costituita in modo arbitrario, sentimenti di fedeltà verso lo Stato. Tutta la storia dell’umanità è disseminata di crimini contro comunità prese di mira per la loro diversità culturale o razziale; e in questi ultimi anni attorno all’espressione “pulizia etnica” hanno ruotato conflitti scoppiati in numerose parti dell’Africa, così come nel Sud-Est asiatico e in alcuni territori dell’ex Unione Sovietica e dell’Europa orientale. Non va dimenticato, d’altro canto, che l’etnocentrismo può si costituire un elemento di divisione, ma può anche assumere una connotazione positiva e rivelarsi un fattore di riconoscimento e di identificazione capace di offrire valori e sostegno all’individuo che si ritrova all’interno di un contesto a lui estraneo. Si pensi anche a come le svariate China Town e Little Italy abbiano fornito un rifugio concreto e sistemi di supporto fondamentali per i nuovi arrivati. Una società viene inoltre definita multietnica non solo se comprende al proprio interno molteplici gruppi etnicamente differenti, ma anche se i membri di ciascun gruppo ritengono di possedere una cultura distinta da quella degli altri ed esprimono la volontà di salvaguardare la propria identità comune, per la quale richiedono un riconoscimento ufficiale. Le società multietniche non costituiscono una novità di questi anni, nelle maggiori città si è sempre concentrata una grande varietà etnica e culturale. Nei decenni più recenti, tuttavia, si è assistito ad una crescente richiesta di riconoscimento dell’autonomia etnica nelle società multietniche di tutto il mondo. Quando diciamo, allora, che il mondo è diventato multietnico non è perché la società e le culture siano più numerose di una volta, ma perché parlano con voce sempre più autonoma e determinata. La multi etnicità implica necessariamente la multiculturalità. Una società è definita come multiculturale nella misura in cui al suo interno tutte le differenze di cultura, costume, etnia sono ugualmente rispettate, tanto reciprocamente quanto dal potere centrale.

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1.4.Regioni culturali e confini etnici

I tratti e le strutture culturali possono essere proprietà condivisa di individui per altri aspetti distinti, ma associati dal punto di vista spaziale. Anche le società multietniche possono comunque condividere un certo numero di caratteristiche, sufficiente a renderle delle entità culturali riconoscibili: in questo caso è possibile individuare un sistema culturale. Tratti, strutture e sistemi culturali hanno dunque una propria estensione spaziale; rappresentati su una carta geografica, mostrano il carattere regionale delle componenti culturali. Ed è proprio allo studio delle regioni culturali che la Geografia umana è interessata. Ogni regione potrà essere definita in relazione ad un’unica caratteristica peculiare o ad un insieme di caratteristiche. La regione culturale si caratterizza non solo per la presenza di una comunità dotata di una sua propria ed originale espressione culturale, bensì anche perché sul suo territorio è percepibile tanto l’impronta dei prodotti sociali della cultura quanto quella degli oggetti materiali che danno forma al paesaggio (es. abitazioni). Il territorio abitato da una comunità etnica, però, non viene “sentito” dai componenti del gruppo con la stessa intensità. A tal proposito, può essere utile, ai fini di una valutazione della diversa intensità dell’ “etnicità” dello spazio, fare un confronto tra il territorio etnico e quello di un Paese che è andato costituendosi a partire da un nucleo territoriale centrale. Nel nucleo centrale dello Stato gli individui hanno potuto sviluppare quella coesione organizzativa da cui è sorta la struttura complessiva del sistema statale; qui la facilità dei trasporti e delle comunicazioni ha favorito lo scambio dei beni e delle idee, ma anche l’elaborazione di forme di aggregazione sociale e la gestione degli interessi del gruppo; qui i segni dell’identità nazionale sono più chiari e forti; da qui partono quelle iniziative che progressivamente si estendono alla periferia. Ebbene, anche nel territorio etnico è possibile individuare un nucleo nel quale sono radicate le forze ideali da cui la cultura ha avuto origine, un’area ove sorgono i centri in cui tale cultura continua ad essere sviluppata, dove si trovano le principale strutture che provvedono alla produzione e alla conservazione del patrimonio culturale comune, e dove intensa risulta l’attività socio-politica della comunità. Consideriamo ora il modello di regione culturale elaborato da Donald Meinig negli anni settanta. Egli aveva messo in evidenza come nell’Ovest degli Stati Uniti fossero identificabili almeno sei nuclei culturali distinti che avevano dato vita ad altrettante regioni culturali; le aveva individuate sulla carta, e aveva osservato che tali regioni andavano evolvendosi attraverso quattro stadi di sviluppo.

1- In primo luogo cresceva la popolazione e si sviluppava un insediamento originale tramite espansione;

2- Nel frattempo, a mano a mano che si intensificavano le comunicazioni interne e diventavano più efficaci quelle con l’esterno, cambiavano gli schemi di circolazione;

3- Ancora, l’organizzazione politica diventava via via più complessa;4- E intanto emergeva la cultura regionale e si rafforzava l’identità culturale.

Meinig si occupò in particolare di una di queste regioni culturali, quella dei Mormoni nello Utah, e mise in evidenza come il relativo isolamento e lo sviluppo senza ostacoli da essa sperimentato si fossero tradotti in un modello spaziale con tre zone di concentrazione:

1- In primo luogo un’area nucleo (core), contenente l’essenza del complesso culturale, la più forte concentrazione di tratti culturali ed un paesaggio omogeneo;

2- Poi un dominio in cui il complesso culturale restava, si, forte ma in misura minore rispetto all’area nucleo;

3- Infine una sfera di influenza, area esterna e di contatto periferico in cui prevalevano solo certi tratti e le persone appartenenti alla cultura dell’area nucleo potevano essere in minoranza.

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Le tre zone mostravano, quindi, il declino della forza culturale che si manifesta a partire dal nucleo centrale andando verso l’esterno. Il nucleo centrale è l’area più chiaramente sentita come patria ed è quindi, generalmente, la zona in cui la cultura della comunità possiede maggior forza e mostra maggior capacità di resistenza alle influenze esterne; il dominio, invece, è l’area del contatto e del continuo confronto con gli altri, mentre le sfere di influenza o sono quel che resta di un nucleo centrale un tempo più esteso e poi intaccato da un’altra cultura o sono aree in cui parte della popolazione proveniente dal nucleo centrale si è trasferita, portando con sé anche l’impronta della propria appartenenza etnica. Si è detto che il legame col territorio è sentito come qualcosa a cui non si può rinunciare. Per rafforzare ulteriormente tale legame molte volte si attribuisce al territorio etnico una valenza religiosa, rendendolo “sacro” con la presenza di santuari, luoghi di culto, come pure monumenti commemorativi di episodi o personaggi della storia e del mito della comunità. Quando la localizzazione di un gruppo in una determinata area, anche molto distante dal luogo d’origine, raggiunge una certa soglia e se ne possono notare i segni, si può parlare di quartiere etnicamente connotato: di una zona, cioè, in cui la presenza consistente di alcuni gruppi e la “visibilità” di tutta una serie di attività, nonché di alcuni servizi e punti di incontro, contrassegnano in modo evidente il territorio. In più casi, inoltre, essi assolvono una funzione complessa: innanzitutto costituendo degli ambienti di vita dove è più facile l’inserimento di nuovi arrivati e dove è possibile affermare la propria identità; e, in secondo luogo, configurandosi come spazi di relazione che consentono ad alcune popolazione disperse nel territorio di ritrovare servizi e beni altrimenti irraggiungibili. Rappresentano dunque, tali quartieri, dei luoghi centrali etnici all’interno di un contesto multicentrico e reticolare. Dal momento che il legame col proprio territorio ha un ruolo fondamentale per ciascun gruppo etnico, anche il modo in cui i suoi confini vengono percepiti ha grande importanza. Il problema, però, è che la determinazione esatta di un confine etnico risulta assai difficile, perché il territorio etnico è quasi sempre un’area dai contorni incerti; al di fuori della sua area centrale, ci sarà una zona in cui alcuni tratti dell’etnia dominante andranno fondendosi con quelli delle etnie circostanti e tale fascia potrà diventare anche un’area di scontro tra comunità differenti. I confini etnici non coincidono quasi mai con quelli politici e ancora più difficilmente restano fermi nel tempo. Maggiori problemi sorgono, tendenzialmente, nelle zone di transizione tra aree linguistico - culturali differenti: poiché qui è raro che si determini un rapporto di perfetto equilibrio, o finisce con lo stabilirsi una reciproca tolleranza, che poi è il più delle volte accettazione da parte dell’etnia più debole della dominanza culturale del gruppo più forte, o viene a crearsi una situazione conflittuale, in cui ciascuna comunità cerca di affermare la sua presenza “contrassegnando” nel modo più incisivo il territorio. L’intensità dei conflitti nella fascia di transizione dipende comunque, il più delle volte, dalle scelte di chi, nell’area centrale, detiene il potere; fortunatamente, però, almeno per quanto riguarda l’Europa, sempre più diffusa è la tendenza a pensare alle diverse zone di transizione come a delle aree di mediazione, a dei luoghi di incontro che, proprio in virtù dei loro caratteri, possono facilitare i rapporti fra gli Stati.

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Capitolo 2

Lingue e geografia

2.1. Premessa

Negli ultimi trent’anni l’interesse per lo studio della lingua è andato crescendo. La lingua riflette infatti i comportamenti e il modo di pensare di ogni popolo. D’altra parte sono andate moltiplicandosi le questioni poste dalla pluralità delle lingue: la globalizzazione e la crescita dei flussi migratori hanno portato gradualmente sempre più istituzioni nazionali ed internazionali, individui ed intere popolazione, ad adottare quotidianamente l’uso di due o più lingue.

2.2. Lo studio degli aspetti spaziali delle lingue

I linguisti scompongono la lingua in elementi di un codice costituito da due articolazioni sovrapposte:

- i monemi: che rappresentano le più semplici unità dotate di significato;- e i fonemi: unità fonetiche (suoni) costruite per ciascuna parlata a partire da un certo numero di

consonanti e vocali pronunciate in un determinato modo.

I fonemi possono essere rappresentati, a seconda delle scritture, attraverso un numero variabile di segni grafici grafemi: una lettera o un gruppo di lettere ed eventualmente dei segni, detti diacritici (come la dieresi, la cediglia o la tilde), che ne precisano la pronuncia.

Queste scritture sono definite fonografiche. Altre, invece, si avvalgono di particolari segni indicanti direttamente parole o concetti (e non suoni) e sono per tale motivo definite ideografiche (caratteri cinesi, geroglifici egizi). La maggior parte delle scritture ideografiche è anche detta semiografica in quanto combina la rappresentazione di parole e suoni secondo la logica dei rebus enigmistici. Negli studi linguistici prevalgono due approcci, naturalmente complementari:

- sincronico: che analizza lo stato delle lingue nel loro organizzarsi sistematico e simultaneo e che osserva dunque ciascuna parlata, considerata come un insieme, in un momento dato;

- diacronico: che rileva invece sostituzioni e cambiamenti delle lingue nel corso del tempo.

Tali prospettive hanno consentito di indagare più a fondo le diverse componenti delle varie lingue, individuando l’influsso esercitato su ognuna di essa da altre parlate e le sedimentazioni esistenti. Spesso il lavoro dei linguisti si intreccia con quello dei geografi: i primi mirano a ricostruire le vicende storico-territoriali delle lingue in sé, i secondi se ne servono per analizzare le società umane nei loro complessi rapporti con il territorio (anche se per molto tempo hanno dedicato scarsa attenzione a questo elemento). Per molto tempo la lingua è stata considerata solo come uno dei tanti caratteri di ciascun popolo, il principale dei quali fu a lungo ritenuto quello della razza. A partire dell’Ottocento in campo linguistico nacque e si rafforzò l’interesse per la distribuzione e la differenziazione spaziale delle parlate. L’esigenza di collegare in un unico sistema di indagine la lingua e il territorio fece sorgere quel nuovo ramo della glottologia che prendeva in esame anche le caratteristiche del territorio in cui i fenomeni linguistici venivano osservati. La nuova impostazione ebbe tra i suoi promotori Graziadio Isaia Ascoli considerato “l’inventore” del termine glottologia e della relativa disciplina. Egli si oppose all’idea manzoniana di

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utilizzare il fiorentino come parlata nazionale: la lingua, secondo lui, doveva infatti riflettere la cultura nazionale a tutti i livelli, e l’italiano regionale avrebbe rappresentato una soluzione migliore rispetto a quella costituita da una lingua decisa a tavolino. Nello stesso periodo andava diffondendosi l’uso della cartografia che offriva la possibilità di evidenziare le relazioni spaziali delle lingue sul territorio. Il primo a comprendere quali opportunità sarebbero potute derivare nello studio dei dialetti dall’utilizzo delle carte geografiche fu lo svizzero Gilliéron, che nel 1895 iniziò a registrare sulla carta le varianti dialettali di un certo numero di termini francesi. Ma fu George Wenker che per primo fissò su una carta geografica i limiti territoriali di alcune forme dialettali. Gilliéron aveva intanto avviato la pubblicazione di un piccolo atlante linguistico relativo ad un’area della Svizzera di lingua francese; successivamente pubblicò l’Atlas Linguistique de la France. Con il suo atlante egli impose definitivamente il principio della ricerca sul terreno, il rilevamento dei dati alla fonte ed il metodo della rappresentazione cartografica. La geografia linguistica divenne ben presto un ramo a sé delle scienze linguistiche. Venne così emergendo che, nella gran parte dei casi, parole e pronunce simili non erano distribuite casualmente nello spazio, ma risultavano tendenzialmente più diffuse in particolari aree, e che era possibile tracciare sulla carta delle linee separanti fenomeni linguistici omogenei da altri diversi: tali linee furono definite isoglosse (riferite a fenomeni lessicali) e isofone (si si riferivano a delle pronunce). Le linee di confine indicanti i limiti di una particolare caratteristica linguistica consentivano infatti di rappresentare la distribuzione dei fatti linguistici nello spazio, ed il confronto delle carte permetteva di evidenziare le analogie distributive e di individuarne le correlazioni. L’osservazione dell’andamento spaziale delle isoglosse consentiva di comprendere alcune delle connessioni tra fenomeni prettamente linguistici ed aspetti geografici più generali, e di rilevare le relazioni esistenti tra l’espressione parlata e le diverse forme di organizzazione del territorio, questo metodo si rivelava particolarmente valido nello studio dell’evoluzione storica delle lingue. L’analisi della diffusione di certe parole, espressioni o significati poteva, così, essere messa in relazione con certe usanze materiali o culturali o poteva rivelare flussi, influenze, parentele. Un linguista non può, cioè, non valutare le correlazioni esistenti tra fatti linguistici e fenomeni di altra natura (culturali, storici, geografici, ecc).

2.3. Tra linguistica spaziale e Geografia delle lingue

Negli anni venti la Geografia linguistica assunse in Italia la denominazione di neolinguistica. Nel 1945 Matteo Bartoli suggerì di modificarla in linguistica spaziale, volendo sottolineare l’importanza che aveva in materia l’analisi territoriale. La distinzione fra la Geografia linguistica e la Geografia delle lingue è, in realtà, ancora oggi poco chiara. Quello che va ribadito fin d’ora è che per analizzare la distribuzione spaziale dei fatti di lingua il linguista utilizza lo strumento cartografico e studia le correlazioni ed i legami di casualità tra fenomeni territoriali diversi: si serve, quindi, del metodo geografico. Il lavoro del geografo, invece, comincia là dove termina quello del linguista: egli prende in considerazione le diverse parlate in quanto fenomeno culturale caratterizzante un gruppo umano, una società. Nell’ambito dello studio spaziale delle lingue, Bartoli fu colui che più si avvicinò alla Geografia, elaborando le norme areali. Le principali affermano che:

- se di due forme linguistiche una si trova in un’area isolata e l’altra in una zona di più facili comunicazioni con l’esterno, la prima è più antica. La norma dell’area isolata è senz’altro convincente; basterebbe considerare la città come zona di più facili comunicazioni e la campagna come zona isolata. Un esempio è rappresentato dal sardo. Mentre, infatti, in italiano alcuni termini derivano tutti dal latino tardo, in sardo invece la derivazione dal latino arcaico permane. Un caso simile è quello dell’Islanda il cui isolamento ha reso possibile un’eccezionale conservazione della lingua originale che è rimasta sostanzialmente invariata negli ultimi mille anni tant’è che di fatto oggi un islandese è capace di leggere senza troppe difficoltà anche una saga del XIII secolo.

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- La seconda norma afferma che: se in una regione esistono due forme della stessa lingua quella che si trova nell’area centrale è più recente, quella che si trova nelle aree periferiche è più antica. Questa norma fa riferimento non tanto al centro geometrico, quanto piuttosto a quello culturale ed economico: è qui, infatti, che avvengono i più frequenti scambi con l’esterno, produttivi di innovazioni linguistiche.

- E infine la terza norma: se di due forme linguistiche una è usata in un’area più ampia dell’altra, quella è la più antica.

In seguito alle norme di Bartoli la Linguistica spaziale ha attinto dalla Geografia sempre più spunti per i suoi studi. Da questo deriva un rinnovamento della Geografia culturale. Se l’ottica precedente, infatti, portava a minimizzare le differenze culturali, le nuove concezioni tendevano a rivalutare il ruolo della lingua nella formazione delle strutture mentali, culturali ed etniche. Il primo a comprendere che la lingua avesse interesse anche per il geografo fu un portoghese, Carlos M. Delgado de Carvalho, che negli anni quaranta distinse in modo chiaro la Geografia linguistica dalla Geografia delle lingue, e attribuì a quest’ultima il compito di analizzare la formazione delle aree di distribuzione di determinate parlate. Fu inoltre il primo ad attribuire un significato realmente geografico alla regione linguistica, considerandola come vera e propria regione culturale al cui interno l’aggregazione sociale è massima e la circolazione delle idee e delle innovazioni si realizza con maggiore velocità e capillarità. Ogni lingua corrisponde ad una particolare organizzazione dei dati dell’esperienza e ciascun gruppo umano elabora la sua cultura attraverso lo scambio di idee e di informazioni reso possibile dalla comune forma di espressione. Alla base di ogni regione umana c’ allora un codice comune di comunicazione che riflette il momento costruttivo originario di quella regione e che, nelle sue successive trasformazioni, ne rispecchia l’evoluzione. L’analisi dell’estensione territoriale di ciascun codice, della sua forza, della sua complessità, dei suoi utilizzi, della sua capacità di aggregare altre persone, della sua evoluzione, costituisce una parte importante della Geografia umana, perché porta ad osservare uno degli aspetti fondamentali dell’azione creativa dell’uomo. La lingua ha un suo preciso momento geografico e il geografo può attraverso di essa individuare la rete di correlazioni che legano un gruppo sociale agli altri e all’ambiente.

2.4. Gli strumenti dell’analisi

2.4.1 I censimenti linguistici

La lingua ha un ruolo molto importante nella formazione del sentimento nazionale. Non è un caso se l’idea di nazione ebbe un preciso contenuto linguistico. Quando, poi, la nazione riuscì a trovare una realizzazione dal punto di vista territoriale ed amministrativo, diventando, Stato-nazione, la questione della lingua acquisì una precisa connotazione geografica. Così come in passato si era obbligati a seguire la religione del proprio principe, ora chi, abitante di un certo territorio statale, parlava una lingua diversa da quella nazionale rappresentava un pericolo, e doveva perciò cambiare il suo modo di esprimersi. Per valutare la diffusione delle lingue e la consistenza di eventuali gruppi alloglotti presenti sul territorio sono stati generalmente adoperati i censimenti. Tuttavia utilizzando questo metodo è facile incorrere in malintesi. L’indicatore utilizzato nella maggior parte dei casi è la lingua materna, ma anche su questa definizione vi sono alcune discordanze, a seconda che si adotti il criterio:

- dell’anteriorità cronologica (in base al quale è tale la lingua che ognuno di noi apprende per prima);- o dell’uso continuativo (per cui la lingua materna è quella che si continua a parlare e, soprattutto,

nella quale si pensa).

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Ad ogni modo si è generalmente d’accordo sull’importanza della madrelingua quale indice di appartenenza dell’individuo ad un gruppo. Nei Paesi ove è diffuso il plurilinguismo, la ripartizione degli abitanti in base alle diverse classi possibili può mostrare i differenti percorsi dell’acculturazione.

Un primo problema deriva dalla scelta del momento in cui effettuare un censimento.

- Se la rilevazione dovesse avvenire in un periodo in cui condizioni economiche o azioni politiche hanno reso critiche le condizioni di una comunità, risulterebbe in un certo senso “ufficializzata” una situazione di minorità;

- Una difficoltà ancora maggiore, però, discende dal fatto che l’appartenenza di un individuo ad un certo gruppo linguistico può essere rilevata mediante opportune domande alla popolazione, ed è facile capire come il modo in cui vengono formulate le domande possa celare alcune “trappole”.

Prendiamo il caso del Belgio, Paese che la questione linguistica ha più volte rischiato di spaccare in due. Il primo censimento linguistico venne qui effettuato nel

- 1848, e in quell’occasione venne domandato ai cittadini qual era la lingua che parlavano abitualmente; dal momento, però, che molti di loro adoperavano abitualmente tanto il francese quanto il fiammingo, la lingua d’uso fu rilevata secondo criteri alquanto discutibili: a Bruxelles, ad esempio, vennero registrati come parlanti francesi gli abitanti dei quartieri centrali ed i padroni, come parlanti fiammingo quelli della periferia ed i servi. Fu proprio attraverso questo censimento che i neerlandesi fiamminghi si accorsero della loro forza numerica.

- Tra il 1866 e il 1890 fu chiesto semplicemente quali fossero le lingue conosciute; l’introduzione del bilinguismo nella pubblica amministrazione rese indispensabile, però, un’indagine più accurata, che consentisse di sapere qual era la lingua maggioritaria nei singoli distretti. Vi furono discussioni e polemiche e alla fine

- - nel 1910 si decise per non favorire nessuna delle due comunità e di far riferimento alla “lingua parlata più frequentemente”

- Dopo la rilevazione del 1947 il Belgio ha rinunciato a compiere indagini ufficiali e ha adottato un regime di bilinguismo indipendente dalla consistenza numerica dei due gruppi.

Per quanto riguarda l’Italia soltanto nel primo censimento dello Stato unitario venne fatta a tutti i cittadini una domanda sulla lingua da loro usata. La difficoltà di rilevare esattamente le diverse parlate locali, unita alla scarsa preparazione dei rilevatori, alla poca dimestichezza della popolazione con i censimenti e all’ambiguità delle domande resero, tuttavia, i risultati così poco attendibili che si preferì dare ad essi non troppo risalto. Durante il fascismo venne impedita qualsiasi rilevazione a carattere linguistico. Accanto ai censimenti etno-linguistici ci possono essere delle valutazioni fatte con criteri differenti da organi ufficiali o da enti sorti per la tutela delle comunità minori. Altre volte, invece, si rendono necessarie delle ricerche dirette sui diversi usi orali (e talvolta anche su quello scritto) delle lingue. D’aiuto nella valutazione della diffusione di una lingua possono essere i dati sulla tiratura di libri, giornali e periodici e si potrebbe anche fare attenzione ai mezzi audiovisivi: alle lingue, cioè, della radio e della televisione. E più di ogni altra indicazione, a tal proposito, sarebbe rivelatrice l’istruzione: i dati relativi alle lingue insegnate possono infatti fornire utili indicazioni sugli orientamenti dei governi e le tendenze delle popolazioni (che non sempre coincidono) e dar emergere l’esistenza di situazioni di disparità gerarchica nell’uso sociale delle lingue stesse.

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2.4.2 La rappresentazione cartografica

Subito dopo la pubblicazione dell’Atlante di Gilliéron vi fu un fiorire di altri strumenti cartografico - linguistici. Si trattava, in sostanza, di volumi formati da numerose carte, su ognuna delle quali veniva riportata la distribuzione e la localizzazione delle forme linguistiche che un concetto scelto in precedenza assumeva nei punti indagati; in questo modo si poteva ottenere una visione d’insieme di tutte le realizzazioni dialettali di una parola o una frase in un determinato territorio preso in considerazione. Le carte che compongono un atlante linguistico possono essere classificate in almeno tre gruppi a seconda degli aspetti che intendono rappresentare: può trattarsi di carte

- fonetiche, che mostrano le diverse pronunce di uno stesso suono;- lessicali, indicanti le varianti lessicali adoperate per esprimere uno stesso concetto- linguistiche, utili nello studio di fonemi, parole, ma anche di forme e costruzioni, e superiori alle

altre quanto a ricchezza degli elementi contenuti e molteplicità degli spunti di ricerca offerti.

Oltre questi tre tipi di carte, Breton, ne individua altre due tipologie: le carte

- onomasiologiche (o delle designazioni), raffiguranti i diversi termini che fanno riferimento ad una stessa realtà in una determinata area geografica;

- e semasiologiche (o delle significazioni), che registrano i differenti significati di uno stesso vocabolo.

Alcuni atlanti hanno anche un interesse dal punto di vista etnografico; la linguistica infatti, secondo alcuni studiosi, non può dissociarsi dallo studio di quella che è la cultura in senso antropologico poiché le parole rimandano ad una realtà umana che la lingua esprime e all’interno della quale la lingua serve per comunicare. La Geografia delle lingue prese le mosse proprio dalla Geografia linguistica o dialettologica. Il linguista fissava i confini tra il campo di variazione continue e le zone in cui la continuità si interrompeva e le parlate divenivano reciprocamente inintelligibili; il sociolinguista poteva indagare la variazione degli usi linguistici a seconda delle classi e dei gruppi sociali; al geografo restava da spiegare la distribuzione spaziale delle lingue come fenomeno globale a scala macrosociale, cercandone le correlazioni con l’insieme dei fatti territoriali. Carte tematiche e carte di sintesi costruite al fine di spiegare la distribuzione territoriale dei fenomeni linguistici si sono rivelate spesso, tuttavia, più degli strumenti politici che dei validi documenti scientifici. E in particolare quelle relative ai confini e alla diffusione delle lingue non sono riuscite a sfuggire ad un uso strumentale. Dal momento che una carta possiede una forza politica più evidente rispetto al risultato di un censimento, i rischi di manipolazione ideologica sono in questo caso ancora maggiori rispetto a quelli insiti nelle rilevazioni censuarie. D’altra parte, è oggettivamente molto difficile rappresentare graficamente un fenomeno così poco definito nello spazio qual è un’area linguistica, tracciandone i confini territoriali.

All’interno di una lingua, ci troviamo di fronte ad un campo di variazione continua di fenomeni vicini, ed è complicato stabilire dove finisca un dialetto e ne inizi un altro. Via via che ci avviciniamo alla realtà ed aumenta la scala di osservazione, tracciare un confine netto diventa ancora più difficile. Dal momento che tra le aree dialettali non c’ generalmente soluzione di continuità, esse configurano, nel loro insieme, un campo di variazione continuo (una più grande area linguistica) al cui interno è possibile una progressiva intercomprensione tra gruppi vicini. E solitamente, nelle aree linguistiche così individuate, domina un’unica lingua normalizzata, una lingua di cultura di più vasto respiro. Per quanto estese siano, tuttavia, le aree linguistiche non arrivano mai a coprire interi continenti: l’intercomprensione ha infatti dei limiti che si fanno, ad un certo punto, estremamente netti. Mentre, pertanto, le aree dialettali sono il più delle volte difficili da definire, tra le grandi aree linguistiche, e soprattutto tra le aree di lingue

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appartenenti a famiglie diverse, i contorni divengono molto più precisi. In questi casi, infatti, non siamo più dinanzi ad un campo di variazione continua ma alla contrapposizione di entità discrete, e quindi di elementi separati.

Al di là delle difficoltà di delimitazione delle aree e di definizione delle parlate proprie di queste aree, un altro problema è quello riguardante la scelta della scala da adottare: è poco probabile, infatti, che si riescano a raggiungere buoni risultati con carte a piccola scala, perché in tal caso andrebbero persi molti dettagli e si trascurerebbero tutte quelle realtà che risultano frammentate e disperse sul territorio. Proprio per questo, la scala dovrebbe poter rappresentare l’unità amministrativa (e censuaria) più piccola a disposizione per il territorio prescelto.

Un’altra difficoltà deriva dai dati disponibili: i censimenti linguistici ci forniscono le informazioni sulla consistenza numerica e la distribuzione territoriale di coloro che utilizzano una determinata espressione linguistica e dovrebbero costituire, dunque, la base per la costruzione delle carte tematiche. Ma, oltre ad essere poco diffusi, essi vengono effettuati con criteri difformi e il più delle volte poco attendibili. Anche le carte realizzate sulla base dei dati da questi forniti andranno perciò lette con cautela.

Un ulteriore problema è legato al momento che si intende rappresentare: i fenomeni linguistici mutano più o meno velocemente insieme all’evolversi delle vicende umane, mentre una carta linguistica fotografa una situazione storica ben precisa, finendo con l’avvalorare gli effetti di avvenimenti e politiche che non tutti sono disposti ad accettare.

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Capitolo 3

I molteplici usi delle lingue

3.1. Lingue e varianti linguistiche

Secondo l’opinione unanime di psicologi e linguisti, la lingua materna ha un ruolo fondamentale per ogni individuo e anche qualora dovesse, col passare del tempo, essere soppiantata da un’altra parlata avrebbe comunque già lasciato il segno sul modo di sentire e di pensare. Alla parlata materna si può affiancare l’acquisizione di una o più seconde lingue. L’ordine di apprendimento delle seconde lingue corrisponde generalmente al diverso bisogno di utilizzo. In molte società prevalgono i privilegi politici o culturali di cui beneficiano alcune lingue rispetto ad altre, che vengono così relegate in posizioni marginali. Nell’insieme, in una situazione di plurilinguismo, questa disparità di trattamento finisce inevitabilmente col favorire lo sviluppo dell’uso di alcune lingue a svantaggio di altre, fino a poter portare ad una loro graduale sostituzione. Gli individui che parlano una stessa lingua costituiscono una comunità linguistica; l’appartenenza ad una medesima comunità, tuttavia, non implica di per sé una situazione di uniformità. Al contrario: accanto alla lingua standard (o ufficiale) generalmente esistono più varianti regionali (i dialetti) che riflettono il parlato quotidiano di una determinata area geografica. Da un lato, infatti, il lessico, la pronuncia possono aiutarci a distinguere un gruppo di persone da un altro, consentendoci di individuare l’origine di chi parla; dall’altro, però, poiché in più casi le persone delle classi più basse o meno istruite tendono ad adoperare più spesso il dialetto, l’uso di un dialetto può contrassegnare l’appartenenza del soggetto ad una certa classe sociale o indicare il livello di istruzione raggiunto. Un dialetto può diventare lingua standard qualora esso corrisponda alla parlata di coloro che detengono il potere o che occupano i gradini più alti nella gerarchia sociale della comunità. Spesso la variante che emerge come base della lingua standard è quella associata alla capitale o al centro del potere nel periodo dello sviluppo nazionale. Così è avvenuto per il francese standard, fondato sul dialetto della regione parigina, che divenne predominante su tutti gli altri idiomi parlati nel territorio occupato dall’attuale Francia, per il castigliano, per la lingua russa standard e per il cinese standard, basato sul dialetto mandarino di Pechino. I governi nazionali possono scegliere un singolo idioma come lingua ufficiale dello Stato, e nelle società in cui vengono adoperate comunemente due o più lingue ciò può facilitare le comunicazioni tra i cittadini. È proprio per questo, d’altra parte, che decine di Paesi, nell’intento di risolvere complesse situazioni di multilinguismo, hanno sposato l’idea che una lingua ufficiale potesse fungere da “ombrello”. Molti paesi dell’Africa sub sahariana, ad esempio, hanno designato quale lingua ufficiale quella della loro ex potenza coloniale. In realtà, però, una scelta di questo tipo può rivelarsi rischiosa: sul lungo periodo, infatti, le conseguenze dell’imposizione di una lingua straniera possono essere tutt’altro che positive, e i cittadini possono manifestare la volontà di opporsi al primato di un idioma che associano alla sottomissione e alla repressione. Proprio per questo motivo alcune ex colonie hanno scelto non una, ma due lingue ufficiali. La qualifica di “ufficiale” viene adoperata in due sensi diversi:

1- nel caso che si tratti di Stati, si definisce tale la lingua usata in tutte le occasioni ufficiali;2- a livello delle organizzazioni internazionali sono i diversi Stati membri a decidere quali parlate

adottare come ufficiali: per l’Unione Europea, ad esempio, assumono di diritto questa qualifica tutte le lingue ufficiali del Paesi che ne fanno parte (e oggi, con ventisette Stati membri, sono ventitre le lingue ufficiali).

Vero è, d’altra parte, che nelle organizzazioni internazionali si fa una distinzione tra le lingue ufficiali e quelle di lavoro, quelle cioè effettivamente usate in modo generale: per restare sempre in Europa, la

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Commissione ha adottato come lingue di lavoro l’inglese, il francese ed il tedesco. Gli Stati, poi, in alcuni casi distinguono le lingue nazionali (espressione di un gruppo etnico consolidato, che può aver raggiunto una certa autonomia o indipendenza) dalle lingue ufficiali, usando poi più comunemente le seconde. Nelle strutture statali federali si possono individuare due livelli d’uso ufficiale: quello della federazione e quello delle unità federate. Negli Stati non federali, invece, si tende a contrapporre alla lingua nazionale una parlata locale soltanto quando quest’ultima ha un ruolo ben preciso o come legame interetnico o interregionale oppure come espressione di un’etnia. Spetta alla Geografia delle lingue il compito di indagare sui rapporti, le discrepanze e le interazioni fra i tre principali livelli di utilizzo delle lingue:

- la loro diffusione come madrelingua nella popolazione;- l’uso delle comunicazioni;- e lo status giuridico.

3.2. Bilinguismi e multilinguismi

Pochi sono gli Stati effettivamente monolingui, che dispongono cioè di un unico idioma utilizzato nei diversi ambiti da tutti i cittadini; praticamente dovunque migrazioni e divisioni di confine hanno determinato, nel corso del tempo, una coesistenza di lingue. In alcuni Paesi il multilinguismo è ufficialmente riconosciuto attraverso la designazione di più lingue ufficiali: Finlandia (finnico e svedese), Canada (inglese e francese). Ma altri ne hanno anche più di due: come la Bolivia e il Perù che ne hanno tre. Delle situazioni di bi o plurilinguismo sono state date valutazioni differenti. Un tempo queste realtà tendevano ad essere considerate in modo negativo; essendo la lingua ritenuta, infatti, un momento di aggregazione di una comunità nel corso della sua azione di trasformazione del territorio, esse erano viste come il risultato di un’imperfezione in tal senso. Inoltre il bilinguismo derivante dalla necessità di esprimersi in modo diverso a seconda dei contesti e delle situazioni veniva giudicato un elemento di debolezza per una comunità. Se, poi, il bilinguismo fosse sorto dall’esigenza di utilizzare una seconda lingua per certi particolari usi, si sarebbe potuto interpretare il fatto che la lingua adoperata normalmente non fosse utile in tutti i momenti della vita come prova di un’ancora carente organizzazione della comunità. Oggi, tuttavia, si ritiene generalmente che al plurilinguismo corrisponda una positiva condizione di pluriculturalismo e che questa vada valorizzata, soprattutto in campo educativo; l’utilizzo abituale di più lingue non è visto, quindi, come un fenomeno da combattere, ma come una realtà da difendere, in quanto modo di essere caratteristico delle società moderne. È indubbio che il multilinguismo possa riflettere significative divisioni culturali all’interno di un Paese e che la frammentazione linguistica possa celare l’azione di incisive forze di divisione. La dinamica linguistica segue le tendenze della dinamica sociale, ed il gruppo che rivela una maggiore capacità di incidere sulla società riesce, prima o poi, a far prevalere anche la propria lingua. Dal momento, però, che i rapporti di forza possono variare nel tempo, il multilinguismo costituisce di norma una realtà in continua evoluzione. Ad ogni modo, il fenomeno può assumere forme differenti. Talvolta ha espressione regionale, nel senso che ciascuna delle lingue parlate prevale in un’area specifica del Paese. Altre volte, invece, tale espressione regionale si presenta molto meno evidente, essendosi verificata una notevole commistione dei parlanti.

Una particolare forma di bilinguismo si verifica invece quando, a partire dal medesimo idioma, viene a determinarsi una profonda divergenza tra lingua popolare e lingua colta, tale da costituire una vera e propria barriera di inintelligibilità tra le due. In tal caso, si parla di diglossia, proprio a sottolineare la

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compresenza di due lingue o varietà, differenziate funzionalmente, una delle quali viene adoperata in ambito formale e l’altra in ambito informale. Tanto il bilinguismo quanto la diglossia, comunque, variano in base alle classi sociali e alle fasce d’età. In linea generale, infatti, la popolazione di sesso maschile e quella in età lavorativa risultano maggiormente interessate dai fenomeni di bilinguismo, mentre le persone anziane restano più compattamente monolingui ed attaccate alle forme locali o tradizionali.

3.3. Stadi di sviluppo differenti

Il panorama linguistico è in continua evoluzione. La disparità, oltre che in termini quantitativi, si presenta forte anche da un punto di vista qualitativo, cioè in riferimento allo stadio raggiunto da ognuna nell’espressione della cultura. A tal proposito Breton ha ripartito le lingue secondo cinque livelli di sviluppo.

1- Ad un primo livello egli colloca le lingue prive di scrittura, di tradizione orale ed uso locale: parlate tribali ritenute primitive e dialetti ampiamente diffusi nell’uso generale ma non fissati in una forma scritta che sono sottoposti alla concorrenza delle lingue “di cultura” e minacciati di corruzione e di disaffezione.

2- Al secondo, invece, pone le lingue locali (o vernacole) che sono ormai entrate in uno stadio di “letterizzazione”, divenute più numerose grazie al riconoscimento ufficiale e alla promozione da parte delle amministrazioni coloniali prima e dei nuovi apparati statali poi.

3- Ad un terzo livello si può osservare la crescente diffusione delle parlate veicolari, originariamente lingue vernacole o pidgin, elevate poi in varie etnie a seconda lingua dagli strati di popolazione dediti ad attività di relazione. Sono lingue nate dall’esigenza di rendere possibili contatti e scambi tra individui parlanti idiomi diversi.

4- Il quarto livello è occupato, invece, dalle lingue nazionali, espressione di un gruppo etnico consolidato che ha compiuto il processo di unificazione politica ed ha assunto una sua cultura ben definita.

IN UNA PRIMA FASE

quando ancora non si può parlare di popolo ma solo di un insieme di individui con uno o più interessi condivisi, la lingua si limita a consentire la comunicazione interpersonale. Quando ad una parlata viene attribuito il compito di aggregare intorno ad un unico ideale di nazione della comunità, tale lingua diviene allora nazionale; e per facilitare l’azione di governo, allontanando la comunità da eventuali tentazioni separatiste, questa verrà prescelta quale lingua obbligatoria per l’amministrazione, per l’insegnamento e per tutte le funzioni proprie di un sistema di gestione centralizzato.

5- Infine, vi è un quinto livello, costituito da quelle lingue (cosiddette internazionali) che vengono adoperate da più Paesi, al di là delle loro differenze, come strumento di rapporti internazionali e legame culturale. I primi ad avvertire l’esigenza di apprendere altre lingue sono i mercanti. “internazionali” sono, perciò, definite quelle lingue il cui uso è stato rivolto a facilitare le comunicazioni tra gruppi umani parlanti idiomi diversi.

L’aggettivo “internazionale”, però, viene solitamente adoperato anche in riferimento a delle lingue molto conosciute nel mondo. Lo sono state, tra le altre, il greco, il latino nell’impero romano, il persiano

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allorché la dominazione islamica si estesa alla penisola indiana, il cinese in Estremo Oriente, il quechua nell’impero inca ecc…ed è tale oggi, a livello mondiale, l’inglese.

È facile capire che una lingua diviene internazionale per un motivo fondamentale, ovvero per il potere del popolo che la parla, che si tratti di potere politico o di supremazia economica, culturale, tecnologica. Prendiamo il caso dell’inglese: ciascuna di queste forme di potere ha condizionato, in momenti diversi, la sua espansione. La forza politica si è manifestata essenzialmente nella forma di quel colonialismo che, a partire dal Cinquecento, ha diffuso l’inglese nel mondo; il potere tecnologico è scaturito dalla Rivoluzione industriale del Sette - ottocento; a partire dal XIX secolo si è assistito, poi, alla crescita del potere economico degli Stati Uniti, e nel Novecento si è manifestata anche una supremazia di tipo culturale, che ha agito attraverso sfere di influenza prevalentemente americane. Proprio in conseguenza di queste diverse manifestazioni del potere, l’inglese è riuscito ad acquistare un indubbio predominio in più campi differenti.

Perché si possa usare la qualifica di “internazionale” è necessario che essa venga adottata in altri Paesi del mondo e che assuma all’interno delle loro comunità un posto particolare. Ciò può avvenire in due modi:

- Da un lato, una lingua può diventare ufficiale in più Stati, e quindi essere adoperata in ambito governativo;

- Dall’altro, essa può vedersi attribuire una netta priorità nell’insegnamento delle lingue straniere in molti Paesi.

In virtù di questo sviluppo tripartito (come madrelingua, come seconda lingua e come lingua straniera) è inevitabile che una parlata mondiale giunga ad essere utilizzata da molte più persone rispetto a qualsiasi altra. Oggi l’inglese ha raggiunto questa fase: con una certa approssimazione si può ritenere che siano circa 400 milioni coloro che hanno questa come lingua materna, almeno altrettanti quelli che hanno appreso l’inglese come seconda lingua, e almeno 600 milioni gli individui in grado di parlarlo come lingua straniera. Ma poiché nelle regioni in cui l’inglese è seconda lingua la crescita demografica è di circa tre volte superiore rispetto a quella delle regioni in cui l’inglese è lingua materna, presto il numero di coloro che parlano l’inglese come seconda lingua sarà di gran lunga superiore rispetto a quello dei locutori nativi. È proprio per tale ragione che l’inglese sta mutando rapidamente. In India probabilmente vi sono più persone che parlano inglese che in Gran Bretagna e negli USA messi insieme. E queste persone vanno sviluppando un proprio inglese: il processo di appropriazione della lingua implica infatti un “rimodellamento” della stessa a seconda delle regioni, e quindi un adattamento a culture, background linguistici e necessità differenti.

L’inglese sta sperimentando una sorta di differenziazione regionale, e segue un percorso che pare orientato alla reciproca intelligibilità delle proprie varianti, quelle cioè che sono state denominate New Englishes. I New Englishes sono nati per il bisogno di esprimere l’identità nazionale e per il desiderio di manifestare tale identità agli occhi del mondo.

Ad ogni modo, secondo gli studiosi del fenomeno, la tendenza più probabile è che si verifichino tanto processi di divergenza quanto di convergenza. Se da una parte, infatti, l’utilizzo dell’inglese come principale lingua di comunicazione a livello mondiale è una realtà fuori discussione, dall’altra coloro che parlano inglese finiscono con l’imparare due versioni diverse di tale lingua, una vicina alla propria cultura e l’altra riferibile al contesto internazionale.

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3.4. Molteplicità di usi delle lingue

Dei molteplici usi che una lingua può avere, uno dei più importanti, ma anche uno dei meno dinamici, è sicuramente quello religioso. Il credo religioso è un elemento di quel sottosistema ideologico che compone ogni struttura culturale, mentre la religione formalizzata ed organizzata ne costituisce un espressione istituzionale. Elemento chiave nei processi di identificazione di gruppo, anche la religione, come la lingua, è un prodotto mentale ed agisce come veicolo di trasmissione della cultura, per quanto risulti un “identificatore” di cultura spesso meno evidente rispetto al linguaggio. Alcune società sono dominate in tutti i loro aspetti dal credo ufficialmente riconosciuto. Ma convinzioni e tradizioni religiose saldamente radicate possono agire tanto come fattore di coesione quanto come elemento di separazione.

Lingua e religione non sono indipendenti l’una dall’altra. L’esercizio delle pratiche religiose secondo formule e riti collettivi necessita, d’altra parte, di una lingua comune che consenta ai fedeli di sentirsi tutti ugualmente “partecipi”. La religione può influenzare la diffusione di una lingua su un ampio spazio svolgendo un ruolo determinante nello sviluppo del nazionalismo arabo. L’esigenza di diffondere i testi sacri, poi, può richiedere l’introduzione di un alfabeto nel caso di comunità illetterate. Andrebbe, inoltre, ricordato il ruolo della religione cristiana nello studio di lingue meno note o nel passaggio alla forma scritta di lingue solo parlate. E, ancora, non andrebbe dimenticato come l’uso di un certo idioma in ambito religioso sia riuscito a preservare lingue altrimenti a rischio di estinzione o anche a diffondere lingue di cultura nazionali. Le lingue liturgiche si distinguono da quelle usate comunemente per la loro fissità. I diversi riti hanno generalmente bisogno di formule non modificabili.

Non è un caso, allora, se gli scismi religiosi che hanno coinvolto la Chiesa cattolica sono stati anche degli scismi linguistici. Le novantacinque tesi affisse da Martin Lutero alla porta della chiesa del palazzo ducale di Wittenberg nell’ottobre del 1517 erano scritte in latino; quando, però, la rottura con la Chiesa di Roma divenne definitiva, Lutero preparò in tedesco una lunga lettera indirizzata alla “nobiltà cristiana della nazione tedesca”, invitandola allo scontro con Roma e dando inizio all’uso di questa lingua nell’ambito della Chiesa protestante.

Politiche linguistiche diverse sono state portate avanti dalle varie Chiese. Due esempi fra tutti:

- L’ala più filo-gallese della Chiesa anglicana istituì alla fine del XVIII secolo le Sunday Schools, che diedero un prezioso contributo alla diffusione della forma standard del gallese; quest’ala si staccò progressivamente dalla Chiesa anglicana fondando nel 1811 la Chiesa metodista. Il gallese riuscì così a sopravvivere proprio in quanto saldamente legato ad una cultura locale ancora viva e sempre sostenuto dai metodisti.

- Ancora, le missioni cattoliche dell’Africa hanno sempre cercato di favorire le lingue tribali sia per avere un mezzo di predicazione più immediato, sia per stroncare, laddove era penetrato, l’arabo, veicolo di diffusione dell’Islam.

Oltre alla lingua e alla religione però gli individui trovano anche altri motivi di aggregazione sociale. Uno dei principali è sicuramente quello economico: gli uomini per sopravvivere devono produrre i beni e i servizi di cui hanno bisogno. Per tale motivo è necessario che gli individui diano vita ad una struttura produttiva ampia ed efficiente; e dal momento che questa ha bisogno di continui scambi di informazioni, se le informazioni vengono trasmesse e comprese rapidamente tutto il sistema economico se ne avvantaggia. L’uso di una lingua in ambito economico è uno dei più poveri; le

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trattative finalizzate al trasferimento di beni, servizi e denaro tendono ad essere effettuate, infatti, attraverso codici linguistici facilmente comprensibili e quindi ridotti all’essenziale.

Le lingue franche sono sorte proprio dalla necessità di comunicare con un gran numero di persone appartenenti a comunità linguistiche diverse in frequente contatto tra di loro. L’espressione “lingua franca” deriva dall’arabo al farang: in origine era questo, infatti, il termine con cui i mercanti arabi chiamavano gli europei. La lingua franca per eccellenza (il sabir) fu una lingua “di servizio” parlata tra il XIII ed il XIX secolo. Col passare del tempo, però, l’espressione “lingua franca” è divenuta sinonimo di lingua comune parlata da popoli aventi idiomi differenti. In questa accezione, i territori del bacino del Mediterraneo tra il 300 a.C. e il 500 d.C. vennero “unificati” dal greco; fu poi il latino ad imporsi come lingua franca, divenendo lingua ufficiale dell’impero romano. Ancora, al di fuori della sfera europea, fu l’aramaico la parlata comune nel Vicino Oriente e in Egitto, mentre l’arabo dopo il VII secolo diventò il linguaggio unificante della religione musulmana.

La grande eterogeneità linguistica dell’Africa ha reso inevitabile la nascita di numerose lingue franche. Una di quelle che col tempo è andata cambiando valore è il kiswahili (o swahili). Da quanto detto emerge come nel corso della storia il moltiplicarsi dei contatti fra i popoli abbia determinato costantemente la necessità di strumenti linguistici comuni. Non è un caso, allora, se l’inglese svolge oggi sempre più, a livello mondiale, il ruolo di lingua franca. Il fatto che i principali centri motori dell’economia siano situati in aree di lingua inglese e che la scienza, le industrie e le grandi organizzazioni trovino in tale lingua lo strumento per arrivare ad un elevato numero di persone ha favorito la sua diffusione a livello planetario. C’è, però, un altro caso ancora da considerare: quello di certe forme linguistiche nate sotto lo stimolo di determinate esigenze d’uso che, dapprima estremamente semplificate e adoperate soltanto in funzione delle necessità da cui sono derivate, hanno talvolta assunto una più alta dignità espressiva.

3.5. Le lingue di contatto

Se considerassimo, ad esempio, la situazione di uno Stato africano come il Ghana, potremmo notare che, pur essendo presenti qui oltre settanta lingue diverse, unica ufficiale è l’inglese, parlata nativa di una porzione largamente minoritaria degli oltre 20 milioni di abitanti del Paese; ciascun individuo adulto conosce quindi, oltre alla propria lingua madre, almeno una parlata veicolare ed una varietà di quella ufficiale. È chiaro come, in casi come questo, i fenomeni di interferenza siano ben più estesi. Tali fenomeni possono spingersi fino alle conseguenze più estreme, vale a dire alla formazione delle cosiddette lingue di contatto, ovvero di quelle parlate veicolari che sono i pidgin e le lingue creole.

- Pidgin

Col primo termine si intende un amalgama di lingue, dalla grammatica estremamente semplice e con una terminologia ristretta, adeguata ad esprimere idee di base e non concetti complessi, nato in seguito ai contatti tra gli europei e le popolazioni locali. Forzati, infatti, al trasferimento nelle piantagioni delle Antille e di altri territori coloniali, gli schiavi africani dovevano trovare il modo di comunicare tanto fra di loro quanto coi loro padroni, e finirono con l’elaborare un nuovo linguaggio semplificando al massimo le loro parlate originarie e adottando forme e termini dalle lingue dei colonizzatori. Quando tali schiavi cominciarono ad elaborare una nuova cultura la loro lingua andò acquisendo una maggiore consistenza espressiva e si codificò in forme durevoli, che poi, col passare del tempo, divennero le uniche conosciute dai loro figli. Nel momento in cui poi la schiavitù terminò tali parlate avevano ormai assunto una notevole ricchezza espressiva e in certi casi anche una dignità letteraria. Un pidgin,

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insomma, è una lingua occasionale, provvisoria. Esso, solitamente, plasma la propria grammatica su quella delle lingue indigene e costruisce invece il lessico attingendo soprattutto a quello della lingua che alle parlate indigene si è sovrapposta (lingua lessificatrice). Per tale motivo, d’altra parte, un pidgin non viene utilizzato nell’ambito familiare, che rimane di pertinenza delle lingue native. La maggior parte dei pidgin si estingue quando vengono meno i presupposti che hanno contribuito alla loro nascita, quando, cioè, i contatti tra i vari gruppi si interrompono.

- Lingue creole

Se sussistono le condizioni per cui un pidgin non si estingua e non resti eccessivamente limitato quanto a numero di parlanti, esso può assumere, nell’arco di qualche generazione, i caratteri di lingua relativamente stabile, acquisendo una propria struttura lessico-sintattica. L’utilizzo della lingua potrà penetrare nell’ambito familiare, tra membri del medesimo gruppo. Questo percorso costituisce la premessa per la comparsa di un creolo, che può essere ritenuto un pidgin diventato lingua nativa di una generazione. In altri termini, una lingua creola è la lingua madre di un bambino cui fin dalla nascita è stata trasmessa la conoscenza di un pidgin. Tra un pidgin ed un creolo esistono vari stadi intermedi.

Per quanto riguarda i pidgin si è soliti distinguere almeno tre fasi:

1- Pidgin gergale: quella fase caratterizzata da una notevole variazione individuale, un inventario fonologico estremamente ridotto, una pressoché totale assenza di morfologia, una sintassi elementare ed un lessico limitato;

2- Pidgin stabile: fase in cui appaiono le prime regole grammaticali ed il lessico comincia ad arricchirsi;3- Pidgin esteso: ultima fase in cui la grammatica raggiunge un elevato indice di complessità e si

amplia la gamma degli ambiti d’uso della lingua.

A complicare la situazione, interviene comunque il fatto che una stessa parlata possa avere stadi di sviluppo diversi in diversi contesti. Anche all’interno di una stessa comunità una lingua di contatto può essere lingua madre di alcuni parlanti (e dunque un creolo) e pidgin per altri. Tutto ciò rende piuttosto incerto il quadro di riferimento. Pertanto i termini “pidgin” e “creolo” vanno intesi come relativi: una distinzione è sicuramente utile, a patto, però, che si ricordi che una demarcazione netta non sempre è possibile.

Ma cosa avviene quando il creolo è ormai una lingua a tutti gli effetti ed entra a sua volta in quel complesso di dinamiche di ordine linguistico ma anche di natura sociale che caratterizzano la vita di ogni idioma? Esso può continuare ad esistere senza perdere i caratteri tipici delle lingue di contatto, trasformandosi in una lingua “normale” (decreolizzazione) o “ripidginizzarsi” in seguito. Le variabili in gioco sono numerose. Tre sono attualmente le principali aree linguistiche dei creoli:

- Quella francese- Inglese- E portoghese.

Ampiamente dibattuta dagli studiosi è, infine, la questione relativa all’origine di pidgin e creoli. Possiamo dire che le analogie che si riscontrano in lingue di contatto diverse e parlate a notevole distanza l’una dall’altra sono state spiegate o ipotizzando una loro origine comune (teoria della monogenesi) o chiamando in causa delle tendenze generali dei fenomeni di

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pidginizzazione/creolizzazione che avrebbero luogo in percorsi evolutivi del tutto indipendenti. I sostenitori della prima teoria affermano che i pidgin ed i creoli a base europea proverrebbero tutti da un pidgin a base portoghese del XV secolo. Un pidgin questo strettamente collegato al sabir e che avrebbe svolto la funzione di “protopidgin”. Le differenze, invece, andrebbero attribuite al processo di rilessificazione, ovvero alla sostituzione del vocabolario a fronte del mantenimento della struttura di base che si verifica in situazioni di contatto prolungato e di plurilinguismo. I fautori dell’altra teoria (quella della poligenesi) credono invece che le analogie riscontrate vadano spiegate attraverso una serie di costanti della pidginizzazione: in pratica pidgin e creoli si sarebbero sviluppati seguendo percorsi caratterizzati da alcuni fenomeni comuni. Pidgin e creoli allora pur avendo avuto origine in zone anche molto distanti della Terra, si sarebbero evoluti tutti più o meno nelle medesime condizioni sociali, per soddisfare le medesime esigenze e, nella maggior parte dei casi, a partire dalle stesse lingue indoeuropee; ed essendo le premesse in buona parte coincidenti, anche il loro sviluppo potrebbe aver seguito percorsi simili.

3.6. Le lingue artificiali

Alcuni idiomi sono stati creati consapevolmente dall’uomo per scopi differenti. Sono stati introdotti deliberatamente nell’uso di una comunità di parlanti dopo essere stati progettati da qualcuno che intendeva diffonderli quali strumenti di comunicazione o utilizzarli, ad esempio, in opere di finzione, a fini di sperimentazione linguistica e nella messa a punto di codici segreti. È per questo che, in riferimento a casi del genere, si parla di lingue costruite o artificiali. Si effettua solitamente un’ulteriore distinzione tra:

- Lingue ausiliarie (cioè pensate per la comunicazione internazionale);- Artistiche (progettate per essere adoperate all’interno di opere artistiche o per puro diletto);- E logiche (ideate, cioè, a fini di sperimentazione logica o filosofica).

Inoltre, a seconda che la grammatica ed il lessico siano costruiti dal nulla o derivino, al contrario, da una o più lingue naturali, si parla talvolta anche di lingue artificiali “a priori” e “a posteriori”. Queste ultime, poi, sono a loro volta dette pianificate naturalistiche , se seguono da vicino le lingue naturali sulla cui base (al fine di minimizzare i tempi d’apprendimento) sono state elaborate, o schematiche, se le loro caratteristiche sono state volutamente semplificate o sintetizzate da varie fonti. Una lingua artificiale non ha inizialmente una comunità di parlanti. In comune con le lingue naturali, anche una lingua artificiale ha, almeno in teoria, la stessa funzione e gli stessi mezzi. Di fatto, però, dei tanti progetti avanzati, soltanto ad una decina è corrisposta effettivamente una comunità di locutori e delle numerose proposte nate dall’esigenza di rispondere ad un bisogno antico quale quello di creare una vera parlata universale, soltanto una ha riscosso un certo successo. Fu nel corso dell’Ottocento che si affermò l’idea di un idioma comune, relativamente semplice, attraverso cui gli uomini di tutto il mondo potessero intendersi: lingue internazionali ausiliarie, quindi, costruite con l’obiettivo di raggiungere il maggior numero di parlanti.

L’unica ad aver conosciuto, però, nel corso degli anni una progressiva espansione, pur mantenendo l’esclusivo ruolo di seconda lingua per i suoi locutori, è stata l’esperanto. Sviluppato tra il 1872 ed il 1887 dall’oftalmologo polacco Ludwik Lejer Zamenhof, l’esperanto è di gran lunga la più conosciuta ed utilizzata tra le lingue artificiali esistenti. Nato da un ideale di pace, collaborazione e intercomprensione tra gli uomini, l’esperanto intendeva porsi al di sopra di ogni differenza etnica, politica, religiosa, contro il predominio dei più forti ed i rischi di una visione monoculturale del mondo. Il suo obiettivo non era, perciò, quello di sostituire le lingue nazionali, quanto piuttosto quello di fornire uno strumento

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semplice da adoperare e non discriminatorio per la comprensione reciproca a livello internazionale. Zamenhof utilizzò il suo bagaglio culturale per creare una parlata semplice e alla portata di tutti. Ortografia, fonetica, grammatica e sintassi non potevano basarsi che su principi di semplicità e regolarità. Le regole della grammatica furono scelte da quelle di varie lingue studiate da Z. i vocaboli furono tratti da idiomi preesistenti, alcuni (specie quelli introdotti di recente) anche da lingue non indoeuropee, ma per lo più dal latino, dalle lingue romanze, da quelle germaniche e da quelle slave. Grazie, inoltre, ad un razionale sistema di radici, prefissi e suffissi, e alla possibilità di creare parole composte in grado di “descrivere” un dato concetto, il lessico riusciva ad esprimere le sfumature di pensiero in una forma comprensibile anche a popoli di tradizioni culturali differenti. Oggi l’esperanto viene usato quotidianamente, in forma parlata e scritta, da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Ma una lingua artificiale non ha un popolo e non ha una cultura. Una lingua artificiale può somigliare ad una lingua franca senza, però, averne la forza espressiva e la vitalità; anche in questo caso, quindi, ciò che si è sviluppato in natura ed è frutto della selezione storica e sociale si dimostra più efficiente e meglio costruito di ciò che è stato concepito a tavolino. Se le lingue artificiali non vengono adottate, allora, la causa sta nella mancanza di motivazioni. Per quanto riguarda in particolare l’esperanto poi pur ipotizzando che un gran numero di persone possa impararlo, andrebbe considerato che in questo modo, nel giro di un paio di generazioni, finirebbero con lo svilupparsi decine di esperanti diversi, per cui probabilmente non ci si capirebbe neanche più. Le lingue, infatti, sono sottoposte all’azione di due forze contrapposte. Da un lato, una tendenza all’unificazione sotto la pressione delle necessità sociali, dall’altro, una tendenza alla differenziazione dovuta alla dispersione, all’isolamento, all’autarchia di alcuni gruppi, che fa si che tra i vari elementi in cui un idioma si frantuma vada progressivamente diminuendo l’intercomprensione.

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Capitolo 4

Dinamiche linguistiche nello spazio e nel tempo

4.1. L’evoluzione linguistica nel tempo

Le lingue costituiscono delle strutture dinamiche, in continua evoluzione; cambiano internamente (attraverso la creazione di parole nuove, la perdita di vocaboli non più adoperati o l’adozione di termini stranieri) così come possono estendersi su nuovi territori attraverso le migrazioni dei propri locutori o in seguito all’acculturazione dei locutori di parlate vicine. Il lessico è la parte più esposta al mutamento, in quanto più forti sono i suoi legami con la realtà extralinguistica: i cambiamenti nelle condizioni socioeconomiche, le trasformazioni culturali, il progresso scientifico e tecnico. Nuove parole entrano nell’uso (solitamente in risposta alle necessità di determinati settori). Neologismi e prestiti da lingue straniere trasformano il vocabolario; al tempo stesso, vecchie parole ne escono (divenendo degli arcaismi) e termini già esistenti vanno assumendo nuovi significati.

La dinamica linguistica non dipende soltanto dal mero dato demografico, quanto piuttosto dalla capacità che ha un gruppo di elaborare cultura e trasmetterla ad altri; è chiaro allora che, quando il numero dei suoi locutori scende al di sotto di una certa soglia, una parlata perde vitalità, ma nell’espansione (o nel declino) di una lingua contano maggiormente l’organizzazione sociale e politica, l’efficienza del sistema economico, la forza innovativa, la possibilità di trasmettere le informazioni. Una comunità efficiente e in grado di imporre ad altri i propri modelli organizzativi, dotata di un’economia forte ed aggressiva sui mercati esteri, provvista di mezzi editoriali solidi e di strutture per l’informazione di massa capillari potrà espandere la sua area linguistica in modo ben più rapido e consistente di quanto non possa fare un trend demografico favorevole. Si pensi al caso di quelle lingue decadute proprio perché le relative comunità sono andate perdendo vivacità culturale o capacità di controllo del proprio territorio. Un tempo esse erano lingue di comunione di individui che riuscivano a mantenere la loro cultura e che attiravano forme di produzione volte essenzialmente all’autoconsumo. Dal momento, però, che i relativi raggruppamenti etnici non sono più chiusi, esse hanno perso la loro capacità di servire alle normali relazioni all’interno del gruppo, finendo col diventare seconde lingue.

Una lingua, d’altra parte, deve essere in grado di adattarsi alle innovazioni tecnologiche e a nuovi rapporti sociali e produttivi. Emblematico, in tal senso, è l’esempio delle lingue celtiche dell’arcipelago britannico: la nuova struttura territoriale determinata dalla Rivoluzione industriale inglobò queste comunità nell’ambito di relazioni britannico, e le loro lingue regredirono insieme alle culture tradizionali e ai precedenti sistemi produttivi. Completamente assorbite le comunità minori dell’isola di Man e della Cornovaglia, le lingue celtiche rimasero confinate nelle zone più isolate ed arretrare dell’Irlanda, della Scozia e del Galles. Il processo di riorganizzazione territoriale imposto dall’Inghilterra industriale finì così per arrestare l’autonoma evoluzione tanto delle loro strutture sociali quanto delle loro lingue, incapaci di esprimere i nuovi rapporti e di resistere all’invadenza inglese. In genere, l’esistenza nell’area di un centro innovatore politico e culturale determina delle innovazioni dinamiche negli usi linguistici. Il francese di Parigi, ad esempio, si presenta più “moderno” rispetto a quello delle province. Tra le lingue indoeuropee, poi, il lituano e il lettone sono rimaste quelle più immobili e complesse proprio perché prive di un centro innovatore.

La lingua che diviene predominante, la lingua “esportatrice”, è quella che esprime una supremazia in ambito culturale, tecnico, politico o economico. Non c’è nulla di inconsueto nella morte di una lingua. Un gruppo etnolinguistico è costituito da diversi elementi in stretta interconnessione e la loro parlata

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costituisce soltanto uno di questi elementi; ad ogni variazione di uno conseguono variazioni e adattamenti degli altri, e se tutti o quasi gli altri elementi vengono meno, anche la lingua andrà perdendo importanza, finendo con l’estinguersi. Oggi, però, ciò che risalta drammaticamente è la dimensione del problema: delle circa seimila lingue parlate sulla Terra, sembra probabile che pressappoco la metà sparirà nel giro di un secolo. Siamo di fronte ad un’estinzione linguistica senza precedenti. Secondo l’Atlante internazionale delle lingue in pericolo di estinzione presentato dall’UNESCO, ad essere sull’orlo della scomparsa, sono soprattutto le parlate delle regioni a forte diversità linguistica (l’Africa sub sahariana, l’America del Sud, la Malaysia); duecento sono le lingue che si sono estinte nel corso delle ultime tre generazioni, oltre cinquecento si trovano in una situazione particolarmente critica, ma molte altre sono in pericolo. Una lingua muore quando muore l’ultima (o la penultima) persona che la parla. Le ragioni per cui una lingua può scomparire sono molteplici. Ciò può accadere, ad esempio, in seguito a diglossia, in conseguenza, cioè, di quel fenomeno di separazione sociolinguistica che porta alla sua fossilizzazione in quanto parlata colta, esclusivo appannaggio di una classe di letterati e chierici che la utilizza sono in certi contesti. Ma un idioma può estinguersi anche per effetto della differenziazione dialettale dovuta alla dispersione, all’isolamento. Una lingua lasciata a “se stessa” tende a frantumarsi in più elementi tra i quali l’intercomprensione va man mano riducendosi. La scomparsa di una lingua può dipendere anche da ragioni extralinguistiche: il prevalere di un gruppo etnico su un altro può provocare, infatti, la dispersione della lingua del gruppo che subisce il processo di acculturazione, sia che i suoi locutori divengano gradualmente, nel corso delle generazioni, bilingui, fino a cessare di usare la lingua originaria per adottare quella dei dominatori, sia che i suoi locutori vengano fisicamente eliminati.

Mentre alcune lingue hanno abbandonato la scena della storia, altre vi si sono affacciate: da un lato, lingue cosiddette emergenti, espressione di gruppi o di Stati che hanno raggiunto l’indipendenza ed hanno intrapreso un processo di consolidamento linguistico volontario (si pensi ai casi del kiswahili in Africa); dall’altro, lingue “resuscitate” per azione di una comunità etnica: così l’ebraico, ad esempio, lingua morta da più di duemila anni, è diventata prima la seconda lingua dei coloni sionisti e, poi, quella nativa di un crescente numero di bambini in Israele. Se positivo è stato l’esito della rivalutazione del kiswahili in Tanzania, non altrettanto si è verificato per il gaelico irlandese. Prima dell’indipendenza le condizioni di questa antica parlata celtica erano già preoccupanti: il lungo periodo della dominazione inglese aveva visto una sempre maggior diffusione della lingua dei conquistatori, e poiché il gaelico era anche la lingua della tradizione cattolica irlandese gli Inglesi cercarono di combatterlo in ogni modo. L’industrializzazione sviluppatasi a partire dalla fine del Settecento contribuì, poi, ad un suo ulteriore arretramento: chi voleva sopravvivere alla miseria doveva emigrare nelle città ed imparare l’inglese, ed il gaelico venne così relegato a lingua delle frange sociali più povere ed emarginate. Quando l’Irlanda divenne indipendente, però, il nuovo Stato mirò a far tornare in uso l’antica parlata proclamata prima lingua ufficiale della nuova Repubblica. Fu creato un istituto per la modernizzazione del gaelico e la formazione di insegnanti esperti in tale lingua e vennero stimolate iniziative culturali tese alla sua diffusione; il gaelico diventò così lingua ufficiale (insieme all’inglese) nell’amministrazione dello Stato, lingua di informazione, lingua di insegnamento e lingua di espressione della cultura. L’operazione tuttavia non riuscì a dare i risultati sperati. Il declino di quello che era un idioma ormai tagliato fuori dalle esigenze pratiche di un sistema di vita profondamente cambiato è continuato.

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4.2. L’espansione delle lingue nello spazio

Il processo di conquista territoriale di una lingua, oltre a poter derivare da una chiara azione di pianificazione culturale, può avere anche cause da essa indipendenti. A questo proposito va ricordato che, nell’ambito dei flussi che interessano la Geografia culturale, è necessario fare una distinzione tra i movimenti degli uomini e quelli delle idee. La propagazione di un’idea, ovvero il processo di diffusione culturale, può avvenire in due modi: in un caso, l’innovazione o l’idea vengono fisicamente trasferite in nuove aree da individui che entrano a far parte di popolazioni non di per sé associate o in contatto con la loro area di provenienza (si parla di diffusione per spostamento); nell’altro invece (diffusione per espansione) è l’idea o l’innovazione sviluppatasi in una determinata area a compiere il movimento, propagandosi da un luogo ad altri. L’utilizzo di una lingua può quindi estendersi nello spazio o trasferirsi da un’area all’altra in primo luogo perché coloro che la parlano occupano nuovi territori. Ognuna di queste forme di propagazione linguistica (dispersione dei parlanti o acquisizione di nuovi) rappresenta un processo di diffusione spaziale, e in quanto tale può essere ostacolato da barriere fisiche o culturali o, al contrario, risultare facilitato dalla loro assenza: lo spostamento in massa di una popolazione con la sua cultura che viene ad assumere un’importanza predominante all’interno di un nuovo territorio è un tipico esempio del fenomeno di propagazione per spostamento; quando invece sono evidenti i vantaggi conferiti dall’uso di una nuova lingua, si verifica una forma di diffusione per espansione. I flussi di segni culturali possono essere ben più veloci di quelli delle persone: l’acculturazione può verificarsi nel senso opposto rispetto a quello dei movimenti di popolazione: si pensi, ad esempio, ai tanti immigrati assimilati dal loro Paese d’accoglienza, di cui acquisiscono valori, atteggiamenti, costumi e lingua. È pur vero che molti cambiamenti culturali sono avvenuti gradualmente, senza spostamenti di persone, sulla base dell’”esempio” delle popolazioni vicine. Ad ogni modo, sembra potersi notare una stessa sequenza di eventi che colpiscono la lingua in via di estinzione. Un una prima fase si può osservare una forte pressione (politica, sociale o economica) sulla popolazione affinché parli la lingua dominante; il risultato (seconda fase) è un periodo di bilinguismo in cui le persone parlano sempre meglio la nuova lingua, ma conservano la competenza di quella precedente. Successivamente, questo bilinguismo inizia a declinare e il vecchio idioma cede il passo a quello nuovo. Questo segna il passaggio ad una terza fase, nel corso della quale la generazione più giovane migliora sempre più la competenza della nuova lingua e finisce col considerare la prima lingua sempre meno adatta alle nuove esigenze.

Tra due aree limitrofe, la fascia di contatto non risulta quasi mai stabile nel tempo. Qualora tra le due regioni ci siano scambi di prodotti, servizi, informazioni e persone, la pressione del gruppo culturalmente, economicamente o politicamente più forte nei confronti di quello più debole farà sentire i suoi effetti. La zona di contatto è bilingue. L’esistenza di questa frangia bilingue è un utile indicatore per l’analisi delle tendenze profonde dell’etnia verso l’espansione o l’assorbimento. Per comprendere meglio gli aspetti territoriali del fenomeno, può essere utile riferirsi ad un modello elaborato da Breton. Secondo tale modello, procedendo dal centro di una regione etnolinguistica (A) verso il centro di un’altra regione etnolinguistica (B), possiamo osservare una serie di aree con connotazioni linguistiche differenti. La prima è l’area dell’etnia A e in cui si parla solo la lingua a (Aa); andando verso l’esterno, però, ancora nella regione dell’etnia A, ci saranno persone che hanno a come prima lingua, ma utilizzano anche la vicina lingua b (frangia bilingue Aab). Proseguendo ancora, si incontrerà una zona, sempre di etnia A, dove è invece la lingua b a prevalere, mentre a ha solo un’importanza secondaria. Ancora più all’esterno, infine, ci sarà un’area appartenente, sì, all’etnia A, ma monolingue b (Ab), e quindi completamente allofona. Più avanti ancora ci sarà l’area dell’etnia B, con monolinguismo etnofono (Bb). Le fasi territoriali del passaggio dalla lingua a alla b possono darci un’idea del processo di deculturazione dell’etnia A per effetto della maggiore influenza dell’etnia B (dal cui punto di vista si può invece parlare di acculturazione). L’incidenza di queste

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frange bilingui possono dunque costituire un utile indicatore nella valutazione dei processi di acculturazione e, quindi, del dinamismo e della forza dei diversi gruppi. Pur non essendoci alcun fondamento teorico per affermare la superiorità di una lingua sulle altre, è giocoforza riconoscere che certe lingue coprono spazi enormi e sono adoperate da un gran numero di persone, mentre altre hanno un utilizzo ben più limitato e circoscritto a determinate aree. Si tratta, il più delle volte, di un problema di potere.

4.3. Le politiche linguistiche

L’espansione di una lingua, così come la sua scomparsa, derivano da tutta una serie di elementi; su alcuni di questi chi governa la comunità può agire concretamente. Chi amministra una comunità, quindi, può modificare il quadro linguistico di un territorio. l’affermarsi, nel corso del XIX secolo, dei nazionalismi portò con sé l’idea che una lingua comune, fonte di coesione e solidarietà, fosse una necessità imprescindibile. Al principio predominante all’epoca della Riforma protestante (che imponeva la religione del principe all’intero territorio) andò così affiancandosi un’altra imposizione, quella secondo cui la lingua del principe doveva diventare quella del Paese. Chi parlava una lingua diversa da quella nazionale rappresentava un pericolo da combattere. Numerosi furono i Paesi che da quel momento portarono avanti politiche decisamente assimilazioniste nei confronti delle minoranze presenti nel loro territorio, costringendole ad abbandonare la loro lingua in favore di quella nazionale e cercando di eliminare qualsiasi forma espressiva che risultasse diversa rispetto a quella del potere centrale. Le motivazioni concrete per decidere di intervenire in un senso o nell’altro su una determinata situazione possono, comunque, essere diverse. Oltre, infatti, ad una errata considerazione relativa alle forme espressive minori (i dialetti), ritenute culturalmente povere e perciò da eliminare, più ragionate valutazioni di opportunità politica possono portare, ad esempio, alla decisione di non ostacolare le lingue di certi territori dominati: ciò può difatti rappresentare un modo efficace per mantenere la divisione ed impedire la comunicazione, così come può rivelarsi utile per precludere alle popolazioni dominate l’accesso ad una cultura “superiore”. In circostanze diverse l’annessione di un territorio può essere sicuramente consolidata mediante l’imposizione di una dominazione linguistica. Quel che è certo è che un gruppo che predomina su un territorio ove coesistono più lingue difficilmente rinuncia ad esercitare il proprio potere anche in ambito linguistico. Lo sforzo di valutazione degli altri idiomi (declassati a patois) si accompagna solitamente a tutta una serie di misure pratiche volte a favorire la diffusione di una lingua a scapito della o delle altre.

- La prima è la conquista del monopolio nella scuola, con l’insegnamento obbligatorio della lingua prescelta;

- in un secondo momento, si può introdurre ufficialmente il bilinguismo e possono essere favorite l’editoria e le comunicazioni nell’idioma che si vuole diffondere, così da renderlo, a lungo andare, l’unico conosciuto dalla popolazione.

Qualora si miri invece all’eliminazione di una lingua, il più delle volte si comincia con delle azioni indirette, cercando di esercitare sui suoi locutori una sorta di condizionamento psicologico che li spinga a ritenere di livello inferiore quella che è la loro parlata originaria. Le altre misure possono variare: si va dal semplice rifiuto di accettare testi e dichiarazioni che non siano redatti nell’idioma ufficiale all’esclusione dai mass media della lingua che si vuole colpire, fino al formale divieto di adoperare una lingua messa al bando e alla cancellazione di ogni riferimento culturale etnolinguistico dal territorio. Nei casi, poi, in cui si giunga alla totale estinzione di una parlata per effetto di una politica risolutamente repressiva si potrà parlare di linguicidio (l’esempio storico più noto è quello relativo alla distruzione delle lingue native americane durane la colonizzazione spagnola in quei territori).

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Praticamente tutti gli Stati hanno una propria politica linguistica con cui si può cercare di favorire l’uso di una lingua a scapito di un’altra così da ridurre le differenze, facilitare il controllo politico e sociale ed esercitare il potere in modo meno conflittuale. Al di là degli atteggiamenti maggiormente repressivi alcune società non solo si sono adattate alla pluralità linguistica, ma l’hanno preservata e difesa: in Svizzera, ad esempio, lo spirito democratico ha favorito la piena accettazione di tutte le diverse forme di espressione ed il multilinguismo, ha rafforzato uno spirito di tolleranza basato sul riconoscimento reciproco e gli scambi tra le diverse culture. Tant’è che la Svizzera rimane l’unico Paese plurilingue in Europa privo di tensioni interne derivanti dalla competizione fra parlate differenti. In altri casi è stato ben più difficile trovare una soluzione: il Belgio, ad esempio, ha impiegato oltre 130 anni per trasformarsi da monolingue in bilingue. Qui la convivenza fra Fiamminghi parlanti neerlandese e Valloni francofoni è stata particolarmente problematica e sul confine interno che taglia a metà il Paese si è giocata da subito più di una volta l’unità del regno. Come idioma ufficiale del nuovo Stato nato nel 1830 venne adottato unicamente il francese, che allora godeva di un prestigio nettamente superiore. Alla divisione tra le due comunità corrispondeva, d’altra parte, una situazione di altrettanto chiara differenziazione economica. La questione linguistica si confermò, però, un conflitto a più ampio spettro con il boom economico degli anni cinquanta, quando il baricentro economico del Paese si spostò dalle industrie minerarie e tessili della Vallonia ai nuovi poli industriali delle Fiandre, e l’economia vallona iniziò a ristagnare. La situazione si aggravò fortemente a partire dagli anni sessanta e minacciò più volte di sfasciare lo Stato. Consapevoli della complessità del problema linguistico e delle sue ripercussioni sulla vita del Paese, nel 1962 i leader politici vararono le leggi Gilson con cui fu fatto il primo passo sulla strada del federalismo; si stabilì in via definitiva il confine linguistico tra le due comunità, venne istituito il bilinguismo nei comuni della regione di Bruxelles, e fu regolato l’uso dei diversi idiomi nell’insegnamento. Negli anni successivi il Paese si è dato una struttura federale e ha consacrato la divisione linguistica attraverso quella istituzionale e legislativa. Da allora il Belgio è divenuto, più che uno Stato bilingue, uno Stato con due lingue contrapposte; soltanto Bruxelles è luogo in cui effettivamente francese e neerlandese si incontrano in un reale bilinguismo.

Anche nei casi in cui si è provato a trovare una soluzione adeguata al problema, tuttavia, talvolta le situazioni sono esplose drammaticamente. Si pensi all’ex Unione Sovietica: la suddivisione principale sancita nella Costituzione riconosceva quindici Repubbliche Socialiste, in molte delle quali si trovavano più gruppi etnolinguistici differenti che, in base al loro grado di sviluppo, godevano di una maggiore o minore autonomia; lo Stato sovietico riuscì a mantenere il controllo della situazione, ma con il suo collasso le rivalità sopite per decenni sono esplose.

4.4. La tutela delle lingue minori

Anche relativamente ai rapporti tra maggioranza e minoranze linguistiche le politiche degli Stati si presentano alquanto differenziate. Certi ordinamenti si limitano ad assumere nei confronti dei fenomeni minoritari un atteggiamento di mera tolleranza. Altri oscillano tra la considerazione delle espressioni linguistiche minoritarie come beni culturali ed il riconoscimento dell’idioma come elemento distintivo di un certo gruppo sociale. Entro gli stessi confini nazionali, d’altra parte, regimi giuridici differenziati vengono talvolta predisposti per gli appartenenti ad un medesimo gruppo linguistico. Il governo francese, ad esempio, ha riconosciuto alcuni diritti alla minoranza germanofona dell’Alsazia e della Lorena. Non è un caso: l’esistenza, al di là del confine, di un grande e potente Stato di lingua tedesca ha infatti indotto la Francia a concedere un maggior grado di libertà linguistica a questi abitanti, così da trovare più ampia legittimazione presso di loro attraverso una politica di apertura. Anche la scelta di designare come ufficiale più di un idioma, comunque, non sempre soddisfa le ambizioni di comunità linguisticamente distinte. Oltretutto, la percezione del declino della propria lingua può rappresentare un vero e proprio trauma per la

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comunità etnica del cui patrimonio culturale essa fa parte. Ogni lingua è un insieme unico di parole, suoni e architettura grammaticale; un insieme che è anche una visione del mondo originale. La conservazione della diversità linguistica è fondamentale perché il linguaggio è l’essenza stessa di ciò che vuol dire essere “umani”; la lingua racchiude in sé la maggior parte della storia di una comunità e buona parte della sua identità e costituisce il principale strumento di trasmissione della cultura. Il problema, da alcuni anni a questa parte, è notevolmente sentito. La lingua svolge un indubbio ruolo di aggregazione all’interno dei gruppi umani, tant’è che l’affermazione dell’ideologia nazionalistica condusse alla sua esaltazione in quanto fattore unificante della nazione e al declassamento degli altri idiomi eventualmente presenti nello stesso contesto. A partire dal secondo dopoguerra, però, la sostituzione del principio delle nazionalità con un altro principio, di tipo pluralistico, ha gradualmente influenzato le politiche linguistiche degli Stati. Utili indicazioni in proposito possono giungere dalla Carta delle lingue regionali e minoritarie. Premettendo che regionale è una lingua parlata in un’area limitata del territorio di uno Stato e dalla maggioranza della popolazione ivi residente, mentre minoritaria è quella parlata da persone che non sono stanziate in uno spazio specifico o che, pur vivendo in un’area delimitata, costituiscono un gruppo numericamente inferiore rispetto alla popolazione della regione che parla la lingua maggioritaria dello Stato, va detto che la Carta non dà una definizione politico-sociale o etnica di “lingua” perché il suo obiettivo principale non è tanto quello di tutelare le minoranze linguistiche, quanto piuttosto quello di privilegiare la funzione culturale della lingua. Il documento dichiara di perseguire essenzialmente finalità di ordine culturale, nella consapevolezza che la salvaguardia delle lingue regionali e minoritarie costituisce un arricchimento, potendo contribuire allo sviluppo delle tradizioni e al rafforzamento del più vasto complesso culturale europeo e che la possibilità di adoperare una lingua è un diritto imprescrittibile. L’Unione Europea è oggi una delle comunità linguisticamente più complesse del pianeta. Il rispetto per la diversità linguistica e culturale rappresenta uno degli elementi costituitivi dell’UE, ed è ora sancito dall’articolo 22 della Carta europea dei diritti fondamentali. Su iniziativa del Parlamento europeo l’Unione ha avviato la sua azione per la salvaguardia e la promozione delle lingue regionali e minoritarie d’Europa seguendo sostanzialmente due direttrici: da una parte, fornendo sostegno finanziario all’Ufficio per le lingue meno diffuse (EBLUL); dall’altra, sostenendo la Rete informatica Mercator, sorta con l’obiettivo di migliorare lo scambio e la circolazione delle conoscenze sulle lingue e le culture minoritarie. Le buone intenzioni in materia non mancano. Per tutelare una lingua in declino occorrerebbe affrontare il problema della rivitalizzazione non di uno solo, ma dei diversi elementi che caratterizzano un’etnia. E senza intervenire su questi diversi aspetti è molto poco probabile che si possa invertire un processo di decadenza che si presenta e viene percepito come linguistico, ma che in realtà ha radici e motivazioni ben più varie e complesse. Una cosa è certa: un mondo monolingue non servirebbe a portar pace nel futuro. È molto più realistico, allora, cercare di promuovere la pace prestando attenzione ai diritti delle persone e alla loro identità in quanto membri di un gruppo: una politica di plurilinguismo sensibili e l’attenzione per le lingue minoritarie hanno molte più probabilità di porre le fondamenta per una coesistenza pacifica e reciprocamente vantaggiosa.

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Capitolo 5

Genesi e distribuzione geografica delle lingue

5.1. Famiglie di lingue

Per identificare e raggruppare le migliaia di parlate esistenti è opportuno analizzare la struttura particolare di ciascuna di esse e compararla con quella delle altre, vicine e lontane. Varie sono le classificazioni adottate negli anni dagli studiosi, che basandosi ora sulla morfologia, ora sulla sintassi, ora su altri criteri hanno suddiviso le lingue in grandi categorie; da un punto di vista geografico, però, nessuna di tali classificazioni risulta particolarmente interessante. L’unica a presentare un certo interessa anche per la Geografia è la classificazione fondata sul criterio cosidetto genealogico. Secondo tale criterio, nel panorama mondiale possono essere distinti vari gruppi di lingue, caratterizzati da un elemento: i vari idiomi che ne fanno parte si assomigliano tra di loro in quanto tutti discendenti da un medesimo idioma originario ormai estinto. In una famiglia linguistica rientrano, pertanto, più lingue accomunate da certi caratteri e legate da una stessa evoluzione. Considerate da questo punto di vista, allora, le lingue possono essere pensate come le fasi attuali di un idioma originario scomparso; il tempo che è passato, però, le ha rese diverse l’una dall’altra e reciprocamente ben poco comprensibili.

Il criterio genealogico era stato già intuito da Leibnitz ma solo nel corso del XIX secolo è stato precisato dalla linguistica storico-comparativa. Prima con la teoria dell’albero di August Schleicher, poi con l’avvento, all’inizio del Novecento, della glottocronologia (o lessicostatistica), si sono presi ad analizzare i cambiamenti che avvengono nel vocabolario delle lingue, e lo studio delle radici lessicali così sviluppatosi ha consentito di comparare centinaia di vocaboli di ogni famiglia. La “scoperta” delle famiglie linguistiche ha così permesso di ragionare sulle evoluzioni passate, ripercorrendo il cammino del linguaggio lungo i millenni che hanno preceduto l’avvento della scrittura, e di legare il fenomeno linguistico al popolamento della superficie terrestre.

Alcune analogie lessicali e grammaticali consentono di riconoscere le relazioni tra le famiglie linguistiche: tracciando determinate costanti fonetiche delle diverse lingue nel corso del tempo, gli studiosi sono in grado di ricostruire le forme arcaiche di una parola, fino a poter stabilire la matrice originaria di un termine prima che questa fosse sottoposta ad una serie di processi di alterazione e divergenza. Questa forma primitiva della lingua viene definita protolingua. In quasi tutta l’area dell’ex impero romano è facile riscontrare come siano in uso una serie di idiomi tra loro somiglianti che presentano altrettante affinità col latino; nel caso di queste lingue (cosidette romanze) tale capostipite è chiaramente identificabile nel latino. Una volta interrottasi, con la caduta dell’impero romano, la continuità dei territori europei, alcune varianti regionali andarono sviluppandosi autonomamente, emergendo nei secoli successivi come singole lingue. Per altre famiglie, invece, risulta più difficile tracciare con chiarezza simili relazioni tra termini riconducibili alle medesime radici proto linguistiche: le lingue appartenenti al gruppo germanico ad esempio (distinte in settore orientale, settentrionale ed occidentale) derivano da una protolingua poco nota, e che non ha lasciato praticamente alcuna documentazione scritta. Così anche per il polacco, il russo, il serbo-croato e le altre lingue che costituiscono il gruppo slavo mancano documenti scritti relativi ad un supposto paleoslavo. Anche tra le lingue di questi diversi gruppi esistono, comunque, delle somiglianze. Si consideri, ad esempio,

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la nostra pronuncia del numero 7: questa deriva evidentemente (come anche quelle del francese sept, dello spagnolo siete, del portoghese sete) dal latino. Studi specifici su simili somiglianze portarono, nel corso dell’Ottocento, ad ipotizzare che le lingue europee potessero essere considerate ramificazioni (sottofamiglie) di una protolingua comune, e che quindi potessero essere ritenute parte di una famiglia ancora più vasta, che i linguisti denominarono indoeuropea.

I linguisti sono riusciti a ricostruire alcune parole della lingua originaria attraverso l’esame di alcuni termini facenti parte dei diversi idiomi della famiglia indoeuropea. L’analisi dello spostamento di suoni (o rotazione consonantica) ha consentito, così, di procedere a ritroso, ricostruendo, a partire dal lessico, l’albero genealogico delle lingue dell’umanità per una arco di tempo di migliaia di anni. Si prenda il caso del termine latino lactis, da cui sono derivati l’italiano latte, lo spagnolo leche, il francese lait ed il rumeno lapt. Era stato Jakob Grimm, nel XIX secolo, ad introdurre l’idea dello spostamento di suoni. Era stato lui a far notare come idiomi collegati abbiano consonanti simili ma non identiche e a teorizzare che tali consonanti sarebbero cambiate nel corso del tempo in modo prevedibile. Dalle sue idee e da quelle, precedenti, di William Jones (il quale già alla fine del Settecento aveva studiato il sanscrito, riscontrandone le straordinarie somiglianze lessicali e grammaticali col greco ed il latino) era scaturita la prima importante ipotesi linguistica postulante l’esistenza di un’antica lingua, il (proto)indoeuropeo appunto, da cui sarebbero derivate, tra l’altro, il latino, il greco ed il sanscrito.

[All’interno della famiglia indoeuropea, la principale distinzione si basa sulla pronuncia del numero 100, che separa i due gruppi detti “kentum” e “satem”. Kentum è la pronuncia del latino centum, corrispondente all’antico gaelico irlandese ket; dall’altra parte troviamo il sanscrito satam, il persiano satem.]

La scoperta di tali similarità permise di intuire che le lingue mutano nel tempo e nello spazio seguendo precise leggi. La lingua ancestrale proposta avrebbe collegato non solo le lingue romanze, ma anche le altre lingue parlate dalla Gran Bretagna al Nord Africa e all’Asia meridionale.

5.2. La ricerca linguistica nel tempo

August Schleicher affermò che, alla base della formazione di un idioma, vi è un processo di divergenza, ovvero di differenziazione nel tempo e nello spazio: le lingue indoeuropee attuali erano derivate, quindi, per successive divisioni da una lingua originaria. I diversi idiomi si sarebbero, cioè, ramificati in dialetti e questi, col tempo, divenuti, in seguito alla condizione di isolamento, sempre più diversi uno dall’altro, sarebbero a loro volta diventati lingue distinte. C’è, tuttavia, un fattore di complicazione di cui non si può non tener conto, e cioè il fatto che i popoli si spostano. Potendo allora le lingue propagarsi anche perché coloro che le parlano occupano nuovi territori, è possibile che dal contatto tra parlate a lungo isolate scaturisca una qualche convergenza. In sostanza, migrazioni, così come segregazione o isolamento delle diverse società, danno origine a lingue differenti e reciprocamente incomprensibili. Accanto alla mobilità umana, però, va considerato un ulteriore elemento di complicazione: le lingue di gruppi poco numerosi e tecnologicamente poco evoluti sono sempre state considerevolmente modificate dalle lingue di invasori più forti. Tale processo (sostituzione linguistica) avviene sostanzialmente attraverso due meccanismi: le espansioni demiche e la conquista da parte di un gruppo umano. In un caso, individui sottoposti a pressione demografica si spostano verso aree disabitate o abitate da altri gruppi etnici ad un livello economico meno evoluto, sopprimendo, schiavizzando o assorbendo le popolazioni locali. Nell’altro, un popolo conquistatore assume il comando di un territorio imponendovi la propria lingua e gran parte delle proprie tradizioni culturali.

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La ricostruzione anche solo di un piccolo ramo dell’albero linguistico risulta, pertanto, impresa complessa per lo studioso. Basterebbe, d’altra parte, notare come in Europa, per esempio, l’ungherese non appartenga alla stessa famiglia di tutti i suoi vicini o pensare al caso del basco, l’antichissimo idioma dalle origini ancora oscure della regione che si affaccia sul Golfo di Biscaglia. Si è detto che, per misurare la somiglianza tra due o più dialetti o lingue, il metodo più semplice consiste nel valutare la proporzione di parole che presentano un origine comune. Chiaramente la ricerca storico-comparativa non poteva essere condotta a caso, su qualsiasi parola; la scelta doveva essere guidata dal ragionamento. Innanzitutto, allora, andavano messi a confronto alcuni termini presenti in ciascuna lingua presa in considerazione (vi sono alcuni concetti che si possono definire universali, in quanto esistenti in tutte le lingue: si pensi, oltre ai numeri, ai termini adoperati per definire i componenti più prossimi della famiglia). Poi, però, al fine di indagare il modo di vivere delle diverse popolazioni, sarebbe stato utile osservare altre parole, proprie di certe lingue e non di altre. Come quelle relative alle condizioni ambientali, ad esempio, che forniscono utili informazioni sulla regione d’insediamento di un gruppo umano. Riconoscendo parole simili nella maggior parte degli idiomi indoeuropei, i linguisti hanno potuto scoprire che la protolingua possedeva termini per certe forme del terreno, per un certo tipo di vegetazione e per determinate caratteristiche naturali: ne hanno potuto dedurre che i primi Indoeuropei dovevano essere insediati in una regione dotata di fiumi e specchi d’acqua, ma lontana dal mare, che l’organizzazione socioeconomica era quella del Neolitico e che l’economia si basava più sulla pastorizia che sull’agricoltura; la mancanza di una terminologia riferita alla vita urbana mostrava, inoltre, che si trattava di genti nomadi.

Vi sono due principali teoria che cercano di spiegare l’origine e la diffusione del protoindoeuropeo. La prima è la teoria della:

DIFFUSIONE PER CONQUISTA

A giudicare dal lessico ricostruito (secondo alcuni studiosi) il luogo d’origine del protoindoeuropeo doveva trovarsi nelle vaste steppe delle attuali Ucraina e Russia; da qui i primi parlanti protoindoeuropeo si propagarono sia verso est che verso ovest, con migrazioni semiviolente o vere e proprie invasioni, soggiogando le popolazioni locali e finendo con l’imporre ovunque si insediarono, insieme alla propria cultura, anche la propria parlata. È questa la teoria della dispersione della lingua attraverso la conquista (detta anche demica, in quanto erano i popoli a muoversi). Non tutti gli studiosi, però, sono convinti da questa ricostruzione.

TEORIA AGRICOLA

Negli anni ottanta, in particolare, alcuni linguisti hanno proposto una spiegazione alternativa tanto rispetto ai percorsi seguiti quanto per le modalità, sostenendo che ad espandersi, più che le popolazioni, siano state le tecniche, per apprendimento. A propagare il protoindoeuropeo sarebbe stata la diffusione dell’agricoltura, e per questo motivo l’area d’origine dell’antica lingua non avrebbe potuto corrispondere a quelle zone della Russia e dell’Ucraina il cui modo di vita dominante era la pastorizia. Poiché, d’altra parte, nel lessico del protoindoeuropeo poche erano le parole indicanti le pianure, mentre ben più numerose risultavano quelle riferite alle montagne, vallate, torrenti e rapide, l’ipotesi che sembrava più plausibile era che il centro d’origine si trovasse in corrispondenza delle terre collinari e montuose, ben irrigate, dell’altopiano anatolico e della vicina catena del Caucaso. I ritrovamenti archeologici indicavano che in quei luoghi tra 7000 e 9000 anni fa era stato addomesticato il cavallo ed era entrata in uso la ruota; dall’accresciuta produzione agricola sembra poi sia derivato un forte aumento demografico di questi Indoeuropei, che migrarono in più direzioni.

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5.2.1 Genetica e linguistica

All’inizio degli anni novanta, la teoria agricola è stata confermata dall’analisi del contenuto proteico (genico) degli individui sparsi in diversi luoghi dell’Europa, che ha mostrato come certi geni divengano rapidamente meno comuni dal sud della Turchia attraverso la Bulgaria e verso i Balcani e l’Europa. Ciò sembrerebbe dimostrare che i popoli di agricoltori dell’Anatolia, via via che si muovevano verso ovest e verso nord, si mescolavano con le popolazioni indigene qui insediate, diluendo il loro patrimonio genetico man mano che aumentava la distanza dalla loro area d’origine. Fondamentale è stato l’apporto di uno studioso italiano, Luigi Luca Cavalli-Sforza che insieme al collega Robert Ammerman, redasse una serie di carte sulla diffusione di diverse caratteristiche genetiche umane. Andamento parallelo a quella genetica e/o geografica risultava avere la variazione linguistica nello spazio. In sostanza, la struttura del patrimonio genetico è determinata da fattori di tipo geografico, dalla presenza di differenze socioeconomiche e da un certo numero di fattori di altro tipo; tutti questi elementi agiscono anche sul patrimonio culturale e lo condizionano in modo parallelo: è in questo modo, dunque, che si sono prodotte importanti correlazioni tra patrimoni genetici, da una parte, e patrimoni socioculturali, dall’altra. Il parallelismo tra evoluzione genetica ed evoluzione linguistica presenta, tuttavia, alcune limitazioni: le lingue si evolvono molto più velocemente dei geni, tant’è che due lingue possono diventare reciprocamente incomprensibili in meno di mille anni. Tra popolazioni e famiglie linguistiche, nota Cavalli-Sforza, vi è una chiara corrispondenza: ogni famiglia linguistica può infatti essere associata o con una singola popolazione genetica o con alcune popolazioni strettamente imparentate. Al di là delle eccezioni esiste comunque un forte parallelismo tra evoluzione linguistica ed evoluzione genetica, e la spiegazione va ricercata nell’effetto comune di certi fattori che determinano la differenziazione tanto a livello genetico quanto a livello linguistico. Barriere linguistiche possono rafforzare l’isolamento genetico tra gruppi che parlano lingue diverse; l’isolamento reciproco dovuto ad eventi che determinano una separazione fra due gruppi produce una differenziazione sia genetica che linguistica. Ma anche altri fattori possono causare effetti simili su entrambi i tipi di evoluzione: dimensioni demografiche limitate, favoriscono una differenziazione genetica più veloce e potrebbero avere il medesimo effetto sulle lingue, lo scambio migratorio tra due popolazioni favorisce sia gli scambi genetici che quelli linguistici.

5.2.2. Teorie diverse su luoghi d’origine e percorsi

La teoria di Gamkrelidze e Ivanov non si mostra del tutto convincente: la topografia delle zone elevate dell’Anatolia, infatti, non sembrerebbe costituire un ambiente ideale per l’agricoltura, e non ci sono forti prove archeologiche dell’esistenza in quel luogo di un focolaio culturale agricolo. Ecco perché alcuni geografi delle lingue continuano a preferire l’ipotesi della diffusione per conquista. Gli studiosi non hanno rinunciato ad andare ancora più all’indietro, nell’intento di individuare la lingua ancestrale del protoindoeuropeo. Due linguisti russi in particolare affrontarono separatamente, già negli anni sessanta, il problema della ricostruzione profonda di tale lingua antenata del protoindoeuropeo; utilizzando le parole ritenute più stabili e le parti “sicure” del lessico (come quelle che identificano alcune parti del corpo o i termini relativi agli elementi dell’ambiente naturale), essi raggiunsero risultati concordanti in merito a

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numerosi termini che si potevano ritenere comuni di una lingua antichissima, il nostratico. Un idioma in cui non c’erano nomi di piante o animale domesticati, in uso in una fase sicuramente anteriore rispetto alla Prima rivoluzione agricola (12.000 anni fa). Per quanto tempo il nostratico possa essere stato adoperato nessuno è ancora in grado di stabilirlo, ma anche dove sia nato e quali lingue lo abbiano generato restano dei quesiti senza risposta. Più di recente risultati di grande rilevanza in ambito linguistico sono venuti, ancora una volta, dalla genetica. Le fasi finali della dispersione delle lingue antiche nel mondo sono avvenute nell’ambito delle isole del Pacifico e nelle Americhe. In particolare, per ciò che riguarda le Americhe, almeno duecento erano, secondo i linguisti, le famiglie relative ai nativi americani, ciascuna diversa dall’altra. Non tutti, però, la pensavano allo stesso modo: l’americano Joseph Greenberg affermò che le lingue precolombiane potevano essere raggruppate in tre sole famiglie, ognuna corrispondente ad un’importante ondata migratoria dall’Asia verso il Nuovo Mondo. La più antica ed ampiamente distribuita era quella amerindia; la seconda, molto meno diffusa, era quella na-dené; la terza, ultima in ordine di tempo ad essere arrivata nelle Americhe, era la famiglia eskimo-aleutina. I risultati della genetica, tuttavia, finirono col confermare in pieno la teoria di Greenberg. La distribuzione mondiale dell’umanità moderna era stata determinata da alcune grandi migrazioni, susseguitesi ad intervalli sempre più ridotti. La prima fu quella che vide la partenza dell’Homo erectus dall’Africa orientale. La seconda portò gli uomini moderni (Homo sapiens) nell’Eurasia. Qui, secondo alcuni studiosi, questi eliminarono l’Homo erectus e, una volta stabilizzatisi, si differenziarono negli attuali gruppi razziali delle varie aree geografiche. Terza grande migrazione fu, infine, quella dell’Homo sapiens sapiens; giunti all’estremità sud-orientale dell’Asia, i sapiens si divisero in due rami: uno di questi arrivò fino in Nuova Guinea e in Australia; l’altro diede origine alle popolazioni del Sud-Est asiatico e della Cina meridionale. Circa 30.000 anni fa, poi, venne raggiunto lo stretto di Bering e da qui alcuni gruppi diedero inizio al popolamento del continente americano. Nella fase di transizione tra Paleolitico e Mesolitico, circa 10.000 anni fa, vari gruppi iniziarono a mettere a punto nuovi sistemi di agricoltura e allevamento, grazie ai quali riuscirono ad ottenere disponibilità di cibo crescenti. Per gli incrementi demografici che ne derivarono, però, divenne di una certa misura necessario cercare nuovi territori. Le migrazioni divennero così più rapide.

Nello studio sistematico delle lingue la maggior parte di esse può essere ricondotta a determinate famiglie linguistiche. Una famiglia è un’unità filogenetica, ed i suoi membri sono considerati derivanti da un antenato comune. Nonostante gli sforzi fatti, sono pochi i passi in avanti compiuti verso il possibile traguardo di una classificazione gerarchica completa e realmente filogenetica di tutte le famiglie linguistiche. Un possibile progresso potrebbe essere il riconoscimento delle relazioni esistenti tra alcune delle famiglie: è in base a queste relazioni che gli studiosi sono giunti all’identificazione di superfamiglie. Due gruppi di ricercatori, in particolare, hanno identificato due superfamiglie in gran parte sovrapponibili: quella del nostratico e quella euroasiatica.

5.3. La distribuzione delle lingue nel mondo

NON ME LO RICORDEREI

5.4. L’importanza ineguale delle lingue

Quello che si può notare immediatamente è la forte disparità quantitativa delle comunità linguistiche. Il gruppo più facilmente individuabile è quello composto dalla dozzina di lingue con più di 100 milioni di

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locutori ciascuna, che raccoglie più della metà della popolazione mondiale. Secondo Calvet questo “club” di grandi lingue raggruppa attorno all’inglese (lingua ipercentrale) una serie di comunità maggiori corrispondenti, appunto, a quelle lingue (supercentrali) con almeno 100 milioni di locutori nativi ognuna: il cinese, l’hindi, lo spagnolo, l’arabo ecc…

Sotto i 100 milioni di locutori, una serie di altre grandi lingue compone un gruppo dai contorni meno definiti; se ne distinguono comunque generalmente almeno una sessantina (tra i 10 e i 100 milioni i parlanti di ciascuna). Una cinquantina di lingue che contano ognuna tra i 5 e 10 milioni di locutori costituiscono le comunità medie (in totale circa 300 milione di persone).

Infine, al di sotto dei 5 milioni di locutori ciascuna, più di cinquemila lingue raggruppano in tutto meno di 200 milioni di persone. Molte di queste corrono seri pericoli. Il fatto di classificare i Gruppi di Lingua Materna in base al numero dei rispettivi locutori può fornirci, però, solo una prima idea della base su cui le lingue insistono. Indispensabile è, allora, per valutare il posto di ciascuna lingua nel mondo, osservare anche, accanto al numero di locutori, qual è il valore di ognuna in termini di Stati che la adottano e quale il ruolo nei rapporti tra i popoli. Le lingue ufficiali non sono, in effetti, che un centinaio, e beneficiano di tutta una serie di vantaggi. La disuguaglianza, d’altra parte, è ancora più evidente se si guarda alla dispersione territoriale dei diversi idiomi. Possiamo considerare “internazionali” quelle lingue, tra cui l’arabo e pochissime altre, che sono diffuse non su più continenti ma su più stati vicini. Da questo punto di vista, come lingua di grande diffusione dobbiamo considerare in primis l’inglese; frutto dell’azione concomitante di più fattori. Seconda lingua al mondo per diffusione è il francese. Il francese ha esteso, nel corso del XVIII secolo, la sua influenza a tutta l’Europa divenendo anche lingua diplomatica mondiale; oggi conserva un posto di primo piano tanto nelle relazioni internazionali quanto all’interno di numerosi Paesi. Ben più compatta e delimitata di quella francese è la base geografica dello spagnolo, la cui importanza è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Geograficamente compatte sono anche le aree di diffusione del russo e del tedesco, entrambe le lingue internazionali parlate all’interno di Stati tra loro vicini, così come quella del persiano (o farsi), che, con i suoi dialetti viene parlato da più di 75 milioni di persone in Iran, Tagikistan e Afghanistan. Esteso su quattro continenti è invece il portoghese. Intercontinentale è anche la diffusione dell’arabo, ufficiale in oltre venti Stati. Ancora, una diffusione non limitata ad un solo continente la ha il neerlandese. Crescente è, infine, il prestigio di altre due lingue che hanno già raggiunto una diffusione internazionale: lo swahili ed il malese/indonesiano. Anche dal punto di vista dei sistemi di scrittura evidente è la sempre maggior diffusione delle grandi lingue internazionali: ampia è la supremazia dell’alfabeto latino. In Europa suo diretto “rivale” è stato l’alfabeto cirillico, creato per lo slavo e adottato da quasi tutte le lingue dell’ex Unione Sovietica. Il cirillico deriva dall’alfabeto glagolitico del IX secolo, la cui invenzione è attribuita ai santi Cirillo e Metodio.

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Capitolo 6

La varietà linguistica dell’Italia

6.1. La frammentazione linguistica dell’Europa

Dal punto di vista dell’appartenenza alle diverse famiglie la carta linguistica dell’Europa evidenzia la netta prevalenza dell’insieme indoeuropeo. Ciascuna delle lingue facenti parte di questa famiglia presenta alcune caratteristiche proprie e alcune condivise con le altre. Due sono i fattori che storicamente hanno contribuito a determinare la frammentazione linguistica europea. In primo luogo, le caratteristiche fisiche di quest’area geografica: le catene montuose, le vaste distese pianeggianti, le valli fluviali, l’articolazione delle coste, la varietà dei climi e dei suoli, hanno finito col disegnare una serie di ambienti con attitudini insediative e produttive differenti, contribuendo a definire anche alcuni dei tratti culturali di coloro che in quegli ambienti vivevano. Le ricerche di Geografia storica hanno mostrato come la frammentazione possa essere ricondotta all’estendersi graduale sul territorio di un popolamento dal dinamismo accentuato, legato al sovrapporsi e all’affiancarsi di genti diverse per origine, cultura, generi di vita. All’interno delle più ampie regioni linguistiche, dunque, le popolazioni europee sono andate lentamente differenziandosi, e nel tempo i gruppi più forti e compatti sono riusciti a dar vita ad entità politiche ben caratterizzate dal punto di vista culturale e linguistico. Dalla fine del XIX secolo,l’Europa degli Stati nazionali, si presenta come l’insieme di più entità politiche ove il più delle volte è netta la supremazia di un idioma, ma sul cui territorio sono insediati altresì gruppi linguistici minori. Pur potendosi riscontrare, allora, in vari casi una certa coincidenza tra lingua e cultura, ciò che emerge ad una più attenta osservazione è che il mosaico delle unità etnolinguistiche coincide solo in parte col quadro politico-amministrativo; è stato proprio questo ad alimentare, nel corso del tempo, tutta una serie di contestazioni e rivendicazioni. Benché molte siano le lingue parlate nei Paesi che compongono lo spazio europeo, soltanto alcuni Stati ammettono ufficialmente il plurilinguismo; gli altri si dichiarano monolingui pur non riconoscendo, talvolta, la presenza sul loro territorio di comunità alloglotte cui concedono una qualche forma di tutela. La presenza di un numero elevato di idiomi differenti costituisce inevitabilmente una difficoltà nei rapporti internazionali.

In effetti, non si possono capire le ragioni per cui i dibattiti sulle questioni linguistiche sono così spesso controversi se non si tiene conto della natura complessa delle lingue. Oltre, infatti, a consentire la trasmissione delle informazioni (funzione comunicativa), le lingue svolgono anche una funzione simbolica, associata a certi elementi politici e culturali (ad esempio il senso di identità nazionale). Le due funzioni si combinano ed assumono importanza in rapporto a determinati fattori (giuridici, politici, culturali, economici, funzionari), e gli attori coinvolti possono decidere se privilegiare questa o quella variabile, dando vita a modelli diversi di regime linguistico. Prendiamo il caso degli aspetti giuridici legati al problema della gestione del multilinguismo europeo. A tal proposito, l’Unione Europea ha sempre ritenuto che tutti i testi nelle varie lingue facciano fede in ugual misura: per questo motivo i trattati sono redatti in tutte le lingue, e lo stesso vale per la Gazzetta Ufficiale, i regolamenti e gli altri testi di portata generale. Ma il multilinguismo è ritenuto necessario anche per garantire un pieno esercizio dei diritti dei singoli. Le ragioni giuridiche, però, non sono sufficienti a spiegare perché l’argomento sia così delicato. Si deve tener conto, infatti, anche di alcune variabili politiche, relative all’uguale trattamento dei rappresentanti. Ci sono delle istituzioni e

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degli organi in cui vi è un effettivo uso di tutte le lingue ufficiali come lingue di lavoro. In alcune istituzioni tuttavia il numero delle lingue di lavoro varia da una ad un massimo di cinque o sei. Qui, in sostanza, hanno prevalso esigenze funzionali e di contenimento dei costi, ed il risultato è stato quello di limitare l’uso delle lingue di lavoro, richiedendo ai singoli elevate competenze linguistiche. L’allargamento delle competenze dell’Unione, le nuove esigenze derivanti dall’accelerata globalizzazione e dall’incremento dei flussi migratori hanno accresciuto, nel corso degli anni, l’importanza della questione linguistica. Il multilinguismo (sia individuale che istituzionale) è divenuto un elemento chiave anche per vivere e lavorare nella società della conoscenza e dell’informazione.

6.2. Varietà di lingue sul territorio italiano

Una delle situazioni più articolate è sicuramente quella esistente in Italia; anche sotto l’aspetto linguistico, infatti, l’unificazione del Paese è stata un processo tardivo, e tuttora sussistono accanto all’italiano una serie di comunità alloglotte. All’interno del quadro nazionale è possibile distinguere tre differenti situazioni minoritarie.

6.2.1. Lingue regionali e dialetti francoprovenzali e provenzali

Il primo gruppo di realtà linguistiche minoritarie da prendere in considerazione è formato da alcune parlate italo-romanze che non si sono integrate nel processo unificatore iniziato nell’Ottocento ed hanno mantenuto una propria peculiarità e forza espressiva. Si tratta del:

- sardo;- friulano;- occitano;- francoprovenzale;- ladino dolomitico.

SARDO

Tra le minoranze linguistiche presenti in Italia, la più consistente è quella sardo fona. Ritenuto da molti studiosi la più conservativa delle lingue derivanti dal latino, il sardo è in realtà costituito da una serie di dialetti raggruppati in due insiemi principali: campi danese e logudorese-nuorese. Le due varietà presentano notevoli differenze fonetiche e lessicali ma all’interno di ciascun gruppo, comunque, il sardo risulta reciprocamente comprensibile. L’insularità ha chiaramente favorito il conservarsi di numerosi arcaismo: il vocabolario sardo mantiene non solo termini latini altrove scomparsi, ma anche termini che risalgono con buona probabilità a strati linguistici pre-latini. Quest’ultima tendenza è stata in qualche misura compensata dall’influsso delle lingue “di prestigio” qui susseguitesi nel corso dei secoli. Entrata prima nell’orbita di Pisa e Genova, governata poi da Catalani e Spagnoli, e assegnata ancora ai Savoia, la Sardegna non rimase sempre isolata, anzi: la sua posizione strategica attrasse fin dai tempi antichi gli interessi stranieri dando origine anche ad un avvicendarsi di dominazioni straniere. Parlato in quasi tutta la Sardegna, il sardo è dal 1997 lingua ufficiale della Sardegna, in regime di co-ufficialità con l’italiano. A partire dagli anni sessanta, però, con la sempre maggiore diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, unita all’insegnamento obbligatorio della lingua italiana, il sardo è andato a mano a mano perdendo locutori a vantaggio dell’italiano che costituisce un chiaro simbolo di progresso sociale e di crescita culturale. Nell’italiano in sostanza si è individuato lo strumento per superare le vecchie strutture agropastorali. Continuando, comunque, buona parte della popolazione ad utilizzare il sardo nella comunicazione quotidiana, la Regione Sardegna, tenuto conto della presenza dei due gruppi dialettali

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distinti, ha recentemente dato compito ad una commissione di esperti di elaborare una proposta di standardizzazione, avviando i progetti di una “Limba Sarda Unificada” e di una “Limba Sarda Comuna”. Se la prima non è apparsa risolutiva ed è, anzi, stata criticata per la sua artificiosità, la seconda, ponendosi lessicalmente e foneticamente come varietà intermedia tra logudorese e campidanese, ha ottenuto invece un riconoscimento dall’amministrazione regionale, che nel 2006 l’ha adottata in via sperimentale per gli atti e i documenti da essa emessi.

FRIULANO

Simile a quella del sardo, per certi aspetti, è la situazione del friulano, lingua appartenente al gruppo retoromanzo o ladino della famiglia neolatina parlata da circa 5/600.000 persone nel cosiddetto Friuli storico. La posizione arginale del proprio territorio rispetto ai confini recenti dell’Italia ha contribuito a dare ai Friulani quella particolare fisionomia culturale che è alla base della loro autonomia etnica. Quattro sono i grandi gruppi dialettali del friulano che è possibile identificare: il tipo centrale, parlato in gran parte della provincia di Udine; quello carnico; il goriziano e il tipo occidentale. Benché l’opinione pubblica friulana avesse cominciato a chiedere una certa autonomia per la propria regione già subito dopo la Seconda guerra mondiale, fu solo nella seconda metà degli anni sessanta che l’autonomismo friulano si sviluppò appieno e l’allora fondato Movimento Friuli manifestò espressamente la necessità di modalità specifiche di difesa della cultura degli abitanti di quest’area, riunita a territori vissuti come storicamente e geograficamente estranei. Nel tempo, comunque, anche la minoranza friulana ha saputo dotarsi di valide strutture per affermare la propria particolarità (si pensi alla Società filologica friulana o all’Osservatorio regionale della lingua e della cultura friulane); e, nonostante i problemi, la sua cultura è rimasta una delle più vive in Italia.

OCCITANO

L’occitano è presente, oltre che nel sud della Francia, anche in Piemonte e Calabria. Mentre, per, in Francia tale lingua non gode di alcuna forma di riconoscimento o autonomia, nel nostro Paese essa, con circa 50.000 locutori, è lingua minoritaria tutelata dalla legge. In un territorio la cui economia ha risentito fortemente dell’industrializzazione della pianura piemontese e dei fondovalle, osserva Telmon, e in una condizione in il bi o plurilinguismo hanno sempre rappresentato la normalità, le parlate occitaniche sono venute assumendo il rango di codice della quotidianità più informale. Di tale situazione è pressoché totale la coscienza degli stessi locutori, tant’è che “da parte degli stessi movimenti autonomisti questa consapevolezza si riflette spesso in propositi di prospettive bi o plurilingui che in programmi di ritorno al monolinguismo”. Numerose sono state e restano le iniziative portate avanti da gruppi di cultori e associazioni attivi nella valorizzazione delle tradizioni, ma spesso tali specificità sono state utilizzate più come fattori di richiamo turistico che non quali elementi attorno a cui realizzare un effettivo recupero del patrimonio culturale e linguistico locale.

FRANCO PROVENZALE

Parlato sia in Francia che nella Svizzera francese e in Italia è il francoprovenzale (o arpitano). Le valli piemontesi e valdostane conservano ancora l’uso quotidiano della parlata; in Francia e in Svizzera, invece, il francese l’ha progressivamente soppiantata, anche perché ai suoi locutori è mancata la coscienza di costituire un gruppo a sé. Se per ciò che concerne la Valle d’Aosta tale territorio corrisponde, in linea di massima, con quello regionale, è pur vero che la sua diffusione non appare uniforme. Numerose sono, comunque, le iniziative di valorizzazione portate avanti da centri e associazioni che cercano di promuovere il patrimonio culturale locale. Nella presa di coscienza dei diversi gruppi francoprovenzali sembra infatti

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potersi individuare più una regia esterna rispetto al reale vissuto delle comunità che non la concreta condivisione di un comune percorso teso alla riappropriazione (o all’invenzione) di tale identità.

LADINO

Infine la minoranza linguistica ladina. Sviluppatosi a partire dalla romanizzazione delle Alpi, il ladino dolomitico è oggi parlato da circa 30.000 persone; riconosciuto come lingua minoritaria dallo Stato italiano, viene tutelato con diverse norme nelle province di Bolzano e Trento.

6.2.2. Colonie linguistiche

Il secondo gruppo che possiamo individuare all’interno del quadro nazionale è composto da quelle comunità che, insediatesi in ambiti spaziali circoscritti, hanno mantenuto la loro identità culturale benché immerse in un contesto differente. Si tratta di piccoli gruppi che parlano lingue appartenenti a famiglie diverse.

CATALANO

Ad Alghero, circa 18.000 persone parlano Catalano. Le origini di quest’isola linguistica possono essere fatte risalire all’inizio del XIV secolo, ovvero agli anni in cui Alghero fu conquistata dagli Aragonesi. Passata la Sardegna sotto la dominazione castigliana e successivamente entrata l’isola a far parte del regno sabaudo, Alghero resistette ai cambiamenti e mantenne i contatti con la Catalogna, riuscendo probabilmente a conservare la sua parlata proprio perché fu l’unica località sarda la cui popolazione era integralmente o in maggioranza catalana. Distante fisicamente dalla madrepatria, il catalano di Alghero se ne distingue tanto per arcaicità quanto per aver subito gli influssi del castigliano e del sardo prima e dell’italiano poi.

TABARCHINO

Sempre in Sardegna circa 10.000 persone parlano abitualmente il tabarchino. Nella prima metà del XVIII secolo un cospicuo gruppo di Tabarchini cercò asilo altrove dalla Tunisia, accogliendo l’invito di Carlo Emanuele III di Savoia a contribuire al ripopolamento di alcune terre sarde allora disabitate. Si stabilirono così dapprima nell’isola di San Pietro e quindi, trent’anni più tardi, a Calasetta. Essi hanno conservato un uso molto ampio della parlata, tant’è che l’impiego del tabarchino è da sempre tratto tipico delle consuetudini linguistiche della popolazione e anche, caso unico nel contesto delle minoranze linguistiche presenti in Italia, presso le generazioni più giovani. Il tabarchino è però ignorato dalla legislazione nazionale pertanto i suoi locutori non sono considerati dallo Stato italiano come costituenti una minoranza linguistica.

WALSER

Permeabili all’ingresso di piccole comunità germanofone sono state poi, in più momenti storici, le Alpi. I Walser, ad esempio, sono una popolazione parlante un dialetto germanico. Questi gruppi sono riusciti a mantenere la memoria delle proprie origini e certi caratteri culturali e linguistici peculiari. Numerosi sono stati i progetti di recupero e valorizzazione di questo antico idioma portati avanti negli ultimi anni.

MO’CHENA

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Minoranza dalla storia travagliata, quella mòchena, è oggi riconosciuta dallo Stato italiano ed interessata dalle norme di tutela e promozione del Trentino Alto Adige, e conta poco più di 2.000 locutori.

CIMBRO

Altri gruppi parlanti un dialetto bavarese arcaico, il cimbro, si stabilirono prima nel Trentino e quindi sull’altopiano di Asiago. Il loro arrivo non fu casuale: essi vennero espressamente chiamati dai vescovi del tempo per ripopolare aree quasi del tutto abbandonate in seguito a guerre ed epidemie.

GERMANOFONA

Nel Veneto un’isola linguistica germanofona è poi presente a Sappada, comune della provincia di Belluno. Il dialetto di Sappada è spesso, in virtù dei suoi caratteri peculiari, oggetto di studi e di iniziative culturali, e negli ultimi anni è stato al centro anche di svariati progetti di valorizzazione in ambito scolastico.

CROATA, GRECO, ALBANESE

Per ciò che riguarda, poi, l’Italia meridionale, non si possono non considerare quelle “colonie” di lingua croata, greca e albanese, nate anch’esse dal trasferimento in nuovi contesti di collettività in grado di tenere in vita le proprie caratteristiche culturali. Due sono le aree dell’Italia meridionale dove tuttora risiedono comunità di lingua greca: il Salento e la Bovesìa, in Calabria. Assai dibattuta è la questione relativa all’origine di queste popolazioni grecofone, discendenti, secondo alcuni studiosi, dagli antichi coloni della Magna Grecia o frutto, secondo altri, delle più recenti colonizzazioni di epoca bizantina. Questo è il nucleo alloglotto più antico tra quelli immigrati in Italia. Sviluppatisi autonomamente rispetto al greco moderno e subendo in misura consistente l’influenza delle vicine parlate neolatine, i dialetti grecanici dell’Italia meridionale hanno però perso via via locutori. Ben più consistente è invece la componente di lingua albanese: in tutto circa 100.000 persone disseminate in una serie di comunità.

6.2.3. Lingue di minoranze nazionali

Del terzo grande insieme individuabile fanno infine parte quelle lingue minoritarie che, in regime di co-ufficialità con l’italiano, rimandano ad altrettante minoranze nazionali che hanno i propri riferimenti culturali e politici al di là dei nostri confini. Rispetto alle altre tipologie minoritarie, queste lingue (tedesco, sloveno e francese) presentano proprie caratteristiche peculiari e, proprio in quanto parlate da gruppi il cui nucleo centrale nazionale è situato oltre i confini dello Stato italiano, risultano tutelate da accordi di diritto internazionale. La minoranza che ha ottenuto a livello legislativo, nell’ambito dello Stato italiano, il riconoscimento del maggior numero di prerogative è sicuramente quella di lingua tedesca della provincia di Bolzano. La minoranza slovena in Italia è composta da circa 61.000 persone, concentrate nella provincia di Trieste e nella parte orientale delle province di Gorizia e Udine. La terza lingua minoritaria che, in regime di co-ufficialità con l’italiano, corrisponde ad una minoranza nazionale che ha i suoi riferimenti culturali e politici in un altro Paese è il francese della Valle d’Aosta. Pur essendo la Valle d’Aosta ufficialmente bilingue e pur continuando il francese, in un certo senso, ad essere il simbolo dell’autonomia della regione, nella realtà è il francoprovenzale ad essere ancora usato e diffuso nei piccoli centri e nelle valli laterali,

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rimanendo la lingua effettivamente parlata da molti valdostani, ed è l’italiano ad aver soppiantato nell’uso il francese.

6.3. La tutela delle lingue minoritarie

Nel 1919 nell’ambito dei lavori della Società delle Nazioni, per la prima volta venne fatto espressamente riferimento alle minoranze di nazionalità e razza in un passaggio del secondo progetto Wilson e fu avviato in quell’occasione un programma di tutela delle minoranze nazionali presenti negli Stati di nuova formazione o all’interno dei nuovi confini di Stati già esistenti. Per ciò che riguarda l’Italia, invece, il problema della tutela delle realtà alloglotte presenti sul territorio nazionale si è posto più di recente: solo nel corso del secondo dopoguerra, durante i lavori dell’Assemblea costituente, infatti, si cominciò ad ammettere che anche le espressioni delle culture locali diverse da quelle “ufficiali” andassero, in una qualche misura, valorizzate. Il processo di unificazione nazionale, d’altra parte, era avvenuto all’insegna del nazionalismo. Quando, perciò, il primo censimento del Regno d’Italia, nel 1861, rivelò che meno di un decimo degli abitanti del nuovo Stato parlava italiano, si pensò che fosse possibile fondere in un insieme coerente tutti i cittadini mediante l’eliminazione delle parlate locali. La prima norma di portata generale a prendere in considerazione l’argomento fu l’articolo 6 della Costituzione, con cui la Repubblica riconosceva la necessità di tutelare con apposite leggi le minoranze linguistiche. Ad ogni modo, ad una riflessione più generale sul problema si è arrivati solo di recente, e si è giunti ad una soluzione legislativa solo dopo un percorso difficile e lento, durato circa vent’anni. La legge 482/1999 è l’unica ad aver fissato regole generali, valide su tutto il territorio italiano, relativamente ad una serie di situazioni che vengono ritenute meritevoli di specifiche forme di valorizzazione. Nell’articolo 2 di tale legge, infatti, si fa riferimento alla tutela della lingua e della cultura delle popolazioni “albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”. Dodici sono, dunque, le minoranze linguistiche storiche cui il testo fa riferimento. In sostanza, ricorda ancora Toso, quello che è accaduto è che l’elencazione delle lingue ammesse a tutela ha finito con l’incoraggiare un principio di auto identificazione, portando, laddove se ne sono percepiti i vantaggi economici, all’inopportuna dilatazione di aree linguistiche minoritarie o all’inattesa rinascita di identità linguistiche all’interno di comunità presso le quali le varietà alloglotte erano ormai già da tempo scomparse. Quanto contenuto nella 482/1999 non si è rivelato, dunque, garanzia di pieno riconoscimento del diritto di eguaglianza. L’Italia, nei confronti delle lingue minoritarie, ha spesso scelto la strada peggiore, elargendo da un lato, nell’intento di rendere più malleabile chi aveva di fronte, provvidenze economiche sproporzionate, ma mostrandosi, dall’altro, in più casi inadempiente sulle misure meno costose e più a portata di mano. Ancora oggi, perciò, è necessario rilanciare la questione approfondendola ulteriormente. Quel che è certo, però, è che difficilmente si può modificare la realtà dei fatti: ovvero che le diverse espressioni culturali di cui l’Italia era ricca stanno progressivamente scomparendo a causa dell’allargamento dei contatti sociali e della trasformazione dei sistemi economici e dei modelli comportamentali. Coinvolte dai grandi cambiamenti, le numerose isole linguistiche dell’Italia meridionale sono andate perdendo locutori, e lo stesso è successo per le comunità minori del Nord. Il riconoscimento del pluralismo linguistico è un aspetto non secondario di una democrazia reale.